GIORGIO ZERBINI LA BUCA DE LA STREGA · cibi predilige la Sbròscia e il Pansanto; come bevande il...

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GIORGIO ZERBINI

LA BUCA DE LA STREGA

DIALOGHI DIALETTALI - RACCONTI IN LINGUA CANTI POPOLARI - PROVERBI E DETTI LOCALI - POESIE

CENTRO D'INIZIATIVE CULTURALI

MONTEFIASCONE

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G I O R G I O Z E R B I N I , ag r i co l t o r e , c o n i u g a t o , t re fi-glie. Iscr i t to a l l ' A l b o dei G io rna l i s t i , svolge l ' a t t iv i tà di pubb l i c i s t a su per iodic i a n c h e a d i f f u s i o n e naz iona l e ; è d i r e t t o r e r e sponsab i l e d e l l ' e m i t t e n t e " R a d i o M o n t e f i a -s c o n e " . A u t o r e di n u m e r o s i testi per il t e a t r o d ia le t t a le , pubb l ica t i nel 1978 in un l ibro ben acco l t o da l la c r i t ica e dal pubb l i co : " B a l o c c a t e t ra 'I l u m e e '1 b r u s c o " . Fon-d a t o r e e c a p o c o m i c o del la C o m p a g n i a del T e a t r o Dia-let ta le " G i u s e p p e G i a n l o r e n z o " , p r e n d e p a r t e alle r ap-p resen taz ion i i n t e r p r e t a n d o pe r sonagg i cara t te r i s t ic i del m o n d o c o n t a d i n o s c o m p a r s o . È a u t o r e di una d iec ina di c a n z o n i fo lk , per i testi e per le mus i che .

È n a t o il 5 ap r i l e 1929 a M o n t e f i a s c o n e (V i t e rbo ) , in c o n t r a d a Gevi , i so lo t to del va s to a r c i p e l a g o c o s t a r o l o . Vive con la f amig l i a a P ian del N e s p o l o , nelle c a m p a g n e m o n t e f i a s c o n e s i , in se rena c o m u n i o n e coi f ag ian i e le s t a r n e che al leva per il r i p o p o l a m e n t o . Poss iede u n a c a p a n n a - r i t i r o per le d i s in toss icaz ion i d a a v v e l e n a m e n t o d a civi l tà . Si d i le t ta in res taur i di chiese an t i che . C o m e cibi predi l ige la Sbròsc ia e il P a n s a n t o ; c o m e b e v a n d e il B i o n d o di P i an del N e s p o l o , l ' O r o del Cas te l l ace lo e , q u a l c h e vol ta , l ' A r g e n t o del f o n t a n i l e del S a m b u c o .

Ba t t ag l i e ro e p o l e m i c o i r r iducib i le , l ingua b i f o r c u t a se p r o v o c a t o . C o r d i a l e , a l l egro , osp i t a l e , di p iacevole c o m -p a g n i a , la sua casa è spesso r i t r o v o di p i t to r i , poe t i , let-t e ra t i , g iorna l i s t i , c a n t a n t i , a t t o r i , music is t i , cacc ia to r i . D o r m e con u n a m a n o s o t t o la les ta , n o n russa , pensa a d i g i u n o , scrive d o p o il c a f f è . P a r l a cogli a lber i , a m a la cacc ia , i can i , le p e r s o n e umil i . H a in a n t i p a t i a i saccen-ti, i r o b o t e l ' o r a legale. C o n v e r s a a tu per tu col P a d r e -t e r n o s o t t o le q u e r c e del F o s s o del la C ò l a c h e a m a de f i -nire " u n a ve rs ione p i a c e v o l m e n t e laica del P a r a d i s o " .

. . . I testi di G i o r g i o Zerb in i s o n o d isegnat i c o m e vivaci bozze t t i della vi ta p a e s a n a , cos t ru i t i per m e z z o di un d i a l o g o vivo ed esen te da qua ls ias i f o r z a t u r a , che t e n d o -n o a s to r ic izzare e a d e f i n i r e la c u l t u r a c o n t a d i n a . . . Q u e -s t o è il m o n d o degli umil i , dei sempl ic i , degli s p o n t a n e i , la cui r u d i m e n t a l e sap ienza è d e s t i n a t a a s o c c o m b e r e di-

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GIORGIO ZERBINI

L A BUCA D E L A STREGA DIALOGHI DIALETTALI - RACCONTI IN LINGUA

CANTI POPOLA RI - PRO VERBI E DETTI LOCALI - POESIE

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Alla piccola Livia, fiore profumato di Pian del Nespolo.

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QUATTRO CIARLE DI PRESENTAZIONE

Ricordi? Sì, ricordi! C'era un'acacia educata alla stessa maniera degli uomini. E

sotto l'acacia una sedia, e sulla sedia una donna dal volto rubizzo che filava e cantava. C'era poi una siepe di sambuco ed una so-mara legata con una lunga corda. E tanti uccelli. Poi un maiale sdraiato al sole. E galline, piccioni e farfalle azzurre con un oc-chio di sole stampato nell'ala. Il centro propulsore della vita del-la contrada era là. Sotto quell'acacia. Dove il vicinato si riuniva e sostava a lungo alla balocca, presieduta da quella donnona dal volto rubizzo che si chiamava. Preta. La quale aveva anche alle-vato quella splendida acacia e l'aveva educata alla stessa maniera degli uomini. Il vicinato passava l'estate sotto il tetto di tegoli verdi di quell'acacia che rapiva canti, sospiri, desideri.

Quando il giorno se ne andava, i tegoli diventavano bruni, le balocche di scioglievano per far posto ai grandi silenzi della not-te. Le streghe aliavano nel cielo gremito di stelle e di preghiere. In lontananza qualche rintocco di campana e il latrare dei cani.

Le cucine sonnecchiavano alla luce debole dei focolari; gli zap-patori, stanchi, cadevano sui sacchi di canapa stesi a terra per ri-trovare nuove energie per il domani.

Nòttole in volo tra tetto e tetto, gufi ossequiosi sugli stolli dei pagliai, lampeggio di lucciole, acri profumi di zuppa di vino me-scolati ai profumi dei fiori di quell'acacia educata alla stessa ma-niera degli uomini.

Oltre la mezzanotte il ruotare dei carretti degli ortolani di Boi-sena che andavano al mercato a Viterbo. Le brecce, frantumate dai cerchioni di ferro, crepitavano sull'asfalto come cilecche di fucili ad avancarica in un finto giorno di caccia. Da tra le casse dell'insalata e dei pomodori si levavano le nenie degli ortolani rit-mate dagli zoccoli dei muli e degli asini.

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Poi di nuovo il giorno. I risvegli nel fresco della guazza. Il bri-vido degli alberi, lo sfarfallio delle rondini, il chioccolare dei merli nella siepe, l'assalto degli asini alla piletta della fontana.

Tra i primi passanti Carluccio, con la camiciòla azzurra fuori dei pantaloni, il fazzoletto bianco attorcigliato al collo, la lunga penna di falco sul cappello. Scendeva alla vigna con andatura bar-collante di puledro spedato: aveva passato la notte in bianco nelle case dei morti a recitare rosari. Seminava odore di cera e di salma, di madrigala, di canfora ma anche di ciliegie e di albicocche.

Quanta bontà e carità riposte in quel querciolo forte e gentile che si presentava spontaneamente nelle case per inviare in Para-diso le anime dei trapassati! E i vivi gli davano il buon giorno con timoroso rispetto augurandogli lunga vita nella speranza di po-tersi un giorno giovare della carità del suo viatico lungo le strade misteriose dell'olire tomba.

Dopo Car luccio, Zacchièlle. Scendeva balzellando per la stra-da ripida della sua casa, fiancheggiata da due ali di querce, con la somara carica di cesti, diretto a Burano ad innaffiare l'orto e ca-ricare le verdure. Il suo parlare era un continuo poetare, i suoi sa-luti erano espressi in rima. La poesia lo commuoveva.

Zacchièlle! Un'anima candida come un giglio di' Sant'Anto-nio, un firmamento brillante di stelle anche in pieno giorno, un volo di colombi bianchi anche in momenti di tormentato dolore.

Il campanile della chiesa, acceso di sole, abbandonava al cielo frulli argentini di rintocchi. La Messa. Le fiammelle tremolanti di due gialle candele si specchiavano nei marmi dell'altare. Alle preghiere del parroco seguivano, storpiate ma pronte, le risposte di Bucomòllo sagrestano. Nei banchi le tre suore di stanza in Par-rocchia: suor Rosa, suor Anita, suor Ludovina. Partecipavano alla Messa con lo sguardo dolcemente posato sull'altare. Qualco-sa di santo, di pio, di divino scendeva allora sul Vicinato e un 'aria impalpabile di gaia dolcezza si faceva strada nel cuore d'ogni abitante. I passeri, entrati in chiesa attraverso il vetro frantumato di una finestra, scendevano a beccuzzare, furtivi, i granelli d'incenzo caduti vicino all'altare. Fuori, col venticello

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del sole, giungevano, ora più ora meno, le note arzigogolate delle spigolatrici che abbandonavano mazzi di stornelli come mazzi di fiori sulle stoppie da poco mietute.

Il Vicinato si animava col passare delle ore. I bambini, sbucati a frotte dalle case, scalzi e coi cappelli di paglia sbaffati di more e di visciole, si rincorrevano cinguettando e saltando sulla piazzet-ta bianca di polvere.

Allora l'acacia, tornata verde, chiamava di nuovo a raccolta la pipinàra delle baloccanti. La Preta filava e cantava. Cantava la commovente historia di quel capitano di lungo corso che volendo riabbracciare la sua bella dopo tanti anni di forzata separazione, sfidò il mare in tempesta e fu spazzato via da un 'ondata che inve-stì il ponte della nave.

Man mano che l'historia andava avanti, gli occhi della Preta e delle baloccanti lampeggiavano di rabbia, quindi scrosciavano di lacrime, poi l'alba della consolazione quando il capitano, ag-grappato ad un rottame, dopo aver lottato disperatamente con-tro i marosi, veniva tratto in salvo da una barca di pescatori. E la historia si ripeteva ogni giorno. Così.

L'acacia muoveva più o meno forte le fronde a seconda del punto nel quale l'historia era arrivata. Era un suo modo di senti-re e di piangere. Ma non un modo di sentire e di piangere di tutte le acacie. Solo di quell'acacia perché era stata educata alla stessa maniera degli uomini buoni.

A distanza di tanti anni sono diventato acacia anch 'io Con un tetto di tegoli verdi che si muovono più o meno forte a seconda del punto nel quale la mia historia di uomo è arrivata.

A settembre le ombre delle case si allungavano oltre gli orti ed arrivava la malinconia. Bastava apparisse una nuvoletta verso Marta che tutti borbottavano: "Carica la Buca de la Strega, arifà temporale!". Ed altre voci aggiungevano; "Carica pure la Bèca,

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l'acqua ci accecai". Allora le donne correvano a raccogliere i panni stesi sulla siepe, gli uomini riportavano in casa le lenticchie o il granturco messi ad essiccare al sole. Le somare si rotolavano nella polvere, le cornacchie si trastullavano, volando a stormi fit-tissimi, in medaglie di sole, gridando "acqua! acqua!". Questa certezza di tempesta, desunta da una millenaria esperienza mete-reo logica, aveva coniato il detto: "Sbalena la Buca, jarisponne la Bèca, l'acqua ci acceca!".

La "Buca" e la "Bèca": due punti cardinali che passavano presto dal buonumore all'ira, dalla luce accecante al buio canti-na. Una specie di contesa tra paradiso e inferno, tra cielo e terra, tra bene e male.

Il cielo incupiva, i lampi e i tuoni si chiamavano e si risponde-vano con rabbia dai Cappuccini a Marta. E le botti celesti si strappavano a suon di fulmini e la pioggia cadeva a canapi sui tetti òcra, sulla piazzetta, sugli orti, sui contadini che rientravano di fretta a casa con gli asini carichi.

La rabbia finiva presto: rasserenava verso Marta, rasserenava verso i Cappuccini, il temporale si allontanava borbottando. Ti-mido riappariva il sole ad accendere di rosa le foglie fradice degli alberi, gli incannati degli orti, i petali scomposti della garofanino della Preta e di Alfredo. I passerotti riprendevano il viavai dalle siepi ai tetti, mentre il cielo si accendeva dei colori dell'iride su cui andavano a strofinarsi le ali le rondini.

Perché la Bèca si chiamasse così non sono mai riuscito a saper-lo. So invece della Buca de la Strega. Essa si chiama così per il fatto che occhieggia con le Coste, famosa patria della Streghe, le creature più temute, più malvagie e gentili al tempo stesso che siano mai esistite sulla faccia della terra. Alle Coste c'è ancora la Casa del Cémpene dove le streghe si davano notte tempo conve-gno per ricevere ammaestramenti dal Crapione, un capo diavolo che saliva dall'inferno munito di fuoco malefico per i suoi sorti-legi. Ma a fianco della Casa del Cémpene c'era - e c'è - la chieset-ta di San Pancrazio, patrono dei costaroli. Il Santo, sul più bello della serata, si presentava alla Casa del Cémpene a spegnere il

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fuoco malefico con le sue sante orine lasciando Casa, Crapione e Streghe al buio più completo.

In quel periodo l'Assunta de la Preta conciava il grano da se-me. Era l'unica persona che sapesse farlo bene nel vicinato. Col "corvello" appeso alla "crapa" passava le giornate intere a se-parare il grano pesante, zeppo, vitale, da quello striminzito e dai semi di erba infestante.

Le querciorute braccia dell'Assunta facevano girare il corvèllo con un dondolìo di ali di falco abbandonate alle onde del vento. Il grano minuto finiva sul pannone di stoppa steso a terra ed era destinato a becchime pei piccioni e il pollame. Il grano turgido, messo a dura prova dalla calibratura dei fori, restava nel corvello e veniva insaccato per essere trasportato in magazzino e di lì in campagna dove la terra era già pronta ad accoglierlo nel suo grembo.

Intorno all'Assunta sostava la gente del vicinato: Cesare, Pip-po, Attilio, il Sindaco, Settimio; la Genoveffa, la Rosa, la Filo-mena, la Nunziata. Ascoltava in silenzio la musica delle cariossi-di che si rincorrevano sul metallo. Si beava del profumo del fru-mento ancora caldo di sole. Anticipava previsioni e ricordava stagioni avare o prodighe di raccolti.

Quanta religiosa compostezza davanti a quel grano! Quante speranze riposte in quei chicchi che si sarebbero moltiplicati nella terra amica!

Chi poteva assumere atteggiamenti scomposti davanti a quella grazia di Dio che, nel miracolo della moltiplicazione, avrebbe assi-curato sopravvivenza a uomini ed animali? Come sull'altare il ca-lice del Sacrificio così sulla piazzetta il corvèllo col seme della vita.

Anche la Buca de la Strega era di buon umore quando l'Assun-ta conciava il grano. E la Bèca, di consenso, dava il via ad ampi sorrisi che mettevano a nudo i tetti e il campanile del convento dei Cappuccini. Come per miracolo tutto si fermava quando i chicchi ruotavano nel corvèllo. Tutti si chetavano, tutto taceva. Anche la voce di Alfredo taceva. Una voce quasi donnesca, mar-zolina, della stessa tonalità della Buca de la Strega quando era in

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bonaccia. Ed anche la voce della Chicònta. Una voce maschia, cu-pa, cannoneggiante come la Buca de la Strega quando era furente.

Poi tutto si fermò. E definitivamente. Corvèllo compreso. L'Assunta, la Chiconta, la Preta, Alfredo e tutte quelle altre care persone che popolavano il vicinato, presero, una alla volta, la via della Casa del Popolo, dove anche quando scoppiano furiosi i temporali è concesso di riposare in pace.

FI corvèllo dell'Assunta è rimasto a me. Me l'ha regalato il fi-glio Lillo perché sa che io posso usarlo ancora. Quando ne ho vo-glia, lo appendo alla "crapa" e ci metto dentro i semi delle mie ridicole trebbiature. Giro giro, quindi lo fermo per vedere cosa c'è rimasto nel fondo. Il più delle volte lo trovo quasi vuoto perché gran parte dei chicchi è passata nel pannone della conciatura. Prendo allora quel poco di buon seme rimasto, lo tramuto in alfa-beto e lo semino sulla carta. Ne ricavo modesti raccolti, come que-sto mucchiato di scarabocchi che tu, cavalier lettore, avrai la pa-zienza di leggere.

L 'Autore Pian del Nespolo, 4 Luglio 1985

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LA PRETA (Foto HELMUTT ZÏMPEL - Sergente della Wehrmacht - 1943)

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CARLUCCIO (1950)

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IL CORVELLO DELL'ASSUNTA DE LA PRETA

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N.B. Per le parole contrassegnate dall'asterisco consultare il glossario a fondo libro

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DIALOGHI DIALETTALI PRIMA PARTE

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CASA SUA, ARIPOSO SUO!

MARIA: E mo, arisete venuta? ROSA: Me sapìa mijanno d'arivenì! MARIA: E sia arita! A quell'ora ch'adèroto partita, ce potioto

sta' chedunaltro giorno. Per te, mecchì che fate? ROSA: Ah, si volìo sta', gnuno me cacciava, che c'entra, ma pe-

rò le sapete? "Casa sua, ariposo suo"! MARIA: De que nun ve posso da' torto: io 'nco', le sapete, più

là de Viterbo nun so' ita mae, ma esse da sta' via pe' più d'un giorno, me porte la Madonna, me pijarèbbe '1 mal caduto.

ROSA: A casa de la mi' fija adèra come si fusse stata a casa mia, ma però m'ero ancamata* e si nun fuggìo presto me pijava che paralese.

MARIA: Donqua Roma com'adè? ROSA: A dì com'adè nun ve le posso dì, perchè adè tutte case,

voe passate annimmenzo a le case e nun vedete altro che case. Case a mancina, alte, tamante, de sasse, de mattone; case a manritta, alte, tamante, de sasse, de mattone. Do' annate an-nate, adè tutta a quel mò. Su le case c'è sempre 'na nebbiucia che v'affuca, l'automòbbele là pe' quele vie so' fitte quant'el gregnale* che si nun camminate co' l'occhie belle sbarre, ve pettoréono*. Le gente tutte belle mutate co' la muta de' la fe-sta; l'òmmene co' la corvatta, ma co' 'n colore che pargono èteche*, le donne co' lo spolvarino, la faccia onta e '1 cane a mano col cappotto.

MARIA: Le sò che le dicìa la Teta 'nco'. Dice che fanno sempre festa. Bella vita, che te potesse spojelle da 'n trono: noe a laorà e lóro a magnà e annà a spasso.

ROSA: Dice che laorà laorano, ma però mail'office. 19

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MARIA: Dall'office mica scappa '1 pane, sapé, e manco l'olio e manco '1 vino. Manco si s'anguastisciono! Si nun fusse '1 pòro contadino che ariduce sù pe' portà là, le sbadije ma le romane jé se sgarrarèbbe la bocca anfinanta all'orecchia.

ROSA: 'L mi' jénnero* 'nco' laora mall'officio, lue dice che fa-tiga tanto, ma io, a divvala come va ditta, le sudore da le tem-pie nun gne l'ho viste mae razzà! Nòne, nòne! A scria n'adè fatiga, su qui carte bianche manco le mano jé se sporcono!

MARIA: Le sapete? 'L pane, còcca mia, s'ìa da cavà ognun da si, col picchione ma la rena salda, che quanno daoto le pic-chionate '1 picchione ìa da stolsà e scalutà come la forgia de Rino. No co' la penna. La penna! Jé dicarebbe ma *sti roma-ne: «io magno '1 pane, tu magna la penna!».

ROSA: 'L pane? 'L pane lo buttono no le magnono, le romane. Nache nun gne piace, lóro magnono la ciccia, altro che '1 pane. Al più, pijono qui sfilatine, loedè, le sbudellono co' le deta, jé buttono la mojica e magnono si o no un pelo de coppaia. Si ve-dessara le muntine de pane caccio male man qui le gabbie arrampollate* mal muro! La mi' fija me litichètte, sinnò l'io preso 'na fazzolettata pe' le galline.

MARIA: Sti famone! Nun s'aricordano più quanno al tempo de la guerra veniono là pe' le case a chieda la stozza? La fame se le cernia, e si jé daoto un orletto* de pane menzo muffo le chiappaono a volo come le cane!

ROSA: Pure ma mi, a veda tutta quela grazzia de Dio caccia ma-le, me sovvenìa la guerra. «Sora Rò, me diciono, me le date 'na pagnotta de pane che adè 'na sittimana che nu' assajo grazzia de Dio?». E io jé le dào come jé le daoto voe. Doppo pòe annaono a raspà ma le monnezzare iò pe' la scarpata de la strada p'arimedià che scròzzala de petata. La fame adè brutta ma nache nun s'aricordono più! E manco sanno quanto ce vò-le p'accapezzà 'na fetta de pane, 'sti porce.

MARIA: Io dico che '1 Signore adè troppo bòno sinnò ia da fà veni 'na carestia che le cristiane ìono da tralucia* come 'na pel-

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le de serpe! Veggaressara voe che '1 pane butto nun se troarèb-be più!

ROSA: Mellì da la mi' fija, '1 pane nu' le buttono, ma però lóro 'nco' magnono gran bene, sapé: ciccia, pollastro, pescio, certe pesce rosse, tonne che le erompono al mercato, e cacio, tanto cacio. Poe c'è un cacio, che nun adè manco cacio, èsso nun sa-parèbbe favve capace, adè 'na specie de rigòtta che le chiamo-no lo scarpone.

MARIA: Come? Lo fanno co' le scarpe? ROSA: Che c'entra co' le scarpe! Adè chiamato a quel mò! Adè

una robba bianca, guènguara* e la mi' fija daje a dimme: «O ma', magnate 'n pezzetto de 'sto scarpone, sentite l'è bòno!». «Magnolo tu, ma mi me piace M cacio de Morano, no 'sta zoz-zaria».

MARIA: Va a sapé che ce mettaranno, abbisognanno le faranno co' le svierellature de che vaccina fradacia* E pòe solo '1 nome me stommaca. Me jene pensato ma le scarpe che acciaccono tutte le sorte de porcarìe...

ROSA: Ma mi le sapete che m'annàa tanto? Ma però nun c'era; l'ansalata de campagna: caccialepre, cipiccia, ràponsele, cresta de gallo, pimpinèlla, coste d'asono, créspene, le vedìo golà!

MARIA: Le potìoto annà a còja, cazzomatta! ROSA: E do' l'annaoto a còja, là pe' la piazza 'e San Pietro? MARIA: Sa che dico, èsso ch'ete ditto de San Pietro, ve ciànno

porto a veda San Pietro? ROSA: Me ciànno porto, me ciànno porto! Credeteme ch'adè

'na veduta! Nun ve dico bucìa: sarà granne quanto diece san-tamargarite meste assieme. Solo la piazza mellì dinante, sarà du' volte la piana del Cannaucceto, che a simentalla ce scota-rèbbono, senza bucìa, quattro bòne rubbie de grano. Si vedes-sara, Maria cara, su drento, le stateve*, grosse, alte, co' le bracce erte come le passone de la luce. E pòe si vedessara quante altare, e ma 'gni altare un prete che dice sempre la mes-sa. Quante prete, Dioceguarde, pure le prete nere, co' le labbre

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come 'na somara, salvanno l'acqua del santo Battesomo! Ma più de tutte le sapete che m'è arimasto ma la mente?

MARIA: Chè? ROSA: 'L catarcione* de la porta 'e San Pietro. Quanto è vero

che c'è '1 Signore si nu' adèra erto quanto 'st'agace. Anguasti-scete ma un catarcione!

MARIA: 'L Papa lo vedessoto? ROSA: Nò ch'adèra a fa' colazione ma le stanzie su sopra. MARIA: Poaretto, pure ma lue jé viene fame a forza de sbeolà

mal popolo. Sempre a aggadiallo pe' volello veda, e lassatolo sta' poaretto, lassatolo ariposa' un pelo tranquillo! Io pe' 'sto motìo, Rosa cara, famme cascà l'occhie, '1 Papa nun l'avarèb-be fatto mancooo...

ROSA: Manco io, no no no... MARIA: Ah, co' tutte sti cose belle, io al posto vostro nun venìo

via, chedunaltro giorno stao. ROSA: E giusto pe' veda un po' 'sti cose che sinnò pel resto, co-

me v'ho ditto, mica se sta tanto bene, sapé! Si annate là pe' le strade mica potete fa' 'na parola co' gnuno. Mellì gnuno cono-scete e gnuno ve conosce. Le gente tante ma però nun ve guar-dono manco si ve pija 'n colpo. Quanno arèbbe da sta mellì da sola, fò per dire, perché sola nun sete che de gente ce ne sò tan-te, ma adè come si fùssara sola, preferiscio mèjo a sta' mal mi' vecinato, do' se conoscemo tutte, do' potemo scambià 'na pa-rola e aè un succurso pe' un caso de bisogno.

MARIA: Ma anche '1 vecinato nostro nun adè più quello de 'na volta...

ROSA: Que adè vero ché co' le gente gioene che viengono su ès-so, quanno cala '1 sole se sèrrono min casa e nun v'òprono manco si v'anguastite; adanno paura che jé portate '1 loto sull'ammattonate.

MARIA: Giusto, sa' che dico: mellà a Roma ciannaoto un po' a la balocca?

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ROSA: A la balocca! Me fate rida! Fate conto, man palazzo, do' ce stanno de casa dimo, trenta fameje, s'ancontrono pe' la sca-lata e nun se parlono perché manco se conosciono. No a la ba-locca.

MARIA: Allora ete fatto bene arivenì via, bràa! Voe sete 'na donna che capite addaero.

ROSA: Che c'entra, io capì nun capisciarò gnente, ma però ma mi m'è saputo che se sta troppo ancrapate. A la mattina, pre-sempio, quanno ve rizzate, prima che ve toccasse M cacatoro, ioto da bubbolà là pe' la casa almeno menz'ora. Annaoto là, o c'era '1 ghiènnoro, o c'era lièe, o c'erono le fije ch'ìono d'annà a la scola, o c'era '1 diaolo, o c'era la verziera, abbasta quanno toccàa ma mi, me s'era arimesta... e certe passate de dolor de corpo che me faciono arinturcinà. La prima mattina poe, che gnuno m'ìa ansento* come io da fa ' , jé cachètte ma la vaschia da bagno che la mi' fija, poarina, anco' me litaca. Èma doppo amparètte però, sapé. Annao là ma la cambàra, me sbudellào ma 'na busta de naile, de queste de la spesa, ete capito, e poe, zitta, le buttao da la finestra. Me tocchétte a smetta che 'na mattina mese '1 cappello ma na signora che passàa sculettan-no, che l'urie da iò sotto parìa guasta.

MARIA: Bràa, facessete bene! Troppo poco! 'L cappello jé l'ìo-to da metta, ma no co' 'na busta, co' un bigonso pieno a bocca a bocca, ma 'sta vagabonna. Do' vae a sculettà, te pija 'n tro-no, sta min casa tua a fa' le faccenne!

ROSA: Al giorno, venìono a pranso '1 ghiènnero e le fije, ma-gnaono lèste e pòe aricchiappaono via. Lièe arimanìa co' mi, ma co' mi poco ce discurrìa perché se mettìa a lèggia le giorna-le. Doppo a la sera, accennìono la telisione e currìono ma le medicine: chi adìa la lùggiara*, chi '1 fetoco che jé puncicàa, chi la penecite, chi lo scòcco nerboso, abbasta s'annaono a colca' nissuno co' na libbra de pìndele* ma la pansa. E ve pare che io potìo sta' mellì? Si nun fuggìo presto, Maria cara, potìo campà 'na settimana e pòe morìo! Ah, quanto se gode mecchi!

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'L mi' orto, la mi' cantina, '1 mi' canepùle, le mi' galline, la mi' acquacotta, l'aria del laco che fa arisciuscetà, e le poje de Sammartino che pargono fatte apposta pe' sta' a la balocca col Signore! Oh, quanto se sta' bene mecchì, Maria cara!

MARIA: Sentì, sona la campana: adè ora de' la messa. ROSA: Èsso me nutrico su e ce vojo anna'. Si venite pure voe

v'aspetto e annamo là assieme. Nun veggo l'ora d'ariveda la mi' chiesetta, poarina, ce prego tanto bene; mellà pure '1 Si-gnore adà le nerbe co' tutte le rimore che jé fanno...

MARIA: Sì, vièngo pur io. Quanto, vedé, che guerno le galline e vièngo. Ciuche, ciuche! Oh! Sò tutte mail'orto! Che te pija 'n colpo: hanno ruspato tutta que la po' cipollina! Sciò, via, scel-lerate! O Ro', e tirate là, cara, che mo ve seguito!

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FANNO LE BAGNE AL LACO

LISA: Le vedete: chè io nun ciannarèbbe iò al laco a fa ' le ba-gne? La diferenza adè che me vergogno.

GELSA: Pure ma voe mesà che ve comencia a dà de vòlta '1 ciaraèllo*. Sa' le saressara bella: co' la pezzoletta su la vergo-gna, du' scruccuje* su le capitelle e la pallonsa a piciancolone* come 'na troja che zinna. Ma ditala 'n'antra, vedé, che que nun capie manco ma 'sta piazza. Sentì, pure le passere ce ridono!

LISA: E sinnò nun ce sónno dell'ita* mia e dell'ità vostra iò pel laco a pijà '1 sole su la rena? Avoja!

GELSA: Sò signore e noe nun gne potemo guardà. Noe, annute-le* che dite, nun ce semo tajate e si ciannassamara, robba che ce sciottarèbbono dirèto le cane!

LISA: Ma io '1 personale anco' l 'ho mejo de tante giuinette, sa-pé, e la mi' figuretta ce la farèbbe. Loedè: si me tajasse le ca-pelle, me nutricasse sù per bene, co' un bel tre quarte de quelle merecane, veggaressara voe che comparsa farèbbe. Ennò! Co-me dice '1 proerbio?: "Veste 'n ceppo pare 'n vesco".

GELSA: Oh belle pòe qui tre quarte de le merecane! Sa quanto fa più figura '1 sacco de lo stabbio de quell'abbituccione a tre piane e abbisognanno a quattro. Sotto pòe portano le mutanne de mùsolo co' lo sportello che dioneguarde jé s'èsse da sciòja '1 corpo all'improiso, tra strigà le filosèlle, opri lo sportello e metta mano, parlanno co' poco rispetto, se pienarèbbono che pe' spattumalle* ce vorrèbbe la pompa de le pompiere. E pòe ch'annaressara a pijà '1 sole tutta ambracata a quello modo? 'L sole le pijono, 'n ete visto, gnude, mica vestite!

LISA: Che c'entra, io èsso facìo per dire, perchè si esse d 'annà al laco a pijà i sole, comprarèbbe le mutannine e '1 para zinne,

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mica ciannarèbbe vestita a quel mo' ! GELSA: Le mutannine? Ete da dì che sónno gnude, sia òmmene

che donne, no le mutannine. Le donne adanno quella pezzolet-ta larga 'n deto* ch'adè come quanno nun ce Tèssono. L'òm-mene 'nco ammantono su la bruja* co' 'na foja d'albuccio, e a chiappe de culo smaniate, bianche, tutte pelose, che pargono tascie, fanno le cirimonie senza accorgesse che sónno redecale*. Loedè, si c'è 'na cosa da tenesse bella ammantata adè propio '1 culo che ce passa 'gni sorta de zozzaria. Zozze, che te pijasse 'n trono man chi jé dà '1 permesso, 'sti stomma-cose, fanno fa ' la faccia rossa pure ma le pesce.

LISA: Pure voe nun comportate gnente, '1 monno in òje adè ac-così, cara. Mica aripò dà arrèto, sapè. Mica adè più '1 tempo de quanno annaomo al laco noe a metta la cànepe* che le no-stre ginitore ce faciono fa ' '1 bagno col busto e '1 sottanèllo! Nun vedete? Èsso pure le prete vanno al laco, se mettono in mutannine, pijono '1 sole e s'appozzono.

GELSA: Fanno 'na braura! Ah sì eh! Mìstocono '1 Signore col diaolo! Ah ve sa 'na bellezza ma voe, ché? 'L Signore col diao-lo! Tutte qui donne stratate* a pansa per l'aria e '1 prete mellì a fa ' '1 cioettòtto. Sfilarèbbe 'n passone, me porte la Madonna, cor ogne passonata, m'avarèbbe d'arimanè su le mano 'n ful-minante!

LISA: Gnente de male c'è, si volemo propio dilla come va ditta! Un prete adè 'n cristiano qualsie, e quanno che fa ' '1 su' doere, do' và và e nun c'è da buttaje là 'na piòtta*!

GELSA: 'L prete ha da fa ' '1 prete, nò '1 cioettòtto iò pel laco! LISA: E che ve credete ch'adè la gunnella che lo fa ' dientà prete?

Sónno le fine bòne, cocca mia, nò la gunnella! De prima la moda adèra 'n antro modo. Èsso '1 monno adè trauzzolato pe' 'sto verso, e lóro 'nco' mica pònno annà all'andirèto! Nache vajono do' va '1 monno e abbasta. Si ce pensate bene, poarine, de prima addaero che tribbolaono gran tanto. Al mese d'ago-sto, fateve conto, co' qui tamante* gunnellone nere e le mu-

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tanne de pelosetto, le faciono sdimogna* come 'na busciga de strutto!

GELSA: Ansomma che me dite me dite, 'sto lacaccio* adè ri-dutto 'na vitamara*. Co' tutte 'sti donnacce che vanno al ca-ne, un cristiano che volesse sta' un pelo su la sua, adè connutto a nun annacce più. Chi c'è c'è, do' v'aggirate s'abbraccioco-no, e s'amboccono come le piccione, te potesse pijaje un prèmoto* a falle urlà come 'na lumaca da porcaro! Dice che da mellà al Piommino anfinanta a cà al Grancaro, ce sónno le cristiane abbarcarate fitte fitte su la rena, che si v'occurrisse d 'annà a fa ' 'n'angozzata d'acqua pe' 'n bisogno de male, ve toccarèbbe de morì stinchita perchè nun ve dà l'anama de furà!

LISA: Fanno le bagne e pijono '1 sole pe' mettello là pel vèrno, ete capito, chè le dottore dicono che fa gran bene. L'ammala-tìe, loedé, quanno ete mesto via parecchio sole, nun arradoco-no perchè '1 sole le fa mori prima de nascia. 'L sole adè 'na robba forte tanto, cara, nun sentite le còce? E còce da lue, mi-ca jé butta là gnuno le frasche pe' fallo affiarà, sapé! E manco gnuno l'attizza!

GELSA: Mo ma però voe m'ete da dì come fanno a mettello là pel verno. Mica adè grano che le mettete ma 'n sacco o ma 'na balla osia ma 'na pajariccia* e sta férmo mellì. 'L sole fugge, adè come '1 fiato, loedé, che anfinanta che l'ariccojete co' la bocca ve se fa arriccòja, ma si volete mettello là pe' facce 'na proisione*, come fate a chiappallo?

LISA: Eppure le dottore dicono che la vita lo pija e lo tartiene! GELSA: Doe, ma la saccoccia? E pòro sale! Sa che dico: pure

voe parete 'na donna tanto scòrta*, anvece me pare da veda che ve perdete ma 'n'arca* de pane! Si le pijate tanto de sole tutt 'una botta, v'allucca, cara, nò! Ve darèbbe ragione si me dicessara de pijallo 'n pelo al giorno, ma però tutte le giorne e pure al verno. Loedé quanno sfiaccuala la tramontana '1 mese de gennaro, che a la mattina lèa quel bel sole rosso come 'n terollo* d 'òo e le cannaèlle scrèciolono* dal gelo, jé dicarèbbe:

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ancagno* de sta' appiccicate mal calorifoco, perché nun dan-nate èsso a pija '1 sole iò a Piommino?

LISA: Le discurse smanecate l'ete da fa ' tutte voe. Co' voe gnu-no arèbbe da fa' più gnente, manco laasse. A sta' a sentì ma voe le gente s'arèbbono da laà ma le borgone* d'acqua, iò pe' le fosse, all'anguattone, e abbisognanno a fassc pizzicà da che vipra. Còcca mia, 'sti giorne le disse pure Maiche, quello che fa le squizze ma la telisione. Dice: mo annaremo al mare a spuzzolisse eh'a quanta che semo mecchì a fatigà!

GELSA: Eh sì! Quello 'nco' le fatighe le fa tutte lue. Doppo dit-te qui zazzanate*, 'n ete visto come currono tutte co' lo sciuga-toro a sciuttaje M sudore? E pòe che squizze fa, un colpo jé pi-je, che sta bello aricoarato mall'asciutto...

LISA: Madonna, 'n ete capito, le squizze sarèbbono quelle de quanno fa l 'addimannante. Presempio quanno dimanna: quanno l'ha fatta Giggetto l'ultama pompatura al Montaro-ne? Si azzeccono a risponneje allora vòle di che lo squizzo l 'hanno andoinato.

GELSA: Voe annate direto ma le squizze de quel bròccolo ch'al-meno v'ampuzzolite bene bene. Sarà nache trenta o quaranten-ne ch'adè mellì che squizza come 'na mela màghene e anco' ce le tièngono. Si lue ma però ìa da magnà co' mi, vedioto voe che le dente a quest'ora ìono fatto la rùzzene come un lastrello agginato là pe' la vigna!

LISA: Èsso vanno tutte in fèrre e currono al laco e al mare a fa ' le bagne. Dice pure Andreotte ce va, ch'adè bello stracco.

GELSA: Stracca avarà la lengua che jé toccarà ariferralla a forsa de ciancià*.

LISA: E pure '1 presidente de la Reprubbaca. GELSA: Potarèbbe sta' min casa 'sto vecchio all'iluja più de mi,

ch'adà '1 fiato pe' campà 'n antr 'ora e cerca sempre la morte come le serpe vecchie.

LISA: E pure Berlinguè. Dice che '1 partito jà cucito tamanto par

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de mutanne pe' fa ' '1 bagno co' 'na pezza de ràdaca d'aricrea-popolo.

GELSA: O jé l 'arà cucite lue le mutanne mal partito? Imbè tutte al laco, tutte al mare. E noe a laorà pe' faje leà tutte le sfrenate vòje. Che te pija 'n colpo che monnaccio de vagabonne s'è ari-dutto!

LISA: Le sapete, mettono là '1 sole pel verno. GELSA: E sì nònne, pe' scallà la poltrona sinnò jé se jaccia e jé

viengono le gelone ma le chiappe del culo. Sa che dico: le so-cialiste ce vanno?

LISA: E sache fa ' , nun ciànno d'anna!? GELSA: Ema lóro del sole che se 'n hanno da fa ' . Ce l 'hanno

tanto del suo, appiccicato ma la bandiera. Ma però a quantà ch'adè mellì, pare 'na pizza senza lièoto che nun s'alsa e nun cala, nache jé presa che paralese!

LISA: Quanto ciannarèbbe pur io, còcche mie, a fa ' 'n po' ba-gne! Altro ch'a sta' mecchì a fa' le tattamèlle*...

GELSA: E sì nònne. Currite voe sinnò v'agginono*. Annateje a porgia aggiuto, che sinnò l 'acqua del laco, ch'adè acqua che se bèe, come fa si 'n ciannate pure voe a facce 'na pisciata? Me porte la Madonna, quanno ch'adè la sera, si de tre quarte d'ac-qua, due nun sónno de piscio! E pòe le pescatore sfròciono perché dice che jé mòrgono le pesce. Nache anco' 'n hanno ca-pito che le pesce morgono perchè '1 laco adè ridutto più piscio che acqua!

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L BALLO DE LE STUDIENTE

ROSA: Dice: nonna, me ce portate sabboto a balla'? Dico: fatte-ce porta' da la tu' mate! Dice: la mi' mate nun ce pòle veni', ha ditto si me ce portate voe. Dico: imbè, va bene, te ce portarò io, abbasta che la fae funita! Dice: pure voe nun ve moete mae, almeno 'na volta potarete di' d'aè visto '1 ballo de le stu-diente! Dice: voe state a seda ma la sièda e zitta, guardate co-me fanno l'altre e basta. Insomma pe' fa ' '1 discurso curto, sabboto a otto, se cambiassomo e annassomo!

MARIA: Ciannasoto?! ROSA: E sì, nònne! MARIA: Vestita attosì, co' le gunnelle e la polacca? ROSA: E allora! Io sarò stata la mejo vestita, voe ve credete che

l'altre adèrono vestite mejo de mi? Eh, poaretta! Tutte pèjo! Ce fu un giuenotto che me chiese si jé vennìo la gunnella...

MARIA: E che se n'ìa da fa '? Ce s'ìa da mascara'? ROSA: Ma lìa da metta pe' mutaccese, no pe mascaraccese... MARIA: Io resto de sale a senti' di' 'sti cose! ROSA: E allora 'n antro me disse si jé vennio le pennènte! MARIA: E che se n'ìa da fa ' , l'ìa d'arigala' ma la regazza? ROSA: Ma l'ìa da metta per lui, no arigalalle ma la regazza! MARIA: Stasera mesà che voe sete ambriaca! ROSA: Ma nun sò ambriaca, nò! Esso nu' le sapete che pure

l 'òmmene se vestono da donna? Adè la moda. Anze vinne là uno co' tamanto blusòvere* che parìa 'na riggina, co' 'na bar-ba come la ferrana, me se mese a seda su le ginocchia e me dis-se: "Nu aete paura, nonnetta, che io tanto sò come voe!". Al-lora io jé fece: "Spieghete mèjo che nun te capiscio!". Allora

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lue: "Nun me guardate ma la barba che da omo ciò solo che la barba, pe' lo resto sò come voe".

MARIA: E voe? ROSA: Io lo lassétte sta' tanto pesa' nun me pesàa. Ma quanno

comenciètte a strefola' forte '1 culo su le mi' ginocchia: "Ahó, - jé disse - o chiappe via o te còrso* 'n orecchio!". Allora l 'omo se rizzétte su e fuggì come '1 vento!

MARIA: E sa' che dico: ma ma' st'òmo jé s'era svelta la rosùra*? ROSA: Nu' lo sapete? Dice ch'adè 'no scherzo de natura! MARIA: E che te pija 'n colpo, e que addaero nu' le sapio che

pure mall'òmmene jé rode la natura... ROSA: E mica ma lue solo, sapé, sa' quante ce n'erono a quello

modo: menze! MARIA: Madonna mia addolorata, che me dicéte! Ma èsso aric-

contateme 'n po' de 'sto ballo. Chi c'era a sona', '1 Vergaro coll'orghenetto?

ROSA: E me parete '1 Vergaro! Èsso mica ballono più col sono sapé! Noe, cara, semo arimasse addietro! 'L monno adè muta-to, nun adè più come a le tempe nostre! Èsso '1 sono nun va più. Al posto de le sonatore ce sónno le maghiniste, co' certe maghenarie che fanno un rimore anguastito. E la giuentù balla co' qui rimore!

MARIA: Ma voe mesà che stasera ete beuto addaero! ROSA: E me parete ho beuto! Si ve dico che ballono col rimore,

adè segno ch'adè vero, mica sto mecchì p'ariccontavve le parabbele*!

MARIA: E allora... ariccontate 'n po ' . . . ROSA: Un rimore, còcca mia, che ve percòte '1 ciaraèllo* come

quanno ve dassono le bastonate ma le tempie! E più '1 rimore adè forte e più ballono contente. Perchè dicono che '1 cristiano pe' balla' mejo ha da dièssa antontolito*, sinnò che gusto c'è?

MARIA: Sentite 'n po' , regà, a senti' di' sti cose me jéne lo sbat-temento ma la pansa!

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ROSA: Lo sbattemento jène ma lóro, nò ma voe, poarine! MARIA: Ariccontate che io so' gran curriosa de sapé! ROSA: Fate conto che voe potete discurra co' 'n antro anfinan-

ta* che 'n attacca 'sto rimore, come mettono avante, dimo, 'sto maghenario, voe nun potete discurra più.

MARIA: Perché, adè proebbito? ROSA: Macché proebbito! Ma voe ve sgarganellate e '1 rimore

v'ammanta* la voce che pare da dièssa su mal mulino de le Gerlene, e nun ve dà l 'anama da discurra manco col diaolo, cocca mia! Le bottije de dabbéa, loedè, su qui taolinetti, stol-sono come si essono le fantiiole, e la capoccia, si nun atturate forte l'orecchia, ve pija de cerquone*! Nun ete visto che pure l'arco de la Portelborgo se sta a scarca'?

MARIA: E diteme 'n po': 'sti maghiniste? ROSA: 'Sti maghiniste me pare ch'aderono quattro. Due cà di-

nante che spizzicaono un ghiàccolo* anchiodato su un orde-gno ch'adà la fazione de 'na battellonta*. Ma col manoco lon-go, eh! Un manoco longo un brao metro e menzo, che ve cre-dete! Uno de 'sti due adèra alto, adìa le calzone de pelosetto bianche e la camicia bianca col merletto iò da piede, come la cotta del sagrestano. Quell'altro adèra vestito da craparo*, adia le gammale* e un par de coscialette senza pelo, la giubba rossa e 'na fascia bianca ma la vita cò' tutte stelle che jé scalu-taono.

MARIA: E 'sti due, vojo dì, che facìono? ROSA: Ve l 'ho ditto: spizzicaono quel ghiàccolo anchiodato ma

la battellonta. Quello, dimo, vestito da craparo, facìa 'I verso del gatto - ete anteso '1 gatto quanno s'ànarbala* che cià '1 cane direto? - imbè a quel mò: gnàooo, f f f fu! Quell'altro, anvece, facìa '1 verso de la troia quanno va al guerro, ch'ampiascia*...

MARIA: E quell'altre due? ROSA: Quell'altre due? Quello a mancina, donqua, adèra direto

a un maghenario, fateve conto come la maghinetta del gran-

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turco, de qui maghinette, ete capito, che eia pure '1 pòro ma-stro Peppe quanno venia mal vecenato a smaghinetta', v'ari-cordate?

MARIA: E nun m'ho d'aricorda'?! ROSA: Imbè a quel mò! Allora l 'omo amboccàa le tutere ma la

bocchetta, le tutere quanno riaono iò drento, chisà come fus-se, faciono sguercia'*, fate conto, come un branco de porchet-te quanno le grasta '1 grastino. Le sguèrcie, si éssara anteso, forte, allora si che amboccàa accuttomito. 'L sudore, Maria cara, nun ve dico bucìa, parìa che Tèssono appozzato ma la fontana de Cunicchio! MARIA: Voe stasera me fate rida senza voia... ROSA: Doppo mellà dirèto - quello poe nun me va via da la mente - c'era uno co' le capelle come 'na vitabbiara, Tocchie come le melanguele*, cor un curriato su le mano, che dàa de tutto colpo ma un bigonzo bianco capoculato*, e pòe man du' fregne tonne ch'adìono la fazzione de la seta de la farina, e quanno s'era ancamato* de dà mellì, percotìa 'na chièlla, de qui chièlle de ramo che ce se fanno le pizze de Pasqua, ete capi-to, che le scoppie, diocioguarde, parìa ancancarito! Loedé, aecce un ordegno a quel mò pe' fa ' cala' le sciame de lape al mese de maggio, nun ce sarèbbe stato manco bisogno de dije "atterra maestra*"!

MARIA: Ma io vojo sapé de le ballarine... ROSA: Le ballarine mica adanno '1 còppio, sapé, come ce l'ìomo

noe. Nissuno balla da si, pel conto suo. Scrapiolono scapor-seanno*, spatriate* come le galline là pe la piazza. Donne e òmmene mica ridono mae, sapé: adanno la ciccia mal muso ti-rata come quanno jé Tessono murata co' 'na cucchiarata de calce! Le donne su le guance adanno ampiastrate tutte stelle luccichènte; le gunnèlle, loedè, quanno che ballono, jé s'òpro-no e jé se vede '1 sampo anfinanta all'attaccatura de la coscia e abbisognanno la chiappa del culo 'nco'! L'òmmene, a mòce* ritte, co' le calsone appiccicate ma le gaiette che jé riono sotto

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all'umiccione* e la corvatta* co' un nodo cicìno come 'na ca-cata de pècuara.

MARIA: Me dòle '1 capo a senti' di' tutte 'sti cose! ROSA: Ma voe ve dòle '1 capo? Ma mi me dolìa '1 capo a sta'

mellì férma, a aspetta' quela schifosa che nun gne sapìa mae ora de chiappa' via. Venia là, m'urlàa ma l'orecchia: "nonna, ve sete ancamata*?". " T a n t o " - jarrisponnìo. "Imbè un an-tro ballo eppòe annamo". " F a ' 'n po' tu !" . Allora allora stensono la luce. Me parìa d'èssa all'inferno, Maria cara! Pe' fortuna che la mi' nipote me stàa vecino, m'ìa appojato '1 mu-so ma 'na guancia, pe' famme compagnia, e io daje a strillale: "quanno annamo?". Ma nun m'ariponnìa. S'ariaccese la lu-ce, e, poarina, che m'ìa da risponna! Me troètte a chiacchiarà co' la chiappa del culo de 'na signorina che me Pia appontata mal muso. Allora tiro fora '1 fazzoletto, me puliscio '1 muso, me rizzo anfojata, pijo su verso le maghiniste, tròo ma lièe. Dice: èsso annamo, que adè l'ultama sonata.

MARIA: Madonna mia de le Grazie! ROSA: Mo state a senti' l 'ultama sonata. L'ultama sonata fece '1

rimore come si diece trebbie éssono laorato tutt'assieme su l'ara. Quelle co' le battellonte, ancagno* de spizzica' come pri-ma, chiappaono a manciata qui ghiàccuele, che parìa che an-nassono al guerro tutte le troje de Brenciaja e tutte le cane del monno a canizza direto a le gatte. Quello che maghinava '1 granturco mese iò l'ultimo capagno de tutere tutte assieme, che qui porchette ió drento, le sguèrcie, parìa che Paffucasso-no mall'acqua bollita!

MARIA: E quello col curriàto? KOS/4: Quello col curriato, credete, nun tròo parole p'ariccon-

tavvolo! Cor ogne scoppio su quele sete, su quel bigonzo bian-co e su qui chièlle che s'alsaono per aria le fumajòle bianche come là pe' Santammaria quanno fa temporale. Si èssara vi-sto, pe' daje forte jé s'erono sfodarate pure le pelpétre* dcll'occhie; la lengua, pe' sta' co' la bocca uperta, ija fatto le

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grette fonne come la terra pulcina al mese d'agosto, e le capelle jé s'erono allappate come si esse trauzzolato un giorno sano là pe' 'n tersale. Quanno propio nun gne la cavàa più, jé s'affac-ciètte '1 garganello ma la bocca, e urlètte come 'n disperato: "Abbastaaaa!!!" . Allora se viste tamanta sfiaccolata de fòco e '1 rimore, siddiole, funi!

MARIA: Santa Barbara benedetta! ROSA: Io vinne a casa laccheanno*, Maria cara, col collo

arimbertollato* come 'n torcicollo. Le sapete do' cominciètte a ripija' 'n pelinello? Là a la costa de Picchio. Viste sbalena' la buca de la strega e ma la mi' nipote jé disse: "Ma dimme 'n po': che c'è cascato che tròno* addosso?". "No, semo state al ballo, nun v'aricordate?". "Ah , imbè, me credìo! E meno ma-le! Allora, Signore v'aringrazzio accosì!".

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L TALEFONO

ALGISA: Le còmede se pagono care, ma però in òie là per casa quanno c'è la tilisione, '1 calorifoco* e '1 talefono, se pò di' che c'è nicosa. Poe se pagono care quanno se fanno, doppo fatte nun sò più care.

LUCIA: Valtre, le sò, le potete fà che le quatrine le pijate a brac-ciate; co' quattro mesate che ve drentono, potete fa' pure l'arèo*...

ALGISA: Voe 'nco' patite d'anguidia? Le mesate le pijamo e se le godemo e man chi jé squizzono le propille*, speramo che jé squizzaranno pure le budella!

GAETANO: (marito dell'Algisa) Aricomencia a fa ' la pallonai! ALGISA: Ah certo che co' la pensioncèlla vostra '1 talefono nun

se potìa metta. Pensioncèlla da porcaro... GAETANO: E le veggo co' la tua che sollazzo. Pensione d'am-

piagata grassa... ALGISA: Imbè io mica dico che... GAETANO: Che diche diche... fae sempre rida le gente e nun te

n'avvede,loè. GIUSEPPA: Ma '1 talefono ve l 'hanno attaccato? Nòòò! ALGISA: Da mo! Da mo che ce discurro. LUCIA: Algì, quanno adèroto gioene, allora ve ce volia un bel

talefono, loedè. Mo che sete vecchia che ve no fate?! ALGISA: Mo che sò vecchia, pe' divve, me serve più de quanno

adèro gioene: nun fusse mae, uno se sente male, nun fa né pò-sta e né tócca, chiappe e chiama '1 mèdoco.

GIUSEPPA: Certo ce fusse stato da giuinette pe' parlà col re-gazzo ch'adèra a garzone lontano... ché Algì?

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GINO: (marito della Giuseppa, uomo geloso della moglie nono-stante gli oltre settantanni, nervoso ed iroso) Te ce volìa sì '1 talefono ma ti...

GIUSEPPA: Imbè che volete? Chè v'ho azzecco? GINO: Vede de rammentà '1 tempo passato... GIUSEPPA: Che ve s'allegono le dente? GINO: Sinnò l'ha fatte poche, brutta svergognata! L'ha fatte

chiacchiarà poco le gente benanche senza '1 talefono... GIUSEPPA: Pe' èssa 'n pelo vanosa... GINO: Nò vanosa, 'na vera cane, nò vanosa! GIUSEPPA: Bell'e vecchio le sentite? Adè geloso... GINO: Si tu c'esse uto '1 talefono 'nco', poarino a mi: io a parà

le pecuere e tu a talefenà ma le bertone*. ALGISA: Regà, mica ve mettarete a quistionà mecchì? GINO: Nòòò! Sapé quant'è mèjo a fa a schiaffe co' le spaccal-

locchie* che discurra co' lièe! GIUSEPPA: Doppo ch'ho passato tutta la vita aggadiata tra le

miserie, te ce sente pure da de rimpinsione*. 'Sto malcreato, cifro*, beccamorto!

LUCIA: Regà, cambiamo discurso. Diteme 'n po', Algì, voe che c'ete '1 fijo ch'è stato pure in Ameraca coll'arèo, 'sta carta am-piccata mesti mal muro, che sarèbbe?

ALGISA: Que? Que adè la carta giografaca: 'sto stiale adè l'Ita-lia, sto tre piede la Cecilia, questa turchina adè tutt 'acqua...

LUCIA: E chè ce piòe? ALGISA: Possibbele che nun capite mae: sarèbbe l'acqua del

mare... LUCIA: Ah, imbè! E diteme 'n po': le Coste do' sónno? ALGISA: Le Coste nu le segna. LUCIA: Madonna, mica adanno le vèrmene che l'ha da segnà. ALGISA: Che c'entra le vèrmene. Nu le segna perché la carta se-

gna solo le città e le paese grosse, mica po' segnà le Coste!

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LUCIA: Imbè sò cicine le Coste? Sò tanto grosse! Comenciono, se pò di' su da Martello e funisciono iò da Martino. Doppo da su a le Batane anfinanta a Cunicchio. Donqua mica sò tanto tanto cicine...

(Squilla il telefono. Si fa silenzio dopo un sobbalzo collettivo. L Algisa corre emozionata all'apparecchio, alza la cornetta, la porta all'orecchio nel modo sbagliato. Si impappina, chiede aiuto al marito).

ALGISA: Venite 'n po' cà voe che io n'accapezzo gnente. GAETANO: Do' ho da veni, io sò sordo nu le sae? Ma chi adè? ALGISA: Ma che ne sò! Se sente scarambussolà*. Zitte 'n po'!

Pronto!. . . Come?... Pronto! Sì... sò la su mate... Nòòò lue nun c'è, è al laoro... La moje'nco' nun c'è: è ita al mercato... E ho capito!... Si le volete lassà ditto mammì... Come?.. Nun capiscio... Un presciutto? Man chi l'arèbbe da manna?.. . Ah, sì... sì, quanno? Sì, ce l'emo. Ce l'emo due sole... Come?... Nun tanto grosse che '1 porco adèra 'na cótaca*. Sì, sì... m'ari-cordo avoja: l'assessore. E come fò a scordamme... du' pre-sciutte, va bene! Come? Pure du' lonsine. Ce n'emo due sole, ma nun tanto grosse che, come v'ho ditto, '1 porco adèra na cótaca... Come dite?... Mal segretario dell'assessore?... Va bene... donqua du' lonsine... sì ho capito. Come?... na corona de ròcchie* 'nco'?. . . Man chi? Ah, ho capito., man quell'altro segretario... va bene, quanno jène jé lo dico... ma però le ròc-chie mica ce l'emo più, sapé... l'ulteme l'emo butte ché s'ero-no arrancechite*. State a sentì: voe talefenate stasera quanno c'è '1 fijo, adè mejo, che io doppo m'esse da scordà, casanno mae lue ve l'arimediarà... Quanno iène? Sull'ambruzzolì. Siò, va bene. Ce vedemo siddiòle! (Il marito durante tutta la tele-fonata porge attenzione al colloquio e gesticola con evidente dissenso quando sente parlare di prosciutti e lonsine e salcicce da regalare).

GAETANO: Poarette a noe, come annaremo a funi, da quanno c'è 'sto talefono, nun s'allestisce più un capo de robba...

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GIUSEPPA: Le sapete che ce parlate bene a quel dio col talefo-no? Manco ve ce stimào!

ALGISA: Se fa presto a amparà, mica ce vòle talento, sapé. Ma dicesse Gaetano mio, da quanno c'è 'sto talefenaccio nun s'al-lestisce più un capo de robba. Veggarete da 'n giorno a 'n an-tro la pèrtaca de la ciccia le traluce!

GINO: Voe amparate: quanno sbronzina* nu arisponnete e sete a posto.

ALGISA: Ah, dionoguarde, doppo Gesesio m'ammazza! Figu-rateve che me dice sempre de nun scappi mae la porta de casa, che doppo si chiamono e gnuno arisponne, accapace che jé fanno contrainzione 'nco' . Da quanno c'è 'sto talefenaccio nun cavo più un òo che nun me da più l 'anama d'annà a guer-nà le galline. 'L porco urla mall'arèllo che pare guasto, nun magna più. Che giorno o 'n antro sfascia e fugge.

LUCIA: Chi jé fa, tanto come ho 'nteso, '1 porco 'nco' ve l'an-gollisce* '1 talefono; donqua o scappa o resta mall'arèllo, per voe adè quella propio... (Squilla di nuovo il telefono)

GAETANO: Arivia! ALGISA: Pronto!.. . Genè, caro, se' tu? Sì, hanno telefenato...

Un omo co' 'na voce arrogata... Sì... ma però stamme a sentì... Chè? Come? Nò nò! Iò parlato accostumata... Sì... Un presciutto, du' lonsine e 'na corona de ròcchie... Genè, angua-stiscele che bocca... Si durono accosì, magnono pure la pèrta-ca.. Nò, accosì nun jé l 'ho ditto! Iò ditto che le rocchie ce se sò arrancechite... Imbè, oh, crompejele su da la Zicchitèlla... E ce fae pure le spese? Sì... imbè ho capito... t 'alzono la mesata. La mesata sì, ma la pertaca pirla*. Fa 'n po' tu.. . Èsso? Volìo annà a guernà '1 porco. Allora nun me mòo, va bene. Va bene... nun me mòo t 'ho ditto. Sine! Sine! Ciao sa!

LUCIA: Adèra Genesio vostro? ALGISA: Sì, Genesio... GAETANO: Che volìa? ALGISA: Volìa sapé si qui gente ìono telefenato. Poe ha lasso 40

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ditto che nun m'ho da mòa che mo talefonono quell'altre. Zit-te 'n po': sentite '1 porco l'urla, poarino. Annatece voe a daje 'n guernetto de granturco, e 'na manciata de biada ma le galli-ne. Oie nun s'aricava manco 'n òo. Poarine, fanno '1 diggiuno de la menzanotte.

GAETANO: Vacce tu, che ma mi me dole 'sta cianca, vòle di che si '1 talefono sguilla arisponno io!

ALGISA: Voe nun sete bòno a parlacce, l'ete ditto da voe che se-te sordo... (Squilla di nuovo il telefono) Né poco che nun me sò mossa, (corre all'apparecchio) Pronto! Chi adè? O Mari, sé tu? Come stae, fija mia?

GAETANO: Chi adè la Maria nostra? ALGISA: Si!... Come? No! Arisponnìo mal tu' paté che volia

sapé chi adèra! Noe starno bene... sì... '1 fijo come sta? Arin-graziamo Dio, mo l'arà sfangata. Come?... speramo fija.. . e che vorreste fa ' . . . . Chi? Pietro? Passa capo opraio?... Sè, brao Pietro! Ma io l 'ho ditto sempre ch'adà la mente bona.. . Chè?... Come?... Com'ha ' ditto? Urla che nun sento!... Un chè? Un presciutto? Eh, còcca mia, ce vorrèbbe che '1 porco esse vente zampe. Èsso a poco hanno talefenato quele gente ch'arèbbono da veni a pija du' presciutte p'arigalà man quelle ch'hanno alzato la mesata mal tu' frate Genesio. Come? Cara, le lonsine 'nco'! E pure le rocchie! La pertaca adè bella e sciobbecata. Cara, jène su da ti! Parlece da ti co' la Zicchitèl-la, lièe... le sae, ce l 'ha sempre fresche! Si!... No, noe nun se moemo... nun potemo scappà che come scappamo, sguilla*... Sì, t 'aspettamo... e allora, ciao sà!

GAETANO: Pure lièe volia '1 presciutto... ALGISA: Sì, p'arigalà mal direttore ch'ha fatto passà grado ma

Pietro... GAETANO: A momente veggarae si sto filo lo sdronco! Tócca

sta' sempre annocellite* p'arisponna man tutte quelle che vòn-no '1 presciutto. Ma chè la casa nostra è diènta la bottega de la Zicchitèlla?

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ALGISA: Sarà '1 marito de la vostra fija, mica 'no starniero! Voe 'nco' nun sopportate gnente. Chiede che cosa p'arigalà, mica pe' buttà. 'N ete anteso? 'L marito adè diènto capo opraio.

GAETANO: Ma la mesata mica l'ariscòto io! 'L mese passato jé daste le quatrine pe' fa ' la maghina, pe' Natale jé faceste la pelliccia de montone, èsso '1 presciutto. Si m'anfojo fò '1 diao-lo 'sta volta!

ALGISA: Voe accalmateve ché de sti cose me n'occùpo da mi! Poe mo, pija la magana e jéne su da si, cosi discurrimo mejo a voce...

GAETANO: Che te potesse spòja da 'n colpo man chi ha am-mentato sto... st'orloggio parlante. Se stàa min casa tanto ar-posate, da quanno c'è sta testeriera d'orghenetto, nun se' cam-pa più! Poe ce fusse uno che talefena pe' datte che cosa: tutte chiedono, tutte vònno, chièdete un colpo!

LUCIA: Scusateme tanto, Algì, tutte le torte nun gne se pònno dà mal vostro marito! Adèra 'n omo tanto pacioso*, nun vede-te com'è diènto?

ALGISA: (nervosa) Com'è diènto è diènto! LUCIA: Mica v'ho azzecco, scusateme tanto! ALGISA: Ma nun me pilotiate, vedé, pure voe. Che co' 'sto tale-

fenaccio nun me dà più l 'anama manco d'annà a fa' un biso-gno, ciò '1 corpo che me punciaca, l 'ho tosto come 'na barloz-za! Robba che si crepo fò sbracà la casa!

GIUSEPPA: Tante còmede in òio, ma però noe vecchie nu' le comportamo. Le giòene le comportono di più, ma anfinanta che sò giòene. Ma pure lóro nun vedete che a trent'anne aggià nun ciànno più la forza pe' scarcà 'n acciòlo*?! Tutte le cose del monno adanno 'na parte bòna e una gattìa. E più se va avante co' le sgupèrte, me pare da veda, e più le male s'apprò-mono*, specie '1 mal nerbino* ch'adè-'l pejo de tutte le male: ciàe tutto e pare che te manca nnicòsa.

GINO: Io l 'ho mesta là ma la tilisione: che giorno o l'altro pijo 42

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l'accetta '1 pezzo più grosso un fulminante*. La tilisione? Pe' scòta le nerbe adè pèjo del talefono.

LUCIA: Ete anteso come dicono? "Quando i molini erano bian-chi".

GINO: Sì nònne! Pe' venna qui scatele dicono che le muline adè-rono bianche! Pare che esso sò verde le muline! E si che le pómpono col ramato. Ma io dico accosì daero '1 diaolo le ten-ta! Che te potesse spojette da un trono e dico poco. Le muline 'na volta addaero adèrono nere come la fulina; specie al verno, che teniono '1 foco acceso e '1 fumé parìa 'na golpàra*: de tre parte una scappàa dal cammino e due arimaniono.

LUCIA: E allora quela vecchiaccia più de mi, che porta '1 caffè man quell'omo con qui moce? Che te pija 'na disipara*. Dice: "bèe che que adè quello bòno"! "Ma sè sicura?", arisponne lue. "Eh, gocce, ariplìca lièe, nun vegghe?" Allora lue chiappe e bèe senza guarda si adè veleno o altro. Manco jé rio mal garganello che fà: "bòno. bòno, più le manne iò e più te le tira su".. .

GINO: Pòro stupoto: tu anvecchiete che veggaràe che le tira su '1 caffè! (Squilla ancora il telefono. L Algisa, che ha preparato il sec-chio per andara dal maiale, lo posa immediatamente e corre affannata all'apparecchio).

ALGISA: Pronto!.. . Chi sete... Come? Quello de le pompe... GAETANO: Dije che la pompa ce l 'ho, l 'ho fatta nòa là da le

Sammistrà e va ch'adè 'n gioiello! ALGISA: 'L mi' marito la pompa ce l'ha. La fece nòa an passa-

to. Nun ha bisogno de gnuna pompa. Nò... nò... Nòne! Voe mesà ch'ete sbajato nummoro, noe n'emo chiesto pompe ma gnuno. Come?... Nun capiscio!... Spiegateve mejo... Imbè... Allora... Min casa mia? 'L morto? ! Mesà che voe sete matto.. . min casa mia nun c'è morto, in grazia di Dio starno tutte bene. Nò! Mettetevece voe ma la cassa... noe anco' nun emo biso-gno. Sarà 'n antro Stefanone... '1 mi' marito adè vio e verde e èsso a poco ha magnato un merluzzo come 'na scòtala* e ha

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beuto 'na panatella de' vino... Esso ve ce fò parlà. (Rivolta al marito) Venite 'n po' a dije che nun semo noe quelle ch'hanno ordenato la cassa da morto! Sónno quelle de le pompe funere... sò 'n Dio come se chiamono...

GAETANO: (Agguanta la cornetta) Uhhhrhr (erutta) Pijate-vela 'n der sacco! (Poggia la cornetta sull'apparecchio e torna a sedere intorno al tavolino).

ALGISA: Mica s 'offènnono accosì le gente! De lo resto mica v'hanno ammazzato! Cercaono un morto p'ancassà!

GAETANO: E le viengono a cercà min casa mia? È vero che se-mo du' vecchie camarrone, ma che t 'hanno da veni a cantà min casa come le cioette, pòe nò! Che te pije 'n colpo mal tale-fono e chi l'ha ammentato!

GIUSEPPA: Sarà stato Buzzino, chi volete che sie. Aspetta che le gente mòrgono pe' guadambià che cosa. Si gnuno morisse mae, poarino, morgarèbbe de fame! Come dice: la morte de le pècuere, la salute de le cane!

ALGISA: Entramente* '1 porco strilla e '1 cucchetto* anco' -è mecchì! Te pija 'na paralese ma le pompe 'nco'! E chisà pòe perchè le chiamono "le pompe".

GAETANO: Pe' pompà le quatrine ma le cristiane! In òie nun vegghe che quanno uno mòre, co' 'sti pompe t'asciuttono '1 portafojo! Te mettono cannella ma le quatrine e anfinanta che nun l 'hanno sugate tutte, la pompa nu' la staccono?

LUCIA: E io arèbbe da tenè min casa mia sto brunzino ch'a le due a le tre sona pe' datte 'sti belle nòe! Tò! Datte ma le cane!

GINO: Ce vòle pacenzia, fija. Que anco' 'n è gnente! Dicia la maestra che mo ammentono un talefono che voe vedete pure la persona che ce discurrite. Quanno dite "p ron to" , v'apparisce dinante '1 cristiano che ve parla. Così come 'n fantasomo* e avoja a cacciallo: quello ve se ficca min casa e nun ve fugge manco si le pijate a zampate ma le gaiette... Famo conto, èsso a poco v'ha talefenato quello de le casse da morto, nò? Imbè co' 'sto talefono nòo che ve dico, lo vedìoto mesti dinante al

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taolino co' la cassa da morto e nicosa... ALGISA: Gesù Giuseppe Maria! (Fa il nome del padre). LUCIA: Allora volemo dì che si talefana 'no sgrasciatore col

riòlvere su le mano, voe nu' le potete caccià? Io chiudarèbbe bene la porta...

GINO: E come fate a parallo: quello passa dal filo, mica da la porta.. .

LUCIA: E si talefana uno che quanno parla spallina*, volemo dì che state mellì férmo a favve mascarà '1 muso de bava...

GINO: Pe' forza! Perchè allora èsso si ve parla uno che jé puzza '1 fiato, parlanno co' poco rispetto, voe nun sentite le fiatate? Chi le para le fiatate? Gnuno, passono mal filo!

ALGISA: Que 'n è vero! GINO: Le dite voe che n'è vero, perchè nun ciete mae posto men-

te! Parlate un po' col talefono co' questòro meccassù? Veggo che gnuno ce vòle parlà.

ALGISA: E perchè? GINO: Perché? Quanno che dicono pronto chiappe e riattaccono! ALGISA: Me pare che ma gnuno de questòro jé puzza '1 fiato... GINO: Uh, mica! Quanno ce parlate ancagno d'opri la bocca

pare ch'òprono 'na bombala de gasse... ALGISA: (finalmente trova il tempo per andare dal maiale) Gae-

tà, si esse da talefenà cheduno, chiamateme, m'ariccommanno... GAETANO: Fa presto, nun te metta a la balocca, sa... ALGISA: Fò 'no sbaleno (esce). GAETANO: Bene se stava de prima: '1 talefono nun c'era e se

parlàa a voce, anche da lontano e le fiate gattìe nun s'arispi-raono. C'era la pòra Preta, sie benedetta, che da le Gèe talefe-nàa a voce co' la Podera iò a Cunnicchio, ch'adèra 'n amore!

GIUSEPPA: Allora '1 pòro Crociano? Da sott 'all 'ombra della agace dinante casa, stava a la balocca col pòro Barlozzo che scacchiava al Montarone!

GINO: E Pietro de Morano iò al laco?! S'ampostava su la riva 45

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p'aspettà la talefenata de Canòrbia ch'adèra a pescà su pe' la conca del Lavannaro. Badate ch'è lontano! "Pietro - jurlàa -minestrate la sbròscia* che èsteme!" Quelle sì ch'adèrono tale-fene bòne, senza file e senza spenna manco 'n baòcco!

GAETANO: Ma le gente de prima adìono la voce aribbusta per-ché beìono '1 vino. Èsso beono la cocacola e adanno la voce come 'n fifì*!

ALGISA: (Torna trafelata dal maiale. Posa il secchio) Ha tale-fenato gnuno?

GAETANO: Nò! Grazziaddio, nò! ALGISA: Chisà quela fijaccia, ìa talefenato che venia co' la ma-

gana e anco' 'n se vede... Mica jé sarà soccesso che cosa... GAETANO: Agarbo!

(Squilla il telefono) ALGISA: Pronto! Chi adè? No., mesà ch'ete sbajato nummoro... GAETANO: Ariadè quello de le pompe?

(L'Algisa fa nò con la testa e prosegue la conversazione) ALGISA: Questa adè la casa de Gagliardo Gaetano nò de Strap-

pafelce Nicola. Nicola sta su sopra a Cunicchio... Nò, '1 num-moro nu' le sò... ma si ciolete parlà, talefenate stasera che min casa ce troate la moje. Javanzate pure voe le quatrine?... Nu' le sapete? Le miserie se le palléono... Che c'entra sò affare che nun m'ariguardono... Tanto le sanno tutte... Ho capito, voe parlate da Roma e dite bene, ma però, scusateme tanto, l 'omo M talefono mica le pò portà con si iò pel monno! Lue para le pècuere a Grottebbassa e '1 talefono do' l'attacca? Ma le corna del montone?... Come? Perché?... Malducata sarete voe!... E che me frega si sete 'na signora! Mica ce sò venuta rnae a ma-gnà la razzione min casa vostra! Come? Me sciottaressara le cane? Le cane attaccatele ma le minchione del vostro marito. Nòne... Io mica sto a garzone co' voe... Si ve rizzate co' le ner-be, le vorressara fa' scontà mall'altre? Cara e grazzia che v'ho arisposto... Le romane?!... jé le darèbbe io ma le romane!... Magna pane a uffo. . . E sì, nun le vegghe che sollazzo che ce

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date?... Avòja quante ne conòscio... Pallone... bizzeccolone.. annusolone... Poe le donne!... Bòne le donne... ve rizzate a menzoggiorno... co' la fregna bella onta; e annate a tavala a la barba de chi ve fa tròa tutto pronto... Ma va morìmmazzata ma ti e tutta Roma! (Attacca con rabbia la cornetta). S'è fia-rata perché jò ditto che '1 talefono nun s'attacca ma le corna del montone. Paria 'na vipra, te potesse pijaje 'n colpo mal co-re! Sèo, mesà ch'addaero m'è ria 'n 'afata de quela zozzaria che mettono mal muso!

GINO: Ete visto ch'io raggione quanno ve dicìo che la puzza passa mal filo...

LUCIA: Ete fatto bene a risponneje a quel mo' ma quela schifo-sa! Bràa!

GAETANO: Quanno te se mettono a fa' tutta quela zinigogua-la*, nun gne da' udienza: chiappe e attacca!

ALGISA: Veggaràe che lièe nun talefana più, te le dico io. E si ciaripròa la fò su come 'n gauzzolo* de refe...

GAETANO: Le vegghe, si a le volte fusse stata la moje dell'as-sessore ch'ha da alzà la mesata ma Genesio, sa che bellezza!

ALGISA: Da 'na parte magara: almeno arisparambiaressama-ra* qui du' prosciutte e qui du' lonsine*. Ahó, pòe pòe, chi adè adè: quanno te mortificono, 'n hae da fa' l'alòcco, tarpa e 'n haè paura de gnuno. (Squilla il telefono)

ALGISA: Pronto! Mari, arise' tu? Noe pensaomo male ch'anco' nun t'ere vista... Oh, Madonna mia, apposta nun se' venuta... E come è soccesso?... E pija 'n pezzolo e mena come quanno piòe! Mae che 'sto talefenaccio te dasse 'na notizia bòna...

GAETANO: Ma che c'è de nòo? ALGISA: (fa cenno con la mano di non essere interrotta) Sente

donqua ch'ha da fa ' . Ce sò passa col tu paté quanno passètto-no le marocchine. Mette a scallà un pignattèllo d'acqua. Si, sì. Na menza litrata. Mettece du' vaghinèlle de sale, nun troppo sinnò jabbrucia. Quanno bolle... Sì, sì, sì, famme parla nun

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m'ampatassà. Donqua quanno bolle, mette iò la malva. Nò '1 linoro, la malva... doppo... nò... a parte, ma un tegamèllo... Sì, co' 'na pezzetta, bràa... Imbè la bambace sarèbbe mejo... prima ma però falla jaccià bene sinnò jé le lessa... sine... Ma-donna, règuelete!... 'n 'ora 'n 'ora e menza. E le sò... e le sò... Mejo que che 'na disgrazia più grossa. E oh, a scòla ciannarà... Eh?! Piagne sì, poarino. Tu nun t'ancamà de predecaje. Co' quelle più grande nun cià d'annà che le mèrcono, le vegghe?

GAETANO: Ma insomma se pòle sapé ch'è soccesso? ALGISA: (fa ancora cenno con la mano di non essere interrotta) E allora, famme sapé che cosa, sa'. Io aspetto. Esso ciao! (Ri-volta a Gaetano) Possibbele che quanno discurro m'ete sempre d'arrocchià* '1 discurso! Dateme tempo, fateme funi che poe v'aricconto! GAETANO: Mo hae funito, donqua me le diche ch'è soccesso

man quela nocènte? ALGISA: È soccesso che quele birbaccione più granne arianno

mesto la vespa mal cilletto del fijo! Senti ch'è soccesso! GAETANO: Arivia! Guaso che c'ero rio ma però! Te pije 'na

mina tròna! L'hanno preso a bersajo quela pòra nocènte! ALGISA: Tanto a bersajo, poarino! Quell'altra volta jé fecìono

fa Pasqua aricordatora! Stavolta hanno replicato! LUCIA: Voe dicìoto che ce sete passa col vostro marito! Le mar-

rocchine mal vostro marito mica jono mesto gnente mal cilletto! ALGISA: V'ete raggione, jono mesto '1 cilletto mal... Madonna

mia, èsso che me fate dì! Insomma ma lue anco' .le guarì co' la malva.

GAETANO: Èsso valtre annate a tirà fora le cece de Natale. Fa-tala funita!

ALGISA: Dicìa laMaria piagnenno che l 'hanno ruinato... Valtre ridetece. Io nun ce rido per gnente.

GAETANO: Mannaggia al talefono! Si nun c'era, noe nun se sturbaomo, '1 fijo se guarìa da si e noe nun sapiomo gnente! E adèra mejo! 48

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L'ORGHENETTO

Si tu potesse veda st'orghenetto quante rubbie* ha simento d'alligria, quanno che l 'omo adèra poaretto, parlo del tempo de la nonna mia, veggareste, Giuà, qual che 'n hae visto in oie mae sopra a 'sto monno tristo. A seda su la mesa* '1 sonatore, le deta a curra sopra a la tastiera e la fronte gronnante de sudore, sonava anfino all'alba da la sera, pe' carnoale sdrimognìa '1 gelato '1 focòre da quel sono arroentato. A fine d'ogne ballo, in menzo a casa, de fiasche 'na fuscella era ammannita* che co' 'n Gesumaria adèra anvasa da tanta giuentù carca de vita: beìono giuenette e giuenòtte p'accennà l'alligna drent'a la notte. Le marzucchette che squizzàono fòco, le pittolate de le campanèlle smoiono '1 piede pure mal più mòco*, alsaono '1 vento come scarparèlle*. Coìto de le pipe adèra '1 fumé, tutto un sudore le ròcchie accant'al lume.

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Chisà si la mi nonna col mi' nonno avvièttono propio a fa ' l 'amore, e doppo 'n po' de tempo se sposònno, pe' via de 'st 'orghenetto traditore? Accapace che al monno io so' nato propio pe' 'st 'orghenetto sganganato.

Agginato è là drent'al magazzino accant'all 'atre cose, ma 'n cantone, mal pòro orghenettuzzo cantarino ce se vanno a annidà le scalabrone. Veggo, guardanno lue, la nonna mia che da tant 'anne se n'è annata via!

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LA ROSACCIA

Giugno, tempo di mietitura. La Rosaccia deve tornare in Ma-remma donde era venuta per rifornirsi di provviste. Parte al mat-tino a buio con la somara carica di vettovaglie tra cui il pane che ha sfornato poco prima di mezzanotte. Caldo, fatica, stanchez-za; tanta stanchezza! Non sono calate ancora le tre stelle chiama-te "mercanti" che lei è già in cammino. Un cammino lungo, lun-ghissimo, senza incontrare anima viva. Nei punti più oscuri dove le ombre affogano la strada, la donna ha paura, ogni fruscio la fa sobbalzare, ogni ombra se la sente alla gola come se volesse strozzarla...

ROSACCIA: Ah, arrisù, Sardì, cchià! Ce n'emo de strada da fa'! Nun è gnente, nun aé paura, Sardì, è cascata 'na stella! Lo sae do' avaremo paura? lò do' s'ancrociano le du' strade. Mel-lì ce vanno le streghe a ballà e a cantà e a stregonà. Annamo annamo, Sardì, co' l'aggiuto del Signore riaremo. Vorrèbbe cantà pe' famme coraggio, ma me se strozza '1 fiato ma la go-la. Donqua vedemo 'n po' se me sò scorda de gnente: '1 pane, quattro filone; '1 vino tre fiasche e 'na barlozza... le cóteche, ecco: de le cóteche me sò scorda! Le vegghe, Sardi, te le dicìo che de che cosa me scordào? Le cóteche! Aò, morammazzato le cóteche, faremo a meno de le cóteche anco'! L'aceto l'ho preso, l'olio adè mal capagno. L'olio si ch'adè ndicissario, al-tro che le cóteche... Ma insomma, se fa a meno de tante cose, ino pure de le cóteche. Ma Pietro mio mica jé va bene! Pietro mio 'na cotechélla su le carbone la vedìa golà! Imbè pacenzia!

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Me dicarà: "bràa scordona!". Io jarisponnarò: "perdonate-n e , Pietro mio, m'è scappita* da la mente!". ...Esso ch'adè quell'ombra a nnimenzo a la strada? Madonna mia, quell'om-bra nun ce l 'ho vista mae melli! E che sarà. Madonna Santissa-ma: un gatto? No! Pe' èssa un gatto adè troppo grossa. Un ca-ne? No! Pe' èssa un cane adè troppo cicina. Una troia*? Un boo*? Madonna mia, quello adè '1 vitello che dicìa Nocerino 'sto vèrno a la balocca: "un vitello co' l'occhie d 'oro che sfù-maca dal naso un fumé de gioncata". E dicìa che lo cavalcàa '1 diaolo! Madonna mia, guardateme: adè '1 vitello co' l'occhie d 'oro! Le', Sardì! Aspetta, famme veda bene si adè '1 vitello del pòro Nocerino, co' l'occhie d 'oro. . . No, l'occhie nun gne se discèrnono. Allora sarà 'n 'antra bestia. Ma quala bestia? Che famo. Sardì? S'arifamo arrèto? E si s 'arifamo arrèto, doppo questòro mellaiò che magnono? Ah, Sardì, farnese co-raggio e amiamo avante! Aspetta 'n po', Sardì: pare 'na bestia colca, un po' , un po', un po' . Madonna mia, meno male: adè un sacco de paja, varda. A dì, a le volte, le vegghe come adè la paura!? Neppoco che nun s'emo date arrèto. Fammolo scansà va, sinno ce se spaura chedunaltro. Che te pije 'na paralese man sacco de paja, che paura che m'ha mesto! Tiè! Jé vojo dà 'na zampata! Chi l'arà perso, Signore, 'sto sacco de paja!! Sa-rà vulticato* da 'n carretto? O puramente l'ha perso cheduno co' la somara come mi e come ti? — Ah, Sardì, cchià, via via che ce n'emo de strada da fà! Semo al pino. "P ino pinello, arischiareme '1 ciarvèllo". " D u ' meje* al pino e quattro dal Giardino"! Chi l'arà mesurate tutte 'sti meja? Che ànama del Purgatorio? Giusto: mo passamo dinan-te al Camposanto. Ma de le morte nun ho paura. De le vìe si che n'aè paura. Anguastiscele ma le vie: come te passono acco-sto te tegnono! Ha' visto la Catèlla? Jemprestètte qui du' mi-sure de grano, l 'ha' viste più? Adè 'na pezza bòna, si 'na pezza bòna la Catèlla! Arinnegatòra, bucìona, ambrojona, debbeto-ra, falla spaccà in due da 'n trono! Le sae Sardì, ho 'na paura, ma 'na paura, mica de la Catèlla sa, che si me s'accosta, do'

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adè adè, cor una rampata jé sgarro l'occhie. Le sò che tu me vorreste di': "allora de chi hae paura si 'n hae paura de la Ca-tèlla che nu c'è cristiano su la terra che 'n ha paura de lièe?". Allora io t 'arisponno: " h o paura de 'sta scarpa che me stregne* 'n po' troppo mal calcagno, e me le fa abbuscigà. La mancina me va bene, la manritta, ma che te dico!" Jé le disse mal calzolaro: " 'sta scarpa me pare che me stregne 'n po' mal calcagno". E lue: " tu portala che piano piano te se sdilonga e nun te stregne p iù" . Undece lire me chiese de 'sto par de scar-pacce quell'ambriacone. E a forza d'ariccommanne me le por-tètte a diece e 'n 'attastata. Capimese bene, Sardi, mica da fora a la gunnella, da sotto a la gunnella. Ampaneètte* bello parec-chio dinante e dirèto, 'sto zozzo, camarrone*! Ma co' quela li-ra arisparambiata almeno ce fece spesa su da Chiònne, che quanno riètte a casa le mie anco' me fanno festa! Pietro mio nu le sa sinnò sa le jarincresciarèbbe, poarino! A fasse attastà p'arimedià un rancechello de ciccia de porco, adè 'na fregna 'n po' grossa, ma come dice: "occhio nun vede e core nun dòle". Noe magnassomo e io anco' . . . ce l 'ho tutto, varda, tonno e bello! — Ah, Sardi, cchià, via via che ce n 'emo de strada da fa ' ! — Ecco '1 camposanto! Va' , Sardì, le cipresse fanno la senti-nella ma le nostre pòre morte. "Reguionaterno dòmme sdòm-mene, lucètte in pace scante ariposo, àmmene". Là, Sardì, che mo pijamo la scenta*: "un passo prima e uno doppo, piano piano se ria al por to" . Poarino, Pietro mio si sapesse allora de quell'altra volta!? Ma mica quella del calzolaro, de quell'altra che fu un pelo pejo! Quela volta del porchetto. Sardì, te le dico ma ti ma 'n orecchio ché tanto tu nu' l'aridiche ma gnuno. Al-lora, Sardì, ìomo da fa ' '1 porchetto però le quatrine nun c'erono. - Viene iò che te fò capà mal branco come te pare - me disse i guardiano. - Ma però, per ora, nun ciò le quatrine pe' pagavvolo - jarispose. - Tu viene iò che pòe quanno ce l'aràe me le pagaràe. - Ce viengo mercoledì co' Pietro mio - jé disse. - No, viènce domenaca a sera da sola. - Io capì '1 zìnzolo*. - E va bene

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— jarispose - ce viengarò. Poco prima che cala '1 sole sò io. -Pensètte: - Farò '1 tradimento ma Pietro, ma almeno 'sto ver-no ammazzaremo '1 porco e la fameja magnarà. Pietro mio fa-rà '1 panonto che pe' 'n panonto ce passarèbbe '1 mare a guaz-zo. - Basta, a la domenica a sera annètte iò, co' quell'altra so-mara, quella che ciò prima de ti. Lego la somara fora de la grotte e lue, '1 guardiano, m'aspettàa a seda sul cècciolo ac-cant'al fòco. Me fa: "viene cà che famo 'na seduta -. Jarispo-se: - Prima vòjo veda '1 porchetto -. — Èiolo va, mesti* mal mandòlo, te l 'ho ammannito*. Si te càpaciata* le pije e sinnò, come t 'ho ditto, le cape uno da ti. — Me piace, sì, adè bello, doppio, magro, me piace addaero... — Ciaè gnente pe' mettello? — Ciò 'sto sacco. S'affucarà? — Nò, ché nun hae da fa ' tanta strada. — Vojo sapé, ma però, quanto me le mettete prima de carcallo* — Doppo discurrimo. Esso viene cà che famo 'na baloccata.. — Nò, è tarde e Pietro mio m'aspetta. Insomma, daje, picchia e mena, a la fine me connucé a dentrà ma la grotte. Sardì, ha' capito che soccesse? Madonna mia, Sardì che soccesse! Me fece colcà su 'na rapazzola* e me fece '1 brusca e streia. Adèra buietto e anco' trauzzolaomo* su quela rapazzola che le pèrteche e le scope parìono tritate da 'na man-drata de cavalle... E ammazzassomo '1 porco, Sardì. Come l'altre, mejo de l'altre. Ma però da allora '1 guardiano come me vede me fa: - Aò, quanno ariviènghe? Ariviene presto sin-nò parlo... E pe' nun sentillo, me tócca a fa ' . . . me tócca a fa ' come dice lue. Madonna mia, che c'entra, mica che me spiana lo stioppo, ma insomma cià quell'occhie nere che nun gne se dice de nò. Pòro Pietro, si le sapesse, sa le jarincrasciarèbbe!! Sardì, semo al piano. Mira l'è nera la macchia. Mellì ce sónno arinchiuse le vente, tutte le venne del monno. E ió annimenzo c'è la grotte del Mago che tiene le vente a capezza e le scapezza quann'ha rabbia. E le vente allora fanno scatenà le temporale, e le temporale scércono iò la gragnòla, e la gragnòla spiana

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campe e vigne e uliete. Madonna salvatece, chisà iere se vedìa un nero, un buio da 'sta parte, mica arà sgragnolato su la si-menta! Madonnina mia, speramo de nò, sinnò addio le nostre fatighe! — Ah, Sardi, cchià, via via, che ce n 'emo de strada da fa ' ! Pa-re che '1 cielo schiarisce 'n pelinèllo*. Sì, è la prim'alba. Pure le mercante stanno pe' calà. Sardì, ch'adèra quell'animale ch'ha attraersato? Un lepre, vero? Si, mesà ch'adèra propio un lepre. Un lepre che viene da la pastura e se va a metta. Èiolo va, s'è abbanchettato*. Viene cà, leprarèllo che te metto ma la padelletta. Bono '1 lepre ma la padelletta con pelo d'olio e du' strucce* d'aio! Quanto le magnarèbbe un pezzetto de lepre! Si Pietro l 'ammazza pe' l 'opertura, 'sta volta nun s'ha da venna, s'ha da magna! Sì sì, la prim'alba. Se vede '1 grano. Pare sec-co?! Sì, adè secco adè secco! Poe mo a giorno granne se vegga-rà mejo. — Ah, Sardì, cchià, via via, che meno de menza strada ce resta da fa ' ! Casca la guàzzara. Me s'è annumedita la polacca* e pu-re '1 fazzoletto. Sente ch'arietta fresca e pure ch'afate de callo! Le mi' fije che faranno? Dormaranno, poarine! Quanno sarà giorno granne se svejaranno, me cercaranno, me chiamaran-no. E nun me troaranno. Allora faranno la zuppa e magnaran-no, poe annaranno al ruzzo*. Sempre in pensiero pe' le fije 'na pòra cristiana arèbbe da sta'! Quanto adè tribolata la vitaccia del poaretto!! Goda godono l'ampiegate, a scria mica adè fati-ga. Eppure dicono che la penna pesa. E ch'ha da pesà quel pe-linèllo de gnente tra le deta! La zappa sì che pesa, la vanga, l'ubbidiente, '1 curriato, la falcetta roènte, la falce fienara, '1 picchione... E l'artiste 'n arigodono? Le barbiere, le calzolare, le sartóre. A maneà '1 rasoro, la subbia, l'aco, che fatiga adè!? E guadambiono bene perchè, facce caso, che le frutte, quelle primòteche* che costono care, le erompono sempre lóro. Són-no jotte che magnarebbono pure 'na sigonda* de somara! Be-ne aristanno le prete. A commatta col Signore mica adè fatiga! 'L Signore poe adè bòno e co' le gente bone nun ce se litaca

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mae. Fa che ancagno del Signore ìono da commatta co' 'n 'an-tro prete, sa le botte! Invece quanno uno adè bòno e uno gattìo nun se litaca mae, ché quello bòno cede. Sull'altare, poarino, '1 Signore cede sempre, che si fusse stato 'n pelo arisoluto a quest'ora de prete nun ce s'arèbbe arimasta manco la puzza. A commatta co' la gramegna sì ch'adè un'arte pèssama; bastimie da la mattina a la sera, che te consume le deta e nun te da l 'anama de cavalla tutta, e pòe vae pure all 'inferno quanno è in ultomo, perché hae bastimiato, e nun hae guadambiato un bajòcco... Si esse d'arinascia vorrèbbe nascia reggina, ch'al-meno farebbe la donnaccia pe' gusto e nò p'arimedià '1 por-chetto e in ultomo annarèbbe pure ma la grolia del paradiso. Ha' visto quanno mòre 'na reggina quante prete ce sonno pe' anseppilla* mal paradiso? Io mico ce l'ho tutta quela ponta de prete a garzone co' mi pe' convencia San Pietro a schiava '1 portone! Chi me le da le quatrine pe' pagà tutte qui prete, '1 diaolo? E le prete mannono l 'acqua per linsù si dicono addae-ro: t 'ampiccono e te spiccono. Sì, la bòna donna vorrèbbe fa, che tanto chi più no fa diènta priore! Ma 'na bona donna da paradiso, nò 'na miserabbele da inferno! Ma che dico, io mall'inferno da mo che ce sò! Quanno che sò nata me ce sò tròa anfornata come 'na pizza col tresemarino*... Guarda che pelle abbruciata dal sole, pe' mèta, pe' zappà, pe' batta, pe' cura '1 panno, pe' streppà, pe' fa ' i forno, p'anguantà le còcce de cicerchie e mannèlle de ferrana*... È l'alba. Vao come schiarisce lesto '1 cielo! Pure 'sto sole, Sar-dì, quanto ariscalla! Chi l 'arà acceso tutto quel gran fòco su pel cielo?! Sardì, noe nu le sapemo ma le gente struite dice di sì. E dicono che 'n adè '1 sole che lèa, s'alza, aggira e aricàla, ma adè la terra ch'aggira e '1 sole sta sempre férmo mellì a fa ' '1 tattamèllo. Pure que mettemala là co' quell'altre! Io nun ce credo. Come fo a credecce? Veggo che quanno metto mall'om-bra le sacchette, adè '1 sole che le ria e tócca e curra a mutaje posto. L'àrbele do' aderono ampiccate le sacchette mica se sò mosse, sò sempre mellì, la lista de le faciòle adè sempre mellì,

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la cappanna adè sempre melli. È '1 sole ch'ha camminato don-qua, te sa, Sardì? Le gente struite nun capisciono gnente... Osia nache sò guerce! Se', le cantono le diletta*. Forza Sardì che c'è resto più poco. A momente se sgòpre la torre del Monte. Adè summellì dirèto a sti cerque. Èio* la cappanna de Pippitello, la finilessa, la cra-pareccia... Chi adè co' 'sta biga che viene a la volta nostra? Vào che pol-varone, tócca a fa' 'na magnata de polvere. Que le sae chi adè? 'L vergaro d'Ascense, vo' veda ch'adè propio lue! Viene dall'Emme. Adè lue, adè lue, aggià jé discèrno le baffe ' . Adè propio lue. — Bon giorno, verga! — Bon giorno, Ro'! — L'ete viste questoro de le mie? — Sì. — Metìono? — Metìono sul poio, ma saranno scente ió pe' la Piana, ma '1 grano anco' un po' barzòtto* adèra. — Ah, cchià, Sardì, forza che jé Temo guaso fatta. Sponta '1 sole va Sardì. Che sole rosso, oie s'aripija fòco. Vegghe? Pare '1 muso de la Gustina quanno adìa la disipara. Eh, Madonna mia quante tribbolazione! Chisà le fije? Mo se saranno svelte. Tra 'n po' faranno colazione. Esso vojo fa' 'na cantata così Pietro mio me sente. Èiele le metetetore noste va, Sardì! Le vegghe come ammannèllono?

PIETRO: O Marìiii! ROSACCIA: Sò ria! Cammina cammina nun se ria mae... PIETRO: L'ha porte le cóteche? ROSACCIA: Ma stateve zitto che me sò scorda... PIETRO: Le vedìo gola, capocciona! ROSACCIA: E mo che me vorressara fa ' , me vorressara am-

mazzà? Piuttosto come adè '1 grano? PIETRO: Mecchì adè bello ma a le Cuffie nun ce s'attacca fal-

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cetta: l 'ha spianato la gragnòla... ROSACCIA: Pòre fatighe nostre!!! Guaso che me le dicìa '1 co-

re: '1 buio de iere... PIETRO: Mo méttete a piagna sa. Nun ce pensa più, de fame

nun ce morgaremo. Eppoe adèra tanto poco, s : volemo. Piut-tosto, t 'ha fatto male la scarpa?

ROSACCIA: Ve sò di anvece ch'ha fatto la borregazza. (Pòro Pietro mio! Lue se preoccùpa de mi... si sapesse che 'sti scarpe costono diece lire e 'n'attastata, sa le jarincresciarèbbe, poarino!).

PIETRO: Scarca sott'a la cerqua e viene su! ROSACCIA: Sìne! Sardi, mo tu almeno t'aripose ma la marèa*,

ma mi anvece me tócca a curra subboto al tajo. Le vegghe che vitaccia la mia?

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LA SPIA

UNA VOCE DAL POGGIO: Tomassooo!!! TOMASSO: Che vòeee? LA VOCE: C'è '1 falco! TOMASSO: (alla moglie Lucia) Sbrighete a lastrellà su 'sta

gramegna ché adeccolo... LUCIA: Chi? TOMASSO: La spia! LUCIA: Madonna santissama, 'sti liste a sodo, si se n'accorge... TOMASSO: Speramo che nun se fèrmarà, sinnò so' cavele... LUCIA: Mira che camicia bianca, pare 'n cane de 'n signore, te

potesse un fa' notte! TOMASSO: Altro che un cane, pare 'na tigara, 'na vienna*!

Omo malidetto che ancagno de nascia omo potia nascia 'na vi-pra cosi almeno se potìa ammazzà a bastonate... 'sto manna a cattanno fameje!

LA SPIA: (arriva sculettando con l'occhio torvo e la bocca sor-ridente) Tomà, bon giorno! Sò fatte, sò fatte 'sti fiche?

TOMASSO: Bon giorno, Piè! Pietro caro, quest'anno le frutte hanno sbirbeato*: Io le fiche l'arimediarò un po' sì e 'n po' no un capagnolo pel patrone.

LA SPIA: Iò pe' la valle 'nvece ce sónno. A le Piantate, mellì da le Spadine, fiche e pornelle se sgarrono. Ma nun te lamentà, veggo che pure tu ce l'hae, Sammartino! Quello mellassù nun adè un pomello?

TOMASSO: Sì, un pornelletto a coscia de monica; anze quello un poche ce l'ha!

LA SPIA: Ce l 'ha, ce l 'ha! Ce l'arà 'na soma... 59

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TOMASSO: 'Na soma, nò; dimo 'n capagno... LA SPIA: Le vennareste pe' 'n capagno? TOMASSO: Madonna, lassamo annà 'n capagno, ma mica sò

tante di più... LA SPIA: (guardando in tralice verso i filari) Che fa de bello la

tu' Lucia? TOMASSO: Vedé, Piè, sta a rastrellà 'na manciata de robbaccia

secca che mo jé voliomo da' fòco... Emo mesto mano a rifre-scà...

LA SPIA: Ma quella adè gramegna mica robbaccia secca! E co-me te s'è ansemita tutta 'sta gran gramegna là pe' la vigna? Ma nu' la cape?

TOMASSO: Pare tanta ma adè poca, sapè, Piè: sarà diece file de gramegna, quell'altro adè tutto pancastrello e sugamèle...

LA SPIA: E dimme 'n po', Toma', a ùa stae bene!? Ma però veggo 'n po' de bolle de malina*. Ma nun pompe, Toma'? Nun te le dà '1 ramato '1 patrone? Pompa pompa si fregato che ciàe 'na bella riccolta. Veggo 'n sò che arbolo* che paté d'asciutta, butteje là 'n bigonso d'acqua.

TOMASSO: Magara ce fusse stata, '1 pozzo adè vóto e pe' pom-pà me tócca anna' a pell'acqua a Cunicchio. Si nun piòe come doere quest'anno s'asciuttamo pure noe.

LA SPIA: Ma sbajo o qui liste su sopra al limoto sò a sodo? TOMASSO: C'era l'erbone ma si nun piòe nun se segnono... LA SPIA: Imbè certo, pòe pure tu sè solo a laorà e '1 monno adè

tanto che manco le rie tutto... TOMASSO: Pietro caro, a dilla ma voe, che tanto sete 'n omo

che nun parlate, che nun v'ampicciate, che 'n ariportate gnen-te ma le patrone, io Pietro caro, nun gne le cao più! C 'ho '1 sò-cioro allettatto, la mi' ma' cieca, le fije cicìne, quello più gran-ne che mo me potìa comencià a aggiutà l 'hanno tocco le fanti-jiole, diteme voe come ho da fa '! L'ho tutte mecchì su 'sti spalle e me pesono come un colpo, Pietro caro! La moie curre,

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curre, nun fa altro che da casa a la vigna e da la vigna a la casa, abbinila, abbinila* e quann'è notte a la sera nun ha cavato un ragno da 'n buco. Io anco' laoro laoro ma c'ho du' mano sole e sa quante volte cantono le starne e anco' sò là pell'arboleto che zappo...

LA SPIA: Piuttosto, dimme 'n po': la somara do' l'hae? TOMASSO: Sotto a quel piantone mellassù... che lo stabbia.

Mòrse crepata 'sto maggio co' 'na frusticajene*. Mo pe' San Battolomeo vorrèbbe proà a fa 'n 'antra somaretta, ma costo-no care; jé la cavarò?

LA SPIA: Si te potìo aggiutà io, l'arebbe fatto co' tutto '1 core, ma io 'nco' le sae che sollazzà nun sollazzo...

TOMASSO: V'aringrazio del bòn core, Piè! Voe le sò che sete stato sempre 'n omo de bòn core.. Sentarò le mi' fratelle si me potessono da' 'n'anseppitèlla*...

LA SPIA: Tomà, '1 porco ce l'hae pe' daje tutte 'sti barbabbiete-le de 'sto listino?

TOMASSO: Un porchetto ce l 'ho, ma le barbabbietele nu' le magna nache jé fanno allegà le dente...

LA SPIA: Madonna, Toma' , l'è tarde! Io m'abbalòcco con ti e '1 sole adè annimenzo al cielo. Io, Tomà, te saluto, che nache allicce verso '1 paese c'ho da strigà 'na frega de cosette...

TOMASSO: M'ariccomanno, Piè, mosca de quello che v'ho ditto...

LA SPIA: Toma', quello ch'emo ditto emo ditto, èiolo là per ter-ra e mellì resta! Toma', e allora ciao, sa. Ce vedemo a le fòche!

TOMASSO: Ce vedemo siddiole e in bona salute, Piè! La spia si allontana di fretta mentre la Lucia raggiunge il mari-to e:

LUCIA: Avvisate ma Cencio che Pietraccio va su a la volta sua; èiolo vedé!

TOMASSO: Cencio, o Ce'!? CENCIO: (da lontano) Ahooo!!

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TOMASSO: C'è '1 falcooo!! Tomasso dopo alcuni giorni nell'ufficio del padrone:

PADRONE: Tutte m'hanno portato un capagnoletto di fichi e tu, perdiose, gnente! Ciài pure quel pomello a coscia de moni-ca che se sgarra e nun me ne porte manco una...

TOMASSO: Sor patro', le fiche nun ce sónno e le pornelle nun sò fatte qui poche ch'hanno allegato...

PADRONE: Ma ci hae fichi e ci hae pornelle, solo che no lo sò perché non me le vói portà! E comunque, perdiose, io l'aspet-to, ha' capito, Toma'? E dimme 'n po' Toma': dice che la vi-gna è un gramegneto e poi, perdiose, dice ch'è quasi tutta a so-do, e poi dice che la malina* sfonna e tu nun pompe e io '1 ra-mato pe' pompa te lo do!

TOMASSO: Sor patro', ce sarà 'na libbra de gramegna in tutta la vigna e a sodo ce sónno du' sole listarelle do' adèra l'erbone che nun se segnono manco col picchione. La malina, sor patro', c'è un sò che bolla come mall'altre vigne, ma affare de poco...

PADRONE: Dice, perdiose, fatte conto, che t 'ho da di', dice in-somma che a lavorà se' rimasto solo...

TOMASSO: No, sor patro' , semo io e la mi' moje... PADRONE: Du' noce in un sacco fanno poco rumore, perdiose!

La vigna è tanta e in quattro braccia jé fate un po' poco! TOMASSO: Sor patro', mo se faranno granne le fije... PADRONE: Campa cavallo, perdiose... TOMASSO: Si quello più granne nun me l'ìono tòcco le fantijòle

da mo che laorava... PADRONE: E dimme un po': la tu' ma'? TOMASSO: La mi' ma': a quel mò adèra e a quel mò adè! Santa

Lucia benedetta l'ha volsuta gastigà e nun veda più la luce del sole! Adà le catarattele sbassate...

PADRONE: Ma me dicono che, perdiose, la janna* l'ariccoje! TOMASSO: Sì, l'ariccoje a tasto: 'sti giorne portètte a casa più

pallacquele* che janna, sor patro'!

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PADRONE: E i tu' socero è sempre vivo? TOMASSO: Ade allettato: magna, bèe, nun ha gnun dolore e le

sapete, sor patro'? nun ha gnuna idea de mori! PADRONE: Certo, perdiose, là per casa tua 'na svecchiata t'ari-

storerebbe! TOMASSO: E le sò da mi, sor patro'! Ma M Signore nun vò veda

lume... PADRONE: Toma', che t 'ho da di', perdiose, a me la vigna me-

preme e se tu me la fae diventà un camposanto, io, che t 'ho da di', me tócca a levattala...

TOMASSO: Me roinaressara; quela conijata de fije, qui vecchie, morgaressamara tutte de fame... Per carità, sor patro', sete de bòn core come anfinanta* a oìe...

PADRONE: Tu lo sae che io caccià nun ho cacciato via mai nes-suno, ma vedi 'n po', perdiose, de fatte magari aiutà da qual-cuno, un po' de cambie, che t 'ho da di', qualche òpra, insom-ma, perdiose, la vigna la vojo vedè custodita...

TOMASSO: Veggarete, sor patro', che mo ce penso io a fa' le cose parecchio mejo! Poe mo aricrompo la somara. Mo, pe' san Battolomeo!

PADRONE: Aho, dico, perdiose, la somara pe' carreggià mica p'attaccaje la goltrina?! Nun vojo goltrine là pe' la vigna che io ciò ancora voja de beve '1 vino. Guarda 'n po' questoro de le S., hanno sdradicato tutte le ceppe co' quela goltrinaccia, che la vigna traluce...

TOMASSO: Voe, sor patro' , state sicuro, che la somara là pe' la vigna nun ce la veggarete mae all'infora che pe' car'reà 'sto va-co d'ùa. . .

PADRONE: E va bene! Chiudemo '1 discorso... TOMASSO: Chiudetolo contento, sor patro' . Veggarete che

avarete tutte le sudisfazzione che volete. Abbasta che me posso aripijà un po'. Poe mo la staggione darà de volta, iène novem-bere, pure qui vecchie accapace che calche verso lo pijeranno... e allora la mi' moje 'nco' sarèbbe più disponibbele...

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PADRONE: Speramo, caro, sarebbe ben per te! E dimme 'n po', adesso, Toma'; sente do' me va la testa: c'è quest'anno '1 lepre su pe' la macchietta?

TOMASSO: Ce n'è uno grosso come 'na somara... PADRONE: Tiello da conto che quanno s'apre la caccia lo ven-

go a ammazzà! TOMASSO: Non dubitate, ce penso io, sor patro', a costo de ri-

mettello mall'arèllo*! PADRONE: Toma', va' a casa, caro, ch'è tardi. Guarda, passa

giù da le serve che t 'hanno ammannito un fagottèllo... Ciao, Toma' , perdiose, e starnine bene e me raccomando, fa' le cose con giudizzio!

TOMASSO: Bòna sera, sor patro' e dielmerete de tutto... Tornato a casa:

LUCIA: Imbè, che volìa M patrone? TOMASSO: La spia jà riccontato nicòsa... LUCIA: Donqua ce lèa la vigna!? TOMASSO: M'ha predecato 'n po' ma la vigna nun ce la lèa... LUCIA: Nò che '1 patrone gattìo 'n adè, la spia, Dio le fulmene,

adè gattìa... Ma sto fagottèllo che ci hae? TOMASSO: Nu' le sò, me l'ha datto '1 patrone, sgruppa 'n po'. . . LUCIA: Ce sónno un bel par de calzone a goffo. Mira che ta-

nnante calzone, que nache aderono del pòro sor Nazzareno, ch'adia la pansa come un porco ammazzareccio. Co' que le sa-pete che ce famo? Le sguastamo e le damo a cucì ma la Preta, che ce fa' scappà le calzoncelle man tutte a tre le fije, la polacca per mi, un corpettino per voe e le barzocche pe' tutta la fameja!

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MIRATE BELLE PIZZE, SAN MARTINO*!

ADELE: Io vorrèbbe che jé piiasse 'na paralese mal core, man chi m'ha azzoppato sta degna gallina.

ROSA: Saranno state le fije, saranno state, le granne mó se mettiono a azzoppà la gallina ma voe!

ADELE: Io nun ho ditto che sò state le fije e né che sò state le granne. Ho ditto solo che la gallina me l 'hanno azzoppata e che je potesse pijaie 'n trabocco de sangue man chi adè stato.

VITTORIA: E nun mannate st'ampregazione, proprio oje ch'adè '1 saboto Santo de Pasqua. Adete la bocca come '1 foco e l'oprite solo quanno ete da dì st'irisie.

ADELE: Pensate pensate pe' l 'anama vostra che l'ete bella spor-ca, anche che ve l 'annate a sciacqua tutte le mattine là pe' la Chiesa. Io la vostra razione de Paradiso nu' la vojo. E si esse da veni mal paradiso accant'a voe, preferisciarèbbe mejo a fanne annorcà dal Diaolo - Madonna guardatece - e annà mal più prefonno dell'Inferno.

ASSUNTA: Che ve càpata, commà, che ve veggo bella anfoiata? ADELE: Commare cara, so ita a tastà le galline èsso su mal poi-

laro e ho tròo sta polancona colca accant'a la fratta. Quanto che l 'ho presa sù e vedè, adè zoppa. 'Na gallina che cé facio 'n profitto, me facia tutte le giorne l 'òo. Sò arimasta come 'na stupata. De na ponta de galline, nun m'è arimasto quaso più gnente. Due me le magnètte '1 porco la mattina de S. Giusep-pe, due me l 'ha acciaccate la sumara su ma la stalla, una jé s'attraersette l 'òo e doppo 'n so che giorno cachètte pure '1 maz-zo e adè ita a male, a quel mò, stamane què zoppa che nu sta più ritta né poco né tanto, so anguastita sì, altro che anguastita.

ASSUNTA: Si nun c'ete l 'òa pe' dà mal Curato, ve le dò io che 65

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'n so cheduno ma mi anco me le fanno. L'ho attastate esso le galline, l 'hanno cinque e poe c'è 'na polanchetta che me s'ac-cóa tra le piede, da 'n giorno e 'n altro attacca pure quella.

VITTORIA: Quanto jè manca ma le vostre pizze, Assù, ve se sò lieete?

ASSUNTA: Pare che, S. Martino, sò belle avante, ma anco jé manca 'n po' . La Gestrude ha ditto che le sue a momente jé vanno fora de la tiella.

ADELE: Regà, quanno semo là verso menzoggiorno, sciobbeca-tolo* '1 forno che ce sò io, eh! 'Na rifamo come an passato, che me passònno e dèttono fora da la tiella, eh!

ROSA: Mica pretennarete che l'altre pe' fà passa ma voe, tirono jò le pizze menze cotte e menze crude. Aspettarete, quanno sò cotte, sfornaremo noe e mettarete fòco voe.

ADELE: Io ve l 'ho ditto, e nun vojo quistionà. Doppo nun dite che sò gattia. Quanno adè ora, jengo: si '1 forno è spiccio, be-ne, e si nun è spiccio, lo spiccio io.

ROSA: Che vorressara dì? ADELE: Vorrèbbe dì che sforno le pizze, metto fòco e anforno

le mie. E guae ma chi fiata. ROSA: Si c'ete st'idea accapace che arimediate chè palata ma la

capoccia. ADELE: E si chiacchierate tanto, c'ho core de pijalle e frullalle

tutte jò pel canepùle*. E chi me s'accosta cor ogne mozzoco jé còrso un orecchio. Anto, co', va su da la tu mate e dije che am-mannisce l'òa pe' andorà e doppo tu, caro, vamme a fà un monnoletto* su ma la fratta de le Zacchièlle.

ANTONIO: O' no' , '1 monnoletto ve l 'ho da fà de sammuco? ADELE: Ciarèbbe da dièssa '1 sammuco, casanno mae 'n ce fus-

se più, da capo al limoto, guarda che ce sónno pure le scope. ROSA: Tutte Fanne s'avarèbbe da pijà sti stracce d'arrabbiature

pe scallà '1 forno, nun ve se tròa mànoco ma voe, 'gni anno se-te sempre più anguastita*.

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ASSUNTA: (Guarda nel forno) Currite Vittoria, dateme 'n giornale che le pizze me s'abbronnonno*; e potesse pijà ' colpo che razza de danno. (La Vittoria ha portato la carta mentre l'Assunta piagnucia*) Date cà...

ROSA: E nun la sboccate tanto la boccatora*, sinnò '1 forno ve svampa e le pizze ve calono, e poe... serrate, serrate che mó sò guperte bene e 'n sarèbbono da abbronnà più. S. Martino be-nedetto!

ADELE: (rivolta all'Assunta) Accapace che pija fòco la carta si l'ete accostata tanto ma la bracia. Guardateje 'n po', leàteve pòe che jé guardo io, vede, voe date retta man chi adà 'n po' più de giudizio.

ROSA: Esso jé guarda la donna 'ndicissaria, che io sò stupata, lièe sa fà tutto, adè bràa...

ADELE: Ve le dicìo che la carta ve pijàa fòco? Quà '1 forcone, quà, date quà, che pròo a spegnello io.

VITTORIA: (Rivolta all'Assunta) Fateve coraggio, cara, nun. piagnete...

ROSA: Nu la pijate co mi, Assu', che è stata lièe: pe' opri à mos-so che tizzo perché io la carta l'io mesta bene, accapace 'na ventata l'ha fatta pijà.

ASSUNTA: (Piagnucia) Eh quanno jène stasera '1 mi Salvato-re, quanto j'arincresciarà, poarino, me sè mesta 'na pera strozzagolpe iò pe' la gola che nun me vò annà né sù e né iò. La pena, Rosa cara, me digura*.

ADELE: Io '1 fòco l 'ho stento, 'n po' danno l'avaranno auto, ma abbasta che ve se merollono* bene drento. Co' la coppaia mica ce se fà profitto...

ANTONIO: Nònnaaa.. . , '1 monnolo adèccolo. O no', le sape-te?.. Giuanne, Gigge e Pietro tirono co' la frezza* ma le nide de le rondinelle su direto a le fonnamente.

ADELE: E gn'hae ditto gnente? E va là crèsemele co' 'na sassata ma la fronte! Pòe vanno a scòla a amparà l'adducazione, 'sti porce.

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ROSA: (Porta una tavolata di pizze sulla testa che va a posare vi-cino al forno) Mirate belle pizze, S. Martino! So lièete lièete. Mecchì nun ce manca gnente.

ASSUNTA: Pure le mie adèrono belle, adèrono lièete e nun c'era da dije gnente, '1 forno me l'ha sguaste e nun faranno 'n pelo de figura.

ADELE: La scarsèlla* ve s'è salva, almeno farete contento '1 nipo-te. Mo pe' le pizze, pòe pòe, mica ce vorrete arimetta de salute.

VITTORIA: (Rivolta alla Rosa) Con chè l'ete acconnite? ROSA: Sentite che c'ho mesto: noantacinque òa, dicidòtto lib-

bre e tre oncia de zuccoro. ADELE: Troppo. Ve jengono troppo dolce che fanno stomma-

cà. Biè... ROSA: Ma chi v'anterroga ma voe? Doppo: du stecche de can-

nella, 'n'ancaciatona de cioccolata e la dosa de '1 Sor Ènese, e basta.

ADELE: Meno zuccoro. La legge dice: dodece libbre adè pure troppo si nò.jengono alte un folco* 'n po' sì 'n po' no. La piz-za quanno adè cotta ha da dièssa alta almeno 'n palmo si no nun adè aricipiente* e nun fa figura.

ROSA: Come me jène me jène, adè 'na faccenna che la fò come me pare, tanto l'ho da magnà io col mi' marito. E la mi nòra si nun jé va bene la farà da lièe e si jé va bene jé l'arigalarò una.

LUIGI: (Passa con la zappa sulle spalle insieme a Checco) Me credìo de sentì l 'adoro de le pizze e 'nvece se sente tamanta* puzza de bruciaticcio.

ADELE: Và a casa caro, nun veni a 'nfastidì ma noe, che 'n sa-pemo do se metta le mano. Io vorrèbbe che Pasqua 'n venisse mae pe' nun fà sta faccennona. Chè, l'ha funite de simentà le faciole '1 mi Meco?

CHECCO: Ìa guaso funito, mo sarà pe' strada che jène. Da so-lo, senza gnuno che jé buttàa ió, jé c'è volsuto di più.

ADELE: Potesse pijà 'n colpo a quanno mae, Signore, sempre 68

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ancanèata mecchì oie, quel pòro tattamellone* almeno adè ag-ginato là pel monno come le cane.

ROSA: 'Nsomma voe, quanno àressara d 'anfornà? ADELE: Tra 'n par d'ora o tre... ROSA: Tra 'n par d'ora o tre avaremo funito tutte, sperarèbbe. ASSUNTA: (Sbocca) Eh le sò nere, pargono antente ma la fu-

lina. Come arò da fa io, commare cara. ANTONIO: Nonna, la Filomena ha ditto... (sussurra qualcosa

nell'orecchio) ADELE: Dije che jènghe su... VITTORIA: Che c'è che cosa de nòo? ADELE: Mesà che c'è tanto de nòo, no che cosa. Poaretta e que

nu le volio sapé! FILOMENA: (Arriva con aria sgomenta) Da stamane a le due

che commatto, l 'ho meste a lieètà e anco nun se sò mosse. Jan-no fatto l'occhiaticcio*, Adele cara.

ROSA: Oh, poaretta! VITTORIA: V'ete ragione sì a piagna. ASSUNTA: Brutte scellarate man chi adè stato, que addaero

m'arincresce tanto. ADELE: E chi volete che sie: adè sempre quella, sempre una

c'ha l'occhio gattìo, Santa Lucia benedetta jé le facesse cascà 'n'in mezzo a la piazza...

ROSA: Ma 'n ve se sò mosse gnente, gnente, gnente? DUE RAGAZZE: (Passano cantando con un fascio d'erba sulla

testa). FILOMENA: Gnente, quel mò ce l 'ho meste e quel mò sò ari-

maste. ADELE: Si le portate sù, vedaremo da faje che cosa. Io Atra-

mente vò a pijà l'occorrenza e voe annate a pìja le pizze. ROSA: A momente passarà '1 curato a benedì, che regà? Narèb-

be ammannì l'òa che jé le damo mecchì, almeno ce abbenedice pure le pizze.

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ASSUNTA: Le mie manco la pijono la binidizione da quanto se sò annericate!

ROSA: Eh, buggiaravve! la binidizione la pijono allistesso, sia che sò bianche e sia che sò nere...

ASSUNTA: Pure la palma benedetta s'è sciardata. Potesse pijà, ahuuum...

ROSA: A momente se sciojaranno le campane. Veggo che '1 sole adè bello alto e le gente comensono a veni a casa pe annà a fa festa. Esso al momento ho visto le potatore dell'olie che venio-no a casa.

ASSUNTA: Le vostre do' sonno a Monteritonno? ROSA: Macché, oje so' a Vallaroncona. So' ite a roppa pe fa la

maese pel granturco. Lóro sciòjono le bòa quanno se sciòjono le campane e viengono a casa. Tanto pe guernà resta 'I capoc-cia. Doppo ma Lorenzo jé toccarà de bòa '1 lunedi de Pasqua.

ASSUNTA: Sto sole còce come 'n colpo! ROSA: Còce si, ormae le croce so' sguperte, apposta còce. ADELE: (Arriva col lume e un piatto con l'acqua) Famo pre-

sto, regà, che si viene '1 curato ce litaca. Ma, sa che dico, la Fi-lomena anco 'nè ria?

ASSUNTA: Adèccala vedé, ria co' le pizze. FILOMENA: Aggiutateme a scarcà... Fate piano che me sguiz-

za la coroja*. ROSA: Adete ragione, commare cara, a di' che nun ve se so

mosse per gnente... E que' mesà che adè proprio occhiaiiccio, Dio ce ne libbere...

ASSUNTA: Manco male. VITTORIA: Ma mi me freghèttono co' le grajole pe' S. Pan-

grazzio. Ancagno che co' la rigotta panono fatte co' la stoppa. ROSA: Accapace che né diène da la cannella, che ne 'olete sapé.

Do' l'etc erompa la cannella? FILOMENA: Da quello de Bolseno che passa con quella bighet-

ta, con quel caallo tabbacchino... 70

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ROSA: Quello mica adè de Bolseno, adè de Marta, se chiama Crescenziano. La cannella che venne quello l 'ho vista: pare se-gatura de cerqua. Io la cannella la pijo sempre o su da Cencet-to o su da Pinanne che adora ch'aristòra.

ADELE: (Si dispone al rito) ROSA: (Dopo alcuni istanti) Sè... le scoccata* la mi gallina, ha

fatto l'òo. ADELE: E zittateve che me fate sbajà. Valtre mica le sapete

quanto adè fatiga a caà l'occhiaticcio. FILOMENA: L'hanno? ADELE: Ce l 'hanno e de quello ancancarito. Dio ce guarde, mi-

rate l'olio le spanne. E chi ve l'arà ruinate sti degne pizze. Filu-mena cara!

FILUMENA: Ma nun gne se la càa a cassallo? ADELE: Mo ce penso io, vedarete! Che te pija 'n colpo ma 'n

occhio ma chi adè stato. Ecco, vedè, già ce l 'hanno meno, co' 'n 'antra passata vedarete che lo caàmo per bene.

ROSA: Mo l'hanno più? ADELE: Che v'avarèbbe da dì: pare che jé ito via tutto! FILOMENA: Mo me se lièetaranno? ADELE: Si ete 'n pelo de pacenzia, mica adè 'na stioppettata,

vedarete che tra un quarto comenciono a mòa. Portatele a casa e mettetele accanto al foco: belle calle però, eh!

FILOMENA : (Carica te pizze sulla testa aiutata dalle amiche) E allora: Dio e '1 merete!

ADELE: Dio e '1 merete e san Francesco! ROSA: Toccarà annà a pija l'òa mal curato, che me sa ch'adec-

colo. ASSUNTA: O Adè, allora l'òa mesà che ve le porto sù pure ma

voe si nun ce l'ete, chè? ADELE: Fate tanto la carità, cara, chè quanno ce l'ariarò, ve le

ridarò. ASSUNTA: Sarà ora de sfornà?

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ROSA: E tra 'n pelo mesà che se saranno merollate per bene. ANTONIO: Ecco '1 curato! ADELE: Anguattamo sta robba. (Oggetti degli scongiuri). ROSA: Date cà. CURATO: Ah, che buon profumo! ROSA: Sor curà, ce l'abbinidite, vero, le pizze? CURA TO: Certo - Mettetele in fila che daremo la bendizione an-

che alle pizze. Così il Signore vi darà anche la salute del corpo oltre a quella dell'anima. Le case ve l'ho benedette ma la bene-dizione del Signore non discacciatela mai più. Siate buone! Per mantenersi buoni bisogna avvicinarsi più spesso ai Santi Sa-cramenti. Intanto domani alle cinque c'è la prima Messa con la Comunione per gli uomini, alle sei la seconda Messa con la Comunione per le donne. Aspetto anche l'Adele che la vedo un po' di rado in Chiesa. È un po' birichina l'Adele. Spesso passando sento la sua voce, grida e manda imprecazioni. Ade-le, Adele, siate brava, costa così poco!

ADELE: Voe, Signor curato, volete dì de stamane? Ma mica lo sapete che m'hanno fatto, signor curato... M'hanno azzoppa-to quella degna gallina che me facìa l 'òo tutte le giorne...

CURATO: Senza la gallina, state sicura, non morirete di fame. La Divina Provvidenza ci assiste, basta aver fede. Vedete le rondini che volano nel cielo? Non posseggono nulla eppure il Signore da loro la grazia di vivere tranquille e felici.

ADELE: E voe dite bene, signor curato, voe mica le sapete ch'ariffriggerio adè 'na gallinella là pe' 'na casa de 'n poaretto.

CURATO: (Apre il breviario e recita la preghiera) Pax Domi-ni... Alleluja, Alleluja...

TUTTE: (A testa china, con devozione, durante la benedizione delle pizze — Finita la benedizione si avvicinano al sagrestano per deporre le uova nel canestro).

ROSA: Sor curà! CURA TO: Cosa mi dite, figliola?

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ROSA: Avaressamara da ammalidì le rughe jò a Balsemella, nun ce potaressara vini un giorno? Me l'ha ditto pure '1 mi marito: ce magnono tutta la vigna.

CURATO: Ebbè, vedremo, vedremo... ADELE: E noe mal magazzino vorressamara ammalidi le sorce

che ce magnono tutto quel po' grano. Nun ce potaressara vini? CURATO: Per il sorce il Signore ha fatto il gatto, meglio di co-

si? Metteteci il gatto e vedrete che i sorci scompariranno... ADELE: Que le sapìo da mi! CURATO: Bè, adesso devo andare, arrivederci a tutti e buona

Pasqua! TUTTE: Bòna Pasqua, sor curà. (Mentre il curato si allontana

insieme al sacrestano, si sciolgono le campane. In commosso raccoglimento, tutte pregano in ginocchio, con gli occhi rivolti al cielo).

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NOCÈNTE 'L CORNACCHIARO*

GIORGIO: Parlateme 'n po' de 'sto Nocènte... ALFREDO: Giò, che t 'ho da di'! Poarino! Te posso parlà de la

fame e de le miserie, de Nocènte... GIORGIO: Ma era miserabbele tanto? ALFREDO: Tanto! La fame, poarino, se lo percotìa... GIORGIO: Quant 'anne adìa? Do' stava de casa? Che mestiere

facìa? ALFREDO: Arà uto, chiappe e pija, 'na quarantina d'anne. De

casa stava ma na grottaccia la pe' San Martino. Che mestiere adìa? Giò, poarino, adìa un mestiere fiacco: facìa '1 cornac-chiaro.

GIORGIO: Come? '1 cornacchiaro?! E che mestiere adè '1 cor-nacchiaro? Mae anteso di'!

ALFREDO: Pe' forza; èsso, Giò, '1 cornacchiaro nun c'è più: le cornacchie sò sparite. Quanno adèro bardassòto* io, le cor-nacchie annericaono* '1 cielo da quante c'erono e si riaono man campo simentato a granturco o a fae, facìono '1 degrino*, magnaono pure '1 cibborio...

GIORGIO: E allora? ALFREDO: E allora, Giò, 'sti patronale più grosse, mettìono un

omo a mesata a parà le cornacchie acciocché nun fussono ite a fa' le danne là pel campo. St 'òmo se chiamava '1 cornacchiaro. Nocènte, poarino, adèra un cornacchiaro <le lusso e ha fatto '1 cornacchiaro anfinanta a vecchio.

GIORGIO: Ce sarà ito in pensione... ALFREDO: Ma che pensione! In qui tempe me vae a cercà la

pensione! Uno laorava anfinanta che jé la facìa, eppòe annàa pel sabboto*. Altro che pensione.

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GIORGIO: Con chi adèra a garzone Nocènte, Alfrè? ALFREDO: Co' gnuno. Lo chiamaono mo uno e mo 'n antro,

quanno c'era bisogno. Conforme a quanto monno adèra, jé diciono: «Noce', te damo tanto, narébbe che tu venisse a scac-cia le cornacchie pe' tante giorne, mal punto tale, mal punto talaltro». E lue annava.

GIORGIO: Guadambiava benino? ALFREDO: E ch'ìa da guadambia', poarino! Guadambiàa 'na

miseria. La stozza* un po' sì e 'n po' no... GIORGIO: Che attrezze c'ìa pe para 'sti cornacchie? Lo stiòppo? ALFREDO: Ma che stiòppo!! C'ìa 'n sò che bitonaccio, 'n 'om-

brellaccia, de quell'ombrellacce verde ch'usaono allora; 'no spauricchio de quelle che se mettono ma la cànepe, che pòe in primo le cornacchie adìono paura, doppo ce se sudifacìono* e ce se posaono sopra e jé ce cacaono pure. C'ìa 'n po' de tajole, de 'sti tajolacce de ferro cotto...

GIORGIO: Donqua le chiappava pure 'n po' de cornacchie... ALFREDO: Le chiappava... sì le chiappava pure, ma mica tanto

che le cornacchie so' birbone. Le sae con ché le chiappava? Co' qui cartoccette col bresco*, piantate là per terra con fao* mal fonno. Le cornacchie anfrizzaono '1 becco mal cartoccetto pe' magnà '1 fao e '1 cartoccetto jarimanìa appiccicato ma la capoccia e la cornacchia nun vedìa più d 'annàa. . .

GIORGIO: E lue annàa là e la chiappàa?.. ALFREDO: Oh, giusto! La cornacchia le sae che facìa? S'alsàa

a volo, annàa su, alta, alta, ma alta tanto, pòe, poarina, nache nun accapezzàa più d'adèra, chiudìa l'ale e venia iò come 'n sasso.

GIORGIO: Morìa? ALFREDO: Morìa sì: capirae da quell'altezza, poarina, facìa

'no scoppio come 'na barlozza! GIORGIO: L'agginàa mellì? ALFREDO: Se! La portàa a casa e la magnàa co' la fameja. Ma 76

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però, via via, quanno adèra notte a la sera, un po' de cornac-chie l'ìa rimediate. Avoja! Poarino, pòro Nocènte, me pare anco' de vedello. Vestito de saja* de scarlatto, là pe' le piane de Carlette, mecchì a Prato Roncona, su a la Barca, su pe' Lu-grino, daje a fa ' annante e arrèto senza fermasse mae. Quanno adèra da piede al campo, arivia da capo che le cornacchie, di-rèto a lue, già s'arierono posate a branche fitte come le musci-ne. E lue daje a sbatanà*, a scampanellà, a urlà, a batta le ma-no, a sventolà le canne co' le penne de gallina. E tutte 'sti cor-nacchie ch'annericaono '1 cielo, s'alsaono, s'ariposaono, s'at-taccaono su le cerque, su le petagne, su le streppe, e ni pocas-sae cantaono tutt'insieme - crà, cràaa, cràaaa - che te sfonnao-no '1 ciarvello. Quanno stava p'annà sotto '1 sole, s'ariuniono tutte e spiccaono '1 volo tutte ansieme e annaono a dormì all'isara*. A la mattina doppo, a punta de giorno, ariadèrono tutte mellì a fa ' la medesama stornella.

GIORGIO: Nocènte dormìa sul campo, Alfrè? ALFREDO: Macché, annava a casa. Ma a la mattina, a la prim'al-

ba, aggià adèra mellì ariprincipià la via croce, poarino... GIORGIO: E a casa che magnava? ALFREDO: Ch'ìa da magnà, poarino: brodo de cornacchia,

cornacchia lessa e pancanile*. C'ìa 'na moje brutta, magra, poarina! Jé dicìono la Regginella. Giò, col brodo de cornac-chia mica se mette la ciccia! E allora le fije? De fije, poarine, nache ce l'ìa sett'otto, tutte cicìne, che a forza de magnà cor-nacchie adèrono diènte nere come la fulina*. «Crà crà», jé fa-cìono l'altre fije quanno ruzzaono assieme. «Attente, regà, -dicìono - che si abboccono mall'orto magnono tutte le fàe!».

GIORGIO: Alfrè, che fine fece Nocènte? ALFREDO: Che fine fece, Giò! Fece che, poarino, jé comincet-

tono a dolé l'ossa che s'era menzo viziato, nache pe' tutte le gran mollature ch'ìa preso, e camminà potìa camminà più po-co. Un giorno '1 guardiano de Carlette - se chiamava Bruttocu-lo - viste da su da capo a la macchia che le cornacchie iò pe' la Piana de Cornòsse ìono mesto a bannita e gnuno le scacciava.

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Allora l 'omo annètte iò col cavallo, come costumava allora, e chiama e fistia ma del cornacchiaro manco la puzza. «Nocèn-te! Nocènte!» - macché Nocènte nun arisponnìa. Doppo aé gi-rato chi lo sa quanto, lo troétte che dormìa sott'a 'n petagno. Nache, poarino, un po' '1 dolore dell'ossa, un po' la stracchez-za, un po' pure la fame, s'era férmo ma la marea* p'ariposas-se, e mellì s'era addormito e le cornacchie ìono cavato tutto '1 granturco che nascia allora. Sò che ce fu 'na questione: Brut-toculo ariferi tutto mal patrone e '1 patrone ma 'sto Nocènte jé volìa fa' pagà tutte le danne... basta ce fu 'sta questione 'nsomma che poe nun m'aricordo comme annètte a funi, al preciso...

GIORGIO: E jé le pagò le danne? ALFREDO: E con chè jé le pagava, poarino, che nun c'ìa manco

na sfailla*. Jé potìa da' 'n fijo.. . Da allora perse tutta la stima, gnuno più le chiamàa, a para 'sti cornacchie, l 'omo s'arinvelì iò e in capo a 'n anno o due, mòrse*.

GIORGIO: Pòro Nocènte, che brutta fine! ALFREDO: Pòro Nocènte, pòro cocco mio, che brutta fine! Pò-

ro Cornacchiaro, poarino, quanto funi male! Dice che quanno le carbollenghe* lo portèttono via, col cataletto* come costu-mava allora, un branco de cornacchie l'accompagnèttono can-tanno anfinanta al camposanto...

GIORGIO: Jèra morto '1 nemico, adèrono contente. ALFREDO: Jèra morto '1 nemico, brào! E le cornacchie l'ava-

ranno accompagnato pe' . . . pe' cacaje addosso... Poarino, doppo ch'ìa tribbolato tanto chiappa su pure que!

GIORGIO: lo, Alfrè, l'arèbbe fatto cornacchiaro! ALFREDO: L'areste fatto?! Ma varda ch'adèra un mestierac-

cio, sa'! Va bene ch'adesso ch'annave a scaccià, le colpe?! Giò, chisà perché tutte qui gran cornacchie che c'erono allora, nun ce so' più? Do' saranno ite? Che fine aranno fatto?!

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MISTICANZA DI PROVERBI E DETTI LOCALI

(Alla rinfusa come il tempo me li ha dati) • Nébbia a la Rocca, pija l'àsana c tócca. • L evante, si nun piòe è un brigante. • Quanno pjòe e canta '1 cucco, la mattina è mòlla e la sera sciucco. • Febbraio, batte '1 sole ma 'ni guado. • Febbraio, campa la pecuara e '1 pecoraro. • Fino a Natale né freddo né fame; da Natale in là freddo e fame

in quantità. • Sbalena la Buca jarisponne la Bèca l'acqua ci accèca. • Si ha la coda l'isara Martana, presto jène tramontana. • Cielo rosso o piscio o solfio. • Si piòe pe' San Fraiano vale più '1 sacco del grano. • Co' tutte le vente piòe, co' tramontana quanto vòe. • Cielo a pecorelle acqua a fontanelle. • Si annuguala su la brina, piòe prima de domattina. • Acqua e gelo nun stanno in cielo. • Si piòe col sole, tutte le vecchie fanno l'amore. • Pane, vino e ciòcche, dije che fiocche. • 'L marito è '1 sacco, la moje la corda. • Tutta l'erba in terra nata adè bòna pe' l'ansalata. • Si vòe che l'amicizia se mantiene, un capagnòlo vade e un altro

viene • Un'aria de fòco e una de cantina fanno bòno la sera e la mattina. • Capo (tralcio) che regge un pelo de fregna porta l 'ùa fino a vel-

legna. • 'L fuso casca, l 'amante passa. • Quanno '1 pèrsoco fiorì tant'era la notte e tanto '1 dì. quanno

maturò ariadèra quel mò. 79

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• Òie è sabboto a casa mia e le streghe fuggiono via. • Trista quella rapa che d'agosto nun è nata. • Quanno la disgrazia è soccessa, la casa piena de cosije. • Settembre, l'ùa è fatta e '1 fico pènne. • In longa stesa 'ni paja pesa. • La fame del bifolco quanno sciòje, la rabbia del cacciator

quanno nun còje. • Io sò la terra e nun sò parlà, quanno sò molla nun me toccà. • Come sò le fuscellette vièngono le ricotte. • Fontana do' se sputa ce se bee. • Quanno Tulio fiorisce a maggio, vacce col carriaggio; quanno

fiorisce a giugno, vacce col pugno. • Tutto aprile bòn potile, tutto maggio bòn tennaggio (poi, se-

condo Giovanni di Picazzèra, quaranta giorne de tolleranza). • Aprile le fiore, maggio l'onore. • Prima d'èssa aceto sò stato vino anch'io. • See ore un corpo (ore di sonno), sett'ore un pòrco, ott 'ore la

bella zitella, nov'ore 'sta fija bella. • Erba che tu non vòe nasce mall'orto. • Nun c'è morto senza riso, nun c'è sposa senza pianto. • Starna non colta, bòna pe' 'n 'antra volta. • Lepre de faccia, piccione de culo, 'ni cento bòtte uno. • 'L pontone gabba '1 patrone. • Le fae dell'alocco adèrono centonovantasee rubbie, a menza

pacca al giorno le funi tutte. • Ucello de notte nun fece bòn nido. • Pe' dolce nun me sugà, pe' amaro nun me sputà. • 'L vino dell'ùa grèsta, fa dolè la testa. • Pan d'un giorno e vin d'un anno. • Tramontana leata de notte dura quanto un piatto de fae cotte. • Pe' l 'Annunziata nun se mòe cilletto da la coata.

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• Mèjo 'na magra mesata che 'na grassa giornata. • Fusse come la nèe marzolina la lengua de la vicina. • La gatta presciolosa fece le gattine cèche. • Pe' San Martino 'ni mosto è vino. • Quanno l'oca va a montagna, pija l'accetta e butta la vanga;

quanno l'oca va a Maremma, pija la vanga e butta l'accetta. • Si vòe 'n boccone iotto, tenca de maggio e luccio d'agosto. • Pècuara che sbèala perde boccone. • Strada bòna nun fu mae longa. • La morte de le pecuere, la salute de le cane. • Tempo bòno e salute 'n 'ancamono mae. • Chi disse laorà, disse le bòa; chi disse camminà, disse a cavallo;

chi disse maccaron disse co' l 'òa. (Baronesso) • Bòn Natale, bòn Natale, fate la mancia si ve pare!

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