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GIORGIO DE GIORGIO PERFIDA ALBIONE La Gran Bretagna dall’Impero alla Brexit 68 i quaderni del cineforum

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GiorGio De GiorGio

PERFIDA ALBIONELa Gran Bretagna dall’Impero alla Brexit

68i quaderni del cineforum

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PERFIDA ALBIONELa Gran Bretagna dall’Impero alla Brexit

GiorGio De GiorGio

CINEFORUM DEL CIRCOLONovembre - Dicembre 2019

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introDuzione

Perché “Perfida Albione”?“Albione. Antico nome (probabilmente celtico) della Gran Bretagna, attestato dal 6° sec. a.C., a partire dal 4° sec. soppiantato da Britannia. Albione è rimasto nell’uso letterario, soprattutto nella locuzione spregiativa ‘la perfida Albione’, comparsa la prima volta in una poesia pubblicata nel Calendrier républicain del 1793”. (Treccani).Partiamo dunque dal dettato della definizione dell’Enciclopedia Treccani. Dopo secoli di guerre di spregiudicata conquista e di colonialismo spinto in quattro continenti, la definizione “perfida Albione” sembra storicamen-te appropriata soprattutto da parte dei popoli che ne subirono il dominio. Ma questa volta, paradossalmente a guardare cosa sta succedendo oggi, la “locuzione spregiativa” può apparire più rivolta da sé verso se stessa, visto le conseguenze sociali, civili ed economiche che derivano dalla Brexit, che ha già colpito e continuerà a colpire l’intera comunità Britannica.

Lo United Kingdom e la sua Brexit La Brexit, dunque, è stato ed è un obiettivo da parte di alcuni da raggiungere, a qualunque costo, a qualunque prezzo, “perfidamente”. Da parte di una metà di popolo inglese sull’altra. Con un’irragionevole determinatezza davvero poco comprensibile. Dramma che ha imposto la sua attenzione all’Unione Europa e al resto del mondo già tre anni e mezzo, con conseguenze che dureranno chissà quanto nel tempo, di qua e di là della Manica.Quanto è accaduto in Gran Bretagna dal 23 giugno 2016 ad oggi ha coinvolto sempre di più tutti i governi eu-ropei e non solo l’UE. Quel giorno i cittadini inglesi erano stati chiamati a rispondere a un quesito referendario: rimanere nell’Unione Europea o uscirne? Remain or Brexit? L’allora Primo Ministro conservatore David Came-ron, che lo ha indetto per creare maggior consenso alla sua parte politica, non immaginava certo cosa sarebbe potuto succedere in caso della vittoria della Brexit. Che in effetti sorprendentemente avvenne. Scatenando una serie di problemi praticamente insormontabili. Per la sconfitta referendaria Cameron si è dovuto subito dimette-re passando il pallino alla collega conservatrice Theresa May. Che dopo tre anni di tentativi infruttuosi e dispute parlamentari senza fortuna a sua volta lo ha passato al subentrante Primo Ministro conservatore Boris Johnson, ancora più radicale, confuso e conflittuale, in un continuo insuccesso politico. Non memore del destino del re Carlo I (deposto e decapitato nel 1649 reo di aver chiuso il Parlamento), ha perfino cercato di emularlo anche se a modo suo e senza spargimento di sangue. Si badi bene. Tutto ciò è accaduto e sta accadendo ad una delle nazioni più potenti del mondo che per secoli fino a poco tempo fa ha rappresentato il più grande, ricco e duraturo Impero della storia.

I cinque titoli della rassegnaEsagerando e con un po’ di malizia cinefila, la rassegna dei cinque film che seguono sembrano poter far intrav-vedere una forma di attitudine ad agire come “perfida Albione”. In Elizabeth si prefigura la nascita dell’Impero, violento, senza scrupoli, sanguinario, regicida e antipapale, perfettamente allineato alla definizione della Enciclo-

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pedia Treccani. In L’uomo che volle farsi re si osserva come l’attitudine alla sottomissione di altri popoli al proprio dominio, possa scaturire perfino nella mente e nelle possibilità anche di un soldato semplice inglese. Nel film Gli anni dell’avventura scopriamo l’”avventurosa” formazione del giovane arrembante Winston Churchill al seguito delle imprese di conquista brandendo la sua penna di corrispondente di guerra al servizio dell’esaltazione delle vittorie. In I seicento di Balaklava osserviamo l’altezzosità del comando e la superbia degli ufficiali colpevoli della strage della Brigata Leggera compiuta con indicibile irresponsabile leggerezza. Successivamente, da ultimo, quasi a fare am-menda delle “bravate” giovanili, ritroviamo Winston Churchill in L’ora più buia alla vigilia della possibile tragica fine dell’Impero, quando dopo il fallimento della cieca e arrendevole politica di appeasement col nazista Adolf Hitler del precedente primo ministro Melville Chamberlain (lui, sì, protagonista della definizione di perfida Albione), la Gran Bretagna sembrava perduta. Ma con Churchill al comando la Nazione resistette nel nome della grandezza del suo grande passato salvando se stessa e il destino di tutta l’Europa.Quest’ultimo film ha una carica simbolica particolare, al di là dei meriti della gloriosa vicenda storica. Mai come in quei giorni la Gran Bretagna fu così sola e isolata, quando i nazisti ovunque vincitori in Europa arrivarono alla Manica e dovevano solo attraversarla per invadere l’ultima nazione europea ancora libera. Concentrata a difendersi con ogni risorsa materiale e spirituale dal pericolo mortale che le veniva dal territorio europeo, la Gran Bretagna combatte e sopravvisse. Da sola, quasi anticipando nei fatti una forma forzata di Exit in anteprima.Dalla fondazione dell’Impero da parte di Elisabetta I a Winston Churchill che lo ha salvato. Quattro secoli dopo. Passando da guerre, conquiste e sconfitte, dall’India al Sudan, dai Boeri alla Crimea.

L’Impero britannico e il Cinema ingleseNon c’è un’altra cinematografia come quella d’oltre Manica che sia così apprestata a seguire e rievocare la propria storia patria, in gran parte favorita in questo della particolare continuità monarchica. Forse quella francese può essere un altro esempio, ma che poi con la tutto sommato breve parabola di Napoleone si conclude velocemente. La continuità delle Istituzioni inglesi, non solo in senso stretto (vicende di re e regine, e conquiste vittoriose) ma anche la superiorità della propria società si sono imposte nel Cinema come conseguente dominio politico ed economico. La storia del Cinema ne copre direttamente quasi l’ultimo terzo (150 anni su 450) fino ai nostri giorni. E quando non presenta film rievocatrici di regine e di re (anche quando ne viene decapitato uno (Carlo I) produce una lunga serie di titoli che ne perpetuano l’immagine di un predominio politico ed economico così sicuro di sé, anche con quasi sempre supponente superiorità. Ciò è potuto avvenire principalmente perché, come spesso accade, le civiltà dominanti producono scrittori ed artisti che ne sintetizzano mirabilmente il passaggio epocale imponendosi come modello agli altri. Così è stato per il Cinema. Con un continuo fruttuoso scambio con la letteratura. Da Shake-speare a Dickens, da Jane Austen a Oscar Wilde e Noel Coward, compresi i premi Nobel Rudyard Kipling (1907), William Butler Yeats (1923), George Bernard Shaw (1925), John Galsworthy (1932), Bertrand Russell (1950), Win-ston Churchill (1953), Samuel Beckett (1969) ecc…

Da Elisabetta a Elisabetta IIIl fatto che la rassegna incominci con il film Elizabeth ci porta a sottolineare ancora che nel Cinema inglese hanno una importante presenza i monarchi che si sono avvicendati. Vediamone ora un elenco. Non sono presenti i film relativi al periodo storico precedente la regina Elisabetta, che prendiamo come momento iniziale della ras-segna. Non si contano, per esempio, i tantissimi film tratti dalle opere di Shakespeare. In neretto i nomi degli attori e attrici che hanno personificato re e regine. Magari guadagnandosi l’Oscar. In epoca più vicina a noi, oltre ai monarchi, sono apparsi ben rappresentati anche i Primi Ministri.

ENRICO VIII (1491-1547) Enrico VIII (1911), William G,B. Barker (Arthur Bourchier)Cardinal Wolsey (1912), J. Stuart Blackstone (Tefft Johnson)Le sei mogli di Enrico VIII (1933), Alexander Korda (Charles Laughton)La regina vergine (1953), George Sidney Charles Laughton)Un uomo per tutte le stagioni (1966), Fred Zinnemann (Robert Shaw)Anna dei mille giorni (1969), Charles Jarrott (Richard Burton)Tutte le donne del re (1972), Waris Hussein (Keith Michell)Un uomo per tutte le stagioni (1988), Charlton Heston (Martin Chamberlain)

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ELISABETTA (1533-1603) La regina Elisabetta (1912), Louis Mercanton (Sarah Bernardt)Elisabetta d’Inghilterra (1937), William K. Howard (Flora Robson)La regina vergine (1953), George Sidney (Jean Simmons)Anna dei mille giorni (1969), Charles Jarrott (Katharine Black)Elizabeth (1998), Shekhar Kapur (Cate Blanchett)Shakespeare in Love (1998), John Madden (Judi Dench) Elizabeth – The Golden Age (2007), Shekhar Kapur (Cate Blanchett)

MARIA regina di Scozia (1542-1587) Mary Stuart (1913), Walter Edwin (Mary Fuller e Miriam Nesbitt)Maria di Scozia (1936), John Ford (Katherine Hepburn e Florence Eldridge)Anna dei mille giorni (1969), Charles Jarrott (Valerie Gearon)Maria Stuarda regina di Scozia (1971), Charles Jarrott (Vanessa Redgrave e Glenda Jackson)Maria regina di Scozia (2016), Josie Rourke (Saorsie Ronan e Margot Robbie)

GIACOMO I (1566-1625) The New World (2005) Terrence Malick (Vincent Price)

CARLO I (1600-1649) Cromwell (1970) Ken Hughes (Alec Guinness)

CARLO II (1630-1685) La baia di Hudson (1941) Irvin Pichel (Vincent Price)Ambra (1947) Otto Preminger (George Sanders)Re in esilio (1947) Max Ophuls (Douglas Fairbanks jr.)Il ladro del Re (1955) Robert Z. Leonard (George Sanders)

ANNA (1665-1714)La favorita (2019) Yorgos Lanthimos (Olivia Colman)

GIORGIO III (1738-1820) La pazzia di re Giorgio (1995) Nicholas Hytner (Nigel Haworne)

VITTORIA (1819-1901) L’amore di una grande Regina (1954) Ernst Marischka (Romy Schneider)

Dall’alto in basso e da sinistra a destra: Enrico VIII; Elisabetta; Maria regina di Scozia; Giacomo I; Carlo I; Carlo II; Anna; Giorgio III; Vittoria; Edoardo VIII; Giorgio VI, Elisabetta II

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La piccola principessa (1939) Walter Lang (Beryl Mercer) La mia regina (1997) John Madden (Judi Dench)The Young Victoria (2009) Jean-Marc Vallée (Emily Blunt)Vittoria e Abdul (2017) Stephen Frears (Judi Dench)

EDOARDO VIII (1894-1972) W.E. Edward e Wallis (2011) Madonna (James D’Arcy)

GIORGIO VI (1895-1952) Il discorso del Re (2010),Tom Hooper (Colin Firth) A Royal Weekend (2012) Roger Michell (Samuel West) L’ora più buia (2017) Joe Wright (Ben Mendelshon)

ELISABETTA II (1926) The Queen – La Regina (2006) Stephen Frears (Helen Mirren) Una notte con la Regina (2015) Julian Jarrod (Sarah Gadon)

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ELIZABETH(Elizabeth, 1998)

reGia: Shekhar Kapur SoGGetto Michael Hirst SceneGGiatura: Michael Hirst FotoGraFia Remi Adefarasin ScenoGraFia: John Myhre, Lucy Richardson e Peter Howit Musica David Hirschfelder MontaGGio Jill Bilcock interpreti Cate Blanchett (Elizabeth), Joseph Fiennes (Robert Dudley), Ge-offrey Rush (Francis Walsingham), Attenborough Richard (William Cecil), Fanny Ardant (Marie de Guise), Eric Cantona (Monsieur de Foix), Vincent Cassel (Enrico duca d’Anjou), John Gieguld (papa Pio V), Daniel Craig (John Ballard), Emile Mortimer (Kat Ashley), Kathy Burque (regina Mary Tudor) proDuttore Tim Bevan, Eric Fellner, Alison Owen, Mary Richards paeSe Di proDuzione Gran Bretagna Durata 126’.

IL RACCONTO

Nel 1558, la regina cattolica Mary d’Inghilterra muore, lasciando come unica erede la sorellastra anglicana Elizabeth. Elizabeth era stata inizialmente rinchiusa nella Torre di Londra per presunta cospirazione contro sua sorella, anche se in seguito era stata liberata dalla regina stessa e confinata nella sua casa di campagna. Grazie all’incoronazione cerca di ristabilire l’ordine nel suo disastrato paese e la religione ufficiale torna a essere l’Anglicanesimo. Il film mostra il corteggiamento dei vari regnanti d’Europa interessati al trono, tra i quali vi è anche il Duca d’Anjou, il futuro Enrico III di Francia. Elizabeth però è palesemente innamorata di un suo cortigiano, Lord Robert. Elizabeth deve anche preoccuparsi di varie cospirazioni contro la sua persona e il suo regno, una delle quali è architettata dal duca di Norfolk, un cattolico della sua corte che in accordo con Marie de Guise, vorrebbe innalzare al trono la figlia di quest’ultima nonché cugina di Elizabeth, la regina cattolica Mary di Scozia. Alla fine Elizabeth, riuscita a scampare a tre attentati (un attacco con delle frecce, uno tramite un vestito avvelenato, l’ultimo più diretto per mezzo di un monaco incappucciato), prende l’amara e triste decisione di far uccidere tutte le persone che cospirano contro di lei: Norfolk e i suoi compagni sono decapitati, mentre Marie de Guise viene uccisa dal fidato protettore della regina, Francis Walsingham. Tra i suoi nemici però c’è anche il suo amato Robert: infatti, l’uomo era stato respinto da Elizabeth quando questa aveva scoperto che egli era sposato e che si era alleato con la Spagna, convinto di poter salvare la sua regina. Elizabeth lo risparmia. Alla fine per il bene del suo popolo la regina decise di non sposarsi con nessuno. Si tinge la pelle di bianco e si taglia i capelli, dichiarandosi sposata con l’Inghilterra.

IL LORO PARERE

Avvincente dramma storico diretto con grande senso dello spettacolo e voluttuosa propensione per le scene forti dal pachistano Shekar Kapur. Tra i molti ottimi attori ai suoi ordini spicca l’australiana Cate Blanchett, fornita in parti uguali di talento e bellezza, quest’ultima da indovinare sotto parrucche e gorgiere. Massimo Bertarelli, Il Giornale, 26 giugno 2004

Due mondi subito contrapposti, in modo dicotomico; nel film Elizabeth, diretto dal pakistano Shekar Kapur. Il male è rappresentato nelle scene di violenza fatta su uomini e donne arsi vivi perché ritenuto eretici, lo simboleg-giano la cupa e angosciante corte della regina Maria la Cattolica, i visi crudeli abilmente sottolineati da inquadrature in semi-ombra. La dimensione del bene è espressa dalle immagini soavi, pulite, giocose di Elizabeth, figlia illegitti-ma di Enrico VIII, interpretata dalla affascinante Cate Blanchett che scambia danza e amore con il suo compagno, il bravo e convincente Joseph Fiennes, in un paesaggio arioso, pieno di luce. La particolarità di quest’opera sembra essere l’ineluttabilità dell’incontro fra ciò che è positivo, i sentimenti, e ciò che non lo è, il potere e la conseguente trasformazione forzata di tutto ciò che è vitale e spontaneo in valore negativo. La sintesi di questo processo è in-carnata da Elizabeth che, come annuncia il cartellone pubblicitario, ha un percorso già predeterminato; a tre anni dichiarata bastarda, a ventuno processata per tradimento, a venticinque incoronata regina. Magra soddisfazione per una donna che, a poco a poco, perde spontaneità e gentilezza d’animo: Elizaberth, regina, balla ancora davanti alla corte con il suo compagno; nei movimenti manca però qualcosa di essenziale, il suo essere, la sua sessualità. Elizabeth si adegua alle regole del potere che non danno scampo neppure all’intimità; rinuncerà all’amore con il

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suo compagno. Eppure, lei è un personaggio forte e caparbio, nonostante sia obbligatorio per una regina. E’ sul punto di cedere, ma scopre in tempo che il consorte non è adatto al suo ruolo di re perché omosessuale. Non proverà più a sposarsi, ma ciò che la circonda è un contesto retto da rigidi schemi e se Elizabeth sfugge all’unione con un uomo che non ama, non potrà sottrarsi agli ulteriori passaggi obbligati per rimanere regina e in vita. In questa vicenda dominano intrighi di corte e oscuri giochi di palazzo, in cui la giovane e ancora inesperta Elizabeth non se la caverebbe se non avesse accanto un angelo custode, sir Cecil, che, con molta disinvoltura, come se fosse la cosa più normale di questo mondo, uccide chiunque sia di ostacolo alla espansione della corona d’Inghilterra…Maria Rosaria Capozzi, Cinema Sessanta, gennaio-febbraio 1998

[...] Elisabetta fu grande perché riuscì a ridare prestigio a un’Inghilterra devastata da guerre di religione e attacchi nemici, regnò per 45 anni, e morì nel suo letto. Evitando i molti tentativi di farla fuori. Fu detta la Regina Vergine e naturalmente vergine non era. Solo rifiutò di sposarsi per non essere soggetta, lei regina, a un uomo, e non dover dividere il potere con nessuno. Arriva adesso Elizabeth, grandiosa versione della storia, una specie di un fastoso thriller, di Padrino del ‘500, in cui si mescolano intrighi reali, bagni di sangue, roghi e interrogatori, nella famosa torre di Londra, la mannaia sempre al lavoro, abiti stupendi, anche avvelenati, romantiche feste sul Tamigi con lancio di frecce, sempre avvelenate, orge, amori pericolosi, aspiranti alla regale mano, perfidi consiglieri e lotta truculenta tra cattolici (Maria) e anglicani (Elisabetta) [...] Cate Blanchett, intelligente, colta, sottile: perlacea, non bella; bravissima. È perfetto il modo in cui, da ragazza già indurita dalla necessità di sopravvivere in un mondo in cui la vuole morta, capisce che deve trasformare la sua fragilità di donna circondata da uomini, ma comunque sprezzanti, ansiosi di sopraffarla, nell’immagine stessa del dominio invincibile. Fa di sé un’icona, imprigionandosi nel trucco bianco, quasi magico, da statua di marmo: diventa Vergine perché il popolo la ami e la corte la tema, la storia la esalti e gli spettatori d’oggi restino incantati.Natalia Aspesi, D, 6 ottobre 1998

[...] Con Elizabeth ci troviamo al cospetto di una di quelle intramontabili produzioni internazionali intenzionate a mostrare un’ostentata grandeur, farcita di svogliate star planetarie, radunate per l’occasione. Che è quella di rac-contare, una volta di più (ricordate Bette Davies o Glenda Jackson, tra le altre?), la figura e il regno di Elisabetta I, l’energica sovrana del Golden Age e Shakespeare, figli illegittima di Enrico VIII e Anna Bolena che succedette alla sanguinaria sorellastra Maria, la regina Vergine che non fu mai che Papa Pio V scomunicò come eretica. L’Inghil-terra del sedicesimo secolo, secondo l’impostazione frou frou scelta dal regista indiano Shekar Kapur (si tratta del suo primo film girato fuori dal suo paese dove è un autore di punta del cinema hindi), sembra più orientata non verso una fedele ricostruzione epocale, anche se sontuosamente impreziosita dai costumi e dalle magnifiche loca-tions degli interni (ben 12 tra castelli, cattedrali e palazzi), ma in direzione, invece, d’una spettacolarità popolana e fanatica, più da Novella 2000 che da un manuale di storia…Fabio Bo, Il Messaggero, 9 settembre 1998 – da Venezia

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[...] Eppure il coup de theâtre che trasforma la bella e giovane eretica protestante nell’icona del potere regale che identifichiamo come Elisabetta è la riscoperta della verginità, o quantomeno del suo potere simbolico. Accade nel momento in cui la rossocrinita figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena, 25enne, protestante, assurta dopo la morte della sorellastra Maria la cattolica – o Bloody Mary – al rissoso e pericoloso trono di un’Inghilterra divisa da un feroce scontro religioso tra cattolici e protestanti, in una corte piena di veleni (non metaforici) e di trabocchetti, si interroga sulla sua difficile situazione e scopre che cosa deve fare. L’ispirazione le viene da una pallida, gessosa statua della Madonna. “Ho liberato l’Inghilterra della sua presenza” dice grosso modo la giovane regina, capendo al tempo stesso che, agli occhi del suo popolo, deve prendere il posto di quell’intoccabile simbolo e diventare così, in una spogliazione e vestizione che ricorda la presa del potere di Urbano VIII nel Galileo brechtiano, Elisabetta la Regina Vergine…Irene Bignardi, La Repubblica, 9 ottobre 1998

[...] Ebbi carta bianca sul cast, doveva essere ricco e internazionale nella girandola di amori e complotti. Avevo visto Cate nel film in costume Oscar & Lucinda e mi aveva conquistato. Mi parve subito perfetta per dare il volto e corpo antichi ma sensibilità moderna, a quel periodo complesso di storia inglese del 1554. Dopo il festival di Venezia, dove il film fu presentato, Cate divenne una delle attrici più richieste, com’è ancora oggi, di Hollywood e con lei conto di girare una nuova pellicola in autunno[...] Il film era una scommessa perché il periodo storico che raccontava era ostico ai più, molto aggrovigliato e ricchissimo di personaggi. Io ebbi sin dall’inizio un obiettivo: realizzare alla corte inglese una sorte di Padrino, questo era il mio modello cinematografico; poi volevo privilegiare, oltre al dramma storico, la forma pittorica con riferimenti all’arte del Veronese e la contraddizione moderna ed eterna per le donne, tra carriera e vita personale.Shekar Kapur, Il Corriere della Sera, 17 aprile 2002

IL REGISTANato in Pakistan, a Lahore, il 6 dicembre del 1951, Shekhar Kapur lascia presto il mestie-re di contabile e dopo una parentesi di formazione in Inghilterra si reca a Bollywood, la grande industria indiana del cinema, dove cerca di affermarsi come attore. Presto scopre la passione per la regia. Segue quindi la classica trafila dell’industria, iniziando come assistente alla regia per poi diventare cineasta.Nel 1983, il debutto dietro alla macchina da presa con il film Masoom, cui seguono altri titoli mai arrivati in Italia. Figura emblematica di Bollywood, Shekhar Kapur è uno dei primi registi indiani ad approdare fino a Hollywood.Nel 1998 diventa un nome con il film Elizabeth, candidato a ben sette premi oscar, tra i quali quelli per il miglior film dell’anno e per la migliore attrice (Cate Blanchett). Tre anni dopo, Shekhar Kapur adatta per il grande schermo il romanzo di costume, Le quattro piume di A.E.W. Mason, con Heath Ledger, Wes Bentley e Kate Hudson. Segue nel 2007 una ripresa del suo film di maggior successo, Elizabeth – L’età dell’oro, ancora con Cate Blanchett, questa volta affiancata da Clive Owen.

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L’UOMO CHE VOLLE FARSI RE(The Man Who Would Be King, 1975)

reGia: John Huston SoGGetto Rudyard Kipling (dal romanzo omonimo) SceneGGiatura: John Huston, Gladys Hill FotoGraFia Oswald Morris Musica Maurice Jarre MontaGGio Russell Lloyd interpreti Sean Connery (Daniel Dravot), Michael Caine (Peachy Carnhan), Christopher Plummer (Rudyard Kipling), Saeed Jaffry (Billy Fish), Shakira Caine (Rossana) proDuttore John Foreman, William Hill paeSe Di proDuzione Stati UnitiDurata 129’.

IL RACCONTO

Daniel Dravot, ex-sottufficiale dell’esercito inglese, e il suo collega Peachy Carnehan, entrambi massoni, decidono, svanita ogni altra possibilità di far fortuna in India, di conquistarsi un regno tra le montagne del Kafiristan: una regione ignota agli europei ma sulla quale, più di venti secoli prima, aveva dominato Alessandro Magno. Dopo aver chiamato come testimone della loro impresa il giorna-lista Rudyard Kipling, Daniel e Peachy si mettono in viaggio, con un carico di fucili, verso la loro “terra promessa”, che raggiungono dopo aver superato fiumi, montagne e ghiacciai. In virtù della loro esperienza militare riescono facilmente a imporsi sulle popolazioni locali, unificandole sotto il loro dominio. Grazie, poi, al simbolo della massoneria che porta al collo e che è identico a quello scolpito su un antico sarcofago custodito dal Gran Sacerdote di Nicandergal - la città santa del Kafiristan - Daniel viene addirittura ritenuto un dio, discendente da Alessandro Magno, e incoronato re. Diventato, come tale, proprietario di un immenso tesoro, egli decide, contro il parere di Peachy, di non fuggire col favoloso bottino, ma di restare poiché è convinto di avere sul serio una missione divina da compiere. Commette, però, l’errore di volersi sposare: il giorno delle nozze, infatti, la sua umana vulnerabilità viene scoperta, per cui sacerdoti e popolo si rivoltano contro l’impostore e lo gettano da un ponte. Si salva, invece, Peachy, e sarà dalla sua bocca che Kipling apprenderà la loro storia.

IL LORO PARERE

[...] Come che sia, L’uomo che volle farsi re racconta qualche cosa che potrebbe anche essere stato, al tempo di Kipling, un serio progetto di conquista imperialista studiato a tavolino e poi sfumato per motivi pratici. Ma Kipling, che probabilmente si rendeva conto che l’impero aveva i giorni contati, ha ricavato da questo progetto abortito un apo-logo che in poche pagine The Rise and Fall cioè l’ascesa e la caduta dell’impero anglo-indiano. I due avventurieri tentano, infatti, di ripeter l’avventura degli spregiudicati e coraggiosi fondatori dell’impero, muovendo dall’India alla conquista nientemeno di un regno, il Kafiristan, che, dai tempi di Alessandro Magno, è governato da una setta di monaci animisti non tanto diversi dai lama del Tibet [...] Ma per sottomettere un regno governato da sacerdoti, ci vogliono uomini che possano passare per dei. È quello che i due inglesi capiscono casualmente allorché una freccia lanciata contro uno di loro, nel corso di una scaramuccia, viene fermata sul petto da una borchia di cuoio. I kafiri, vedendo che l’inglese apparentemente trafitto, continua a combattere come se niente fosse, si prostrano faccia a terra, creduli e adoranti; e così il gioco sembra fatto. L’uomo dal casco di sughero sarà re…Alberto Moravia, L’Espresso, 2 maggio 1976

[...] Si tratta di un progetto che Huston aveva concepito negli anni ’50 per Humphrey Bogart. Scomparso l’attore di Il mistero del falco è adesso Sean Connery l’interprete del personaggio di Dravot, un avventuriero inglese che decide di diventare re dell’immaginario Kifiristan per realizzare il colpo della sua vita, ma non riesce a evitare la coscienza della regalità e ne viene travolto. Oggi si potrebbero leggere queste belle pagine di Kipling come una geniale paro-dia involontaria del colonialismo britannico, ma Huston si limita alla sua abituale dimensione del film d’avventura

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con finale amaro. Lo spettacolo abbonda di belle immagini e di notazioni acute e tuttavia non convince fino in fondo,Tullio Kezich, Panorama, 30 marzo 1976

[...] Non c’è dubbio, però, che pur rimanendo esteriormente fedele a Kipling e ai suoi personaggi Huston cambia di segno al racconto, e non soltanto nei dialoghi: la fede di Kipling nel “pesante fardello dell’uomo bianco” e nella missione dell’impero Britannico di portare la luce della civiltà tra i popoli ottenebrati dalla barbarie è corrosa all’in-terno del film dagli acidi di un malizioso scetticismo e di una critica ironia. Nell’attraversare l’India senza vederla e nel portare tra le tribù del Karfiristan ordine, giustizia, progresso – ma anche esemplari castighi per i dissenzienti e gli indocili – ricevendone in cambio potere e ricchezze, i due simpatici filibustieri si portano da veri imperialisti. La causa profonda della loro sconfitta è l’incapacità di comprendere una cultura che, in quanto primitiva, essi credono inferiore. Perdono il regno perché, in fondo non sono in grado di capire la vera natura della sovranità conquistata.Morando Morandini, Il Giorno, 18 marzo 1976

[...] Satira della massoneria, che impone fratellanza tra galantuomini e ribaldi; ironico graffio agli inglesi, costretti ad ammettere che i selvaggi del Kafiristan giocano a polo come baronetti; pittoresca rievocazione etno-grafica sullo sfondo delle imprese leggendarie di Alessandro; amara condanna della credulità delle folle, sempre pronte a seguire chi ne scatena gli istinti belluini e ne appaga il bisogno di divino; sarcastica denuncia della superstizione, strumento dei sopraffattori, e della superbia che li distrugge: Il film fonde tutti questi motivi in un laico sorriso a fior di labbra, che toglie asprezza alle pagine severe e dà alla composita struttura fiabesca levità…Giovanni Grazzini, Il Corriere della Sera, 18 marzo 1978

La storia è spiccatamente avventurosa, e a caratterizzarla in questo senso contribuiscono gli episodi fantastici che la punteggiano: le battaglie e le vittorie tra le tribù selvagge, l’incontro con i santoni del Kafiristan, la scoperta e la perdita del favolo tesoro ammucchiato nel corso dei secoli in previsione dell’arrivo del discendente di Alessandro, a cui spetta. Ma la sua nota dominante è l’ironia corrosiva che il vecchio ma sempre mordente regista di Giungla d’asfalto, del Tesoro della Sierra Madre e di tanti altri celebri film, inserisce con splendida sicurezza e misura sulla trama smitizzante del racconto di Kipling. Così il film non si segnala soltanto per la grandiosa ambientazione scenica e l’esotismo dei personaggi e delle folle - che pure sono suggestivi, - ma anche per la sua amara e provocatoria con-

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clusione che l’onestà ritrovata col potere conquistato mediante l’inganno non paga. Insomma, quasi un apologo sull’estrema pericolosità di mirare troppo in alto e sulle spiacevoli conseguenze di scoprirsi non all’altezza.Renato Finazzola, Famiglia Cristiana, 11 aprile 1976

IL REGISTARegista statunitense (1906 -1987) dalla forte personalità e dalla biografia leggendaria, il tema conduttore della sua opera è stato tradizionalmente indicato nella rilettura amara e disincantata dell’epica individualista del cinema americano, spesso evocata attraverso un’impresa ecceziona-le che sfocia in una sconfitta. Esplorò i più svariati generi cinematografici: dal western (Il tesoro della sierra Madre, 1947, Oscar per il miglior attore non protagonista) al dramma (La jungla d’a-sfalto, 1950), dalla rilettura in chiave spettacolare del capolavoro di Melville, Moby Dick (1956), alla commedia (L’onore dei Prizzi, 1985), in cui diresse la figlia Anjelica (n.1951). Figlio dell’attore Walter, è stato pugile professionista, campione californiano dei medio-leggeri, attore teatrale (1925), giornalista, cronista sportivo. Sceneggiatore per Wyler, Litvak, Dieterle, Walsh e altri, con la sua prima regia, Il mistero del falco, 1941, diede inizio alla corrente del film nero. In tutti i suoi film, anche in quelli costretti nei limiti di esigenze spettacolari o commerciali, rivelò una vigorosa personalità. Tra i suoi temi preferiti primeggia quello della lotta, dello sforzo, individuale o collettivo, coronato dal successo o fatalmente destinato al fallimento.

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GLI ANNI DELL’AVVENTURA(Young Winston, 1972)

reGia: Richard Attenborough SoGGetto dal libro autobiografico My Early Life: A Roving Commission di Winston Churchill SceneGGiatura: Carl Foreman Fo-toGraFia Gerry Turpin ScenoGraFia: Donald M. Ashton, Geoffrey Drake, John Graysmark e William Hutchinson Musica Alfred Ralston MontaGGio Kevin Connor coStuMi Anthony Mendleson Maude Churchill eFFetti Speciali Cliff Ri-chardson, John Richardson interpreti Simon Ward (Winston Churchill), Ro-bert Shaw (Lord Randolph Churchill), Anne Bancroft (Lady Jenny Churchill), John Mills (generale Kitchner), Pat Heywood (Mrs. Everest), Basil Dignam (Joseph Chamberlain), William Dexter (Arthur Balfour)proDuttore Carl Foreman paeSe Di proDuzione Gran Bretagna, Stati Uniti Du-rata 124’.

IL RACCONTO

I genitori di Winston Churchill, lord Randolph brillante uomo politico conservatore e l’americana Lady Jennie, nel corso della sua infanzia e fanciullezza quasi lo trascurano, lasciandolo alle cure della devotissima Eli-zabeth Everest e inviandolo in austeri collegi nei quali dà scarsi risultati. Il giovane riesce con fatica a farsi ammettere all’accademia militare da cui esce col grado di tenente. Partecipando come ufficiale di cavalleria e corrispondente di guerra fa le sue prime esperienze militari in India e in Sudan, suscitando l’ostilità del generale Kitchener per la sua ambizione e la smaniosa ricerca di popolarità. Morto il padre immaturamente, dopo una battaglia parlamentare che lo aveva reso impopolare, Winston si presenta candidato dei conservatori a soli 23 anni e fallisce. Nel frattempo muore anche l’amata nutrice Elizabeth. Recatosi nel Sudafrica, quale corrispondente, durante il conflitto angloboero, si segnala per il coraggio, cade prigioniero e riesce a fuggire clamorosamente. Acclamato quale eroe, al secondo tentativo entra in parlamento e immediatamente riprende con coraggio la tesi antimilitarista del padre. Pochi anni dopo sposa lady Clementine.

IL LORO PARERE

Gli anni dell’avventura è derivato dal libro autobiografico di Wintson Churchill “Gli anni della mia giovinezza”. Fu lui stesso a invitare il produttore Carl Foreman a farne un film che ha potuto essere realizzato parecchi anni dopo la morte del famoso statista. Come lo stesso titolo suggerisce ne è scaturito un panorama che rimane di proposito limitato, per abbracciare soltanto una parte minima d’una vita tempestosa e colma di fattori determinanti per la storia contemporanea e per concludere il racconto quando il protagonista aveva venticinque anni. Prevale quindi sui fattori politici e sull’impronta a questi dati dal personaggio quello del ritratto bonario ma non agiografico, per mettere in luce alcuni tratti psicologici del giovane Winston. Anzitutto si cerca di conferire rilievo plausibile al contrasto fra l’ostentata, spavalda sicurezza del giovane durante le sue apparizioni pubbliche, e la sua celata timi-dezza, originata dal rapporto difficile con il severo padre, Lord Randolph. E nei limiti del film spettacolare, sia pure trattato con minuziosissima cura formale, è circoscritta tutta la parte centrale del racconto, diretto con pacata cadenza da Richard Attenborough, vale a dire i capitoli riguardanti le vicende di Winston, in qualità di corrispon-dente di guerra prima in India, poi in Africa, durante la guerra anglo-boera… E’ praticamente riservata all’ultima mezz’ora, e cioè al ritorno in Inghilterra, la fase che delinea con maggiore chiarezza e grinta l’autentico carattere dell’uomo, la sua ambizione, ma anche la sua fiducia nella sincerità dei giovani, il coraggio di proclamare la propria tesi anche quando è in netta opposizione alle idee che prevalgono nello stesso suo partito conservatore, al quale rimarrà comunque sempre fedele. E’ con questo suo primo discorso rivelatore alla Camera dei Comuni terminano, appunto, “gli anni dell’avventura”.R.B., Il Corriere della Sera, 25 marzo 1973

[...] Winston fu incoraggiato alla carriera militare dal padre che lo riteneva poco intelligente perché si faceva spesso bocciare alle medie. Morto Lord Randolph, Winston partecipò arditamente alle campagne in India (1897) e, l’anno

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dopo, alla campagna contro i dervisci nel Sudan, poi sempre in divisa, si avventurò nella guerra contro i Boeri, come corri-spondente di guerra, fatto prigioniero, ri-uscì ad evadere scatenando l’entusiasmo dei compatrioti che lo elessero deputato. Il matrimonio con la soave Clementine conclude il racconto. Gli anni dell’av-ventura ha le qualità dei film storici in-glesi, che in generale non sbagliano un colpo (forse ricorderete di Karthum di alcuni anni fa…). Partendo dalle memo-rie dell’insigne statista, Gli anni dell’avven-tura segue minutamente la vita di Win-ston Churchill fino al compimento dei 25 anni. Dal punto di vista spettacolare, il film ha pagine mosse e colorite negli episodi di guerra; dalla battaglia di On-durman contro il Madhi all’attacco dei Boeri contro un treno blindato. Il meglio dell’opera è da cercare nelle scene di in-timità familiare, nel discorso alla Camera contro le spese militari, che gli valse l’avversione dei leaders del partito conservatore, e nel ricordo dei primi anni di collegio con relative sferzate [...]Pietro Bianchi, Il Giorno, 25 marzo 1973

IL REGISTA(1923 – 2014). Impostosi già durante la guerra, terminato il conflitto alternò le scene al cinema, sostenendo ruoli brillanti e drammatici. Negli anni 1950 maturò appieno i suoi mezzi ed in virtù di alcune complesse prestazioni si inserì tra i più sicuri e penetranti interpreti delle nuove leve. Interprete sia drammatico sia brillante sulle scene teatrali, si è affermato sul grande schermo soprattutto in ruoli da militare, come in La grande fuga (1963) e Il volo della fenice (1966).Come regista ha esordito con la satira antimilitarista Oh! Che bella guerra (1969), seguito da Gli anni dell’avventura (1973), Quell’ultimo ponte (1977) e da Magic - Magia (1978).Nel 1982 ha prodotto e diretto quello che forse rimane il suo capolavoro, Gandhi premiato nel 1983 con ben 8 Oscar. Del 1985 è la commedia musicale Chorus Line e del 1987 Grido di libertà, omaggio alla lotta anti-apartheid dei neri sudafricani. Nel 1993 ha diretto Charlot, biografia del geniale Charlie Chaplin, cui hanno fatto seguito Viaggio in Inghilterra (1993), tratto dalla biografia dello scrittore C. S. Lewis, Amare per sempre (1996) e Grey Owl – Gufo grigio (1999).

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I SEICENTO DI BALAKLAVA(The Charge of the Light Brigade, 1968)

reGia: Tony Richardson SceneGGiatura: John Osborne e Charles Wood FotoGraFia David Watkin ScenoGraFia: Edward Marshall Musica John Addison MontaGGio Kevin Connor coStuMi David Walker interpreti Trevor Howard (Lord Carrigan), Vanessa Redgrave (Clarissa Morris), John Giel-guld (Lord Ragian), Harry Andrews (Lord Lucan), Hemmings David (Louis Edward Nolan), Jill Bennett (Fanny Duberly) proDuttore Neil Hatley paeSe Di proDuzione Gran Bretagna Durata 112’.

IL RACCONTO

Nel 1854 in Crimea l’Inghilterra lotta insieme alla Francia e al regno di Sardegna contro la Russia. Gli inglesi per riequilibrare il loro prestigio in declino devono attaccare e distruggere la fortezza di Sebastopoli. Fa parte del contingente inglese, al quale si sono uniti alcuni reparti francesi, la brigata leggera dell’”11 Ussari”, comandata da lord Cardigan che, nell’intento di distinguersi su tutti gli altri reggi-menti per la compattezza delle sue truppe, l’ha addestrata con polso di ferro. Durante le esercitazioni si susseguono episodi di violenza e feroci schermaglie tra il borioso comandante e il giovane e impulsivo capitano Lewis Nolan, che ha inoltre una relazione con lady Scarlett, moglie del collega Rupert. Successivamente si giunge all’infausto giorno in cui l’ “11 Ussari” entra in azione contro le batterie russe riportando la più clamorosa sconfitta della storia. L’inettitudine dei comandanti, le loro rivalità, il cattivo impiego della brigata causato dalla paura di perdere un così bel reggimento, hanno un peso determinante sulle sorti della guerra. I comandanti tentano di sottrarsi alle proprie responsabilità sulle cause della sconfitta rimpallandola dall’uno all’altro.

IL LORO PARERE

Il film ripropone in una chiave più sofferta ed intimista il dramma che vide protagonista sullo sfondo della guerra di Crimea nel secolo scorso, il celebre reparto a cavallo della Brigata Leggera inglese che dà anche luogo al titolo inglese. Attenta ai particolari della sceneggiatura e dotata di una divertente quanto originale serie di titoli di testa in animazione, l’opera ha richiesto tre anni di lavorazione.Massimo Moscati, Il Grande Dizionario dei Film, 1998

In un poema famoso, dedicato all’eroismo della Brigata Leggera che il comando inglese lanciò alla carica nella valle di Balaklava (25 ottobre 1854) sotto il fuoco concentrico delle batterie russe, Alfred Tennyson esaltò il valo-re di quegli uomini cui non era stato concesso di chiedersi come e perché ma solo di morire. Il come e il perché si trova ora nel film I seicento di Balaklava dove, nell’epoca della regina Vittoria, i discendenti di Wellington sono rappresentati come una manica di irresponsabili boriosi, anche se dotati di un indiscutibile coraggio fisico. Nella sua monumentale incompetenza, senescente fantasma di Waterloo, Lord Raglan, comandante in capo del corpo di spedizione in Crimea, è persino patetico e John Gielgud ne fa un’interpretazione ammirevole. Altrettanto am-mirevole è Trevor Howard nella parte dell’insulso e presuntuoso Lord Cardigan che guidò alla carica la Brigata Leggera. Essi sono i pilastri di questo arioso, vivace e corrosivo spettacolo satirico che chiama in causa, non senza una buona dose di amarezza, la rispettabilità e i miti vittoriani. In trasparenza, al di là del particolare momento storico e dell’assurdo episodio di cui fu teatro Balaklava, vi si può vedere un più generale riferimento alla guerra e ai suoi fautori.Domenico Meccoli, Epoca, 19 gennaio 1969

[...] Altra cosa è quando nella seconda parte si passa al campo di battaglia e l’antitesi fra le due forze, la forza pigra e senile dei comandanti decorativi e inetti, e la calda giovane forza combattente, si risolve nella mischia e nel sacri-ficio. È questa interna dialettica, che è poi l’eterna dialettica dei rapporti fra chi ordina di andare alla morte e chi ci va, che distingue la battaglia di Richardson da tutte le infinite precedenti battaglie del cinema: dalle battaglie, cioè

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di puro spettacolo nelle quali la carneficina è mimetizzata sotto la bandiera, e la storia sfruttata ai fini dell’intreccio romanzesco. Benché come grande affresco militare in movimento sia una delle più belle, ariose e magistrali rappre-sentazioni di battaglia, questa di Balaklava di Richardson è soprattutto una battaglia critica e polemica. Egli prende la famosa Brigata Leggera come caso limite di irresponsabilità militare e, come tale, sarcasticamente la analizza. Però, è questa la prova del suo sangue di regista, quando l’attacco parte, quando la massa dei cavalli e dei cavalieri muove ciecamente all’assalto frontale delle batterie russe, per un momento, davanti all’impeto eroico follemente scatenato verso la sua distruzione, la polemica ammutolisce. In quel momento, perfino Cardigan, il superiore ottu-so e pignolo, che cavalca maestosamente davanti alle sue truppe, entra in una luce epica. Per Richardson, come per noi, non esiste ormai che quel galoppo, quella folata suicida di cavalli e di lance, quei giovani ufficiali tesi ad arco sulla sella, che puntano la sciabola verso il nemico, quasi anelando disperatamente all’olocausto. Soltanto quando il macello è compiuto la denuncia sarà ripresa, per ribadirla nelle fortissime pagine di quel finale in cui le vedute del campo di battaglia, con quei miserabili avanzi di superstiti zoppicanti e di cavalli malconci, si alternano con le scene in cui i nobili Lords, generali e colonnelli. Si gettano reciprocamente in testa colpe e recriminazioni, strillando tutti insieme come pappagalli [...]Filippo Sacchi, Epoca, 26 gennaio 1969

Nota praticamente a tutti gli italiani che abbiano fatto almeno la terza media, per l’intervento di un reggimento di bersaglieri nella battaglia della Cernaia (il famoso episodio che permise a Cavour di trovare un posto alla confe-renza di Parigi e di entrare nel giro della grande diplomazia europea), la guerra di Crimea combattuta da Francia, Inghilterra e Turchia contro Russia, per le altre due nazioni dell’Europa occidentale ha un significato non privo di risvolti vergognosi [...] I narratori dell’episodio, secondo i tempi, gli aspetti eroici – l’abnegazione degli uomini stupidamente sospinti verso un inutile olocausto – o quelli vergognosi – l’incoscienza e l’irresponsabilità dei co-mandanti che non hanno saputo evitare una strage folle ed inutile. Il cinema che per cinque volte si è ispirato al fatto d’armi, ha anch’esso seguito la regola. E così se in un famoso precedente (La carica dei 600, di Michael Curtiz con Errol Flynn) si seguiva la prima, nell’ultima rievocazione (I seicento di Balaklava, di Tony Richardson) si segue piuttosto la seconda [...]Carlo Felice Venegoni, Cinema Sessanta, n° 72, 1969

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È una satira della classe militare britannica e, indirettamente, una riaffermazione della tragica stupidità della guer-ra. Robustamente costruito intorno a questo assunto, il film si snoda, con ritmo impeccabile e via via più serrato, verso un drammatico finale. Bella la fotografia a colori e buona l’interpretazione.Segnalazioni cinematografiche, vol. 66, 1969

E il poeta Tennyson celebrò il gran giorno che vide la distruzione di un celebre reparto della cavalleria inglese, la Brigata Leggera di Lord Cardigan (nei venti minuti dell’attacco frontale, dodici morti al minuto; venticinque cavalli al minuto), con i versi infiammati che si addicono alle folli e sublimi imprese... “veloce come il vento... impavida coorte...”. D’altronde il fatto guerresco era stato presentato dalla stampa e dai bollettini del comando inglese in modo da entusiasmare non solo militari e poeti, ma anche gran parte dell’opinione pubblica. La giornata di Ba-lacklava, sfavorevole agli anglo-francesi, trovò a Londra echi di vittoria; e nei decenni che seguirono, con l’appog-gio dei libri di scuola e delle commemorazioni ufficiali, s’impregnò d’epopea. Nessuna meraviglia che gli alati versi della ballata di Tennyson ritornassero puntualmente in frontespizio alle opere che il cinema aveva dedicato fino allora all’argomento. Erano quattro... La carica della Brigata leggera di Searle Dawley, americano del 1912..., Balaclava di Maurice Elvey e Milton Rosmer, inglese del 1930..., La carica dei seicento di Michael Curtiz, americano del 1936 (la più famosa della serie, con Errol Flynn e Olivia De Havilland)..., e Sebastopoli o morte! di William Castle, americano del 1954 (con Jean-Pierre Aumont e Paulette Goddard, su cui l’oblio è sceso pietoso). Ma il quinto ritorno annulla perentoriamente tutti gli altri e ne rovescia come un guanto le squillanti ipocrisie, con le armi del sarcasmo e della collera insieme. Mai visto finora un contro-film di quest’ampiezza.Cinemaeteatro.com

IL REGISTAInglese, nato a Shipley (Yorkshire) il 5 giugno 1928. Considerato con Lindsey Anderson e Karel Reisz uno dei pionieri del Free Cinema che teorizza nel periodico Sequence, esordisce sugli schermi, dopo un’intensa attività tea-trale volta a far conoscere la nuova drammaturgia degli Angry men, con la riduzione di un testo del loro capofila, John Osborne, Look back in anger (I giovani arrabbiati), 1959, facendosi apprezzare l’anno dopo anche con The entertainer (Gli sfasati), dello stesso Osborne, che vale a Laurence Olivier suo protagonista un premio d’interpre-tazione a un festival internazionale. Tornato in Inghilterra dopo una parentesi hollywoodiana abbastanza deludente (Sanctuary; Il grande peccato, 1961, dal romanzo di Faulkner), realizza, sulla scorta di un dramma di Shelag Delaney, Taste of Honey (Sapore di miele), 1961, per l’arsura stilistica e per le desolate cornici umane uno dei film più tipici del nuovo cinema britannico, e, nel 1962, The Loneliness of theLong Distance Runner (Gioventù, amore e rabbia), da un racconto di Allan Sillitoe, rappresentazione asciutta e severa di una rivolta interiore, svolta a livello di quotidiano con aspro e scabro realismo. Seguono, in un clima di euforia quasi festosa, Tom Jones, 1963, colta e nello stesso tempo scanzonata rivisitazione del romanzo settecentesco di Henry Fielding; The Loved one (Il caro estinto), 1965, dal romanzo di Evelyn Waugh, in cifre ironiche fino al sarcasmo; The Charge of the Light Brigade (I seicento di Ba-laclava), 1968, amabile satira bellica; Ned Kelly (I fratelli Kelly), 1969, ballata folclorica su un bandito ottocentesco australiano, alternati a film di minor valore quali Mademoiselle (...E il diavolo ha riso), 1966, e The Sailor of Gibraltar (II marinaio del Gibilterra), 1967, costruiti soprattutto per l’interpretazione della loro protagonista, Jeanne Moreau. Tra i film più recenti, A Delicate Balance, 1973, Dead Cert (Il fantino deve morire), 1974, e Joseph Andrews, 1976, realiz-zato, quest’ultimo, a Hollywood: abbastanza privi d’impegno ma percorsi egualmente da quella vena ora spigliata ora impetuosa che fa tuttora di Richardson uno degli autori più significativi del cinema inglese contemporaneo; pur fra gli alti e bassi di una carriera non sempre conseguente e rigorosa.

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L’ORA PIÙ BUIA(Darkest Hour, 2017)

reGia: Joe Wright SceneGGiatura: Anthony McCarten Musica DarioMarianelli MontaGGio Valerio Bonelli FotoGraFia Bruno Delbollel ScenoGraFia Sarah Greenwood coStuMi Jacqueline Durran eFFetti Speciali George Spensley-Cor-field interpreti Gary Oldman (Winston Churchill), Kristin Scott-Thomas (Cle-mentine Churchill), Ben Mendelson (re Giorgio VI), Ronald Pickup (Neville Chamberlain), Samuel West (Anthony Eden), David Schoflield (Clement Attlee), David Strathan (Franklin Delano Roosvelet) proDuttore Tim Bevan, Lisa Bruce, Eric Fellner, Anthony McCarten, Douglas Urbanski paeSe Di proDuzione Gran Bretagna Durata 125’.

IL RACCONTO

Gran Bretagna, 1940. È una stagione cupa quella che si annuncia sull’Europa, pie-gata dall’avanzata nazista e dalle mire espansionistiche e folli di Adolf Hitler. Il Belgio è caduto, la Francia è stremata e l’esercito inglese è intrappolato sulla spiaggia di Dunkirk. Dopo l’invasione della Norvegia e l’evidente spregio della Germania per i patti sot-toscritti con le nazioni europee, la camera chiede le dimissioni a gran voce di Neville Chamberlain, Primo Ministro incapace di gestire l’emergenza e di guidare un governo di larghe intese. A succedergli è Winston Churchill, con buona pace di re Giorgio VI e del Partito Conservatore che lo designa per soddisfare i Laburisti.

IL LORO PARERE

Joe Wright ha il dono dell’equilibrio, il suo è cinema di qualità che non mira a sbancare ma che rimane anche asso-lutamente accessibile. Di nobile ispirazione storico-letteraria e molto accurato nella ricostruzione d’ambiente evita però il calligrafismo e tiene a bada la retorica, sebbene sappia rispecchiare con efficacia il sentimento collettivo di partecipazione a quelli che sono stati tra i momenti storici più drammatici del secolo scorso. Non useremo il termine “classico”, che spesso cela un inespresso biasimo per non aver osato più della correttezza, perché Wright sa mettere misura ma anche personalità nella narrazione, preferendo usare un dettaglio oggettistico, uno stacco di montaggio, un movimento di macchina per accendere una scena piuttosto che sfruttare formule già collauda-te a impatto sicuro. The Darkest Hour riprende la collocazione temporale dell’ottimo “Espiazione” individuando nell’evacuazione delle truppe inglesi da Dunkirk la prima questione militare e politica che il neo primo ministro Winston Churchill fu chiamato a risolvere. Rimanendo nel medesimo contesto storico può avere senso il confron-to con altre due recenti pellicole, differenti però per impostazione: Joe Wright non ha né l’ossessione modernista di Christopher Nolan per la scomposizione temporale e per certo formalismo spettacolare un po’ fine a se stesso (Dunkirk), nè la convenzionalità familiare, elegante ma un po’ stantìa, di Tom Hooper (Il discorso del re). Il Churchill che nasce dalla mimetica interpretazione di Gary Oldman è invece un personaggio concreto, vivo e anche molto fisico: fuma, beve, ansima, si appoggia al bastone, cambia idea sulle situazioni. Attorno a lui i londinesi proseguono la vita di sempre nonostante la minaccia della guerra, il regista non se li dimentica e riesce a farli sentire presenti nella loro dignità di cittadini qualunque, perché la storia non sia solo quella di un uomo di stato ma anche quella di una nazione e di un popolo. Non è facile, oggi, calarsi nel clima di un tempo in cui la pace non era né un’abitudine consolidata né un dogma bensì un’opzione, un’alternativa alla tragica eventualità della guerra, coi suoi pro e i suoi contro, un tempo in cui princìpi come quello della difesa della patria ad ogni costo non erano ancora stati messi in discussione, come sarebbe avvenuto anni dopo il termine del conflitto in conseguenza della duratura e confortante prospettiva di pace e stabilità che seguì per l’Europa. L’enfasi oratoria di alcuni passaggi è dunque autentica oltre che funzionale e capace di suggestione, e (forse con l’eccezione della scena un po’ indulgente della metropolitana) comunque ben governata da una mano ferma che sa quando è il caso di fermarsi e non eccedere.FreeRider, 19 gennaio 2018

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[... La vicenda su svolge nelle settimane della ritirata di Dunquerque narrate nel recente film di Christopher No-lan, ma L’ora più buia è ovviamente più ambizioso. Più che cercare l’epos, illustra didatticamente il contesto ed è concepito come occasione per un virtuosissimo Gary Oldman che biascica e caracolla irresistibilmente, circon-dato da attori tutti bravissimi. A parte eventuali letture in chiave anti-Brexit (Churchill ragione sempre in termini di Europa), si notano le attenzioni tipicamente inglesi, alle differenze di classe ma soprattutto il tema centrale del film: l’oratoria politica. Come Il discorso del re, questo film affronta l’importanza della parola, della retorica come vero strumento per agire nella Storia: “Ha mobilitato la lingua inglese e l’ha spedita in battaglia” queste le ultime battute, che spiegano la morale del film. Il regista Wright è un illustratore con qualche guizzo di modernismo: ha fatto Anna Karenina e Orgoglio e pregiudizio, e anche stavolta si affida e uno sceneggiatore di nome, Anthony McCarten (autore di La teoria del tutto, il biopic su Stephen Hawking). La sua regia è solida, elegante, vecchio stile, come in fondo era vecchio stile, ottocentesca, la retorica di Churchill. Più e più volte le scene, la macchina da presa si alza improvvisamente, a piombo sui personaggi, facendoli diventare, da individui, pedine [...]Emiliano Morreale, La Repubblica, 18 gennaio 2018

[...] Se però L’ora più buia non riesce a comunicare nulla di nuovo da un punto di vista dell’analisi storica e politica, fermandosi piuttosto a cliché populistici di facile trasposizione, il film merita comunque una visione, se non altro per l’ottima interpretazione di Oldman, la cui espressività non solo non risulta inficiata dall’ingombrante trucco, ma riesce comunque a esprimersi tramite piccoli gesti, dettagli della postura ed è capace di svolgere un encomiabile lavoro nella gestione della propria fisicità.Inoltre, nonostante lo script si attesti su un livello di mediocrità e sufficienza poco stimolante, la regia di Wright finisce per supplire a tale carenza di scrittura comunicando, tramite la gestione delle inquadrature, gli stati d’animo e le ansie dei protagonisti. Un esempio tra tutti: nei già di per sé claustrofobici sotterranei del gabinetto di guerra inglese, Churchill si chiude in una stanza e telefona al presidente degli Stati Uniti, in cerca di aiuti militari. L’inqua-dratura si stringe sul suo volto a mano a mano che il discorso si fa più serio. Roosevelt risulta avere le mani legate da dei trattati di pace: non può intervenire in alcun modo per aiutare gli alleati al di là dell’oceano. Nel momento in cui il protagonista realizza il proprio isolamento politico l’inquadratura cambia: in un campo medio la cabina telefonica occupa ora solamente la porzione centrale dello schermo, il resto è una cornice nera. Lo spazio d’azione si fa incredibilmente stretto, Churchill si appoggia al muro. In quel piccolo e angusto spazio, interamente occu-pato dalla sua ingombrante stazza, è chiamato a decidere le sorti di un intero paese. Attorno a lui, a circondarlo, l’oscurità. Eugenio Radin, Ondacinema.it

[...] Con L’ora più buia (Darkest Hour), abbiamo dato nuova vita a discorsi eccezionali pronunciati in circostanze eccezionali che ne hanno comunque modellato la scrittura. Spesso non si ricorda che Winston iniziò la propria carriera come giornalista. La scrittura è stato il suo primo grande talento, quello in cui è riuscito sempre meglio.John Wright, Free Rider, 19 gennaio 2018

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IL REGISTALondinese, classe 1972, Joe Wright si appassiona alla recitazione grazie ai genitori, fondatori del Little Angel Theatre, un teatro di marionette a Islington. Da sempre interessato al mondo dell’arte - in particolare alla pittura - Wright inizia a girare film utilizzando la sua Super 8 e, sin da ragaz-zo, trascorre molte delle sue serate in un club del teatro. Inizia la sua carriera lavorando nella compagnia teatrale dei genitori, frequenta i corsi della Anna Scher Theatre School e si iscrive al Camberwell College of Art. Negli ultimi anni di studio ottiene una borsa di studio per dirigere un cortometraggio per la BBC. Grazie ai consensi ricevuti dal film, gli viene offerta la sceneggiatura del serial Nature Boy con Callum Keith Rennie. Durante gli anni Novanta lavora per la Oil Factory, una società di produzione di video musicali; tra il 1997 e il 1998 dirige i cortometraggi Crocodile Snap e The End e nel 2005 dirige l’apprezzata trasposizione cinematografica di un romanzo di Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio. Nel film offre ad una giovane Keira Knightley l’opportunità di mi-surarsi con un ruolo più adulto e meno commerciale. Nel 2008 con Espiazione vince un Golden Globe per il miglior drammatico e offre alla Knightley un nuovo ruolo da protagonista accanto alla star in ascesa James McAvoy. Nel biopic musicale The Soloist dirige Robert Downey Jr. e Jamie Foxx. Tratto dal libro omonimo di Steve Lopez, il film racconta la vera storia dell’incontro tra Nathaniel Ayers, un musicista senzatetto affetto da schizofrenia e il gior-nalista Steve Lopez. In Indian Summer racconta il crollo del regime coloniale inglese in India mentre ha rinunciato al remake My Fair Lady in cui sarebbe potuto tornare a dirigere Keira Knightley nei panni della tenera fioraia Eliza Doolittle.

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PICCOLO GLOSSARIO

Alfred Tennyson - (1809-1892) fu uno dei grandi poeti vittoriani e una delle figure più rappre-sentative dell’eca, di cui espresse gli atteggiamenti e le problematiche dominanti: il patriottismo, il pro-fondo attaccamento alle tradizioni, la convinzione che l’arte debba avere un fine morale o didattico, le preoccupazioni derivanti dal contrasto fra tradizione religiosa e nuove teorie e scoperte scientifiche. Fu molto ammirato per la sua poetica, ancora legata ai temi romantici (leggende arturiane, ballate medie-vali, elementi naturalistici), ma anche agli eterni problemi del bene e del male, della vita e della morte.

free CinemA - Il free cinema venne fondato verso la metà degli anni cinquanta dal regista inglese Lindsay Anderson (che ne fu leader), dal regista e sceneggiatore ceco Karel Reisz e dalla scrittrice e regista italiana Lorenza Mazzetti, con inoltre la collaborazione del regista Tony Richardson.. Il 5 febbraio 1956 al National Film Theatre di Londra fu presentato il manifesto programmatico del gruppo in tre opere prime: O Dreanland di Lindsay Anderson, Togheter di Lorenza Mazzetti e Momma Don’t Allow di Karel Reisz e Tony Richardson . I film avevano in comune un atteggiamento implicito: il credere nella libertà, nell’importanza dell’individuo e nel significato della quotidianità. Nessun film doveva essere troppo personale, le dimensioni avevano poca importan-za, la perfezione non rappresentava in se stessa uno scopo, un atteggiamento significava uno stile, uno stile signifi-cava un atteggiamento (il credo del free). Questi film si riallacciavano a quello spirito che, nello stesso periodo, gli anni sessanta, costituivano l’elemento specifico delle opere letterarie e teatrali degli “Angry Young Men” (John Osborne, Harold Pinter, Dorothy Lessing, John Braine, e Alan Sillitoe), eroi ribelli delle classi popolari che si espri-mevano con l’accento della loro provincia, un fenomeno che si ritroverà più tardi nei film di Ken Loach. Questi scrittori e autori teatrali divennero infatti molto spesso sceneggiatori del free cinema.

ClemenTine Hozier CHurCHill - Il primo incontro con il futuro marito avvenne nel 1904 a un ballo, il giovane Winston le fece ben poca impressione, anche se aveva l’aura del soldato coraggioso, cosa che ha sempre fatto un gran colpo sulle signorine di buona famiglia. Ma l’incontro decisivo con lo statista avvenne nel 1908 a una cena, alla quale né l’uno né l’ altra avevano molta voglia di partecipare, tuttavia la disposizione delle sedie li favorì e pare che Winston le dedicasse tutta la sua attenzione, tralasciando completamente la padrona di casa, Lady Helier. La ragazza aveva ventitré anni, Winston dieci di più; si piacquero subito e in poco più di un mese decisero di sposarsi.

sArAH CHurCHill - Nata a Londra nel 1914, figlia terzogenita del futuro Primo Ministro Win-ston Churchill e di Clementine Ozier, Sarah prese il nome della sua antenata Sarah Churchill, duchessa di Churchill, duchessa di Marlbourugh. Viene ricordata soprattutto per il ruolo di Anne Ashmond nel film musicale Sua altezza si sposa (1951), a fianco di Fred Astaire. Lo stesso anno, apparve in un proprio show televisivo, “The Sarah Churchill Show”, e fino alla fine degli anni cinquanta lavorò per il piccolo schermo.

i bersAglieri A bAlAklAvA - Quando i combattimenti in Crimea si fecero più aspri giunse al governo piemontese una richiesta di truppe. Cavour fu per l’accettazione immediata. Il Regno di Sardegna si unì così all’alleanza anglo-francese e il 26 gennaio 1855 stipulò una convenzione militare. Con questa convenzione Cavour ottenne anche la garanzia sulla salvaguardia dei ter-ritori piemontesi. All’articolo 6, infatti, si legge che la Francia e la Gran Bretagna “garantiscono l’integrità degli Stati di S. M. il Re di Sardegna e s’impegnano a difenderli contro ogni attacco per la durata della presente guerra”. Il riferimento era ovviamente ad un’eventuale aggressione dell’Austria. Il corpo di spedizione piemontese partì da Genova il 25 aprile 1855. Era formato da due divisioni per un totale di 18.058 uomini e 3.496 cavalli, ossia 3.000 uomini in più del convenuto. Comandava il corpo di spedizione il generale Alfonso La Marmora e le divisioni erano agli ordini del generale Alessandro La Marmora, fratello di Alfonso e fondatore dei bersaglieri. Dopo una breve sosta a Costantinopoli, ai primi di maggio i piemontesi sbarcarono a Balaklava, disponendosi a fianco degli inglesi; qui dovettero subito lottare con il colera che, fra gli altri, colpì mortalmente Alessandro La Marmora.

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INDICE

p. 3 Introduzione 3 Perchè “Perfida Albione”? 3 Lo United Kingdom e la sua Brexit 3 I cinque film della rassegna 4 L’Impero britannico e il Cinema inglese 4 Da Elisabetta a Elisabetta II 7 Elizabeth 10 L’uomo che volle farsi re 13 Gli anni dell’avventura 15 I seicento di Balaklava 18 L’ora più buia 21 Piccolo glossario

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