Giornale Marzo AAAAAAMATRICE DEFINITIVO - ter · L’ideale di bellezza era quella figura nuda ed...

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Antonio Canova Arte viva e spiriti danzanti di Laura Cammarota Il periodo storico che si sviluppò tra la fine del ‘700 e gli inizi del secolo successivo, prende il nome di Neoclassicismo; ricordato come il secolo della ripresa, esso coinvolse il mondo a 360 gradi, andando dalle arti figurative alla letteratura. Ispirato all’Illuminismo, il Neoclassicismo si propose non solo di recuperare le forme antiche di bellezza, ma anche la razionalità e l’equilibrio morale che quelle forme esprimevano, portando avanti proprio gli ideali illuministi ereditati dal ‘700; ma Il desiderio di ritorno al passato crebbe nel XIX secolo anche come reazione alle ultime correnti artistiche e storiche del barocco e del rococò che avevano dominato fino ad allora la società, i costumi, il pensiero e l’ambiente, tra sfarzi ed eccessi. Nell'ambito delle arti visive, un forte impulso fu dato dagli importanti ritrovamenti archeologici di Ercolano e Pompei, effettuati nell'ultimo trentennio del secolo XVIII, che furono fondamentali per l'organizzazione dell'archeologia in scienza moderna, contribuendo alla riscoperta dell’antico e alla crescita d’interesse verso i classici. Iniziarono i viaggi di ricerca sul passato e la teoria trovò forma compiuta nelle opere dei due tedeschi Anton Raphael Mengs (1728-1779), pittore, e Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), archeologo e storico dell’arte, il quale, visitando gli scavi delle due città ritrovate, ne intuì la grande importanza archeologica. Il suo scritto più importante, “Storia dell’arte presso gli antichi” (1764)1, si propose presto come una guida per le successive generazioni di artisti, studiosi e critici, che seguirono; in esso lo studioso sosteneva che lo scopo dell’arte era quello di realizzare il bello ideale imitando la natura2, anche rinunciando ad esprimere passioni pur di ottenere quella semplicità e quell’equilibrio che nella Grecia antica portò al raggiungimento del bello ideale. L’ideale di bellezza era quella figura nuda ed eterna delle statue classiche dalla quale gli artisti dell’800 attinsero per la creazione delle loro opere. Il soggetto, da imitare e discriminare allo stesso tempo, era la natura; una natura che, come insegnano i classici, doveva essere solo la fonte dell’ ispirazione e non semplice oggetto di copia. Il desiderio di ritorno a quella purezza, grazia ed eleganza antica, portò alle regole pratiche della prevalenza del segno sul colore, del volume sulla macchia, del razionale sull’istinto, dell’idealizzato nudo umano su tutto. Purtroppo però, secondo i contemporanei, solo i greci erano riusciti a raggiungere la perfezione ideale e all’artista moderno non restava che calcare le loro orme. E’ per questo che ancora oggi il neoclassico è identificato come pura e semplice riesumazione, fredda e accademica, delle grazie passate. Eppure, nonostante ciò, dal neoclassicismo sono nati artisti validi, che hanno saputo lasciare di sé un’impronta tutt’altro che artefatta. Uno dei massimi esponenti di questa corrente artistica, amante del bello e del classico, e autore di numerose opere scultoree e pittoriche, fu Antonio Canova. Grande interprete del neoclassicismo, già in vita, venne celebrato come il novello Fidia perché, meglio di altri, aveva saputo riportare nel mondo la bellezza e la perfezione della scultura greca. «Le opere di Fidia sono una vera carne, cioè la bella natura...», sono le parole che l’artista scrisse all’amico Quatremère de Quincy dopo aver fatto visita ai rilievi del Partenone a Londra, quasi ad indicare quale sarebbe stato il fine della sua arte. Uno scopo che, secondo i suoi contemporanei e la critica moderna, è riuscito a raggiungere. In breve tempo Canova divenne una delle figure dominanti di quest’epoca, venendo investito della carica di maestro indiscusso della scultura europea e assumendo un ruolo di importanza pari a quello di David per la pittura. Una tecnica perfetta e precisione mista ad una sensibilità che trovò piena espressione nelle sue sculture grazie all’eleganza del suo modellato. Sempre secondo la critica, con il suo “classico moderno”, riuscì a dar vita ad opere scultoree, spesso anche rivisitazioni classiche, che hanno saputo reggere il confronto e forse anche superare la grandezza dei classici facendo raggiungere al loro autore una fama internazionale. Nacquero da lui opere come: Orfeo e Euridice (1775-1776), tra le prime dell’artista e già esempio di grande originalità nel desiderio di concentrare l’attenzione sul dramma piuttosto che sulla forma; Dedalo e Icaro (1779), emblema dell’eterno desiderio di liberà dell’uomo racchiuso però in una ‘prosaicità’ del soggetto, estranea a gran parte dell’arte contemporanea all’artista, evidente nel naturalismo del vecchio Dedalo che, dimenticando il mito e l’ideale funzione della forma, diviene esempio oggettivo di un fatto comune. Ed ancora, Paolina Borghese (1808), realizzata per la famiglia Bonaparte, in cui l’artista rendeva omaggio alla bellezza della sorella dell’imperatore francese, richiamando, nei suoi tratti e nel pomo posto nella sua mano, la classica dea Venere; fino ai monumenti funebri in onore di grandi personaggi dell’epoca come Clemente XIII (1783-1792), Clemente XIV (1783-1787) o Maria Cristina d’Austria (1798-1805). Tutte le opere sono caratterizzate da linee aggraziate, morbide, delicate come i volti dei soggetti, specchi proprio di una bellezza ideale. Cercare semplicità e calma, riposo anziché movimento, cogliere l’attimo oraziano e la dinamica dei corpi, ma – egualmente - la maestà, la bellezza e l’eterno della statica. Questa opposizione, quest’antitesi, era lo scopo che la nuova generazione di artisti neoclassici si propose e che Canova riuscì a realizzare con i suoi capolavori arrivando ad esprimere quieta grandezza e riposo statico e, allo stesso tempo, grande energia vitale e dinamicità. Canova amava il teatro e la musica e fu per questo che in molte delle sue sculture e anche dei suoi dipinti tradusse proprio quel dinamismo, quella grazia e quella leggerezza che danza e musica possono donare. I suoi lavori riescono a fondere forza, sentimento, movimento e fermezza in un unico oggetto. Sono storie di un passato, miti, leggende, divinità e mortalità, che attraverso un corpo solo oppure un intreccio di corpi, attraggono l’osservatore trasportandolo in una dimensione parallela. Amore e Psiche, Ercole e Lica, Le tre Grazie, sono eterni, statue di marmo che nessuno avrebbe mai pensato potessero trasmettere tanta vitalità, morbidezza e passione. Le opere di Canova, danzano, si distendono, si completano. I loro movimenti sembrano allungarsi all’infinito verso uno spazio che li circonda totalmente, permettendoci di poter osservare la scena da ogni punto di vista e rimanendo sempre egualmente meravigliosa. Eleganti e bellissime, vitali e seducenti, le statue dell’artista veneto sono emblema, anche oggi come allora, di positività, forza e giovinezza. Scopo del presente lavoro è quello di tornare a riflettere sul neoclassicismo e sul suo grande esponente che è stato in grado di raggiungere quei maestri del passato a cui tanti avevano aspirato. Rimuovere il ‘soverchio’ michelangiolesco e lasciare emergere la carnalità rinchiusa in queste meravigliose figure che l’artista, durante il duro e tormentato lavoro verso la loro realizzazione, ha intrapreso per portare l’inerte immobilità del marmo all’eloquente e sublimata condizione di opera d’arte. Penetrare nelle sculture stesse e nella loro storia, percepire lo sforzo drammatico del momento culminante di una lotta che svolgono prima con se stessi e i limiti dei loro corpi e poi contro l’avversario. Condividere con l’artista quella sua “sublime esecuzione” che, più di ogni altro, ha portato all’apice dell’erotismo. Un processo quasi matematico, geometrico, dove la sensualità della carne si mescola al pensiero prima di diventare marmo. Forte schematicità classica emersa dalle mani dello scultore e dalla pulsione vitale che si àncora alla plasticità degli amanti, delle danzatrici, dei lottatori, emblemi di quel tanto agognato equilibrio tra semplicità e passione. Continia a Pagina 3 Trafugato l’affresco di Artemide dalla Casa di Nettuno a Pompei Roma, 18 mar. (TMNews) - Rubata a Pompei una porzione di circa 20 centimetri di diametro di un affresco nella Casa di Nettuno in cui compariva la figura di Artemide. Lo comunica la Soprintendenza Speciale per i Beni archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia, spiegando che il furto è stato segnalato lo scorso 12 marzo da un custode in servizio nella Regio VI che effettuava un giro di controllo.Dal sopralluogo eseguito dai tecnici della Soprintendenza e dai carabinieri di Pompei è stato accertato che ignoti si sono introdotti nella casa, che si trova all'interno di un settore della città non aperta al pubblico e con un oggetto metallico hanno scalpellato l'angolo superiore di un piccolo quadretto sito in un piccolo ambiente (cubicolo) della casa. Sono in corso indagini approfondite da parte delle forze dell'ordine per reperire tutte le informazioni ritenute utili per ricostruire esattamente le dinamiche. In particolare, fa sapere ancora la Soprintendenza, sono in corso l'acquisizione di informazioni sulle attività di vigilanza del personale di custodia anche nei giorni precedenti al furto e la visualizzazione delle riprese delle telecamere del sito archeologico per poter risalire agli autori del furto. La notizia del furto è stata finora tenuta riservata per non compromettere il risultato delle indagini in corso, particolarmente delicate. Il famoso rosso pompeiano si tinge di giallo: scomparso l’affresco della dea Artemide dalla domus di Nettuno. Scattate le indagini per ritrovare lo stucco affrescato. La scoperta della sparizione, fatta da uno degli addetti alla sorveglianza del sito archeologico, risale a una settimana fa. Solo ieri, però, la notizia è trapelata. Non si conosce la data certa del furto. Può risalire a settimane fa, addirittura a mesi. L’ambiente è fuori dal circuito di visita e non sempre i custodi o i tecnici entrano nelle domus chiuse. Continua a Pagina 2 Cronaca e attività del Centro Studi “Sebetia-Ter” nelle pagini – 10 – 14 .

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Antonio Canova Arte viva e spiriti danzanti

di Laura Cammarota

Il periodo storico che si sviluppò tra la fine del ‘700 e gli inizi del secolo successivo, prende il nome di Neoclassicismo; ricordato come il secolo della ripresa, esso coinvolse il mondo a 360 gradi, andando dalle arti figurative alla letteratura. Ispirato all’Illuminismo, il Neoclassicismo si propose non solo di recuperare le forme antiche di bellezza, ma anche la razionalità e l’equilibrio morale che quelle forme esprimevano, portando avanti proprio gli ideali illuministi ereditati dal ‘700; ma Il desiderio di ritorno al passato

crebbe nel XIX secolo anche come reazione alle ultime correnti artistiche e storiche del barocco e del rococò che avevano dominato fino ad allora la società, i costumi, il pensiero e l’ambiente, tra sfarzi ed eccessi. Nell'ambito delle arti visive, un forte impulso fu dato dagli importanti ritrovamenti archeologici di Ercolano e Pompei,

effettuati nell'ultimo trentennio del secolo XVIII, che furono fondamentali per l'organizzazione dell'archeologia in scienza moderna, contribuendo alla riscoperta dell’antico e alla crescita d’interesse verso i classici. Iniziarono i viaggi di ricerca sul passato e la teoria trovò forma compiuta nelle opere dei due tedeschi Anton

Raphael Mengs (1728-1779), pittore, e Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), archeologo e storico dell’arte, il quale, visitando gli scavi delle due città ritrovate, ne intuì la grande importanza archeologica. Il suo scritto più importante, “Storia dell’arte presso gli antichi” (1764)1, si propose presto come una guida per le

successive generazioni di artisti, studiosi e critici, che seguirono; in esso lo studioso sosteneva che lo scopo dell’arte era quello di realizzare il bello ideale imitando la natura2, anche rinunciando ad esprimere passioni pur di ottenere quella semplicità e quell’equilibrio che nella Grecia antica portò al raggiungimento del bello ideale.

L’ideale di bellezza era quella figura nuda ed eterna delle statue classiche dalla quale gli artisti dell’800 attinsero per la creazione delle loro opere. Il soggetto, da imitare e discriminare allo stesso tempo, era la natura; una natura che, come insegnano i classici, doveva essere solo la fonte dell’ ispirazione e non semplice oggetto

di copia. Il desiderio di ritorno a quella purezza, grazia ed eleganza antica, portò alle regole pratiche della prevalenza del segno sul colore, del volume sulla macchia, del razionale sull’istinto, dell’idealizzato nudo umano su tutto. Purtroppo però, secondo i contemporanei, solo i greci erano riusciti a raggiungere la perfezione ideale

e all’artista moderno non restava che calcare le loro orme. E’ per questo che ancora oggi il neoclassico è identificato come pura e semplice riesumazione, fredda e accademica, delle grazie passate. Eppure, nonostante ciò, dal neoclassicismo sono nati artisti validi, che hanno saputo lasciare di sé un’impronta tutt’altro che

artefatta. Uno dei massimi esponenti di questa corrente artistica, amante del bello e del classico, e autore di numerose opere scultoree e pittoriche, fu Antonio Canova. Grande interprete del neoclassicismo, già in vita, venne celebrato come il novello Fidia perché, meglio di altri, aveva saputo riportare nel mondo la bellezza e la perfezione della scultura greca. «Le opere di Fidia sono una vera carne, cioè la bella natura...», sono le parole che l’artista scrisse all’amico Quatremère de Quincy dopo aver fatto visita ai rilievi del Partenone a Londra, quasi ad indicare quale sarebbe stato il fine della sua arte. Uno scopo che, secondo i suoi contemporanei e la critica moderna, è riuscito a raggiungere. In breve tempo Canova divenne una delle figure dominanti di quest’epoca,

venendo investito della carica di maestro indiscusso della scultura europea e assumendo un ruolo di importanza pari a quello di David per la pittura. Una tecnica perfetta e precisione mista ad una sensibilità che trovò piena espressione nelle sue sculture grazie all’eleganza del suo modellato. Sempre secondo la critica, con il suo “classico moderno”, riuscì a dar vita ad opere scultoree, spesso

anche rivisitazioni classiche, che hanno saputo reggere il confronto e forse anche superare la grandezza dei classici facendo raggiungere al loro autore una fama internazionale. Nacquero da lui opere come: Orfeo e Euridice (1775-1776), tra le prime dell’artista e già esempio di grande originalità nel desiderio di concentrare l’attenzione sul dramma piuttosto che sulla forma; Dedalo e Icaro

(1779), emblema dell’eterno desiderio di liberà dell’uomo racchiuso però in una ‘prosaicità’ del soggetto, estranea a gran parte dell’arte contemporanea all’artista, evidente nel naturalismo del vecchio Dedalo che, dimenticando il mito e l’ideale funzione della forma, diviene esempio oggettivo di un fatto

comune. Ed ancora, Paolina Borghese (1808), realizzata per la famiglia Bonaparte, in cui l’artista rendeva omaggio alla bellezza della sorella dell’imperatore francese, richiamando, nei suoi tratti e nel pomo posto nella sua mano, la classica dea Venere; fino ai monumenti funebri in onore di grandi

personaggi dell’epoca come Clemente XIII (1783-1792), Clemente XIV (1783-1787) o Maria Cristina d’Austria (1798-1805). Tutte le opere sono caratterizzate da linee aggraziate, morbide, delicate come i volti dei soggetti, specchi proprio di una bellezza ideale. Cercare semplicità e calma, riposo

anziché movimento, cogliere l’attimo oraziano e la dinamica dei corpi, ma – egualmente - la maestà, la bellezza e l’eterno della statica. Questa opposizione, quest’antitesi, era lo scopo che la nuova generazione di artisti neoclassici si propose e che Canova riuscì a realizzare con i suoi capolavori arrivando ad

esprimere quieta grandezza e riposo statico e, allo stesso tempo, grande energia vitale e dinamicità. Canova amava il teatro e la musica e fu per questo che in molte delle sue sculture e anche dei suoi dipinti tradusse proprio quel dinamismo, quella grazia e quella leggerezza che danza e musica possono donare. I suoi lavori riescono a fondere forza, sentimento, movimento e fermezza in un unico oggetto. Sono storie di un passato, miti, leggende, divinità e mortalità,

che attraverso un corpo solo oppure un intreccio di corpi, attraggono l’osservatore trasportandolo in una dimensione parallela. Amore e Psiche, Ercole e Lica, Le tre Grazie, sono eterni, statue di marmo che nessuno avrebbe mai pensato potessero trasmettere tanta vitalità, morbidezza e passione. Le opere di

Canova, danzano, si distendono, si completano. I loro movimenti sembrano allungarsi all’infinito verso uno spazio che li circonda totalmente, permettendoci di poter osservare la scena da ogni punto di vista e rimanendo sempre egualmente meravigliosa. Eleganti e bellissime, vitali e seducenti, le statue dell’artista veneto sono emblema, anche oggi come allora, di positività, forza e giovinezza. Scopo del presente lavoro è quello di tornare a riflettere sul neoclassicismo

e sul suo grande esponente che è stato in grado di raggiungere quei maestri del passato a cui tanti avevano aspirato. Rimuovere il ‘soverchio’ michelangiolesco e lasciare emergere la carnalità rinchiusa in queste meravigliose figure che l’artista, durante il duro e tormentato lavoro verso la loro realizzazione, ha intrapreso per portare

l’inerte immobilità del marmo all’eloquente e sublimata condizione di opera d’arte. Penetrare nelle sculture stesse e nella loro storia, percepire lo sforzo drammatico del momento culminante di una lotta che svolgono prima con se stessi e i limiti dei loro corpi e poi contro l’avversario. Condividere con l’artista quella sua “sublime esecuzione” che, più di ogni altro, ha portato all’apice

dell’erotismo. Un processo quasi matematico, geometrico, dove la sensualità della carne si mescola al pensiero prima di diventare marmo. Forte schematicità classica emersa dalle mani dello scultore e dalla pulsione vitale che si àncora alla plasticità degli amanti, delle danzatrici, dei lottatori, emblemi di quel tanto agognato equilibrio tra semplicità e passione. Continia a Pagina 3

Trafugato l’affresco di Artemide dalla Casa di Nettuno a Pompei

Roma, 18 mar. (TMNews) - Rubata a Pompei una porzione di circa 20 centimetri di diametro di un affresco nella Casa di Nettuno in cui compariva la figura di Artemide. Lo comunica la Soprintendenza Speciale per i Beni archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia, spiegando che il furto è stato segnalato lo scorso 12 marzo da un custode in servizio nella Regio VI che effettuava un giro di controllo.Dal sopralluogo eseguito dai tecnici della Soprintendenza e dai carabinieri di Pompei è stato accertato che ignoti si sono introdotti nella casa, che si trova all'interno di un settore della città non aperta al pubblico e con un oggetto metallico hanno scalpellato l'angolo superiore di un piccolo quadretto sito in un piccolo ambiente (cubicolo) della casa. Sono in corso indagini approfondite da parte delle forze dell'ordine per reperire tutte le informazioni ritenute utili per ricostruire esattamente le dinamiche. In particolare, fa sapere ancora la Soprintendenza, sono in corso l'acquisizione di informazioni sulle attività di vigilanza del personale di custodia anche nei giorni precedenti al furto e la visualizzazione delle riprese delle telecamere del sito archeologico per poter risalire agli autori del furto. La notizia del furto è stata finora tenuta riservata per non compromettere il risultato delle indagini in corso, particolarmente delicate. Il famoso rosso pompeiano si tinge di giallo: scomparso l’affresco della dea Artemide dalla domus di Nettuno. Scattate le indagini per ritrovare lo stucco affrescato. La scoperta della sparizione, fatta da uno degli addetti alla sorveglianza del sito archeologico, risale a una settimana fa. Solo ieri, però, la notizia è trapelata. Non si conosce la data certa del furto. Può risalire a settimane fa, addirittura a mesi. L’ambiente è fuori dal circuito

di visita e non sempre i custodi o i tecnici entrano nelle domus chiuse. Continua a Pagina 2

Cronaca e attività del Centro Studi “Sebetia-Ter” nelle pagini – 10 – 14 .

IL CORRIERE DEL SEBETO Arte e Cultura Pag.2

Dalla Casa di Nettuno a Pompei

Le telecamere Le telecamere del sistema di videosorveglianza non coprono la via Consolare, l’area tra Porta Ercolano e via delle Terme in cui si è avvenuto il furto. Difficile, dunque, vedere il volto del colpevole, o dei colpevoli, dalle immagini registrate. In un primo momento si è pensato che la parte mancante dell’affresco di Artemide potesse essere nel laboratorio di restauro della soprintendenza, vista l’accurata tecnica utilizzata per staccarlo dalla parete. E’ partita la

ricerca interna, ma gli investigatori non hanno trovato alcun riscontro in tal senso. Anche perché la casa di Nettuno non è interessata da lavori di restauro. Dunque, Artemide è stata trafugata da mani esterne e non si trova in alcun luogo o laboratorio della soprintendenza di Pompei, Ercolano e Stabia. Si cerca allora nel campo del mercato nero delle opere d’arte. Il colpevole sarà un turista appassionato di restauro? Oppure un mercante di opere rubate? Furto su commissione oppure la voglia di un souvenir a tutti i costi? Non si esclude l’ipotesi che l’affresco sia stato asportato nell’orario di visita. Ad avvalorare tale tesi investigativa è il fatto che il sistema di videosorveglianza non ha rilevato alcuna violazione notturna del perimetro esterno del sito archeologico. Il ladro esperto, dunque, sarà entrato dall’ingresso principale acquistando addirittura il biglietto. In tal caso si accenderebbero le polemiche sul servizio bagagliaio: esiste un regolamento interno alla soprintendenza che “vieta ai turisti l’ingresso con borse e zaini”. Tale servizio, gratuito, è ormai diventato facoltativo. Polemiche sollevate, anche, sulla carenza di custodi. “La città archeologica – spiega un decano dei custodi - si estende su una superficie di 782.583 di metri quadrati. Gli addetti alla vigilanza impiegati per il controllo sono 138 ripartiti in 5 turni: mattina, sera, notte, smontante e riposo.

In rapporto all’estensione della superficie da vigilare occorrerebbero 372 custodi. I custodi Negli ultimi dieci anni, tra pensionamenti e decessi, il numero degli addetti alla vigilanza è diminuito di 120 unità. Con il blocco del turn-over non ci sono state assunzioni. Con più custodi, probabilmente, qualcuno si sarebbe accorto della violazione di una zona interdetta al pubblico. Sulla città sepolta, giorno e notte, sono puntate 180 telecamere, posizionate lungo il perimetro esterno e in alcuni punti interni. Cento rilevatori antintrusione a raggi infrarossi sono pronti a far scattare l’allarme in caso di intrusione. Tutte le immagini criptate e le segnalazioni afferenti alla sicurezza anticrimine, anti-intrusione, e antincendio degli scavi confluiscono in una sala regia collegata on-line con la centrale operativa della polizia. Tutto questo, evidentemente, non basta a garantire la sicurezza dei tesori dell’antica città sepolta. Intanto si attende la spesa di sei milioni di euro, già finanziati tra fondi del “Grande Progetto Pompei” e del piano “Sicurezza per lo Sviluppo-Obiettivo Convergenza 2007-2013” per il potenziamento dell’impianto di videosorveglianza.

Eccezionale ritrovamento nel Castello di Pizzo: Trovato il tesoro di Gioacchino Murat.

Una scoperta eccezionale che ha lasciato senza parole la cittadinanza di Pizzo: ritrovato il tesoro di Gioacchino Murat.Come quasi tutti i grandi rinvenimenti storici, anche questo è frutto della casualità. Durante i lavori di messa in sicurezza del Castello di Pizzo, è stata trovata una botola segreta proprio nella cella dove è stato rinchiuso Murat, Re di Napoli e cognato di Napoleone Bonaparte. L'ingegnere Tommaso Fulcanelli, dietro autorizzazione della Sovraintendenza, dopo averla aperta si è calato in un lungo corridoio scavato nella pietra di tufo che lo ha portato in una stanza segreta. Qui, tra muffe e umidità, l'eccezionale ritrovamento: un'anfora in ferro(come quelle che si usavano per il trasporto di spezie nei primi anni

del XIX sec.) piena di monete d'oro e un baule con decine di fogli arrotolati tutti che riportavano la firma autografa dello sfortunato statista. Le monete in tutto sono 327, tutte coniate tra il 1803 e il 1813, sono in condizioni quasi perfette. I fogli avranno bisogno di un delicato restauro. Secondo le prime indiscrezioni, i manoscritti riportano in maniera dettagliata gli accadimenti di quei cinque giorni fatali tra l'8 e il 13 ottobre 1815 data della fucilazione di Murat. Grande soddisfazione tra le autorità calabresi, che si stanno recando al Museo della Pesca di Pizzo dove è stato temporaneamente collocato l'inestimabile tesoro, protetto da un cordone di agenti.

Investiamo nel vostro futuro: il Salento tra sacro e profano Puglia mille e una emozione

di Harry di Prisco

E la festa continui! Su questa affermazione beneaugurante per i carnevali futuri, all’insegna del bel vivere quotidiano, è calato il sipario sulla 26° edizione del Carnevale di Aradeo e già si pensa a quello dell’anno prossimo. Nell’immaginario collettivo si ritiene che le origini della festa siano religiose, infatti il Carnevale è direttamente collegato alla Pasqua, ma in realtà il Carnevale ha un'origine più antica, che affonda le sue radici nei Saturnali della Libertà, una festa pagana che risale agli antichi romani. Nei riti del Carnevale confluiscono anche antiche tradizioni contadine, riti di purificazione e di propiziazione all'inizio del ciclo stagionale, ispirati al bisogno di rinnovamento, con l'espulsione dei mali accumulati durante il corso dell'anno, come le malattie e i peccati.E poi, “A Carnevale ogni scherzo vale”: dice il proverbio. Non è certo uno scherzo organizzareun educational per tour operator ai giornalisti al fine di far conoscere nuovi aspetti del Salento. E vari protagonisti salentini sono scesi in campo per il tour, organizzato da Carmen Mancarella,direttore della rivista “Spiagge” (www.mediterraneantourism.it), per conto della Regione Puglia -Assessorato al Mediterraneo, Cultura e Turismo e dell’agenzia regionale del turismo “PromozionePuglia”, attraverso l’utilizzo dei fondi strutturali europei. “Investiamo nel vostro futuro: Puglia, mille e una emozione”: questo il tema che ha visto collaborare insieme per promozionare la Puglia, i comuni di: Aradeo, Nardò, Giurdignano, Oria eCastellana Grotte. In primavera aumenta la voglia di festeggiare: dal Carnevale tipico di Aradeo dove sacro e profano si intrecciano alle spettacolarità della natura circostante, alle tavole di San Giuseppe del 19 marzodi Giurdignano che preparano alla Pasqua. In attesa dell’estate, perché non vivere a pieno i weekend lunghi di primavera, facendo base ad Aradeo? Il Carnevale aradeino - Da Aradeo facilmente si raggiungono i due mari del Salento, lo Jonio e l’Adriatico, nonché si può partire

alla scoperta del meglio della Puglia. Le origini della città sono tanto antiche quanto contraddittorie: dopo le dominazioni greca e poi romana i saraceni distrussero numerosi casali nei pressi delle cittadine di Nardò e Galatina. Gli esuli arrivati nel vicino territorio salentino, libero dagli invasori, eressero un altare e questa potrebbe essere l’origine del nome Aradeo dal termine latino “ara”, ma

il nome potrebbe rifarsi anche all’abbondanza di acqua per un terreno fertile solcato da torrenti. Per il sindaco di Aradeo, Daniele Perulli, la cittadina ha scelto di presentarsi come capofila per il Bando Ospitalità dei fondi europei, attivato dalla Regione Puglia, per mostrare il suo aspetto migliore in occasione del Carnevale. «Intanto stiamo lavorando - ha detto il sindaco - anche per favorire i progetti culturali, rendere sempre più attraenti le stagioni teatrali nel nostro teatro comunale, intitolato a Domenico Modugno che qui si esibì». È da 28 anni che tra il 2 e il 4 marzo si svolge la gran festa, momento di aggregazione e di pura allegria che fa rivivere a pieno la tradizione carnevalesca, voluta da un gruppo di amici, riuniti poi in associazione, che decisero di unire i “festini privati” al fine di poter coinvolgere l’intera cittadinanza. L’associazione oggi porta il nome del primo presidente, Oscar Tramacere, che decise negli anni Ottanta di dar vita ad una sfilata di tantissimi “masci”, le maschere carnevalesche che dovevano percorrere le vie del paese su carri allegorici realizzati con carta, cartone, colla, fil di ferro, colori e tanta tanta fantasia. L’Associazione è presieduta oggi da Ettore Greco coadiuvato dalla vicepresidente Maria Rosaria Bruno. C’è anche, come si conviene, una mascotte del Carnevale che è lo Shacudhruzzi, un folletto dispettoso della famiglia dei Lauri, che dà il via alla sfilata lanciandosi da un edificio del centro storico in uno spettacolare “volo dell’angelo”. Ad avere il privilegio di questo tuffo beneaugurante è stata quest’anno la giornalista milanese, Martina Fragale, che ha avuto ben 15.000 spettatori trepidanti. L’ospitalità è di casa nell’agriturismo Tenuta Mezzana di Cutrufiano, a pochi passi da Aradeo, dove tutta la giovane famiglia è impegnata: da Maria Casto, che si occupa della

tenuta e della migliore accoglienza degli ospiti, al marito l’agronomo Giacomo Stifani, che ha deciso di ristrutturare una sua vecchia abitazione rurale, circondata da uliveti e viti. Il ristorante è a chilometro zero e si avvale della competenza dello chef Claudio Amato che, ispirandosi alla cucina mediterranea, prepara tante prelibatezze: dalle pittule di borragine, al maialino con le cicorie creste, alla pasta d’orzo con i ceci, alla carbonara di zucchine. -

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Antonio Canova Arte viva e spiriti danzanti Storia e Arte: dal Neoclassicismo ad Antonio Canova

di Laura Cammarota Continua da pagina 1

Il Neoclassicismo. Nata come reazione alle correnti artistiche e culturali del barocco e del rococò del secolo precedente, la tendenza culturale sviluppatasi in Europa tra il XVIII ed il XIX secolo, si caratterizza per il crescente interesse verso l’arte antica, in particolar modo quella tardo-romana, riemergendo così come un ‘nuovo classico’ (neo-classicismo). Il barocco e il rococò, sono le correnti artistiche sviluppatesi tra il XVII secolo e gli inizi del secolo successivo, il primo, e nel corso del XVIII secolo, il secondo. Il termine barocco (derivante forse dallo spagnolo barrueco, che significa ‘sfera irregolare’), nel corso del XIX secolo assunse l’accezione negativa di ‘stravagante’, ‘grottesco’, considerato capriccioso ed eccentrico. Tuttavia in esso “… c'è coinvolgimento emozionale,voglia di persuadere, commuovere e stupire attraverso la monumentalità delle grandi dimensioni,

l'esuberanza decorativa e la sontuosità”, promossa dalla Chiesa stessa. Identico atteggiamento di predilezione verso una decorazione ridondante ed eccessiva caratterizzava anche l’altra corrente che dominò la Francia di Luigi XIV e XV. La sua etimologia deriverebbe dal francese ‘roc’, pietra, oppure ‘rocaille’, ammasso di piccole pietre, che, per lo più, caratterizzavano la decorazione dello stile. Sono questi i secoli di grandi personaggi quali: Rubens, Caravaggio, Van Dick, in pittura; Galilei, Newton, Leibnitz, in campo scientifico. Il pensiero filosofico, di matrice illuminista, ebbe maggiore influenza su questo periodo storico che sulle altre epoche, manifestandosi in tutte le arti (letteratura, teatro, musica, architettura e arti visive) e promuovendo il culto dell’estetica ed il ritorno a quella semplicità e umanità più vicina alla natura, alla ricerca del bello ideale. Con una ripresa delle regole del passato, si tentò di allontanare i precedenti virtuosismi che si erano

spinti fino all’eccesso e all’ostentazione, stancando gli occhi e la mente. Obiettivo del nuovo intellettuale era, dunque, quello di tendere ad un miglioramento dell’umanità, liberandola dalle frivolezze del barocco. Si riparte così dall’Antichità classica. Centri di maggiore diffusione del Neoclassicismo e della nuova ripresa furono Roma13, definita lo ‘specchio vivente del mondo’ e centro degli studi sull’arte classica, e Parigi, sede ideale del rinnovamento culturale portato dall’illuminismo. Nella “città eterna” affluirono un gran numero di intellettuali, artisti e letterati, con lo scopo di approfondire i loro studi per l’arte romana grazie anche alle scoperte archeologiche di Pompei ed Ercolano (dal 1748). Johann Joachim Winckelmann, presto, ne divenne uno dei maggiori esponenti. In seguito ai suoi studi e interpretazioni dell’antico, Winckelmann compose il testo sulla Storia dell’arte antica16, pubblicata nel 1764, con cui si può dire abbia inaugurato la moderna storia dell’arte. L’archeologo scandisce un percorso evolutivo dell’arte che non è più presentata come un tutto unico, ma un percorso diviso in quattro fasi che dallo stile greco primitivo arriva a quello di imitazione, fino alla tarda età romana. La sua idea prevedeva che l’evoluzione dello stile viaggiasse di pari passo con lo sviluppo della civiltà; sviluppo che, secondo Winckelmann, si sarebbe fermato nell’antica Grecia. Gli antenati classici avevano raggiunto la perfezione, irrecuperabile ed impossibile da emulare. L’azione che l’archeologo studioso si propose con il suo trattato era di spingere gli artisti contemporanei non solo a trarre dal passato elementi da poter riprendere in maniera identica, ma anche imparare a porsi di fronte alle cose con stoico eroismo e suprema serenità, senza mai dimenticare i sentimenti. “Il passato greco e romano si prestava dunque ad interpretare, in chiave moderna, gli ideali e i sogni del presente”. Cambia il pubblico, cambia la committenza, cambiano le richieste e i desideri verso l’opera d’arte. Il nuovo pubblico si allarga, grazie anche alla nuova fruizione e produzione di testi, incisioni ed immagini con la nascita della fotografia e dei primi esperimenti della stampa. La committenza si estende oltre la Chiesa e la nobiltà, arrivando alla borghesia che vedeva nell’acquisizione di una pittura o una scultura, il modo per affermare la propria posizione. Da qui la fortuna di generi quali:

il ritratto, per celebrare la propria figura e lasciare un’impronta di sé, e il paesaggio. Andò sviluppandosi una critica d’arte incentrata sul pensiero filosofico greco dell’Estetica, finalizzata alla comprensione e alla ricerca del bello ideale. “Ogni forma di artificiosità, doveva essere sostituita da un bello ideale”; è su questo punto che si sofferma Winckelmann nel suo trattato19. Per fare ciò, l’arte doveva assumere una prevalente finalità educativa, adottare quindi un linguaggio semplice e di grande efficacia, di chiarezza iconografica, in modo tale che il messaggio potesse risultare immediato. Da questo deriva l’impressione di freddezza o di eccessiva compostezza dell’arte neoclassica. In realtà, per la maggior parte degli artisti, non risultò facile dar vita a lavori che prendessero spunto dal passato senza però cadere nella sterile copia. Numerosi, infatti, sono i casi in cui evidente è il plagio dell’opera d’arte. Come, però, nella moltitudine c’è sempre chi si distingue, nel

caso del neoclassicismo, la luce che aprì uno squarcio nelle nubi e divenne già allora uno dei massimi esponenti e portavoce di queste idee, fu Antonio Canova, figura dominante e maestro indiscusso della scultura europea, che assunse un ruolo di importanza pari a quello di David per la pittura. Canova. Antonio Canova nacque a Possagno (Treviso) il 1° Novembre del 1757, periodo poco florido per l’economia, in cui il paese era ancora soggetto alla Repubblica veneta. Alla morte del padre, Pietro Canova, valente scalpellino, Antonio, orfano già a quattro anni, venne affidato dalla madre alla cura del nonno paterno, Pasino, che gli tramandò, così, l’arte del lavorare la pietra, insegnandogli un mestiere che sarà di fondamentale importanza per tutto il resto della sua vita. La perdita del padre e l’abbandono della madre, incisero molto sull’animo sensibile del piccolo Antonio, il quale però, grazie al nonno, fu presto introdotto nel mondo dell’arte rivelando le sue grandi doti artistiche. Fu così che, già nel 1768, Canova andò a lavorare con Giuseppe Bernardi, detto Torretto22, tipico rappresentante del rococò e vecchio amico del nonno Pasino. Con lui sitrasferì prima a Pagnano e poi a Venezia, imparando la tecnica di “infondere nelle sculture una sottile sensualità e tornire le forme fino ad un’estrema levigatezza”. Tra il 1771 e il 1772, , scolpisce per il senatore Giovanni Falier, suo primo mecenate e protettore, due Cesti di frutta, ricevendo poi, dallo stesso Falier, all’età di diciassette anni, la commissione di due statue, Euridice (1773) ed Orfeo (1776), per la Villa ai Pradazzi d’Asolo (Venezia). Esse rivelavano, già in maniera chiara, tutta l’originalità dello scultore nel rappresentare la drammaticità dei personaggi raffigurati, piuttosto che essere immagini puramente descrittive di una storia, inaugurando la brillante carriera dell’artista (figura in alto). Morto Torretto, grazie agli insegnamenti appresi durante il suo “garzonando” sulla gestione tecnica ed economica di una bottega, Canova (incoraggiato anche da Falier) si mise uno studio in proprio, prima a Santo Stefano e poi, con migliori possibilità economiche, a San Maurizio. Fattosi conoscere già per alcuni ritratti, nel 1777 scolpisce, per il palazzo del procuratore Pietro Vettor Pisani, la scultura in marmo di Dedalo e Icaro25, con la quale ottenne il decisivo riconoscimento artistico nell’ambiente veneziano. Il vero e proprio decollo professionale lo raggiunse però a Roma, quando vi giunse il 4 novembre 1779. Il clima cosmopolita della capitale, nella quale affluivano tutti i maggiori protagonisti dell’arte neoclassica, permise al giovane artista di affinare la sua conoscenza del mondo classico e trovarsi a contatto con i promulgatori delle idee filo-elleniche quali

Mengs e Winckelmann26. Anton Raphael Mengs (Aussig, 12 marzo 1728 – Roma, 29 giugno 1779), proponeva di imitare i grande maestri classici per superare l’ambiguità e l’irrazionalità del barocco. “Solo così- affermava- si può attingere la bellezza, che dipende dalla ragione e non si trova perfetta nella natura ma si può realizzare nell’arte con la scelta di quanto meglio e di più utile esiste in essa”27. Da lui e dal collega, nonché caro amico, Winckelmann, Canova apprese il loro ideale neoclassico, divenendone il più fine e sensibile interprete. L’arte greca è con lui elevata a modello, la bellezza coincide con la verità, la virtù e la ragione. L’attività del Canova può essere distinta in due periodi: uno giovanile-veneziano, ricco di esperienze e legato al mondo tradizionale della cultura plastica del ‘700; ed un periodo di maturità, inauguratasi con il suo trasferimento a Roma e lo studio della plastica antica e della metodologia classica. Già nella prima fase, come mostrano le sue opere iniziali, l’artista si concentra nel mettere in evidenza un preciso carattere classicista, così come andava delineandosi nel resto d’Europa. Il bisogno di un rigore strutturale è espresso chiaramente dal suo Dedalo e Icaro, che fu, in un certo senso, l’equivalente plastico dei neopalladiani veneti. Nel periodo della maturità, il decennio che va dal 1780 al 1790, lo scultore riuscì a trovare una sua soluzione all’isolamento e all’idealizzazione tanto desiderati dall’estetica di Winckelmann. Continua a pagina 4

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Storia e Arte: dal Neoclassicismo ad Antonio Canova di Laura Cammarota

Da qui la sua predilezione per la fusione tra pathos ed eleganza. Di volta in volta, nei suoi lavori, prevalgono o si equilibrano il classicismo e l’aspirazione naturalista, facendo crescere l’interesse nei confronti di Canova il quale divenne ben presto il prediletto dei committenti. È così che nascono i monumenti funerari a Clemente XIII e a Maria Cristina d’Austria, le composizioni scultoree di Teseo sul Minotauro (figura in basso), Amore e Psiche, Ercole e Lica, Perseo, le Tre Grazie, le Danzatrici, che si susseguono tenendo sempre viva l’attenzione e la curiosità degli spettatori e senza mai deluderne le aspettative. Dopo il suo viaggio a Londra nel 1815, dove ebbe l’occasione di ammirare le sculture del Partenone, la diretta visione di quei marmi fidiaci31 lo

entusiasmarono a tal punto da spingerlo ancor più verso quel mondo di eleganza e passione. << In esse – scrive all’amico Quatremère de Quincy – non vi sembra esserci niente di affettato, niente di duro, niente di quelle parti che si chiamerebbero di convenzione o geometriche... Le opere di Fidia sono vera carne (…) e sono compiaciuto di essere sempre stato del sentimento che i grandi maestri avessero dovuto operare in questo modo e non altrimenti>>. Canova si cimentò così nello studio approfondito del nudo – alla base dell’insegnamento accademico – che già aveva adottato nella sua prima opera scultorea dell’ Orfeo e Euridice. Si dedicò alla realizzazione di figure il cui scopo non fosse quello di sottolineare il ruolo sociale o mettere in risalto l’aspetto fisico, quanto quello di lasciarne risplende le qualità intellettuali. È per questo che le “ignude figure”, scrive Flaconet33, si atteggiano in pose e gesti naturali, “nemiche di quelle attitudini sforzate che la Natura disapprova e rigetta (…) dei contrasti troppo ricercati nella composizione come nella distribuzione affettata delle ombre e dei lumi”. <<Nobile semplicità e quieta grandezza>>, questo, diceva Winckelmann, dovevano apprendere gli artisti contemporanei dagli antenati greci; ma Canova fu tra i pochissimi in grado di far rivivere la vera bellezza delle antiche statue greche senza mai cadere nella banale copia. Di grande interesse, oggi come nel periodo contemporaneo a Canova, è il processo creativo impiegato dall’artista per realizzare una scultura. Il lavoro si componeva di quattro fasi. Il disegno era la prima fase, in cui il maestro trasferiva i propri ‘pensieri’ sulla carta34; ad essi attribuiva un’importanza fondamentale, equiparando la matita allo scalpello. Attraverso il disegno, dal nudo virile e femminile al panneggio accademico e altre tematiche, Canova poneva le basi della sua scultura, curata e studiata nei minimi dettagli. In seguito, ritoccate in un incessante e scrupoloso lavoro di rielaborazione, le figure trovavano il loro riscontro nel bozzetto in terra, cotta o cruda o in cera, per vedere immediatamente come poteva realizzarsi l’opera appena ideata nel disegno35. Dal bozzetto di creta si passava, poi, ad un modellino che permetteva all’artista uno studio ancor più approfondito, un’ulteriore messa a fuoco dell’invenzione, dopodiché si procedeva a realizzare il modello a grandezza naturale, sempre in creta, avvalendosi di uno scheletro portante composto da un’asta di ferro, alta quanto l’opera da eseguire, che permetteva di reggere la creta anche per gr uppi plastici di grandi dimensioni. Il passaggio dal modello di creta a quello di gesso avveniva con il metodo della “cera persa” la creta modellata, rivestita da un sottile strato di gesso rossigno, veniva ricoperta da un altro strato di gesso bianco. Asportata la creta, si lasciava colare il gesso all’interno della ‘matrice’ che infine veniva distrutta, procedendo con la massima cautela nel momento in cui compariva lo strato di gesso rossigno. A quel punto i collaboratori fissavano sui

punti chiave della figura le repère (chiodi metallici) e iniziavano la sbozzatura del marmo. In seguito il materiale sbozzato veniva trasferito nello studio del Maestro per ricevere ciò che egli stesso chiamava “l’ultima mano”, la fase che consegnava il soffio di vita all’opera d’arte. Canova dava gli ultimi ritocchi a lume di candela36, lasciando poi al lustratore, nei giorni a seguire, il compito di donare al marmo la lucentezza che meritava. Era sua abitudine spalmare poi, sull’intera superficie, una specie di patina formata da una mistura di pietra pomice, una tintura giallognola che a volte altro non era che “acqua di rota” (acqua sporcata in seguito all’arrotamento di strumenti metallici) che aveva lo scopo, secondo Canova, di anticipare gli effetti del tempo. Oggi della patina non resta traccia ma pare non rivestisse eccessiva importanza. Decisiva e di grande importanza è invece “l’ultima mano” con cui l’artista apportava le modifiche finali, firmando l’opera e donandole vita propria in un solo istante. E’ grazie alla sua tecnica che Canova è divenuto il più grande esponente del neoclassicismo e stimato maestro, benché egli non avesse mai realmente avuto

allievi38. Riusciva ad ottenere dai marmi quella ‘onnipossente felicità’39 richiamando alla memoria secoli passati e ricongiungendoli ai nostri tempi. Le anatomie sono perfette, i gesti misurati, le psicologie sono apparentemente assenti o silenziose, le composizioni equilibrate. Il momento scelto per la rappresentazione è quello classico del «momento pregnante», in cui tutte le energie fisiche e la ragione lasciano posto al respiro, al sentimento, al cuore. I suoi soggetti sono puri e incontaminati: oggetti di una bellezza ideale, universale ed eterna. In ogni suo lavoro il Maestro puntava a vincere la sfida contro la materia e lo sforzo fisico. Non si risparmiò mai la fatica, tanto che arrivò ad avere una malformazione della colonna vertebrale, causata dall’eccessivo uso del trapano (“l’asta a petto”) il quale gli compresse le costole della parte destra del corpo. Niente era per lui più importante della ricerca della perfezione di quelle opere che alla fine, grazie al suo tocco, sarebbero diventate vive. La morbidezza, la sensualità, l’erotismo e il coinvolgimento dei suoi personaggi, traspare in maniera tanto forte da pietrificare chi le osserva. Già i suoi contemporanei lo avevano testimoniato e ancor oggi l’incantesimo continua. Appassionato altresì dello spettacolo della danza, Canova si recava spesso a teatro fissando le figure dei ballerini e scrivendo appunti sui suoi taccuini40. Di tutto prendeva nota per non dimenticare e per cercare

di riportare nelle sue opere quell’eleganza e quell’armonia che tanto ritrovava nel balletto. E’ grazie a tutti i suoi studi, i suoi approfondimenti e grazie alla sua sensibilità e versatilità che ancora oggi le sculture canoviane attraggono tanto pubblico da tutto il mondo; ed ecco perché la morte dell’artista fu sentita, all’epoca, come lutto universale. Con la sua morte la tradizione artistica italiana41 aveva perso il suo ultimo erede ed il mondo dell’arte il suo maestro, il quale, però, lasciava in eredità un enorme ricchezza, una moltitudine di pietre preziose alle quali ancor oggi non è possibile rimanere impassibili; una magia che ancora incanta ed emoziona alla presenza di due amanti come Amore e Psiche. Amore e Psiche << Nulla ho guardato del resto della galleria; ci son

tornato davanti parecchie volte e l’ultima ho baciato sotto l’ascella la donna in estasi che tende verso Amore le sue lunghe braccia di marmo. E il piede! E la testa! Il profilo! Che mi perdoni, questo è stato solo il bacio sensuale che io abbia dato da molto tempo; era ancora qualcosa di più, io baciavo la beltà stessa. Era al genio che io dedicavo il mio ardente entusiasmo >> Nel 1787 il colonnello inglese John Campbell commissionò ad Antonio Canova quella che oggi è divenuta una delle sue più celebri creazioni, nonché tra le più ammirate e conosciute sculture del mondo. Scelti da uno degli episodi meno conosciuti delle Metamorfosi di Apuleio43, Amore e Psiche fanno parte della serie di opere ispirate alla mitologia greca. La favola racconta la storia di una bellissima ragazza, figlia di un re, la cui bellezza era tale da scoraggiare ogni uomo a chiederla in sposa. Il suo nome era Psiche. Aggraziata e brillante tutti pensavano fosse l’incarnazione di Venere, dea della bellezza, così che la adoravano come se fosse una divinità. Venere, gelosa e invidiosa della bellezza di questa semplice mortale e offesa per l’onta subita dallo scambio, decise di vendicarsi di Psiche. Chiese così al figlio Cupido (Amore), di scoccare una delle sue frecce incantate sulla fanciulla e farla innamorare dell’uomo più brutto e sfortunato della terra affinché vivessero insieme una vita povera e triste. Il piano della dea, però, fallì, perché il figlio Amore si innamorò a prima vista di Psiche rimanendo incantato dalla sua bellezza. Decise di sposarla e con l’aiuto di Zefiro trasportò l’amata nel suo palazzo. Ogni notte Amore si recava nella stanza di Psiche, senza mai farsi vedere per evitare le ire della madre, vivendo con lei momenti di travolgente passione. Le promise amore e notti di desidesio a patto però che lei non chiedesse mai chi fosse e si accontentasse solo del suo sentimento. Un giorno le sorelle di Psiche, che poterono farle visita su concessione di Amore, la istigarono a scoprire il volto del suo amante insinuandole il sospetto che in realtà egli fosse un mostro orrendo; la notte stessa la giovane sposa decise di infrangere la promessa e vedere per la prima volta il viso dell’uomo che le travolgeva i sensi. Quando gli fu abbastanza vicino da illuminarlo con la luce della lampada, restò folgorata dalla bellezza eterea del dio, le sue gote rosate e i riccioli biondi. Mentre stava per baciarlo, Amore fu svegliato da una goccia d’olio della lampada che gli cadde sulla spalla e, capito ciò che era successo, fuggì via, lasciando Psiche in preda alla disperazione. Saputo l’accaduto, Venere s’infuriò e scatenò la sua ira sulla povera fanciulla sottoponendola alle prove più difficili, per punirla, che ella però superò brillantemente. L’ultima prova costrinse la giovane a scendere negli inferi per procurarsi lo scrigno di Proserpina. Ottenuto questo, Psiche non doveva far altro che uscire dal regno dei morti e andare a consegnarla alla dea capricciosa ma, sulla strada, incuriosita dal contenuto, lo aprì cadendo in un sonno profondo. A risvegliarla fu il suo adorato Amore il quale ottenne, per lei, l’immortalità da Giove, padre degli dei, mosso a compassione per il coraggio della ragazza. I due amanti poterono finalmente stare insieme e dalla loro unione nacque un figlio che chiamarono Voluttà. Il gruppo scultoreo al quale Canova lavorò tra il 1787 e il 1793, è esposto oggi al Museo del Louvre a Parigi e il momento scelto dall’artista è proprio quello del bacio d’Amore a Psiche. La storia aveva affascinato così tanto il Maestro che con piacere si apprestò a ripetere un tema, in passato già raffigurato, realizzando più di una versione dell’opera. Infatti, oltre al conosciuto Bacio d’Amore (forse ispirato in parte ad un dipinto ercolanese raffigurante Fauno e baccante45), nello stesso museo di Parigi è presente anche la variante di Amore e Psiche stanti, realizzata nel 1797. Cupido è nudo, mentre Psiche indossa una gonna di stoffa leggera, attraverso cui sembra poter davvero intravedere la forma delle gambe snelle e sensuali. Nella mano destra , la fanciulla sorregge una farfalla, probabilmente simbolo della sua anima, che dona all’amato appoggiandola direttamente nella sua mano; Cupido, invece, la abbraccia, appoggiando dolcemente una guancia sulla spalla. L’amore per Canova è un sentimento di purezza e innocenza, è per questo che i loro volti appaiono molto simili e poco caratterizzati46. L’espressione di entrambi è serena, ciò che traspare dalle due statue di marmo è armonia, passione, affetto. Queste stesse caratteristiche compaiono anche nel primo gruppo scultoreo. I bozzetti che l’autore ha lasciato in eredità, insieme ai suoi appunti, hanno permesso di studiare nei minimi dettagli la costruzione e la struttura dell’opera. Alcuni, preferiscono addirittura questi bozzetti alle statue finite perché più

freschi, spontanei e immediati, mentre altri sostengono che è errato giudicare così lo scultore in quanto le opere di un artista devono essere valutate per quello che sono e non per quello che avrebbero potuto essere. La scena che si presenta è fondata su una rigorosa composizione geometrica. I due corpi si sviluppano su più piani, incrociandosi in una grande X e distendendosi in profondità in un movimento a spirale. Mirabile il senso della misura e della corrispondenza delle parti:

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Psiche che sembra distendersi, ancor più, nella tensione estrema delle braccia che non cingono completamente Amore, ma si limitano appena a sfiorarne i capelli; le lunghe ali del dio, protese verso l’alto, che conferiscono un impercettibile senso di movimento ai due corpi; tutto è un continuo rimando, un do ut des, un fluire di sentimenti e di gesti che i due amanti si scambiano tra morbide linee e l’equilibrio delle loro anime ardenti. I movimenti sono sciolti, aggraziati, continui e ben sincronizzati, studiati in una coreografia che li porta a danzare in uno spazio ed un tempo eterni,

avanti agli occhi degli spettatori, pur restando su quel piedistallo. L’epoca storica nella quale il maestro di trova ad operare è quella della tempesta sentimentale dello Sturm und Drang di Goethe, che introduce il successivo periodo del Romanticismo; ma è anche l’epoca di grandi personaggi: Ugo Foscolo, Vittorio Alfieri, Giacomo Leopardi, accomunati da un unico sentimento: il desidesio di comunicare passione. Il mondo dell’arte vive in uno scambio osmotico tra le varie categorie che ne determina le influenze e caratterizzazioni: la danza, per quel che riguarda Canova, forse meglio di tutte si adatta all’estro artistico del maestro. È proprio questa danza che vive nelle sue opere. L’eleganza, il ritmo e l’armonia che l’artista andava ammirando nei balletti teatrali, sono riflessi nei due amanti. Il loro è un passo a due petipiano48 che li culla tra le note del loro amore e la scenografia del morbido panneggio marmoreo che li avvolge. Seduzione, gioco, abbracci e carezze, sono tutti elementi di un ballo che trasporta su un piano onirico, dove tutto sembra fermo ma altrettanto si muove in un circolo ipnotico. Linee di due corpi che si intersecano e si fondono, che si allungano oltre le loro mani, i loro piedi, oltre le ali del dio amante e che in breve sarebbero divenute proprio lo scopo e l’emblema di uno dei coreografi più innovativi del secolo successivo: George Balanchine49. Entrambi gli artisti-coreografi, grazie a queste linee geometriche invisibili, tendevano a valorizzare ogni parte del corpo: braccia, gomiti, mani, fino alle dita; rendendo morbido il collo; delicato ed intenso lo sguardo, ma sempre in un tutto vitale. Con i due giovani innamorati, Canova sembra sfidare la legge di gravità: le ali spiegate di Amore, sottilissime e quasi impalpabili, portano una materia pesante ed inerte come il marmo alle sue estreme possibilità fisiche, facendola sembrare leggera e soffice lasciando credere che esse davvero mantengano sospese il dio e la sua amata in un attimo ‘sublime’. Tutto questo lavoro, questi particolari, inducono lo spettatore a girare attorno al gruppo scultoreo, scoprendo di volta in volta, le medesime sensazioni da ciascuna angolazione. È in questa sua ricerca di collaborazione tra naturalismo e idealizzazione che Canova

risponde in pieno al principio di ‘grazia50’ auspicato da Winckelmann nell’estetica del Neoclassicismo, ma allo stesso tempo introduce valori che saranno propri del Romanticismo. Dolcezza, sensualità, tensione, dinamismo, sono tutte componenti intorno alle quali si svilupperà la scena romantica e che qui sono anticipate e racchiuse in quel sospeso bacio divino. “Nella scelta dei suoi soggetti – scriveva l’artista Fernow51 nel 1794 - e molto di più nel modo di trattarli, si rileva la sua prepotente tendenza per il vezzo, il dolce, il leggiadro; per ogni dove si scorge che Canova è meglio pittore che disegnatore (…); quindi non deve meravigliare se questa sua naturale disposizione, questo genio di dipingere, si manifesta anche nelle sue sculture e se in queste gli riesce soltanto ciò che è tenero, piacevole, giovanile (…)” Le opere di matrice fidiana52 sono state per lui l’ispirazione da cui ha poi generato tutta la serie di meraviglie che oggi è possibile ammirare. In Amore e Psiche, quella “bella natura”, quella “vera carne”, sono realizzate con l’utilizzo di un materiale come il marmo. Solo il contatto visivo con essi basta a farne percepire le sensazioni ed entrare nella pelle della scultura stessa. L’artista con i suoi strumenti, con le sue mani, ha realizzato qualcosa che è capace di trasmettere sottile erotismo, passione, eccitazione. “(…) l'artista ha mantenuto la relazione quotidiana tra le opere e lo scultore che manipola la creta , il gesso e il marmo per trovare un senso nuovo nell'unione delicata e fragilissima tra le membrane e le ossa , tra le epidermidi e le nervature , come un chirurgo che non seziona ma cura affettuosamente, un innamorato che dà forma alla sua amata ricostruendo con dedizione ogni minimo particolare del suo corpo53 “ . L’energia che sta per essere emanata dal bacio è all’apice della sua intensità. La posizione dei corpi riflette una tensione amorosa che sembra uscire dal tempo, fermandosi in un istante di eternità, mentre i due amanti si contemplano all’infinito. “Sotto una luce morbida nella sala, al museo candide forme statiche, leggere, diafane occhi negli occhi si scambiano un tenero bacio. Statue bianche, da ombre sfumate, i due amanti nascono e muoiono ogni istante nell’eternità della loro natura. Le carni di marmo riflettono la dolcezza dell’atto che non ha fine, né morte.

Oggi, domani sempre testimoniano l’amore, davanti agli sguardi degli uomini d’ogni tempo. Immobili, rapiti dalla loro felicità al calar delle tenebre, custodi d’una verità, nel buio della notte aspettano” (Mirella Narducci)54. E’ solo uno degli esempi di pensiero e reazione che questa ‘eterna coppia di amanti’ suscita in coloro che hanno avuto l’occasione di ammirarla dal vivo. Tutti sono d’accordo nell’affermare che l’eleganza della posa, i gesti del dio Amore, che fissa dolcemente la sua amata, e l’abbandono di Psiche, in attesa del bacio del suo sposo, rendono la scultura un’opera straordinaria e immortale55. << (…) l'idea di bellezza a cui ci sentiamo chiamati in ogni stagione della vita. L'abbraccio di Amore e Psiche è una luce che ci rincuora. Canova torna a Milano per dirci che la bellezza è ancora possibile, che la gioia dell'amore è per tutti, che l'armonia di una società che accoglie tutti e ciascuno passa dalla capacità di creare bellezza nella nostra vita e in quella degli altri >> (Giuliano Pisapia)56 Rendere nei suoi marmi così vivi, così palpitanti, lo splendore di seta di un corpo femminile, la gloria immortale di un giovane dio, i sogni e le passioni di tutti gli uomini, era lo scopo del grande maestro. Ma la sua sfida più grande e innovativa fu quella di misurarsi con il difficile motivo della figura in volo, di tradurre in marmo o dipinto il dinamismo grazioso e leggero della danza, ripetendo sempre la convinzione che «gli uomini sono composti di carne flessibile e non di bronzo». Le sue creature di marmo dovevano vivere in quell’elemento, non restarne prigioniere. Farsi forza di un materiale così freddo per riuscire a trasmettere le emozioni più calde e passionali; muoversi davanti allo sguardo di chi le osservava con l’eleganza di quei danzatori che Canova altrettanto ammirava durante uno spettacolo. Sui loro piedistalli, i palcoscenici, i ballerini - performers - si muovono con grazia e leggerezza, sembrano volare eterei in uno spazio tutto loro, che, benché limitato al perimetro della scena, sembra diventare infinito sotto i loro piedi. Salti che li elevano quasi a toccare il soffitto come se non avessero peso; eppure, riuscire ugualmente a danzare con forza, carica emotiva, energia, che arriva al cuore di ogni spettatore. Queste sono le emozioni che il Maestro veneto provava nelle sue serate teatrali e che appuntava sui suoi diari; e questo è quello che, prepostosi, è stato in grado di riflettere negli amanti Amore e Psiche. Il suo estro lo ha reso capace di trasformare il ciò che è inerte in materia viva, sensoriale; un vaso di pandora che dal suo interno sprigiona sensualità e vigore così come un danzatore nelle sue variazioni. Il mondo della danza ha a sua volta ritrovato nel suo grande appassionato e ammiratore neoclassico, una fonte da cui poter attingere nuova acqua, imparando il senso della maestosa ed eterna semplicità; dell’erotico gioco di sguardi e carezze eterne; della morbidezza delle carni e della forza della passione emanata anche dal più freddo dei letti. La danza è dunque e per questo un tema caro all'artista, un motivo ricorrente nelle sue opere perché emblema e narratore di “dolcissime e indelebili sensazioni che destarono i marmi col sorvolar gentile della fresca Ebe, lo slanciarsi delle Ninfe, gl’innocenti baci di Psiche, gli annodamenti delle vezzose Grazie, e tutti quei movimenti voluttuosi che espressi dallo scarpello così felicemente piacquero e sorpresero con tal incanto meraviglioso, che fecero salire l’artefice al più alto grado di fama (…) e quel grazioso aspetto di novità che egli seppe dare a quei marmi fece sulle prime maggiormente parlar dell’artista". Ercole e Lica “ (…) a Canova je piaceva pensà che e statue ereno tutte belle bianche perché corisponneveno all’idea sua de purezza e sobrietà con cui se immagginava er monno antico. Ciaveva pure l’idea che l’arte greca era tutta ‘ntrisa de

carma e sempricità, e che queste ereno ‘e qualità dominanti der tempo e de quaa curtura; che è vero sì, ma fino a ‘n certo punto. Ma lui ‘a vede così. E qui naa statua de Ercole e Lica lui fa in modo che equilibbrà drento a no schema ordinato e preciso tutti l’elementi drammatici: cioè er movimento, che è pure bello aggitato, dato sì che Ercole sta a pijà sto poretto e ‘o sta a lancià per aria, e anche quello che se chiama er pathos, che in greco vor dì sentimento, ma no tipo cori spezzati o piangucolii o robbe d’amore smielato, ma popo na sensazione forte che te smove tutto drento. E anfatti da ‘pathos’ viè ‘a parola nostra ‘passione’, che è appunto quer sentimento quasi ‘ncotrollabbile che provi te che ne so paa Roma; o anche ‘patire’ che vor dì soffrì, e ‘paziente’ che va dar medico perché soffre. Quinni er pathos ce sta ma è controllato, i corpi de Ercole e de Lica fanno come du archi opposti che sò pieni de tensione ma però aa fine se bilanciano tra de loro58 “. Anche quando affronta temi collegati da un’azione concitata e drammatica, a espressione di forza e di violenza fisica, Canova è in grado di rendere le sue creazioni animate da passione ed impeto, tanto che sembrano dimostrate anziché sofferte, “come in una pantomima: i gesti accentuati e schematizzati, linguaggio di un intelletto controllato59”. È così che nel marzo 1795, Onorato Gaetani dei principi di Aragona, maggiordomo del re di Napoli, decise di commissionare il gruppo di Ercole e Lica al Maestro Antonio Canova, il quale (forse per rispondere alle critiche di alcuni contemporanei) accettò. Quei tali, infatti, non credevano lo scultore capace di dar vita a rappresentazioni forti e drammatiche60, stimolandolo così a realizzare questa nuova opera ispirata al mito di uno dei più grandi semidei dell’antica Grecia. “ Ercole, l’eroe delle dodici fatiche sposato con Deianira, un giorno si recò dall’amico Ceice in Trachine ai piedi del monte Oeta. Dovendo i due, lungo il tragitto, attraversare il fiume Eveno, incontrarono il centauro Nesso che si offrì di traghettare la moglie di Ercole. Ma il centauro, innamoratosi della donna, cercò di rapirla e fu così ucciso da una freccia scagliata da Ercole. Per vendicarsi, prima di morire Nesso diede alla donna un po’ del suo sangue dicendole che con esso avrebbe potuto preparare un unguento che le avrebbe permesso di conservare l’amore di suo marito. In seguito, Ercole, dopo una spedizione vittoriosa contro Eurito di Ecalia, conquista Iole, la figlia di Eurito. La moglie Deianira saputo di Iole, sentì minacciato l’amore del suo sposo e cercò di riconquistarlo con l’ unguento preparato proprio con il sangue del centauro. Con esso intrise una bianca veste e la diede al giovane Lica per consegnarla ad Ercole.

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In realtà il sangue che Nesso aveva dato alla donna era velenoso e quando il semidio indossò la veste il veleno cominciò a penetrargli nella pelle infiammandola e facendolo impazzire dal dolore. Nel tentativo di strapparsi la camicia di dosso senza successo, preso da una violenta ira, Ercole afferrò l’innocente Lica e lo scagliò così lontano che, cadendo in mare, si trasformò in uno scoglio. Deianira, saputo cosa aveva prodotto il suo unguento, si suicidò, e Ercole, dopo aver dato in sposa Iole a suo figlio, si recò sul monte Oeta per finire le sue sofferenze tra le fiamme di un rogo. Qui, mentre il fuoco cominciò a lambirlo, giunse Atena con un cocchio a prendere l’eroe e portarlo con sé sul monte Olimpo, dove Zeus gli fece dono dell’eterna giovinezza61”. La coppia scultorea di Ercole e Lica rappresenta la creazione forse più drammatica dell’artista. Il momento scelto è quello dell’ira funesta del semidio in seguito al folle dolore causatogli dal contatto della pelle con la veste intrisa del veleno del centauro; eppure non il vero momento d’azione. Canova, infatti, immortala la scena un attimo prima che essa avvenga; i muscoli sono tirati, l’energia accumulata e raccolta nel corpo di Ercole che sta preparando il lancio del povero ragazzo. Tutto è esempio di grande monumentalità che però non comunica potenza quanto invece stasi. Tutto è bloccato in una ricerca di equilibrio che finisce per stemperare la grandezza dell’azione che, seguendo una disposizione varia ed irregolare, è come sempre curata nei minimi dettagli. Come mostrano i suoi bozzetti, Canova analizzava meticolosamente ogni parte del corpo, e, nel caso di Ercole, lo studiò marcando i tratti anatomici che in maniera più profonda avrebbero contribuito a

dare il senso dello sforzo e della contrazione muscolare. L’eroe greco afferra per un piede e per i capelli l’indifeso Lica che, inutilmente, oppone resistenza aggrappandosi all’ara alle spalle del colosso furioso e alla criniera della pelle di leone ai suoi piedi, curvandosi in un’ardita posa plastica così da formare un arco completato dal suo ‘esecutore’. Lo stesso gesto è ripetuto e amplificato dalla mano del semidio che, nella massima tensione dei muscoli, è pronto a scagliare il giovane nelle profondità del mare. La perfetta esecuzione anatomica sprigiona notevole energia, divenendo espressione di una violenza brutale, manifesta nell’urlo e nei tratti adirati del volto di Ercole, incorniciato dalla folta barba ricciuta, e in quelli terrorizzati di Lica, in forte contrasto con la sua esile figura62. Nonostante l’immediato successo riscosso, come spesso capita nella critica, il gruppo scultoreo venne in seguito attaccato da alcuni studiosi che in esso avevano riscontrato una tecnica eccessivamente accademica e calcolata, ineccepibile ma che privava lo spettatore di una vera partecipazione emotiva. In ogni caso, Ercole e Lica rimane uno degli esempi maggiori delle straordinarie capacità di Canova. Nella loro creazione il maestro torna a concentrarsi sul lavoro atto a sviluppare le

figure in uno spazio tridimensionale su piani multipli; come studiato per Amore e Psiche, anche questi lottatori marmorei possono essere guardati da ogni prospettiva risultando sempre medesimamente perfetti. Tant’è che l’opera è dotata di un sistema, ideato dallo stesso scultore, che le permette proprio di ruotare: dei fori alla base, nei quali tutt’oggi è possibile inserire delle assi che avviano la ‘giostra’63. “Il meccanismo è formato da una grande ruota meccanica collegata da un perno alla struttura sovrastante. Inserendo negli appositi fori dello zoccolo, che forma parte integrante della massa marmorea, due pesanti sbarre di ferro, e facendo pressione sulle medesime, l'opera ruota su se stessa offrendosi alla luce zenitale da tutti i possibili punti di vista64”. La grandiosità del Maestro è mostrata anche dalla straordinaria attenzione alla tunica ‘maledetta’ che, perfettamente aderente all’anatomia del busto di Ercole, appare trasparente, quasi a divenire una seconda pelle; trattata dall’artista come un sottilissimo velo che appena ricopre la massa poderosa dell’eroe. La scelta è guidata dalla volontà di Canova di evitare un panneggio che potesse in qualche modo appesantire ulteriormente la figura e concentrarsi così sui muscoli scoperti di un corpo quasi perfetto65. La scultura dedicata all’eroe furioso e allo sventurato fanciullo, ispirata probabilmente alla tragedia di Sofocle Le Trachinie66, rimase a lungo nello studio dell’artista, a causa degli eventi politici, la burrasca rivoluzionaria e la conquista francese, che in quel periodo coinvolsero Napoli. Il committente, infatti, seguì le sorti della corte reale per cui lavorava e fu costretto a ritirare la richiesta. Interrotta e ripresa più volte, l’opera fu dunque acquistata nel 1800 dal banchiere romano Giovanni Torlonia67 e, finalmente completata nel 181268, venne collocata nell’edicola del suo grandioso palazzo, appositamente costruita sui consigli e sotto la vigilanza dell’autore69. Lì il gruppo scultoreo rimase per molti anni fin quando le nuove vicende edilizie del centro di Roma non ne causarono lo spostamento. Demolito il palazzo Torlonia, l’Ercole e Lica, che per patto esplicito tra il marchese Giovanni ed il governo pontificio non poteva essere allontanato da Roma, divenne proprietà dello Stato, e nel 1901 fu trasportato nel palazzo Corsini per

diventare parte della Galleria Nazionale. Il 28 Aprile 1907, il gruppo scultoreo trovò finalmente collocazione nella Sala d’Ercole poi solennemente inaugurata il 20 Gennaio 1908. Nella nuova e definitiva collocazione si cercò di rispettare le condizioni di spazio e di luce espresse da Canova già per la prima collocazione nel palazzo Torlonia, non tenendo conto di altri concetti che, diversi dalla visione dell’artista, avrebbero spinto a vedere l’eroe illuminato dalla luce del sole, tra rocce ed alberi e non tra le pareti di una sala contro cui il povero Lica sembra stia per sfracellarsi. Dunque, così come Canova aveva progettato un’ illuminazione rigorosamente dall’alto mediante un lucernario nella sommità dell’edicola e un motivo architettonico ad arcate trasversali (che avevano lo scopo di accentuare proprio l’alternanza di luci e ombre formando, intorno al gruppo, una cornice scura che appariva chiara nel fondo) le stesse regole sono riprese per la nuova sala del palazzo Corsini. Ercole e Lica sono contenuti in un’abside preceduto da una grande arcata sorretta da due colonne di marmo che, anche nelle dimensioni, risulta essere quasi uguale a quella del palazzo Torlonia; così la luce viene distribuita in modo non molto diverso all’originaria collocazione. Nata con lo scopo di divenire un dono del Principe d’Aragona ai Borboni di Napoli, in seguito il gruppo scultoreo di Ercole e Lica ha assunto altri significati. I francesi, di fronte al gesso nello studio romano dell’artista, vi lessero un’allusione all’Ercole francese che abbatte la monarchia; dunque un’allegoria della democrazia che scaraventa via il tiranno. In Canova però non vi era alcun impegno ideologico e l’artista respinse sempre ogni interpretazione politica delle proprie creazioni70. Il suo obiettivo, e il fine della coppia scultorea, era quello di lasciare che dalla figura del semidio infuriato emergesse la spinta interiore che animava la vicenda. L’ira di un uomo, prima che di un dio, sfogata su un innocente e sventurato ambasciatore; tutto causato dalla paura di una moglie di perdere il proprio amore, insinuatale nel cuore da chi, ucciso, l’avrebbe voluta per sè. La vicenda racchiusa nei gesti e nei movimenti dei due soggetti marmorei, non è altro che lo specchio di una realtà che si ripete, da prima di Canova ad oggi; nella storia è sempre accaduto qualcosa di simile, è sempre esistito l’eroe, il dramma amoroso, il desiderio di vendetta e la povera vittima che subisce le sorti destinate a qualcun altro; l’impotenza di fronte all’ inevitabile, la voglia di liberarsi di tutto ciò che disturba mortalmente e scagliarlo lontano dalla propria vista. È questo che il Maestro veneto decide di raccogliere e di raccontare con il suo Ercole e Lica e sempre attraverso corpi che non restano immobili nella loro costruzione di pietra ma che plasticamente riempiono uno spazio vuoto e lo arricchiscono con una coreografia. Ancora le linee lunghe, che si distendono, anche se non verso uno spazio infinito, come in Amore e Psiche, ma piuttosto in un susseguirsi infinitamente circolare tra i possenti arti e muscoli di Ercole e quelli esili e fanciulleschi di Lica. L’opera scultorea del Maestro Canova è stata oggetto di analisi approfondite che hanno messo in evidenza aspetti interessanti dal punto di vista psicologico71. L’inconscio contenuto psichico dell’opera di Ercole e Lica, sarebbe l’espressione simbolica della ribellione contro il destino. Ercole, nel gesto di lanciare Lica, vorrebbe allontanare il pericolo che incombe su di lui svelando così un’aggressività bruta come raramente accade nelle opere di Canova. Quello rappresentato è un atto violento attraverso il quale Canova lascia emergere una pulsione violenta e sensuale che alcuni critici reputavano essere assente in lui. Il gruppo scultoreo è stato definito come l’esempio per eccellenza di convivenza tra Eros (amore, passione) e Thanatos (morte), in cui l’aggressività non è altro che la manifestazione della spinta mortale rivolta all’esterno dei corpi. La composizione di Ercole e Lica potrebbe dunque essere vista come il momento di ribellione di un

uomo contro tutte le camice di Nesso fattegli indossare da chi lo vorrebbe conforme a tutti i canoni estetici; ma è anche la rappresentazione di una sola persona, l’autore stesso dell’opera, che attraverso la figura del semidio vorrebbe lasciar emergere la sua aggressività repressa, mentre, attraverso l’innocente vittima esprimere ciò che egli non vorrebbe essere. Da quest’analisi, dunque, l’eroe greco e il fanciullino non sono che due facce di un’unica medaglia che da sempre è appartenuta dell’uomo; l’esempio della continua lotta con il Super-io e il desiderio di liberarsi di un intruso fastidioso che non permette di essere ciò che si è. Le Tre Grazie “Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l'espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un'anima grande e posata” (Johann Joachim Winckelmann) In una lettera dell’ 11 giugno 181272, Giuseppina di Beauharnais73 (prima consorte di Napoleone) commissiona ad Antonio Canova - in quel momento impegnato nella realizzazione di un ritratto proprio dedicato alla moglie dell’Imperatore - un gruppo scultoreo raffigurante Le tre Grazie Le Grazie, figlie di Zeus ed Euronimone74 e sorelle del dio fluviale Asòpo, erano le divinità della bellezza e della felicità e dee protettrici dell’arte. Abitavano vicino alle Muse, assieme alle quali venivano invocate dai poeti per ispirarne i canti, ed erano compagne della dea dell’amore, Venere, che secondo il mito, accolsero e lavarono alla sua nascita insieme alle Ore75. I loro nomi, che ne identificavano anche il carattere peculiare, erano Aglaia (lo splendore), Eufrosine (la gioia) e Talia (la prosperità). La storia della commissione del gruppo scultoreo e dei suoi spostamenti, vede un intreccio forse più articolato della leggenda appartenente alle sue protagoniste. Durante la realizzazione dell’opera, infatti, Giuseppina di Beauharnais morì, ma la commissione fu confermata all’artista dal figlio Eugenio, ex vicerè d'Italia, che, una volta completata, fece portare la scultura a Monaco.

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Lì rimase fino agli anni Cinquanta dell’800, quando il figlio di Eugenio la fece trasferire a San Pietroburgo dopo il suo matrimonio con una figlia dello zar. Nel 1901 la scultura fu infine acquistata per il Museo dell' Ermitage, dove si trova tutt’oggi. Come l’artista era solito fare, prima della realizzazione vera e propria delle sue Grazie, Canova realizzò un bozzetto in gesso che pose nel suo studio romano. Capitò che tale gesso fu visto, per caso, dal Duca di Bedford, il quale supplicò l’artista di creargli un ulteriore esemplare in marmo. È così che il Maestro diede vita a due copie,

molto simili tra loro, con il medesimo tema delle tre figlie di Zeus. Il secondo lavoro, compiuto per il Duca, fu accompagnato dallo stesso scultore sino alla dimora inglese che lo avrebbe ospitato. Oggi il gruppo marmoreo è equamente diviso, per 7 anni ciascuno, dalla National Gallery of Scotland di Edimburgo e dal Victoria & Albert Museum di Londra. Con il compimento di quest’opera d’arte, ispirata nuovamente ai modelli greci, Canova raccorda tutti gli elementi appartenenti alla sua rilettura dell’arte classica e alla ricerca di quella perfezione pura ed armonica già trattata nel primo capitolo. Il tema de Le Tre Grazie è stato più volte affrontato e ripreso in tempi precedenti e successivi al Maestro veneto; gli esempi più noti sono quelli di Botticelli , Raffaello, Rubens. In ognuno di essi le tre divinità appaiono come emblemi di morbidezza ed eleganza, caratterizzate sempre da linee delicate e sinuose che inevitabilmente si associano all’arte indiscussa dei classici. La danza delle tre divinità ispirava gli animi e le menti degli artisti così come i sensi e le passioni degli spettatori che le osservavano realizzate in dipinti e gruppi scultorei; quello che i vari pittori e scultori trasmettevano attraverso queste figure mitologiche erano unità, leggerezza, spazi onirici verso i quali trasportavano i loro gesti, dove tutto sembrava essere magico e sereno. Nella sua opera, Canova armonizza le tre sorelle in un gioco avvolgente di abbracci e carezze; lo spettatore è attratto dal dolce scambio di sguardi delle fanciulle che, nell’originario progetto del Maestro, ad esso dovevano mostrarsi frontalmente . Dal blocco unico del marmo freddo, l’artista riesce a tirar fuori la freschezza della gioventù e il calore delle carni delle protagoniste; le braccia e le gambe si incrociano con movenze eleganti che plasmano un unico corpo leggero e impercettibilmente dinamico. I volti delle Grazie sembrano quasi privi di espressione, facendo pensare ad un tentativo dell’artista di riprodurre, così, quell’ideale di bellezza ricercato oltre le manifestazioni terrene81; una bellezza che procura serenità ed in grado di divenire eterna. Nel gruppo delle Tre Grazie, il Maestro è riuscito, al meglio delle sue capacità artistiche, ad esprimere il significato e l’essenza più profonda del pensiero elaborato nella cultura neoclassica. Ha rappresentato, in maniera esemplare l’ideale di quel bello tanto desiderato, trasformandolo in una forma perfetta e compiuta quale quella delle protagoniste mitologiche. Grazie alla luce che si infrange sulla superficie, il marmo che compone i tre corpi femminili sembra acquisire morbidezza e naturalezza insieme ai tratti altrettanto delicati delle figure. Studiato tutto nei minimi particolari - come nelle acconciature che richiamano la moda dell’antica Grecia - il gruppo è realizzato seguendo una posizione più canonica, ovvero, in piedi, nell’atto di abbracciarsi, con uno schema circolare che dal braccio di una delle sorelle arriva alla gamba dell’altra per poi tornare a salire armonicamente. I loro corpi, in armonia totale con lo spazio che le circonda, danzano in questo scambio di gesti, avvolte da un velo che ne rafforza l’unione e concentra l’attenzione sulla dea centrale, fulcro della composizione. Su un lato alle loro spalle, l’artista realizza una colonna, sulla quale pone una ghirlanda, con l’intento di conferire staticità e concretezza a figure che sembrano, per la loro bellezza, tutt’altro che terrene. L’idea della ‘grazia’, intesa non tanto come categoria della bellezza corporea, quanto piuttosto come qualità dello spirito e del sentimento, traspare dalle linee flessuose e dai gesti delicati e studiati di questa scultura. Con le Tre Grazie di Canova si

assiste a quelle che, secondo la traduzione attualizzata di Giuseppe Pavanello, Quatremére de Quincy chiamò “le modifiche visibili di una qualità astratta” che, attraverso “l’abbraccio ingegnoso e nuovo di tre figure femminili, da qualsiasi lato si consideri, girando intorno, mostrano una varietà di posizioni, forme, contorni, idee e affetti ingegnosamente sfumati, sotto aspetti sempre diversi84”. Prima di arrivare a questa “perfezione”, ad un marmo lavorato a punto tale da essere “levigatissimo e rosato come la pelle”, l’opera d’arte passa sempre per le mani del grande Maestro che, nel suo studio, ne realizza il bozzetto di lavorazione. Plasmata personalmente da Canova, l’opera si presenta come lo straordinario esempio di ‘abbozzo’ di una composizione articolata e complessa, eppure sempre colma di spontaneità e immediatezza. Anche in queste opere ‘non-finite’, l’artista riesce ad esprimere energia creativa e, a tal proposito, scrive Hugh Honour: «Tre figure indistinte si abbracciano unite nel movimento fugace di una danza. Modellate di impeto, quasi ad afferrare una visione fuggevole, incanterebbero l’occhio e impegnerebbero la mente pur ignorando la loro natura di studio preparatorio». Debitore all’iconografia antica, Canova riprende, dunque, il motivo delle Tre Grazie realizzando le figure femminili ‘danzanti’ nella loro totale bellezza naturale, ovvero, nude. Nei primi tempi, esse erano raffigurate sobriamente vestite, ma con l’Ellenismo e il loro culto associato a quello della dea Venere, iniziò l’usanza di rappresentarle con vesti leggerissime o del tutto assenti. Col tempo, la loro struttura iconografica si definì sempre più come la raffigurazione di giovani fanciulle che, per la loro bellezza e purezza, erano parte del corteo di Venere e rappresentate fasciate da abiti morbidi e trasparenti, mentre cantavano i loro inni o danzavano insieme alle Muse e le Ore.Lo schema con cui venivano rappresentate era fisso, e rimase pressoché invariato fino all’epoca neoclassica: le due figure laterali poste frontalmente allo spettatore e la centrale di schiena. Canova, come i suoi colleghi, rimase da sempre incantato

dall’immagine candida ed eterea di queste fanciulle che, abbracciate l’una all’altra, trasmettevano in maniera tanto dolce l’idea di una grazia quasi ultraterrena. Ecco che, quindi, prende confidenza con il tema mitologico delle Grazie, assorbendo dalla tradizione ciò che più lo affascinava come il nudo, la morbidezza delle linee e l’attenzione ai tratti e ai gesti sensuali, e variando lo schema compositivo che fino a quel momento era stato rispettato in maniera tanto peculiare. «Ho letto che gli antichi una volta prodotto un suono erano soliti modularlo, alzando e abbassando il tono senza allontanarsi dalle regole dell'armonia. Così deve fare l'artista che lavora ad un nudo» (Antonio Canova) Questo è il succo della sua opera d’arte e della realizzazione de Le Tre Grazie. Le protagoniste di questo quadro tridimensionale, prendono letteralmente vita da un pezzo di pietra dal quale fuoriescono. Canova allontana dai loro corpi quei pezzi di marmo in eccesso che le soffocavano, lasciandole finalmente libere di respirare e danzare insieme, seguendo un ritmo armonico e fluente. Le dee si sfiorano in alcuni punti, come sul volto della figura centrale, cinta appena dalla mano della sorella, e si fondono in altri, come accade nella fascia centrale, resa un unicum dal velo aggraziato. I movimenti non sono interrotti da spazi vuoti ma sono un continuo divenire, un alternarsi di appoggi ed equilibri che si compenetrano con un accompagnamento musicale che è scandito dal solo respiro delle Grazie. << …al vago rito vieni, o Canova, e agli Inni. Al cor men fece dono la belle Dea che in riva d’Arno sacrasti alle tranquille arti custode; ed ella d’immortal lume e d’ambrosia la santa immago sua tutta precinse. Forse (o ch’io lo spero!) artefice di Numi, nuovo meco darai spirto alle Grazie ch’or di tua man sorgono dal marmo. Anch’io pingo e spiro a fantasmi anima eterna: sdegno il verso che suona e che non crea. Perché Febo mi disse: - Io Fidia primo ed Apelle guidai con la mia lira- >> (Ugo Foscolo) Canova, con la sua grandiosità e maestria, venne ammirato e preso ad esempio nel corso degli anni; e anche in epoca a lui contemporanea ci fu chi in lui ritrovò il proprio pensiero filosofico e la fonte dell’ispirazione. Così accadde per il letterato Ugo Foscolo, autore, tra le tante opere, di un poemetto mai completato che prese il nome proprio dall’opera scultorea del Maestro veneto: Le Grazie. Foscolo e Canova condividevano la fedeltà ai grandi valori del mondo greco, benché i loro intenti ideali fossero diversi così come la scelta neoclassica, che per uno significava tensione morale e per l’altro ideale estetico-formale; nel suo poemetto, il poeta cercava di educare alla bellezza della natura e alle arti e all’assunzione dei sentimenti più elevati e puri quali l’amore spirituale, la pietà, la tenerezza materna, che sottraggono l’uomo alla barbarie e che compaiono in egual misura anche nelle sorelle danzanti dello scultore. La grazia delle forme e la purezza delle superfici, insieme alla luminosità e l’assenza di peso dell’opera di Canova, rappresentano alla perfezione l’ideale neoclassico di bellezza che Foscolo tende a riprodurre nella sua poesia attraverso un linguaggio che ricerca l’inesprimibile, la fragilità delle sensazioni, la

musicalità avvolgente dei movimenti. Le figlie di Zeus sono palpitanti di lucentezza e sensualità e in esse le forme si equilibrano; l’armonia regna sulle passioni. Le divinità che per Canova sono Agalia, Eufrosine e Talia, dee dello splendore, della gioia e della prosperità, rappresentano la perfetta immagine delle tre sacerdotesse descritte da Foscolo per il quale, però, prendono il nome di Venere, Vesta e Pallade, identificate come divinità ispiratrici della musica, della poesia e della danza. Riguardo all’opera scultorea di Canova dedicata alle Tre Grazie, come è accaduto per molti dei suoi lavori, è stato condotto uno studio approfondito dal punto di vista psicologico per comprendere al meglio l’origine e gli eventuali messaggi celati dietro la sua messa in opera. Il lavoro di interpretazione del sogno ha consentito di leggere, nelle figure delle tre dee, la rimozione inconscia dei tre amori certi, perché documentati, di Canova: Laura, Domenica, Minette. L’ipotesi che l’opera de Le Grazie sia una sintesi dei suoi innamoramenti, si fonda sulla considerazione che “il sogno non si interessa mai di cose che non siano degne della nostra attenzione”. L’opera è prodotta dopo le sue tre relazioni fallimentari con quelle fanciulle e la rinuncia a loro si sarebbe trasformata in emozioni opprimenti e insoddisfatte, immagazzinate nell’inconscio dell’artista. Di conseguenza, l’opera scultorea commissionata dalla moglie di Napoleone, sarebbe divenuta la valvola di sfogo di queste profonde oppressioni che hanno reso un uomo comune uno dei grandi maestri dell’arte. Secondo studi e fonti sulla tecnica e sul pensiero artistico del Maestro veneziano, durante la realizzazione di una sua scultura Canova lavorava per lo più a lume di candela. Il motivo di questa scelta era il desiderio di dotare le sue protagoniste di quelle ombreggiature calde che avrebbero reso i loro corpi “di carne”, sorgente di passione e di movimento. Anche nelle tre sorelle è evidente e manifesta l’attrazione e l’interesse che lo scultore di Possagno provava per il mondo della danza. Il suo amore per il coreodramma96, per le coreografie in cui protagoniste sono più di due figure e in cui ruolo altrettanto fondamentale ai passi lo svolge l’espressività del volto e la pantomima, si riassume nei tre corpi leggendari delle dee. Per Canova, il corpo femminile rappresentava l’apice della bellezza eterna e poteva essere incarnato solo nel movimento della danza. Il modellato delle vesti, le trasparenze del velo, giocano un ruolo di sottile erotismo grazie ai gesti e le movenze che le fanciulle eseguono nella loro coreografia, pur essendo sculture di pietra. In esse c’è non solo la bellezza e l’innocenza della giovinezza, ma anche grazia, fluidità, armonia e coordinazione, proprio come accade nelle variazioni di pas de trois - passo a tre- di un balletto classico. “Non si tratta di menadi sfrenate in danze dionisiache, accompagnate da musica inudibile che ispira i loro movimenti99”, ma fanciulle quasi romantiche, per quanto aggraziate, che si armonizzano tra loro e con la scena che le circonda, in una fusione di gesti. Un equilibrio sapiente e sentimentale che dà vita all’idea stessa della danza.Odi et Amo. La critica e l’artista. Nel corso della sua carriera, Antonio Canova si è quindi affermato come uno tra i maggiori protagonisti della stagione neoclassica, attirando su di sé, come ogni grande personaggio della storia, tanti favori ma anche tante critiche. Tuttavia il giudizio che, sull’opera di Canova, hanno espresso i suoi contemporanei, fu assai più entusiastico di quello della critica otto-novecentesca - e anche più recente- che, di contro, risultò molto più parziale e accusatorio. In particolar modo, a puntare il dito contro l’esponente del Neoclassicismo, furono i critici romantici, che identificarono, nella sua corrente artistica, una tirannia, fredda e calcolatrice. “ Il connubio dell’antico e del nuovo, al limitare del XIX secolo, era il sogno degli eruditi, non una pratica di ricerca; il nuovo era destinato a scomparire e la sua mescolanza ‘ineguale’ con il nuovo sarebbe finita con il predominio dell’antico, in un tutto più finito ed equilibrato, ma anche più materiale e più gelido”

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Storia e Arte: dal Neoclassicismo ad Antonio Canova di Laura Cammarota

Queste le parole di Adolfo Venturi, con le quali è possibile esemplificare il giudizio di tanti studiosi e critici della storia del Neoclassicismo e dell’arte di maestri ed esponenti come Canova. Per

Venturi come per altri, con artisti come Antonio Canova l’arte romana e l’arte greca erano diventati di ‘moda’. “Bruto riviveva nella retorica repubblicana; le dame vestivano archeologicamente con le vesti di Diana; le tuniche alla Minerva, i veli alla Vestale. Chaussard poteva descrivere l'Olimpo pagano disceso al parco di Bagatelle, seguire i passi di Ebe, cadere in ginocchio innanzi a Venere, adorare le Grazie, ammirare Giunone, sfogliare le rose di Flora” . A Canova, e di conseguenza ai suoi seguaci, veniva quindi rimproverato di essere “freddi esecutori di qualche buona intuizione plastica espressa nell’argilla dei bozzetti” . Solo grazie a quegli schizzi di opere, le sue sculture conservavano qualche scintilla di fuoco divino che la rielaborazione smorzava. L’ispirazione genuina e non sofisticata dell’insegnamento accademico era ciò che la critica romantica definiva la ‘vera arte’. Lasciar emergere la paradisiaca condizione del fanciullo, ispirarsi quindi a modelli che, piuttosto che nel mondo classico, avevano sede nelle caverne; secondo le loro opinioni, copiare l’Apollo del Belvedere e il Laocoonte non significava altro che fare dell’accademismo. Ma si poteva dar vita ad ‘arte pura’ prendendo esempio dai motivi e dalla tecnica di quelle pitture preistoriche sui ciottoli conosciute come “arte mobiliare”.I critici facevano il cipiglio ad artisti come David e Canova perché, “copiando i Musei Vaticani, uccidevano lo slancio meraviglioso verso l’ignoto della fantasia”; diversamente da coloro che copiavano dalle grotte di Altamira, “realizzando appieno l’autorità dell’arte”. Forse nessun artista

quanto Canova fu esaltato dalla sua età fino quasi a sfiorare la soglia del divino, per poi cadere tanto in basso in epoche più recenti – con le dovute ed ovvie eccezioni. Ben poco si salva dello scultore veneto, solo gli aspetti meno tipici si ritengono degni di nota come i suoi bozzetti, gli schizzi, gli appunti, perché solo questi rispecchierebbero l’estro spontaneo e virtuoso dell’artista, libero dalle regole accademiche; alcuni sono arrivati a definire il Maestro veneziano come “uno scultore nato morto, in cui la mano è all’Accademia e il resto non si sa dove”. La sua arte viene condannata, catalogata tra luoghi comuni delle richieste di mercato politiche e sociali.; il suo temperamento di artista settecentesco è incapsulato e congelato in uno stile impostato, il neoclassico, in cui non esistono opere libere né classificabili come arte.“Questo, di esser freddo e stentoreo, è il segreto del Canova. L’Ercole e Lica è una mostruosità inarrivabile: come il mammuth ritrovato nel blocco di ghiaccio, è la scultura barocca, il torso del Belvedere, il Toro Farnese, messi in ghiacciaia, anchilosati dai reumi, fossilizzati come l’antracite. La forma, in Canova, diventa rituale. Così il gesto che nel rito ha perso la coscienza di sé, di quel che significa, dell’azione che abbreviò o simboleggia [...]. Se poi minaccia di diventare espressivo, allora è quasi peggio. La sua mimica è atroce: non ricrea, imita [...]. La scultura del Canova traduce il marmo in cemento; è opaca, non va oltre la superficie”(Cesare Brandi) Parole forti, queste, di critici e studiosi di arte che entrano in deciso contrasto con i moderati o i ‘fedeli’ che invece continuano a sostenere lo scultore veneziano e a cercare risposte alternative, che meglio spieghino le sue scelte, continuando anche a vedere in lui una guida ed un Maestro di eleganza eterna. Già con la mostra tenutasi a Venezia nel 1922, infatti, sia lo scultore veneto che il neoclassicismo, venivano riconsiderati e rivalutati alla luce di nuove analisi critiche e nuove interpretazioni. Quello che si riscopriva era l’originalità, la coerenza, la densità semantica dell’arte canoviana. Ma è allo studioso

Rudolf Zeitler che spetta il merito di aver riconsiderato Canova al di là degli schemi astratti dell’idealismo e dell’inerzia scolastica nel suo saggio Klassizismus und Utopia (1954). In esso, l’artista emerge come il mediatore di tutte le polarità dialettiche di azione e riflessione, vita interiore ed esteriore, forma e non-forma, corpo e vuoto, che si costituiscono nella sua straordinaria complessità, tanto criticata: “Canova è il primo che abbia rotto pienamente con il programma dell’arte barocca. Per essa valeva il principio di fare appello al massimo spiegamento possibile di spazio, tempo e movimento. Canova invece si sforza di riuscire con il minimo spazio, di tempo e di movimento ad indicare qualcosa che è al di là di essi. Tuttavia non giunse così alle forme semplici del primo rinascimento, ma ad un’arte complessa in cui figura sta contro vuoto e tempo contro non-tempo”. Sembra di rileggere - a dimostrazione di quanto detto sulla dicotomia della critica succedutasi nel tempo - il Monitore di Francia del 1808, nel quale, si pubblicarono le lodi del maestro manifestando l’ammirazione per un artista che, con uno nuovo mezzo, era in grado di “dar più dolcezza alle carni, distinguendole dai panni in modo che il nudo resti pulito, e il marmo delle vesti ritenga il suo bruno color naturale” . Secondo il suo punto di vista, lo scopo della scultura, come della pittura, era di avvicinare il più possibile l’opera all’esatta imitazione del naturale; per tal motivo, l’artista ha l’arbitrio di utilizzare i mezzi che ritiene più opportuni per arrivare al fine e, nel momento in cui vi riesce, la critica diviene insignificante e non ha alcuna ragion d’essere. Canova, durante tutta la sua carriera, non smise mai di indagare e approfondire con quali altri modi fosse possibile aggiungere sempre maggiore perfezione alle bellezze delle sue sculture, anticipando, possibilmente, anche gli effetti del tempo (l’utilizzo dell’acqua di rota). Contro i rimproveri e le censure mosse contro il Maestro, rispose anche il suo fedele amico Quatremére de Quincy, il quale, con grande acutezza di pensiero e giudizio, espresse un concetto che, tutt’oggi, è insito nel mondo dello spettacolo e nella stampa scandalistica. Parlando all’amico, disse: “Male è recato a colui che non è criticato; questo mi è prova del vostro merito: o si è criticato per gelosia o per amore dell'arte: se per gelosia , gli è segno della sua superiorità ; se per amor d' arte, mostrasi la stima degli intendenti, poiché la critica non si volge agli uomini mediocri; questi vengono giudicati e condannati ma non criticati. Li più grandi uomini sono stati continuo oggetto di critica; e più vengono grandi, più danno campo alle censure”. Gli esponenti della critica non si ‘scomodano’ a scrivere articoli o saggi per chi non è degno di essere notato. Essi non concentrano la loro attenzione su

qualcuno o qualcosa che non abbia nulla da raccontare né nulla da poter tramandare; al contrario, il loro interesse è quello di cercare protagonisti che diano la possibilità di creare un discorso o una polemica. Lo scopo è di spingere alla riflessione su nuovi punti di vista, aprire gli occhi su un nuovo futuro o un passato esemplare, imparando a crescere e migliorare sulle orme di chi ha saputo lasciare traccia di sé. “Non v’è critica che possa ledere ciò che è perfetto”, afferma Melchiorre Missirini parlando di Canova. Ciò che ha raggiunto i limiti dell’umano e della perfezione non può essere scalfito dalle cattiverie dell’invidia o dell’ignoranza, grazie alle quali può solo divenire più importante. Le riflessioni, i panegirici, gli attacchi e le critiche sono sempre state compresenti nell’esistenza dell’artista tanto in vita quanto, soprattutto, dopo la sua morte e probabilmente lo saranno sempre. Ma, in fondo, è questo che fa dell’arte una delle fonti della conoscenza e di esperienza. È grazie a quest’arte tanto predisposta ai giudizi e alle osservazioni del suo pubblico che l’uomo ha la possibilità di crescere; il guaio è che, purtroppo, non si è ancora compreso del tutto quello che Canova e tanti altri, prima e dopo di lui, hanno cercato di trasmettere, ovvero che la storia è magistra vitae. L’analisi di un’opera è quella che permette di formare agli studiosi una propria opinione e un proprio pensiero e ai novelli artisti una propria personalità; ma quest’ indagine, questa ricerca non rimane, né deve rimanere mai, fine a sé stessa. È sempre possibile cambiare idea, rendersi conto di errori o particolari a cui prima non si era posto attenzione, “solo gli stupidi non cambiano mai idea”, diceva Honoré Gabriel Riqueti . Anche tra i critici canoviani, c’è chi si è ‘convertito’, partendo da un’accusa di freddezza e di inespressività presente nelle opere dello scultore, vedendo in lui “un giovanotto un po’ sprovveduto, di delicata sensibilità settecentesca e scandalosamente ‘plagiato’ dal neoclassicismo122”, per poi arrivare ad ammirarlo e difenderlo perché “oggi è il più sottovalutato di tutti gli scultori”. Diversamente da altri colleghi, in Italia, Canova non lasciò dietro di sé discendenti, tali da celebrarlo e difenderlo adeguatamente, poiché dopo di lui, come osservava anche Roberto Longhi, forse in maniera un po’ troppo categorica, “per più di un secolo l’arte italiana è finita”, accordandosi all’idea di alcuni che nel Maestro avevano visto l’ultimo erede della grande tradizione artistica italiana. In conclusione, l’uomo non smetterà mai di elevarsi a giudice e sentenziare su chi, prima di lui, ha avuto il coraggio di esprimere un’idea diversa dall’usuale, né smetterà di invidiare e ammirare allo stesso tempo quel tale che però, anche grazie alle sue parole, è potuto diventare qualcuno da ricordare. Lo scopo dell’uomo è quello di

lasciare un’impronta di ciò che è stato e del proprio passaggio nella storia, sin dagli uomini del Paleolitico; fare in modo che si possa avere memoria di lui e della sua esistenza. C’è chi decide di farlo scrivendo, chi dipingendo, chi solo abbozzando un’ opera in legno e chi invece recuperando dal passato utilizzando la pietra o il marmo. Fatto sta che grazie a questo desiderio umano, ci è stato fatto dono di tanti gioielli, tanti ricordi e pezzi di vita, che siano miti, leggende o storie reali, grazie ai quali è possibile gioire, emozionarsi, dispiacersi, provare anche orrore e malinconia, ma, almeno, poter provare appieno il senso di essere vivi. “L’albero di cui egli è l’ultimo fiore perfetto non potrà fiorire di nuovo finché non abbia riposato per molti secoli. Sicché, in un certo senso, ciascuna delle magnifiche tombe da lui scolpite fu un mausoleo delle sue proprie speranze e degli ideali che egli rappresentò con tanta bellezza. Ciò nonostante verrà giorno in cui il mondo udrà

d’una Società Canoviana, di onoranze solenni, di discorsi e di monumenti”. CONCLUSIONI “Vivere d’arte” , è questo il motto che Antonio Canova ha seguito durante la sua vita; creare un’arte che fosse fonte di passioni travolgenti e forme aggraziate. Oggi, di quei sentimenti e quelle forze affascinanti, le opere di Canova continuano a vivere e ad emozionare. In esse, manifesto è il desiderio del Maestro di ritornare a quel ‘qualcosa’ che fosse bello e in corrispondenza con la natura; ricercare quella perfezione di linee e armonia di corpi che li rendesse un tutt’uno con lo spazio circostante. E’ questo che ha reso lo scultore di Possagno una delle figure più note del periodo neoclassico e che mi ha convinta ad approfondirlo come soggetto del mio lavoro. Il titolo della tesi, “Amore per un’arte danzante”, è frutto dello studio condotto sulla carriera di questo grande artista. Con le sue sculture di marmo, levigate e lavorate al punto tale da sembrare reali, Canova ha saputo rendersi magicamente affascinante e magnetico agli occhi di un pubblico e di una critica che fino a poco tempo fa non ne comprendeva appieno il motivo. Quel “non so che” presente nelle opere del grande artista e racchiuso in gruppi scultorei come Amore e Psiche, Ercole e Lica e Le Tre Grazie - trattate nei capitoli della tesi – è la danza. Il ‘segreto’ racchiuso in queste meraviglie marmoree, è stato svelato da una mostra che si è tenuta il 13 Ottobre del 2013 a Possagno, in onore del Maestro veneto. Nel catalogo relativo, tale rapporto tra artista e danza viene, infatti, approfondito e analizzato. Canova era un artista vero, non limitato alla sola forma espressiva della scultura, ma amante di tutto ciò che fosse espressione interiore, manifestazione di sentimenti e dinamismo vitale. Si recava nei teatri per ammirare la grazia con cui i danzatori volavano sulle note della musica e prendeva nota di tutti i particolari che lo avrebbero poi aiutato a creare opere d’arte piene di quella stessa eleganza e leggerezza. Il ritmo, la dinamicità, l’armonia di due corpi che si intrecciano; il modo in cui due esseri viventi imparano a vivere in un gioco di continui scambi di movimenti e di sguardi. Volare nello spazio privi di peso, sospesi da terra come appesi ad un filo invisibile. È il convivere, il mutare insieme e in simbiosi,

l’ alternarsi di energie e flussi che da un corpo passano all’altro, ad avere sempre affascinato il Maestro e il motivo per cui egli ammirava quei ballerini e le loro danze; ed è questo ciò che trasfonde anche nei suoi meravigliosi ed eterei protagonisti.

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Storia e Arte: dal Neoclassicismo ad Antonio Canova di Laura Cammarota I suoi eroi, le sue divinità, benché corpi di marmo, sembrano tutt’altro che statue di pietra, realizzate per rimanere fisse ed immobili nel loro mondo; sono amanti senza tempo che per sempre bruceranno di quella passione con cui sono stati creati, danzando come sospesi nell’aria, sconosciuti al peso e alla forza di gravità, sorretti da ali di marmo e dal loro amore. Sono lottatori feroci e drammatici che si allungano fino agli estremi angoli del loro corpo, coreografando la danza plastica di un giovane innocente e di un eroe ingannato. Sono fanciulle aggraziate che si fondono in un

unico corpo, plasmato da linee eleganti e forme sinuose, che si muovono su un piedistallo che per loro diventa il palcoscenico di una scenografia fatta di veli trasparenti e carezze sfiorate. La scelta di incentrare il mio lavoro su quello che per me è uno dei grandi protagonisti della Storia dell’Arte è stata condotta, quindi, non solo dal desiderio di celebrare lui e la sua arte, ma anche dalla mia passione per quel mondo di disciplina, di passi ed emozioni che è il mondo della danza. Un mondo in cui tutto ha un suo divenire e un suo motivo d’essere, in cui le regole ci sono anche quando sembrano mancare; in cui si impara a conoscere sé stessi interamente, da ogni punto di vista, da ogni angolazione possibile. Ma anche un mondo in cui si impara a vivere in simbiosi con l’altro, con il partner, con le compagne, di cui bisogna fidarsi ciecamente e che bisogna conoscere quasi meglio di sé stessi. Un mondo fatto di emozioni, di linee, di geometrie; di storie e di leggende, di amanti e di lottatori, miti, dèi, uomini reali che sono i protagonisti di uno spettacolo come di una scultura. Canova è riuscito, con il suo genio, a creare un’arte che realizzasse quello che ogni uomo spera di raggiungere nella sua vita: divenire immortale. L’amore di quei due amanti, il

dolore e l’ira di quel dio, gli sguardi e le carezze di quelle sorelle, continueranno a danzare per sempre in quelle pelli di pietra regalandogioie, emozioni e anche lacrime, a generazioni di osservatori che avranno la fortuna di ammirarle di persona. Corpo, cuore e spirito; imparare dalla danza a divenire l’insieme di tutto ciò, essere eterna e dinamica pur rimanendo immobile. Come i ballerini utilizzano il loro corpo per raccontare una storia, alle statue di Canova basta uno sguardo per danzare una coreografia; essere liberi, racchiudere un intero universo in un solo corpo di cui il vero motore è la passione. “Protagonisti sovrannaturali di un mondo eterno, figli dell’aria e attori veri di una storia…; (…) è comunicare, unirsi, incontrarsi, parlare con l’altro dalle profondità del proprio essere. (…) è l’unione di due persone, di una persona con l’universo, di una persona con Dio…; (…) è disciplina, lavoro, comunicazione. Con essa si risparmiano le parole che altri magari non capirebbero e si stabilisce un linguaggio universale, familiare a tutti. Dà piacere, rende liberi e conforta dall’impossibilità che l’uomo ha di volare come gli uccelli, fa avvicinare al cielo, al sacro, all’infinito. È sublime, sempre diversa, simile a fare l’amore, che alla fine lascia il nostro cuore battere forte, sperando nella prossima volta” Danza, Scultura…. Ad una delle due sono dedicati questi pensieri.. ma leggendoli, come fare a dire a quale?

La storia “millenaria” delle Grotte di Castellana di Harry di Prisco

Prima di giungere nel Salento una visita è d’obbligo alle Grotte di Castellana (www.grottedicastellana.it), in provincia di Bari, che regalano un crescendo di emozioni. In un tempo che percepiamo quasi infinito, la natura ha generato scenari di inimmaginabile bellezza. Sono opere uniche, modellate dalla forza dell’acqua e celate nelle grotte. Stalattiti, stalagmiti, concrezioni dalle forme più insolite e dalle suggestive sfumature di colore si alternano e, ancora oggi, continuano a mostrare tanto splendore. I dati parlano chiaro: settantasei anni sono passati dalla scoperta delle Grotte, che risalgono a 90 milioni di anni fa, tre chilometri è il percorso sotterraneo lungo e un chilometro è l’itinerario breve. Vivere le Grotte di Castellana significa immergersi in un’esperienza capace di coinvolgere ogni senso, significa ritrovare profonde emozioni legate a memorie ancestrali, significa riscoprire l’essenza della bellezza, incontaminata e pura. Oggi la società Grotte di Castellana, con socio unico il Comune e presieduta da Domi Ciliberti, dà la possibilità di assistere a concerti, eventi culturali, performance teatrali per amalgamare alla creatività dell’uomo la spettacolare unicità di un luogo senza tempo. A scoprirle fu Franco Anelli, oggi ad accompagnare i turisti sono gli speleologi del Gruppo Puglia Grotte, che, come da tradizione, il 23 gennaio scendono nella caverna della Grave, calandosi dall’alto come un tempo, dall’ingoiatoio di 70 metri, chiamato anche “bocca dell’inferno”. Gli ambienti interni si succedono uno dopo l’altro, prendendo i nomi fantasiosi che furono dati dai primi esploratori: la Lupa, i Monumenti, la Civetta, la Madonnina, l’Altare, il Precipizio, il Corridoio del deserto, la Colonna rovesciata, il Corridoio Rosso, la Cupola. Si arriva poi all’ultima e più bella caverna del sistema sotterraneo, la Grotta Bianca,

scoperta da Vito Matarrese, che più che speleologo era spinto a recuperare il busto in bronzo del sindaco di Putignano, scaraventato lì da una squadra di fascisti. La grotta, uno scrigno di alabastro, definita bianca per il biancore che la contraddistingue, ha meritato la definizione di “più splendente del mondo”. È previsto anche un percorso attrezzato per i disabili che ha fatto sì che Castellana, con il suo sindaco Francesco Tricase, fosse premiata a Bruxelles come destinazione italiana di

eccellenza per il Progetto Eden 2013 riguardante il turismo accessibile. Grotte di Castellana - Nella città d’arte di Nardò trionfa la pietra leccese Dal romanico al barocco, il tour ha portato a Nardò, città d’arte della provincia di Lecce, le cui discendenze risalgono ai Messapi. Qui è un vero trionfo della tipica pietra leccese, scolpita dai maestri scalpellini. Un esempio sono le chiese che impreziosiscono il centro storico come quella di S. Giuseppe dalla facciata a tamburo in cui è riscontrabile il barocco del Borromini e nella quale è conservata in una grande teca la statua del Santo, che può essere prenotata dai cittadini devoti affinché sosti per tre giorni nella propria abitazione. Dall’ariosa piazza Salandra, dominata dalla colonna dell’Immacolata, che viene adornata di fiori l’8 dicembre e che ricorda quella di Piazza del Gesù a Napoli, si dipanano le vie del centro storico, nelle vicinanze è presente la fontana del toro che fuggì dalla campagna e raspando il terreno trovò una falda acquifera, origine stessa del nome della città. Ma Nardò è da

visitare anche per i panorami mozzafiato di Portoselvaggio, un parco regionale affacciato sul mare, a soli sei chilometri dal centro. «È anche città dell’accoglienza - ha ricordato l’Assessore al turismo di Nardò, Maurizio Leuzzi - per la qual cosa è stata insignita della medaglia d’oro al valor civile dal presidente della Repubblica Ciampi per aver accolto più di 800mila ebrei, che erano

stati liberati dai campi di concentramento dalle Forze Alleate e che vennero in quel tempo ospitati nelle case del paese prima di raggiungere Israele».

Le tavole di San Giuseppe a Giurdignano Le tradizioni gastronomiche sono un punto di forza nel Salento. Tra il 18 e il 19 marzo gli abitanti di Giurdignano, terra di antiche dimore e di incantevoli borghi, sito a soli cinque chilometri da Otranto, allestiscono nelle proprie case le Tavole di San Giuseppe. Si tratta di grandi mense, ricoperte con tovaglie ricamate dove spiccano pani a forma di ruota e ben tredici pietanze: il pesce, simbolo del miracolo della moltiplicazione; i ciceri e tria, pasta fatta in casa metà bollita e metà fritta con i ceci, che indica l’arrivo della Primavera; le ncartiddhate, dolci fritti a forma di rosa e conditi con il miele, che ricordano le fasce di Gesù bambino. «Questa tradizione - hanno spiegato il Sindaco Monica Laura Gravante e il Vicesindaco, Gabriella Vilei - è molto sentita nel Salento. Infatti le Tavole di San Giuseppe sono nate a Giurdignano e si sono poi diffuse in altri paesi come Minervino e Uggiano». Anche qui il territorio circostante è ricco di storia e si può passeggiare nel giardino dei megaliti più grande d’Europa, dove si possono vedere ben 23 menhir (pietre stiliformi) e 28 dolmen (tombe o forse altari) che risalgono a 16mila anni fa.

I riti della Pasqua ad Oria Anche Oria, in provincia di Brindisi, con il suo quartiere ebraico ed il castello di Federico II val bene una visita. Infatti questo borgo medioevale, che affascina per le sue viuzze arrampicate sulla

rocca, dove sorge il maestoso castello federiciano, ha dato i natali a un medico farmacista così famoso che a lui è stato dedicato il modernissimo ospedale di Tel Aviv, Donnolo. Federico II scelse la città per attendere la sua sposa, Jolanda di Brienne, in viaggio dall’Oriente. I due si unirono in matrimonio nel 1225 nel Duomo di Brindisi, poco distante da Oria. Il castello domina i Due Mari essendo costruito su uno dei tre colli di Oria. Per ingannare il tempo l’imperatore indisse anche il Torneamento dei Rioni, che gli abitanti festeggiano ancora oggi il secondo weekend di agosto con uno spettacolare corteo storico e il Palio in abiti medioevali che ricordano l’arrivo di Federico II. Il castello, di proprietà privata è visitabile grazie agli alunni dell’Istituto per il turismo della città ed ai volontari dell’associazione Legambiente ([email protected]). Nella Settimana Santa la Statua di Cristo Morto, custodita nella chiesa delle suore benedettine, viene portata in spalla dagli arciconfratelli della Morte vestiti di nero, in una breve ma intensa processione che termina con l’ingresso di Gesù nella Cattedrale, poco distante. Il rito si ripete tutti i giovedì di marzo fino al Giovedì Santo. La domenica delle Palme i volontari del Gruppo di promozione umana portano in scena la Passione vivente. Di turismo religioso parla dal canto suo lo storico Pino Malva, entusiasta cultore delle tradizioni della sua terra, messapica, medioevale e seicentesca al tempo stesso. Ne è un esempio la grande festa arricchita da luminarie che si rinnova ogni

quinto giovedì dopo Pasqua e che vede sfilare in processione migliaia di fedeli provenienti da tutta la Puglia, che seguono con devozione le statue dei Santi Medici orientali: Cosma, Damiano, Antimo, Leonzio ed Euprepio e del Patrono di Oria S. Barsanofio. Harry di Prisco

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Aperta tomba etrusca intatta da 2.600 anni

A Tarquinia aperta tomba etrusca intatta da 2.600 anni

E' rimasta chiusa per 2.600 anni. Ma quando gli archeologi dell'Università di Torino e della Soprintendenza per i Beni archeologici dell'Etruria meridionale l'hanno aperta, si sono trovati di fronte a qualcosa di eccezionale. Nella necropoli etrusca della Doganaccia a Tarquinia è stata rinvenuta una tomba del VI secolo avanti Cristo, intatta, con all'interno le ossa di un principe - forse c'è anche una seconda deposizione, gli scavi sono in corso - e vari oggetti, alcuni dei quali in oro. La particolarità della scoperta sta nell'unguentario ancora appeso a un chiodo. Cosa talmente rara da indurre la soprintendente Alfonsina Russo a battezzarla "Tomba dell'Aryballos sospeso"."La camera della tomba a tumulo - dice Alessandro Mandolesi, docente di Etruscologia e antichità italiche all'università di Torino, che ha seguito in prima persona gli scavi - è intatta. Si tratta di una famiglia di rango, poiché si trova al fianco del tumulo principale. Quando abbiamo rimosso il lastrone che la copriva abbiamo trovato una deposizione, ma forse ce n'è una seconda: ci stiamo ancora lavorando". All'interno, ceramiche etrusco-corinzie a impasto, oggetti di ornamento, fibule, suppellettili. "Ma la grande sorpresa è stata l'integrità del monumento". Quella attuale è la sesta campagna di scavi condotta insieme alla Soprintendenza dal 2008. "In seguito - continua Mandolesi - saranno effettuati

lavori di valorizzazione grazie al progetto 'Via dei principi', promosso dalla Regione Lazio". La tomba potrebbe riservare altre sorprese. All'interno tutto lascia presupporre la presenza di altri resti umani."Le deposizioni - spiega la soprintendente Russo - forse sono due, perché ci sono due banchine, una più larga l'altra più stretta. Probabilmente si tratta di una coppia, anche considerando gli oggetti: la punta di una lancia in ferro è maschile, le fibule, altri oggetti e un cofanetto sono invece femminili". Il tumulo è adiacente a quello della regina, "quindi è chiara la volontà di far risaltare il legame, anche se questo è più tardo. La cosa più eclatante però è l'aryballos, trovato ancora appeso a un chiodo dopo 2600 anni. Si tratta di qualcosa di rarissimo: in altre sono state rinvenute delle ghirlande. La chiameremo tomba dell'aryballos sospeso".

“ Ti cerco e ti trovo ” di Filomena Ghidini Citro

di Mary Attento

Uno scrigno ricco di storie, aneddoti, avvenimenti, avvertimenti, sogni e speranze. “Ti cerco e ti trovo” è tutto questo e altro ancora. È anzitutto un atto d’amore dei figli che

hanno fortemente voluto pubblicare postumi gli inediti dell’autrice. Con pazienza certosina hanno raccolto i manoscritti e, spesso, decifrato una grafia un po' sbiadita dal tempo sul foglio ma impressa nei loro cuori, come lo è – stampato nei loro cuori – l'insegnamento che dalle stesse pagine ricavano, ricordando le parole “dal vivo” della madre. È come andare con la mente nel passato – forse soprattutto in quello doloroso della perdita – per lasciar andare definitivamente il carico emotivo che esso rappresenta e riscoprire, ancora una volta, la sostanza degli affetti familiari e la grande esperienza che da essi può derivare. Da qui la scelta del titolo, tratto dal verso di una poesia ed emblematico dell'intento di rivivere, anche se per un solo istante, momenti significativi della propria storia, luoghi reali o simbolici, vicende più o meno intense. “Ti cerco e ti trovo”, poi, è un libro eclettico, nel senso che spazia sia da un campo all’altro (storico-politico e sociologico, artistico-culturale), sia da un genere a un altro (dalla poesia alla prosa, dalle lettere al teatro), evidenziando i molteplici interessi di Filomena Ghidini Citro e proponendosi quale efficace strumento per arricchire le proprie conoscenze o curiosità. Il volume, infatti, è testimone di un'apertura mentale ad ampio raggio dell'autrice, donna colta e sensibile di rara qualità, che vive con consapevolezza la propria dimensione e diventa protagonista del contesto storico-sociale in cui

vive. E così racconta, sotto varie forme, eventi belli e brutti, rilevanti e non, riuscendo soprattutto a instillare nel lettore il coraggio di lottare, la forza di sopravvivere ad ogni avversità, il sorriso da regalare a ogni nostro simile. Scritto in maniera semplice ed immediata, quasi colloquiale, ma pieno di occasioni di riflessione, questo libro è in grado

di coinvolgere chiunque vi si accosti anche soltanto per una lettura superficiale. Basti pensare ai dialoghi, dove ad affiorare sono più che altro nuovi orizzonti di senso per salvarci dall'indifferenza e dal deserto delle emozioni. A ben pensarci però, ogni brano è scritto con partecipazione, ogni personaggio è descritto con calore. Si può parlare perciò di un testo profondo per le opportunità di pensiero e per le considerazioni concrete che offre, di un libro valido da cui trarre spunti concreti di miglioramento.

È morto a Bologna il maestro e senatore a vita Claudio Abbado

.Malato da tempo, aveva 80 anni. Nato a Milano il 26 giugno 1933 e figlio di un insegnante di violino , nel 1955 si era diplomato in pianoforte e direzione d'orchestra presso il Conservatorio di Milano. Il primo grande riconoscimento arrivò già nel 1958, quando conquistò il primo posto al concorso Koussevitsky a Tanglewood, nel Massachussets: grazie a quel premio debuttò negli Stati Uniti con la New York Philarmonic. L'anno dopo debuttò a Trieste come direttore sinfonico, mentre l'esordio alla Scala arrivò nel 1960. "Il mio soggiorno in Venezuela, dove la musica ha una valenza sociale enorme, e dove sono nate centinaia di orchestre giovanili, mi ha riconfermato che la musica salva davvero i ragazzi dalla criminalità, dalla prostituzione e dalla droga. Li ho visti, facendo musica insieme trovano se stessi". Claudio Abbado credeva davvero nella funzione terapeutica della musica. Era una mente aperta, per molti aspetti un innovatore in un mondo difficile e diffidente come quello della musica classica. Era, a modo suo, un sognatore. Decise di impugnare la bacchetta, a sette anni, quando si arrampicò fino al loggione per vedere i gesti del direttore d'orchestra Antonio Guarnieri. La sua ascesa è stata inarrestabile. Nel 1963 si aggiudicò il premio Mitropoulos della New York Philarmonic e fu invitato da Herbert Von Karajan a dirigere i Wiener Philharmoniker al Festival di Salisburgo. Nel 1968 il debutto al Covent Garden di Londra e quello alla Metropolitan Opera House di

New York. C'era lui sul podio della Scala la sera del 7 dicembre 1968, quella della famosa contestazione a colpi di uova marce. Nel periodo della sua direzione, durata fino al 1986, Abbado contribuì a un profondo rinnovamento nella programmazione e nelle scelte artistiche del teatro milanese, sganciandosi da una logica puramente filologica e recuperando autori e opere per lungo tempo dimenticati. Queste sue idee, lontane dalle tradizionali logiche del suo ambiente, lo resero oggetto di aspre critiche, senza però scalfire le sue convinzioni. Sempre sotto la sua direzione, nel 1972, furono inaugurati i Concerti per studenti e lavoratori, testimonianza della profonda volontà di Abbado di avvicinare alla lirica e alla classica anche le classi meno abbienti. Nel 1971 divenne direttore principale del Wiener Philharmoniker, mentre dal 1979 al 1987 fu direttore musicale della LondonSymphony Orchestra. La sua avventura artistica è proseguita poi alla Staatsoper di Vienna (dal 1986 al 1991), mentre dal 1989 al 2002 ha diretto i Berliner Philharmoniker. Alla fine del suo ultimo concerto con i Berliner, il pubblico lanciò quattromila fiori e lo salutò con trenta minuti di applausi. Dal 2004 è stato direttore musicale e artistico dell'Orchestra Mozart di Bologna. Tifoso del Milan, di cui cercava sempre di seguire le partite anche quando era in tour, ha incantato le platee di tutto il mondo. Come ha scritto il critico e storico dell'arte Marco Vallora, "basta leggere il suo gesto per capire che non vuole essere divo. Sta facendo musica tra amici, vuole non esibirsi, ma scoprire ogni volta qualcosa di nuovo". Sempre critico nei confronti dei governi che hanno tagliato fondi alla cultura, nel 2008 fu protagonista di un aspro scontro con l'allora ministro Sandro Bondi, che definì "una pura dimostrazione di ignoranza". Il 30 agosto del 2013 era stato nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, insieme a Renzo Piano, Elena Cattaneo e Carlo Rubbia, come "personalità da considerarsi portatrici di curricula e di doti davvero eccezionali, come attesta il prestigio mondiale di cui sonocircondati".

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La Tunisia: un viaggio da sogno in un paese di sogno di Harry di Prisco

La Tunisia si conferma il paese del nord Africa più vicino a noi per le tradizioni del nostro sud e a cui siamo legati da vincoli di antica amicizia. «L’incremento del turismo è in ascesa ha detto il Ministro del Turismo Tunisino, Jamel Gamra - e rappresenta il 7% del PIL nazionale dove lavorano 400 mila persone. Il nostro Paese attira da sempre un gran numero di turisti e l’obiettivo che vogliamo raggiungere è di avere 10 milioni di turisti all’anno, uno per ogni abitante, così da ritornare alle cifre di prima della Rivoluzione del Gelsomino».Tunisi affascina immediatamente il visitatore con i suoi magnifici palazzi antichi concentrati nella medina, il centro storico della città arabo-musulmana. Case e palazzi principeschi negli ultimi anni sono diventati alberghi di charme, ristoranti, sale da tè, gallerie d’ arte, atelier o centri culturali. La Compagnia aerea Tunisair Express, collega lunedì, mercoledì e venerdì l’aeroporto di Napoli - Capodichino a quello di Tunisi - Cartagine con voli sempre pieni ed a prezzi competitivi che non cambiano per tutto l’anno. La richiesta della destinazione Tunisia è in costante crescita da parte dei turisti di casa nostra, dal momento che il Paese, all’indomani del gennaio 2011, risulta tranquillo e sempre più attraente per le ottime strutture alberghiere, il cui rapporto qualità/prezzo è particolarmente conveniente, soprattutto in bassa stagione, considerando che si tende ad allungare la stagione estiva con offerte allettanti. A rassicurare ancora una volta i vacanzieri del nostro Paese è stato il Ministro del Turismo, Jamel Gamra, che tra i punti principali del suo piano di azione mette al primo posto la sicurezza e a seguire l’ambiente, la qualità dell’offerta e la promozione. «La sicurezza è un punto fondamentale - egli ha detto - sia per noi che per i turisti e vogliamo ribadire che, anche se c’è stata una rivoluzione, siamo sulla linea di costruzione di una nuova Tunisia democratica, dal momento che la prima regola della democrazia è il rispetto

l’uno dell’altro». Il Ministro intende coinvolgere le municipalità e le comunità locali per la pulizia delle spiagge e dei siti archeologici, nonché punta a migliorare la qualità dei servizi offerti per una sempre più incisiva promozione dell’immagine turistica della Tunisia che da cinquanta anni investe nel settore. Tunisi può vantare con i suoi 270 ettari la medina più grande, la più popolosa

con i suoi centomila abitanti e meglio conservata del Nord Africa. Le famiglie borghesi, che abbandonarono negli anni Sessanta la città vecchia per i quartieri residenziali, sono ritornate e contribuiscono alla salvaguardia della medina dal punto di vista socio-culturale. C’è anche un pezzetto della nostra Sicilia, nella medina. Nei pressi del souk delle erbe, nel palazzo Dar Bach Hamba, costruito da dignitari religiosi e gestito oggi dalla fondazione Orestiadi di Gibellina (Trapani), è collocato un museo permanente di arti decorative con lo scopo di valorizzare la tradizione artigianale e artistica della Tunisia e della Sicilia. Per l’Ambasciatore Raimondo De Cardona, da poco arrivato a Tunisi, dopo la fase di transizione ancora complessa che attraversa la Tunisia, c’è da approfondire in questi prossimi mesi le aspettative della collettività italiana, operosa e ricca di storia, che risiede nel Paese. « Intanto noi continueremo ad investire sui molti tratti che accomunano l’Italia alla Tunisia - egli ha affermato - e in particolare sulla raggiunta comunanza di valori democratici, pronti a dare il nostro contributo anche all’interno del più ampio quadro dell’Unione Europea. L’Italia gode in Tunisia di un capitale di simpatia che occorre continuare ad alimentare». Per la Tunisia è prioritario sviluppare il mercato italiano e non a caso il Ministro del Turismo Gamra ha avuto a maggio a Roma un incontro con il nostro Ministro per i Beni e le Attività Culturali, Massimo Bray, proprio per concordare le azioni da seguire per promozionare congiuntamente lo sviluppo di un turismo “triangolare” che porterà a visitare entrambe le bellezze storiche di Roma e di Cartagine,

attraverso pacchetti culturali combinati da presentare nel 2015 a Milano in occasione dell’Expo. La cultura, dunque, marcia di pari passo con il turismo. Un esempio di quanto c’è voglia di cultura, lo si è visto il 14 gennaio, in occasione dei due anni dalla rivoluzione, allorquando tanti visitatori hanno potuto visitare il Museo nazionale del Bardo, da poco restaurato. Si tratta del museo archeologico più antico dell’Africa, potendo contare sulla principale collezione di mosaici romani del mondo. Si possono ammirare scene mitologiche, religiose, ludiche o riguardanti la vita quotidiana, originate dalle sapienti mani di artisti africani. Tra questi lavori spicca “Perseo libera Andromeda”, un mosaico che costituiva la parte centrale di una sala di ricevimento di una villa romana ipogea del sito archeologico di Bulla Regia; “Venere alla toilette” dove appare la dea per metà nuda che regge in una mano i propri capelli e nell'altra uno specchio, mentre due Amorini le portano una collana e dei gioielli. Ben collocato nella nuova ala d’ingresso del museo è il “Trionfo di Nettuno” dove al centro di un medaglione figura il dio Nettuno con in testa un’ aureola che guida una quadriga trainata da quattro ippocampi. Si tratta di un immenso pavimento di 140 metri quadrati proveniente dalla casa di Sorothus a Sousse. Per quanto riguarda l’emblematico ritratto di Virgilio, che ascolta le muse Clio e Melpomene, in atto di scrivere l’Eneide, questo stupendo mosaico è posizionato a tutt’oggi nelle nuove sale. La bellezza del Palazzo del Bardo, residenza ufficiale dei bey husseiniti, è tanto evidente che meriterebbe di essere visitato anche se fosse privo delle sue collezioni. Naturalmente il Museo del Bardo non è importante solo per i mosaici, perché al suo interno sono custoditi reperti archeologici che raccontano la storia millenaria della Tunisia. Da non perdere poila visita di Cartagine, che fu fondata da una principessa fenicia, Elyssa, soprannominata Didone. Il suo sito archeologico è in parte ricoperto oggi da

ville e giardini moderni, restando impregnato del ricordo del suo glorioso passato attraverso le vestigia di una civiltà raffinata che si distingueva per i traffici commerciali nel bacino del Mediterraneo. Gli italiani che si recano in autunno nel nord della Tunisia, possono andare alla scoperta del vasto patrimonio culturale, partendo da Cartagine per spostarsi poi ai siti archeologici di:

Dougga, El Djem, Boulla Regia, Sbeitla, Utica. Il turista potrà naturalmente anche scegliere di rigenerare il corpo con la talassoterapia nelle Spa degli alberghi, imperdibile è l’Angélite Spa del “Regency” a La Marsa di Tunisi. Per quanti non vorranno rinunciare a godersi il mare e concedersi un relax salutare sulle spiagge bianche del Paese, lo potranno fare a Tabarka, una delle perle della costa nord della Tunisia, nota come costa del corallo. Si tratta di un’apprezzata stazione balneare conosciuta proprio per la lavorazione del corallo e per l’industria del sughero. Lungo il litorale si alternano grandi picchi rocciosi e lunghe spiagge di sabbia fine. Per l’ acqua trasparente e i suoi fondali mozzafiato è un vero paradiso per gli appassionati di diving. Sul promontorio si staglia il forte di Tabarka, costruito dai Genoves nel XV secolo e dalla cui sommità si può ammirare un panorama notevole, sempre che sarà possibile accedere ai bastioni, previo permesso da chiedere al Commissariato del turismo regionale. La città di Tabarka, situata a confini con l’Algeria, dispone di un aeroporto internazionale, dove fanno scalo i voli della Tunisair. L’aeroporto di Tabarka in particolare ha una capacità di trecentomila viaggiatori per anno, cosa questa che ha consentito lo sviluppo turistico di tutta la costa su cui sono sorti alberghi di prestigiose catene alberghiere. «Qui c’è una ricettività notevole con seimila posti letto con

strutture che vanno dall’una alle cinque stelle. Da noi - dice Anouar Boukhari, commissario regionale del turismo di Tabarka e di Ain Draham - si viene perché si ama la natura. Il futuro del turismo di questa città è l’ambiente e vale la pena di scoprire anche l’entroterra e le molteplici piante diffuse nella zona come quelle officinali, peraltro presenti solo qui, e che attirano un gran numero di appassionati italiani di botanica». Ventisei chilometri di coste di una bellezza incredibile hanno reso celebre questi luoghi in tutto il mondo, sia per la diversità e la ricchezza dei paesaggi, sia per il campo da golf a 18 buche, contornato da una foresta di eucalipti che degrada dolcemente verso il mare. Il commissario Boukhari ci ha poi presentato l’ interessante progetto “ Tabarka Millennium”, che nei prossimi anni porterà delle grosse novità a Tabarka senza stravolgere il suo ambiente naturale. Esso si avvarrà di un finanziamento di privati di 250 milioni di euro per la ristrutturazione del porto, la costruzione di una zona residenziale, che prevede anche un palazzo dei congressi con mille posti a sedere, e la realizzazione di una zona industriale. Un po’ più a sud - ovest Dougga, Patrimonio dell’Unesco, si erge da tempi immemori su una collina, in quella che era una delle aree più importanti dell’antica Numidia. La città, che conobbe la fase di splendore sotto il dominio cartaginese, è oggi uno dei più importanti siti archeologici della Tunisia, con i suoi monumenti ben conservati come: il Campidoglio, le terme di Licinio, la Piazza dei Venti, l’Anfiteatro, l’arco di Alessandro, le mura numidiche, il Mausoleo di Massinissa ed il tempio della triade capitolina. Ad accompagnarci è una guida, che da 45 anni conduce i turisti, il quasi ottantenne Chemithi Moed Arbi, che ci ricorda come sia stata meravigliosa questa città ai tempi dei Romani. Altro sito archeologico di notevole interesse è quello antico di Bulla Regia. In questo sito sulla strada che da Tabarka porta a Tunisi, sono da vedere le abitazioni romane ipogee e, in particolare la Venere della casa di Amphitrite, mosaico bellissimo che si potrà ammirare meglio versandovi sopra un po’ d’acqua così da poter scoprire i vivaci colori originali. «Purtroppo dal ’72 - ci dice la giovane guida Amel - sono fermi gli scavi anche se c’è un gruppo di italiani e americani che lavorano qui dal 2009 per la conservazione di quanto è stato ritrovato. Allo stato solo il 20% degli 80 ettari del sito di Bulla Regia è visibile, il resto è tutto ancora da scavare». Sarà in questo prossimo mese di novembre presente alla Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum, la Tunisia e la sua molteplice offerta di siti archeologici. Per Abdel Malek Behiri, responsabile dell’Ente del Turismo Tunisino per il Centro Sud Italia - sarà questa un’occasione importante «per far conoscere i beni culturali tunisini a quanti vorranno cogliere al volo questa possibilità di prolungare le vacanze, andando alla riscoperta del nostro prestigioso passato». La Tunisia è dunque un Paese che fa sognare dove il cielo è sempre limpido ed azzurro, dove si può scoprire l’eccezionale patrimonio culturale e le tradizioni originarie, dove si possono apprezzare i paesaggi inondati di luce e le meraviglie del mare. Un paese da vivere con la famiglia in tutta tranquillità.

La Ricerca Delle Spoglie Di Vico

NAPOLI - L’uomo che supera il computer, la memoria storica che batte la memoria ram: la ricerca delle spoglie di Vico, per la quale erano stati utilizzati moderni sistemi di monitoraggio è arrivata a una svolta grazie alla testimonianza di un ottantenne che ha ricordato i suoi studi di sessant’anni fa e ha spiegato «il corpo del filosofo è lì». Questa storia è iniziata la settimana scorsa, perciò per comprenderla bisogna riavvolgere il nastro e concedersi un flash back. Ripercorrendo la strada già battuta da Benedetto Croce, il rettore del complesso dei Girolamini, don Sandro Marsano, ha deciso di riaprire la campagna di ricerca delle spoglie perdute di Giovanbattista Vico. È stato individuato un luogo all’interno della «cappella dei fanciulli» ed è stata costituita una squadra di ricerca composta da Fabio Sansiveri dell’Osservatorio Vesuviano (per gestire l’avveniristica termocamera), dal geologo Gianluca Minin, e dallo speleologo Luca Cuttita. Alla partenza delle prime ricerche il nostro giornale ha dato notizia della novità e l’articolo ha avuto una vasta eco. È arrivato anche sulla scrivania di un architetto in pensione, Vincenzo Spada, che ha avuto un sussulto: quelle stesse ricerche lui le aveva condotte sessant’anni fa.Qui termina il flash back e comincia la storia attuale. L’altro giorno Vincenzo Spada ha bussato al portone dei

Girolamini: «Io so dove sono i resti di Giovanbattista Vico». E senza nemmeno entrare nella chiesa ha spiegato con precisione che si trovavano al di sotto del pavimento in una cripta sulla destra del portone grande.Un particolare aveva colpito Vincenzo Spada quando era giovane architetto: «Ho letto antichi documenti secondo i quali Vico è stato sepolto con un saio addosso, mi è sempre sembrato strano perché non aveva mai preso i voti». Subito dopo aver salutato e ringraziato l’architetto Spada, il rettore dei Girolamini ha chiesto di andare a verificare. Nel luogo descritto dall’architetto c’è realmente una cripta; sollevata la botola si percorrono dieci scalini e si finisce in una camera quadrata dove ci sono gli antichi «scolatoi», e una sola bara. All’interno ci sono resti inceneriti di un corpo

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In Ricordo dei Soldati Caduti Nell' Egeo di Francesco Gallo

On 22 November 2013 at the church of "St. Caterina a Chiaia " in Naples was held a solemn religious ceremony in memory of the fallen Italian soldiers during the Second World War , in the Aegean Sea . The celebration was sponsored by the " Centro Studi Sebetia - ter" in the person of its President , Prof. Ezio Ghidini , and the " Association of Families of soldiers killed in Kos of the 10th Regiment of the Division Queen." On this occasion, besides wanting to pay homage to the Military Division Acqui killed in Kefalonia and the Sailors killed in Leros , have been mentioned many glorious fallen in those lands . Large was the presence of eminent personalities of both the military world that the civilized world, demonstrating how it felt to commemorate this occasion and it repeats for several years , and especially how certain values are eternally steadfast in our people. After the church service the Italian flag with various banners have accompanied three laurel wreaths for their testimony at the war memorial in Martyrs' Square.

Il giorno 22 Novembre 2013, presso la chiesa di “S. Caterina a Chiaia” in Napoli si è tenuta la solenne cerimonia religiosa in ricordo dei soldati Italiani caduti, durante la Seconda Guerra Mondiale, nel Mar Egeo. Tale vibrante celebrazione è stata promossa dal “Centro Studi Sebetia-Ter” nella persona del suo illustre presidente, il Prof. Ezio Ghidini Citro, e dalla “Associazione Famiglie dei militari trucidati a Kos del 10° Rgt della Divisione Regina” , rappresentata dal suo vice presidente Sig.ra Wera Marongiu. In questa occasione oltre a voler rendere gli onori ai Militari della divisione Acqui trucidati a Cefalonia e dei Marinai trucidati a Leros, sono stati ricordati molti gloriosi caduti in quelle terre, in particolare ritornano alla mente i nomi del primo caduto nell'Egeo, il Tenente di Vascello Osservatore Pilota Giuseppe Ghidini Medaglia d’Argento al V. Militare, il Ten. Salvatore Citro che trattò la resa con i tedeschi, il Ten. Francesco Di Giovanni che si arrese solo quando finirono le munizioni addossandosi la responsabilità di aver combattuto fino all’ultimo pur di salvare i suoi soldati dalla fucilazione, e il Ten. Alberto Marongiu responsabile della sicurezza del 10° Rgt. Folta è stata la presenza di alte personalità sia del mondo militare ( nessuna forza armata era assente) che del mondo civile, a dimostrazione di quanto sentita sia questa occasione di commemorazione che ormai si ripete da alcuni anni, e soprattutto come certi valori siano eternamente saldi nel nostro popolo. Tra i tanti personaggi presenti possiamo citare il Gen. B. Rosario Calì ( in vece di

Adinolfi) della Divisione Ogaden Carabinieri, il C. Ammiraglio Luciano Magnanelli ( in vece dell'Amm. Stefano Tortora) autore di un bellissimo discorso, il Comandante Provinciale della G.d.F. di Napoli Gen.B. Salvatore Tatta, nonché sempre della G.d.F. il Gen.D. Nunzio Antonio Ferla, il Gen. Boreca del Comando logistico Sud, il C. Amm. Antonio Basile, il Col. Iginio Ramundo Comandante del 17 ° Rgt. Add. Volontari Acqui, il C.V. Aniello Cuomo C.P. Presidente del Circolo Ufficiali della Marina Militare, il Col. Maurizio Ortenzi dell'Accademia Aeronautica di Pozzuoli, e ad essi si affiancavano i cadetti della storica Scuola Militare Nunziatella, i labari di importanti associazioni d'arma come

l'Associazione Nazionale Paracadutisti sez. di Napoli, l'Associazione Nazionale Marinai d'Italia, l'Associazione Nazionale Ufficiali Aeronautica, l'Associazione Nazionale Genieri e Trasmettitori, ed infine tra i vari professionisti presenti da rammentare sicuramente l'Avv. Pompeo Onesti in rappresentanza dell'Ordine degli Avvocati di Salerno e la Dottoressa Isabella Insolvibile. Dopo la toccante funzione religiosa nel corso della quale si è tenuta anche la lettura della “Preghiera del Marinaio” e della “Preghiera del Fante”, precedute rispettivamente dai classici “tre fischi” del Nostromo e dal “silenzio fuori ordinanza”, la bandiera italiana con i vari labari hanno accompagnato tre corone d'alloro per la loro deposizione presso il monumento dei caduti di Piazza dei Martiri. Non c'era nulla in quel momento di più bello che posare lo sguardo su quella bandiera sventolante sotto le raffiche di vento e di pioggia, mentre i cadetti destinati alla deposizione della corona si ponevano sugli attenti con sguardo fiero e sincero di chi crede nella propria scelta di vita, di chi crede in certi valori, di chi crede nella propria Patria.

Cambio della guardia all'Accademia Aeronautica di Pozzuoli POZZUOLI- In occasione del cambio della guardia, previsto per domani mattina nella sede dell’Accademia Aeronautica di Pozzuoli, con il passaggio di consegne tra il generale Umberto Baldi e

il generale Fernando Giacotti, il sindaco di Pozzuoli Vincenzo Figliolia ha inviato un messaggio di saluto. «Un caloroso saluto di arrivederci al generale Umberto Baldi, che ha dato prova di grande attenzione verso il territorio nel corso degli anni al comando dell’Accademia Aeronautica – sottolinea il sindaco Vincenzo Figliolia – Un in bocca al lupo e un benvenuto, invece, al nuovo comandante, generale Fernando Giancotti, che ho già avuto modo di conoscere in brevi e informali incontri in questi giorni. L’Accademia Aeronautica di Pozzuoli è un orgoglio non solo per la città di Pozzuoli, ma per l’Italia intera, rappresentando una delle eccellenze nazionali in campo scientifico e universitario». Generale di squadra Aerea Fernando Giancotti Fernando Giancotti è nato a Roma, dove ha frequentato il liceo classico. Dal 1976 al 1980 ha frequentato l’Accademia Aeronautica, dalla quale fu inviato negli Stati Uniti per l’addestramento al pilotaggio e al combattimento. Al suo rientro, ha volato come pilota e poi istruttore operativo sullo Starfighter F-104S e, tra gli altri, ha svolto l’incarico di Ufficiale Sicurezza Volo, Capo Nucleo Addestramento, Comandante di Squadriglia, Capo Sezione Operazioni e Comandante Gruppo volo presso il XII Gruppo Caccia del 36° Stormo, dall’82 al ‘94. Assegnato allo Stato Maggiore, Reparto Ordinamento e

Personale, si occupò di politiche del personale. Promosso Colonnello, egli assunse l’incarico di Capo Ufficio Ordinamento. Dal 2000 al 2002, il Col. Giancotti è stato Comandante del 36° Stormo Caccia, dotato di Tornado sia da attacco che da difesa aerea; dopo il comando, di nuovo allo Stato Maggiore, ha ricoperto l’incarico di Capo Ufficio Operazioni, Addestramento ed Esercitazioni fino al 2004 e di Capo Ufficio Politica Militare, Dottrina e Pianificazione Generale fino alla promozione a Generale di Brigata, il 1° luglio del 2005. Il Gen. Giancotti è oggi il capo del 1° Reparto Ordinamento e Personale dello Stato Maggiore Aeronautica. Ha volato per circa 2800 ore di volo, principalmente sull’ F-104 e successivamente sul Tornado. Il suo percorso formativo include il Corso Sicurezza Volo (1984), i corsi da Capitano e da TenenteColonnello presso la Scuola di Guerra Aerea a Firenze (1986/’87 e 1993/’94); Il Flight Safety Course alla University of Southern California (1989); una laurea in Scienze Militari presso l’Università di Napoli; una laurea in Scienze Diplomatiche e Internazionali presso l’Università di Trieste; un Master Degree in Strategic Studies presso la Air University, Maxwell AFB, AL (1999). Il Gen. Giancotti ha conseguito nel 2006 un secondo Master Degree presso l’Industrial College of the Armed Forces, National Defense University, Washington

DC, risultando primo su 307 frequentatori provenienti da tutte le organizzazioni del comparto sicurezza e difesa USA e da 20 paesi del mondo e unico a conseguire il massimo dei voti in tutti e 14 corsi di studio. La sua ricerca sulle forze della Riserva ha vinto l'United States Army Association Award for Research Excellence, mentre la sua altra ricerca, in collaborazione con un ufficiale israeliano, ha vinto il primo premio dell’Università, l’NDU President “Strategic Vision Award”. Il Gen. Giancotti insegna Leadership strategica in Accademia e all’Istituto di Scienze Militari Aeronautiche, nonché nel mondo manageriale nazionale.

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IL CORRIERE DEL SEBETO Arte e Cultura Pag.13 Generale di squadra Aerea Fernando Giancotti Egli è autore di numerosi articoli pubblicati in riviste della difesa e di management, un libro di racconti brevi che ha vinto un premio letterario nazionale e uno di genere, di un saggio pubblicato negli Stati Uniti sul libro di testo sulla leadership dell’USAF, AU-24, e utilizzato in diversi contesti. Un secondo saggio è stato pubblicato recentissimamente negli Stati Uniti, mentre un libro sulla “Leadership agile nella complessità”, editore Guerini, è oggi in libreria.

Il Generale di Divisione Aerea Baldi subentra al Generale di Brigata Aerea Lanza de Cristoforis 12/09/2013 - Mercoledì 11 settembre si è svolta, presso la Sala degli Eroi di Palazzo Aeronautica a Roma, la cerimonia del passaggio di consegne del 1° Reparto - Ordinamento e Personale dello Stato Maggiore Aeronautica, tra il Generale di Brigata Aerea Nicola Lanza de Cristoforis, Capo Reparto uscente, e il Generale di Divisione Aerea Umberto Baldi, Capo Reparto subentrante e attualmente anche Comandante dell’Accademia Aeronautica. Alla cerimonia, presieduta dal Generale di Squadra Aerea Paolo Magro, Sottocapo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, hanno preso parte i Capi Reparto/Ufficio Generale, i Vice Capi Reparto e tutto il personale del 1° Reparto dello SMA, oltre a numerosi ospiti militari e civili sia del Capo Reparto uscente che del subentrante. Nel rituale saluto di commiato, il Generale Lanza de Cristoforis, che già ricopre il nuovo incarico di Capo delle Forze da Combattimento, ha sottolineato la straordinaria opportunità professionale che gli ha consentito di essere partecipe, negli oltre tre anni di comando, dell’evoluzione della Difesa e dell’Aeronautica, ”seguendone le prospettive per il personale, certamente quelle che meritano la maggiore attenzione”, sottolineando, inoltre, la qualità e la motivazione del personale del 1° Reparto. Dopo una serie di ringraziamenti ai rappresentanti della DIPMA, ai colleghi dello Stato Maggiore della Difesa, delle Direzioni Generali e delle altre Forze Armate, il Generale Lanza de Cristoforis ha sottolineato il fertile rapporto intrattenuto con la rappresentanza militare e le Organizzazioni Sindacali. Infine, ha sottolineato che “il Reparto ha investito energie per continuare una visione d’insieme di supporto all’attività di leadership del vertice, ricercando concretezza nelle iniziative della Politica del Personale, nella certezza che la qualità del rapporto tra la Forza Armata e i suoi componenti richieda costante attenzione ai nostri fondamentali, i valori, l’etica della responsabilità, per citare le parole del Sig. Capo di Stato Maggiore”. Il Generale Baldi, da parte sua, ha,

innanzitutto, ringraziato i vertici della Forza Armata per la fiducia accordata, assegnandogli l’incarico di Capo del 1° Reparto in un periodo di molteplici trasformazioni in atto. Dopo aver salutato gli Ufficiali delle altre Forze Armate che operano nel settore del personale, il COCER e le Rappresentanze Sindacali e i rappresentanti della DIPMA, ha sottolineato che “la risorsa più preziosa a disposizione sono gli uomini e le donne che operano in Forza Armata”; tale assunto “diventa imprescindibile nel contesto attuale, caratterizzato dalla continua riduzione degli organici e dall’aumento degli impegni, che impone personale motivato, convinto, consapevole del proprio ruolo e, nei limiti del possibile, del proprio destino”. Il Generale Baldi ha, inoltre, sottolineato che 1° Reparto “deve essere un facilitatore, in grado di governare la trasformazione con la consapevolezza di chi conosce i motivi razionali delle scelte del passato”, poiché “la fondamentale conoscenza del proprio passato e i pilastri della passione, della competenza e dell’etica devono essere la base del nostro agire quotidiano”, come viatico per “cambiamenti coerenti con unprogetto strategico di medio-lungo termine per il bene ultimo dell’Aeronautica Militare, rifuggendo sempre dalla ricerca di un consenso tattico, spesso effimero e quasi sempre dannoso”. A conclusione della cerimonia il Generale Magro, nel dare rilievo all’estrema importanza delle materie trattate dal 1° Reparto in un contesto storico caratterizzato da cambiamenti radicali che investono direttamente le risorse umane, ha ringraziato il Generale Lanza de Cristoforis per il lavoro svolto, sottolineandone l'elevatissima preparazione professionale nel variegato ambito di pertinenza del 1° Reparto e, nel rilevare la grande esperienza maturata negli anni dal Generale Baldi riguardo alle tematiche attinenti al personale, gli ha indirizzato un augurio di buon lavoro per il nuovo incarico.

A Marano, dalla parte dei bambini di Teresa Meo

Nell’ambito degli incontri con l’Autore, l’Associazione Grotta San Castrese, in collaborazione con l’Associazione Amici Estate di San Martino, ha ospitato l’evento di presentazione del libro Coccole e Rime di Maria Rosaria Ruberto, edito Galassia. Serata speciale, dedicata alla fantasia e ai più piccoli che ha suscitato un caloroso consenso di pubblico. Insieme all’Autrice hanno intrattenuto gli ospiti i giornalisti Teresa Meo e Michele Mazzone, Pina Giarmanà cantante e attrice e il musicista Mimmo Napolitano. Hanno recitato alcune Rime i giovani Benedetta, Adriano, Lorenzo e Vittorio, già allievi dell’Autrice. Ma chi è Maria Rosaria Ruberto? Poliedrica docente della scuola per l’infanzia, appassionata di musica e di arte, attenta osservatrice dei tempi della didattica e della crescita globale dei bambini, Maria Rosaria, attraverso le sue liriche ha scandito gli eventi tipici degli anni, della famiglia e dell’attualità dando risalto alle emozioni e ai momenti delicati della crescita. Coccole e Rime è un testo nato per i bambini, ma rivolto agli adulti come utile strumento didattico. “La rima è una tecnica linguistica che affascina il bambino, creando un gioco di associazioni che arricchisce la fantasia…”, così l’Autrice esordisce, offrendo al folto pubblico uno strumento di comunicazione che è il riconoscimento dell’altro. L’Associazione Grotta San Castrese si conferma un polo culturale che sa coniugare gli eventi in sintonia con i sapori e i calici beneaguranti del sommelier Eugenio Arpaia . Presenti alla serata, tra gli altri, i rappresentanti del mondo della scuola, la dirigente Antonietta Guadagno, Giovanni Liccardo decano e parroco della Parrocchia di San Castrese, l’attore Sasà Trapanese e tanti estimatori del sito Grotta San Castrese.

Le Foto delle Cerimonia per i caduti di Kos

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Le Foto delle Cerimonia per i caduti di Kos