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GIACOMO LEOPARDI (1798/1837) Fa parte della corrente letteraria del ROMANTICISMO ROMANTICISMO Movimento culturale che si sviluppa tra la fine del ‘700 fino alla prima metà dell’800 (1780/1850 circa). LE CARATTERISTICHE PRINCIPALI SONO: ESALTAZIONE DEL SENTIMENTO Rivalutazione della SPIRITUALITA’: ritorno alla religione, aspirazione al Divino, all’Assoluto Nuova concezione RAPPORTO UOMO-NATURA Il DESIDERIO DI FUGA Attrazione per la MORTE intesa come FUGA DAL DOLORE Esaltazione dei concetti di Nazione e POPOLO Rivalutazione della STORIA e del MEDIOEVO Concezione ARTE e POESIA come espressione spontanea del genio individuale L’uomo romantico si sente una CREATURA LIMITATA e si affermano il VITTIMISMO, il PESSIMISMO e il RIBELLISMO. VITA DI LEOPARDI Nacque a RECANATI (Marche) nel 1798 da una famiglia nobile. Crebbe in un AMBIENTE CHIUSO di provincia di cui sentì l’OPPRESSIONE, aggravata dall’INDIFFERENZA del padre e l’eccesiva SEVERITA’ della madre e ciò provocò MOLTA SOFFERENZA in Leopardi. Precocissimo per interessi e capacità intellettuali trascorse tra i 10 e i 17 anni immerso tra i libri della biblioteca paterna imparando da autodidatta il GRECO, il LATINO, l’EBRAICO, il FRANCESE e l’INGLESE.

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GIACOMO LEOPARDI (1798/1837)

Fa parte della corrente letteraria del ROMANTICISMO

ROMANTICISMO

Movimento culturale che si sviluppa tra la fine del ‘700 fino alla

prima metà dell’800 (1780/1850 circa).

LE CARATTERISTICHE PRINCIPALI SONO:

• ESALTAZIONE DEL SENTIMENTO

• Rivalutazione della SPIRITUALITA’: ritorno alla religione,

aspirazione al Divino, all’Assoluto

• Nuova concezione RAPPORTO UOMO-NATURA

• Il DESIDERIO DI FUGA

• Attrazione per la MORTE intesa come FUGA DAL DOLORE

• Esaltazione dei concetti di Nazione e POPOLO

• Rivalutazione della STORIA e del MEDIOEVO

• Concezione ARTE e POESIA come espressione spontanea del

genio individuale

• L’uomo romantico si sente una CREATURA LIMITATA e si

affermano il VITTIMISMO, il PESSIMISMO e il RIBELLISMO.

VITA DI LEOPARDI

Nacque a RECANATI (Marche) nel 1798 da una famiglia nobile.

Crebbe in un AMBIENTE CHIUSO di provincia di cui sentì

l’OPPRESSIONE, aggravata dall’INDIFFERENZA del padre e

l’eccesiva SEVERITA’ della madre e ciò provocò MOLTA

SOFFERENZA in Leopardi. Precocissimo per interessi e capacità

intellettuali trascorse tra i 10 e i 17 anni immerso tra i libri della

biblioteca paterna imparando da autodidatta il GRECO, il LATINO,

l’EBRAICO, il FRANCESE e l’INGLESE.

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Questo studio “MATTO e DISPERATISSIMO” gli rovinò per sempre

la salute causandogli problemi alla colonna vertebrale, alla vista,

al sistema nervoso.

Tormentato da una profonda crisi interiore tentò una FUGA

bloccata e poi si recò a ROMA ma ne rimase deluso e ritornò a

Recanati.

Si trasferì a Milano, bologna, Firenze e infine a NAPOLI dove morì

a soli 39 anni nel 1837.

LE OPERE

I CANTI

LE OPERETTE MORALI

LO ZIBALDONE

IDEE E POETICA

EMERGE LA SUA PESSIMISTICA CONCEZIONE DELLA VITA

DOMINATA DAL DOLORE E DALL’INFELICITA’.

La causa dell’infelicità umana è la NATURA, considerata all’inizio

BENIGNA, poi MATRIGNA in quanto suscita nell’uomo SPERANZE

e ILLUSIONI che poi DELUDE. L’INFELICITA’ nasce dal DESIDERIO

DI FELICITA’ e dall’IMPOSSIBILITA’ di raggiungerla. Il

PESSIMISMO di Leopardi da INDIVIDUALE diventa UMANO e poi

COSMICO: la natura rende infelici tutti GLI ESSERI DEL CREATO. La

vita appare come SOFFERENZA e DOLORE: la gioia è solo

MOMENTANEA, è cessazione del dolore. Solo la POESIA può

salvare l’uomo: essa deve essere soprattutto MUSICA, svincolata

dalla rima (VERSI SCIOLTI); e basata solo sulle PAROLE

(collocazione e distribuzione accenti).

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L’INFINITO

Testo della poesia

1. Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

2. e questa siepe, che da tanta parte

3. dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

4. Ma, sedendo e mirando, interminati

5. spazi di lá da quella, e sovrumani

6. silenzi, e profondissima quiete

7. io nel pensier mi fingo; ove per poco

8. il cor non si spaura. E come il vento

9. odo stormir tra queste piante, io quello

10. infinito silenzio a questa voce

11. vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

12. e le morte stagioni, e la presente

13. e viva, e il suon di lei. Cosí tra questa

14. immensitá s’annega il pensier mio;

15. e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Parafrasi

1. Mi furono sempre cari questa collina solitaria

2-3. e questa siepe che impedisce al mio sguardo di guardare verso l’estremo orizzonte.

4-7. Ma stando seduto e osservando, io mi disegno nella mente spazi infiniti oltre la siepe e silenzi che

vanno oltre l’immaginazione umana e una grandissima calma; in tal modo, per poco

8. il cuore non si smarrisce. E non appena il vento

9. sento fischiare in mezzo a questi alberi, io

10-11. inizio a paragonare (=vo comparando) quell’infinito silenzio a questo rumore: e mi viene in mente il

pensiero dell’eternità,

12. le stagioni passate e quella presente

13. e ancora viva e il suo rumore. Così 14. il mio pensiero si smarrisce in questa immensità

15. ed è piacevole per me naufragare in questo mare.

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Parafrasi discorsiva

Mi furono sempre cari questa collina solitaria e questa siepe che impedisce al mio sguardo di guardare verso l’estremo orizzonte. Ma stando seduto e osservando, io mi disegno nella mente spazi infiniti oltre la siepe e silenzi che vanno oltre l’immaginazione umana e una grandissima calma; in tal modo, per poco il cuore non si smarrisce. E non appena sento fischiare il vento in mezzo a questi alberi, io inizio a paragonare quell’infinito silenzio a questo rumore: e mi viene in mente il pensiero dell’eternità, le stagioni passate e quella presente e ancora viva e il suo rumore. Così il mio pensiero si smarrisce in questa immensità ed è piacevole per me naufragare in questo mare.

Figure Retoriche

Enjambements vv. 2-3; vv. 4-5; vv. 5-6; vv. 8-9; vv. 9-10; vv. 13-14;

Anastrofi v. 1: “sempre caro mi fu quest’ermo colle”; vv. 4-7: “interminati / spazi di là da

quella, e sovrumani /silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo”; vv. 8-9: “il

vento / odo stornir”; v. 14: “s’annega il pensier mio”;

Iperbole vv. 4-5: “interminati/ spazi”; vv. 5-6: “sovrumani/ silenzi”; v. 6: “profondissima

quiete”;

Polisindeti vv. 5-6: “e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete”; vv. 11-13: “e mi sovvien

l’eterno, / e le morte stagioni, e la presente / e viva e il suon di lei”;

Metafore v. 15: “e il naufragar m’è dolce in questo mare”;

Onomatopea v. 9: “stormir”;

Ossimoro v. 15: “il naufragar m’è dolce”;

Antitesi vv. 2, 5: “questa siepe”, “di là da quella”; vv. 9-10: “quello/ infinito silenzio a

questa voce”; vv. 12-13: “e le morte stagioni, e la presente/ e viva”;

Allitterazioni della “s”: vv. 5-6: “Spazi di là da quella, e sovrumani/

Silenzi, e profondissima quiete”; della “a”: (il critico Contini parla di “trionfo di a”): “parte”,

“tanta“, “interminati”, “spazi”, “sovrumani”, “mirando”, “comparando”, “immensità“,

“naufragar”, “mare”; della “r”: “sempre”, “caro”, “ermo”, “parte”, “orizzonte”, “guardo”,

“mirando”, “interminati”, “sovrumani”, “pensier“, “cor“, “spaura”, “stormir“, “comparando”,

“eterno”, “morte”, “presente”, “naufragar“, “mare”.

Siamo nelle prime fasi del pessimismo storico leopardiano, quando cioè il poeta capiva

che il progressivo distacco dell’uomo dalla natura, l’avvento della civiltà, aveva creato

disagio nell’umanità, e vagheggiava le ere antiche, specie quelle dei Greci, come

momento più alto di questa relazione Io-Mondo. Leopardi riconosce la forza oggettiva del

limite, quale condizione umana, ma anche l’ambizione di tentare di superarlo, che è pure

propria dell’uomo. Come a dire: siamo limitati, ma per nostra natura siamo portati sempre

a tentare di superare i limiti esterni che ci vengono imposti. Intelligenza e sensibilità

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possono riportarci in una condizione favorevole dove questa opposizione torna ad essere

positiva.

Analisi testuale

Metrica:

Componimento di quindici versi, endecasillabi sciolti.

L’uso dei dimostrativi permette al poeta di giocare tra il finito e l’indefinito, creando una dialettica tra realtà e immaginazione (questo indica vicinanza, quella lontananza).

Il poeta utilizza molte figure retoriche e termini di origine latina. I versi dall’11 al 13 sono caratterizzati da un polisindeto (il susseguirsi di 4 congiunzioni: e…e…e…e). L’uso dell’enjambement è elevato e contribuisce a dilatare lo spazio del verso

L’infinito, formato da quindici endecasillabi sciolti, ha un andamento ritmico che tende

a dilatare il verso, come se ognuno sconfinasse nel successivo, grazie all’utilizzo diffuso

dell’enjambement (gli enjambements, ossia il verso che spezza la continuità sintattica

della frase, li troviamo ai vv. 2-3; vv. 4-5; vv. 5-6; vv. 8-9; vv. 9-10; vv. 13-14; quindi in tutta

la poesia, a parte, in particolare, il primo e l’ultimo verso).

Il testo si apre con la parola “sempre”, che rimanda a una dimensione

temporale indeterminata e infinita.

La descrizione paesaggistica è avviata da due elementi determinati:

il colle solitario (“quest’ermo colle”, v. 1) e la siepe (“e questa siepe”, v. 2) che

accompagnano lo sguardo verso l’orizzonte, l’illusione ottica per eccellenza,

raggiungibile solo con uno sforzo immaginativo. Quindi il primo senso stimolato è quello

della vista. La siepe è un ostacolo alla contemplazione dell’intero orizzonte: lo

smarrimento dell’infinito deve allora essere conquistato con l’immaginazione.

L'indeterminazione degli aggettivi del componimento L’aggettivazione è indeterminata,

vaga: “interminati spazi”, “sovrumani silenzi”, “profondissima quiete”. Gli aggettivi

occupano sempre il primo posto rispetto al sostantivo cui si riferiscono, creando come

l’attesa di esso. A ben vedere si tratta sempre di nomi tutt’altro che perfettamente

identificabili: lo spazio, dopotutto, è assenza di qualcosa; il silenzio, nella sua forma

assoluta, non esiste – c’è solo qualcosa che, sempre in assenza di altro, possiamo definire

silenzio; stesso discorso vale per la “quiete”, non facilmente determinabile, se non

soggettivamente. Certa è l’estrema solitudine di questo momento lirico vissuto dal poeta,

e la volontà di conquista dell’immensità, non solo attraverso gli enjambements, ma anche

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attraverso il polisindeto “e”, il quale fa sì che le immagini si propaghino per accumulazione,

una dopo l’altra, in espansione, come onde marine (anticipano quindi il “mare” dell’ultimo

verso).

L’atto di immaginare (bellissima l’espressione leopardiana «io nel pensier mi fingo», v. 7)

poggia su due gerundi («sedendo e mirando», v. 4) che contribuiscono a conservare quel

senso di vaghezza e sospensione che permea tutta la poesia. Tra i vv. 7-8 c’è lo snodo

decisivo dell’idillio: l’immaginazione è spinta talmente in avanti che il cuore

prova smarrimento: l’uomo, così piccolo e limitato, può contemplare dentro

sé l’immenso («Io nel pensier mi fingo», v. 7), e questa immensità, solo immaginabile,

nasce dalla percezione dei sensi.

Le due parti del componimento

C ’è un punto fermo tra i vv. 7-8, sebbene essi siano uniti nella metrica dalla sinalefe. A

ben vedere, non è l’unione dei due versi (non solo), ma l’unione strettissima delle due

parti di cui si compone l’idillio, quella contemplativo-razionale e la successiva con il

conseguente smarrimento dei sensi e della mente. La sinalefe ha quindi un ruolo decisivo:

infatti i due momenti (vv. 1-8; vv. 8-15), pur distinti, sono un unico fluire.

La concezione dell'infinità di spazio e tempo Nel secondo momento, il vento muove le

foglie degli alberi, e sembra, per il poeta, quasi che il silenzio stesso abbia una voce

propria («io quello / Infinito silenzio a questa voce / Vo comparando», vv. 9-11). Questo

scatto intellettuale, altamente soggettivo, permette di dare voce fisica, oggettiva,

all’immaginazione dell’eterno come un silenzio infinito, in cui c’è lo svolgersi di tutte

le ere, tutti i tempi, anche i più remoti. Eppure l’eternità deriva dalla percezione dello

spazio fisico, dell’infinità spaziale: quindi spazio e tempo (le due categorie della

conoscenza umana) sono percepite prima nel loro essere limitabili (la siepe esclude lo

sguardo del poeta; la stagione presente esclude tutte le altre). Poi, attraverso

l’immaginazione, si arriva a concepire spazio e tempo infiniti. Una spia di questa

operazione ce la danno i deittici questo/quello. La prima indica vicinanza a chi parla, il

secondo lontananza rispetto a chi parla. Nel primo verso abbiamo «quest’ermo colle»,

perché siamo proprio lì, e anche «questa siepe» (v. 2).

Poi capiamo bene che abbiamo attraversato il limite: «di là da quella», cioè oltre la siepe,

e siamo nel regno dell’immaginazione: l’abbiamo, in un certo senso, scavalcata. È dietro

di noi. Anche gli alberi sono vicini, «queste piante» (v. 9), ma ecco che «quello

/ infinito silenzio», vv. 9-10, diventa «questa voce», v. 10. Allora l’immensità stessa si fa

vicina, tangibile: «questa / immensità», v. 13-14, e non “quella”, lontana. Si è fatta vicina

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all’io, tanto che l’io vi si immerge, appunto. E il mare infinito sommerge la finitezza

dell’uomo: «questo mare», v. 15.

Da un punto di vista fonico prevalgono suoni aperti e parole piane, che aumentano il

senso di distensione, necessario a disegnare il paesaggio e le sensazioni che ne

scaturiscono. Il linguaggio utilizzato da Leopardi è ancora quello della tradizione lirica

italiana, cioè quello che da Petrarca era giunto fino a Foscolo e Monti.

ANALISI e commento

L’opera fa parte degli Idilli, piccoli quadretti di ispirazione greca.

Leopardi stesso designò con il termine Idilli alcuni componimenti scritti tra il 1819 e il 1821 (L’infinito, Alla luna, La sera del dì di festa, Il sogno, La vita solitaria) caratterizzati dal linguaggio colloquiale e da tematiche intime e autobiografiche. Nel 1828, Leopardi li definì «espressione di sentimenti, affezioni, avventure storiche del suo animo».

L’infinito è uno dei più noti idilli leopardiani, fu composto nel 1819 ed è una testimonianza di quel dissidio tra finito ed infinito, tra realtà e ideale, che caratterizza l’uomo romantico.

La poesia descrive il poeta solo sul monte Tabor a Recanati. Una siepe impedisce a Leopardi la vista di buona parte dell’orizzonte e questo ostacolo suscita in lui una riflessione su ciò che trascende il reale e fa spaziare nell’immensità. La siepe rappresenta dunque una barriera tra il mondo esterno e i pensieri del poeta. Essa è il simbolo di tutto ciò che è limitante e limitato e quindi stimola l’immaginazione e l’istintivo bisogno, proprio di ogni uomo, di infinito. Stando seduto a osservare, egli immagina spazi interminabili oltre la siepe, silenzi che superano ogni possibilità di comprensione da parte dell’uomo e una quiete assoluta dove il cuore prova quasi smarrimento (“ove per poco il cor non si spaura”). L’improvviso stormire delle foglie lo riporta alla realtà ma come la siepe gli aveva suggerito l’idea dell’infinito spaziale così il rumore del vento gli suggerisce l’idea dell’eternità, cioè dell’infinito temporale. Le sue riflessioni perdono ogni definizione logica in questo infinito che si estende senza confini nello spazio e nel tempo. Egli si abbandona dolcemente in questa nuova dimensione annullando la propria identità.

L’infinito coincide con lo slancio vitale, con la tensione dell’uomo verso una felicità che non potrà mai raggiungere, perché si scontra inevitabilmente con i limiti imposti dalla vita umana: lo spazio, il tempo, la morte.

La poesia può essere divisa in due parti: nella prima (vv. 1-8), l’immaginazione viene sollecitata da un ostacolo, ossia dalla siepe che impedisce di guardare oltre l’orizzonte, quindi sollecita l’idea di un infinito spaziale, ossia di spazi senza fine in cui regnano un silenzio e una calma così profondi da sembrare irreali. Nella seconda parte (vv. 8-15), invece, una sensazione uditiva, ossia il rumore del vento tra le piante, suscita l’idea di un infinito temporale, l’”eterno”, poi il passato e il presente. Si tratta, pertanto, di un “infinito” che non ha nulla di trascendente, bensì parte dal reale per aprirsi all’immaginazione: i dati sensoriali concreti danno lo stimolo per andare oltre. Il poeta, inizialmente, di fronte

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all’infinito spaziale prova sgomento, poi, nell’ultimo verso, annega dolcemente nell’immensità dell’infinito: è la dolcezza provocata dall’autoannullamento, quasi una morte simbolica, un’esperienza potente e, per certi versi, anche terribile, perché comporta la perdita della propria individualità.

Alle dimensioni reali in cui il poeta si trova, descritte come situazioni chiuse, claustrofobiche, deperibili («le morte stagioni»), si vanno quindi ad opporre altre due dimensioni costituite dallo spazio mentale e affettivo del poeta, caratterizzate da termini assoluti come «sempre», «eterno», «dolce».

La struttura dell’Infinito è perfettamente simmetrica: infatti, esso è diviso in due parti del tutto speculari e il passaggio dalla prima alla seconda è segnato dal punto fermo al v. 8. Tuttavia, i due momenti descritti sono posti in stretta continuità, come dimostrano i frequentissimi enjambements, che hanno anche la funzione di mettere in evidenza le parole-chiave, e la ricorrenza delle congiunzioni coordinanti. È significativo anche l’impiego dei dimostrativi “questo” e “quello” volti a sottolineare la vicinanza dell’oggetto reale e la lontananza di quanto immaginato. Il primo e l’ultimo verso sono più brevi, apparentemente staccati dal resto della poesia ed esprimono sentimenti lirici, molto legati all’esperienza personale del poeta. Infine, il componimento è ricchissimo di parole da considerarsi per Leopardi massimamente poetiche: ermo, tanta, ultimo, silenzio, profondo, eterno, morte, orizzonte, immensità, interminati, sovrumani, infinito.

I temi. Come scrisse Leopardi il 12-23 luglio 1820 nello Zibaldone, il desiderio di infinito

si alimenta a partire da un impedimento della vista. In tal modo «in luogo della vista, lavora

l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima si immagina quello che non vede

[…] e va errando in uno spazio immaginario». Pertanto il nucleo tematico dell’Infinito è il

superamento degli ostacoli che sottraggono campo alla percezione, grazie

all’immaginazione, e il perdersi dell’io lirico nella vastità infinita.

Una delle caratteristiche fondamentali della lirica è la presenza di un io lirico che non offre

nessun rimando autobiografico: l’esperienza che sta per vivere è un’esperienza interiore, un

viaggio che si compie tramite l’immaginazione; l’approdo di questo viaggio è il perdersi

dell’io stesso, che naufraga dolcemente nell’infinito.

In questo naufragio non c’è dimensione religiosa, ma un’avventura dei sensi: il

perdersi è piacevole, benché sia di una dolcezza preceduta dalla paura; si tratta di

sensazioni che trovano un retroterra filosofico nelle teorie sensistiche.

Del resto l’infinito descritto dall’io ha connotazioni spaziali e temporali, evocate per via

sensoriale: nei primi 8 versi prevale la sensazione visiva (la siepe, il colle, l’orizzonte…);

nei restanti versi prevale la sensazione uditiva (stormire, silenzio) che introduce l’“infinito

temporale”, l’evocazione delle epoche passate e il paragone con quella presente. Il

naufragio finale apre inoltre a un possibile confronto tra l’infinito e il nulla, tema con cui

Leopardi si confronterà negli anni a seguire.

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A SILVIA

Testo della poesia

1. Silvia, rimembri ancora 2. Quel tempo della tua vita mortale, 3. Quando beltà splendea 4. Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, 5. E tu, lieta e pensosa, il limitare 6. Di gioventù salivi?

7. Sonavan le quiete 8. Stanze, e le vie dintorno, 9. Al tuo perpetuo canto, 10. Allor che all’opre femminili intenta 11. Sedevi, assai contenta 12. Di quel vago avvenir che in mente avevi. 13. Era il maggio odoroso: e tu solevi 14. Così menare il giorno.

15. Io gli studi leggiadri 16. Talor lasciando e le sudate carte, 17. Ove il tempo mio primo 18. E di me si spendea la miglior parte, 19. D’in su i veroni del paterno ostello 20. Porgea gli orecchi al suon della tua voce, 21. Ed alla man veloce 22. Che percorrea la faticosa tela. 23. Mirava il ciel sereno, 24. Le vie dorate e gli orti, 25. E quinci il mar da lungi, e quindi il monte. 26. Lingua mortal non dice 27. Quel ch’io sentiva in seno.

28. Che pensieri soavi, 29. Che speranze, che cori, o Silvia mia! 30. Quale allor ci apparia 31. La vita umana e il fato! 32. Quando sovviemmi di cotanta speme, 33. Un affetto mi preme 34. Acerbo e sconsolato, 35. E tornami a doler di mia sventura. 36. O natura, o natura, 37. Perché non rendi poi 38. Quel che prometti allor? perché di tanto 39. Inganni i figli tuoi?

40. Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, 41. Da chiuso morbo combattuta e vinta, 42. Perivi, o tenerella. E non vedevi

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43. Il fior degli anni tuoi; 44. Non ti molceva il core 45. La dolce lode or delle negre chiome, 46. Or degli sguardi innamorati e schivi; 47. Né teco le compagne ai dì festivi 48. Ragionavan d’amore.

49. Anche peria fra poco 50. La speranza mia dolce: agli anni miei 51. Anche negaro i fati 52. La giovanezza. Ahi come, 53. Come passata sei, 54. Cara compagna dell’età mia nova, 55. Mia lacrimata speme! 56. Questo è quel mondo? questi 57. I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi 58. Onde cotanto ragionammo insieme? 59. Questa la sorte dell’umane genti? 60. All’apparir del vero 61. Tu, misera, cadesti: e con la mano 62. La fredda morte ed una tomba ignuda 63. Mostravi di lontano.

Parafrasi

1. Silvia, ti ricordi ancora 2. quel periodo della tua vita terrena 3. quando la bellezza risplendeva 4. nei tuoi occhi sorridenti e sfuggenti 5-6. e tu, felice e pensierosa, eri sul punto di superare la soglia della gioventù? 7. Risuonavano le tranquille 8. Stanze, e le strade circostanti 9. al tuo canto ininterrotto, 10. quando tu, intenta alle attività tipicamente femminili, 11. sedevi, molto felice 12. di quel futuro indeterminato e desiderato che avevi in mente. 13. Era il mese di maggio, pieno di profumi, e tu eri solita 14. passare così le giornate.

15-16. Io, abbandonando di tanto in tanto gli studi piacevoli e le carte che mi affaticavano, 17. nei quali si consumavano (=”si spendea” del v. 18) il tempo della mia giovinezza 18. e la parte migliore di me, 19. dai balconi della casa di mio padre 20. porgevo le orecchie al suono della tua voce 21. e a quello della tua mano veloce 22. che con fatica tesseva la tela. 23. Contemplavo il cielo sereno, 24. le vie illuminate dal sole e i giardini 25. e da una parte il mare da lontano, dall’altra la montagna. 26. Le parole di un uomo non possono esprimere 27. ciò che io provavo nel cuore.

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28. Che pensieri stupendi, 29. che speranze, che sentimenti, o mia Silvia! 30. Come ci sembravano allora 31. la vita umana e il destino! 32. Quando mi ricordo di una speranza così grande, 33. mi opprime un sentimento 34. insopportabile e sconsolato, 35. e mi torno a rattristare per la mia sfortuna. 36. Natura, natura, 37. perché non restituisci dopo 38-39. quello che hai promesso prima? Perché inganni così tanto i tuoi figli?

40. Tu prima che l’inverno inaridisse le erbe, 41. consumata e uccisa da una malattia interna, 42. morivi, o mia tenera. E non vedevi 43. la parte migliore dei tuoi anni; 44. non ti addolciva il cuore 45. la dolce lode o dei tuoi capelli neri, 46. o degli sguardi innamorati e pudichi; 47. né le compagne nei giorni festivi 48. parlavano d’amore con te.

49. Tra poco si estinguerà anche 50-52. la mia dolce speranza: il destino negò la giovinezza anche alla mia vita. Ahimè, 53. come sei svanita, 54. cara compagna della mia giovinezza, 55. mia compianta speranza! 56. È dunque questo quel mondo (così desiderato)? 57. Sono questi i piaceri, i sentimenti, le attività, gli avvenimenti 58. di cui parlammo tanto insieme? 59. È questo il destino degli uomini? 60. Al rivelarsi della verità, 61-63. tu sei miseramente svanita: e indicavi con la mano la fredda morte e una tomba spoglia.

Parafrasi discorsiva

Silvia, ti ricordi ancora quel periodo della tua vita terrena quando la bellezza risplendeva nei tuoi occhi sorridenti e sfuggenti e tu, felice e pensierosa, eri sul punto di superare la soglia della gioventù?

Risuonavano le stanze tranquille e le strade circostanti al tuo canto ininterrotto, quando tu, intenta alle attività tipicamente femminili, sedevi, molto felice di quel futuro indeterminato e desiderato che avevi in mente. Era il mese di maggio, pieno di profumi, e tu eri solita passare così le giornate.

Io, abbandonando di tanto in tanto gli studi piacevoli e le carte che mi affaticavano, nei quali si consumavano il tempo della mia giovinezza e la parte migliore di me, dai balconi della casa di mio padre porgevo le orecchie al suono della tua voce e a quello della tua mano veloce che con fatica tesseva la tela. Contemplavo il cielo sereno, le vie illuminate

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dal sole e i giardini e da una parte il mare da lontano, dall’altra la montagna. Le parole di un uomo non possono esprimere ciò che io provavo nel cuore.

Che pensieri stupendi, che speranze, che sentimenti, o mia Silvia! Come ci sembravano allora la vita umana e il destino! Quando mi ricordo di una speranza così grande, mi opprime un sentimento insopportabile e sconsolato, e mi torno a rattristare per la mia sfortuna. Natura, natura, perché non restituisci dopo quello che hai promesso prima? Perché inganni così tanto i tuoi figli?

Tu prima che l’inverno inaridisse le erbe, consumata e uccisa da una malattia interna, morivi, o mia tenera. E non vedevi la parte migliore dei tuoi anni; non ti addolciva il cuore la dolce lode o dei tuoi capelli neri, o degli sguardi innamorati e pudichi; né le compagne nei giorni festivi parlavano d’amore con te.Tra poco si estinguerà anche la mia dolce speranza: il destino negò la giovinezza anche alla mia vita. Ahimè, come sei svanita, cara compagna della mia giovinezza, mia compianta speranza!

È dunque questo quel mondo (così desiderato)? Sono questi i piaceri, i sentimenti, le attività, gli avvenimenti di cui parlammo tanto insieme? È questo il destino degli uomini? Al rivelarsi della verità, tu sei miseramente svanita: e indicavi con la mano la fredda morte e una tomba spoglia.

ANALISI TESTUALE

L’argomento – Il componimento si presenta come un intimo colloquio con Silvia

ed è caratterizzato da una struttura ordinata, in cui le strofe sono

alternativamente dedicate ora a Silvia ora al poeta stesso.

Prima strofa: ha una funzione introduttiva e in particolare inserisce

esplicitamente il colloquio con la fanciulla morta nella dimensione del ricordo

(«rimembri»); di lei sono messi in rilievo la bellezza della giovinezza e lo sguardo

luminoso e schivo.

Seconda strofa: è dedicata ancora alla giovinezza di Silvia. La sensazione

uditiva descritta dà risalto al canto della fanciulla che riecheggia nelle stanze della

casa e nelle vie adiacenti, mentre ella attende al lavoro domestico della tessitura.

I sogni e le aspettative per il futuro sono ancora intatti: Silvia è «contenta» di quel

«vago avvenire» che immagina per sé. La dolcezza e la serenità del paesaggio

primaverile sottolineano la sensazione di sereno ottimismo.

Terza strofa: rappresenta la giovinezza del poeta. Anch’egli è animato da

illusioni e speranze, come simboleggiano gli spazi aperti ammirati dai «veroni», i

balconi, (il «ciel sereno», le «vie dorate», gli «orti», il «mar», il «monte») che

sembrano aprire ampie prospettive di vita. Il giovane Leopardi condivide con Silvia

la faticosa realtà quotidiana (l’una si dedica all’«opre femminili», l’altro alle

«sudate carte») ma anche il piacere di un rapporto affettivo creato a distanza e

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sottolineato dal canto della fanciulla che raggiunge lo studio del poeta,

inducendolo ad affacciarsi sul balcone.

Quarta strofa: è fortemente espressiva, soprattutto per le interrogazioni e le

esclamazioni che si susseguono nell’invettiva contro la natura. I due giovani sono

accomunati dalla triste delusione che fa seguito alla caduta delle loro

speranze: la natura inganna i suoi stessi figli facendo loro vane promesse di

felicità; non a caso la parola «sventura» rima con la parola «natura».

Quinta strofa: corrisponde alla seconda, dedicata a Silvia, e rappresenta la

morte fisica della fanciulla, scomparsa ancora prima di vedere il «fiore» dei suoi

anni. Stroncata da una malattia allora incurabile, Silvia non ha potuto avere le

gioiose soddisfazioni di cui invece hanno goduto le sue coetanee.

Sesta strofa: rappresenta la “morte spirituale” del poeta, la cui speranza svanisce

prima che egli possa godere della giovinezza. Di tanti sogni resta solo la

prospettiva della «fredda morte»

Figure Retoriche

Apostrofi v. 1: “Silvia”; v. 29: “o Silvia mia”; v. 36: “o natura, o natura”; v. 43: “o tenerella”;

vv. 54-55: “cara compagna dell’età mia nova, mia lacrimata speme”; v. 61: “tu misera”;

Allitterazioni ricorre la sillaba “vi”, che è presente anche nel nome “Silvia”: “vita” (v. 2),

“fuggitivi” (v. 4), “salivi” (v. 6), “sedevi” (v. 11), “avevi” (v. 12), “solevi” (v. 13), “soavi” (v. 28),

“perivi” (v. 42), “vedevi” (v. 42), “schivi” (v. 46), “festivi” (v. 47), “mostravi” (v. 63); delle lettere

“t” (v. 2): “tempo-“tua-vi“ta-mor“tale” ed “l”: “que“l-de“lla-morta“le”, “allorchè-all’-femminili” (v.

10); di “m” ed “n”: “e quinci il mar da lungi e quindi il monte” (v. 25); della “v”: “vago-avvenir-

avevi” (v. 12);

Enjambements: “sonavan le quiete / stanze” (vv. 7-8); “peria fra poco / la speranza mia

dolce” (vv. 49-50); “negaro i fati / la giovanezza” (vv. 52-53); “questi / i diletti” (vv. 56-57); “la

fredda morte ed una tomba ignuda / mostravi” (vv. 62-63);

Chiasmi “io gli studi leggiadri… e le sudate carte” (vv. 15-16); “fredda morte, tomba ignuda

(v. 62)”;

Metonimia “sudate carte” (v. 16); “faticosa tela” (v. 22); “lingua mortal” (v. 27);

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Iperbato “ove il tempo mio primo / e di me si spendea la miglior parte” (vv. 17-18); “agli

anni miei anche negaro i fati / la giovanezza” (vv. 51-52);

Climax “che pensieri soavi, che speranze, che cori…” (vv. 28-29);

Ossimoro “lieta e pensosa” (v. 5);

Epifrasi “io gli studi leggiadri / talor lasciando e le sudate carte” (vv. 15-16);

Zeugma “porgea gli orecchi al suon della tua voce / e alla man veloce” (vv. 20-21);

Anagramma “Silvia…salivi” (vv. 1 e 6);

Metafore “il limitare di gioventù” (v. 5); “il fior degli anni tuoi” (v. 43);

Parallelismo “e quinci il mar da lungi, e quindi il monte” (v. 25);

Geminatio (ripetizione) “o natura, o natura” (v. 36); “come, / come passata sei..” (v. 53);

Anafore “Che pensieri soavi, / Che speranze, Che cori” (vv. 28-29); “perché non rendi

poi…./ perché di tanto…” (vv. 38-39); “questo è quel mondo? Questi / i diletti… / Questa la

sorte…” (vv. 56-59)

Commento

La lirica, composta a Pisa nel 1828, è quella che inaugura la stagione dei cosiddetti “grandi idilli”: Leopardi torna alla poesia, dopo l’intervallo di sei anni delle Operette morali. Queste poesie, a differenza degli idilli giovanili, sono pervase dalla consapevolezza dell’”arido vero”, causata dalla fine delle illusioni giovanili.

La Silvia che è protagonista della lirica è stata tradizionalmente identificata con Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta giovanissima di tubercolosi circa dieci anni prima. Il nome “Silvia”, oltre che per il gioco fonico che forma con “salivi”, ultima parola della prima strofa, è significativo anche perché è il nome della protagonista dell’Aminta di Tasso. Comunque, al di là dell’identificazione biografica, è importante soprattutto notare che Silvia diventa il simbolo della giovinezza, dell’amore, delle trepidanti attese, del vago fantasticare, interrotti troppo presto dalla morte, che fa cessare miseramente tutte le illusioni. Infatti, ciò che la unisce al poeta non è una vera e propria storia d’amore, bensì è la comune condizione giovanile, fatta di speranze e sogni destinati ad essere ben presto delusi. La morte di Silvia, il suo “cadere” rappresentano anche la morte di ogni speranza ed illusione giovanile del poeta. Per questo, si scaglia contro la natura, incapace di mantenere le promesse fatte; alla fine, resta solo la “fredda morte” a spegnere ogni immagine di vita.

Tutto il componimento è pervaso dalla vaghezza e dal senso di indefinito che, per Leopardi, sono massimamente poetici: infatti non vi sono descrizioni, la figura

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femminile non presenta dettagli concreti. Gli elementi fisici e realistici sono solo un punto di partenza: l’unico particolare concreto cui si accenna è lo sguardo ridente, luminoso e al tempo stesso pudico che illumina la figura di Silvia e ne sottolinea l’atteggiamento spensierato, felice ma anche riflessivo; anche l’ambiente circostante è rarefatto e caratterizzato solo da pochi aggettivi evocativi: “quiete”, “odoroso”, “sereno”, “dorate”.

La poesia è resa possibile soltanto dal filtro del ricordo, che, come il filtro “fisico” rappresentato dalla finestra del “paterno ostello”, rende le immagini sfocate, quindi “vaghe e indefinite”. La finestra, come la siepe de L’infinito, infatti, limita il contatto con il reale, scatenando l’immaginazione. Inoltre il filtro del ricordo concorre in maniera determinante a spegnere le illusioni, che non possono essere vissute ingenuamente come nella giovinezza, bensì sono interrotte dalla consapevolezza del vero. Tuttavia, anche se la poesia si chiude con l’immagine lugubre della morte, è tutta pervasa da immagini di vita e di gioia, poiché Leopardi vuole levare un grido di protesta contro la natura “matrigna” che ha negato queste cose belle all’uomo: non si rassegna al dolore, ma, pur nella disperazione, non rinuncia mai a rivendicare il diritto alla felicità.

Netta la contrapposizione anche nell’uso dei tempi verbali: l’imperfetto caratterizza le strofe del ricordo indefinito degli anni giovanili e domina le strofe 1, 3 e 5, il presente quelle dell’amara constatazione del dolore, la 4 e la 6. Nelle strofe del ricordo, la sintassi è piana e limpida, in quelle di riflessione è più mossa e tesa, ricca di interrogative retoriche e di esclamazioni. Molte sono le parole appartenenti al linguaggio del “vago e indefinito”: “fuggitivi”, “quiete”, “perpetuo”, “vago”, “odoroso”, “lungi”, “dolce”.

Analisi e commento: "A Silvia" (a Selva/natura) è l’inizio di una nuova stagione poetica, tra il ’28 e il ’30.

Questo canto, composto a Pisa nel 1828, è dedicato a una fanciulla che il poeta realmente conobbe, Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta di tisi nel 1818. Questo nella realtà biografica ma nella fantasia leopardiana Silvia è soprattutto il simbolo della speranza propria della giovinezza, fatta di attese, illusioni e anche delusioni. Non è una commemorazione funebre, e non è neppure una canzone per Silvia, in onore di lei: in realtà è una confessione del poeta. È costruita come un colloquio con Silvia. Tutto il canto è costruito sulle esperienze parallele della giovinezza di Silvia, precocemente troncata dalla morte, e delle illusioni del poeta. L’immagine della donna si smorza nel mito della speranza. Silvia è rappresentata nel fiorire della sua giovinezza in primavera, invece la sua morte in inverno. Il rapporto con la vita della fanciulla con il valore metaforico della stagione della giovinezza e di quella della morte è che nella prima rispecchia il tempo di speranze e di gioie, invece nella seconda le delusioni e la morte. In questa canzone la Natura manifesta un duplice aspetto, ora ispirando serenità e dolcezza, ora vista come causa principale dell’infelicità umana; matrigna crudele e indifferente che mette al mondo i suoi figli senza che questi lo vogliano, inseriti in un meccanismo di vita e di morte.

Metrica: Canzone libera (costituisce il primo campione della cosiddetta ‘canzone libera leopardiana). È costituita da sei strofe di varia lunghezza. Settenari e endecasillabi sono liberamente distribuiti e la rima non ha schema prestabilito. L’unico elemento di regolarità è dato dal ripetersi del settenario alla fine di ogni strofa.

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Il testo è una canzone, formata da strofe libere, senza schema fisso, con alternarsi di

endecasillabi e settenari e con rime anch’esse liberamente ricorrenti. Questa libertà metrica

risponde perfettamente a quella tendenza alla vaghezza e all’indefinitezza delle immagini,

che è il motivo centrale della poetica leopardiana. In genere l’unità metrica del verso e quella

sintattica coincidono, e ciò dà un senso di fluidità ritmica.

Gli enjambement sono frequenti nell’ultima strofa, dove il tono si fa più vibrante: «perìa fra

poco / la speranza mia dolce», «negaro i fati / la giovanezza», «questi / i diletti».

L’enjambement mette in rilievo le parole chiave, la «speranza», la «giovinezza», i

«diletti», ideali cui l’uomo aspira e che la natura maligna nega. L’allontanamento di queste

parole al di là del confine del verso sembra sottolineare l’irraggiungibilità della realtà che

esse evocano.

I TEMI DELLA POESIA - Non si tratta comunque né di una commemorazione funebre, né

di una canzone per Silvia: è una confessione del poeta. Nasce questo lungo e commosso

colloquio con Silvia, la cui morte prematura diventa il simbolo delle speranze stesse

del poeta, diminuite all’apparire della terribile verità della condizione umana. Solo la

giovinezza permette di avere delle illusioni, mentre l'età matura porta con sé solo un

carico di delusioni e dolori. Tutto il canto è costruito sulle esperienze parallele della

giovinezza di Silvia, precocemente troncata dalla morte, e delle illusioni del poeta.

L’immagine della donna si smorza nel mito della speranza. Il lettore può cogliere nel canto

i tratti ideali di una giovinezza sognante che si affaccia al suo limite ma non riesce ad

attraversarlo.

SILVIA E GIACOMO: CADUTA DELLE SPERANZE - I destini di Silvia e Giacomo sono

posti in un parallelo uguale per entrambi: rappresentano la caduta delle speranze. Se Silvia,

morta precocemente, non è potuta arrivare al limitare della gioventù, anche Giacomo, che

ha invece potuto varcarlo, non ha avuto sorte migliore poiché la vita è una delusione senza

senso e non esiste altra felicità finale se non la fredda morte e una tomba ignuda. Di

fronte alla tristezza del presente e all'amarezza del futuro il ricordo dell'età giovanile si pone

come l'unico momento in cui l'esistenza si rivela affascinante e densa di aspettative.

La terza parte della poesia è dominata dal tema delle speranze deluse e dal lamento del

poeta nei confronti di una natura che non consente la loro realizzazione. Silvia muore prima

di raggiungere l'età adulta, che metaforicamente rappresenta il momento della vita in cui

l’uomo, consapevole della sua solitudine, perde le illusioni. La natura matrigna che toglie ai

suoi figli ciò che sembra promettere ingannandoli è un concetto che accompagnerà tutta la

poesia leopardiana e il suo “pessimismo cosmico”. La condizione umana è quella

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dell’infelicità e quando dall’odorosa stagione si passa a quella “invernale” le illusioni sono

definitivamente cadute ‘

SINTASSI - Sintatticamente la lirica presenta periodi brevi e concisi: poche subordinate, per

lo più temporali che si ricollegano alle tematiche del ricordo, dunque del tempo trascorso.

Da un punto di vista tematico fondamentale è il senso del vago e dell’indeterminato. La lirica

è composta da sei strofe a lunghezza varia. Settenari ed endecasillabi si succedono

secondo le esigenze dell’ispirazione e la rima non ha schema prestabilito. L’unico elemento

di regolarità è dato dal ripetersi del settenario alla fine d’ogni strofa.

“Il canto si divide in due parti: la prima parte ha carattere rievocativo, incentrato sulla poetica della memoria, la seconda parte ha carattere riflessivo.

Nella prima parte, Leopardi domanda a Silvia se, dopo tanti anni, ricorda ancora i giorni felici

nei quali si affacciava alla giovinezza. Quando anche il poeta aveva nel cuore la fiducia nella

vita e, come Silvia, aveva pensieri piacevoli, speranze e belli gli apparivano il fato e la vita.

Tuttavia questo è destinato a finire per colpa della natura, che promette negli anni della

giovinezza e dell’adolescenza, ma poi non mantiene ciò che ha promesso.

Nella seconda parte il poeta fa un paragone tra il destino della ragazza e il suo. Silvia moriva

senza veder fiorire la sua giovinezza, senza poter parlare di amore con le compagne e

senza godere delle lodi della propria bellezza. Con la sua morte, tramontava anche la

speranza di felicità di Leopardi. A lui, infatti, come a Silvia, i fati negarono le gioie della

giovinezza, dove sogni e speranze dovrebbero diventare realtà. Svaniti dunque i sogni con

l’apparire della realtà dolorosa, non resta altro che la morte per liberarci dalla miseria e dalle

amarezze della vita.

Il lessico – Risponde alla poetica dell’«indefinito» perché ricorrono quelle parole “vaghe”

che Leopardi considera sommamente poetiche: «fuggitivi», «quiete», «perpetuo», «vago»,

«odoroso», «da lungi», «dolce». Vi sono anche termini suggestivi per il loro elevato

registro letterario, che li rende molto evocativi: «rimembri», «veroni», «ostello»,

«giovanezza».

Le figure di significato – Poche ma chiare metafore (la fanciulla che sale il «limitare di

gioventù», il «fiore degli anni» ecc.) alludono alla tematica esistenziale affrontata nel testo;

alcune personificazioni sottolineano il pessimismo dell’autore: la natura «inganna», la

speranza è «compagna» della giovinezza del poeta, ma «perisce presto e indica di

lontano la morte e la tomba».

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Le figure di suono – La musicalità è una caratteristica costante del testo. Un esempio

suggestivo è dato dal frequente ricorso al gruppo “vi”: «fuggitivi», «salivi», «avevi»,

«solevi», «sedevi», «schivi», «festivi», «perivi», «occhi ridenti e fuggitivi», «innamorati e

schivi». È lo stesso suono che riecheggia nel nome di Silvia, quasi simbolo fonico della

presenza costante della fanciulla nella trama del testo. La sensazione del canto della

fanciulla è resa mediante la prevalenza della vocale “a” perché dà un’impressione di

vastità: «sonavan», «canto».

La costruzione del discorso – Risalta l’opposizione dei tempi verbali, imperfetto e

presente. L’imperfetto caratterizza il momento dei ricordi dei sogni giovanili, è il tempo della

memoria e dell’illusione; per questo domina nelle strofe 1, 2, 3, 5, che rievocano il passato.

Il presente prevale nella strofa 4 in cui il poeta inveisce contro la natura che nega all’uomo

la gioia. La sintassi è regolare, con periodi brevi e poche subordinate. Solo nelle strofe 4 e

6 ricorrono esclamazioni, interrogazioni, anafore («che… che… che», «o… o», «perché…

perché», «anche… anche», «come… come», «questo… questi…questa») che danno più

movimento al discorso, conferendogli così toni più accesi di sdegno e di protesta.

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IL SABATO DEL VILLAGGIO

Testo della poesia

1. La donzelletta vien dalla campagna, 2. in sul calar del sole, 3. col suo fascio dell’erba, e reca in mano 4. un mazzolin di rose e di viole, 5. onde, siccome suole, 6. ornare ella si appresta 7. dimani, al dí di festa, il petto e il crine. 8. Siede con le vicine 9. su la scala a filar la vecchierella, 10. incontro lá dove si perde il giorno; 11. e novellando vien del suo buon tempo, 12. quando ai dí della festa ella si ornava, 13. ed ancor sana e snella 14. solea danzar la sera intra di quei 15. ch’ebbe compagni dell’etá piú bella. 16. Giá tutta l’aria imbruna, 17. torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre 18. giú da’ colli e da’ tetti, 19. al biancheggiar della recente luna. 20. Or la squilla dá segno 21. della festa che viene; 22. ed a quel suon diresti 23. che il cor si riconforta. 24. I fanciulli gridando 25. su la piazzuola in frotta, 26. e qua e lá saltando, 27. fanno un lieto romore: 28. e intanto riede alla sua parca mensa, 29. fischiando, il zappatore, 30. e seco pensa al dí del suo riposo.

31. Poi quando intorno è spenta ogni altra face, 32. e tutto l’altro tace, 33. odi il martel picchiare, odi la sega 34. del legnaiuol, che veglia 35. nella chiusa bottega alla lucerna, 36. e s’affretta, e s’adopra 37. di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.

38. Questo di sette è il piú gradito giorno, 39. pien di speme e di gioia: 40. diman tristezza e noia 41. recheran l’ore, ed al travaglio usato 42. ciascuno in suo pensier fará ritorno.

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43. Garzoncello scherzoso, 44. cotesta etá fiorita 45. è come un giorno d’allegrezza pieno, 46. giorno chiaro, sereno, 47. che precorre alla festa di tua vita. 48. Godi, fanciullo mio; stato soave, 49. stagion lieta è cotesta. 50. Altro dirti non vo’; ma la tua festa 51. ch’anco tardi a venir non ti sia grave.

Parafrasi

1. La giovane contadina torna dai campi 2. al tramonto del sole 3. con il fascio d’erba e porta in mano 4. un mazzetto di rose e viole, 5. con il quale, come è usanza, 6. si prepara ad abbellire 7. il seno ed i capelli, domani per il giorno di festa. 8-9. La vecchietta siede sulle scale a filare con le vicine, 10. rivolta al tramonto, alla direzione in cui il giorno finisce; 11. e inizia a raccontare della sua giovinezza, 12. quando si faceva bella nei giorni di festa 13. e, ancora in salute e in forma, 14. era solita ballare la sera 15. con quelli che furono compagni della sua giovinezza, della sua età più bella. 16. Tutta l’aria si oscura già, 17-19. il cielo ritorna azzurro e le ombre, alla luce bianca della luna sorta da poco, tornano a vedersi giù dai colli e dai tetti. 20. Ora la campana annuncia 21. la festa che arriva 22. e si potrebbe dire che a quel suono 23. l’animo trova conforto. 24. I ragazzi, gridando 25. a gruppi nella piazzetta 26. e saltellando qua e là, 27. producono un rumore che rende felici: 28-29. e intanto lo zappatore ritorna a casa per il suo pasto frugale fischiettando 30. e pensa tra sé e sé al suo giorno di riposo.

31. Poi, quando intorno è spenta ogni altra luce 32. e tutto il resto è in silenzio, 33. senti picchiare il martello, senti il rumore della sega 34. del falegname che sta sveglio 35. alla luce della lucerna nel chiuso della sua bottega 36. e si affretta e si dà da fare 37. per finire il suo lavoro prima del sorgere del sole.

38. Questo (il sabato), tra sette giorni, è il più amato, 39. pieno di speranza e di gioia: 40. domani (domenica) la tristezza e la noia 41-42. riempiranno le ore e ciascuno tornerà col pensiero al suo lavoro consueto.

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43. Ragazzo spensierato, 44. questa età giovanile 45. è come un giorno pieno di allegria, 46. un giorno chiaro, sereno, 47. che precede la tua maturità. 48. Sii felice, ragazzo mio; questa è una condizione felice, 49. un’età serena. 50-51. Non voglio dirti altro; ma non ti sia di peso che la tua maturità tardi ancora a giungere.

Parafrasi discorsiva

La giovane contadina torna dai campi al tramonto del sole con il fascio d’erba e porta in mano un mazzetto di rose e viole, con il quale, come è usanza, si prepara ad abbellire il seno ed i capelli, domani per il giorno di festa. La vecchietta siede sulle scale a filare con le vicine, rivolta al tramonto, alla direzione in cui il giorno finisce; e inizia a raccontare della sua giovinezza, quando si faceva bella nei giorni di festa e, ancora in salute e in forma, era solita ballare la sera con quelli che furono compagni della sua giovinezza, della sua età più bella. Tutta l’aria si oscura già, il cielo ritorna azzurro e le ombre, alla luce bianca della luna sorta da poco, tornano a vedersi giù dai colli e dai tetti. Ora la campana annuncia la festa che arriva e si potrebbe dire che a quel suono l’animo trova conforto. I ragazzi, gridando a gruppi nella piazzetta e saltellando qua e là, producono un rumore che rende felici: e intanto lo zappatore ritorna a casa per il suo pasto frugale fischiettando e pensa tra sé e sé al suo giorno di riposo.

Poi, quando intorno è spenta ogni altra luce e tutto il resto è in silenzio, senti picchiare il martello, senti il rumore della sega del falegname che sta sveglio alla luce della lucerna nel chiuso della sua bottega e si affretta e si dà da fare per finire il suo lavoro prima del sorgere del sole.

Questo (il sabato), tra sette giorni, è il più amato, pieno di speranza e di gioia: domani (domenica) la tristezza e la noia riempiranno le ore e ciascuno tornerà col pensiero al suo lavoro consueto.

Ragazzo spensierato, questa età giovanile è come un giorno pieno di allegria, un giorno chiaro, sereno, che precede la tua maturità. Sii felice, ragazzo mio; questa è una condizione felice, un’età serena. Non voglio dirti altro; ma non ti sia di peso che la tua maturità tardi ancora a giungere.

Figure Retoriche

Allitterazioni “donzelletta, vecchierella, novellando, sulla, bella, colli”; “giorno,

chiaro, ciascuno, gioia, stagion, pien, pensier, lieta”;

Metafore “età più bella” (v. 15); “età fiorita” (v. 44); “stagion lieta” (v. 49) per

indicare la giovinezza; “festa” (vv. 47 e 50) per indicare la maturità;

Similitudini vv. 44-45: “cotesta età fiorita è come un giorno d’allegrezza pieno”;

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Metonimia v. 17: “il sereno” (ad indicare il cielo);

Enjambements vv. 4-5: “reca in mano / un mazzolin di rose e di viole”; vv. 33-

34: “la sega / del legnaiuol”; vv. 40-41: “tristezza e noia / recheran l’ore”;

Apostrofi v. 43: “garzoncello scherzoso”; v. 48: “fanciullo mio”;

Preterizione v. 50: “altro dirti non vo’”;

Iperbato vv.6-7: “tornare ella si appresta / dimani, al dì di festa, il petto e il

crine”; v. 41-42: “ed al travaglio usato / ciascuno in suo pensier farà ritorno”;

vv. 50-51: “ma la tua festa / ch’anco tardi a venir non ti sia grave”;

Anastrofi v. 11: “novellando vien”; v. 45: “d’allegrezza pieno”;

Anadiplosi vv. 45-46: “un giorno di’allegrezza pieno / giorno chiaro, sereno”

Commento

Il sabato del villaggio fa parte dei cosiddetti “grandi idilli” e fu composto a Recanati nel 1829, subito dopo La quiete dopo la tempesta, con la quale presenta diverse analogie: ha la stessa struttura, con prima una parte descrittiva, poi una riflessione che prende le mosse dalla descrizione precedente. Inoltre, i due idilli sono complementari anche dal punto di vista tematico, in quanto nella Quiete il piacere era visto come assenza di dolore, mentre qui è l’attesa e l’illusione, destinata ad essere delusa, di un godimento futuro.

Si tratta di tematiche tipiche degli idilli leopardiani: le illusioni e le speranze della giovinezza, il ricordo, i quadri di vita paesana con le suggestioni date dalle immagini “vaghe e indefinite”, unite, però, nei cosiddetti “grandi idilli”, ad un pessimismo assoluto e ad una lucida consapevolezza dell’”arido vero”. Per questo, le immagini liete sono spesso create dalla memoria e si accompagnano sempre alla consapevolezza del dolore e della loro illusorietà.

Il sabato simboleggia l’attesa di qualcosa di più piacevole e lieto: tutti lavorano più alacremente, pensando che quello successivo sarà un giorno di riposo; ma quando arriva finalmente la domenica a dominare sono tristezza e noia e il pensiero va subito alle consuete fatiche che ci aspettano il giorno successivo. Il sabato, dunque, è come la giovinezza, ricca di attese e illusioni; mentre la domenica simboleggia le delusioni dell’età più matura. Per questo, Leopardi invita il suo “garzoncello scherzoso” a cogliere l’attimo e a godersi la sua giovane età, senza preoccuparsi del domani: non bisogna aspettarsi gioie future, perché, come la domenica delude le attese del sabato, così l’età adulta è destinata a deludere le attese della giovinezza.

Il quadro di vita paesana, che si apre con la contrapposizione tra la “donzelletta” (v. 1), simbolo dei piaceri della giovinezza, e la “vecchierella” (v. 9) che rappresenta il ricordo dei piaceri passati, non ha nulla di realistico, sia perché rimanda a numerosi precedenti letterari, sia perché il paesaggio descritto è simbolico e ricco di quelle immagini “vaghe e

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indefinite” tanto care a Leopardi, perché permettono di evocare vastità e lontananze che stimolano l’immaginazione. Proprio a quest’esigenza di indeterminatezza risponde anche l’accostamento di rose e viole, inverosimile perché si tratta di fiori che fioriscono in mesi diversi e, per questo, criticato da Pascoli in un celebre saggio del 1896.

La parte finale di riflessione, a differenza di quella della Quiete, è breve e pacata; il colloquio col ragazzo non è angoscioso, ma affettuoso e delicato e vi sono evocate immagini di vita, legate al campo semantico delle gioie della giovinezza: “età fiorita” (v. 44), “chiaro”, “sereno” (v. 46), “festa” (vv. 47 e 50), “soave” (v. 48), “lieta (v. 49)”. Infatti, il poeta qui invita il ragazzo a non addentrarsi oltre l’angusto spazio dell’illusione giovanile, ma a godersela appieno, prima che l’”arido vero” della maturità arrivi a rovinarla. La tenerezza e l’affetto del poeta sono dimostrati anche dall’uso costante di diminutivi: “donzelletta” (v. 1), “mazzolin” (v. 4), “vecchierella” (v. 9), “piazzuola” (v. 25), “garzoncello” (v. 43).

Analisi e commento: Il sabato del villaggio, scritto da Giacomo Leopardi nel 1829 a Recanati, fa parte dei "grandi idilli" e, come tale, si evidenziano da subito in tutto il componimento i temi della rimembranza e dell'evanescenza della giovinezza. Il tema predominante del componimento è rievocare "l'età fiorita", tema che peraltro si ritrova in altri idilli come in A Silvia, dove la ragazza è personificazione stessa della gioventù che sfiorisce. L'autore invita a non aspettarsi felicità dal futuro, perché come la domenica deluderà l'attesa del sabato, così la vita deluderà i sogni della giovinezza. Leopardi, quindi, ritiene di non doversi aspettare niente, in modo da non essere mai delusi. Il poeta in questa lirica parla della vita che si conduce di sabato nel suo villaggio. Si può suddividere la poesia in due parti:

• prima parte: descrittiva in cui regna l'allegria per i giorni di festa e successivamente il silenzio rotto dagli strumenti del falegname. I primi versi, infatti, oppongono la gioia ed il giorno alla serenità del sonno;

• parte finale: riflessiva dove il poeta guarda al domani quando la quotidianità infonderà il tedio e riflette sulla fugacità della giovinezza. Negli ultimi versi il poeta oppone l'oggi spensierato, metafora della giovinezza, al domani, simbolo della noia e della vecchiaia.

Metrica: Canzone libera. Settenari e endecasillabi si alternano e vi sono due versi non rimati (41 e 43). Parallelamente alle tematiche il ritmo nei primi versi è più incalzante, scorrevole e spensierato, mentre diventa in chiusura, più pacato ed incline alla meditazione. Il ritmo agile e mosso è reso efficacemente attraverso l’utilizzo dei settenari, mentre il ritmo più lento è reso dall’endecasillabo. Sono presenti numerose figure retoriche, oltre a quelle evidenziate nel testo a fronte della poesia, vi sono: Litote: "altro dirti non vo'" con la quale Leopardi esprime l'intenzione di non demoralizzare i giovani. Climax: I personaggi realizzano un climax prima crescente dopo decrescente: la donzelletta (gioventù) - la vecchierella (vecchiaia) - lo zappatore (età matura) - il garzoncello (gioventù). Si possono notare inoltre, nella prima parte della poesia, allitterazioni con doppie (donzelletta, mazzolin, vecchierella, novellando, sulla, bella, colli...) o con dittonghi (giorno, chiaro, ciascuno, gioia, stagion, pien, pensier, lieta), o con ripetizione degli stessi suoni (in sul calar del sole; siccome suole).

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L'uso dei diminutivi (donzelletta, vecchierella, garzoncello) denota la tenerezza del poeta verso i suoi personaggi, in particolare per gli adolescenti.

COMMENTO

Il sabato è certamente una metafora di piacere, secondo la visone leopardiana:

rappresenta la gioventù, lieta e spensierata, mentre l’età adulta è la domenica.

Come il sabato precede il giorno della festa tanto attesa, così l’adolescenza è

l’attesa, spesso ansiosa, dell’età adulta, un’età che, quando si è giovani, può

sembrare ricca di invitanti promesse. Nella visione di Leopardi, però, godere del

pensiero di queste ultime è l’unica forma di felicità possibile perché la realtà porta

sempre con sé l’amarezza e la disillusione. Nella prima parte del canto, quella

idilliaca, Recanati è colta alla sera del sabato: giovani e vecchi si preparano alla

festa del giorno successivo e si affrettano a terminare il loro lavoro per godere del

riposo domenicale. L’attesa del giorno di festa è un momento di speranza e di

gioia. La seconda parte è più riflessiva: attraverso l’ammonimento lanciato al

ragazzo, Leopardi allude appena alla triste realtà spiegando come l’attesa della

festa sia molto più bella della festa stessa. Allo stesso modo, l’adolescenza, piena

di sogni, è l’unica età felice per l’uomo.

L’ambientazione della poesia è recanatese, tutta rivolta alla semplicità di un piccolo borgo,

vicino alla campagna, verso il tardo pomeriggio di sabato, e quindi ormai già pronto a godersi

la festa domenicale. Il poeta si concentra sulle normali attività dei paesani, le trascurabili

abitudini che compongono però gran parte delle vite di ciascuno. Trovandoci di fronte a una

poesia filosofica, occorre fare attenzione al significato allegorico delle parole. Con

l’allegoria ci troviamo sempre davanti a due significati: uno più evidente, letterale; uno più

nascosto, che necessita di una chiave di lettura per essere compreso appieno. Le prime

inquadrature sono per una giovinetta che torna allegramente a casa, e una petulante

vecchietta che sulla scala comincia a parlare della sua gioventù. La prima è felice, e la

seconda è – implicitamente – triste.

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Leopardi non trascura niente dell’esperienza esistenziale: cerca di dare un significato a

tutto, sempre basandosi su di un’impostazione materialistica. La ragazza è contenta

perché è giovane, la festa è un’occasione per essere corteggiata. Eppure un giorno sarà lei

quella vecchietta sulla scala, e sarà triste per aver perduto la giovinezza; non avrà fiori con

cui ornare i capelli; la festa le ricorderà solo che il tempo sta passando e che si sta

avvicinando alla morte. Dopotutto, a molti anziani non piace festeggiare il loro compleanno

perché si sentono più vicini alla morte. Ma la giovane, pur mortale anche lei, non ci pensa;

soprattutto, non deve pensarci. Infatti, fintanto che si può immaginare un’idea di futuro,

fintanto che il corpo è bello e sano, allora il piacere è possibile.

MESSAGGIO: Quando cioè possiamo proiettare il nostro piacere in una specie

di ripetibilità infinita e indeterminata, godiamo. Quando ci accorgiamo del venire meno di

questo aspetto, si affacciano in noi tristezza, angoscia e inquietudine: le sensazioni tipiche

della domenica, la vigilia di un giorno feriale. La poesia leopardiana è quindi sempre

legata alla vita concreta dell’uomo e cerca di offrire un insegnamento per affrontarla. Alla

fine, il poeta fa una raccomandazione a tutti i giovani: godete la vita, gioite, esultate, fate

follie, voi che adesso potete. Domani penserete alla vostra realtà adulta, ma solo domani.

Sarete forse disillusi, disincantati. Forse.

Analisi retorico-stilistica

Tutte le scelte metriche, lessicali e stilistiche esprimono in questo canto leggerezza,

slancio, semplicità. Agli endecasillabi succedono i settenari, spesso in serie (vv. 20-27),

dedicati alla gioia festiva e ai fanciulli. Il lessico è semplice, elegiaco, umile. Come in A

Silvia sono presenti le apostrofi: v. 43: “garzoncello scherzoso”; v. 48: “fanciullo mio”.

Sempre come in A Silvia le metafore sono dedicate alla giovinezza: “età più bella” (v. 15);

“età fiorita” (v. 44); “stagion lieta” (v. 49) per indicare la giovinezza. La “festa” (vv. 47 e 50)

è usata, invece, per indicare la maturità. C’è la metonimia al v. 17: “il sereno” (ad indicare

il cielo). Anche al v. 20 è pure una definizione metonimica: la squilla è la campana,

sostituzione di causa per l’effetto (lo squillo della campana).

Gli enjambements sono al vv. 4-5: “reca in mano / un mazzolin di rose e di viole”; vv. 33-

34: “la sega / del legnaiuol”; vv. 40-41: “tristezza e noia / recheran

l’ore”. Iperbati e anastrofi sono meno frequenti che in altre poesie. Iperbato: vv. 6-7:

“tornare ella si appresta / dimani, al dì di festa, il petto e il crine”; v. 41-42: “ed al travaglio

usato / ciascuno in suo pensier farà ritorno”; vv. 50-51: “ma la tua festa / ch’anco tardi a

venir non ti sia grave”. Anastrofi v. 11: “novellando vien”; v. 45: “d’allegrezza pieno”.

Da un punto di vista fonico, molto curata è l’allitterazione della liquida /l/, spesso

raddoppiata: “donzelletta, vecchierella, novellando, sulla, bella, ella, snella, colli, ”,

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soprattutto nella prima strofa, vv. 1-30. La /ll/ dobbiamo notare è la lettera di allegria, di

alleluia, quindi indica un senso di esultanza e di liberazione. Inoltre quando si canticchia si

usa spesso, al posto delle parole, la-la-la (si spensi ai fumetti: il canto senza parole è

indicato come trallalà). Un linguaggio semplice, composto da vocaboli che attingono dalla quotidianità pieno di slancio e leggerezza, Il sabato del villaggio propone sul piano lessicale vocaboli mai troppo difficili, a favore di un linguaggio semplice, elegiaco. La prima inquadratura è per la “donzelletta”, con un vezzeggiativo, che esprime tutta la tenerezza del poeta nei confronti della giovane. Alla “donzelletta” è speculare “la vecchiarella”, espressa pure con un vezzeggiativo. Vedere la ragazza con i fiori in mano, le rose e le viole, fa affiorare in lei i ricordi del periodo più felice della sua vita. Come già in A Silvia, il ricordo occupa un ruolo importante. Alle due donne seguono i «fanciulli» (v. 24), lo «zappatore» (v. 29), il «legnaiuiol» (v. 34), e per finire il «garzoncello» che riprende e completa la «donzelletta» del primo verso. Sono tutti vocaboli molto semplici e, se non quotidiani, certamente non presi dalla poesia aulica. Dopotutto Leopardi sta descrivendo la giornata prefestiva di un piccolo borgo e deve rendere credibile e coerente il suo quadro.

Ai personaggi egli infatti aggiunge alcuni caratterizzazioni oggettive o spaziali: il «fascio

dell’erba» (v. 3), il «mazzolin di rose e di viole» (v. 4) per la donzelletta; la «scala» dove

siede la vecchietta insieme alle altre anziane (v. 9), il «martel», la «sega», la «lucerna»

(vv. 33-35) che danno consistenza e movimento al falegname che sta ultimando il suo

lavoro. Anche la modulazione della luce è descritta con grande cura.

Si percepisce il degradare del giorno verso la notte: dal rosseggiare del sole, ci si avvia

all’oscurità, al cielo che imbrunisce e che però si rischiara d’argento grazie alla luna

appena sorta. È notte. Tutti dormono tranne il falegname. Si sente picchiare il martello,

come se fosse un metronomo, e potremmo immaginare che quel picchiare scandisce la

pulsazione del tempo, inarrestabile.

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IL PASSERO SOLITARIO

(TESTO)

D'in su la vetta della torre antica,

Passero solitario, alla campagna

Cantando vai finchè non more il giorno;

Ed erra l'armonia per questa valle.

Primavera dintorno

Brilla nell'aria, e per li campi esulta,

Sì ch'a mirarla intenerisce il core.

Odi greggi belar, muggire armenti;

Gli altri augelli contenti, a gara insieme

Per lo libero ciel fan mille giri,

Pur festeggiando il lor tempo migliore:

Tu pensoso in disparte il tutto miri;

Non compagni, non voli,

Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;

Canti, e così trapassi

Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.

Oimè, quanto somiglia

Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,

Della novella età dolce famiglia,

E te german di giovinezza, amore,

Sospiro acerbo de' provetti giorni,

Non curo, io non so come; anzi da loro

Quasi fuggo lontano;

Quasi romito, e strano

Al mio loco natio,

Passo del viver mio la primavera.

Questo giorno ch'omai cede la sera,

Festeggiar si costuma al nostro borgo.

Odi per lo sereno un suon di squilla,

Odi spesso un tonar di ferree canne,

Che rimbomba lontan di villa in villa.

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Tutta vestita a festa

La gioventù del loco

Lascia le case, e per le vie si spande;

E mira ed è mirata, e in cor s'allegra

. Io solitario in questa

Rimota parte alla campagna uscendo,

Ogni diletto e gioco

Indugio in altro tempo: e intanto il guardo

Steso nell'aria aprica

Mi fere il Sol che tra lontani monti,

Dopo il giorno sereno,

Cadendo si dilegua, e par che dica

Che la beata gioventù vien meno.

Tu solingo augellin, venuto a sera

Del viver che daranno a te le stelle,

Certo del tuo costume

Non ti dorrai; che di natura è frutto

Ogni nostra vaghezza

A me, se di vecchiezza

La detestata soglia

Evitar non impetro,

Quando muti questi occhi all'altrui core,

E lor fia voto il mondo, e il dì futuro

Del dì presente più noioso e tetro,

Che parrà di tal voglia?

Che di quest'anni miei? Che di me stesso?

Ahi pentiromi, e spesso,

Ma sconsolato, volgerommi indietro.

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parafrasi:

I strofa (vv.1-16) - Dalla cima della torre antica, passero solitario, tu canti

ripetutamente verso la campagna, finché il giorno non termina (non more) e si

diffonde l’armonia [di quel canto] per questa valle.[v.4]

Intorno la primavera fa risplendere l’aria(brilla nell’aria) e gioisce(esulta) nei

campi tanto che(si ch’) il cuore contemplandola(a mirarla) si intenerisce. [v.8]

Si possono sentire(odi)greggi [di pecore] belare, mandrie(armenti) [di

buoi] muggire e gli altri uccelli, contenti, insieme, come se gareggiassero(a gara)

compiono innumerevoli evoluzioni (fan mille giri) nel cielo aperto(libero), anche(pur)

essi a festeggiare la loro giovinezza(il lor tempo migliore): tu pensieroso osservi(miri)

tutto ciò (il tutto),[standotene] in disparte; [per te] non [ci sono] compagni, non[ci

sono] voli, non ti interessa (non ti cal) l’allegria, eviti(schivi) i divertimenti(gli spassi),

canti e in questo modo trascorri(trapassi) la più bella stagione(il più bel fiore)

dell’anno e della tua vita. [v.16]

II strofa (vv.17-44) - Ahimè quando somiglia il tuo modo di vivere (costume) al mio!

Io non ricerco(non curo), non so perché, divertimenti(sollazzo) e piaceri, cari

compagni(dolce famiglia) della giovinezza(novella età), né te, amore, compagno

inseparabile(german=fratello) della giovinezza, rimpianto(sospiro) amaro(acerbo)

dei giorni della maturità(provetti); anzi quasi fuggo lontano da loro; trascorro la mia

giovinezza (del viver mio la primavera) quasi come un eremita (romito) e

straniero(strano) all’ambiente dove sono nato, [v.26]

Nel nostro paese(borgo) è usanza(si costuma) festeggiare questo giorno che

ormai sta cedendo [il posto] alla sera. [v.28]

Si può sentire per il [cielo] sereno un suono di campana(squilla), si può sentire

spesso un tuonare di fucili(ferree canne) che rimbomba lontano di casolare in

casolare. [v.31]

La gioventù del luogo tutta vestita a festa esce di casa e si riversa per le strade; e

guarda e si fa guardare, e dentro di sé (in cor) se ne compiace (s’allegra). [v.35]

Io uscendo da solo [solitario] in questa solitaria (rimota) parte della campagna,

rinvio(indugio) al altro tempo ogni divertimento(diletto) e gioco; e intanto il sole, che

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dopo il giorno sereno scompare(si dilegua) tra monti lontani, mi ferisce lo sguardo

disteso(steso) nell’aria luminosa(aprica), e sembra dire che la beata gioventù sta

finendo(vien meno) [v.35]

III strofa (vv.45-59) - Tu solitario uccellino, quando giungerai alla fine(sera) della

vita(viver) che a te concederà il destino(stelle), certo non ti lamenterai(non ti dorrai)

del tuo modo di vivere(costume); poiché ogni vostro desiderio (vaghezza) ha origine

(è frutto) dalla natura. [v.49]

A me - se non otterrò(impetro) di sfuggire la soglia detestata della vecchiaia[: cioè

se non riuscirò a morir giovane] - che sembrerà(parrà) di un simile desiderio(voglia),

quando questi miei occhi non parleranno più (muti) al cuore degli altri, e a essi[: a

miei occhi] il mondo sarà(fia) senza interesse(voto= vuoto) e il domani (il dì

futuro) [sarà per me] più noioso e triste(tetro) del giorno presente,?Che[sott. mi

sembrerà] di questi miei anni e di me stesso?Ahi mi pentirò, e spesso, ma

inconsolabile(sconsolato) mi volgerò [a guardare] indietro. [: al mio passato,

rimpiangendolo].[v.59]

METRICA: Canzone libera di tre stanze rispettivamente di 16, 28 e 15 versi, di

endecasillabi e settenari liberamente distribuiti. Le scelte linguistiche sono raffinate,

classicheggianti e a volte ricorrono, in particolar modo nelle descrizioni, a termini

della quotidianità.

ANALISI

La fase del pensiero di Leopardi del cosiddetto “pessimismo cosmico” ebbe avviò

con l’ideazione della lirica Il passero solitario. La lirica è imperniata sul parallelismo

tra la vita del passero solitario e la vita del poeta. Il passero solitario è un animale

che ama trascorrere la sua vita da solo ed il poeta sente di assomigliargli perché

anch’egli preferisce starsene in solitudine e non ama la compagnia dei suoi

coetanei.

Tutta la poesia è incentrata su analogie, più o meno palesi, fra il passero solitario e

la vita del poeta. L’analogia più evidente è senz’altro l’esclusione dal tempo felice

della primavera: come il passero trascorre solitario la stagione più bella, spandendo

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il suo canto per la campagna, così cantando (scrivendo versi) il poeta passa in

solitudine la stagione della sua gioventù.

La campagna diventa per entrambi il luogo del ritiro, dell’esclusione dalla vita

festosa del paese nel clima primaverile. Anche se la situazione in cui si trovano è

identica, andranno incontro ad un diverso destino: il passero arrivato alla fine della

sua vita morirà senza rimpianti mentre al poeta rimarrà il rimpianto per ciò che non

ha vissuto.

Il canto è diviso in tre strofe; la prima e la seconda in cui è posto il confronto fra il

passero solitario ed il poeta, la terza che ne sottolinea una diversità. In particolare:

•I strofa: (vv.1 - 15) Descrive il comportamento del passero nel contesto e in rapporto agli altri animali, allo spazio della campagna, nel tempo della primavera che è la festa dell'anno. Il passero non ha bisogno di spassi, o di compagni. Canta. E quel canto si diffonde ovunque.

•II strofa: (vv.16 - 44) Descrive il comportamento del poeta nel contesto e in rapporto agli altri giovani, allo spazio del paese, nel tempo della giovinezza che è la festa della vita. Le due strofe sono dunque costruite simmetricamente rispetto al contenuto e si rapportano l'una all'altra sulla base di un confronto per uguaglianza.

•III strofa: (vv.45 - 49) Nella conclusione i due modi di esistere, del passero e del poeta, sono ancora messi a confronto, ma per disuguaglianza: tu "non ti dorrai", "Ahi, pentirommi"; ovvero: tu vivi secondo la tua natura, io vivo contrariamente alla mia natura.

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ALLA LUNA

Testo della poesia

1. O graziosa Luna, io mi rammento 2. che, or volge l’anno, sovra questo colle 3. io venia pien d’angoscia a rimirarti: 4. e tu pendevi allor su quella selva, 5. siccome or fai, che tutta la rischiari. 6. Ma nebuloso e tremulo dal pianto, 7. che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci 8. il tuo volto apparia, ché travagliosa 9. era mia vita: ed è, né cangia stile, 10. o mia diletta Luna. E pur mi giova 11. la ricordanza, e il noverar l’etate 12. del mio dolore. Oh come grato occorre 13. nel tempo giovanil, quando ancor lungo 14. la speme e breve ha la memoria il corso, 15. il rimembrar delle passate cose, 16. ancor che triste, e che l’affanno duri

Parafrasi

1. O leggiadra luna, io mi ricordo, 2. che, proprio un anno fa, io venivo (=”io venia” del v. 3) su questo colle 3. ad ammirarti pieno di sofferenza: 4. e tu allora sovrastavi quel bosco 5. come fai anche adesso illuminandolo tutto. 6-9. Ma, a causa del pianto, che mi nasceva sulle ciglia, nei miei occhi, il tuo aspetto mi appariva offuscato e tremolante, poiché la mia vita era dolorosa e lo è anche ora e non cambia situazione, 10. o mia cara luna. Eppure mi fa bene 11. ricordare il tempo passato e riconsiderare il tempo 12. del mio dolore. Oh come appare gradito, 13. nell’età della giovinezza, quando la speranza (“speme” del v. 14) ha ancora un lungo percorso 14. e la memoria breve, 15. ricordarsi degli avvenimenti passati, 16. anche se sono tristi e la sofferenza dura ancora nel presente.

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Parafrasi discorsiva

O leggiadra luna, io mi ricordo, che, proprio un anno fa, io venivo su questo colle ad ammirarti pieno di sofferenza: e tu allora sovrastavi quel bosco come fai anche adesso illuminandolo tutto. Ma, a causa del pianto, che mi nasceva sulle ciglia, nei miei occhi, il tuo aspetto mi appariva offuscato e tremolante, poiché la mia vita era dolorosa e lo è anche ora e non cambia situazione, o mia cara luna. Eppure mi fa bene ricordare il tempo passato e riconsiderare il tempo del mio dolore. Oh come appare gradito, nell’età della giovinezza, quando la speranza ha ancora un lungo percorso e la memoria breve, ricordarsi degli avvenimenti passati, anche se sono tristi e la sofferenza dura ancora nel presente.

Commento

Leopardi stesso designò con il termine Idilli alcuni componimenti scritti tra il 1819 e il 1821 (L’infinito, Alla luna, La sera del dì di festa, Il sogno, La vita solitaria) caratterizzati dal linguaggio colloquiale e da tematiche intime e autobiografiche. Nel 1828, Leopardi li definì “espressione di sentimenti, affezioni, avventure storiche del suo animo”.

In Alla luna si affronta il tema del ricordo (La ricordanza era il titolo originale), che trasforma la realtà, migliorandola. Infatti, il ricordo, anche se triste e doloroso, ha un potere consolatorio e la “rimembranza” rende “poeticissimo” ogni oggetto, in quanto “è essenziale e principale nel sentimento poetico”, come leggiamo nella nota dello Zibaldone del 14 dicembre 1828. La lontananza nel tempo, come quella spaziale, rende le immagini indeterminate, quindi particolarmente poetiche.

La poesia, come tutti i primi idilli è costruita sull’opposizione tra il presente e il passato: in questo caso, tra i sentimenti dell’anno precedente, quando il poeta ammirava la luna pieno di angoscia e quelli del momento presente: il dolore è sempre lo stesso, nulla è cambiato nella vita di Leopardi, ma il ricordo addolcisce la tristezza, perché appartiene al tempo della giovinezza, quando ha ancora tanto spazio la speranza, data dalle illusioni, contrapposta alla memoria, che ha ancora un percorso breve dietro di sé. Gli ultimi due versi sono stati aggiunti, con ogni probabilità, in un momento successivo, per prendere le distanze dalle illusioni giovanili: infatti, compaiono solo nell’edizione dei Cantidel 1845.

Con la luna, sua interlocutrice prediletta, il poeta instaura un dialogo affettuoso, chiamandola “graziosa” (v. 1) e “diletta” (v. 10), poiché si illude che la luna possa partecipare del suo dolore: siamo ancora nella prima fase della poetica leopardiana, quella in cui la natura è considerata una madre benigna. Dieci anni dopo, infatti, nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, la luna sarà totalmente indifferente al dolore del poeta, ormai giunto alla fase del pessimismo “cosmico”, in cui la natura è “madre di parto e di voler matrigna”.

Il componimento Alla luna appare dolce e pacato, caratterizzato da quell’atmosfera di “vago e indefinito”, che per Leopardi è sommamente poetica: angoscia e dolcezza coesistono tranquillamente, poiché il ricordo mitiga il dolore e provoca sentimenti di pacatezza: a creare tale atmosfera contribuisce anche la frequente allitterazione della consonante “l”. Lo stile è letterario e nel componimento sono presenti diversi riferimenti alla tradizione di cui possiamo citare sicuramente il Petrarca del Canzoniere (v. 2 “or volge

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l’anno”; v. 7 (“alle mie luci”, metafora tipica nella poesia di Petrarca) o al v. 9 (“né cangia stile”).

Figure Retoriche

Enjambements travagliosa / era la mia vita (vv. 8-9); “mi giova / la ricordanza” (vv.

10-11); “l’etate / del mio dolore” (vv. 11-12); “lungo / la speme” (vv. 13-14);

Allitterazioni della “l”: “Luna-voLge-coLLe-aLLor-seLva-nebuLoso-tremuLo-doLore-

diLetta”;

Anafore “o graziosa luna […] o mia diletta luna” (vv. 1; 10);

Apostrofi “o graziosa luna” (v. 1); “o mia diletta luna” (v. 10);

Metonimia “pianto” (v. 6);

Metafore “luci” (v. 7);

Iperbato “Ma nebuloso e tremulo dal pianto / che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci /

il tuo volto apparia” (vv. 6-8);

Anastrofe “lungo /la speme e breve ha la memoria il corso” (vv. 13-14);

Chiasmi “lungo /la speme e breve ha la memoria il corso” (vv. 13-14).

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LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA

Testo della poesia

1. Passata è la tempesta: 2. odo augelli far festa, e la gallina, 3. tornata in su la via, 4. che ripete il suo verso. Ecco il sereno 5. rompe lá da ponente, alla montagna: 6. sgombrasi la campagna, 7. e chiaro nella valle il fiume appare. 8. Ogni cor si rallegra, in ogni lato 9. risorge il romorio, 10. torna il lavoro usato. 11. L’artigiano a mirar l’umido cielo, 12. con l’opra in man, cantando, 13. fassi in su l’uscio; a prova 14. vien fuor la femminetta a côr dell’acqua 15. della novella piova; 16. e l’erbaiuol rinnova 17. di sentiero in sentiero 18. il grido giornaliero. 19. Ecco il sol che ritorna, ecco sorride 20. per li poggi e le ville. Apre i balconi, 21. apre terrazzi e logge la famiglia: 22. e, dalla via corrente, odi lontano 23. tintinnio di sonagli; il carro stride 24. del passeggier che il suo cammin ripiglia.

25. Si rallegra ogni core. 26. Sí dolce, sí gradita 27. quand’è, com’or, la vita? 28. Quando con tanto amore 29. l’uomo a’ suoi studi intende? 30. o torna all’opre? o cosa nova imprende? 31. quando de’ mali suoi men si ricorda? 32. Piacer figlio d’affanno; 33. gioia vana, ch’è frutto 34. del passato timore, onde si scosse 35. e paventò la morte 36. chi la vita abborria; 37. onde in lungo tormento, 38. fredde, tacite, smorte, 39. sudâr le genti e palpitâr, vedendo 40. mossi alle nostre offese 41. folgori, nembi e vento.

42. O natura cortese, 43. son questi i doni tuoi, 44. questi i diletti sono

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45. che tu porgi ai mortali. Uscir di pena 46. è diletto fra noi. 47. Pene tu spargi a larga mano; il duolo 48. spontaneo sorge e di piacer, quel tanto 49. che per mostro e miracolo talvolta 50. nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana 51. prole cara agli eterni! assai felice 52. se respirar ti lice 53. d’alcun dolor; beata 54. se te d’ogni dolor morte risana.

Parafrasi

1. La tempesta è passata: 2. sento uccelli fare festa e la gallina 3. tornata sulla strada 4. ripetere il suo verso. Ecco il cielo sereno 5. da ovest verso la montagna squarcia le nubi; 6. si rischiara la campagna 7. e il fiume appare luminoso nella valle. 8. Ognuno si rallegra nel proprio cuore, da ogni parte 9. riprendono i rumori, 10. tornano le attività consuete. 11-13. L’artigiano si affaccia sulla porta cantando con il lavoro in mano ad ammirare il cielo ancora umido di pioggia; a gara 14. esce la giovane ragazza a raccogliere dell’acqua 15. della recente pioggia; 16. e il venditore di ortaggi ripete, 17. andando di sentiero in sentiero, 18. il suo grido quotidiano. 19. Ecco il sole che torna, ecco che risplende 20-21. attraverso le colline e le case. I domestici aprono balconi, terrazze e porticati: 22. e dalla strada maestra si sente un lontano 23. tintinnio di sonagli; il carro rumoreggia 24. poiché il passeggero ha ripreso il proprio cammino.

25. Tutti si rallegrano nel proprio cuore. 26-27. Quando la vita è così piacevole e gradita come in questo momento? 28-29. Quando l’uomo si dedica alle proprie occupazioni con tanta passione? 30. O ritorna alle consuete attività? O intraprende qualcosa di nuovo? 31. Quando si ricorda meno delle proprie sofferenze? 32. Il piacere deriva dal dolore; 33. è una gioia illusoria che nasce 34-36. dalla paura appena passata, a causa della quale coloro che odiavano la vita si spaventarono e temettero la morte; 37-41. a causa della quale le persone agghiacciate, mute e pallide per il lungo spavento sudarono e furono turbati, vedendo scatenati contro di noi per danneggiarci fulmini, nubi e vento.

42. O natura generosa, 43. sono questi i tuoi doni,

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44. questi sono i piaceri 45. che offri agli uomini. Sfuggire a una sofferenza 46. è per noi motivo di piacere. 47. Distribuisci largamente sofferenze; il dolore 48. ne deriva spontaneamente: e quella piccola quantità di piacere 49. che per prodigio o per miracolo qualche volta 50. nasce dalla cessazione della sofferenza è un grande vantaggio. 51. Specie umana cara agli dei! Assai contenta 52-54. se ti è permesso tirare un sospiro di sollievo dopo un dolore: felice se la morte ti guarisce da ogni dolore.

Parafrasi discorsiva

La tempesta è passata: sento uccelli fare festa e la gallina tornata sulla strada ripetere il suo verso. Ecco il cielo sereno da ovest verso la montagna squarcia le nubi; si rischiara la campagna e il fiume appare luminoso nella valle. Ognuno si rallegra nel proprio cuore, da ogni parte riprendono i rumori, tornano le attività consuete. L’artigiano si affaccia sulla porta cantando con il lavoro in mano ad ammirare il cielo ancora umido di pioggia; a gara esce la giovane ragazza a raccogliere dell’acqua della recente pioggia; e il venditore di ortaggi ripete, andando di sentiero in sentiero, il suo grido quotidiano. Ecco il sole che torna, ecco che risplende attraverso le colline e le case. I domestici aprono balconi, terrazze e porticati: e dalla strada maestra si sente un lontano tintinnio di sonagli; il carro rumoreggia poiché il passeggero ha ripreso il proprio cammino.

Tutti si rallegrano nel proprio cuore. Quando la vita è così piacevole e gradita come in questo momento? Quando l’uomo si dedica alle proprie occupazioni con tanta passione? O ritorna alle consuete attività? O intraprende qualcosa di nuovo? Quando si ricorda meno delle proprie sofferenze? Il piacere deriva dal dolore; è una gioia illusoria che nasce dalla paura appena passata, a causa della quale coloro che odiavano la vita si spaventarono e temettero la morte; a causa della quale le persone agghiacciate, mute e pallide per il lungo spavento sudarono e furono turbati, vedendo scatenati contro di noi per danneggiarci fulmini, nubi e vento.

O natura generosa, sono questi i tuoi doni, questi sono i piaceri che offri agli uomini. Sfuggire a una sofferenza è per noi motivo di piacere. Distribuisci largamente sofferenze; il dolore ne deriva spontaneamente: e quella piccola quantità di piacere che per prodigio o per miracolo qualche volta nasce dalla cessazione della sofferenza è un grande vantaggio. Specie umana cara agli dei! Assai contenta se ti è permesso tirare un sospiro di sollievo dopo un dolore: felice se la morte ti guarisce da ogni dolore.

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Figure Retoriche

Enjambements vv. 4-5; vv. 14-15; vv. 22-23; vv. 23-24; vv. 33-34; vv. 39-40; vv. 45-

46; vv. 47-48; vv. 50-51; vv. 52-53;

Apostrofi v. 42: “o natura cortese”;

Sineddoche v. 8: “ogni cor”;

Antifrasi v. 42: “natura cortese”; v. 44: “diletti”; vv. 50-51: “Umana/ prole cara agli

eterni”;

Metafore vv. 4-5: “il sereno / rompe”; v. 19: “ecco il Sol … sorride”; v. 32: “piacer

figlio d’affanno”;

Iperbato v. 1: “passata è la tempesta”; v. 7: “e chiaro nella valle il fiume appare”; vv.

23-24: “il carro stride / del passegger”; v. 31: “de’ mali suoi men si ricorda”; vv. 38-39:

“fredde, tacite, smorte / sudar le genti e palpitar”; v. 54: “te d’ogni dolor morte

risana”;

Domanda retorica vv. 26-27: “Sì dolce, sì gradita / quand’è, com’or, la vita?”; vv. 28-

29: “Quando con tanto amore / l’uomo a’ suoi studi intende?”; v. 30: “o torna

all’opre? o cosa nova imprende?”; v. 31: “quando de’ mali suoi men si ricorda?”;

Allitterazioni della “p”, “s”, “t”: v. 1:”passata è la tempesta”; della “r”: v. 9: “risorge

il romorio”; della “r” e della “g”: v. 18: “il grido giornaliero”; della “r” e del gruppo

“gl”: vv. 21-24: “terrazzi”, “famiglia”, “corrente”, “sonagli”, “carro”, “stride”,

“ripiglia”;

Anafore vv. 4, 19: “ecco … ecco”; vv. 8, 25: “ogni… ogni”; vv. 20-21: “apre … apre”; v.

26: “sì…sì”; vv. 27-28, 31: “quand’è… quando”; vv. 34, 37: “onde … onde”; vv. 43-44:

“questi … questi”.

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Commento

Con i cosiddetti “grandi idilli”, di cui La quiete dopo la tempesta fa parte, Leopardi torna alla poesia, dopo l’intervallo di sei anni delle Operette morali. Queste poesie, a differenza degli idilli giovanili, sono pervase dalla consapevolezza dell’”arido vero”, causata dalla fine delle illusioni giovanili.

La parte iniziale della poesia è descrittiva, con l’alternarsi di sensazioni visive e uditive, ma non si tratta di una descrizione oggettiva, bensì tutta basata su elementi della poetica del “vago e indefinito”: compaiono, infatti, suoni lontani, spazi vasti e indeterminati, indicazioni paesaggistiche essenziali, in cui secondo la teoria della “doppia visione “, enunciata nello Zibaldone, al paesaggio reale si sovrappone continuamente quello creato con l’immaginazione. Questo paesaggio campagnolo festoso e allegro, in cui è tornato il sereno dopo un temporale, è una chiara metafora delle gioie passeggere della vita.

Nella seconda parte, caratterizzata da un ritmo più lento e dedicata alla riflessione concettuale e filosofica, invece, viene enunciata la teoria del piacere leopardiana, secondo la quale il piacere è “figlio d’affanno”, ossia può derivare solo dalla cessazione di un dolore, in quanto la natura, ormai considerata “matrigna” porta agli uomini solo affanni. In questa chiave, viene altresì valorizzata la morte come estrema e definitiva fine di ogni dolore, in quanto l’uomo è, per natura, destinato a soffrire. Il piacere, dunque, non può assumere connotazioni positive, bensì è solo l’illusione momentanea della cessazione delle pene. Le due parti della poesia sono strettamente collegate tra loro, poiché l’illusione della vitalità e della luminosità della scena descritta all’inizio è subito spenta dall’amara consapevolezza dell’impossibilità di conseguire una stabile felicità, pertanto tutta la poesia va letta in chiave filosofica. È molto usato il procedimento dell’ironia antifrastica, in particolare nella terza e ultima strofa, che offre la chiave di interpretazione della poesia: l’amaro sarcasmo leopardiano si rivolge, come spesso accade, contro la natura ostile, tutt’altro che “cortese”, che non offre “doni” e “diletti” agli uomini.

La quiete dopo la tempesta è simile a quella de Il sabato del villaggio: in entrambe le poesie ad una parte descrittiva, segue una parte di riflessione esistenziale, in cui il piacere appare qualificabile solo in negativo..

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TESTO

Passata è la tempesta:

Odo augelli far festa, e la gallina,

Tornata in su la via,

Che ripete il suo verso. Ecco il sereno

Rompe là da ponente, alla montagna;

Sgombrasi la campagna,

E chiaro nella valle il fiume appare.

Ogni cor si rallegra, in ogni lato

Risorge il romorio

Torna il lavoro usato.

L'artigiano a mirar l'umido cielo,

Con l'opra in man, cantando,

Fassi in su l'uscio; a prova

Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua

Della novella piova;

E l'erbaiuol rinnova

Di sentiero in sentiero

Il grido giornaliero.

Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride

Per li poggi e le ville. Apre i balconi,

Apre terrazzi e logge la famiglia:

PARAFRASI

La tempesta è passata, sento gli uccelli (augelli - arcaismo) far festa, e la gallina,

tornata sulla strada che ripete il suo verso.

Ecco che il sereno appare

improvvisamente (rompe) a ponente, verso la montagna; la campagna si libera

(sgombrasi, dall'oscurità e dalla nebbia che

l'offuscava durante il temporale) e nella valle si torna a vedere il fiume.

Ogni (ogni…ogni - anafora) animo si

rallegra [finito il temporale gli uomini provano un senso di gioia], da ogni parte

riprendono i soliti rumori [risorge il

romorio – allitterazione ripetizione del

suono r per suggerire l’idea dei rumori che scandiscono il ritmo della vita del

borgo] e riprendono le occupazioni di sempre (lavoro usato).

L’artigiano, con il lavoro (opra - arcaismo)

in mano, si affaccia (fassi - arcaismo) cantando [in segno di gioia dopo la paura

provocata dal temporale] sull’uscio a guardare il cielo umido; una fanciulla,

facendo a gara [con le sue amiche] (a

prova, in fretta , in contrasto al moto lento

dell'artigiano: l'uno contempla, l'altra si affretta), esce a raccogliere (a còr -

termine arcaico) l'acqua della pioggia (piova, termine arcaico) da poco caduta

(novella); e l’ortolano ambulante (erbaiuol) ripete (rinnova) di sentiero in sentiero il

consueto richiamo giornaliero [con cui annuncia il suo passaggio].

Ecco (ecco…ecco - anafora) il sole che

ritorna a splendere (sorride – personificazione: il sol sorride)

per poggi e casolari (metafora). La servitù (la famiglia – latinismo) apre

(apre…apre - anafora) le finestre, apre le porte dei terrazzi e delle logge:

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E, dalla via corrente, odi lontano

Tintinnio di sonagli; il carro stride

Del passeggier che il suo cammin ripiglia.

Si rallegra ogni core.

Sì dolce, sì gradita

Quand'è, com'or, la vita?

Quando con tanto amore

L'uomo a' suoi studi intende?

O torna all'opre? o cosa nova imprende?

Quando de' mali suoi men si ricorda?

Piacer figlio d'affanno;

Gioia vana, ch'è frutto

Del passato timore, onde si scosse

E paventò la morte

Chi la vita abborria;

Onde in lungo tormento,

Fredde, tacite, smorte,

Sudàr le genti e palpitàr, vedendo

Mossi alle nostre offese

Folgori, nembi e vento.

O natura cortese,

Son questi i doni tuoi,

e dalla via maestra (via corrente) in lontananza, si sente un tintinnio di

sonagli; il carro del viandante che riprende il suo viaggio stride.

Ogni animo si rallegra (riprende il v.8).

Quando la vita è così dolce e così gradita come ora?

Quando l’uomo si dedica (intende) con così tanta passione alle proprie

occupazioni (studi) come in questo

momento? O torna al lavoro (opre)?

O inizia una nuova attività (cosa nova

imprende)?

Quando si ricorda un po’ di meno dei suoi mali?

[lunga serie di domande retoriche, 5, dal ritmo rapido e concitato per

effetto di rime, assonanze ed enjambements].

Il piacere è figlio del dolore (metafora) [il piacere in sé non

esiste ma è una momentanea cessazione del dolore], è solo una

gioia vana [un'illusione], che nasce

(ch’è frutto) dalla paura appena passata, per cui (onde…onde -

anafora) anche chi detestava la vita (la vita aborria) arrivò (si scosse) a

temere (paventò) la morte [a temere di perdere la vita]; per cui (onde con

lo stesso valore del v.34) gli uomini raggelati dalla paura, silenziosi,

pallidi [per paura appunto], con un lungo tormento, sudarono ed ebbero

il batticuore nel vedere fulmini, nuvole e vento rivolti contro di noi

(alle nostre offese).

O natura benevola (cortese, ironico

nei confronti della natura), sono

questi i tuoi doni, sono questi i

piaceri (i diletti) che tu offri agli

uomini (porgi ai mortali).

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Questi i diletti sono

Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena

È diletto fra noi.

Pene tu spargi a larga mano; il duolo

Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto

Che per mostro e miracolo talvolta

Nasce d'affanno, è gran guadagno.Umana

Prole cara agli eterni! assai felice

Se respirar ti lice

D'alcun dolor: beata

Se te d'ogni dolor morte risana.

Metrica:

Canzone libera costituita da 3 strofe di settenari ed endecasillabi che si succedono variamente, secondo le esigenze dell’ispirazione. Anche la rima non ha schema prestabilito. L’unico elemento di regolarità è dato dal ripetersi del settenario alla fine di ogni strofa. Dal punto di vista lessicale nella lirica vi è la presenza sia di termini aulici e letterari (augelli, romorio, fassi), sia di termini quotidiani (gallina, tempesta, artigiano)

Fra noi il piacere è smettere di

soffrire (uscir di pena).

Tu spargi in abbondanza (a larga

mano) sofferenza; il dolore

(duolo) nasce spontaneo e quel

poco piacere che talvolta per

prodigio (mostro, latinismo da

mostrum/prodigio) e per miracolo

nasce dal dolore (d'affanno), è

un gran guadagno [detto ancora

con sarcasmo].

O stirpe umana (umana prole)

cara agli dei! [altra nota

sarcastica: sono stati davvero

misericordiosi se ti hanno dato

questo destino!]

Puoi dirti davvero molto felice se ti

è concesso (ti lice dal latino tibi

licet) di tirare il respiro [se ti è

consentita una breve tregua] da

qualche dolore: [ma ti puoi

ritenere] beata se la morte ti

libera (risana, guarisce) da tutti i

dolori.

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Analisi e commento:

Composta nel settembre del 1829, descrive il ritornare della pace e dell’attività a Recanati dopo un temporale che aveva interrotto la trama regolare della vita del paese e provocato angoscia e spavento. Da questo susseguirsi Leopardi trae spunto per sviluppare il concetto a Lui caro dell’inconsistenza, anzi dell’inesistenza, del piacere e per mettere in evidenza la malignità della natura, che ci concede brevi piaceri che interrompono per poco un dolore. Per il poeta la condizione umana è una condizione di dolore: il dolore è l’unica vera realtà della vita. Mentre per tutti la fine della tempesta rappresenta il ritorno ad una situazione rassicurante e il ritorno alla quotidianità, per Leopardi non vi è quiete per l’uomo la cui esistenza è una catena di sofferenze. L’unica quiete vera e duratura a cui l’uomo possa aspirare è data dalla morte. Il canto, iniziato con una lieta apertura sulle campagne rasserenate e sui cuori umani che tornano ad essere fiduciosi, finisce con pensieri tristi sul destino umano, che raggiunge la vera felicità solo nella morte. Struttura tematico-lessicale: . la prima parte, che coincide con la prima strofa (1-24), è idilliaca e descrittiva; . la seconda, che occupa le altre strofe (25-54), è meditativa e riflessiva.