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Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1 - DCB Roma Geologia dell’Ambiente Periodico trimestrale della SIGEA Società Italiana di Geologia Ambientale 2/2019 ISSN 1591-5352

Transcript of Geologia dell’Ambiente - sigeaweb.itGeologia dell’Ambiente • n. 2/2019 3 liani (Fig. 3): si è...

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Geologia dell’AmbientePeriodico trimestrale della SIGEA

Società Italiana di Geologia Ambientale

2/2019ISSN 1591-5352

PRESENTAZIONE

Il Convegno si propone di affrontare la problematica delle risorse naturali lapidee nell’Abruzzo e in genere nella montagna italiana, sia nel loro aspetto di risorse naturali aventi anche una valenza storica e paesaggistica e quindi anche turistica ed economica, sia sotto l’aspetto della loro tutela, conservazione,

valorizzazione; infatti esse costituiscono caratteri peculiari delle tradizioni locali e del paesaggio tipico di queste regioni. Tale evento si pone anche alla luce del recente riconoscimento (28.11.2018) dell’UNESCO per l’“Arte dei muretti a secco” quale patrimonio culturale immateriale dell’Umanità.

SOCIETÀITALIANADI GEOLOGIAAMBIENTALE

COMITATO ORGANIZZATORESilvano Agostini (Soprintendenza Archeologica dell ’Abruzzo, Sigea), Massimo Basilici (Roma, Pereto), Rosanna Caputo (Pescara), Giovanni Cassarino (Ragusa), Giacomo Di Matteo (Carsoli), Giuseppe Gisotti (Sigea, Roma, Pereto), Maurizio Lanzini (Roma), Eriuccio Nora (Modena), Guido Paliaga

(Genova), Giacinto Sciò (Sindaco di Pereto), Nicola Tullo (Atessa), Pierfranco Ventura (Roma, Poggio Cinolfo)

Registrazione 15.30 - 16.00

Indirizzi di saluto 16.00 - 16.30Giacinto Sciò (Sindaco di Pereto)

Rappresentante OR Geologi Abruzzo

Rappresentante OR Geologi Lazio

Rappresentante LUMEN

Rappresentante STES

Giuseppe Gisotti (Sigea)

RelazioniLe “carecare” di Pereto (AQ)

Massimo Basilici

L’architettura in pietra a secco dell’Abruzzo Edoardo Micati

Le prevenzione dei dissesti tramite i muretti a secco Pierfranco Ventura (SIGEA, Lumen, Stes)

Geositi, patrimonio naturale e culturale del Parco Nazionale della Majella alla luce della candidatura a Geoparco dell’Unesco Elena Liberatoscioli (Parco Nazionale della Majella, Ordine dei Geologi dell ’Abruzzo)

Ardesia di Liguria, peculiarità del paesaggio: i tetti di pietra e l’edilizia spontanea Marco Del Soldato (Sigea, ISCuM Istituto di Storia della Cultura Materiale, Genova)

Chiusura lavori a cura di Giuseppe Gisotti

PAESAGGI DI PIETRA

Muretti in pietra a secco, capanne a falsa cupola, “calcare”, coperture litiche, geositi:

l’uso delle risorse naturali lapidee nella montagna italiana

È stata inoltrata richiesta per crediti APC per geologi.Gli Atti del Convegno verranno pubblicati su un supplemento in formato digitale della rivista ufficiale della Sigea “Geologia dell ’Ambiente”.

COMUNE DI

PERETO

LUMEN

CONVEGNOPereto (AQ) | 9 agosto 2019 | ore 16.00 - 19.00

presso la sede della ProLoco di Pereto, Corso Umberto I

PRIMA CIRCOLARE

AVVISO DI PAGAMENTO DELLA QUOTA SOCIALE 2017Il Consiglio Direttivo ha confermato anche per il 2018 la quota associativa di 30 euro da versare

entro il 31 marzo con le seguenti modalità:- versamento su conto corrente postale n. 86235009

- bonifico bancario o postale, codice IBAN: IT 87 N 07601 03200000086235009 (Banco Posta) intestato a: Sigea, Roma, riportando i dati del socio iscritto e la causale del versamento.

In copertina: Giorgio Barozzi, Parco Regionale dei Sassi di Roccamalatina (Emilia-Romagna), particolare della foto “Menzione speciale Patrimonio Geologico” del Concorso fotografi co “Obiettivo Terra 2019”. I Sassi di Roccamalatina sono costituiti da rigide e scoscese masse arenacee, inglobate in un complesso litologico argilloso e ad assetto caotico; queste rupi prominenti sul dolce paesaggio collinare sono da sempre un forte punto di attrazione, tanto da dare il nome all’ omonimo Parco Regionale, nel Modenese.

L’uomo e i corsi d’acqua: una convivenza che è diventata

diffi cile fra urbanizzazioni intensive, alluvioni, danni

e proposte di legge per rimuovere i sedimenti fl uviali

Fabio Luino 2

Il rischio vulcanico in Italia

Donatella De Rita 10

Il disagio del territorio

Giorgio Cesari 20

Giuseppe Zamberletti, un grande italiano:

il ricordo di un geologo

Elvezio Galanti 31

Società Italiana di Geologia AmbientaleAssociazione di protezione ambientale a carattere

nazionale riconosciuta dal Ministero dell’ambiente, della tutela del territorio e del mare con

D.M. 24/5/2007 e con successivo D.M. 11/10/2017

PRESIDENTEAntonello Fiore

CONSIGLIO DIRETTIVO NAZIONALE Danilo Belli, Lorenzo Cadrobbi, Franco D’Anastasio

(Segretario), Daria Duranti (Vicepresidente), Antonello Fiore (Presidente), Sara Frumento,

Fabio Garbin, Enrico Gennari, Giuseppe Gisotti (Presidente onorario), Gioacchino Lena (Vicepresidente),

Luciano Masciocco, Michele Orifi ci, Vincent Ottaviani (Tesoriere), Angelo Sanzò, Livia Soliani

Geologia dell’AmbientePeriodico trimestrale della SIGEA

N. 2/2019Anno XXVII • aprile-giugno 2019

Iscritto al Registro Nazionale della Stampa n. 06352Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 229

del 31 maggio 1994

DIRETTORE RESPONSABILEGiuseppe Gisotti

COMITATO SCIENTIFICOMario Bentivenga, Aldino Bondesan, Giancarlo Bortolami, Giovanni Bruno, Giuseppe Gisotti,

Giancarlo Guado, Gioacchino Lena, Giacomo Prosser, Giuseppe Spilotro

COMITATO DI REDAZIONEFatima Alagna, Federico Boccalaro, Giorgio Cardinali,

Francesco Cancellieri, Valeria De Gennaro, Fabio Garbin, Gioacchino Lena, Maurizio Scardella

REDAZIONESigea c/o Fidaf - Via Livenza, 6 00198 Roma

tel. 06 [email protected]

PROCEDURA PER L’ACCETTAZIONE DEGLI ARTICOLI

I lavori sottomessi alla rivista dell’Associazione, dopo che sia stata verifi cata la loro pertinenza con i temi di interesse della Rivista, saranno

sottoposti ad un giudizio di uno o più referees

UFFICIO GRAFICOPino Zarbo (Fralerighe Book Farm)

www.fralerighe.it

PUBBLICITÀSigea

STAMPATipolitografi a Acropoli, Alatri (FR)

La quota di iscrizione alla SIGEA per il 2019 è di € 30 e da diritto a ricevere la rivista

“Geologia dell’Ambiente”. Per ulteriori informazioni consulta il sito web

all’indirizzo www.sigeaweb.it

Sommario

A questo numero è allegato il supplemento digitale del volume Bonifi ca dei siti inquinatiA cura di Daniele BaldiResponsabile scientifi co Marco GiangrassoCoordinamento con RemTech Expo Silvia Paparellascaricabile all’indirizzo web www.sigeaweb.it/supplementi.html

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Geologia dell’AmbientePeriodico trimestrale della SIGEA

Società Italiana di Geologia AmbientaleSupplemento al n. 2/2019ISSN 1591-5352

BONIFICA DEI SITI INQUINATI

A cura di

DANIELE BALDI

Responsabile scientifico

MARCO GIANGRASSO

Coordinamento con RemTech Expo

SILVIA PAPARELLA

Geologia dell’Ambiente • n. 2/2019

2Fabio LuinoGeomorfologo, ricercatore presso il CNR IRPI di TorinoE-mail: [email protected]

INTRODUZIONELa penisola italiana è un territorio

con una notevole propensione al “disse-sto geo-idrologico”, un termine molto utilizzato, anche se abbastanza ambiguo e tipicamente italiota, al punto che ri-sulta intraducibile all’estero. Fra frane, colate detritiche torrentizie nei piccoli bacini montani e alluvioni nelle aree pianeggianti ogni an no abbiamo perdi-te economiche spaventose, mediamente circa 6 milioni di euro al giorno (Luino, 2005) e purtroppo anche molte vittime: ben 230 solo in Piemonte e Liguria dal 1968 ad oggi (CNR IRPI, Polaris).

Ogni anno è così, con una con-centrazione maggiore in certi periodi: il tardo autunno appena trascorso, ad esempio per il Nord Italia, è notoria-mente il più pericoloso. In particolare nella prima decade di novembre si sono

creati spesso i presupposti climatico-meteorologici per disastrose alluvioni: ricordiamo quelle del 1994 (Fig.  1), del 1968, del 1951 solo per ricordare i grandi eventi del dopoguerra. I danni risultano essere ogni volta maggiori: a parità di aree colpite, infatti, maggiore è il numero di strutture e di infrastrutture coinvolte. Case d’abitazione, capannoni industriali, scuole, ospedali, strade, poi ponti, linee elettriche, acquedotti, per-sino autostrade e ferrovie.

1. L’URBANIZZAZIONE SENZA REGOLE

Questo fatto è inevitabilmente le-gato alla dilagante urbanizzazione che a partire dalla metà degli anni ’50 del secolo scorso ha progressivamente oc-cupato le aree ancora libere con una lenta, ma inesorabile invasione degli

spazi vitali dei corsi d’acqua. Lo svi-luppo urbanistico a partire da quel pe-riodo è avvenuto, infatti, attraverso una sistematica sottrazione di quelle fasce ubicate ai lati delle sponde naturali ove il corso d’acqua poteva divagare senza creare danni: questi corridoi erano una sorta di “polmone”, di aree di espansione atte a contenere gli eventi straordinari, una sorta di garanzia. Ora, invece, abbia-mo torrenti e fi umi quasi costantemente canalizzati, costretti spesso in passaggi angusti fra case, ponti, ponticelli, argini e scogliere: il loro alveo è stato ridotto, della metà, e in alcuni casi anche ad un terzo della ampiezza originale. Abbia-mo migliaia di casi simili: ed alcuni di essi hanno subito importanti “collaudi naturali”. Olbia, ad esempio, è sicura-mente un caso tipico: il 18 novembre u.s. è stato il 5° anniversario della gravissima alluvione del 2013 con 19 vittime, 9 del-le quali solo ad Olbia. Questa città ha subito nel volgere di qualche decennio un’impressionante espansione urbani-stica, testimoniata dalle fotografi e aeree (Fig. 2), che non ha tenuto nella dovuta considerazione i torrenti che attraversa-vano la zona, le loro sezioni di defl usso, la morfologia depressa di alcune zone urbane (il quartiere Baratta ad esempio). I risultati si sono visti non solo nel 2013, ma anche più recentemente.

Come è stato possibile? Sino alla metà degli anni ’80 del secolo scorso sussisteva la possibilità di costruire im-mobili lungo i corsi d’acqua senza grosse diffi coltà. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Sono quelle decine di migliaia di abitazioni e capannoni industriali ubi-cati a pochi metri dalle sponde e dagli argini di moltissimi corsi d’acqua ita-

L’uomo e i corsi d’acqua: una convivenza che è diventata difficile fra urbanizzazioni intensive, alluvioni, danni e proposte di legge per rimuovere i sedimenti fluvialiMan and the water courses: a difficult coexistence among intensive urbanizations, floods, damage and law proposals to remove the fluvial sedimentsParole chiave: Corsi d’acqua, pianificazione territoriale, alluvioni, danni, sedimenti fluviali Key words: Water courses, land-use planning, flooding, damage, fluvial sediments

Figura 1. Alluvione del 5-6 novembre 1994 in Alessandria, ove vi furono 14 vittime. Nell ’immagine sono visibili gli effetti dell ’esondazione del Fiume Tanaro nel quartiere Orti (Foto Regione Piemonte)

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liani (Fig. 3): si è consumato suolo, si è costruito dove non si doveva costruire. Sono state realizzate persino discariche legalmente autorizzate in aree di natu-rale divagazione di fi umi (Fig. 4).

Si sono comunque costruiti edifi ci vicino ai corsi d’acqua anche dopo ta-le data (nonostante la Legge Galasso dell’agosto 1985), molti abusivi, soprat-tutto nel Sud Italia (vedasi numerosi Rapporti ISPRA e Rapporti INU), confi dando nei condoni che si sono succeduti nel 1985, 1994 e 2003 con i quali lo Stato indebitato ha pensato di sanare i conti della fi nanziaria in corso, sebbene le entrate dei condoni rappre-sentino di gran lunga una goccia nel ma-re rispetto alle risorse che mediamente lo Stato spende per far fronte agli eventi alluvionali. A questa anomalia esclusi-vamente italiana, si aggiunge in alcune parti d’Italia la mancanza di strumenti urbanistici in grado di regolamentare l’uso del suolo o laddove siano presenti la loro attuazione non appare coerente con la vulnerabilità del sistema naturale.

2. LA COPERTURA DEI CORSI D’ACQUA

Non contenti di aver rettifi cato, ri-stretto e canalizzato i corsi d’acqua, si è poi brillantemente pensato di ricoprirli con platee in cemento (in gergo utiliz-ziamo i termini tombinare o tombare), cioè di farli sparire per lunghi tratti, cre-ando al di sopra strade, piazze, parcheg-gi, talvolta persino condomini (Figg. 5, 6 e 7). Una pratica purtroppo diff usa in tutte le regioni d’Italia, che vede pro-babilmente la Liguria in testa ad una classifi ca realmente diffi cile da stilare: non esiste, infatti, a tutt’oggi un data-base a livello nazionale dei corsi d’acqua ricoperti e delle lunghezze di tali tratti.

Questa pericolosa pratica è già ini-ziata alcuni secoli orsono, ma ovvia-mente riguardava solo brevi tratti, ma-gari solamente torrenti. Ma poi, con il progredire della tecnica costruttiva, si è passati ai fi umi: uno dei primi casi sto-

Figura 2. Due immagini aeree testimoniano l ’impressionante espansione urbanistica della città di Olbia dal 1954 al 2008. Nei quartieri che prima erano paludosi e poi sono stati bonificati, sono sorte centinaia di case: ma la morfologia depressa è rimasta intatta al punto tale che, ogni volta che vi è un evento piovoso anche di pochi giorni, queste zone di Olbia vengono inondate dai piccoli rii che la attraversano (http://www.sardegnageoportale.it/ webgis2/sardegnafotoaeree/)

Figura 3. Pietra Ligure (SV). Confronto fra la situazione antecedente la Seconda Guerra Mondiale (carta IGM) ed oggi (Google Earth). La cittadina di circa 8.000 abitanti è uno dei tanti esempi di densa urbanizzazione lungo le sponde e sopra l ’alveo stesso: non solo ponti, ma anche un ampio parcheggio poco a monte della foce

Figura 4. Alba (CN). Vasta discarica per rif iuti solidi urbani (evidenziata con contorno bianco), realizzata in tutta legalità a partire dall ’inizio degli anni ‘80, a poche decine di metri dalla sponda destra del Fiume Ta-naro, in corrispondenza di un vecchio alveo (facilmente visibile sulla carta IGM del 1897). Durante l ’evento alluvionale del novembre 1994, le acque di piena inon-darono completamente l ’area compresa fra il Tanaro e il tracciato della superstrada: erodendo violentemente la base della discarica (frecce bianche), le acque asportarono migliaia di tonnellate di rif iuti con conseguenti gravi problemi d’inquinamento lungo tutta l ’asta del Tanaro (foto CGR, 1994)

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rici importanti di ricoprimento di un al-veo ha riguardato il Bisagno, il famoso fi ume di Genova, un corso d’acqua con un bacino di 95 km2 che piomba giù dai

versanti appenninici alle spalle del capo-luogo ligure. Gli ultimi 1.400 m dell’al-veo del Bisagno, sono completamente coperti a partire dal ponte della ferrovia

sino allo sbocco in mare (Fig. 5). Il Du-ce voleva un viale per le adunate e per le parate fasciste? Alcuni ingegneri del tempo, particolarmente vicini al partito, assecondarono le volontà di “Sua Eccel-lenza” e nel giro di qualche anno proget-tarono una imponente copertura. I la-vori iniziarono celermente: fu ricoperto il tratto terminale del fi ume, ma furono errati i calcoli delle sezioni utili al de-fl usso (Inglese et al., 1909), nonostante altri illustri ingegneri sconsigliassero vi-vamente l’opera. La geniale trovata della copertura si è rivelata negli anni la cau-sa principale di gravose inondazioni di gran parte della città: nell’ottobre 1945, novembre 1951, settembre 1953 ed ot-tobre 1970. Nonostante questi episodi, in preparazione dei mondiali di calcio del 1990, fu realizzato un piazzale par-

cheggio antistante lo stadio di Marassi. Dove? Ovviamente sopra l’alveo del Bi-sagno, che fu ricoperto per altri 278 m di lunghezza! Nel settembre 1992, piogge molto intense, provocarono una piena del Bisagno che non fu contenuta entro gli argini: anche in questo caso la duplice copertura (quella recente dello stadio e quella più vecchia del tratto fi nale) eb-be un ruolo determinante per l’esonda-zione. Così come nel novembre 2011 e nell’ottobre 2014, l’ultima inondazione in ordine di tempo (Faccini et al., 2018). Una buona parte della città in queste occasioni è sempre stata pesantemente inondata e vi sono state diverse vittime.

Dopo aver violentato questi corsi d’acqua ed averli ridotti in schiavitù, ci lamentiamo se ogni tanto “escono di casa” e ci fanno visita! Siamo veramente patetici: la Natura fa il suo corso, non dimentichiamolo. Disse il drammatur-go tedesco Bertold Brecht: “Tutti a dire della rabbia del fi ume in piena e nes-suno della violenza degli argini che lo costringono”.

Figura 6. Genova-Prà. Il Torrente S. Pietro, alcune decine di metri a monte dello sbocco nel mare, sottopassa un complesso abitativo di sei piani, sorto proprio nell ’alveo del torrente. La sezione di deflusso è chiaramente insufficiente e, in occasione di intense precipitazioni (la foto di sinistra si riferisce all ’evento del settembre 1993, foto Luino), il torrente esonda allagando le vie e il piano terreno dei palazzi circostanti

Figura 7. Vista aerea da Google Earth di Varazze. Il Torrente Teiro, un corso d’acqua particolarmente pericoloso (gravi furono le alluvioni del giugno 1915, novembre 1968, agosto 1978, settembre 1988, settembre 1993, 4 ottobre 2010 e 11 novembre 2014), alcune decine di anni fa è stato maldestramente ricoperto per gli ultimi 230 m prima dello sbocco in mare

Figura 5. Vista aerea da Google Earth di Genova. Il Fiume Bisagno, con un alveo che in due secoli si è ridotto ad un quarto (da 280 m a 70 m circa), risulta coperto per il suo tratto terminale di 1,4 km

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677/1996 a valenza temporale voluto a seguito degli eventi alluvionali che in-teressarono la Versilia nel giugno 1996), aff erma come la causa di tanti disastri stia “nella mancata pulizia degli alvei dei fi umi e dei torrenti che provoca l’innal-zamento degli alvei, dovuto alla cronica deposizione dei sedimenti e di trasporto solido, riducendo la sezione, che non ri-esce più a contenere il volume d’acqua del bacino scolante”. La maggior parte dei problemi sarebbe risolta con una ma-nutenzione costante del corso d’acqua, liberandolo dai tronchi d’albero e dal materiale vegetale che ne impediscono il regolare defl usso, e con una pulizia del fondale dei fi umi e dei torrenti dalla deposizione della sabbia e della ghiaia trascinate dalla corrente, che ripristini la storica condizione dell’alveo e la se-zione originale di defl usso. Purtroppo, attualmente, vi è “una legislazione ob-soleta, carica di inopportune ideologie ambientaliste”. Per rimediare, il testo darebbe per tre anni poteri straordinari ai Presidenti delle Regioni per concede-re tra l’altro a privati l’autorizzazione a estrarre “ciottoli, ghiaia e sabbia e altre materie” dal letto dei fi umi: materiale lapideo, valutato sulla base dei canoni demaniali, che verrà reso agli operatori per quantitativi commisurati al lavoro svolto.  Il Vice-Premier nel dopo-allu-vione non ha fatto altro che cavalcare una credenza popolare, alimentata ad hoc proprio dai cavatori e dalle azien-de produttrici di materiale per l’edilizia, secondo la quale le esondazioni siano favorite dal fatto che nell’alveo dei corsi d’acqua vi siano alberi, arbusti e molto, forse troppo, materiale lapideo: sabbia, ghiaia, ciottoli che formano un “mate-rasso” roccioso che diminuisce lo spazio per le acque.

È necessario a questo punto fare chiarezza, sugli eff etti dell’estrazione dei sedimenti, sulla interpretazione scienti-fi ca e su possibili modalità gestionali sostenibili.

4. CHE COS’È L’OFFICIOSITÀ IDRAULICA DEI CORSI D’ACQUA?

Nell’ambito delle disposizioni che regolamentano la manutenzione dei corsi d’acqua è individuato quale obietti-vo principale il mantenimento di buone condizioni di offi ciosità idraulica. Esse, fi no a non molto tempo fa, erano esclu-sivamente associate ad un’ideale sezio-ne trasversale regolare, trapezoidale, in grado di trasportare a valle le portate di piena con tiranti più bassi possibile

Dopo ogni evento alluvionale fi umi di parole vengono pronunciate nei talk show e scritte sui giornali e sui social network: programmi televisivi orga-nizzati in fretta e furia da improvvisati conduttori e interlocutori aventi sovente una scarsa conoscenza delle problemati-che reali. Perché? Perché in questo cam-po tutti possono dire quello che pensano con una certa presunzione. Prendete il campo medico: quando parla il cardio-logo nessuno si sognerebbe di suggerir-gli come ripulire le arterie coronariche o riparare le valvole mitraliche. Tutti rigorosamente in silenzio. Il campo del dissesto geo-idrologico e in particolare quello dei corsi d’acqua, invece, è come la Nazionale di calcio: 60 milioni di allenatori, 60 milioni di esperti di ge-omorfologia fl uviale! E questo non per aff ermare l’arroganza dell’infallibilità della scienza, ma con l’auspicio di far riemergere quell’esperienza empirica oggi perduta delle comunità che vivono sul territorio e di colmare il vuoto che esiste tra conoscenza scientifi ca e biso-gno sociale di sicurezza.

3. DRAGARE I FIUMIL’ultimo evento alluvionale, avvenu-

to fra la fi ne ottobre e la prima decade di novembre dell’anno passato in diverse regioni italiane, ha avuto caratteristiche particolari. Oltre alle solite piene di fi umi e torrenti, alle ricorrenti frane sui versanti, vi sono state violente mareg-giate e venti fi no a 180 km/h che in alcu-ne zone del Veneto e del Trentino hanno raso al suolo circa 14 milioni di alberi. Una catastrofe boschiva mai registrata!

A distanza di qualche giorno, il Vice-Premier Matteo Salvini, ha aff er-mato che al fi ne di evitare le solite inon-dazioni, una soluzione potrebbe essere quella di “dragare” i corsi d’acqua, vale a dire abbassare il fondo dell’alveo, aspor-tando un certo spessore di sedimenti fl uviali, in maniera tale da aumentare la sezione di defl usso del corso d’acqua e migliorare l’effi cienza idraulica. Secon-do Salvini vi sono stati “troppi anni di incuria e malinteso ambientalismo da salotto che non ti hanno fatto toccare l’albero nell’alveo: poi ecco che l’albe-rello ti presenta il conto” (Ansa.it, 4 novembre 2018). A supporto delle sue aff ermazioni è rispuntata una Proposta di Legge, precisamente la n. 260, scritta qualche mese prima (marzo 2018) da alcuni parlamentari.

La Proposta di Legge, intitolata «Disposizioni per la manutenzione de-gli alvei dei fi umi e dei torrenti» (che ri-calca fedelmente un articolo della Legge

e pertanto con una minore occupazio-ne possibile della pianura alluvionale in termini di aree allagabili. Un modello di corso d’acqua così defi nito non può te-ner conto delle caratteristiche geomor-fologiche e dei fenomeni di dinamica fl uviale propri dei corsi d’acqua naturali (formazione di isolotti, sviluppo di alvei pluricursali, vale a dire a rami intrecciati, ecc.) e pertanto essere oggetto di conti-nui e costosi interventi di mantenimen-to di un modello concettuale artifi ciale forzatamente applicato alla realtà.

Secondo i più recenti criteri di idro-morfologia (Manuale IDRAIM, 2016, scaricabile in rete), il concetto di buona offi ciosità dei corsi d’acqua deve, invece, sottintendere valutazioni multidiscipli-nari che considerino la singola sezione o il singolo tratto di corso d’acqua facente parte dell’intera asta fl uviale: un sistema complesso in cui interagiscono in mo-do non lineare le diverse componenti naturali ed i condizionamenti antropici imposti nel tempo dall’uomo in termini di opere e di occupazione di aree di per-tinenza idraulica.

L’approccio attualmente ritenuto corretto consiste, pertanto, nell’indivi-duazione a livello di intera asta fl uviale di un assetto di riferimento o di progetto rispettoso delle caratteristiche naturali del corso d’acqua e compatibile con l’uso del suolo in atto all’interno della regione fl uviale, prevedendo anche la possibilità di rilocalizzazione. Tale assetto di riferi-mento deve essere esplicitato per singoli segmenti fl uviali, mediante la defi ni-zione degli obiettivi da conseguire per il raggiungimento delle fi nalità generali di miglioramento delle condizioni di sicurezza, della qualità ambientale e pa-esaggistica sia a livello locale, sia a livello di intera asta fl uviale.

Il successivo confronto tra assetto attuale e di progetto consente la valu-tazione delle attuali condizioni di fun-zionalità dell’asta fl uviale e l’individua-zione delle azioni da intraprendere che possono consistere in una prima fase di raggiungimento delle condizioni di progetto ed in una fase successiva di mantenimento di tale confi gurazione. Inutile evidenziare come l’assetto di progetto si debba strettamente rappor-tare con l’attuale sviluppo antropico ed infrastrutturale presente e consolidato anche in molte aree di pertinenza fl u-viale e come l’obiettivo prioritario sia quello di garantire adeguate condizioni di sicurezza per i centri abitati e le in-frastrutture principali.

Questo non implica necessariamen-te la conferma dell’attuale assetto ter-

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ritoriale: si tratta quindi di analizzare gli attuali usi e programmare i possibili interventi utili per dar maggior spazio ai fi umi.

5. QUALI SONO STATE LE CONSEGUENZE DETERMINATE DALL’ESTRAZIONE DEI SEDIMENTI DAI CORSI D’ACQUA?

La naturale mobilità dei fi umi, in particolare nelle aree non confi nate dai versanti, e l’alternanza delle portate tra la fase di piena e quella di magra han-no indotto molti a considerarli spesso come elementi territoriali scomodi, in confl itto con le esigenze di uso del suolo, particolarmente nelle aree pianeggianti

e soprattutto nell’attraversamento delle aree urbanizzate. 

Molti sanno che in Italia la pratica dell’estrazione di inerti dai corsi d’acqua è già stata ampiamente utilizzata. Ba-sti pensare che nell’alveo del Po e dei suoi affl uenti, negli ’60 e ’70 del secolo scorso, sono stati estratti circa 12 milio-ni di m3/anno (dati relativi ai volumi concessi, che ahimè sono sempre in-feriori ai volumi reali estratti dagli al-vei). Nonostante in Italia l’estrazione di inerti in alveo sia formalmente vietata dagli anni ’70-’80, per le palesi nefaste conseguenze che descriverò di seguito... la richiesta è ancora molto pressante e vengono ancora rilasciate concessioni, generalmente mascherate da motiva-zioni di tipo idraulico.

D’altronde portare via il sedimento dai corsi d’acqua ha diversi vantaggi (per chi lo fa): 1) è di facile estrazione; 2) il materiale è di qualità pregevole, poiché risulta già pulito (cioè privo di sedimenti fi ni), disomogeneo e ben arrotondato; 3) le zone di estrazione sono solitamente vicine ai punti di stoccaggio e di vendita (quindi con costi di trasporto minimi). I costi ambientali? Beh, non sono quasi mai presi in considerazione nelle valu-tazioni di progetti estrattivi e di conse-guenza la “risorsa corso d’acqua” appare molto più conveniente rispetto ad altre fonti (cave).

Ma asportare i sedimenti, purtroppo, è stato ampiamente dimostrato come al-teri l’equilibrio del corso d’acqua, che nel giro di qualche anno tenderà a defi nire un nuovo profi lo di equilibrio aumen-tando la propria azione erosiva di fondo alveo determinando la scomparsa del materasso alluvionale ed il conseguente restringimento dell’alveo stesso (Fig. 8).

Sicuramente questa pratica aumen-ta il rischio a valle perché accelera e concentra i defl ussi (che non sono mai solamente liquidi), accentua di conse-guenza il picco di piena e la sua velocità di trasferimento verso valle. Inoltre, in generale rende instabile l’equilibrio ge-omorfologico, generando un eff etto do-mino: le costose opere di contenimento e di mitigazione dell’erosione realizzate lungo le sponde (scogliere, gabbionate, argini etc.) in molti punti risultano ave-re perso la propria funzionalità, essendo ormai sospese rispetto alle dinamiche fl uviali (Fig. 9). E a monte? Oltre all’ab-bassamento diretto del livello del fondo nella zona di estrazione, l’escavazione modifi ca il profi lo longitudinale, provo-cando un aumento locale di pendenza che tende a migrare verso monte, cre-ando una erosione regressiva.

Asportare sedimenti dai corsi d’ac-qua compromette quindi inevitabilmen-te la stabilità delle opere longitudinali sulle sponde e anche quelle di attraver-samento. Spesso in passato, lungo alvei pesantemente utilizzati per l’estrazione di inerti, abbiamo visto crollare ponti per sottoscalzamento delle pile: nel 1966 (dopo pochi anni di estrazione) crollò il ponte di Romito sul Fiume Magra, nel 1993 il ponte della tangenziale di Biella sul T. Cervo, fenomeno avvenuto proprio a causa di anomali approfondi-menti del fondo alveo (in Cervo sino a 6 metri) dovuti all’asportazione per de-cenni di grandi quantitativi di materiale ghiaioso/ciottoloso da parte dei cavato-ri (Fig. 10). Ancora oggi lungo i corsi d’acqua ogni tanto si possono vedere

Figura 9. Fiume Tanaro presso Farigliano (CN), pochi giorni dopo l ’alluvione del novembre 1994. Una gabbionata appariva ormai inservibile (delimitata dalla linea bianca) sulla sponda sinistra del Fiume (foto Luino)

Figura 8. Torrente Secchia. Effetti di anni di escavazioni fluviali: completa scomparsa del materasso alluvionale e riesumazione del basamento roccioso (foto AdB Po)

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ponti con strutture fatiscenti e pile che sembrano grissini piantati su un fondo instabile (Figg. 11 e 12). E correre ai ri-pari adesso è molto oneroso. Sul Fiume Tanaro qualche anno fa è stato condotto un intervento a salvaguardia di un’opera di attraversamento e non l’hanno cer-tamente pagato i cavatori che si erano arricchiti, ma la Regione Piemonte (Fig. 13).

Tra i manufatti da annoverare che subiscono gli eff etti dei processi erosivi ci sono anche le traverse ad uso irriguo (Fig. 14) e le opere per la navigazione fl uviale, mentre dal punto vista ambien-tale gli eff etti in alcuni contesti possono essere irrecuperabili come ad esempio per le aree umide presenti lungo le aree

Figura 13. Fiume Tanaro. Le pile di questo ponte nel Comune di Govone, avevano un urgente bisogno di manutenzione: qualche anno fa la Regione Piemonte ha commis-sionato un poderoso lavoro di consolidamento che è costato oltre 1.626.000 euro (foto Silvestro)

Figura 12. Arno ad Empoli. Confronto fotografico fra un’immagine del 1954 (https://www.dellastoriadempoli.it/), prima che iniziassero le escavazioni, ed una attuale (foto Rossi)

Figura 11. A sinistra, Fiume Adda, ponte fra Traona e Cosio (foto de La Gazzetta di Sondrio). L’originario livello del fondo alveo è evidenziato dalla linea rossa. L’approfondimento è molto evidente e mina la stabilità dell’opera. A destra, Fiume Po a Guastalla, altro grave esempio di sottoscalzamento dovuto all’estrazione intensiva nell’alveo (foto Bellardone)

Figura 10. Torrente Cervo. Crollo del viadotto di Biella nel settembre 1993 (foto Tropeano)

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perifl uviali. Infatti, gli intensi proces-si erosivi sconnettono completamente le aree umide dalle dinamiche fl uviali determinando progressivamente la lo-ro scomparsa. Altro eff etto altrettanto importante sono gli impatti determinati dal punto di vista economico e ambien-

tale lungo le aree costiere marine. Come noto il ciclo della fi liera dei sedimenti ha come recettore fi nale gli arenili delle aree costiere, interrompendo seppur non completamente questa fi liere si causa un defi cit di trasporto solido che sbilancia il delicato equilibrio tra ingressione mari-

na e ripascimento naturale delle spiagge che determina i dati ormai tristemente noti che vedono le nostre aree costiere marine per lo più soggette ad erosione e arretramento (MATTM, marzo 2017)(Fig. 15). Quindi l’estrazione di inerti in-nesca e accentua alla lunga l’arretramen-to delle spiagge. Ebbene sì, sono coinvol-te anche le coste, che per un paese come il nostro che vive di turismo è certamente un problema di grande importanza.

Il prof. Becchi, professore emerito di costruzioni idrauliche all’Università di Firenze, sottolineava come nel diff u-so processo di erosione degli alvei, un ruolo fondamentale lo abbiano svolto prima della Seconda Guerra Mondiale (antecedentemente cioè alla massiccia estrazione di inerti) la realizzazione di vie di comunicazione (ferrate e no) che hanno avuto notevole sviluppo dall’i-nizio dell’800: esse hanno comportato quasi sempre l’arresto dei processi di pendio che hanno sempre alimentato il bilancio sedimentario dei corsi d’acqua. Il dr. Simonelli dell’Autorità di Bacino del Fiume Po rimarcava come gli attra-versamenti abbiano modifi cato signifi -cativamente anche il profi lo longitudi-nale di quasi tutto il reticolo idrografi co comportando squilibri notevoli.

C’è anche un altro aspetto negativo. L’abbassamento dell’alveo interessa an-che l’equilibrio tra acque superfi ciali ed ac-que sotterranee per la continuità esistente attraverso gli interstizi dei sedimenti: tale diminuzione può determinare an-che l’abbassamento della falda freatica. L’incisione dell’alveo è accompagna-ta da una diminuzione del pelo libero dell’acqua fl uviale e delle falde ad essa idrogeologicamente connesse. Tra le conseguenze, vi sono le diffi coltà di ap-provvigionamento idrico, la scomparsa di aree umide e l’alterazione della vege-tazione riparia (suolo più secco).

Per ultimo è necessario tenere in considerazione un fattore che viene ri-tenuto marginale, vale a dire l’inquina-mento che si produrrebbe nell’asportare il sedimento. Luca Mercalli, nel 2000, si sbizzarrì in un simpatico calcolo circa l’asportazione di uno spessore di soli 10 cm di materiale da un alveo largo 100 m per una lunghezza di 30 km (pari a 300.000 m3). L’asportazione di questo materiale, che corrisponderebbe al ri-coprimento di ben 50 campi da calcio con uno strato di 1 m di spessore, provo-cherebbe una grandissima emissione di CO2 fra camion ed escavatori. Calcola-trice alla mano l’intera operazione com-porterebbe un consumo di circa 260.000 litri di gasolio, con un esborso di oltre

Figura 14. Crollo della traversa di San Michele dei Mucchietti sul Fiume Secchia (foto AdB Po)

Figura 15. Presso la foce del Fiume Reno, è assai evidente l ’erosione e l ’arretramento subito dalla linea di costa, nell ’arco di una cinquantina d’anni (foto AdBPo)

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400.000 mila euro ed una emissione di circa 680.000 kg di CO2, equivalenti alla produzione media annua di CO2 di un paese di 75 abitanti. Il tutto per soli 10 cm! Ma siccome troppo spesso noi geologi siamo visti come cassandre, ed esperti che negano tutto a prescindere, voglio lasciare uno spiraglio di possibi-lità. Ma attenti però alla mole di studi che andrebbero eseguiti…

6. UNA POSSIBILE GESTIONE

Nel 1992 l’Autorità di bacino del Fiume Po, analizzati tutti gli eff etti e i costi connessi causati dall’estrazione di sedimenti dai fi umi, approvò una dispo-sizione che vieta le estrazioni di sedi-menti dai corsi d’acqua, aff ermando che i fi umi non debbono essere considerati come cave. Successivamente, con una Direttiva tecnica (n.9/2006) specifi cò la programmazione degli interventi di gestione dei sedimenti negli alvei dei corsi d’acqua: con tale Direttiva venne-ro defi niti criteri, indirizzi e prescrizioni. La Direttiva introduce il Programma di Gestione dei Sedimenti (PGS) quale strumento conoscitivo, gestionale e di programmazione degli interventi, me-diante il quale disciplinare le attività di manutenzione degli alvei, delle opere e di gestione dei sedimenti. Il PGS, che ha come obiettivo l’individuazione della fascia di mobilità massima compatibi-le (per ottenere la quale si può anche intervenire con interventi strutturali tra cui movimentazioni o asportazioni di materiale), si fonda su tre elementi:• Quadro conoscitivo;• Assetto di riferimento e obiettivi fi -

nalizzati alla mitigazione del rischio di alluvione e alla tutela e migliora-mento dello stato morfologico;

• Interventi strutturali e non strut-turali necessari al raggiungimento degli obiettivi.Nel corso del biennio 2006-2008 è

stato predisposto e approvato dall’Adb il PGS del Fiume Po, mentre le Regioni rispettivamente hanno i seguenti PGS:• Regione Piemonte: Orco, Pellice,

Chisone, Maira e studi propedeutici per il Tanaro, Orba, Bormida, Ges-so, Mellea, Stura di Demonte, Stura di Lanzo e Varaita;

• Regione Emilia Romagna: studi pro-pedeutici per Baganza e Marecchia;

• Regione Lombardia: studi prope-deutici per Oglio sopralacuale e Adda sopralacuale.In particolare la Regione Lombardia

commissionò nel 2014 al CNR IRPI di Torino, uno studio specifi co sulla Ge-

stione dei Sedimenti Fluviali (http://www.irpi.cnr.it/project/geseflu/) su due importanti corsi d’acqua, proprio l’Ad-da sopralacuale e l’Oglio sopralacuale. Formammo una squadra di 20 esperti del settore: lavorammo per oltre due an-ni per giungere a delle conclusioni che concedessero qualche possibilità ai ca-vatori che facevano numerose pressioni verso la Regione Lombardia.

Innanzitutto incaricammo una ditta del settore di eseguire un volo LiDAR, in grado di restituire un Modello Di-gitale del Terreno (DTM) ad alta riso-luzione, ove fosse possibile determinare sull’asse delle Z l’altezza dei sedimenti. Poi integrammo questo studio con un rilievo batimetrico e la creazione di svariate decine di sezioni topografi che dell’alveo. Contestualmente fu condot-to un censimento delle opere idrauliche (sul loro stato, sulla loro funzionalità) lungo i due fi umi attraverso specifi ci rilievi di campo e successive elabora-zioni mediante Access e trasposizione degli elementi rilevati in ambiente GIS. Poi fu condotta una ricerca storica sulle piene storiche dei due fi umi insieme ad un’approfondita analisi geomorfologi-ca in grado di evidenziare la tendenza evolutiva passata ed attuale dei corsi d’acqua. Contemporaneamente furono anche condotte un’analisi idraulica e uno studio ecologico-ambientale.

Al termine di questa notevole massa di lavoro fi nalizzata al raggiungimento di una buona funzionalità geomorfolo-gica, idraulica ed ecologica, dopo aver suddiviso i due corsi d’acqua in diversi tratti aventi diff erenti peculiarità, sug-gerimmo alla Regione Lombardia che in alcune zone sarebbe stato possibile asportare una quantità defi nita di ma-teriali. Ma che il volume fosse quello! Non decuplicato in fase di scavo, come spesso era avvenuto negli anni prece-denti. Dopo aver eseguito il volo Li-DAR, creando un “Tempo Zero”, d’ora in poi tutti i controlli saranno possibili e precisi rifacendo un volo LiDAR dopo l’intervento. In caso di asportazione su-periore alla concessione potranno essere commissionate multe.

Quindi, un’eventuale estrazione di inerti si può sì fare, ma solamente a patto che venga realizzato a monte uno studio simile: non è plausibile che alcuni personaggi politici senza un minimo di conoscenza si permettano considerazio-ni scientifi che in questo campo. Vi sono svariate decine di studiosi che da anni si cimentano su queste problematiche.

Infi ne, ricordo che poco più di tre anni fa, con la Legge 28 dicembre 2015,

n. 221, pubblicata nella G.U. n. 13 del 18 gennaio 2016, sono entrate in vigore misure in materia di tutela della natura e sviluppo sostenibile, valutazioni am-bientali, di energia, di gestione dei rifi uti e bonifi che, di difesa del suolo e risor-se idriche (c.d. collegato ambientale): un importante pacchetto di misure rivolte alla “green economy”, che modifi cano la normativa ambientale preesistente pro-prio in direzione di una economia più verde e sostenibile.

Concludendo, appare veramente fuori luogo la proposta di legge presen-tata e della quale si è accennato prece-dentemente: non saranno certo i disal-vei a salvarci dalle alluvioni, anche se la «visibilità» di questi interventi li rende molto popolari verso i cittadini che si aspettano delle azioni tangibili a prote-zione dei loro beni. Vedere un cantiere in azione o un tranquillo alveo abban-donato a sé stesso fa la diff erenza! E so-prattutto porta consensi e voti!

L’autore ringrazia per gli interessanti scambi di opinioni e per alcune imma-gini il dr. Tommaso Simonelli (Autori-tà di Bacino del Fiume Po), la dott.ssa Gianfranca Bellardone e l’ing. Chiara Silvestro (Regione Piemonte), il Prof. Ignazio Becchi (Università di Firenze), i colleghi del CNR IRPI Torino dott.ssa Laura Turconi e dr. Domenico Tro-peano.

BIBLIOGRAFIA CITATACNR IRPI Geseflu, http://www.irpi.cnr.it/

project/geseflu/CNR IRPI Polaris, http://polaris.irpi.cnr.it/Faccini F., Luino F., Paliaga G., Sacchini

A., Turconi L., Dejong C. (2018), “Role of rainfall intensity and urban sprawl in the 2014 flash flood in Genoa City, Bisa-gno catchment (Liguria, Italy)”, Applied Geography, 98, 224-241.

IDRAIM (2016), http://www.isprambien-te.gov.it/it/pubblicazioni/manuali-e-li-nee-guida/idraim-sistema-di-valutazio-ne-idromorfologica-analisi-e-monito-raggio-dei-corsi-d2019acqua-versione-aggiornata-2016

Inglese I., Fantoli G. a Canepa R. (1909), “Sulla portata massima del torrente Bisa-gno e sulla condottura urbana dello stes-so. Relazione all’ill.mo Signor Sindaco di Genova”, 160 pp.

Luino F. (2005), “Sequence of instability processes triggered by heavy rainfall in northwestern Italy”. Geomorphology, vol. 66, 13-39.

MATTM, Direzione generale per la salva-guardia del territorio e delle acque (2017), “L’erosione costiera in Italia: le variazio-ni della linea di costa dal 1960 al 2012”. https://www.minambiente.it/sites/de-fault/files/archivio/biblioteca/monogra-fia_variazioni_linea_costa_mar17.pdf

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10Donatella De RitaVulcanologaE-mail: [email protected]

Attività vulcanica inusuale e sismicità inaspettata. In questi ultimi mesi l’Etna non appare più come il gigante

buono in vena di spettacoli pirotecnici; fa invece paura con effusioni ed esplo-sioni accompagnate da sciami sismici ed eventi anche di magnitudo interessante (4.8 scala Richter) e molto superficiali (1,2 Km) in grado di provocare danni ingenti. A poca distanza, anche se non nello stesso contesto geodinamico, an-che Stromboli è in attività eruttiva in-tensa. In questo scenario già di per sé preoccupante, il pensiero non può non andare ai vulcani della Campania, Ve-suvio e Campi Flegrei, che gli scienziati ritengono prossimi a riprendere la loro attività. Che cosa sta succedendo all’I-talia già funestata negli anni recenti da eventi sismici devastanti e adesso colpita anche da una vivace attività vulcanica?

L’Italia sin dall’inizio della sua storia ge-ologica è stata interessata da fenomeni sismici e vulcanici connessi ai processi geodinamici che hanno accompagna-to la nascita e lo sviluppo delle Alpi e degli Appennini. Questa storia inizia molti milioni di anni fa, quando con l’apertura dell’Oceano Atlantico meri-dionale, l’Africa fu costretta a ruotare in senso antiorario e avanzare verso nord in direzione dell’Europa. Le placche dell’Eurasia e dell’Africa vennero così in collisione originando le Alpi alla cui formazione è associato il vulcanismo più antico dell’Italia per lo più intrusivo. Circa 25 milioni di anni fa, in corrispon-denza dell’attuale Spagna, un frammen-to contenente la Sardegna e la Corsica si staccò della placca europea ed iniziò una migrazione antioraria verso est con per-no in corrispondenza dell’attuale golfo Ligure. Questa rotazione diede origine

all’orogenesi appenninica. La placca in subduzione immergente verso ovest lentamente subì un’inflessione quasi ad angolo retto tirando ed estendendo la placca subdotta fino a, circa 10 milioni di anni fa, lacerarla permettendo così la risalita del mantello e la nascita del Tir-reno come bacino di retroarco (Fig. 1).

Si originarono in questo modo i vul-cani sottomarini del Tirreno tra cui i più noti sono il Marsili e il Vavilov, tutt’o-ra in attività e tutto il vulcanismo del margine continentale tirrenico a partire dalla Toscana meridionale, il Lazio, la Campania e più a sud le Isole Eolie e l’Etna (Fig. 2).

Gran parte di questo vulcanismo è ormai estinto ma, dal momento che il processo orogenetico appenninico non è ancora terminato, esiste ancora un’alta pericolosità vulcanica nelle aree attive del Vesuvio e Campi Flegrei, dell’Iso-la di Ischia, dell’Etna e delle Isole Eo-lie e dei Colli Albani, subito a sudest di Roma. Parte del rischio vulcanico è connesso alla presenza di vulcani sotto-marini sia nel Tirreno che nel Canale di Sicilia. Nel bacino tirrenico i ricercatori confermano che è in attività il vulcano Marsili, ma possibili fenomeni eruttivi potrebbero riguardare anche altri edifi -ci sottomarini sia dell’area tirrenica che dell’arco eolico. La pericolosità di questi vulcani non è eventualmente solo legata alla loro attività, ma è, inoltre, in rela-zione alla probabilità che tali vulcani, in occasione di scosse sismiche, possano subire processi di collasso gravitativo, dovuti al loro peso e dimensione con conseguente sviluppo di onde di mare-moto che potrebbero interessare le coste tirreniche dell’Italia meridionale. Non bisogna dimenticare, infatti, che ogni evento vulcanico è preceduto e seguito da altri fenomeni geologici come frane, colate di fango e di detrito, fenomeni di bradisismo, emanazioni gassose e di elementi potenzialmente dannosi per la salute, come il radon, il fl uoro l’arsenico con relativa contaminazione degli ac-quiferi.

Insomma, sebbene il rischio vulcani-co non sia ritenuto rilevante alla stregua di quello sismico, è tuttavia altrettanto

Il rischio vulcanico in ItaliaThe volcanic risk in ItalyParole chiave: Vulcani attivi d’Italia, rischio vulcanico, Vesuvio. Campi Flegrei, Etna, vulca-ni delle isole EolieKey words: Italian active volcanoes, volcanic risk, Vesuvius volcano, Phlegrean Fields vol-canoes, Etna  volcano, Aeolian islands volcanoes

Figura 1. Origine del vulcanismo in Italia. I vulcani dell ’Italia centro meridionale sono nati in un contesto ge-odinamico di retroarco dopo la formazione degli Appennini con conseguente apertura del Tirreno. Immagine da Peccerillo (2005)

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complesso e diffi cilmente prevedibile con conseguenze sulla vita umana spesso drammatiche. Eppure, da quando l’uo-mo è comparso sulla terra ha spesso scel-to come sua residenza aree vulcaniche (spesso anche sismiche), tornando nelle vicinanze di vulcani anche subito dopo eventi catastrofi ci, come l’archeologia ha messo chiaramente in evidenza nelle aree campane e a ridosso del Vesuvio.

Se osserviamo una mappa della di-stribuzione sul nostro pianeta delle aree interessate dall’attività vulcanica e si-smica e la confrontiamo con quella che ci indica la distribuzione delle densità abitativa sul pianeta ci sorprenderemo della loro straordinaria coincidenza (Figg. 3 a e b).

La coincidenza ci apparirà ovvia se consideriamo che le risorse primarie che assicurano all’uomo la vita e la sopravvi-venza provengono dall’attività dinamica del pianeta e sono quindi concentrate nelle aree esposte a processi naturali anche estremi. In poche parole vivere pericolosamente è una necessità a cui non possiamo sottrarci. L’unica cosa che ragionevolmente possiamo fare è imparare a conoscere la dinamica terre-stre e in particolare gli eventi a maggior probabilità di ricorrenza e scegliere uno stile di vita adeguato in “coabitazione”.

I processi naturali non sono perico-losi in sé; la loro pericolosità si manifesta solo in relazione alla presenza dell’uomo e dei suoi beni. Nessuno defi nirebbe pe-ricolosa una tranquilla eff usione di lava da un vulcano dell’inabitata Alaska o del Polo sud e neppure una catastrofi ca eru-zione esplosiva in un’area disabitata. Per questo la valutazione del rischio include più considerazioni: • la pericolosità, che è la probabilità

che un certo evento si verifi chi in un certo arco di tempo,

• la vulnerabilità che è la tendenza o propensione di una certa area a subire un certo danno, e l’esposizio-ne che può essere sintetizzata nella valutazione del valore della perdita. La valutazione del rischio è quindi

un’operazione complessa in cui entrano in gioco tantissime variabili, di ordi-ne umano, economico, strutturale ecc., nonché i concetti legati proprio alla dinamicità terrestre che fanno sì che la valutazione del rischio sia soggetta a continue variazioni ed aggiornamenti (Fig. 4).

Negli anni più recenti i ricercatori, per la diffi coltà di valutare in modo ot-timale il rischio sismico e/o vulcanico di un’area, si sono maggiormente concen-trati nell’analisi della prevenzione.

Figura 2. Distribuzione sul territorio italiano dei principali vulcani attivi. http://www.protezionecivile.gov.it

Figura 3. Distribuzione delle aree sismiche e interessate da vulcanismo del pianeta (a) da: I vulcani, Quaderni Le Scienze, 13 (1984) e distribuzione della densità di popolazione nel mondo (b).Dal sito http://imparareconlageografia.blogspot.com/2017/07/50-la-popolazione-mondiale-popolazione.html

a

b

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con ricaduta di materiali piroclastici e formazione di colate di fango o lahar. Su queste basi viene poi calcolata la perico-losità per ciascun’ area intorno al vulca-no potenzialmente soggetta agli eff etti dell’eruzione. La pericolosità infatti viene calcolata, ad esempio per i singoli comuni, come il prodotto tra la probabi-lità assoluta di eruzione e la probabilità relativa che l’area oggetto sia interessata dai caratteri specifi ci dell’eruzione. Per fare un esempio chiarifi catore, i comu-ni a ridosso del vulcano e localizzati in prossimità di valli si troveranno in una situazione di maggior pericolo in caso di lahar, rispetto ai comuni posizionati più lontano e localizzati non in prossi-mità di importanti valli. Quindi, la pro-babilità relativa che un’area intorno al vulcano sia interessata da lave, da fl ussi piroclastici e lahar viene stimata in ba-se alla morfologia dell’area, alla passata storia eruttiva ed all’entità dell’eruzione in oggetto.

Ogni analisi di rischio deve neces-sariamente partire dalla ricostruzione della storia del vulcano, con attenzione alla defi nizione dei suoi tempi di quie-scenza e delle sue modalità ricorrenti di eruzione.

Una volta defi nita la pericolosità è necessario defi nire la vulnerabilità, per lo più valutata in base al numero delle vite umane presenti nell’area e poten-zialmente soggette agli eff etti dell’eru-zione e alla tipologia di eruzione aspet-tata. La vulnerabilità è bassa nel caso di un evento eff usivo ma diviene più alta in caso di fl ussi piroclastici e lahar, con valori decrescenti con la distanza dal centro eruttivo.

Nel caso del Vesuvio sono stati con-siderati gli abitanti di ciascun comune. Infi ne, l’esposizione viene valutata sulla

siva: vulcaniana, pliniana o strombolia-na) in relazione ai tempi di quiescenza e attività del vulcano.

Utilizzando come riferimento le ca-tegorie del VEI (volcanic explosive in-dex o indice di esplosività, Fig. 5), ven-gono identifi cate tre tipologie eruttive ricorrenti nell’attività del vulcano: 1) eruzioni ad esplosività moderata, ti-

po stromboliano, analoghe alle eru-zioni del 1906 e 1944 con VEI 3;

2) eruzioni di media esplosività, tipo sub-pliniano, analoghe alle eruzioni del 472 d.C. e 1631 con VEI 4;

3) eruzioni di elevata esplosività, tipo pliniano, analoghe all’ eruzione del 79 d.C. con VEI 5. Viene, quindi, calcolata la probabili-

tà che ognuna di queste categorie erutti-ve possa accadere nei prossimi 10 anni.

L’evento vulcanico che con mag-giore probabilità si potrebbe verifi care al Vesuvio è un’eruzione stromboliana violenta o di tipo subpliniano (VEI=3),

Il rischio vulcanico, come già anno-tato, non è soltanto relativo all’eruzione ma a tutti i processi che accompagnano la vita e l’attività di un vulcano, a parti-re dalla sismicità, i tremori, l’instabilità morfologica con conseguenti frane e al-luvioni, contaminazione del suolo e del-le acque, emissione di elementi perico-losi per la vita come CO2, radon, fl uoro, arsenico ecc. Vivere in un’area vulcanica attiva può essere molto complicato ma economicamente vantaggioso, a patto che non si tenti la sfi da, ma si impari a convivere e rispettare e infi ne a trarre vantaggio dagli eventi.

IL RISCHIO VULCANICOPer comprendere le problematiche

relative al rischio vulcanico in Italia è utile fare un breve cenno ai processi na-turali direttamente connessi con un vul-cano attivo e che possono rappresentare un pericolo per l’uomo. Questi sono (1) le colate di lava, (2) la caduta di proietti di grandi dimensioni (blocchi e bombe), (3) la caduta e l’accumulo di particelle di piccole dimensioni (lapilli e ceneri), (4) lo scorrimento di colate piroclastiche e di lahar sin e inter eruttivi, (5) frane (6) emissioni di gas, (7) maremoti, terremo-ti, tremori e bradisismi, (8) incendi.

Il primo passo per la valutazione del rischio è studiare la pericolosità di ciascuno di questi processi in relazione al vulcano sotto osservazione. Lo scopo fi nale è la valutazione della probabilità che un dato evento accada con quella specifi ca modalità in un arco di tempo determinato. Per fare un esempio con-creto, la valutazione del rischio Vesu-vio, parte dall’analisi di quale tipologia eruttiva possa ricorrere con maggiore probabilità:(eff usiva o esplosiva, e in quest’ultimo caso quale tipologia esplo-

Figura 4. Il concetto di rischio include tre valutazioni: la pericolosità, la vulnerabilità e l ’esposizione

Figura 5. Volcanic explosive index o indice di esplosività. L’indice di esplosività vulcanica è una valutazione em-pirica basata sul calcolo del volume del materiale eruttato da un vulcano e sulla possibile altezza raggiunta dalla colonna eruttiva. Dal sito: https://volcanoes.usgs.gov/vsc/glossary/vei.html

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base del valore del bene che potrebbe essere perso.

Il Vesuvio viene considerato uno dei vulcani a più alto rischio del mondo, non tanto per la violenza delle sue eruzio-ni, e neanche per l’elevata probabilità di un’eruzione nel prossimo futuro, ma perché nell’ultimo decennio l’elevata urbanizzazione è arrivata ad interessare i piedi del vulcano e parte dell’edifi co stesso, esponendo la popolazione di ben 27 comuni ad un valore alto di rischio (fascia rossa).

RISCHIO EFFUSIONI LAVICHE

Generalmente, le colate di lava non sono pericolose per l’uomo e arrivano all’attenzione dei media solo per il carat-tere spettacolare. Per questo motivo le eruzioni eff usive sono considerate poco pericolose, di bassa energia e nella scala del VEI (Volcanic Explosive Index, In-dice di esplosività dei vulcani) si trovano nel gradino più basso. Molte colate di la-va sono alimentate da una bassa fontana di lava, quando grossi frammenti di lava o un gran numero di frammenti di lava anche di piccole dimensioni ricadono a terra dopo aver percorso traiettorie mol-to brevi e vengono rapidamente seppel-liti da altri frammenti di lava bollente. In questo modo le temperature rimangono alte ed i frammenti di lava non hanno il tempo di solidifi care e potranno fl uire alimentando una colata di lava (colate di lava prive di radice).

In genere le colate di lava si muovo-no a bassa velocità, nell’ordine di pochi metri a qualche chilometro al giorno, lasciando alla popolazione la possibilità di allontanarsi. Anche i volumi eruttati, determinati dal tasso di alimentazione del vulcano, sono contenuti, tipicamen-te compresi tra 0,01 e 10 Km³. Una delle caratteristiche fi siche più impor-tanti delle colate di lava è la viscosità, che viene defi nita come la resistenza di un fl uido allo scorrimento e dipende in modo particolare dalla composizione chimica e dalla temperatura del fl uido. Una lava molta calda e poco viscosa scorre velocemente, mentre una con temperatura più bassa tende ad essere più viscosa, scorre lentamente e tende ad accumularsi in colate molto spesse. A parità di temperatura, le lave di mag-mi basici sono in genere più fl uide di quelle di magmi acidi. Con la distanza dal centro eruttivo, diminuisce la tem-peratura e in ogni tipo di lava aumenta la viscosità. L’estensione della colata di lava dipende dalla pendenza del vulcano, dalla velocità di eff usione e dalla dura-

ta dell’eruzione. In generale se l’attività eff usiva proviene dal cratere sommitale di un vulcano, la probabilità che la lava raggiunga un centro abitato situato ai piedi dell’edifi cio non è molto elevata e quindi per quel centro abitato la peri-colosità è bassa. Più pericolose sono, in-vece, le colate di lava eruttate dai crateri laterali, posti a bassa quota o quelle che nella loro evoluzione hanno sviluppato un tunnel. In questi casi, infatti, se l’e-ruzione è alimentata con un alto tasso, la probabilità che la colata di lava rag-giunga un abitato è elevata. In generale, la lentezza del movimento della lava ra-ramente espone le persone al pericolo. Tuttavia esistono importanti eccezioni a questa regola come l’eruzione del vul-cano Nyiragongo del 17 gennaio 2002 che è forse l’esempio più signifi cativo di rischio da colata di lava. La bassissima viscosità della lava eruttata dal vulcano le consentì, con una velocità di circa 90 km /ora, di invadere la città di Goma, abitata da oltre 1 milione di persone, e altri 14 villaggi nelle vicinanze. Il bi-lancio fi nale dell’eruzione fu pesante. Circa 5.000 abitazioni furono distrutte,

1/3 dell’aeroporto andò perso, così co-me l’intero centro commerciale. L’ 80% dell’economia di Goma fu danneggia-ta. Altrettanto devastante fu l’eruzione del Laki del 1783 in Islanda. Durante questa eruzione la lava fu eruttata lun-go una frattura lunga 25 km con più di 100 punti diversi di emissione. Nel corso di oltre sette mesi furono emessi circa 12 km3 di lave basaltiche che coprirono un’area di 565 km2 e raggiunsero distan-

ze di oltre 50 km dal punto di emissio-ne. Per gli eff etti diretti dell’eruzione del Laki persero la vita oltre 9.000 persone e circa 20.000 (un terzo della popolazione di tutta l’Islanda) morirono successiva-mente a causa della conseguente carestia del 1783-1784.

Al di là di questi scenari apocalittici, ci sono stati anche casi in cui il volu-me di lava è stato felicemente utilizzato dalla popolazione come terra aggiunta. Questo è il caso dell’eruzione di Hei-maey in Islanda nel 1973, quando più di un terzo del paese fu distrutta dal-la lava che arrivò a minacciare il porto, principale fonte di sostentamento della popolazione. Alla fi ne dell’eruzione però gli abitanti scoprirono che Heimaey era cresciuta di oltre 2 km² ed utilizzarono questa superfi cie in più per ricostruire, ingrandendolo, il porto, migliorandone la capacità.

In Italia, il vulcano maggiormente esposto al rischio colate di lava è L’Et-na (Fig. 6).

L’Etna, alto circa 3350 m con un dia-metro di oltre 35 km alla base, è il vulca-no più grande e tra i più attivi d’Europa.

Situato lungo la costa orientale della Si-cilia, ricopre un’area di circa 1250 km2. Il vulcano è nato più di 100mila anni fa. Nel tempo ha alternato fasi di attività maggiormente eff usiva a fasi di esplosi-vità, come quella che sta vivendo attual-mente, edifi cando uno strato-vulcano di natura basaltica. Alla sommità l’attività proviene da più bocche, attualmen-te: Bocca Nuova, Voragine, Cratere di nord-est e Cratere di sud-est. Le pen-

Figura 6. Fronte della colata di lava emessa dall ’Etna in occasione dell ’eruzione del novembre 2002

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dici del vulcano sono poi costellate da una miriade di piccoli coni “avventizi”, generati nel corso dei millenni durante eruzioni dai fi anchi laterali.

La struttura morfologica principale del vulcano è la Valle del Bove, la cui ori-gine risale a circa 10.000 anni fa quan-do il susseguirsi di eruzioni esplosive provocò alcuni collassi o frane lungo il fi anco del vulcano.

Una delle più importanti eruzioni eff usive dell’Etna si verifi cò nel 1669 quando sul versante sud del vulcano si aprì una bocca eruttiva a pochi Km a nord del centro abitato di Nicolosi, as-sieme ad altre bocche eruttive poco più a sud (Monti Rossi). La colata lavica che ne fuoriuscì rimase alimentata per quat-tro mesi, raggiunse le mura della città di Catania, e arrivando alla costa, circondò il Castello Ursino, isolandolo dal mare e creando una lingua di terraferma lunga oltre 1 km e mezzo. Alla fi ne dell’eruzio-ne, il castello non aveva più il suo fossato cinquecentesco e tutta la linea di costa a sud di Catania aveva una nuova confi gu-razione. Non solo, la morfologia di tut-ta l’area a sud del vulcano aveva subito profonde trasformazioni. Verso la cima dell’Etna, a circa 1000 m di quota, erano nati i due caratteristici coni gemelli dei Monti Rossi. Altri 15 piccoli coni erano sorti lungo un asse orientato più o meno Nord-Sud tra i Monti Rossi e il Monte della Nocilla. Una profonda fenditura, tutt’oggi visibile, era comparsa nei pressi del Monte Fusaro e molte delle vallate circostanti erano state colmate dai de-positi dell’eruzione. Il fi ume Amenano era scomparso dalla superfi cie per di-venire un fi ume sotterraneo. La città di Catania dovette essere rimodellata sul nuovo paesaggio e i suoi abitanti dovet-tero imparare che vivendo ai piedi di un gigante buono, ma vivo e attivo come l’Etna, la loro città doveva adattarsi a cambiare rapidamente forma.

Eruzioni simili anche se meno im-ponenti si sono verifi cate anche più re-centemente: nel 1928 sul versante nord-est si aprirono due lunghe fratture da cui per 18 giorni fuoriuscì una colata di lava con un tasso eff usivo molto alto che do-po aver distrutto il borgo di Mascali, ar-rivò in prossimità della costa. Nel 1991 un’eruzione di tipo laterale da bocche apertesi lungo una serie di fratture sul-le pareti di levante della valle del Bove durò 473 giorni. Il fl usso lavico riuscì a superare il margine della valle del Bove, invadendo la Val Calanna ed arrivando a minacciare il centro abitato di Zaff era-na. In questa occasione il Dipartimento nazionale di Protezione Civile coordi-

nò un intervento sulla colata costruendo vari rilevati di contenimento all’estre-mità di valle, e tentando con esplosivi a monte di deviare il fl usso lavico.

L’esperienza dell’Etna e, in genera-le, l’osservazione delle eruzioni eff usive, indica che uno dei parametri fonda-mentali che controllano l’andamento di un’eruzione lavica e la geometria fi nale della colata stessa, è il tasso di emissione di magma alla bocca (sia essa un cratere o una fessura). In generale, la massima distanza raggiunta dalla lava è propor-zionale al tasso di emissione. Ogni ten-tativo di rallentare, o fermare una colata di lava fortemente alimentata si è di fatto mostrato inutile.

RISCHIO CADUTA DI BOMBE, BLOCCHI E CENERI

Il lancio di bombe e blocchi da un cratere, in genere, interessa un’area pros-sima al vulcano, di qualche centinaio di metri, che può arrivare ad alcuni chilo-metri in caso di eruzioni esplosive pa-rossistiche. Queste distanze, per edifi ci vulcanici di una certa dimensione (Etna, Stromboli, Vesuvio ecc.), si riferiscono, perlopiù, all’area craterica e quindi in generale la ricaduta di materiale gros-solano non costituisce un elevato grado di pericolosità per le persone e gli abitati (Fig. 7).

Come ogni regola, però, anche que-sta ha la sua eccezione, e, ad esempio, nell’eruzione di Stromboli del 1930, si verifi carono condizioni estreme che causarono la morte di 6 persone e il ferimento di altre 20. In quell’occa-sione, dopo alcune settimane di calma apparente, Stromboli si ridestò con due violente esplosioni capaci di produrre un’alta colonna eruttiva, da cui, per ol-tre 40 minuti, caddero lapilli e bombe che si sparsero nel raggio di 2-3 km. Le bombe raggiunsero il paese e andarono anche oltre, cadendo in mare, fi no qua-si a raggiungere Strombolicchio. Poi, la colonna di cenere si abbassò e collassò producendo una valanga di cenere cal-da, alta una decina di metri che scese rapidamente lungo i fi anchi del vulca-no. Oltre alla perdita di vite umane, altri danni furono provocati dall’incendio dei boschi e di quasi tutti i vigneti, che allora rappresentavano una risorsa economica dell’isola. Dopo l’eruzione, molti abitan-ti privati della propria abitazione, deci-sero di lasciare l’isola, la cui popolazione passò da 2500 a circa 800 persone. Uno studio recente sull’impatto dei blocchi e delle bombe, lanciate con traiettorie balistiche dal cratere centrale di Strom-

boli, indica che un’alta pericolosità, in occasione di questi lanci, si verifi ca solo in caso di eruzione stromboliana pa-rossistica. La pericolosità aumenta nel caso questo stile eruttivo si manifesti in concomitanza all’azione di forti venti da sud-ovest. Con attività parossistica si intendono fasi di attività del vulcano in cui le esplosioni diventano sempre più intense e frequenti in relazione ad un aumento nel tasso di emissione di lava. Il parossismo è accompagnato da un repentino incremento nell’ampiez-za del tremore vulcanico registrato a livello strumentale. L’attività strombo-liana diventa quindi pressoché conti-nua per una durata media di qualche decina di minuti fi no a qualche giorno.In caso di attività stromboliana violenta, condizioni di rischio si verifi cano solo per l’abitato di Ginostra, e solo quando l’eruzione accade in concomitanza con forti venti provenienti dai quadranti nord-orientali. Per attività violenta si intendono esplosioni del vulcano più violente di quelle dell’attività strombo-liana ordinaria, durante le quali viene emesso materiale grossolano e cenere, che ricade in zona sommitale. Questi eventi, non prevedibili e che accado-no occasionalmente si intercalano alla normale attività dello Stromboli e fanno parte della fenomenologia vulcanica ti-pica dell’attività sommitale del vulcano. Sebbene non pericolose, queste eruzioni quando accadono causano ritardi e disa-gi nei voli in arrivo e in partenza dall’a-eroporto di Catania e per i voli nello spazio aereo della Sicilia orientale. Per avere un’idea delle conseguenze di tali eventi basta pensare all’eruzione del vul-cano islandese Eyjafj allajökull del 2010. Questa eruzione ci ha insegnato che la dispersione di cenere nell’atmosfera, anche in caso di eruzioni non partico-larmente violente, può rappresentare un problema per la nostra società tecnolo-gica. In occasione dell’attività di questo piccolo strato vulcano, dal 15 al 23 aprile del 2010 lo spazio aereo di gran parte dell’Europa è stato per lo più interdet-to. I disagi sono poi proseguiti per l’area dell’Europa centrale anche nelle setti-mane successive fi no al mese di maggio. Alla fi ne, la IATA (International Air Transport Association) ha stimato una perdita di circa 200 milioni di dollari per le compagnie aeree.

L’attività stromboliana normale non espone a rischio di ricaduta balistica gli abitati di Stromboli e Ginostra.

Sebbene la caduta di ceneri non sia considerata particolarmente perico-losa per la vita umana, in occasione di

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eruzioni con coinvolgimento di grandi volumi di materiale, la caduta di ce-nere può avere conseguenze di rilievo. Infatti, la cenere si deposita con spes-sori importanti sulle strade, inibendo la circolazione delle auto e diminuendo la visibilità; si accumula sui tetti delle ca-se fi no a sfondarli (l’accumulo di ceneri sugli edifi ci, nel corso di eruzioni inten-se, può essere molto rapido, anche 25 centimetri in un’ora), è irritante per gli occhi e per il sistema respiratorio degli uomini e degli animali, può inquinare gli acquiferi e distruggere le coltivazioni. In alcuni casi si sono registrati danni alle linee elettriche e telefoniche.

RISCHIO COLATE PIROCLASTICHE E LAHAR

Gli eventi eruttivi più pericolosi sono quelli esplosivi con produzioni di correnti di densità (colate piroclastiche, ignimbriti). Questi fl ussi scorrono mol-to rapidamente (fi no a centinaia di km/ora) ed hanno, generalmente, alte tem-perature (tra i 200 e i 700 °C). La loro capacità distruttiva è altissima e sono gli eventi che causano il più elevato numero di vittime, insieme ai lahar, le disastro-se colate di detriti e fango che spesso si sviluppano in concomitanza ai fl ussi piroclastici.

Le colate piroclastiche sono miscele di particelle solide e gas, guidate essen-

zialmente dalla gravità, che si propagano rapidissime sulle pendici di un vulcano. Sono per lo più originate dal collasso di una colonna eruttiva o per esplosione diretta di un domo lavico. Nel primo ca-so è molto importante l’altezza raggiun-ta dalla colonna eruttiva al momento del suo collasso. Da questo parametro (a sua volta dipendente da altri fattori, tra cui il tasso di alimentazione del vulcano, la reologia del magma e il diametro del cratere), dipenderà l’accelerazione di gravità subita dalla miscela in collasso e la velocità di propagazione del fl us-so stesso. La propagazione del fl usso poi è direttamente condizionata dalla morfologia su cui il fl usso si muove. In generale, le colate piroclastiche tendono a colmare le depressioni vallive e ad ag-girare gli ostacoli morfologici piuttosto che sormontarli. Alcune colate pirocla-stiche, però, sono in grado di inglobare grandi quantità di aria atmosferica e di gonfi arsi signifi cativamente e, quindi, superare ostacoli morfologici e anche viaggiare a pelo dell’acqua.

I danni provocati dal passaggio di una colata piroclastica sono causati dal-le elevate temperature del fl usso, dalla pressione dinamica che il fl usso esercita in funzione della sua densità, dalla sua velocità e dal contenuto in cenere. La cenere che si infi ltra all’interno di un edifi cio può provocare combustione

dei contenuti infi ammabili della casa. I fl ussi molto veloci, in grado di esercitare un’alta pressione dinamica sugli oggetti che incontra, possono portare in carico oggetti e rocce anche di grandi dimen-sioni che si comportano come veri e propri “proiettili” con conseguente ele-vato impatto disruttivo su quello che in-contrano. I fl ussi piroclastici causano la morte dell’uomo per scottature ed ina-lazione di cenere bollente e/o asfi ssiante. Gli esseri umani riescono a sopravvivere solo per 15 minuti alle temperature tra i 150 ei 200 °C di un fl usso piroclastico e meno di 5 se le temperature sono più elevate (>250 °C). In ricorrenza di un fl usso di questo tipo, rifugiarsi all’in-terno di un solido caseggiato potrebbe essere utile, a meno del suo crollo per le sollecitazioni del fl usso stesso, e avendo l’accortezza di sigillare ermeticamente tutte le aperture e le eventuali fessure strutturali. Attualmente, ingegneri e ge-ologi sono impegnati nella valutazione della resistenza di diverse tipologie di apertura nelle case in vicinanza di vul-cani, per capire quali possano essere le tipologie di strutture maggiormente in grado di resistere alle diverse tempe-rature e pressioni dinamiche dei fl ussi piroclastici. Molte osservazioni utili derivano anche dall’osservazione dei danni verifi catesi nei centri urbani già colpiti dall’espansione di fl ussi pirocla-

Figura 7. Attività stromboliana violenta-subpliniana dell ’Etna, 2002

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stici (Montserrat, Unzen ecc). Nel ca-so della famosa eruzione del 1902 del Monte Pelée in Martinica che in meno di pochi minuti distrusse la città di St Pierre, le analisi degli esperti sui danni subiti dalle cose e dalle persone indicò che la maggior parte fu prodotta dall’on-da d’urto e dal passaggio velocissimo del fl usso piroclastico, costituito da cenere bollente. L’infi ltrazione della cenere fi -nissima e caldissima provocò la maggior parte degli incendi nelle abitazioni. La temperatura della cenere è stata valutata dagli eff etti sugli oggetti essere superio-re ai 700 °C, ma inferiore ai 1058 °C, perché gli oggetti in rame non subirono fusione. Se però il fl usso arrivò con simili temperature alla città di St. Pierre, a 8 km dal vulcano, la sua temperatura al cratere doveva essere intorno ai 1200 °C. Furono valutate velocità di scorrimento tra i 60 ei 90 km/h.

In Italia l’eruzione catastrofi ca del 79 d.C. del Vesuvio è forse l’esempio più famoso di evento di fl usso pirocla-stico con associata formazione di lahar. L’evento fu preceduto da precursori si-smici iniziati già nel 62 d.C., quando una forte scossa sismica provocò il crollo di molti edifi ci e produsse danni anche a Nocera e a Napoli. Ma in quell’epoca la relazione sismicità-attività vulcanica non era nota e nessuno pensò che quel sisma potesse essere un indizio della prossima ripresa di attività del vicino vulcano Vesuvio che era quiescente da almeno otto secoli. Invece, il 24 agosto dell’anno 79 d.C. il Vesuvio rientrò in attività eruttando in poco più di trenta ore, circa 4 Km3 di magma sotto forma di pomici e cenere.

L’eruzione fu annunciata nel primo pomeriggio da una serie di esplosioni alla cima del vulcano dovute all’apertu-ra del cratere e causate dalla repentina volatizzazione dell’acqua della falda su-perfi ciale venuta a contatto con il mag-ma in risalita. Subito dopo dal cratere si alzò per circa 15 km una colonna di gas, ceneri, pomici e frammenti litici. Tutta l’area vesuviana era intanto interessata da frequenti scosse sismiche. Il mattino successivo la colonna sostenuta collassò originando una serie di veloci fl ussi pi-roclastici che causarono la distruzione totale dell’area di Ercolano, Pompei e Stabia.

L’eruzione cambiò completamen-te l’aspetto morfologico del vulcano e dell’area circostante. Il vulcano ebbe la cima troncata con l’identifi cazione del-la cinta (Cinta del Somma) all’interno della quale è poi sorto il vulcano Vesuvio che conosciamo oggi.

Il Vesuvio attualmente si trova in una fase di quiescenza, avendo eruttato l’ultima volta nel 1944. La sua fase di quiescenza è caratterizzata solo da una blanda attività fumarolica e da una bassa sismicità. Non ci sono in atto fenomeni precursori che possano far pensare ad una possibile ripresa a breve termine dell’attività eruttiva. Nonostante, cono-scendo la storia del vulcano, Il Vesuvio è sorvegliato 24 ore su 24 dalla rete di monitoraggio dell’Osservatorio Vesu-viano, la sezione di Napoli dell’Istituto Nazionale di Geofi sica e Vulcanologia, Ingv. Nel corso della sua storia, infatti, il Vesuvio ha vissuto periodi di attività eruttiva alternati a lunghi periodi di ri-poso durante cui il condotto si ostruisce. Durante questi lunghi periodi di riposo il magma si accumula nella camera mag-matica ed evolve rilasciando lentamente gas che pressurizzano la camera mag-matica stessa e spingono il magma verso l’alto, fi no a raggiungere una situazione di alta esplosività. Quando riprenderà l’attività eruttiva, si prevede un’eruzione di tipo sub-pliniano, simile a quelle del 1631 (Fig. 8) e 472, con la formazione di una colonna eruttiva sostenuta alta diversi chilometri, caduta di bombe e blocchi nelle immediate vicinanze del cratere ed emissione di ceneri e lapilli che potranno raggiungere distanze dal vulcano anche di diverse decine di chi-lometri e la formazione di fl ussi pirocla-stici. È doveroso ricordare che il Vesu-vio ha avuto attività eruttiva di questo tipo durante tutto il 1700 e 1800. Tra il 1631 ed il 1944 sono stati individuati 18 cicli stromboliani, intervallati tra loro

da periodi di inattività mai più lunghi di 7 anni. A conclusione di ogni ciclo stromboliano è associata una violenta eruzione fi nale.

Episodi particolarmente violenti si ebbero nel 1794, nel 1822, nel 1834, nel 1850 e nel 1872. Dopo il 1872, lenti emissioni di lava acida formarono dei duomi lavici, individuabili nella mor-fologia attuale (esempio il Colle Um-berto). L’ultima eruzione del 1944 ha segnato, secondo gli esperti, la fi ne di un periodo di attività a condotto aperto e l’inizio di un periodo di quiescenza a condotto ostruito.

Per salvaguardare la vita delle 700mila persone che vivono alle falde del vulcano, è stato compilato un Piano Nazionale di emergenza di cui si è già accennato, in continuo aggiornamento con la collaborazione di tutte le com-ponenti e le strutture operative del Ser-vizio Nazionale di Protezione Civile. Il piano di emergenza prevede tre diverse tipi di aree a diversa pericolosità: zona rossa, gialla e blu. Considerando che il Vesuvio, prima dell’eventuale eruzione, emetterebbe una serie di fenomeni pre-cursori, si avrebbe la possibilità di atti-vare l’evacuazione della zona rossa in cui rientrano 18 comuni.

Non meno devastanti sono i danni prodotti dai processi alluvionali stret-tamente connessi all’attività eruttiva esplosiva. Infatti, l’emissione di cenere, pomici e lapilli derivati dalla frammen-tazione del magma, determina depositi poco coerenti che ricoprono, con spessori da pochi cm fi no a diversi metri, i fi anchi scoscesi del vulcano. Le elevate penden-

Figura 8. L’eruzione del Vesuvio del 1631, incisione di N. Perrey in Giuliani, 1632. Si riconoscono le colate pi-roclastiche che in rapida discesa lungo il f ianco del vulcano arrivano a colpire i paesi ai piedi del Vesuvio. Dal sito https://ingvvulcani.wordpress.com

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ze, la sismicità che, a volte, accompagna e segue una fase eruttiva e le piogge con-tribuiscono a determinare condizioni di precario equilibrio dei depositi e, spesso, favoriscono le condizioni di criticità che ne determinano la mobilizzazione, dan-do luogo allo sviluppo dei lahar. Con il termine lahar si intende qualsiasi tipo di fl usso detritico e/o fangoso derivato dalla mobilizzazione di materiale vul-canico, sia stato esso appena eruttato e quindi ancora con alte temperature, oppure ri-mobilizzato molti anni dopo e quindi freddo (come ad esempio ac-caduto a Sarno, in Campania nel 2008). I lahar si comportano in modo molto simile alle comuni frane; sono forte-mente controllati dalla gravità ed il loro movimento dipende da molti fattori co-me lo sforzo di taglio, la concentrazione e la pendenza della superfi cie su cui si muovono. Generalmente, la loro dire-zione di scorrimento è determinata dal-la topografi a: viaggiano incanalati nelle depressioni e si accumulano allo sbocco delle valli. La loro pericolosità è indotta dall’ elevata energia cinetica, derivante dalla velocità (compresa tra le decine di km e le centinaia/h) e dalle caratteristi-che granulometriche della componente solida che trasportano. Sono in grado di trascinare per diversi chilometri detriti anche di notevoli dimensioni.

La disponibilità d’acqua è un elemen-to importante nella valutazione della pe-ricolosità di un lahar. L’acqua, infatti, ha un eff etto importante sulla sua mobilità, perché ne determina una minor viscosità e, quindi, una maggior capacità di scor-rere facilmente su di un pendio. L’acqua può derivare da abbondanti piogge o dal-la presenza di laghi, fi umi e ghiacciai. Il grado di rischio è proporzionale al volu-me d’acqua disponibile.

Lo studio del comportamento fi sico delle colate piroclastiche e dei lahar, e della loro energia in relazione ai dan-ni che possono produrre sulle strutture, è alla base dei progetti di prevenzione. Come abbiamo già detto, la prima fase è sicuramente lo studio del vulcano per conoscerne la storia, i cicli e i tempi di ritorno, la tipologia eruttiva e la mor-fologia. Quindi è importante l’analisi delle caratteristiche fi siche dei mate-riali prodotti e dei volumi eruttati che poi possono essere ri-mobilizzati sotto forma di lahar. Per la pericolosità rela-tiva a quest’ultimi sono fondamentali gli studi relativi alla topografi a dell’area vulcanica, e l’analisi degli eventi già ac-caduti nel passato per conoscere le aree maggiormente soggette al rischio di invasione, la distribuzione e la caratte-

ristica dei centri urbani potenzialmente interessate dai fl ussi e la tipologia delle infrastrutture. Questi dati servono per l’elaborazione delle mappe di rischio e per programmare interventi sul territo-rio a scopo preventivo, per la mitigazio-ne del rischio ed eventualmente per la gestione dell’evento.

ALTRE TIPOLOGIE DI RISCHIO CONNESSE ALL’ATTIVITÀ DEI VULCANI

L’attività vulcanica è spesso accom-pagnata da terremoti, bradisismi e più raramente da maremoti.

Terremoti e vulcani sono un bino-mio imprescindibile, perché sono ori-ginati dallo stesso processo e cioè dal movimento reciproco delle placche in cui è suddiviso il pianeta. I terremoti vulcanici, però, più specifi camente, sono legati ai movimenti e all’evoluzione del magma al di sotto della crosta terrestre e sono generalmente di bassa profondità. Hanno anche caratteri e sequenze mol-to diverse. Infatti, non sono caratteriz-zati da una scossa principale seguita da scosse di assestamento, ma da migliaia di piccole scosse che spesso defi niscono uno stato di tremore del vulcano. Non hanno alta energia, ma la loro superfi -cialità può essere causa di danni eleva-ti. Dal momento che sono l’eff etto dei movimenti del magma in risalita verso la superfi cie, possono verifi carsi anche anni prima della vera e propria eruzione, oppure non essere seguiti da una fase eruttiva. Come esempio relativo alla prima situazione possiamo ricordare i terremoti del 63 e 64 d.C. che prece-dettero la famosa eruzione del Vesuvio del 79 d.C. L’eruzione del Monte Pelée fu invece preannunciata da terremoti verifi catisi uno, due mesi prima. La loro frequenza andò intensifi cando sempre più, fi no a trasformarsi praticamente in un tremore continuo. I terremoti che preannunciarono l’evento del Mt. St Helen’s erano iniziati cinque anni prima. L’eruzione del 1669 dell’Etna fu prece-duta da tre giorni di scosse sismiche.

I terremoti vulcanici sono molto utili per predire un’eruzione ed, infatti, vengono studiati proprio a questo fi ne. In generale il movimento del magma, il processo di essoluzione-frammentazio-ne del magma e la circolazione dei fl uidi provocano un tipico tremore del vulca-no, che non solo è caratteristico per ogni vulcano, ma diviene particolarmente in-tenso al momento dell’eruzione.

Sebbene le relazioni tra i vari eventi non siano strettamente verifi cate da un

punto di vista scientifi co, terremoti e vulcani sono spesso associati e possono provocare un altro fenomeno potenzial-mente molto pericoloso, il maremoto. Un maremoto è un’onda lunga, con pe-riodo compreso tra 5 e 60 minuti (me-diamente 15-20 minuti), generata dallo spostamento di una massa d’acqua; è an-che generalmente chiamato tsunami dal giapponese “tsu”=porto e “nami”=onda (onde di porto). I maremoti di origine vulcanica possono essere dovuti allo sci-volamento in mare di masse di materia-le lavico incandescente lungo i fi anchi ripidi del vulcano, come è accaduto a Stromboli in occasione della crisi erut-tiva del 2002. Da un punto di vista fi sico, le onde di maremoto sono caratterizzate da lunghezze d’onda (distanza tra due creste) molto elevate, dell’ordine delle decine o centinaia di chilometri, e quin-di, molto grandi rispetto alla profondità dell’acqua in cui si muovono, anche in aperto oceano. Questa caratteristica fa sì che le onde di maremoto si comportino come “onde in acque basse”: la velocità si riduce (essendo direttamente propor-zionale alla profondità dell’acqua) e di conseguenza l’altezza dell’onda aumen-ta, fi no a raggiungere anche alcune deci-ne di metri. In mare aperto, viaggiano ad elevata velocita`, raggiungendo anche i 700-800 km/h e sono in grado di pro-pagarsi per migliaia di chilometri con-servando più o meno inalterata la loro energia. Possono quindi abbattersi con violenza anche su coste molto lontane dal punto di origine.

L’eruzione del 1883 del Krakatoa sviluppò una gigantesca onda di mare-moto che in pochi minuti raggiunse le coste di Giava, Sumatra e delle isole che si aff acciavano sullo stretto della Sonda, travolgendo le popolazioni dei villaggi costieri. L’altezza dell’onda raggiunse quasi i 40 metri e si stima che più di 300 fra città e villaggi furono sommersi, e che perirono circa 36.000 persone.

Un pericolo maremoto è rappre-sentato da un vulcano sottomarino nel cuore del Tirreno meridionale a ridosso delle isole Eolie: il vulcano Marsili. Si tratta di un edifi cio sottomarino di tutto rispetto, con una lunghezza di circa 70 km e una larghezza di 30 km per una superfi cie di 2100 km2.Il vulcano è alto quasi 300 metri e la sua cima si trova ad una profondità di circa 450m sotto la superfi cie marina. A causa del moto on-doso e per la rapida crescita dell’edifi cio, il vulcano Marsili appare agli studiosi piuttosto fragile e soprattutto alimen-tato da una grande camera magmatica che gli assicura la possibilità di un ri-

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fornimento cospicuo. In caso di evento eruttivo, l’accumulo rapido di materiale sui fi anchi dell’edifi cio potrebbe causare una frana con conseguente sviluppo di un’onda di maremoto in grado di col-pire le coste della Campania, Sicilia e Calabria.

I bradisismi sono dovuti a movimenti di abbassamento ed innalzamento della crosta terrestre in relazione alla presenza di un vulcano. La vera causa che provo-ca tali movimenti non è ancora chiara anche perché non sempre avvengono in relazione ad un’eruzione. Attualmente la teoria che ha più credito presso gli stu-diosi spiega queste oscillazioni del suolo come connesse alle variazioni del siste-ma vulcanico ed in particolare variazioni di temperatura delle falde freatiche sub superfi ciali. Secondo quest’ipotesi, l’au-mento o l’abbassamento della tempera-tura causerebbe una maggiore o minore pressione del vapore d’acqua imprigio-nato nel sottosuolo con conseguente oscillazione della crosta superfi ciale. I bradisismi dell’area dei campi Flegrei sono forse i più famosi del mondo regi-strati da secoli sulle colonne del mercato di epoca romana (il così detto Serapeo perché confuso con un tempio dedicato alla dea Serapide) dove sono ben visibili i fori dei litodomi, molluschi marini che vivono in prossimità della costa.

I fori dei litodomi e l’analisi storico-archeologica indica che durante l’epoca romana la costa era notevolmente più arretrata dell’attuale, tanto che molte strutture del porto romano si trovano sommerse, tra i 7 ei 10 metri rispetto al livello attuale. Nel 1500 ci fu una forte fase di sollevamento prima dell’eruzio-ne del Monte Nuovo del 1538. Subito dopo l’eruzione, invece iniziò la lenta subsidenza che ha portato al seppelli-mento sott’acqua dei manufatti romani. Poi due importanti crisi, una tra 1969-72 ed una tra il 1982-84, entrambe sottolineate da attività sismica, hanno portato il suolo ad un sollevamento complessivo di circa tre metri e mezzo. Tra le due fasi di crisi il suolo è tornato ad abbassarsi. Durante i bradisismi del 1982-84, il tasso di sollevamento della costa fu impressionante: circa 3mm al giorno con scosse sismiche quasi inin-terrotte (fi no a circa 500 al giorno) che arrivarono anche a magnitudo 4.2 pro-vocando il crollo di numerose strutture del porto e che convinsero le autorità ad evacuare parzialmente l’abitato di Poz-zuoli. Attualmente il suolo è di nuovo in una fase di abbassamento, anche se non in modo continuo; infatti brevi fasi di sollevamento e sismicità non sono rare e

rendono diffi cile il compito di previsio-ne e prevenzione dei vulcanologi.

L’ area vulcanica dei Colli Albani a sud-est di Roma, ha come rischio vul-canico attuale il rilascio costante e a vol-te improvviso di CO2. L’area dei Colli Albani è stata interessata da attività magmatica fi no a meno di 30.000 anni fa, mentre episodi di lahar dal lago di Albano sono avvenuti anche in epoca storica. Per questi processi e per i tempi di ricorrenza calcolati per tutta l’attività dell’area vulcanica che danno tempi di ritorno superiori ai 30.000 anni, si ritie-ne che il vulcano possa ancora eruttare nel futuro.

Le acque dell’area albana sono parti-colarmente ricche di anidride carbonica proveniente in parte dal magma ancora in lento raff reddamento e in parte dalle reazioni chimiche innescate dal calo-re del magma a contatto con le rocce carbonatiche incassanti la camera mag-matica. L’anidride carbonica risale in superfi cie attraverso le fratture del sub-strato sedimentario e via, via si discioglie nell’acquifero profondo e in quelli più superfi ciali contenuti nelle successioni piroclastiche.

Molte sorgenti dell’area dei Colli Albani e perfi no della città di Roma sono “frizzanti”, appunto perché ricche in CO2. Normalmente, l’anidride carbo-nica arriva in superfi cie ancora disciolta in acqua attraverso le sorgenti, in punti cioè dove l’erosione ha portato alla lu-ce il contatto tra la roccia permeabile che contiene l’acquifero (nell’area dei Colli Albani queste rocce sono sabbie e conglomerati in parte relativi all’an-tica presenza del mare, in parte derivati dall’attività dell’antico Tevere) e quella superiore impermeabile (argille mari-ne o vulcaniti alterate). In alcune aree, però, come a Ciampino e a Fiumicino, in cui il substrato carbonatico è molto superfi ciale (alti strutturali del substra-to sedimentario o horst), l’azione della tettonica appenninica ha intensamente fratturato il substrato, mettendo il sot-tosuolo direttamente a contatto con la superfi cie. In queste situazioni, l’anidri-de carbonica è trattenuta al di sotto della superfi cie terrestre solo dalla copertura impermeabile dei sedimenti più recenti (vulcaniti rimaneggiate ed alterate). È allora, l’azione dell’uomo che asporta in-cautamente la copertura impermeabile (per scavi di fondazioni, cantine, pozzi per l’acqua ecc.) a provocare l’improvvi-sa liberazione della CO2. In alcuni casi la liberazione della CO2 è così rapida e violenta da avvenire attraverso vere e proprie eruzioni.

PREVENIRE E MONITORARE: LA RESPONSABILITÀ DELLO SCIENZIATO

Gli scienziati sono tenuti a valuta-zioni molto rigorose prima di esprimere opinioni e ipotesi ad alto impatto sulla vita di una popolazione esposta a rischio.

Prevedere un’eruzione vulcanica è ancora impossibile, esattamente come prevedere un terremoto. Nel senso che non è possibile sapere l’anno e il giorno dell’evento e in molti casi non è possibile prevederlo nei così detti classici “tempi umani”. Questo non vuol dire, però che l’uomo sia impotente o che non abbia mezzi e occasioni per evitare che il pro-cesso naturale (sia esso un terremoto o un’eruzione) si trasformi in disastro. Il Vesuvio è un vulcano quiescente; questo vuol dire che la sua storia, che i vulcano-logi hanno studiato con meticolosità, ci dice che ha tempi di ricorrenza tali da ritenere che erutterà di nuovo a breve. L’informazione scientifi ca è suffi ciente ad adottare misure drastiche di preven-zione che includono la non edifi cabilità di molte aree intorno al vulcano. Invece la storia recente dell’area vesuviana ci racconta l’assenza di piani urbanistici funzionali e stabili, il clientelismo po-litico che ha agevolato la speculazione edilizia dagli anni ’60 agli anni ’80, l’a-busivismo e i relativi condoni a cui solo in tempi recenti si è posto un freno con l’istituzione della tanto discussa “zona rossa” (nel 1995; l’inedifi cabilità in tale area è stata sancita da una legge regiona-le del 2003) e del “Parco Nazionale del Vesuvio” (1995). Eppure sono questi e solo questi gli elementi che hanno au-mentato il rischio. Si è verifi cato, cioè, il paradosso che mentre gli scienziati cercavano sempre più di precisare l’in-cognita pericolosità, spendendo molti dei soldi pubblici nelle loro ricerche, dall’altro i politici e gli amministratori che fi nanziavano gli scienziati per ridur-re la pericolosità, dall’altra aumentavano in modo esponenziale l’esposizione e la vulnerabilità, rendendo vano ogni sfor-zo e facendo sì che il rischio aumentasse a dismisura. Queste sono responsabilità chiare e ben visibili, ma ne esistono altre più diffi cili da individuare e combatte-re, come quelle legate a ragioni culturali che non sono mai state neanche aff ron-tate. Una credenza, in particolare, viene spesso citata: l’idea che il Vesuvio, an-tropomorfi zzato, abbia una personalità gentile e sia particolarmente buono con gli abitanti delle sue pendici. Il vulcano, prima di eruttare darà segni inequivo-cabili. Esiste anche la granitica certezza

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che l’assiduo monitoraggio del vulcano sia garanzia assoluta di sicurezza.

L’unica via da perseguire per una corretta gestione della crisi è la preven-zione. La maggior parte degli scienzia-ti è oggi concentrata nella valutazione dell’impatto di un evento sulla società umana. Tale conoscenza potrà consenti-re l’adozione di una serie di misure volte a ridurre drasticamente le conseguenze di un evento eruttivo. La prevenzione è la risultante degli studi di previsione (compito primario degli scienziati) e di un’adeguata politica di prevenzione (compito degli amministratori locali e nazionali). In realtà le regole sono poche:1) Conoscere la struttura geologica di

un territorio e la storia del vulcano in modo da poter valutare in dettaglio il tipo di esposizione ad ogni tipologia di possibile processo

2) Conoscere il patrimonio edilizio e le sue caratteristiche in funzione del processo a cui sarà potenzialmente esposto (peso della cenere e delle pomici sui tetti, urto e pressione da parte di un flusso più o meno turbo-lento e concentrato) per poter avvia-re le necessarie opere di risanamen-to e/o adeguamento, dando priorità agli edifici pubblici come scuole ed ospedali, caserme ecc.

3) Istruire la popolazione riguardo al processo potenzialmente in atto e ai piani di evacuazione

4) Adeguare le norme tecniche ed in-vestire maggiormente nelle tecniche di prevenzione

LA PROTEZIONE CIVILE E LA COMMISSIONE GRANDI RISCHI

Le diffi coltà relative alla gestione del rischio sono estremamente complesse in virtù della peculiarità delle aree vulcani-che che sono estremamente produttive ed economicamente di gran pregio, e quindi di richiamo per l’uomo che ten-de a sovra-aff ollarle. Poi, la ricorrenza dell’attività vulcanica è spesso a lungo termine e quindi la sua pericolosità ten-de ad essere sottostimata o addirittura messa da parte in un oblio incosciente. Per l’uomo, infatti, la necessità della so-pravvivenza è un problema giornaliero che mal si confronta con tempi di previ-sione dell’ordine delle centinaia o anche migliaia di anni.

Le responsabilità politiche e am-ministrative sono quindi sempre molto alte e per questo quasi tutti i paesi che si trovano nella necessità di dover ge-stire il rischio vulcanico si sono dotati di organi istituzionali di intervento, e

in alcuni casi di strutture analoghe alla nostra Protezione Civile. In Italia, che insieme all’Islanda, presenta la maggiore concentrazione di vulcani attivi in Eu-ropa, ed è uno dei primi paesi al mondo per numero di abitanti esposti a rischio vulcanico, è tutta l’organizzazione dello Stato, centrale e periferica, l’intero siste-ma degli Enti Locali ed anche la società civile a partecipare, a pieno titolo, al Ser-vizio nazionale della protezione civile, anche attraverso le organizzazioni di volontariato.

Inoltre, l’Italia si è dotata di una Commissione Nazionale per la Previ-sione e Prevenzione dei Grandi Rischi. Questa è una struttura di collegamento tra il Servizio Nazionale della Prote-zione Civile e la comunità scientifi ca ed ha, come funzione principale, quella di fornire pareri di carattere tecnico-scien-tifi co su quesiti del Capo Dipartimento, e dare indicazioni su come migliorare la capacita di valutazione, previsione e prevenzione dei diversi rischi.

Per quanto riguarda specifi camen-te il rischio vulcanico esiste un Cen-tro Funzionale Centrale per il Rischio Vulcanico (Cfc-rv),che è la struttura di supporto tecnico-scientifi co interna del Dipartimento della Protezione Civile. In questa struttura vengono raccolti e analizzati tutti i dati derivati dal mo-nitoraggio delle aree vulcaniche attive come l’Etna, Stromboli, Campi Flegrei, Vesuvio; vengono eff ettuate delle simu-lazioni ed elaborati dei modelli degli eff etti di varie tipologie eruttive e si va-luta l’esposizione delle strutture; vengo-no eff ettuate valutazioni di criticità. Al centro è anche affi data l’elaborazione e la diff usione di Bollettini di vigilanza e criticità ed eventualmente i rapporti su eventi accaduti. Il centro è sempre attivo, passando da uno stato di vigilanza ad uno di attenzione al variare dei parame-tri ritenuti signifi cativi ed eventualmen-te premonitori di un evento eruttivo, fi -no ad uno stato di allarme che implica l’adozione delle procedure del caso.

IL CASO VESUVIONel caso del Vesuvio, il vulcano ita-

liano a più alto rischio, sono stati ela-borati livelli di allerta che implicano diverse condizione relativamente alla sicurezza: 1) livello base (verde), 2) li-vello di attenzione (giallo), 3) livello di pre-allarme (arancione) e 4) livello di allarme (rosso).

Questi quattro livelli si riferiscono alle diverse fasi di evoluzione di una crisi eruttiva. Il verde, stato attuale del Vulcano, indica che non è stato ravvisato

alcun fenomeno premonitore di ripresa dell’attività vulcanica. Tutti i parametri sono costanti da un periodo di tempo signifi cativo (dieci anni per il Vesuvio). Il livello successivo, giallo, segnala che sono stati ravvisate delle modifi che dei parametri, come sismicità, deformazio-ne del suolo, composizione dei gas nelle fumarole, ecc. normalmente monitorati 24 ore su 24, che potrebbero indicare la probabilità di riattivazione eruttiva del vulcano. Il colore arancione è il pre-allar-me, crisi in atto, e quello rosso risponde alla necessità di evacuazione della popo-lazione presente nella zona rossa.

La valutazione della validità della va-riazione dei parametri è forse l’elemento più delicato di tutta l’operazione, perché normalmente i valori di sismicità, defor-mazione del suolo, temperatura e com-posizione di sorgenti e fumarole, non sono fi ssi ma oscillano in un intervallo più o meno ampio. Quindi, la variazio-ne viene considerata signifi cativa solo quando supera il valore ordinariamente registrato (valore di fondo) di almeno due volte la sua deviazione standard (in-certezza associata al dato, che esula cioè dal 95% circa dei dati osservati). Poi, il passaggio da un livello di allerta all’altro, viene decretato solo se almeno due dei parametri monitorati hanno evidenziato variazioni signifi cative. In caso di varia-zione di un solo parametro si resta in una situazione di vigilanza straordinaria.

Tutte le operazioni di monitoraggio e osservazione del vulcano sono poi ac-compagnate da altri tipi di intervento, come ad esempio l’organizzazione di corsi di formazione per il personale dei comuni, dei volontari, di tutte le strut-ture operative nelle aree vulcaniche del Vesuvio e dei campi Flegrei e del per-sonale della Regione Campania, della Prefettura e della Provincia di Napoli. Si cerca inoltre di rendere il più possibile partecipe e consapevole la popolazione residente.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI UTILIBarberi F., Santacroce R., Carapezza

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20Giorgio CesariE-mail: [email protected]

SOMMARIO Si parla sopratutto di dissesto all’av-

vicinarsi dell’autunno, con fi umi di inchiostro come torrenti in piena, che tornano poi asciutti con la bella stagio-ne, quando l’attenzione del pubblico si sposta su altre calamità. Disastri naturali e antropogenici: cambiamenti climatici, terremoti, tempeste e uragani, trombe d’aria, inondazioni, erosione, maremoti, frane e dissesti e in più siccità, carenza e crisi idrica, inquinamento, mareggia-te, incendi boschivi, vulcanesimo, valan-ghe, sprofondamenti e colate detritiche. Il tutto in un territorio giovane, come l’Italia, con una situazione morfologica e climatica che, in presenza di terreni altamente erodibili, determina una pro-pensione all’erosione diff usa e al dissesto idrogeologico.

La società del consumo, aff ollata da “Econi” infallibili, si ostina a rendere ancora più fragile l’ambiente, cemen-tifi cando e impermeabilizzando, co-struendo là dove nulla andrebbe fatto, incrementando usi e consumi idrici anziché il risparmio idrico, esaurendo le risorse naturali, bonifi cando quan-do sarebbe opportuno non inquinare. E spesso appellandosi ai diritti delle generazioni future, avendo, però, tra-scurato ogni principio di responsabilità intergenerazionale. È ora che tutti as-sumano una parte di responsabilità per aff rontare e risolvere i problemi, attuali e ricorrenti, del territorio e dell’ambiente, e trovare adeguati fi nanziamenti, e tutto nel breve periodo perché non si può fare affi damento solo ai risultati della lotta al cambiamento climatico, considerato anche che i dati del Copernicus Climate Change Service (C3S) mostrano che il 2018 è stato il quarto di una serie di anni molto caldi e, con il Copernicus Atmo-sphere Monitoring Service (CAMS), C3S riporta che le concentrazioni di CO2 in atmosfera continuano a salire.

SUMMARYAbove all there is talk of hydrogeologi-

cal instability at the approach of autumn, with rivers of ink like torrents in fl ood, which then return to dryness in the good season, when the public’s attention shifts to other calamities. Natural and anthro-pogenic disasters: climate changes, earth-

quakes, storms and hurricanes, tornadoes, fl oods, erosion, tidal waves, landslides, plus droughts, water shortages and water crises, pollution, storm surges, forest fi res, volcan-ism, avalanches, sinkholes and fl ows debris. All this in a young territory, like Italy, with a morphological and climatic situation that, in the presence of highly erodible soils, determines a propensity to widespread ero-sion and hydrogeological instability.

Th e consumer society, crowded with infallible “Econs”, is stubborn to make the environment even more fragile, cementing and waterproofi ng, building where noth-ing should be done, increasing water uses and consumption instead of saving water, depleting natural resources, reclaiming when it would be advisable not to pollute. And often by appealing to the rights of future generations, having, however, ne-glected any principle of intergenerational responsibility. It is time for everyone to take responsibility for tackling and solv-ing the current and recurrent problems of the territory and the environment, fi nding adequate funding, and all in the short term because it is not possible to rely only on the results of the fi ght against climate change, also considering that the data of the Co-pernicus Climate Change Service (C3S) show that 2018 was the fourth in a series of very hot years and, with the Copernicus Atmosphere Monitoring Service (CAMS), C3S reports that CO2 concentrations in the atmosphere they continued to rise.

1. L’INCOGNITA DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI1.1 CAMBIAMENTI CLIMATICI

I cambiamenti climatici (CC), di origine naturale o antropogenica, sono modifi cazioni statisticamente signifi -cative dello stato medio del clima e/o della sua variabilità, tali da persistere per un lungo periodo prolungato. Se causate dall’uomo sono connesse per lo più all’alterazione dell’atmosfera e alla trasformazione nell’uso del suolo, con conseguente immissione di gas a eff etto serra che alterano l’equilibrio del siste-ma climatico favorendo l’aumento della temperatura dell’aria. Pur con le dovute, ma non troppe, cautele, l’infl uenza uma-na potrebbe essere stata la causa più im-portante del riscaldamento osservato sin dalla metà del secolo scorso.

L’IPCC (International Panel on Cli-mate Change) prevede che i CC accre-scano le diff ormità nelle risorse e negli assetti naturali delle regioni europee, causando piene improvvise (fl ash-fl oods), inondazioni costiere ed erosione, ritiro dei ghiacciai, riduzione della copertura nevosa e della biodiversità, temperatu-re elevate e siccità, minore disponibilità idrica, perdita di produttività dei suoli, ri-schi per la salute. Le migrazioni di massa non possono essere attribuite solo a un mutato quadro politico mondiale. Nel 2016, per l’Organizzazione Meteorolo-gica Mondiale, 23,5 milioni di persone si sono mosse dal proprio territorio per il cambiamento climatico e almeno la metà delle 110 emergenze, sulle quali la Fede-razione Internazionale delle Società del-la Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa (FICR) è intervenuta nel corso del 2017, sono collegate ai cambiamenti climatici.

1.2 LE EMISSIONI MONDIALI

Le emissioni mondiali di gas serra hanno raggiunto 53,5 miliardi di ton-nellate di CO2 equivalente, in aumento nel 2018 rispetto alla stasi del 2016 e 2017. Per mantenere la traiettoria del riscaldamento globale entro i 2 °C, se-condo l’UNEP (United Nations Envi-ronment Programme), occorrerebbe di-minuire le emissioni mondiali di circa il 25% entro il 2030, triplicando le attuali azioni di riduzione e del 50% per poter restare entro 1,5 °C. L’AEA (Agenzia Europea per l’Ambiente) ha pubblica-to il Rapporto “Trends and projections in Europe 2018”, sulle emissioni di gas serra: con le politiche in atto e decise dai governi, le emissioni si ridurranno al 2030 solo del 30-32% rispetto al 1990, molto meno dell’obiettivo del 40% fi ssa-to dall’Accordo di Parigi, che esigerebbe una riduzione media di 79 MtCO2eq. Se si mirasse alla traiettoria di 1,5 °C i tagli di emissioni al 2030 dovrebbe-ro essere ben superiori al 40% (fi no al 60% per l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). Il Rapporto di AEA. stima la riduzione al 2030 delle emissioni di gas serra, suddivise in due gruppi: i grandi emettitori di gas serra (circa il 40% delle emissioni) sottoposti alla regolazione europea diretta (ETS, Emissions Trading Scheme) con l’obietti-

Il disagio del territorioThe discomfort of the territoryParole chiave: dissesto, rischio, cambiamento climatico, partecipazione, investimenti, culturaKey words: instability, risk, climate change, participation, investments, culture

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vo comune di ridurre le emissioni del 43% al 2030 e gli altri settori (trasporti, edifi ci, agricoltura, rifi uti, piccoli im-pianti) regolati nazionalmente. In Italia, che ha l’obiettivo di ridurre le emissioni del 2005 del 33% al 2030 per i settori non ETS, le misure nazionali in atto e quelle già decise comporterebbero la ri-duzione delle emissioni da 330 milioni di tonnellate di CO2eq del 2005 a 249 nel 2030, con un calo solo del 24% (nei trasporti e negli edifi ci le emissioni ca-lerebbero unicamente del 20%).

1.3 LOTTA AL CAMBIAMENTO CLIMATICO

La lotta contro il cambiamento cli-matico (Goal 13) è uno dei 17 obietti-vi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs), adottati nel 2015 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e l’Italia si è impegnata entro il 2030 a raff orzare la resilienza e la capacità di adattamento ai rischi legati al clima e ai disastri naturali, integrando nelle politiche, strategie e piani le misure di contrasto e migliorando l’istruzione, la sensibilizzazione e la capacità umana e istituzionale in materia di mitigazio-ne, adattamento, riduzione dell’impatto e allerta precoce

A verifi ca di questi impegni, è in-teressante il monitoraggio compiuto dall’Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) su come l’Italia stia conseguendo il Goal 13 con l’ana-lisi di alcuni indicatori (1° gas serra, 2° precipitazione media annua, 3° tempe-ratura media massima giornaliera e 4° media minima giornaliera). Tra il 2010 e il 2016 l’indicatore 1 migliora fi no al 2014, in gran parte a causa della ridu-

zione delle emissioni indotte dalla crisi economica, per poi peggiorare nell’ul-timo biennio, in corrispondenza con la ripresa del PIL.

Per la Strategia Energetica Nazionale e il “Piano energia e clima”, prescritto dal Clean Energy for all Europeans Package, occorre assumere le decisioni verso l’at-tuazione dell’Accordo di Parigi (Strategia EU 2030), valutando l’impatto di tutti i settori anche se non strettamente con-nessi alla dimensione energetica (quindi trasporti, edilizia, agricoltura, cambio d’uso del suolo, forestazione).

Come sopra detto, i CC riguardano l’ambiente e anche la stabilità dei governi, delle economie, della salute; investendo in prevenzione e sistemi di allerta, si può evitare che i disastri naturali divengano catastrofi e crisi umanitarie, con migliaia di vittime e gravi perdite economiche. È ben noto come un dollaro investito in prevenzione consenta il risparmio di 7 $ in risposta all’emergenza.

1.4 EFDRR E COMMISSIONE EUROPEA

Rappresentanti dell’Europa, parti interessate e vari partner si sono riuniti in Italia, dal 21 al 23 novembre 2018, per il Forum europeo sulla riduzione dei rischi di catastrofi (EFDRR), con l’obiettivo di risolvere le questioni chiave che posso-no accelerare l’attuazione del Quadro Sendai in coerenza con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile e l’Accordo di Pa-rigi. Se nel Forum europeo del 2017 era stato proposto un percorso per unifi care gli sforzi per la riduzione dei rischi di catastrofi , quello di Roma è stato mira-to alla protezione dei cittadini, ricono-scendo la correlazione tra cambiamenti

demografi ci, urbanizzazione, sicurezza alimentare, impatti sui mercati dei ca-pitali e obsolescenza delle infrastrutture, convenendo sulla necessità di garantire sicurezza e resilienza con un approccio a livello di intera società, coinvolgendo le parti interessate (incluse le donne) e sottolineando il ruolo della prevenzio-ne, della preparazione, dell’innovazione (tecnica e fi nanziaria) e dei partenariati pubblico-privati.

La Commissione Europea ha già adottato una visione strategica di lun-go termine per una economia prospera, moderna, competitiva e a impatto cli-matico zero entro il 2050 e ha eviden-ziato il ruolo guida europeo investendo in soluzioni tecnologiche, coinvolgendo i cittadini e armonizzando le misure in settori fondamentali (politica indu-striale, fi nanza e ricerca), garantendo nel contempo equità sociale per una transi-zione giusta. A riprova della fi ducia in tutto ciò, per il 93% dei cittadini euro-pei (Eurobarometro - novembre 2018) i CC sono provocati dalle attività umane e per l’85% la lotta ai CC e un uso più ef-fi ciente dell’energia possono creare cre-scita economica e posti di lavoro, con-venendo che la via verso un’economia a impatto climatico zero richiede misu-re in sette ambiti strategici: effi cienza energetica, energie rinnovabili, mobilità pulita e sicura, competitività industriale ed economia circolare, infrastrutture e interconnessioni, bioeconomia e pozzi naturali di assorbimento del carbonio, cattura e stoccaggio del carbonio per ridurre le emissioni rimanenti.

2. PROBLEMATICHE E SFIDE2.1 INTERDISCIPLINARITÀ

L’intreccio di discipline provenienti dalle scienze naturali e sociali, dall’in-gegneria e dalla gestione è diventato fondamentale per la disamina delle at-tuali sfi de ambientali, prestando sempre più attenzione al concetto di “economia circolare”, piuttosto che ai concetti più comunemente usati di “scienze ambien-tali” e “sviluppo sostenibile”. Si osserva la crescita delle tendenze verso l’inte-grazione di una maggiore interdiscipli-narità nella ricerca sulla sostenibilità, mentre le sfi de interdisciplinari più ar-due sorgono quando occorre combinare approcci molto diversi da quelli fi sici e sociali. Occorre dunque esplorare i tre concetti di scienze ambientali, svilup-po sostenibile ed economia circolare, di natura prevalentemente transdiscipli-nare, nell’aff rontare le sfi de ambientali, prestando attenzione all’inclusione di

ISPRA - Annuario dei dati Ambientali 2018 - Emissioni gas serra

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obiettivi ecologici, sociali e/o economi-ci, alla misura in cui gli impatti ambien-tali sono interiorizzati e alla necessità dell’intervento dei decisori politici. La diff usione della Citizen Science, per i progetti sia coinvolgenti i cittadini in attività scientifi che che generano nuove conoscenze, sia con un vero esito scien-tifi co, sensibilizza il pubblico e demo-cratizza la scienza.

2.2 PERCEZIONE DEL RISCHIO

Occorrono iniziative per un’effi cace comunicazione sui rischi e una miglio-re predisposizione delle azioni pre/post evento, considerando sia il calcolo della probabilità e la gravità degli eventi che possono verifi carsi, sia gli aspetti psi-cologici e sociali. Spesso la percezione del pubblico del rischio è infl uenzata sia dal potenziale di danno diretto, sia dalle circostanze in cui è presentato un potenziale pericolo, tanto meno accet-tabile se è percepito come involontario, incontrollabile e potenzialmente cata-strofi co, perché la “fi ducia” sussiste se i responsabili possiedono conoscenze e competenze adeguate. La percezio-ne del rischio si diff erenzia secondo i “generi”: le donne tendono a giudicare più probabili e più gravi gli esiti nega-tivi associati a comportamenti rischiosi, con minore disponibilità a impegnarsi nei comportamenti a rischio, giudicati meno piacevoli rispetto agli uomini. Per quanto concerne i rischi di alluvioni e vulcanico, essi sono sentiti dalle donne in modo più grave rispetto agli uomini. Esaminando poi le diff erenze di gene-re nella percezione del rischio fi sico nei bambini, per i ragazzi il rischio è signi-fi cativamente correlato alla gravità del danno, mentre per le ragazze il rischio è più legato alla vulnerabilità a qualsiasi tipo di lesione.

3. UNA NOTIZIA PURTROPPO, QUASI QUOTIDIANA3.1. DISASTRI NATURALI NEL MONDO

Nel 2017, 335 disastri naturali hanno colpito oltre 95,6 milioni di persone, per un costo totale di $ 335 miliardi. L’Asia è il continente più vulnerabile per inonda-zioni e tempeste (44% di tutti gli eventi, 58% dei decessi totali e 70% delle persone colpite); le Americhe hanno riportato le maggiori perdite economiche con l’88% del costo derivante da 93 disastri. Cina, Stati Uniti e India sono stati i paesi più colpiti in termini di occorrenza con 25, 20 e 15 eventi. Nel decennio preceden-te la media annuale è stata di 354 eventi, 68.273 morti e 210 milioni di persone

medie colpite. La perdita media econo-mica è stata di $ 141 miliardi. Dopo il 2011 (devastante terremoto/tsunami in Giappone), il 2017 è stato l’anno più ‘co-stoso’ del decennio per una serie di potenti uragani negli Stati Uniti e nei Caraibi. Il ‘costo’ di Hurricane Harvey, Hurricane Ir-ma e Hurricane Maria è di $ 95, $ 80,7 e $ 69,7 miliardi. Analizzando gli eventi, il 2017 è stato contrassegnato da un nume-ro più elevato di tempeste (127 segnala-zioni rispetto alla media annuale di 98). In Africa e America, la mortalità del 2017 è superiore alla media di 10 anni a causa del verifi carsi di frane, terremoti e uragani.

3.2 DISASTRI NATURALI IN ITALIA

Negli ultimi 15 anni l’Italia è stata colpita da nove disastri naturali con danni per un totale di 49,9 miliardi di euro, mentre in Europa sono occorsi 75 eventi, in 24 nazioni, con 119,3 miliardi di euro di danni. Il centro Italia paga il prezzo più alto, tra tutti gli eventi eu-ropei, a causa dei terremoti del 2016 e 2017, con danni stimati in 21,9 miliardi. Il sisma in Emilia Romagna del 2012 è costato 13,3 miliardi e quello in Abruz-zo del 2009 altri 10,2 miliardi. Vanno aggiunte le inondazioni del 2014, con 2,2 miliardi di danni. Il terremoto del Molise è costato 1,6 miliardi di euro e l’eruzione dell’Etna (ripetutasi recente-mente) poco meno di un miliardo, 700 milioni di euro per ognuna delle alluvio-ni in Veneto nel 2010, in Liguria e To-scana nel 2011 e in Sardegna nel 2013.

L’Unione europea per sostenere le nazioni colpite dalle calamità naturali ha stanziato, attraverso il Fondo di so-lidarietà, 5,1 miliardi di euro, dei quali all’Italia è andata circa la metà, pari a 2,5 miliardi di euro. L’ultimo contributo ero-gato, per i terremoti del centro Italia tra il 2016 e il 2017, ammonta a 1,2 miliardi di euro e rappresenta la somma più alta mai stanziata dall’Ue. Importanti sono state anche le erogazioni in milioni di euro per gli allagamenti in Emilia Romagna (670) del 2012 e il terremoto del 2009 in Abruzzo (494). Gli altri eventi che hanno ottenuto un contributo dall’Ue sono: il terremoto del 2002 in Molise (31); l’eruzione dell’Etna nel 2002 (17); l’alluvione del 2010 in Veneto (17); l’al-luvione del 2011 in Liguria e Toscana; l’alluvione in Sardegna nel 2013 (16) e le altre alluvioni nel 2014 (56 ). L’Italia è al settimo posto per mortalità per disa-stri naturali, con 299 vittime causate dal terremoto del 24/08/2016.

Come ricorda il Consiglio Naziona-le italiano Ingegneri, sono stati spesi 120 miliardi di euro dal 1968 al 2014 per

ricostruzioni post sismiche, quando ne sarebbero bastati 94 per porre in sicu-rezza edifi ci pubblici e privati nelle zone a più elevato rischio sismico, salvando molte vite umane.

3.3 DISSESTO IDROGEOLOGICO E GLI ALTRI RISCHI IN ITALIA

È stato presentato alla Camera dei Deputati l’Annuario dei Dati Ambien-tali dell’Ispra 2018, la più importante pubblicazione scientifi ca di dati stati-stici basati su 300 indicatori, realizzata in collaborazione con il SNPA (Sistema Nazionale Protezione Ambiente).

Tra i dati più allarmanti per il nostro Paese, quelli sullo stato di siccità di mol-te zone d’Italia. Con una precipitazione cumulata media al di sotto della norma del 22% circa, il 2017 si colloca al 2° po-sto, appena dopo il 2001, tra gli anni più ‘secchi’ dell’intera serie dal 1961. È stata di +1,30 °C l’anomalia della tempera-tura media in Italia, superiore a quella globale sulla terra ferma (+1,20 °C).

Se è positivo il dato riguardante le emissioni totali di gas serra, diminuite del 17,5% dal 1990 al 2016, desta anco-ra preoccupazione il dissesto idrogeolo-gico. Solo nel 2017 ci si sono stati 172 frane, distribuite soprattutto in Abruzzo, Campania, Sicilia, Trentino Alto Adige, Lombardia e Marche. In Italia oltre 6 milioni di abitanti sono residenti in aree a pericolosità idraulica media (tempo di ritorno tra 100 e 200 anni), mentre la popolazione a rischio frane, se si consi-derano le 2 classi a maggiore pericolosità (elevata e molto elevata), è pari a oltre 1,2 milioni di abitanti. Dal punto di vista della sismicità, nel 2017, quattro eventi hanno raggiunto e superato Magnitudo 5, tutti avvenuti il 18 gennaio, con epi-centri in provincia de L’Aquila.

Più in dettaglio, i 172 principa-li eventi di frana (gennaio-dicembre 2017) hanno comportato 5 vittime complessive (escursionisti in montagna o automobilisti/motociclisti), 31 feriti e danni prevalentemente alla rete strada-le, distribuiti su gran parte del territorio nazionale, ma in particolare in Abruzzo, Campania, Sicilia, Trentino Alto Adige, Lombardia e Marche. Nei mesi di gen-naio e febbraio 2017 molte sono state le frane attivate/riattivate in Abruzzo, sia per lo scioglimento delle nevi cadute, in particolare, nell’evento del 18 gen-naio, sia per le intense precipitazioni. La popolazione a rischio frane è pari a 507.894 abitanti residenti in aree a peri-colosità molto elevata P4 del PAI (Piani di Assetto Idrogeologico), 774.076 in aree a pericolosità elevata P3, 1.685.167

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abitanti in aree a pericolosità media P2, 2.246.439 abitanti in aree a pericolosità moderata P1 e 475.887 abitanti in aree di attenzione. Se si considerano le due classi a maggiore pericolosità, la popo-lazione a rischio ammonta al 2,2% della popolazione totale. Le regioni con valori più elevati di popolazione a rischio frane in aree P3 e P4 sono Campania, Tosca-na, Emilia Romagna e Liguria.

La popolazione residente esposta a rischio alluvioni è pari a 2.062.475 abi-tanti (3,5%) nello scenario di pericolo-sità idraulica elevata P3 (tempo di ritor-no tra 20 e 50 anni), 6.183.364 abitanti (10,4%) nello scenario di pericolosità media P2 (tempo di ritorno tra 100 e 200 anni) e 9.341.533 abitanti (15,7%) nello scenario P1 (scarsa probabilità di alluvioni o scenari di eventi estremi). Le regioni con la maggiore percentuale di popolazione a rischio in aree a perico-losità media P2, rispetto alla totale resi-dente, sono Emilia Romagna (63,7%), Toscana (26%) e Liguria (17,5%).

Per quanto concerne il rischio sismi-co, in 2.500 anni l’Italia è stata interessata da oltre 30.000 eventi di media e forte intensità superiore al IV-V grado della scala Mercalli e da circa 560 di intensi-tà uguale o superiore all’VIII grado. Nel XX secolo, 7 terremoti hanno avuto una magnitudo uguale o superiore a 6.5 (X e XI grado Mercalli). In Italia, il rapporto tra danni prodotti dai terremoti e energia

rilasciata nel corso degli eventi è molto più alto rispetto a quanto si verifi ca nor-malmente in altri Paesi a elevata sismi-cità, come California o Giappone, senza poi considerare l’elevata densità abitativa e la notevole fragilità del nostro patrimo-nio edilizio.  In dettaglio la sismicità nel 2017 è stata caratterizzata dal prosegui-mento della sequenza sismica del 2016 in Centro Italia. La Rete Sismica Nazionale del INGV nel 2017 ha rilevato 44.459 eventi, di cui 37.000 considerati repli-che della suddetta sequenza. Gli eventi di Magnitudo Momento maggiore o uguale a 5 sono stati 4 (tutti nella zona di Campotosto), maggiore o uguale a 4 sono stati 16 (13 nella zona epicentrale della sequenza del Centro Italia). Il ter-remoto di maggiore energia (Magnitudo 5,5) è avvenuto il 18 gennaio (uno dei ben 11 eventi verifi catisi con Magnitudo maggiore o uguale a 4 nelle province di Aquila e Rieti). Rilevante anche il ter-remoto del 21 agosto a Ischia di mode-sta energia (Magnitudo Momento 3,9 e Magnitudo Durata 4,0) che ha causato però notevoli alle abitazioni e 2 vittime.

Un problema sempre più attuale è il rischio maremoto sulle coste del Mediterraneo per l’elevata sismicità e la presenza di numerosi vulcani attivi, emersi e sommersi. Negli ultimi mille anni, lungo le coste italiane, sono state documentate varie decine di maremo-ti, solo alcuni dei quali distruttivi, con

le aree costiere più colpite quelle della Sicilia orientale, della Calabria, della Puglia e delle Eolie. Maremoti di mo-desta entità si sono registrati lungo le coste liguri, tirreniche e adriatiche. Le coste italiane possono essere pure rag-giunte da maremoti generati in aree del Mediterraneo lontane (ad esempio in caso di un forte terremoto nelle acque della Grecia). Sussiste pure l’incognita delle mareggiate (nel 2017 sopratutto nel Canale di Sicilia, Mar di Sardegna e Tirreno Centrale).

Sul territorio Italiano esistono alme-no dieci vulcani attivi, ovvero che hanno dato manifestazioni negli ultimi 10.000 anni: Colli Albani, Campi Flegrei, Ve-suvio, Ischia, Stromboli, Lipari, Vulca-no, Etna, Pantelleria, Isola Ferdinandea. Solo Stromboli e Etna sono in attività persistente, con eruzioni continue o se-parate da brevi periodi di riposo, dell’or-dine di mesi o di pochissimi anni. Ma tutti questi vulcani possono produrre eruzioni in tempi brevi o medi.

Altre tipologie di rischio (sanitario, nucleare, ambientale, industriale) com-pongono un poco invidiabile corollario al “disagio” del nostro territorio. Se il rischio sanitario è sempre conseguente ad altri rischi o calamità, tanto da es-ser defi nito come un rischio di secon-do grado, diffi cilmente è prevedibile e può essere mitigato solo se preceduto, durante il periodo ordinario, da una

ISPRA - Annuario dei dati Ambientali 2018 - Popolazione residente esposta a rischio frane

ISPRA - Annuario dei dati Ambientali 2018 - Popolazione residente esposta a rischio alluvioni

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fase di preparazione e di pianifi cazio-ne della risposta dei soccorsi sanitari in emergenza. Quanto al rischio nucleare, tredici impianti nucleari sono presenti in territorio estero a meno di 200 km dal confi ne nazionale. Il rischio ambientale ricomprende diversi inquinamenti lega-ti alla probabilità di eventi provocati da un’alterazione repentina dei parametri fi sico-chimici delle matrici ambientali acqua, aria e suolo. Per il rischio indu-striale, ogni provincia ha almeno uno stabilimento con pericolo di incidente rilevante (D.Lgs 105/15). Ben 41 sono i siti contaminati di interesse nazionale (SIN) che interessano 316 comuni in tutte le regioni italiane, per circa 7 mi-lioni di abitanti. Nelle anagrafi banche dati regionali dei siti oggetto di proce-dimento di bonifi ca ci sono circa 29.700 siti registrati, di cui oltre 13.200 hanno concluso il procedimento di bonifi ca.

Per la qualità delle acque superfi ciali quasi il 24% del totale dei punti di mo-nitoraggio hanno concentrazioni supe-riori ai limiti di qualità ambientale (più dello 8% per le acque sotterranee).

Quanto agli incendi boschivi, nel 2017 la tendenza all’aumento ha com-portato il 35% in più dei fenomeni e +255% delle superfi ci boscate interes-sate e + 44% delle non boscate.

Il territorio Italiano è, poi, tra le aree al mondo maggiormente interessate dai fenomeni di sprofondamento improv-viso, concentrati nelle aree urbanizzate. Gli sprofondamenti nei centri urbani sono, per lo più, di origine antropica e riconducibili a crolli di volte di cavità ar-tifi ciali, a scarsa o media profondità dal piano campagna, o connessi a fenomeni di dilavamento di terreni sciolti sotto il manto stradale per problemi di inade-guatezza della rete dei sottoservizi. A titolo di esempio, i sinkhole antropoge-nici nel territorio di Roma Capitale sono strettamente connessi alla rete di cavità sotterranee prodotta dalle attività umane (reti idrauliche, cave, catacombe etc.) in oltre duemila anni di storia. Nel territo-rio di Roma (dal 1875 al 2012) sono stati censiti oltre 2000 sinkhole antropogenici e salgono a 136 le voragini registrate a Roma nei primi 10 mesi del 2018.

Insistono inoltre sul nostro territo-rio numerosi e pericolosi movimenti di masse, che comprendono gli scivola-menti (caduta di materiale roccioso e/o detritico lungo un versante), le colate detritiche (si manifestano lungo incisio-ni di bacini montani con forti pendenze, per esempio lungo torrenti di monta-gna), la caduta di massi (crollo di singole pietre o massi).

Infi ne le valanghe, i cui primi dati storici sul territorio italiano risalgono al 1836 quando ci furono 24 vittime in Val Belluna nel giro di pochi giorni. 88 furono i morti a Valprato Soana, in pro-vincia di Torino, e sempre in Piemon-te 81 furono i minatori uccisi nel 1904 dalla Valanga del Beth in Val Chisone. Il numero di scomparsi più alto di sem-pre in assoluto si è registrato nell’inver-no del 1916 quando i militari italiani e austriaci, impegnati negli scontri della Prima Guerra Mondiale, subirono una serie infi nita di valanghe causate da un inverno molto nevoso. Si calcolano in 10.000 le vittime tra le truppe alpine di entrambi gli schieramenti, tutte nel giro di pochi giorni di dicembre del 1916. Se il 1951 si rivelò tragico con 46 vittime in Italia, 97 in Svizzera e 135 in Austria e se 40 furono i decessi in Italia nel 1987, non vanno dimenticati i 12 sciatori tra-volti dalla neve nel 1991 sul Pavillon a Courmayeur ) e 17 alpinisti per valanghe nell’estate del 2000. La valanga di Ri-gopiano (18 gennaio 2017), che investì l’albergo Rigopiano-Gran Sasso Resort, causando 29 vittime, è la tragedia più grave causata da una valanga avvenuta in Italia dal 1916 e dal 1999 in Europa.

3.4 TRASFORMAZIONE DEL TERRITORIO E ABBANDONO AGRICOLO

L’abbandono agricolo rifl ette una tendenza post-bellica dell’Europa oc-cidentale allo spopolamento rurale e le aree isolate e povere sono le più vulnerabili. La commercializzazione della agricoltura, attraverso gli sviluppi tecnologici e l’infl uenza della politica agricola comune hanno aumentato la produttività e concentrato l’attività agri-cola sui terreni più fertili e accessibili, trasformando così gli approcci tradizio-nali all’agricoltura. In molte aree questo ha portato a un declino delle pratiche tradizionali ad alta intensità di mano-dopera e il terreno agricolo marginale è progressivamente stato abbandona-to, con particolare rilievo nelle zone di montagna. L’abbandono è diff uso e generalmente ha un eff etto indesiderato sui parametri ambientali. Parallelamen-te all’abbandono delle zone marginali, anche le pratiche di intensifi cazione agricola (meccanizzazione e uso di tec-niche di coltivazione, di irrigazione, di fertilizzazione e di difesa fi tosanitaria) concentrate nelle pianure determinano profondi mutamenti nel loro assetto e, contribuendo al degrado della qualità del suolo stesso, rendono il territorio ancora più vulnerabile ai cambiamenti ISPRA - Annuario dei dati Ambientali 2018 - Consumo del suolo

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climatici in atto. L’Italia cambia volto: aumenta il verde, in particolare per gli alberi che in 5 anni (2012- 2017) cre-scono del 4,7% estendendosi per circa 14 milioni di ettari. Il fenomeno si con-centra nelle zone marginali del Paese e trascura invece le città dove salgono i valori di copertura artifi ciale. A livello regionale sono Liguria (80,7%), Cala-bria (67%) e Toscana (60,8%) le regioni con la maggiore percentuale di alberi.

Il consumo del suolo della fascia co-stiera ha valori superiori rispetto al resto del territorio nazionale con artifi cializ-zazione del 23,4% della fascia entro i 300 metri, 19,6% tra 300 e 1000, 9,3% tra 1.000 e 10.000. Il consumo di suolo con-tinua a crescere con 23.000 km2 ormai persi. Tra il 2016 e il 2017 le coperture artifi ciali hanno preso 5.200 ha netti, poco più di 14 ha/giorno: circa 2 m2/sec.

4. UNO SGUARDO SULL’USO DELL’ACQUA4.1 CRISI IDRICA PLANETARIA

Gli astronauti osservando la Terra ve-

dono un pianeta blu, con una superfi cie

ricoperta d’acqua per il 70%. A un primo sguardo sembrerebbe che l’acqua sia moltissima, ma quella dolce è stata de-fi nita “incredibilmente rara” dal WWF, secondo cui soltanto il 3% dell’acqua è “dolce, e i due terzi di essa formano i ghiacciai o comunque non sono fruibi-li”. Oltre 5 miliardi di persone potreb-bero in un prossimo futuro conoscere gli eff etti della crisi idrica mondiale, per

i cambiamenti climatici in corso, l’au-mento demografi co e l’inquinamen-to delle risorse. A lanciare l’allarme è il nuovo (2018) studio delle Nazioni Unite (“Making Every Drop Count: An Agenda for Water Action”).

Secondo quanto riportato dal World Water Forum, attualmente gli esseri uma-ni consumano circa 4.600 chilometri cubici di acqua ogni anno, di cui il 70% va all’agricoltura, il 20% all’industria e il 10% alle famiglie. La domanda globale è aumentata sei volte negli ultimi 100 anni e cresce al ritmo dello 1% l’anno. In questo contesto più di due miliardi di persone sono costrette a bere acqua non potabile e oltre 4,5 miliardi non hanno accesso a servizi igienico-sanitari sicuri. Circa l’80% delle acque refl ue è sversato direttamente nell’ambiente e le catastrofi legate all’acqua rappresentano il 90% dei 1.000 disastri naturali più de-vastanti dal 1990 a oggi.

Siccità e degrado del suolo sono i più grandi rischi da aff rontare. Entro il 2050 tra 4,8 e 5,7 miliardi di persone vivranno in aree povere d’acqua per almeno un me-

se all’anno, rispetto ai 3,6 miliardi di oggi, mentre il numero di persone a rischio di inondazioni aumenterà da 1,2 fi no a 1,6 miliardi. Le precipitazioni probabilmen-te diminuiranno nelle cosiddette drought belts (zone molto aride comprendenti Messico, Sud America occidentale, Eu-ropa meridionale, Cina, Australia e Suda-frica). E diffi cilmente le risorse sotterra-nee potranno compensare il defi cit idrico, considerando che un loro terzo è già in pericolo. Va sottolineato pure lo stretto legame tra povertà e risorse idriche: il numero di persone, che vive con meno di 1,25 dollari al giorno, coincide approssi-mativamente con il numero di coloro che non hanno accesso all’acqua potabile.

4.2 STRESS IDRICO E SCARSITÀ D’ACQUA

Se la scarsità idrica è defi nita nel com-plesso una situazione in cui non si è in grado di soddisfare le esigenze idriche di tutti gli utenti di un sistema, lo stress idrico è una condizione, temporanea o prolungata, di assenza di acqua. L’ONU prevede che entro il 2025 i due terzi della popolazione mondiale potrebbero vivere in condizioni di stress idrico. Durante una conferenza del 2008 di Goldman Sachs avente per oggetto i “Top Five Risks”, l’ipo-tesi di una catastrofi ca carenza idrica nel mondo è stata considerata una minaccia per l’umanità più grave dell’impennata dei prezzi dei beni alimentari e dell’esau-rimento delle riserve energetiche nel XXI secolo. Secondo lo studio, in ben 46 Paesi, per un totale di 2,7 miliardi di abitanti, i cambiamenti climatici e la crisi idrica cau-sano un alto rischio di confl itti sanguinari, mentre altri 56 Paesi, abitati da altri 1,2 miliardi di persone, sono a rischio di in-stabilità politica. Le cause sono numerose: ad esempio la mancanza eff ettiva di acqua in una zona, l’insuffi cienza di infrastrut-ture per l’accesso all’acqua disponibile o un uso non sostenibile di essa, come l’uso incondizionato dell’acqua cresciuto a un ritmo più di due volte superiore rispetto all’aumento demografi co del XX secolo. Un dato interessante lo forniscono le Na-zioni Unite, che “contano” circa 1,2 mi-liardi di persone in aree soggette a scarsità idriche imputabili a cause geologiche, mentre 1,6 miliardi di persone aff rontano carenze idriche dovute a questioni eco-nomiche, per l’assenza di infrastrutture necessarie per approvvigionare l’acqua da fi umi e falde acquifere. La situazione italiana non è esente dal problema della crisi idrica anche perché negli ultimi de-cenni si è venuta a delineare in Italia una situazione meteo-climatica caratterizzata da una sensibile riduzione delle precipi-

tazioni che ha determinato situazioni di emergenza idrica in gran parte del ter-ritorio nazionale aggravando condizioni già precedentemente in stato di crisi, cui si aggiunge l’inadeguatezza della rete ac-quedottistica che in Italia presenta una perdita dell’acqua addotta pari al 27%, con punte anche del 40% e oltre. Preoccupante è anche lo scenario irriguo dell’estate 2019 perché, anche se non è ancor allarme per le campagne, lo scenario appare lo stesso della grande siccità del 2017.

5. IL DISSESTO E LE AREE URBANIZZATE5.1 CITTÀ E AREE URBANIZZATE

La crescente interdipendenza glo-bale e la progressiva urbanizzazione del pianeta fanno di città e aree metropo-litane i punti di massima esposizione e vulnerabilità a rischi globali di diverso genere. Nell’ultimo quindicennio, il te-ma della resilienza delle città (cioè la capacità delle città di tematizzare que-sti rischi e di includerli nelle forme più diverse di azione collettiva) si è posto con particolare forza negli USA per al-cuni episodi che hanno messo in luce la vulnerabilità dei sistemi metropolitani a determinati shock (New York dell’11 settembre, New Orleans colpita dell’u-ragano Katrina e la conurbazione nord-orientale colpita dall’uragano Sandy). L’opinione pubblica e i policy maker si sono concentrati su eventi traumatici associabili alla prospettiva della società globale del rischio (terrorismo interna-zionale nel primo caso e cambiamento climatico nel secondo e nel terzo), te-matizzando il paradigma della resilienza nella sua tradizionale declinazione inge-gneristica privilegiante gli aspetti di ro-bustezza e di recovery, ovvero la capacità di tornare alla condizione di normalità rappresentata dallo stato di equilibrio precedente il disastro. Questa declina-zione della resilienza urbana ha impli-cato politiche pubbliche sulla qualità e robustezza delle infrastrutture critiche, sui dispositivi di emergency management e sulle strategie di post-disaster recovery, Ma detta declinazione della resilienza si è dimostrata solo parzialmente capace sia di spiegare il diff erenziale negati-vo in termini di capacità di resistenza, risposta e ripresa da determinati shock, sia di fornire indicazioni operative utili a colmare questo diff erenziale. Innan-zitutto, si è messa in discussione l’idea che lo stato precedente a uno shock sia ottimale o desiderabile e che l’azione collettiva debba limitarsi a ricostituire le condizioni per un ritorno allo stato di normalità, perché proprio i profondi

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squilibri caratterizzanti quel precedente stato hanno condizionato la capacità di risposta e di ripresa della città di fronte allo shock. A tramutare un evento grave naturale in catastrofe sono stati anche fattori di natura più ampia e complessa di quelli normalmente trattati nell’am-bito della declinazione ingegneristica della resilienza urbana e riguardano pro-cessi di lungo periodo relativi a model-lo di sviluppo, relazioni sociali e qualità istituzionale del sistema urbano.

5.2 PIANIFICAZIONE URBANA RESILIENTE

Tra gli obiettivi dell’Agenda per lo sviluppo sostenibile al 2030 l’Obietti-vo 11 prevede come rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili. La stessa rigene-razione dei centri urbani deve ottenersi con misure di natura culturale, sociale, economica e ambi entale, al fi ne dell’in-cremento del comfort e della vivibilità nel rispetto della sostenibilità.

Come ha messo in evidenza un re-cente rapporto dell’Istituto di Biomete-orologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IBIMET- CNR), i processi di forte inurbazione avvenuti negli ulti-mi 50 anni hanno comportato un forte aumento della popolazione in quartieri suburbani e la crescita urbanistica disor-dinata mostra oggi nelle città i limiti di una mancata visione proprio del comfort urbano. La fi tta concentrazione di strut-ture, la mancanza di aree verdi ampie e adeguate e una stretta e debole rete di mobilità hanno negli ultimi anni, insieme ai cambiamenti climatici, evidenziato la necessità d’invertire la tendenza e d’inne-scare una serie di misure tali da rendere il territorio urbano un luogo più gradevole da vivere. I bioclimatologi del CNR, con i dati della missione MODIS (NASA) e piattaforme informatiche aperte euro-pee come Zenodo.org hanno costruito, con gli urbanisti, le mappe delle “isole di calore” segnalate dai campi termici ur-bani; la conoscenza, in dettaglio spaziale delle complesse dinamiche, regolanti le variazioni termiche delle superfi ci delle costruzioni in funzione del consumo di suolo, aiuta a individuare pratiche di ge-stione più sostenibili.

Le azioni di mitigazione più imme-diate sulle tecniche di costruzione, il ri-pristino e la rigenerazione di aree verdi, insieme a un impiego più effi cace dei corsi d’acqua, rappresentano tutte azioni di raff rescamento mirato nelle “isole di calore” evidenziate dal mapping termico, unitamente al ripristino di un’agricoltura urbana, per mirare a città più resilienti

rispetto al rischio da caldo e climatico, concorrendo in questo a una riqualifi -cazione sostenibile di aree urbane. La gestione e la pianifi cazione urbana sono, quindi, decisive, per quanto catastrofi co possa essere un evento, con misure speci-fi che mirate sia a ridurre il rischi, sia allo sviluppo e alla costruzione della resilien-za. Si può pure mirare a una “resilienza accumulata”, frutto di un cambiamento a lungo termine sociale, politico e infra-strutturale per ridurre gli impatti, inve-stendo in drenaggio, trasporto, sicurezza civile e sociale, infrastrutture sanitarie pubbliche e formazione scolastica, con innovative procedure di pianifi cazio-ne partecipata per la regolamentazione dell’espansione urbana e la progettazione di edifi ci e infrastrutture resistenti alle calamità e resilienti.

L’approccio socio-ecologico, cioè capace di riconoscere la forte interdi-pendenza fra fattori sociali e fattori ecologici nel funzionamento di un da-to ecosistema, così permette di passare dalla resilienza, defi nita quale capacità di resistere a un determinato shock per poi ritornare a una precedente condi-zione di equilibrio presentata apoditti-camente come ottimale, a una sua nuova defi nizione quale capacità di rispondere a shock e stress esterni attraverso la co-struzione e l’attivazione di una durevole adaptive capacity. Il crescente successo del concetto di “metabolismo urbano” (ovvero l’insieme dei sistemi e delle loro componenti ecologiche, sociali e tecno-logiche che presiedono alla produzione, circolazione, consumo e deiezione delle risorse quali l’acqua, il cibo, l’energia) illustra perfettamente questo approccio e evidenzia l’opportunità di permettere agli attori urbani di compiere vere e pro-prie transizioni da determinati assem-blaggi di componenti ecologiche, sociali e tecnologiche a nuovi stati più deside-rabili proprio perché più resilienti.

5.3 LA CITTÀ SENSIBILE ALL’ACQUA

Molte città, in tutto il mondo, af-frontano tre sfi de critiche (popolazione in rapida crescita, cambiamenti climati-ci e crisi economica) nella gestione del-le risorse idriche, dei corsi d’acqua, dei bacini fl uviali e degli ambienti costieri e, in defi nitiva, della qualità della vita delle persone, e la loro espansione com-porta un paesaggio naturale sempre più alterato dall’impermeabilizzazione del suolo e da maggiore inquinamento at-mosferico. Va invece traguardata la città del futuro, sensibile all’acqua, in grado di fornire una serie di risorse idriche

diff erenziate per un gamma di usi di-versi, servizi ecosistemici effi caci e un ambiente naturale sano, impegnandosi con comportamenti positivi nella con-servazione e nel risparmio dell’acqua e la riduzione dell’inquinamento.

L’acqua è parte integrante di quasi tutte le caratteristiche di un paesaggio urbano e in una città sensibile all’ac-qua i cittadini interagiscono con il ciclo idrologico urbano per garantire sicu-rezza, migliorare e proteggere la salute dei corsi d’acqua e delle zone umide, i bacini fl uviali, la costa e le baie, mitigare il rischio di alluvioni e i danni, creare spazi pubblici ove raccogliere, depura-re e riciclare l’acqua. Una città sensibile all’acqua, quindi, resiliente, vivibile, pro-duttiva, sostenibile.

6. QUALCHE BRICIOLA SUL DA FARSI E SUL “FATTO”6.1 IL FABBISOGNO IPOTIZZATO

Il MATTM (Ministero dell’Am-biente e della Tutela del Territorio e del Mare) aveva valutato nel 2013 in 40 miliardi di euro il fabbisogno per ri-mettere in ragionevole sicurezza l’Italia sul fronte del dissesto idrogeologico e con il Piano nazionale contro il dissesto idrogeologico, a maggio 2017, si sono programmati 1.108 interventi, di cui si è speso però solo il 4,86% dei 29 miliar-di di euro previsti. Ma se il fabbisogno globale contro il dissesto è comunque elevato, nonché di diffi cile valutazione (ogni anno, quasi ogni stagione, il fabbi-sogno aumenta), qualsiasi cifra dovreb-be essere comunque rivista consideran-do che è sempre stata sottostimata la manutenzione ordinaria e straordinaria, che, soggetta a continue rivalutazioni per dissesti e disastri incombenti sul Paese, deve essere comunque aff rontata con un virtuoso sistema di proventi da rendere ogni anno disponibili.

6.2 GLI INVESTIMENTI NECESSARI

La sequenza di episodi tragici che si sono susseguiti in tutto il Paese, da nord a sud, ci ha ricordato in primis che viviamo in un territorio giovane, con un clima in continuo cambiamento, e nel quale il rispetto delle regole, quando si aff ronta il tema delle abitazioni in zone a elevato rischio idrogeologico, equivale al rispetto per la vita. Eppure l’abusivismo, il mancato rispetto della pianifi cazione territoriale e l’aumento del consumo di suolo sono sempre temi diffi cili da aff rontare per la politica nazionale, sia in passato sia oggi. Per questo occorre anche promuovere, tra i migliori inve-

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stimenti per mitigare il rischio idroge-ologico, la preparazione dei cittadini, gli investimenti nella resilienza delle comunità e nella capacità del sistema di monitoraggio e di allertamento nazio-nale, le opere, i lavori di manutenzione del territorio e gli interventi strutturali.

Il Governo italiano si è espresso su questi temi il 22 novembre scorso du-rante lo European Forum on Disaster Risk Reduction (EFDRR), non limitandosi ad annunciare le risorse dedicate all’emer-genza di Genova, legata al crollo del Ponte Morandi, e quelle per fronteggiare il maltempo che ha colpito molte regio-ni del Paese fra ottobre e novembre, ma parlando anche di prevenzione, che deve essere, oggi più che mai, la caratteristica delle prossime politiche di intervento. Ma quanto si vuole impegnare e sopra-tutto spendere? Al capitolo 6.4 si rinvia per una prima analisi del DPCM “Pia-

no nazionale per la mitigazione del rischio

idrogeologico”, con l’auspicio che, pre-valendo la consapevolezza, a diff erenza del passato, di voler realizzare priorita-riamente il programma della cura e della prevenzione del dissesto idrogeologico, siano coinvolti tutti i soggetti operanti sul territorio per rispondere alle seguen-ti sfi de: cambiamenti climatici; energia rinnovabile; gestione delle risorse idri-che; biodiversità; disastri naturali e an-tropogenici; rimedi e adattamento, resi-lienza e risorse fi nanziarie; sostenibilità.

6.3 IL PIANO STRAORDINARIO “INVASI”

Nel quadro dei recenti interventi go-vernativi, va citato il decreto di adozione del Piano straordinario invasi del Mini-stro delle Infrastrutture e dei Trasporti, di concerto con il Ministro delle Poli-tiche agricole alimentari, forestali e del turismo, grazie al quale il Governo può sbloccare circa 250 milioni di euro per fi -nanziare 30 opere nel settore idrico, nelle more della predisposizione del più ge-nerale Piano nazionale di interventi nel settore idrico. Se la più parte delle misu-re riguarda completamenti, rifacimenti, ammodernamenti, adeguamenti, recu-peri di opere e sistemi collegati a invasi per raggiungere nei prossimi vent’anni un numero considerevole di piccoli e medi invasi sul territorio nazionale, misura importantissima di prevenzione della penuria di risorsa a disposizione dei cittadini e grande passo verso l’ammo-dernamento delle infrastrutture idriche del paese, potrebbe essere prossimo an-che il varo di un più articolato e auspica-to piano per la realizzazione di invasi nel Paese. Sempre con queste fi nalità, non

deve neanche sfuggire l’importanza di una revisione e rivalutazione dei laghet-ti collinari (cioè i serbatoi artifi ciali con meno di 15 metri di altezza dello sbarra-menti e meno di un milione di metri cubi di invaso), stimabili in numero di diverse migliaia in Italia, per possibile uso irri-guo, potabile, antincendio, laminazione delle piene, pesca e turismo.

6.4 IL PIANO NAZIONALE PER LA MITIGAZIONE DEL RISCHIO IDROGEOLOGICO, IL RIPRISTINO E LA TUTELA DELLA RISORSA AMBIENTALE

Il nuovo “Piano nazionale per la mi-tigazione del rischio idrogeologico” co-ordina e dedica risorse complessive per 14,3 miliardi di euro in 12 anni, dal 2018 al 2030 e si articola su quattro obietti-vi: emergenza, prevenzione, manuten-zione, semplifi cazione e raff orzamento della governance. Per quanto concerne specifi camente le risorse, nei primi tre anni (2019-2021) sono resi disponibili 10,853 miliardi (risorse già stanziate dai precedenti governi (leggi di Bilancio, fondi Fsc, fondi Ue, fondo Investimenti comma 140), di cui in particolare 3,124 per “misure di emergenza”, per fare fron-te ai danni causati da frane e alluvioni dell’autunno scorso con l’obiettivo anche di ridurre il rischio futuro (“aumento della resilienza” di strutture, infrastrut-ture e territori) Si tratta di risorse sulle quali l’Italia ha ottenuto la fl essibilità di bilancio dalla UE e spendibili in tre an-ni, di cui 1,274 miliardi già nel 2019. Si prevede di defi nire entro 60 giorni un “Piano stralcio 2019”, con “elenchi setto-riali di progetti e interventi infrastruttu-rali immediatamente eseguibili, aventi ca-rattere di urgenza e indiff eribilità, fi no alla concorrenza di un ammontare complessivo di tre miliardi di euro defi niti, per liste re-gionali, dai compe tenti ministeri, mediante apposite conferenze di servizi, sulla base dei fabbisogni e delle proposte delle Regioni in-teressate...”. All’interno del DPCM, una parte interessante è rappresentata dal Piano Dissesto Piccoli Comuni, fi no ai 20 mila abitanti e i comuni nelle zone a rischio sismico 1 e 2, con contributi per la messa in sicurezza di scuole, strade, edi-fi ci pubblici e patrimonio comunale. Si-gnifi cativi gli interventi del suolo e difesa idrogeologica (manutenzione straordi-naria per il rifacimento o l’ampliamen-to di opere idrauliche e idrogeologiche, nuove opere di difesa idrogeologica dei canali e corsi d’acqua, difesa dei versanti da frane e slavine e sistemazione delle aree in frana, con relativi drenaggi, ecc.), oppure progetti similari. Altrettanto

importante la quota delle risorse desti-nata a coprire le spese di progettazione, a prescindere dal Fondo Progettazione, anche attraverso una revisione delle spe-se ammissibili. Lodevole iniziativa che ha il merito di defi nire un piano a lungo respiro, ponendo attenzione, fra l’altro, alle misure di manutenzione e gestione del territorio, ai piccoli comuni. Sicu-ramente apprezzabile l’attenzione alla pianifi cazione di distretto.

Il provvedimento appare solido ed effi cace ma corre l’obbligo di mani-festare talune perplessità. Restano da precisare numerose azioni, in termini di defi nizione e pianifi cazione di interven-ti e semplifi cazione e miglioramento di azioni già in essere, quali il RENDIS. Si può poi evidenziare la mancata atten-zione allo specifi co problema del disse-sto idrogeologico delle zone terremotate del 2016, con particolare riferimento ai fenomeni sismici del 2016, là ove è av-venuta una sorta di “dissesto” del disse-sto, con sconvolgimento del territorio e delle risorse idriche sotterranee. Come sopra esposto, le somme a disposizione appaiono insuffi cienti analizzando non tanto i progetti esistenti, ma sopratutto le diff use calamità insistenti sull’Italia, che richiedono, fra l’altro, di sviluppare sistemi di monitoraggio, far recepire le indicazioni di rischio dei PAI (Piani di Assetto Idrogeologico) negli strumenti di pianifi cazione territoriale, sviluppa-re strumenti di monitoraggio dei costi della difesa del suolo (inazione, gestione delle emergenze, manutenzione, messa in sicurezza, monitoraggio), ostacolare l’abbandono delle aree marginali (non ultimo il riferimento alle zone colpite dal sisma già teatro di spopolamento), defi nire fi nanziamenti per delocalizzare gli insediamenti a maggior rischio, at-tenzionare i problemi della qualità della risorsa e dei corpi idrici

7. ASPETTI ECONOMICO FINANZIARI A SOSTEGNO7.1 ECONOMIA CIRCOLARE

Economia circolare «è un termine generico per defi nire un’economia pen-sata per potersi rigenerare da sola. In un’economia circolare i fl ussi di mate-riali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati ad essere rivalo-rizzati senza entrare nella biosfera» (El-len MacArthur Foundation). Il modello economico lineare ‘take-make-dispose’ si basa invece sull’accessibilità di grandi quantità di risorse e energia e è meno adatto a una realtà in cui le sole iniziative a sostegno dell’effi cienza possono ritar-

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dare la crisi del modello economico, ma non sono suffi cienti a risolvere i proble-mi dati dalla natura fi nita delle risorse.

Molte le iniziative a sostegno in Ita-lia e nel mondo.

In Senato si è tenuta la prima confe-renza annuale sulla Piattaforma Italia-na per l’Economia Circolare (ICESP), coordinata da ENEA, unico rappresen-tante italiano del mondo della ricerca nel Gruppo di Coordinamento dell’Eu-ropean Circular Economy Stakeholder Platform (ECESP), che riunisce gli sta-keholder attivi nell’ampio campo dell’e-conomia circolare in Europa. La piat-taforma è un luogo di confronto sulle iniziative nazionali in ambito di eco-nomia circolare con l’obiettivo di creare un punto di convergenza nazionale su azioni, esperienze, criticità e prospetti-ve del settore, attraverso lo scambio di informazioni e buone pratiche in sva-riati ambiti: dal riciclo dei materiali ai prodotti da materiali secondari, dalla sharing economy ai modelli di gestione e nel corso della conferenza sono emer-si dati interessanti sul posizionamento del nostro Paese, tra i primi in Europa. Sorge spontanea la domanda, tutt’altro che rivoluzionaria o fuori tema, se sia cioè possibile applicare i principi della circular economy ai problemi del territo-rio. Confortano i risultati dell’indagine Agi-Censis che ha coinvolto imprese, professionisti e accademici: alla doman-da se i principi dell’economia circolare si possano applicare a tutti gli ambiti pro-duttivi, la grande maggioranza del panel (68,3%) ha risposto positivamente e, tra i principali vantaggi di un’economia cir-colare, gli intervistati elencano proprio la tutela dell’ambiente e del territorio, unitamente al risparmio energetico e alla diminuzione nello sfruttamento e nell’uso di materie prime vergini.

Nella Conferenza Nazionale (1° mar-

zo 2019 a Roma) è stato presentato il Rapporto sulla Economia Circolare in Italia – 2019: l’Italia pare utilizzare al meglio le risorse destinate all’avan-zamento tecnologico, recuperando un ritardo altrimenti pesante, ma l’attiva-zione di un programma di politiche di sostegno allo sviluppo dell’eco innova-zione sull’economia circolare off rirebbe opportunità anche a iniziative valide, ma senza eguale accesso a fi nanziamenti o forme di sostegno. A Nairobi, nell’occa-sione dell’Assemblea UNEA (UN En-vironment Assembly) si è trattato il tema dell’economia circolare, il cui modello è stato ribadito in sede dell’XI Meeting di Primavera del’11 aprile 2019 della Fondazione dello Sviluppo Sostenibile.

La Commissione europea ha adottato una relazione per stimolare la transizione verso un’economia circolare per la com-petitività globale, una crescita economica sostenibile e nuovi posti di lavoro.

7.2 IL RUOLO DEGLI ORGANISMI LOCALI

Il “Piano Nazionale delle Comunità Intelligenti” introdotto dall’art.20 del Decreto 179/2012 prevede la costitu-zione autonoma da parte di ciascuna di esse, per l’accesso ai fi nanziamen-ti pubblici, senza peraltro chiarirne la delimitazione territoriale. Le Linee Guida “Architettura per le Comunità Intelligenti” dell’Agenzia Digitale Ita-liana defi niscono un unico termine che include Smart City e Smart Community, stabilendo nessun ambito territoriale, ma il principio dell’utilizzo pianifi cato e sapiente delle risorse umane e natu-rali. Il riordino degli enti locali e lo svi-luppo delle Comunità Intelligenti sono processi che devono necessariamente integrarsi, auspicando che la Regione divenga una Comunità Intelligente che programma, pianifi ca, legifera e control-la, mentre i Comuni dovrebbero costi-tuire Comunità Intelligenti di progetta-zione partecipata dello sviluppo, senza dimenticare la funzione di Comunità Intelligenti che coordinano lo sviluppo territoriali, quali dovrebbero essere le aree vaste. E in un Sistema Paese ove vanno promosse iniziative di federazio-ne per la progressiva armonizzazione del rapporto fra adeguatezza dei servizi, sostenibilità dei costi, valorizzazione del territorio e miglioramento della qualità della vita dei cittadini, il modello di go-vernance deve considerare e valorizzare gli enti e i contesti territoriali reticolari, come il sistema delle Agenzie di Prote-zione dell’Ambiente, i Centri Funzio-nali di Protezione Civile, gli ATO (o Ente di governo, dopo la probabile ri-forma normativa), i Consorzi di Irriga-zione e Bonifi ca, le Autorità di distretto, i GAL e altri organismi, con il compito di operare sul territorio, gestire il moni-toraggio e la prevenzione, programmare e realizzare opere di difesa e regolazio-ne idraulica, provvista e uso delle acque, salvaguardia ambientale, nell’ottempe-ranza alle Direttive europee.

7.3 ESEMPI DI POSSIBILI FONTI DI FINANZIAMENTO

Un piano di prevenzione e gestione del territorio, in estrema sintesi consiste, nel mettere a bilancio idonee risorse per un programma di misure, con copertura dei costi in linea con gli obiettivi am-

bientali e di salvaguardia delle Direttive europee. Il miglior “impiego” dei canoni dovrebbe costituire un’importante voce di fi nanziamento di misure, strutturali e non, a tutela del territorio, creando un meccanismo virtuoso nello spirito e nei principi dell’economia circolare. Anche nella Proposta di legge “Disposizioni in materia di gestione pubblica e parteci-pativa del ciclo integrale delle acque” presentata il 23 marzo 2018 (comma 8 art. 5), così come nelle recenti proposte di legge in materia di gestione pubblica e partecipativa del ciclo integrale delle acque, si attribuiscono competenze per la determinazione dei canoni di conces-sione per l’uso del demanio idrico. Su-bito o nell’aggiornamento triennale dei canoni ne è auspicabile l’impiego per un programma di misure contro il dissesto e per la tutela dei corpi idrici.

7.4 DEMANIO E CANONI

Beni demaniali sono i beni immo-bili o le universalità di mobili che ap-partengono a enti pubblici territoriali, allo Stato, alle Regioni, alle Province e ai Comuni. Secondo l’art. 822 del Codice Civile appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti, i fi u-mi, i torrenti, i laghi e le acque defi nite pubbliche dalle leggi in materia, oltre al-le opere destinate alla difesa nazionale, strade autostrade, opere d’arte, immobili storici e archeologici. Il solo patrimonio dello Stato assomma a oltre 60 miliardi di Euro e i beni non edifi cati compren-dono numerose tipologie: terreni agri-coli, aree edifi cabili, argini, boschi, giar-dini, siti archeologici, cimiteri di guerra, montagne, miniere, strade, etc.; di dette aree il 64,8 % è dichiarato disponibile

Da più tempo si avverte la neces-sità di una legge recante una delega al Governo per la revisione e il riordino della normativa relativa alle concessioni demaniali marittime, lacuali e fl uviali a uso turistico-ricreativo e dei canoni, nel rispetto della normativa dell’Unione Europea. Tra i principi e i criteri direttivi cui improntare la riforma, si segnalano: il rispetto della concorrenza, della qualità paesaggistica e sostenibilità ambientale, della libertà di stabilimento, della garan-zia dell’esercizio e sviluppo delle attività imprenditoriali, nonché del riconosci-mento e tutela degli investimenti, dei beni aziendali e del valore commercia-le; la rideterminazione della misura dei canoni concessori, con l’applicazione di valori tabellari, tenendo conto della ti-pologia dei beni oggetto di concessione; il coordinamento formale e sostanziale

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delle disposizioni legislative vigenti in materia. A questi principi occorrereb-be normare la destinazione del ricavato dei canoni a favore del territorio insieme alla semplifi cazione normativa per de-fi nire le concessioni in essere e relative al recupero di canoni ora evasi o non adeguatamente corrisposti, il tutto sem-pre con il coordinamento delle Autorità di distretto, vere camere di regia con le regioni. Di seguito, a titolo esemplifi -cativo e non esaustivo, alcune proposte operative, senza considerare l’esazione dei canoni derivanti dalle concessioni di derivazione delle risorse idriche che è oggetto già di attenzione da parte della Direttiva 2000/60/CE.

7.4.1 Incasso dalle concessioni demaniali sul mare

Più di 7.000 chilometri di litorale italiani costituiscono un patrimonio naturale e sociale inestimabile con circa 25.000 concessioni demaniali legate a circa 12.000 stabilimenti balneari che insistono sui quasi 4.000 km di costa idonea per tale attività. Lo Stato incas-sa poco più di 100 milioni l’anno (103,2 nel 2016) dai canoni delle concessioni demaniali relative a stabilimenti bal-neari sulle spiagge e altre «concessioni lacuali e fl uviali a uso turistico-ricreati-vo». L’ammontare medio dei canoni an-nui per le sole concessioni rilasciate in ambito demaniale marittimo è di 6.106 euro/km2, per un ricavo, incredibilmen-te basso, così come fornito non troppo tempo fa nell’aula della Camera dal Ministro dell’Economia protempore, in risposta a un’interrogazione con la quale si sottolineava come, considerando tutti gli stabilimenti balneari presenti sulle spiagge italiane, lo Stato incassi in me-dia appena «4 mila euro all’anno a sta-bilimento», quando, secondo l’istituto di ricerca Nomisma il fatturato del settore della balneazione è stato nel 2007 di 15 miliardi di euro.

Le spiagge e la costa necessitano continua manutenzione e sono oggetto di azioni di erosione, che comportano, come avvenuto anche questo inverno, danni ingenti all’ambiente e all’impren-ditoria: è necessario mettere a frutto se-rie e ripetute azioni di cura e recupero, nel rispetto, sempre, del bene ambienta-le. Per il recupero delle spiagge in erosio-ne occorre, in particolare, perseguire una gestione integrata delle aree costiere, fa-vorendo forti sinergie tra il pubblico e il privato, avuto riguardo non solo ai fon-damentali interventi strutturali di ripa-scimento, ma all’implementazione di un ciclo virtuoso di monitoraggio e manu-

tenzione dei litorali, sulla scorta anche delle evidenze negative degli interventi sino a ora realizzati, per di più su spiagge alquanto “costruite”, caratterizzati in so-stanza da interventi emergenziali e dalla costruzione di barriere rigide (scogliere e pennelli di varia geometria), progetta-te solo per fermare o rallentare il moto ondoso, non sempre con successo.

7.4.2 Nuovi canoni del dema-nio idrico

Rivalutando la questione del demanio idrico, possono essere esatti canoni di con-cessione idraulica per occupazione e attra-versamento aree demaniali, sul reticolo sia principale sia minore, per poter pervenire al fi nanziamento delle misure, non solo di riduzione o compensazione, ma anche di contrasto al danno ambientale (alte-razione naturalità, rischio idraulico …). Sussistono peraltro criticità per il prelievo dei canoni così come un’eccessiva compli-cazione delle pratiche per l’ottenimento delle concessioni di attraversamento e per le costruzioni esistenti in fregio al fi ume o presenti sulle aree di espansione vincolate dal piano di bacino, come ponti e attra-versamenti che non rispettano la portata prevista dal piano di bacino, sottoservizi esistenti nelle golene aff erenti i fi umi.

A titolo di esempio, con misure di semplifi cazione quali pagamento per alcune voci (come ponti e attraversa-menti) di un canone unico forfettario, demolizione e ricollocazione delle opere che creano rischio eff ettivo, abolizione di concessioni per strutture in fregio ai fi umi, pagamento, per costruzioni esi-stenti autorizzate in fregio ai fi umi, di un indennizzo annuale per occupazio-ne di aree a rischio, si potrebbe creare un meccanismo virtuoso, come per le concessioni demaniali in genere, per un’economia circolare a livello naziona-le, per l’ottimale gestione del territorio e del demanio e per il fi nanziamento dei programmi delle misure nel rispetto degli obiettivi delle Direttive europee.

Da una stima eff ettuata dalla Re-gione Lombardia alcuni anni fa, già a seguito del primo progetto di recupero dei canoni, il gettito inevaso era quan-tifi cato pari al 95% del gettito esigibile in base alle opere esistenti a vario titolo costruite. La conoscenza delle criticità, connesse alla mancata fatturazione dei canoni, prima richiamate, sono emerse a seguito della realizzazione del primo progetto fatto in Regione Lombardia (Progetto Seveso) per recuperare i ca-noni evasi almeno per le le allora con-cessioni esistenti, pervenendo a stimare un importo annuale del gettito possibile

generato dai canoni variabile da 25 a 40 milioni di euro, riferendosi al solo al get-tito possibile generato dai corsi d’acqua primari di competenza regionale. Con-siderando anche il gettito ottenibile dai canoni dei corsi d’acqua secondari e dai navigli navigabili, passati nella compe-tenza di altri enti, la stima del gettito risultava molto più alta e superiore ai 100 M€ per anno per la sola Lombardia.

Regolarizzate le concessioni e defi -nito il gettito annuo, si ipotizzava l’an-ticipazione di parte dell’importo tren-tennale del fatturato complessivo dei canoni, cartolarizzando il gettito atteso dei canoni e dell’indennizzo presso enti fi nanziari, o attivando un mutuo tale che la rata capitale e gli interessi fossero pari al valore annuale del gettito da canoni e indennizzo o parte di questo. Il mutuo o la cartolarizzazione avrebbe permesso di progettare, appaltare, gestire e man-tenere sia le opere necessarie all’elimina-zione del rischio idraulico e del dissesto idrogeologico, sia le opere necessarie al rispetto della Direttiva 2000/60/CE, per la riqualifi cazione dei corpi idrici.

7.4.3 Politica di incentiviIl sistema basato su incentivi po-

trebbe non solo sostituire le forme di regolamentazione autoritaria, ma anche rappresentare un pungolo, per risolvere molti gravi problemi della società e del territorio e migliorarne la vita. Poten-ziando sempre l’informazione e la di-vulgazione e attraverso l’innovazione tecnologica e l’adesione volontaria, le singole persone e, sopratutto, le azien-de che operano sul territorio potreb-bero conformarsi ad azioni di tutela con impatto ambientale positivo e, nel contempo, essere premiate con incentivi (una sorta di cap and trade già impiegato per ridurre le emissioni), purché sempre nella sostenibilità ambientale. Il tutto in linea con l’Obiettivo 9 della Sustaina-ble Development Goals, SDGs che invita a costruire un’infrastruttura resiliente e promuovere l’innovazione e una indu-strializzazione equa, responsabile e so-stenibile. I contratti di fi ume sono, a tal fi ne, una prima soluzione.

8. RIFLESSIONE CONCLUSIVA

Secondo l’obiettivo 11.4 del SDGs occorre potenziare gli sforzi per pro-teggere e salvaguardare il patrimonio culturale e naturale del mondo e par-ticolare attenzione va posta nella piani-fi cazione, prevenzione, monitoraggio e gestione del territorio e dell’ambiente, evitando il degrado, riducendo e con-

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trastando l’inquinamento e progettan-do opere utili ed effi caci. È una vera e

propria sfi da alla conservazione e alla re-

sponsabilità, come ha ricordato Vandana Shiva, premio Nobel alternativo per la pace (1993): “Consapevoli che apparte-niamo a questo ciclo dobbiamo mante-nerlo. Se lo sconvolgimento dell’equilibrio

tra popolazione e risorse non è un fatto

di cui siamo ancora pienamente consape-

voli, essenziale è la partecipazione della società democratica ad attuare una “de-mocrazia del territorio e dell’ambiente”, con la quale assecondare la natura e non

opporsi a lei”. Le manifestazioni del 15

marzo, in 100 Paesi del mondo, in occasio-

ne dello “Sciopero Mondiale per il Futuro”

lanciato dal movimento dei giovanissimi e

degli studenti per la lotta al cambiamen-

to climatico, è un forte stimolo contro la

perdurante inazione. Già Cicerone aveva elaborato, nel terzo libro del De re publi-ca (52 a.C.), principi concreti derivanti dalla legge di natura. Il diritto non nasce dalle leggi positive, ma da un’unica leg-ge di ragione impressa nella natura alla quale devono essere conformi le leggi positive. La natura ha impresso in tutti gli uomini il sentimento della giustizia; dunque chiunque, attraverso la ragione, può giungere alla virtù e l’uomo non può violarla se non rinnegando la propria natura umana. Intervenendo anche sul-la normativa di settore, occorre avviare una vasta gamma di misure, in tempi e con fi nanziamenti certi e al passo con le esigenze del sistema Paese, così come adottare buone pratiche di imprendi-toria alla maniera di normali pratiche di gestione e valorizzazione del territo-rio, nell’ottica di un’effi cace strategia di prevenzione e sostenibilità, aff rontando virtuosamente e risolutamente l’esteso disagio del nostro “Bel Paese”.

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Valtellina, nove giorni do-po quel maledetto 18 luglio 1987, data che segnò l’avvio di una catena di eventi ri-

cordati, ancora oggi, come “l’alluvione in Valtellina”. Era il pomeriggio del 27 luglio e Giuseppe Zamberletti, allora Ministro della protezione civile, prima di rientrare a Roma dopo giorni di pre-senza continua sul territorio, aveva un chiaro obiettivo: non lasciare quei paesi, le istituzioni e i cittadini, senza avere de-ciso se riaprire o meno la Strada Statale 38 dello Stelvio. Una arteria vitale per la zona che, chiusa a causa dell’alluvione di Morbegno del 18 luglio, di fatto stava isolando l’intero territorio della Valle.

Mario Govi, geologo di fama e pre-stigio dell’Istituto di Ricerca per la Pro-tezione Idrogeologica (IRPI) che, con il Prof. Paolo Canuti, faceva parte del Gruppo Catastrofi Idrogeologiche pre-sieduto dal Prof. Lucio Ubertini, era sta-to incaricato dal Ministro Zamberletti di organizzare un ulteriore sopralluogo per fare il punto defi nitivo della situa-zione del Pizzo Coppeto, in quanto da giorni dava preoccupanti segnali di una possibile rimobilitazione del versante, che per giunta non era sottoposto ad alcun tipo di monitoraggio.

L’isolamento di Bormio e dei co-muni limitrofi , in quegli interminabi-li giorni, aveva fatto salire di molto la tensione sia negli amministratori locali sia nella popolazione: era piena estate, la stagione turistica ne stava risentendo pesantemente. Ciò che si chiedeva – e ci si aspettava – era un immediato segnale al tessuto imprenditoriale del territorio, avviando il ripristino e la riapertura del-le attività commerciali e turistiche. Di certo – almeno così dovevano pensarla molti amministratori pubblici, operatori economici e gestori dei vari servizi della Valle – queste aspettative non potevano essere frenate da uno “sparuto” gruppo di geologi che, per di più, stava facendo perdere tempo al Ministro Zamberletti.

La decisione era elementare: bisognava riaprire la strada, c’erano altri e “supe-riori” interessi economici per il territo-rio. Come poteva essere un problema la montagna che era lì da sempre?

Ho volutamente usato la parola “spa-ruto”. A quel tempo, infatti, nei servizi tecnici dello Stato, i geologi erano merce rara. Ricordo che al Dipartimento della Protezione Civile, quando fu costituito nel 1982 dal Ministro Giuseppe Zam-berletti, eravamo solo in due. Nello stes-so periodo, al Servizio Geologico Na-zionale, incardinato sotto il Ministero dell’Industria e del Commercio, erano in 14: non troppo meglio, visto anche il cuore dell’attività. Tre, invece, erano i geologi del Servizio Sismico Nazione che era sotto il Ministero dei Lavori Pubblici. Uno solo, infi ne, era nei ran-ghi dell’Istituto Nazionale di Geofi sica, misteriosamente vigilato dal Ministero della Pubblica Istruzione. Non esisteva ancora, invece, il servizio vulcanologico nazionale, mentre esistevano tre distinti centri di grande valore scientifi co che si occupavano di vulcanologia: l’Osser-vatorio Vesuviano di Napoli, l’Istituto Internazionale di Vulcanologia di Ca-tania e l’Istituto Geochimica dei Fluidi di Palermo.

Bene, quello “sparuto” gruppo di ge-ologi che nel pomeriggio del 27 luglio del 1987 era stato coinvolto dal ministro Zamberletti aveva tutti contro: ammi-nistratori locali, tecnici della viabilità, popolazione, associazioni di categoria commerciali e industriali. Anche la pressione mediatica – diversa da quella di oggi – non mancava aff atto.

Non nascondo che, insieme a Mi-chele Presbitero, geologo della Regione Lombardia, ci sentivamo schiacciati e isolati, ma facemmo quadrato intorno a Mario Govi, per il quale nutrivamo una grande ammirazione. Il contesto era oggettivamente complicato: sulla situazione di quel momento del Monte Coppeto, senza un sistema di monito-

raggio attivo, sapevamo poco o nulla, ma da noi ci si aspettavano lucide conside-razioni geologiche sulla pericolosità dei versanti.

La diffi coltà aumentava pensando anche alle numerose pressioni che il ministro Zamberletti in quelle ore sta-va subendo per riaprire la strada e con-sentire alla popolazione di tornare nelle proprie abitazioni. Tremavamo all’idea che il ministro potesse essere condi-zionato, nella sua imminente decisione, dalle spinte di opportunità politiche di poca lungimiranza.

Ecco lo “schieramento” della riunio-ne: oltre al ministro Zamberletti erano presenti l’allora Capo del Dipartimento della Protezione civile, Elveno Pastorelli, assistito dall’architetto Marco Faggioli della sua segreteria tecnica e dal sotto-scritto, Leonardo Corbo che all’epoca era il comandante dei vigili del fuoco di Milano, l’ingegnere Mariano Del Papa di ANAS, il sindaco di Bormio e il Ge-ologo Michele Presbitero della Regione Lombardia (Foto 1).

Al centro della stanza Mario Govi, con vicino una lavagna a cavalletto. Ecco come esordì: «Signor Ministro, la monta-gna in questo periodo respira e scarica lungo il versante decine di massi nel bosco fi no al fi ume Adda. La scongiuro di non riaprire la

Elvezio GalantiEx Dirigente del Dipartimento Nazionale di Protezione civileE-mail: [email protected]

Giuseppe Zamberletti, un grande italiano: il ricordo di un geologoGiuseppe Zamberletti, a great Italian: the memory of a geologist

Parole chiave: Ministro della Protezione civile, geologi, amministratori politici, frana della Val di PolaKey words: Minister of Civil defence, geologist, political administrator, Val di Pola landslide

Foto 1. Riunione del 19 luglio 1987 a Morbegno (SO). Il Ministro Zamberletti seduto, a destra il Geol. Elvezio Galanti insieme ad altri dirigenti della Protezione civile nazionale e Regionale

Geologia dell’Ambiente • n. 2/2019

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strada: può essere pericolosissimo. La prego, non apra la strada». Poi iniziò la descri-zione del sopralluogo eff ettuato e spiegò molto chiaramente che tutti gli indizi rilevati evidenziavano un evento franoso in atto e concorrevano a ipotizzare uno scenario di pericolosità elevata.

Ricordo, però, che le sue parole non distolsero in alcun modo il sindaco di Bormio dalla sua convinzione: la stra-da andava riaperta. I geologi potevano continuare con il loro lavoro, potevano continuare a studiare il fenomeno – dis-se – tanto la riapertura della strada non ostacolava le loro attività. Come se il la-voro del geologo fosse un’appendice, un qualcosa di aggiuntivo. In fi n dei conti, dicevano, la popolazione viveva nella val-le da secoli senza che fosse mai successo nulla. Credo che, molto ingenuamente ma in buona fede, gli amministratori locali davvero non immaginavano che quegli studi, quel monitoraggio, poteva signifi care la vita o la morte dei propri concittadini. Loro, all’epoca (ma forse anche un po’ oggi), avevano come unico timore le possibili critiche e la “ribellio-ne” da parte della popolazione, se l’iso-lamento fosse continuato.

Alla fi ne della riunione Zamberletti, con la sua sigaretta sempre accesa (un giorno gli ho contato tre pacchetti e 15 caff è) dopo aver ascoltato tutti si rivolse a noi: «sentiamo i nostri geologi» dis-se. Lì fu il nostro turno nel sostenere la posizione di Mario Govi: lui aveva pienamente ragione, la strada doveva restare chiusa per precauzione in attesa di organizzare una rete di monitoraggio del versante. Osservare il fenomeno a vi-sta garantendo la massima sicurezza per i cittadini che sarebbero tornati a vivere e transitare sotto il Pizzo Coppeto era impensabile. Ecco cosa dicemmo.

Sentire, al termine del nostro in-tervento, il ministro Zamberletti con-fermare l’ordinanza di chiusura della statale fu per noi un sollievo. Ricordo che, almeno a parole, nessuno dei pre-senti obiettò alcunché. In fi n dei conti, alla popolazione si poteva sempre dire che la decisione – non condivisa – era stata presa dal ministro di Roma. Ma le espressioni, gli sguardi, i volti tesi rac-contavano un’altra storia, una tensione evidente. E i saluti formali a Zamber-letti prima del suo rientro a Roma la sigillarono defi nitivamente.

Il risveglio la mattina seguente, il 28 luglio, fu uno shock. Nella notte, una impressionante quantità (circa 32 mi-lioni di metri cubi) di roccia e detriti si erano staccati dal versante dal Monte Zandila (in prossimità del Pizzo Cop-

peto) ed erano caduti nella valle dell’Ad-da ostruendola, con la formazione di un lago (Foto 2).

Ritornammo immediatamente a Sondrio: aereo Roma-Milano e da lì elicottero. Durante il volo nessuno commentò la riunione del pomeriggio precedente. Un mutismo pieno di an-goscia: prima di partire avevamo saputo che alcune persone, entrate senza auto-rizzazione nella zona interdetta, aveva-no trovato la morte. Ancor meno rifl et-temmo su ciò che sarebbe stata la nostra esistenza se avessimo ceduto – e con noi il ministro Zamberletti – alle pressio-ni della maggior parte dei responsabili delle pubbliche amministrazioni e degli enti che avevano partecipato all’incon-tro il giorno prima, storcendo il naso per la conferma dell’interdizione.

Non bastasse la complessità della situazione, nelle stesse ore Giuseppe Zamberletti venne sostituito da Remo Gaspari come Ministro della Protezio-ne civile. E non fu un passaggio indenne. Per noi, pienamente coinvolti nella ge-stione di quella emergenza, fu una botta: in quei momenti tutto ciò di cui si ha bi-sogno è avere chiaro chi coordina le atti-vità e di chi assume le decisioni compre-so il Capo Dipartimento all’epoca l’Ing. Elveno Pastorelli. Egli gestì l’attività del Dipartimento per alcuni mesi durante il passaggio delle responsabilità politiche, tra la gestione Zamberletti e la direzio-ne del nuovo Ministro, Remo Gaspari. In quei primi giorni, comunque, venne a mancarci il riferimento politico, spe-cialmente sul territorio nel rapporto con i Sindaci. Un nuovo Ministro porta sempre un cambiamento nella gestione della cosa pubblica che è chiamato a di-rigere, questo è normale ma lo è forse

meno quando ciò avviene nel pieno di una crisi emergenziale nazionale. Sareb-be un argomento di cui varrebbe la pena discuterne, ma non lo farò ora.

Solo negli anni successivi ho ripen-sato con più lucidità a quel pomeriggio del 27 luglio del 1987: cosa sarebbe suc-cesso se il ministro Zamberletti avesse ceduto alle pressioni locali e mediatiche e avesse deciso di riaprire la Strada Sta-tale 38 dello Stelvio? Ancora oggi mi vengono i brividi. Non solo per le conse-guenze sulle vite di intere famiglie e co-munità, ma anche per come la mia vita, professionale e personale, sarebbe stata devastata e profondamente cambiata.

Gli stessi brividi che provo pensando a quando, a gennaio, negli ultimi giorni della sua vita, lo vedevo in un letto di ospedale. Solo allora ho avuto il corag-gio di ringraziarlo per aver vissuto al suo fi anco tante esperienze professio-nali, morali e civili, fatte di successi e qualche sconfi tta. Volete sapere la sua risposta? Con un fi lo di voce: «La rin-grazio, caro Galanti, ma c’è ancora tanto da fare. Vorrei scrivere un libro su come è nata la protezione civile per far capi-re bene il valore del coordinamento in un mondo così complesso». Così, nella visita successiva con Lorenzo Alessan-drini abbiamo registrato il suo pensiero e conosciuto il titolo che avrebbe voluto dare al libro che non ha fatto in tempo a scrivere. È stato il suo ultimo dialogo sulla Protezione Civile.

Lavorando con Giuseppe Zamber-letti ho imparato a rispettare la Politi-ca, quella con la “P” maiuscola, quella Politica che ascolta i tecnici con spe-cifi che competenze professionali e che non pretende di sentire solo risposte di comodo. Quella Politica che vuole de-cidere, mettendoci la faccia, per le sorti della propria comunità, defi nendo delle priorità e pensando all’interesse gene-rale. Quando la Politica rimane un va-lore alto, anche le competenze tecniche e professionali si percepiscono parte di un sistema, sentono perciò di poter con-tribuire alle sorti del nostro Paese.

In questa prospettiva, che è la realtà delle cose e non le novelle immaginate dell’esistenza, vale la pena incoraggiare i colleghi geologi, visto che spesso le loro valutazioni potrebbero essere in controtendenza e/o antipopolari, a non mollare mai, anche di fronte a diffi coltà che potrebbero sembrare insormontabi-li. E qui ricorro ad una frase di un altro grande uomo politico italiano, Sandro Pertini: «Nella vita, a volte, è necessario lottare non solo senza paura, ma anche senza speranza».

Foto 2. Immagine di repertorio Frana della Val di Pola del 28 Luglio 1987

PRESENTAZIONE

L’Associazione culturale Sigea (Società Italiana di Geologia Ambientale), riconosciuta dal Ministero dell’Ambiente con D.M. 24 maggio 2005, nell’intento di promuovere la cultura della previsione, della prevenzione e della mitigazione dei

rischi geologici in Italia, organizza un convegno dal titolo “Analisi e attività di mitigazione dei processi geo-idrologici in Italia””. L’evento ricorre in occasione del trentennale della Legge 183/1989, prima normativa organica italiana sulla difesa del suolo. Il Convegno, indirizzato ai tecnici e ai ricercatori (geologi, ingegneri, architetti, agronomi, forestali, ecc.) interessati alla problematica del dissesto geo-idrologico, desidera coinvolgere le istituzioni, gli Enti pubblici e gli Enti di ricerca più impegnati nella previsione, prevenzione, monitoraggio e mitigazione del rischio geo-idrologico. Esso vuole affrontare in una chiave integrata e attuale i vari aspetti associati alla pericolosità geo-idrologica del nostro Paese, concentrandosi sui fenomeni franosi e alluvionali (che hanno prodotto, dal 1944 al 2012, numerose vittime e danni economici per 61,5 miliardi di Euro); sull’occupazione da parte dell’uomo delle zone pericolose; sugli interventi strutturali per ridurre la vulnerabilità dei beni esposti (e di conseguenza il rischio geo-idrologico) e sulla gestione dell’emergenza. Particolare attenzione sarà rivolta agli interventi non strutturali utili alla prevenzione del rischio geo-idrologico.

RICHIESTA DI MEMORIE - SCADENZE

Potranno essere proposte memorie scientifiche relative alle seguenti sessioni:1 Analisi e modellazione dei processi geo-idrologici: frane, alluvioni e sprofondamenti2 Evoluzione dei processi e sistemi di monitoraggio3 Interferenza dei processi geo-morfologici con strutture e infrastrutture4 Interventi strutturali e non strutturali per la mitigazione del rischioI contributi (massimo 10 pagine comprese tabelle e figure) dovranno essere inviati entro il 15 luglio 2019 all’indirizzo e-mail [email protected] seguendo le norme per gli autori disponibili sul sito http://www.sigeaweb.it/documenti/istruzioni-rivista.pdf.Gli autori riceveranno le valutazioni dei referee entro il 30 settembre 2019 e dovranno restituire il testo corretto entro il 15 ottobre 2019. Gli Atti del Convegno (presentazioni a invito e memorie accettate) verranno pubblicati su un supplemento in formato digitale della rivista ufficiale della Sigea “Geologia dell’Ambiente”.

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Pomarico (MT) - Ph Gianni Palumbo

SOCIETÀITALIANADI GEOLOGIAAMBIENTALE

Roma, 29 novembre 2019

Convegno Nazionale

ANALISI E ATTIVITÀ DI MITIGAZIONE DEI PROCESSIGEO-IDROLOGICI IN ITALIA

Organizzato dalla Società Italiana di Geologia Ambientale (Sigea)

Sala Convegni del CNR, P.le Aldo Moro, Roma

COMITATO PROMOTORENicola Casagli, Antonello Fiore, Fabio Luino e Luciano Masciocco

SEGRETERIA ORGANIZZATIVASigea

PATROCINI RICHIESTI

MATTM | ISPRA | CNR, ENEA | Consiglio Nazionale Architetti | Consiglio Nazionale Geologi | Consiglio Nazionale Ingegneri | Consiglio Nazionale Agronomi e Forestali | Ordine Geologi Lazio

| RemTech

Info: [email protected]