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Identità e ruoli di genere: riflessioni tra stereotipi e progetti educativi Venezia, 5 maggio 2014 ATTI DELLA TAVOLA ROTONDA GENER AZIONI Commissione per le Pari Opportunità tra Uomo e Donna

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Identità e ruoli di genere: riflessioni tra stereotipi e progetti educativiVenezia, 5 maggio 2014

ATTI DELLA TAVOLA ROTONDA

GENERAZIONI

Commissione per le Pari Opportunità tra Uomo e Donna

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A cura diServizi sociali, Ufficio per le Pari Opportunità - dirigente: Gloria Vidalitel. 041 5442727 – pariopportunita@provincia.venezia.itwww.pariopportunita.provincia.venezia.it

StampaCentro stampa Provincia di Veneziaottobre 2014

I testi contenuti in questa pubblicazione sono degli autori ed autrici indicati. In caso di utilizzo, si prega di rispettarne l’attribuzione.

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Il 5 maggio 2014 si è svolta a Venezia, nella sala del Consiglio provinciale di palazzo Ca’ Corner, una giornata di incontri dal titolo «GenerAzioni, identità e ruoli di genere: riflessioni tra stereotipi e progetti educativi». L’iniziativa si proponeva come momento conclusivo delle attività della Com-missione provinciale per le pari opportunità giunta in chiusura del mandato amministrativo provinciale 2009-2014 e si rivolgeva agli organismi di parità del territorio e al mondo della scuola. Il programma della giornata intende-va rispondere a diverse esigenze: fornire un panorama dei risultati raggiunti, concludere alcune attività intraprese e promuovere un confronto sul tema indicato. Il programma potrà essere consultato in appendice a questa pub-blicazione.In particolare, per attivare il confronto con la platea, con un occhio di riguar-do agli studenti e alle studentesse presenti all’incontro, è stata organizzata una tavola rotonda che ha visto la partecipazione di tre ospiti a vario titolo esperti del tema, con l’obiettivo di sondare quegli aspetti della nostra espe-rienza quotidiana dove si rivelino più o meno manifestamente gli stereotipi di genere sui quali esercitare appunto riflessioni e confronto.Sono qui riportati gli interventi delle tre personalità che, accogliendo l’invito della Commissione, hanno distintamente permesso di spaziare dagli aspetti di genere emergenti dai media (Saveria Capecchi), all’evoluzione di stereoti-pi e relazioni tra generi e generazioni (Barbara Mapelli), alla scoperta di una nuova soggettività delle donne e degli uomini “liberati” da frusti condiziona-menti (Stefano Ciccone).Un ringraziamento particolare alla presidente della Commissione, M. Elena Tomat, moderatrice della tavola rotonda e alla Consigliera di parità Annalisa Vegna, per aver caldeggiato entrambe la pubblicazione di questo opuscolet-to, confidiamo utile a rinforzare il piacere di quella conversazione per chi era presente alla giornata, ma altrettanto stimolante e d’interesse per gli altri e le altre.

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RELAZIONI *

Saveria Capecchiricercatrice in Sociologia dei processi comunicativiUniversità di Bologna pag. 7

Barbara Mapellidocente di Pedagogia di genereUniversità di Milano Bicocca pag. 15

Stefano Cicconeco-fondatore associazione “MaschilePlurale” pag. 21

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Avvertenza: ogni ospite, a rotazione, ha svolto due interventi, di cui il secondo è segnalato dalla pre-senza di tre asterischi ***. Il primo intervento invece, con esclusione di quello di B. Mapelli, è preceduto dall’introduzione della moderatrice, per mantenere il legame con l’apertura della relazione.

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SAVERIA CAPECCHIricercatrice in Sociologia dei processi culturali e comunicativi Università di Bologna

Introduce M. Elena Tomatpresidente Commissione provinciale Pari opportunità

Allora, io comincerei con Saveria Capecchi: ecco alcuni titoli delle sue pubbli-cazioni: “Il corpo erotizzato delle donne negli spot pubblicitari e nelle riviste di moda femminili” e “Che donna sei? Modelli femminili proposti dai media e di-battiti in corso”. Sulla base di questi titoli vorrei chiederle di darci una panora-mica, una fotografia dei modelli che vengono proposti alle ragazze e ai ragazzi da tutto quello che li circonda, perché in quanto prodotti sociali noi veniamo influenzati da video, da quello che leggiamo, da quello che sentiamo, da quello che ascoltiamo. Le passo la parola.

SAVERIA CAPECCHIAllora, innanzitutto grazie di avermi invitata e complimenti per le iniziative nelle scuole che mi sembra abbiano toccato proprio il fulcro dei discorsi che faremo anche noi relatori questa mattina. Io mi occupo da tanti anni di media e di genere, ho fatto tante ricerche sulla rappresentazione di genere nell’informazione, nelle soap opera, nelle pubbli-cità e vi propongo alcune riflessioni su questo tema fornendovi anche alcuni recenti dati di ricerca in modo da avere un quadro della rappresentazione di genere nei media un po’ aggiornato.

Abbiamo già sentito quanto sono importanti i media come agenzie di socia-lizzazione, tanto da affiancarsi al ruolo fondamentale della famiglia e della scuola e ci stiamo sempre più rendendo conto di quanta importanza hanno i media nel guidare i processi identitari, cioè nel fornirci delle sorte di istruzio-ni per aiutarci ad essere o divenire donne e uomini. E quindi le domande che dobbiamo un po’ porci – abbiamo già visto di quanti stereotipi di genere si-ano intrisi i contenuti dei media – ci dobbiamo chiedere quali sono i modelli

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femminili e maschili che vengono maggiormente enfatizzati e veicolati dai media e così anche quali modelli corporei, sia femminili che maschili, e quali, invece, modelli di comportamento, i modelli corporei vengono, sanzionati negativamente o totalmente ignorati. Quindi, che cosa presentano i media, che cosa, invece, escludono perché è molto interessante anche capire cosa non c’è nei contenuti dei media, per capire quali sono poi i valori, i modelli di comportamento, gli stili di vita che vengono maggiormente premiati. Cosa vuol dire “premiati”? Significa sanzionati positivamente. Vi faccio l’esempio dell’ultima ricerca che ho fatto su spot televisivi, RAI e Mediaset, la pubbli-cità premia un unico modello corporeo, per esempio, che sapete benissimo qual è il modello, l’ideal tipo corporeo femminile, quello della snellezza, ma anche quello di un corpo attraente che deve essere snello, giovane ed attra-ente, possibilmente giovane per sempre, che è qualcosa di impossibile.

Il premio, quello che la pubblicità promette, è il successo in ogni ambito della vita: con quel tipo di corpo avrai successo in amore, avrai successo nelle relazioni sociali, avrai successo anche nel lavoro, perché oggi sappiamo quanto sia importante l’immagine, la presentazione anche dal punto di vista estetico per lavorare. Attenzione ai vostri profili su Facebook perché vengo-no sempre più utilizzati anche dai futuri vostri datori di lavoro… Tutto quello che noi mettiamo in vetrina, questa presentazione del self che mettiamo anche online è qualche cosa che verrà poi giudicata, vagliata, secondo che cosa? Secondo dei criteri, dei canoni socialmente approvati che caratteriz-zano la nostra società. Andiamo un po’ al centro del tema andando a vedere alcuni risultati di ri-cerca che ci dicono quali sono poi i modelli prevalenti sia femminili che maschili.

Cos’è che la televisione mostra maggiormente per esempio? Parlo soprat-tutto di televisione perché riporto alcuni dati di ricerca del Censis sull’intrat-tenimento e l’informazione. Per esempio, le donne prevalentemente invitate nei programmi di infor-mazione e di intrattenimento sono soprattutto attrici, cantanti e modelle, attrici per il 56%, cantanti per il 25%, modelle per il 20%, e pochi altri tipi di donne. Tutte giovani, belle e con questo corpo erotizzato possiamo dire, cioè esposto consapevolmente anche al giudizio altrui. L’argomento princi-

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pale nelle conversazioni in questi programmi sono per il 38% la bellezza, la cultura al 6%, la politica per il 4%, così, giusto per dare… E poi c’è anche il tema della violenza fisica, perché nell’informazione le donne più che essere attrici, ecc., sono purtroppo, più spesso, vittime in una misura di quasi quat-tro volte più degli uomini, quindi è un’immagine di debolezza femminile che viene veicolata molto dall’informazione. E, quindi, quello che risulta è che si parla molto dell’aspetto estetico femmi-nile, non solo a queste donne che poi lavorano, le attrici, le cantanti, ecc., di queste donne si chiede poi soprattutto l’aspetto privato più che parlare del loro lavoro. Quindi, in generale, l’aspetto della professionalità della donna è molto ridimensionato, prevale diciamo l’aspetto più legato al privato e l’aspetto estetico.

C’è un’altra ricerca che vi voglio raccontare proprio in sintesi, recente del 2012 sulla pubblicità, sempre sulle reti RAI e Mediaset, su 573 spot sono emersi alcuni dati interessanti: intanto la voce fuori campo che descrive magari le caratteristiche dei prodotti e, quindi, anche lo slogan finale, che è quello che rimane impresso agli spettatori, alle spettatrici è per il 66% ma-schile; quindi per due terzi è ancora maschile, anche nel caso di quei prodot-ti che sono destinati prevalentemente ad un pubblico femminile, sia prodotti per l’igiene della casa che prodotti per l’igiene intima anche. E questo era uno degli elementi che veniva negli anni ‘60 e ‘70 molto contestato dalle studiose femministe che facevano ricerca di contenuto sulla pubblicità ed era uno degli aspetti che veniva più denunciato. Insomma: gli uomini hanno la parola, hanno sempre l’ultima parola e sono loro gli esperti su qualunque genere di argomento.

E poi è interessante vedere i modelli corporei della pubblicità, anche se lo constatiamo comunque tutti quanti come pubblico, però anche vederlo nero su bianco, con una ricerca che va a conteggiare, le donne sono tutte belle, magre, hanno per l’82% i capelli biondi e nell’84% dei casi gli occhi azzurri, cioè il modello della Barbie è effettivamente incredibilmente presente anche con questi dettagli particolari. Poi ci sono anche risultati, cioè indagini ri-spetto al tipo di inquadrature. Per esempio, le donne sono molto più riprese dalla telecamera in primissimo piano, il 66% delle donne contro il 33% degli uomini e ci sono zoomate sui dettagli del corpo nel 92% delle donne, l’8%

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degli uomini. Quindi, gli uomini non vengono zoomati perché non risultano i loro corpi, evidentemente, anche appetibili dal punto di vista del mercato. Anche se, bisogna dirlo, al di là di questi dati che ci restituiscono quello che tutto sommato già sappiamo, bisogna fare un discorso che in realtà è un pochino più ampio e più complesso. Un discorso in cui c’è un elemento di ambivalenza valoriale che è importante sottolineare, sennò saremmo ancora a parlare, a fare dei discorsi, un po’ legati agli anni ‘70.

In realtà, nei contenuti dei media a partire dagli anni ‘80 molto è cambiato, rispetto alla riproposizione di stereotipi rigidissimi, classici, in cui erano da sempre ingabbiati gli uomini e le donne perché gli stereotipi ci sono anche al maschile: l’uomo di successo è uno stereotipo, l’uomo esperto è uno stere-otipo, la donna casalinga è uno stereotipo, la donna oggetto anche. Quindi, a partire dagli anni ‘80, in realtà, i media non sono stati immuni dall’ondata del secondo femminismo, hanno accolto alcuni elementi e alcuni principi, li hanno poi però tradotti a modo loro, diciamo, tenendo conto soprattutto dell’importanza del mercato, degli aspetti commerciali. Che cosa ne è venuto fuori? È venuta fuori l’immagine di una donna che nel-la letteratura viene definita la donna moderna, cioè una donna comunque emancipata, indipendente, che in molti casi lavora, sessualmente audace, che prende l’iniziativa, è la donna della pubblicità dell’Oreal per esempio, “Perché io valgo”, è la donna autoaffermativa. Prendiamo un modello, il massimo modello fra i vip è l’Angelina Jolie, è quella che ha successo in tutti gli ambiti della vita, è super bella, ha un marito super bello, ha i figli, lavora, fa azioni umanitarie, cioè eccelle in tutti i campi. Questo è un po’ il modello della donna moderna o della super woman in questo ultimo caso.

E d’altro canto anche rispetto agli uomini c’è stata un’evoluzione nel senso che si parla di uomo nuovo, il new man, soprattutto nella pubblicità, cioè di un uomo che esprime i sentimenti, è più tenero rispetto ad un modello rigi-do secondo gli stereotipi veicolati fino agli anni ‘70. È un uomo che spoglia anche il suo corpo, che diviene anche in certi casi uomo oggetto. Prima è stato citato lo spot degli yogurt, ma ci sono anche con uomini oggetto al maschile, prendete lo yogurt “Mix” di Muller, c’è la donna che sceglie tanti gusti e ogni gusto è abbinato ad un uomo di razza diversa, quindi l’uomo oggetto è entrato nella pubblicità come nei contenuti dei media.

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Complessivamente, che messaggio viene veicolato? Viene veicolato il mes-saggio di una raggiunta parità fra i sessi, c’è una apparente parità tra i sessi, ruoli maschili e femminili sono interscambiabili, le donne tutto sommato possono fare ciò che vogliono, c’è un immaginario anche powerful al fem-minile che viene veicolato, non c’è solo la donna oggetto, ci sono anche le protagoniste di “Sex and the City” o di altre serie televisive, poi soprattutto quelle americane in cui le donne sono in carriera, ecc. ecc.

Qual è l’aspetto che fa discutere ancora oggi a livello nazionale e interna-zionale chi studia questi temi? È l’aspetto dell’ambivalenza di questi modelli. E perché sono ambivalenti questi modelli? Perché, si dice, sono modelli non femministi, sono modelli post femministi. E cos’è il post femminismo? Il post femminismo sarebbe, possiamo intenderlo anche tra gli altri significati che ha, come una sorta di reazione al femminismo, anche se dentro di sé acco-glie degli aspetti di parità. Quindi, la donna moderna è al pari degli uomini, però non disdegna certi elementi tradizionali come il romanticismo nel sen-so più tradizionale, per cui sogna di comprarsi l’abito da sposa da non so quanti euro. Ci sono per esempio adesso tantissimi programmi sugli abiti da sposa, sono tutti poi americani, non so se avete visto su “Real Time”… Impazza molto questa retorica del matrimonio, è ovviamente molto com-mercializzata, ma c’è di nuovo, così come la retorica che la donna è madre e quindi tanti programmi sulla maternità, ecc. ecc. E nello stesso tempo è una donna che fa molto shopping. I protagonisti di “Sex and the City”, anche se ormai è un po’ passata quella serie, avevano lo shopping compulsivo per cui è necessario essere alla moda oltre che essere belle, oltre che essere giovani, bisogna essere up to date, sempre aggiornate, alla moda e comprare tutti i beni possibili.

Voi capite che questo modello di donna è assolutamente funzionale al mer-cato, anche perché c’è lì, diciamo, l’aspetto più inquietante che viene veico-lato come messaggio, è quello di dire: una volta c’erano le donne oggetto e venivano ben identificate e adesso ci sono delle donne soggetto, abbiamo visto, che comunque se sono seduttive la sanno lunga, sono comunque au-daci, non si lasciano sedurre e però sono donne che scelgono consapevol-mente di esporre in primo piano il loro corpo, anzi, in tanti casi lo usano quasi fosse un’arma, oppure un mezzo di potere. Lo usano le ragazzine per

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ottenere lavoro, hanno interiorizzato questo messaggio che il corpo è im-portante anche per trovare lavoro e molte ragazze sfruttano questa possi-bilità. Dopo lì si apre il dibattito: dobbiamo informarle che non è proprio un atteggiamento femminista, oppure è bene che usino le armi che ci sono oggi a disposizione, che sono anche quelle del corpo per trovare lavoro, per farsi strada nella vita, ecc. ecc.? E, quindi, la pubblicità fa vedere una donna soggetto che però oggettiva il suo corpo. E allora su questo, su questi aspetti di ambivalenza a tutt’oggi c’è dibattito. Una studiosa – e chiudo qui questo primo giro – che si chiama Angela McRobbie, per esempio, sottolinea il fatto che il pericolo di questa immagine femminile, post femminista, è quello di dire alle ragazze: guardate, i diritti, i pari diritti sono stati già raggiunti, voi potete fare quello che volete, avete addirittura delle armi in più rispetto agli uomini perché potete usare il corpo come volete per raggiungere i vostri scopi.

Il rischio è quello di depoliticizzare il movimento delle donne e comunque di togliere la capacità di riflettere sulle disparità di genere ancora esistenti nel mondo del lavoro e sul privato. Quindi, è come uno specchietto per le allodole, i media ci danno questa immagine: voi potete fare tutto, voi donne, come gli uomini, al pari degli uomini, l’importante, però, è che abbiate un corpo perfetto, mantenuto giovane nel tempo. E questo è tutto sommato il vostro potere, cioè sta lì: non in qualità intellettuali o quant’altro, ma so-prattutto sul corpo.

***Io volevo puntualizzare alcuni aspetti, anzi, stressare quelli che sono gli “effetti collaterali” dell’esposizione ai contenuti dei media e, in particola-re, all’ideale di bellezza femminile perché sugli stereotipi abbiamo già detto molte cose, allora salterei questo aspetto - del fatto che i media sono ancora molto pieni di stereotipi - e andrei a vedere un po’ la questione dell’aumento della percezione negativa delle ragazze rispetto al proprio corpo. C’è una correlazione abbastanza stretta, evidente ed anche testata da molti studi, secondo la quale vedere questi corpi perfetti nei media porta ad avere una disistima rispetto al proprio corpo e, quindi, una percezione di essere senza dubbio più grasse, più vecchie, più brutte rispetto alla maggioranza dei corpi perfetti che ci sono in circolazione.

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Per inciso, ricordo che tutti i corpi che vedete nei media sono non solo selezionati in ingresso, ma anche ritoccati. Adesso mi dicono che anche nei profili Facebook ci sono ragazze che utilizzano dei software snellenti, quindi anche i profili Facebook in realtà sono ritoccati e c’è uno studio americano, che ho letto da poco su “Repubblica” che dice che da quando siamo tutti contagiati e abbiamo profili sui social network, è aumentata questa perce-zione negativa del proprio corpo, perché ognuno va a vedere i profili degli altri e sembrano tutti con i corpi migliori del nostro.

Quindi questo tema del corpo così legato, per quanto riguarda il femminile, all’identità e all’autostima è molto interessante e importante da esplorare nelle scuole. Per esempio, vi leggo alcune frasi di studentesse universitarie che avevo intervistato un po’ di anni fa legate al tema appunto della rap-presentazione del proprio corpo, della presentazione del proprio corpo e di come questo sia diventato una sorta di obbligo sociale, quello di avere un corpo da indossare come un abito, che deve essere perfetto. Allora, una ragazza dice: “Devo essere sempre perfetta, vestita, truccata e pettinata sempre alla perfezione, non devo avere neppure un capello fuori posto altrimenti non esco di casa”, questa è la prima. Andiamo avanti. “Curo il mio corpo oltre che per me stessa per la percezione degli altri, ho avuto un periodo in cui ero più in carne, cicciottella e ho notato che l’in-teresse nei miei confronti da parte della gente era calato. Ho adottato così una dieta per recuperare il mio peso forma ed è tornato tutto come prima, nuovamente inserita ed accettata dal gruppo. In questa società conta molto l’aspetto fisico, quindi perché trascurarlo?” Vi leggo l’ultima frase e poi fate voi i commenti che credete: “Credo che l’apparenza sia un importante biglietto da visita, utilissimo soprattutto per fare nuove conoscenze, ed avendo un corpo abbastanza definito non ho nessuna difficoltà né nell’indossare qualsiasi capo di abbigliamento né nel fare nuove amicizie, cerco di assomigliare ai corpi perfetti che si vedono nei media perché credo che siano molto belli e pure apprezzati dalla gente”.

Quindi diciamo che l’indossare, il costruire e poi indossare un corpo perfetto è diventato un accessorio, non una parte importante di sé, qualche cosa che è connesso con l’anima, con la personalità, con il modo di esprimersi liberamente, ecc., è come un abito: adesso, oggi, va il corpo così, va la moda,

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il corpo magro, snello, erotizzato, ecc., e io cerco di cucirmelo addosso, di indossarlo e faccio del mio meglio per vestire questo tipo di corpo, perché è ciò che la società mi chiede ed è diventato una sorta di nuovo obbligo sociale, in cui il tema che emerge è quello dell’obbligo e del senso del dovere, di sentirsi socialmente approvati ed accettati, se non ho quel tipo di corpo ecco che vengo esclusa. Gli ultimi casi di cyber-bullismo sulle ragazzine che non hanno un corpo conforme alla norma, che poi sono sfociati in suicidi purtroppo, ci dicono questa cosa: come tutti noi operiamo un controllo sugli altri, adesso che c’è poi il gioco dei social network ancora di più, e ognuno va a sanzionare ne-gativamente non solo il comportamento che non è socialmente approvato, ma anche il tipo di corpo che non è socialmente approvato, denigrando i corpi non conformi, e questo penso sia un tema interessante da esplorare nelle scuole.

Poi, un’ultimissima cosa che volevo dire, questa proposta che ho letto recen-temente di introdurre un’ora di educazione sentimentale obbligatoria nelle scuole, una proposta di una deputata di SEL, mi sembra molto interessante e che poi si sposa con i temi e anche con le lezioni sugli stereotipi di genere: educare ai sentimenti è un po’ quello che abbiamo detto tutta questa mat-tina, e sono già le vostre esperienze nella scuola, cioè educare soprattutto al rispetto dell’altro da sé e questa mi sembra una cosa molto più importante.

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BARBARA MAPELLIdocente di Pedagogia di genere presso l’Università di Milano Bicocca1

Elizabeth Badinter (L’uno e l’altra, 1986)il mutamento, o meglio la mutazione è il risultato del confronto dei desideri dell’uomo e della donna

Forse parlare di pedagogia e genere può tradursi nella ricerca di signifi-cati dell’essere e divenire donne e uomini nel contemporaneo e parlarne in termini di educazione significa pensare a come questo possa divenire conoscenza comune e personale, scambio e trasformazione nel tempo. E la locuzione ‘nel tempo’ significa due cose: il tempo biografico di ciascuno e ciascuna, la vita, nella quale cambiamo, continuiamo fortunatamente a mu-tare, e il progetto di donna o uomo che siamo o abbiamo dentro, si realizza, o prende altre direzioni, o perde orientamento o senso. ‘Nel tempo’ significa anche però una stagione più lunga, che comprende le nostre vite, ma in qualche modo le situa in un arco più vasto, nella continuità narrativa, fatta anche di crepe o strappi con le biografie di chi ci ha preceduto o viene dopo di noi. Ed è questo il discorso generazionale, che intendo intrecciare nella mia riflessione col tema dell’essere donne e uomini.

Riflettere sul fatto di essere donne e uomini può apparire una grande ov-vietà, ciascuno lo sa per sé ed è sotto gli occhi di tutti che il mondo è abitato da donne e uomini, se pure con profonde diversità all’interno di ciascun sesso, passaggi e variabilità, ma per comodità, per muoverci con relativa semplicità all’interno di un discorso già complesso manteniamo questa lo-cuzione ‘donne e uomini’. Ovvia, come dicevo, eppure la cultura diffusa ce la rimanda come un’EVIDENZA INVISIBILE, anche se è ‘una realtà che sta sotto gli occhi di tutti’ e molte cose si oppongono alla possibilità che venga riconosciuta veramente e valorizzata.

1 per espressa volontà dell’autrice si riporta l’intervento scritto di accompagmamento alla relazione svolta in voce.

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Un mondo, una società e una cultura – e la scuola e l’università, normal-mente, ne sono uno specchio, salvo meritevoli eccezioni di cui noi qui siamo un esempio – in cui il linguaggio, lo scambio tra persone, i modelli prevalenti sono tutti al maschile, o meglio fingono una neutralità, un’universalità, che in realtà sottendono un discorso e una cultura di un solo genere, e le donne nel tempo hanno dovuto faticare per riconoscersi e ritrovarsi in una falsa neutralità che di fatto le ha sempre negate, ci ha sempre negate, riferendosi a un modello di maschile egemonico, poiché è chiaro e lo sappiamo, che sotto alle scelte linguistiche, vi è una cultura che le influenza e le determina. Il linguaggio non è che la rappresentazione e l’esito, condiviso, delle culture e dei saperi che dominano in una società e civiltà, e cambia col mutare di queste stesse culture.Al tempo stesso, però, e può sembrare una contraddizione con ciò che di-cevo in precedenza, ma è quel che viviamo quotidianamente, esiste tutta una serie di pregiudizi e stereotipi tenaci, che assegnano al femminile e alle donne certi compiti e modi di essere e altrettanto al maschile e agli uomini: vere e proprie gabbie per ambedue i generi di dover essere e dover fare che limitano, talvolta dolorosamente, la libertà di ciascuno e ciascuna.

Divenire consapevoli di tutto ciò significa non negare certamente le diffe-renze che esistono tra le donne e gli uomini – credo che non ci interessi una società grigia e opaca di ‘identici’ – ma rendere queste stesse differenze non gabbie o limiti, bensì risorse di libertà per tutte e tutti, cui ciascuno e ciascu-na possa attingere, in cui possa crescere per la persona che è e desidera di-ventare, facendo riferimento e trasformando i patrimoni di culture, sapienze e pratiche che nei millenni hanno formato quella costruzione complessa che chiamiamo essere donne, essere uomini e che vive dentro e fuori di noi. Una costruzione culturale e sociale, che muta quindi nel tempo.

E torna il riferimento al tempo, come intendo trattarlo oggi con voi, il tempo delle generazioni, un breve lavoro di memoria, che racconta storie molto vicine, rintracciabili nella vita di ciascuno e ciascuna, o di chi ci è molto vicino o ancora più immediatamente nel qui e ora di questo incontro, in cui diverse generazioni si parlano e non è diverso da ciò che accade quotidia-namente a scuola, o in casa, in ogni momento della vita. Anche qui si tratta di un’EVIDENZA INVISIBILE e anche qui rifletterci può divenire una risorsa

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per ognuno, le persone di età diverse possono essere una risorsa le une per le altre: sapere da dove si viene può rassicurare su chi si è, il passato – e io mi concentro sul passato più vicino – può essere un riferimento, anche molto vitale, per la consapevolezza di sé, mentre per chi è più vecchio, come me, l’incontro con ‘nuove’ donne e ‘nuovi’ uomini significa non solo offrire stimoli per comprendere meglio il presente, ma getta nuova luce anche sul passato. Il presente può cambiare il passato, anche se sembra un’assurdità, può cambiarlo come esperienza per ciascuno, ciascuna di noi, trasformarlo in un sapere differente alla luce di quanto è avvenuto poi, per trarne nuovi ammaestramenti, per relativizzare ciò che, un tempo, siamo state tentate di assolutizzare – ed è stata una tentazione molto forte per le donne della mia generazione – ed è questo un aiuto, insostituibile, che ci offrono le gene-razioni più giovani. Ma tutto questo sarà più chiaro tra poco, quando farò degli esempi.

Intreccio dunque i temi dei due generi e delle generazioni per fare un breve passo indietro, in una narrazione collettiva, una storia, che ha visto presenti alcune di noi, quindi una storia non troppo lontana, che serve a tutte e tutti, io credo, per pensarsi nella propria storia personale, per comprendere quello che di questa storia più generale vive dentro ciascuno e ciascuna, come ha trasformato le immagini di mondo in cui viviamo e per comprendere quindi il nostro stesso essere in questo mondo.Non vi racconterò la storia del femminismo come temete e come sarei for-temente tentata a fare, lego però a quegli anni, a partire dagli anni Settanta del Novecento, quando io ero una giovane donna, i significati più importanti del cambiamento o meglio dei cambiamenti che caratterizzano ora la con-temporaneità, gli anni, il presente in cui ora noi ci stiamo parlando. Solo un’osservazione: il femminismo, che, al di là del folclore e delle maldicenze altro non è stato che il lavoro di ricerca delle donne su di sé per uscire da una condizione di minorità rispetto all’altro sesso (il diritto ad avere desideri per dirla con Badinter), di invisibilità alla storia (soggetti imprevisti), può nascere in quegli anni perché altri cambiamenti ci sono già stati: le tre condizioni. L’istruzione fondamentale.E il cambiamento c’è stato e ha mutato condizioni di vita e attese di sé nel presente e futuro, ha mutato le percezioni e autopercezioni di quel che

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significa essere donna, essere uomo, desiderarlo, divenirlo, ha mutato le re-lazioni tra i sessi private e sociali. Ed è stato anche rapido, soprattutto se confrontato con un passato sostanzialmente immobile rispetto alle conce-zioni di femminilità e mascolinità, ai destini dei soggetti sessuati.

Ma entriamo meglio nel merito di questo cambiamento, che riguarda il pre-sente, e quindi CI RIGUARDA, TUTTE E TUTTI, DI OGNI GENERAZIONE. Ciò che caratterizza questo cambiamento in particolare non è solo la sua rapi-dità, ma piuttosto la simultaneità, poiché convivono nelle immagini sociali e nelle immagini interiorizzate di sé delle persone, insieme con le forme ‘nuo-ve’, impreviste, dell’essere e pensarsi donne e uomini, le culture e le voca-zioni legate a tradizioni di femminilità e mascolinità, dalla storia così antica, da essere ancora vitali e costitutive delle identità anche di chi è più giovane, tanto da guidare vissuti, aspirazioni, da creare confusione e contraddizioni con le forme nuove, inedite di viversi donne e uomini. Chi ha vissuto, e si tratta della generazione di donne giovani negli anni Settanta, i momenti iniziali della scoperta, di una nuova ricerca di sé e di sé nel mondo - che poneva a critica radicale anche le lotte più radicali di chi contestava ogni forma di autoritarismo, come già dicevo, salvo quello maschile sulle donne - forse non poteva prevedere le forme di discontinuità, le contraddizioni che il mutamento avviato, proprio perché profondo, avrebbe generato. E, oltre a ciò, noi non potevamo prevedere che le donne più giovani, quelle nate negli anni Settanta, o dopo, venute al mondo e vissute in una realtà mutata proprio da quello che era avvenuto, avrebbero elaborato per sé im-magini diverse, diverse attese, diverse forme e aspirazioni di essere donne e di relazionarsi con gli uomini. E questa è la grande lezione che le nuove generazioni offrono a noi, donne del femminismo, quelle giovani negli anni Settanta (il presente che muta l’esperienza del passato).

Il cambiamento vero genera altro cambiamento e nel fluire del tempo e delle storie, collettive e individuali, si mostra difficilmente prevedibile, perché se genera un oltre e un altrove, inevitabilmente condurrà e si dirigerà ancora verso altri oltre e altrove, con scarti inizialmente poco percettibili, ma che poi possono portare lontano rispetto alle attese stesse e alle intenzioni di chi ha avviato il processo.Altri soggetti imprevisti, quindi, si sono presentati al mondo, le nuove don-

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ne e i nuovi uomini, figlie e figli di quel tempo e di quella proposta che le donne avevano fatto agli uomini, “il destino imprevisto del mondo sta nel ricominciare il cammino per percorrerlo con la donna come soggetto” (Carla Lonzi), ma che cercano la strada – più o meno consapevolmente – per in-terpretare la proposta secondo quel che loro sono, secondo quanto sanno o vogliono cambiare di sé e del mondo.La tematica dei generi, dunque, nel contemporaneo si intreccia necessaria-mente con quella generazionale, ma sono storie diverse quelle che riguar-dano un sesso e l’altro.Purtroppo, però – e lo sappiamo - università e scuola nel nostro Paese aiu-tano poco queste ricostruzioni di una storia in cui si intrecciano le storie e potrebbero ritrovarsi le biografie dei soggetti, più compiutamente iden-tificabili perché sessuati, resi riconoscibili a sé e ai percorsi comuni nelle appartenenze, se pure frammentarie e molteplici, di genere e generazione.E questo vale anche per i soggetti maschili, anche se altre e diverse sono le narrazioni nella storia degli uomini.

Ma se ho finora detto che ciò che caratterizza il cambiamento nella con-temporaneità è non solo la rapidità ma la simultaneità, vorrei aggiungervi anche la molteplicità, la possibilità di accesso a molti modelli di femminilità e mascolinità, cosa impensabile per il passato, soprattutto per le donne. Ma occorre fare attenzione, poiché questa apparente libertà nella quale sembra di poter scegliere felicemente il proprio progetto di donna o uomo presen-ta perlomeno due criticità, tra loro, come spesso accade, paradossalmente contradditorie: da una parte sembra esserci una gamma infinita di scelte, quasi un’indeterminatezza che può creare ansia, timore, dall’altra agiscono nella cultura diffusa potenti stereotipi, ne parlavo all’inizio, che sono tanto più potenti perché trovano terreno nelle immagini interiorizzate e contrad-ditorie a loro volta, come già dicevamo, che noi abbiamo dentro, di femmini-lità o mascolinità, che rendono confuso talvolta il progetto di donna o uomo che si vuole diventare. Certamente sono stereotipi, che vanno discussi e interpretati, ma indicano senza alcun dubbio, che al divenire donne e uomini si offrono ora possibilità multiple, che possono convivere, se pure creando contraddizioni nella stessa biografia, nei desideri della stessa persona.

La MOLTEPLICITÀ di cui dicevo, una caratteristica che, qualunque giudizio

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nel merito vi si dia, rende inediti rispetto al passato i percorsi di crescita, le scelte di giovani donne e uomini. Questa pluralità, questa accresciuta libertà, benché se ne riconoscano i condizionamenti, può generare ansie e timori, paralisi e confusione, e occorre offrire strumenti perché i giovani e le giovani sviluppino competenze interpretative del reale e di sé nel reale, perché trasformino le offerte molteplici in opportunità per sé, e questo è un indubbio e prioritario compito educativo.Culture, compiti e pratiche pedagogiche occorre, quindi, si fondino su que-ste nuove consapevolezze, sulle conoscenze/esperienze in cui si incrociano le traiettorie di vita individuale con le storie collettive.I saperi e le relazioni divengono educative nel momento in cui sono in grado di consentire quello scarto, quel movimento personale di autonomia che permette di crescere donna o uomo, quella donna o quell’uomo, individua-lità diverse da ogni altra, ma che (o proprio perché) sanno attingere alle risorse delle differenti culture del femminile e del maschile.

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STEFANO CICCONEco-fondatore dell’Associazione “MaschilePlurale”, coordinatore di ricerca del Parco scientifico dell’Università di Roma, Tor Vergata

Introduce M. Elena Tomatpresidente Commissione provinciale Pari opportunità

(…) Penso che dalla parità anche gli uomini abbiano molto da guadagnare.

Si tende a pensare che siano solo rivendicazioni delle donne, in realtà, invece, penso che gli uomini veramente abbiano tutta una dimensione da conquistare con la parità. Riguardo al sospetto di pedofilia vi segnalo il film, forse l’avrete già visto, “Il So-spetto”, questo film danese molto bello che era in corsa agli Oscar come migliore film straniero, proprio su questa questione molto delicata del sospetto di pedo-filia in un insegnante di scuola dell’ infanzia. Do la parola a Stefano Ciccone e gli chiedo appunto se queste questioni sono soltanto femminili o se gli uomini, invece, hanno o devono aver qualcosa da dire su questo.

STEFANO CICCONEGrazie. Tornerò su questo aspetto perché penso sia il tema centrale: troppo spesso continuiamo a ridurre il tema della riproduzione di condizionamenti e stereotipi legati all’appartenenza ad un genere, a “questione femminile” di cui si occupano le donne. Come uomini di “MaschilePlurale” cerchiamo di ragionare su questi condi-zionamenti perché abbiamo sentito e sentiamo nella nostra vita quanto in realtà vincolino anche la vita degli uomini e, quindi, ci sia un percorso da fare come uomini per liberarsi da quei condizionamenti e conquistare quella che Barbara Mapelli chiamava “la possibilità di essere quella persona unica, cioè un uomo, quell’uomo che rimane uomo, ma riesce ad esserlo in modo speciale, originale, individuale”. Vorrei, però, iniziare con una piccola parentesi.

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Ascoltando il lavoro fatto dalle insegnanti e quello svolto dalla Provincia su questi temi, penso che la complessità e la ricchezza di questi percorsi dimo-stri che è necessario dare continuità a questo lavoro, evitare degli interventi episodici, occasionali e, quindi, riconoscere che questo richiede elaborazio-ne, tempo e continuità. Io sono venuto circa 7 anni fa a Venezia, sempre invitato dalla Provincia, dalla Commissione Pari Opportunità. Ho incontrato anche altre operatrici che hanno lavorato a questa attività nel passato. Penso che non dobbia-mo perdere il lavoro che abbiamo fatto, non dobbiamo perdere memoria di quello che si fa, che si costruisce, si sedimenta e si elabora. Dobbiamo dare valore a questa attività perché non c’è solo lo stereotipo di genere, c’è anche un altro stereotipo molto diffuso che è quello che rap-presenta la spesa pubblica, la spesa per lo stato sociale come uno spreco da tagliare. Paradossalmente investiamo la scuola di una richiesta d’inter-vento sull’educazione di genere, sull’educazione alimentare, sull’abuso delle sostanze, sulla violenza, sull’educazione stradale, e così via ma al tempo stesso pensiamo che la scuola sia qualcosa a cui possiamo continuamente tagliare risorse, aumentare il numero di ragazzini per classe, tagliare i fondi per l’aggiornamento degli insegnanti. A me sembra che dovremmo evitare di essere così schizofrenici da conside-rare i dipendenti pubblici più o meno dei parassiti che rubano lo stipendio anziché quelle persone preziose che formano i nostri figli e le nostre figlie e a cui chiediamo di avere quell’intelligenza sociale, che, però non ricono-sciamo pubblicamente. Ancora oggi consideriamo il lavoro dell’insegnante – anche questo è uno stereotipo di genere – come una cosa che si può fare a mezzo servizio, che fanno le donne andando la mattina a scuola e poi facendo i lavori a casa.

Oggi, giustamente, acquista grande consenso la “cultura del fare”. Ma c’è “un fare” che taglia, che prende le scorciatoie, che prende le decisioni, che pensa di risolvere le cose con gli interventi legislativi e c’è “un fare” che, invece, è il fare quotidiano, che si prende cura delle relazioni delle persone, della loro formazione. A me piace più questo secondo fare, meno visibile, meno riconosciuto, forse meno decisionista che, però, nella quotidianità produce cambiamenti reali. Perché i cambiamenti si producono appunto in quella

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dimensione molecolare che riguarda i linguaggi, la relazione tra le persone, la formazione. Parlo di cambiamento perché mi colpisce che in questi giorni, il tema della educazione sugli stereotipi di genere nelle scuole - considerato in passato un’attività data per scontata, anzi un po’ noiosa – sia oggi diventato terreno di conflitto: la manifestazione dell’estrema destra al liceo “Giulio Cesare” a Roma, le opposizioni da parte di diverse associazioni con invito ai genitori a ritirare i propri figli da quando si parla di genere a scuola. Quella che era un’attività diffusamente data per scontata e sottovalutata, è diventata qualcosa di pericoloso o comunque oggetto di conflitto.È un dato su cui riflettere: ragionare criticamente sui modelli stereotipati di genere è un terreno di conflitto, su cui esistono diverse posizioni, diverse visioni della vita, del ruolo di donne e di uomini. Non è un terreno pacifica-to, ma sul quale si giocano poteri, ruoli e quindi conflitti. Questo ci porta a comprendere che non stiamo proponendo una mera integrazione tematica nell’offerta formativa ma facendo qualcosa che è trasformativo, che “spo-sta” equilibri, relazioni e culture nella società.

Nella discussione attuale sull’opportunità o meno di proporre un’educazione di genere nella scuola mi pare emerga un grande paradosso. In realtà, non esiste un’educazione che prescinda dal genere: l’abbiamo visto negli inter-venti precedenti. Siamo tutti continuamente immersi in un ambiente che fa riferimento ai modelli di genere: dal cartone animato alla pubblicità, dal modo di stare a scuola, al modo di vestirci e di parlare. Il problema non è dunque se la scuola debba o meno parlare di genere ma se la scuola debba o meno essere consapevole del fatto che siamo in questa produzione di senso che plasma i desideri, le prospettive esistenziali, i lin-guaggi, i corpi, le relazioni, le aspettative.È illusorio e fuorviante pensare un intervento neutro, che non affronti que-sto tema: l’alternativa è tra un fare scuola che riproduca in modo inconsa-pevole dei modelli stereotipati oppure offra degli strumenti per leggerli e disvelarne la falsa naturalità. Di fronte alle mille “agenzie formative” e sorgenti di messaggi che bombar-dano un bambino o una bambina - la pubblicità, la scuola, i cartoni animati, gli amici, i parenti, la città e via di seguito – gli insegnanti vivono spesso

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un senso di solitudine e impotenza a cui credo sia utile costruire strumenti condivisi per decostruire questi stereotipi, per riuscire ad analizzarli. Prima ancora di offrire degli strumenti a bambini e bambini è necessario pensare processi di consapevolezza per gli e le insegnanti.

A me è piaciuto molto che le insegnanti dicessero che prima ancora di pro-vare a ragionare su quali siano i contenuti da proporre in classe, la cosa più importante sia fare un proprio percorso di consapevolezza, sui modelli e le aspettative che ognuno di noi ha introiettato e che riproduce inconsapevol-mente. Riproduciamo modelli fissi di genere non solo attraverso i contenuti didattici ma nel come ci si veste, nel come trattiamo i ragazzini e le ragaz-zine, nelle strategie di affermazione del proprio ruolo, per conquistare l’at-tenzione, la fiducia, l’ascolto in una classe: di tipo seduttivo, di tipo materno, autorevole, accogliente. Credo dovremmo riflettere di più sulla potenzialità di cambiamento di que-sto intervento: andando spesso nelle scuole sento al contrario il rischio che venga percepito dai ragazzi(come quelli che oggi sono in questa sala), come una proposta normativa e conformista: “Adesso venite qui a dirci cosa è giusto, cosa è sbagliato e a farci la predica sulle buone maniere” “Bisogna rispettare le donne, condannare la violenza, evitare discriminazioni”. Una sorta di lezioncina retorica di buone maniere e politicamente corretto. Io penso sia necessario ribaltare questa percezione. Quando facciamo per-corso critico sugli stereotipi di genere nella scuola non stiamo proponendo nuove regole: stiamo soprattutto rendendo percettibili quelle regole invisi-bili che condizionano ognuno di noi. Quello che proponiamo non è quindi un intervento normativo ma che tenta di disvelare quelle regole invisibili che fanno sì, ad esempio, che anche nella scuola un maschio si senta a disagio a comportarsi in un certo modo, che una femmina si senta a disagio ad essere additata in un certo modo. La scuola, come abbiamo detto, deve non solo riflettere sui propri contenuti e le proprie forme di relazione, ma deve anche fornire strumenti per decodi-ficare i messaggi prodotti altrove.Nell’analisi della pubblicità è ad esempio necessario vedere come questi ste-reotipi si riproducano, come è stato giustamente ricordato, in forme nuove. Anche in questo caso credo non si tratti di assumere un approccio morali-

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stico e normativo limitandosi a denunciare i troppi corpi nudi femminili nella pubblicità, ma proporre un’analisi della rappresentazione che viene proposta di quei corpi.

Il problema più che corpi nudi è quanti corpi sono rappresentati come “muti”; spesso viene fatto giustamente osservare che oggi anche i corpi maschili sono esposti nella pubblicità. Proprio questa novità - non abbia-mo purtroppo la possibilità di far vedere delle immagini - ci permette di osservare come il nodo non sia l’esposizione in sé del corpo nudo ma il messaggio ad esso associato: in quelle pubblicità il corpo maschile nudo è rappresentato comunque come un corpo forte di una propria soggettività. Se analizziamo la rappresentazione del corpo degli uomini proposta nelle pubblicità di costumi o profumi, ci accorgiamo che si tratta di uomini cer-tamente belli, seminudi, ma che hanno una loro presenza molto attiva nel mondo: spezzano catene, si tuffano nel mare, guardano l’orizzonte, vanno sul surf, affermano con sguardi determinati il loro ruolo di campioni sportivi. Sono dunque uomini belli ma che non dipendono dallo sguardo femminile per stare al mondo: al contrario le donne, che siano vestite, nude o seminude sono rappresentate dipendenti dall’approvazione e dallo sguardo maschile per esistere in quanto tali.

Il problema è dunque non tanto quanto i corpi siano scoperti ma che idea di asimmetria di soggettività tra i sessi proponiamo. C’è una pubblicità di un salame che forse qualcuno avrà visto: ci sono una bambina e un bambino, di 5 anni, c’è la mamma che affetta questo salame e il bambino prende prima una fettina di salame e poi ne prende due, si siede sulla panchina, arriva la bambina, gli fa gli occhi dolci, si appoggia in modo molto seduttivo sulla sua spalla e il bambino le dà una fetta di salame. La pubblicità finisce dicendo: “L’uomo è cacciatore”. In questa pubblicità non c’è nessuna scena di nudo, non c’è nessuna donna esposta, ma il messaggio ci dice: tu, uomo, devi ave-re un patrimonio per avere la disponibilità femminile, tu donna devi mettere in gioco la tua disponibilità e la tua seduttività per ottenere i dividendi del potere maschile che si concretizza in soldi o autorità. Questa pubblicità mol-to carina, molto innocente, in realtà dice che il destino delle donne è piacere agli uomini per ottenere qualcosa e il destino degli uomini è avere qualcosa da scambiare per ottenere la disponibilità femminile.

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Anche un’idea che declina la libertà delle donne come libertà di giocare la seduzione sul mercato contiene un elemento di rottura rispetto alla ne-gazione della libertà sessuale femminile ma rischia di contenere in sé un messaggio contraddittorio : “Il tuo patrimonio è il tuo corpo e tu te lo puoi giocare sul mercato. Questa è una libertà che hai, ma non hai la libertà di uscire da questa dimensione”. In questo messaggio, nuovo forse per le donne, c’è un’idea che io come maschio conosco bene, di scissione tra sé e il proprio corpo. Il corpo non sei te, il corpo è un tuo strumento, un tuo patrimonio, un oggetto che tu puoi mettere in gioco. Io come maschio so che il corpo per me è la macchina della mia prestazione che sia sessuale, lavorativa o sportiva. Io sono abituato a pensarmi padrone del mio corpo. Oggi diciamo alle donne che anche loro sono padrone del proprio corpo e se lo possono giocare sul mercato, ma senza cambiare i ruoli. I ruoli rimangono quelli di un desiderio maschile che detta le regole e un patrimonio femminile del corpo che si può giocare nel mercato. Le ragazze oggi nelle scuole, sanno che se non sei dentro quel mercato, se non sai giocarti in quella dimensione sei una “sfigata”, ma non emerge un’i-dea di libertà che metta in discussione le radici di questa rappresentazione.

Questa immagine, per esempio, di accoglienza e di disponibilità femminile, è proposta nella pubblicità citata ma torna nell’immagine che proponeva Barbara: se entro in una scuola dell’infanzia e vedo che a prendersi cura di bambini e bambine sono solo donne, anche se i contenuti di quella scuola diranno una cosa diversa, quella scuola fisicamente dice che il destino delle donne è prendersi cura e che gli uomini sono inabili a prendersi cura. Questa divisione di ruoli rimanda anche all’immagine di un corpo maschile portato-re di un desiderio potenzialmente pericoloso, un corpo non capace di cura e di accoglienza come quello femminile che al tempo stesso viene rappresen-tato accogliente, oblativo, silenzioso. Il desiderio femminile è rimosso.

Parlare di genere, dunque, non vuol dire annullare le differenze, ma liberare le differenze dalla loro rappresentazione stereotipata e fissa e soprattut-to contrastare l’obbligo all’omologazione. La differenza non è solo quella tra donne e uomini, ma anche quella che io posso giocare nel mio essere maschio. Al contrario l’unica possibilità di differenza è omologarmi ad un

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modello maschile fissato. Questa rappresentazione mi impone di essere come gli altri, di essere mimetico nel desiderio e nei comportamenti e mi im-pedisce quello scarto di cui parlava Barbara: essere altro, essere me stesso. Questa riflessione non riguarda specifici contenuti disciplinari, non riguarda solo oggetto dell’insegnamento, ma il modo in cui stiamo nello spazio, come noi pensiamo a noi stessi.

Qualche giorno fa in un’altra iniziativa sui temi dell’educazione si affronta-vano parallelamente i temi dell’educazione stradale, dell’educazione alimen-tare e dell’educazione di genere ecc. A proposito di progetti tesi a incentivare una corretta alimentazione è stato presentato un esempio molto carino contro l’abuso delle merendine. C’e-rano Giovanni e Giuseppe. Giovanni aveva una mamma in carriera, quindi ambiziosa, che usciva di mattina presto in tailleur, di fretta, e gli dava la merendina per colazione e una da portare a scuola, mentre Giuseppe aveva una mamma amorevole che gli faceva la fettina di pane, olio e pomodoro e che la sera gli preparava le verdurine sempre in modo fantasioso. In quell’immagine proponevano che non bisogna mangiare le merendine, ma stavano dicendo che quella madre che metteva in gioco il proprio de-siderio nel lavoro è una cattiva madre che ti farà abbuffare di merendine, anziché prepararti la fettina di pane e pomodoro. Come possiamo proporre nelle scuole un discorso che interpreti e rafforzi il desiderio di libertà delle persone e non un approccio normativo?

Questo sforzo è molto più difficile rispetto ai maschi: perché? Perché dob-biamo superare la semplificazione di un racconto secondo cui il tema che stiamo affrontando è l’esistenza di una discriminazione delle donne rispet-to al diritto a realizzarsi nel lavoro, nella politica, ecc. e di un predominio maschile che andrebbe messo in discussione. è evidente che la disparità di poteri, diritti e opportunità tra donne e uomini è una realtà che non può essere misconosciuta.Ma credo che dovremmo provare a dire a ragazzi e ragazze che non basta fermarsi a garantire pari opportunità tra donne e uomini, ma che l’obiettivo è la libertà delle persone, anche la libertà di ogni singolo uomo ad essere se stesso.

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Ma c’è un altro elemento di difficoltà nell’affrontare questi temi con i ragazzi ed è il carattere ambiguo della trasgressione. Quando parliamo di questi temi nelle classi l’atteggiamento dei maschi è sempre di imbarazzo, di nega-zione o di ostentazione della propria trasgressività. Dovremmo cominciare a scavare in quella trasgressione maschile che torna nella costruzione dei ruoli di genere per cui le bambine non si possono sporcare, mentre i maschi sì, i maschi possono fare casino, possono essere volgari, esuberanti: se a 12 anni non fai le schifezze, non dici le volgarità, non urti le ragazze, non sei un maschio! Quanto, per i maschi, la trasgressione è un obbligo?Quanto sporcarsi, essere volgari, è in realtà parte della riproduzione di regole e ruoli di genere? Pensate ad un’altra trasgressione come “le parolacce”, gli insulti che si usa-no nelle scuole. L’insulto - che per un maschio fondamentalmente è essere omosessuale, per una ragazza è essere una poco di buono - dice a quel ma-schio e a quella femmina : “ti devi comportare in un certo modo altrimen-ti sarai oggetto della disapprovazione, dell’ironia, del discredito degli altri pari”. Anche quei comportamenti che vengono pensati come trasgressivi, le parolacce sono trasgressive, in realtà sono produttori di regole invisibili e rigidissime che generano discriminazione, sofferenza, emarginazione. Sono veri e propri dispositivi di controllo: pensate a quanto sia forte la paura maschile per la perdita della virilità. La virilità è qualcosa che ti dà un privi-legio, ma che è sempre sotto scacco, sempre pericolosamente precaria: devi continuamente dimostrare di essere un uomo; potresti essere considerato un omosessuale, un uomo incapace, un uomo che non è in grado di auto mantenersi, eccetera eccetera. Esiste dunque una pressione, è forte su ogni maschio a conformarsi a a rigidi modelli di genere pena la perdita della propria identità sociale.

Io penso che dovremmo provare parlare al desiderio di libertà dei ragazzi e dei maschi. E ho l’impressione che anche nella rappresentazione del femmi-nismo, della riflessione delle donne su questi temi, produciamo un’immagine che allontana ragazzi e ragazze, perché da un lato rischia di rimandare alle ragazze un’idea di minorità femminile, di donne vittime o deboli. Come ap-punto nei racconti di questa mattina è forte la resistenza a identificarsi con i soggetti “sfigati” e discriminati. Nelle scuole le ragazze dicono: “Ma io non

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sono così, io ormai sono libera, autonoma e non voglio che mi rimandi in faccia questa immagine di donna discriminata”. Al contrario, i ragazzi dicono una cosa simile: “Io non mi riconosco in questa immagine oppressiva, in questa immagine di maschile insensibile, gretta-mente legato a un modello tradizionale”.È importante leggere l’ambivalenza dell’affermazione di un maschio che dice: “Io non sono così come mi rappresenti”. Non afferma infatti linearmen-te la propria diversità rispetto a una tradizione maschile stereotipata”, ma al contrario può diventare la via per un ritorno a una difesa di quell’universo: ‘devo difendere’ - tra virgolette - il buon nome del maschile rappresentato sempre in modo oppressivo, stereotipato e negativo.Se vai nelle scuole le ragazze dicono “io non sono femminista perché non sono contro i maschi”, e i maschi dicono “no, il femminismo parla male degli uomini”. Non conoscono un femminismo che parla della libertà di donne e uomini. Ma in questa reazione c’è una potenzialità: c’è la ragazzina che non vuole avere il destino di sua madre di andare a raccogliere l’acqua al fiume e poi di continuare a raccogliere acqua al fiume; ma forse anche il deside-rio di giovani maschi di non rassegnarsi al destino, di quello che si siede in poltrona a leggere il giornale, di quello che sta sempre fuori casa, che è obbligato ad andare sul lavoro e dimostrare sul lavoro la propria virilità, di quello continuamente schiacciato dall’ansia della prestazione sessuale, dalla competizione con gli altri maschi.

Forse possiamo dire che anche gli uomini possono scartare da quel destino segnato che gli ha dato un potere, ma gli ha anche tolto molta libertà, ha impoverito la qualità delle relazioni con gli altri uomini, con le donne, con i propri figli, con se stessi e con il proprio corpo. Ecco, io penso che dovremmo evitare di parlare soltanto in termini di pari opportunità tra donne e uomini e parlare di più di libertà di donne e uomini di essere se stessi.

***Ho già parlato abbastanza, quindi faccio solo delle osservazioni puntuali su cose che mi hanno colpito. Intanto, vi do un’informazione: il 20 settembre a Roma ci sarà un incontro nazionale di tutte le esperienze che stanno lavorando sui temi dell’educa-

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zione di genere nelle scuole; e credo che sia utile avere un momento anche nazionale di confronto tra tutte le esperienze, di scambio di materiali, di contenuti, di metodologie, di problemi. In queste ultime settimane si sono moltiplicati gli incontri di riflessione su questi temi segno di un desiderio di confronto.

Una nota sul tema dell’educazione sentimentale nelle scuole. Io sono con-vinto del fatto che l’educazione di genere non può essere, come abbiamo detto, riservata in una certa ora, ma è un tema trasversale. Nello stesso tempo, può essere utile pensare uno spazio in cui offrire strumenti e occa-sioni di riflessione su questi temi che altrimenti restano nel non detto e nel non pensato. Anche uno spazio. La scuola è lo spazio in cui vivi gran parte della tua vita, le tue relazioni affettive, gli amici, il tempo ma dove non hai modo di parlare delle domande che riguardano la tua vita: fai lezioni di sto-ria, italiano, geografia e matematica, ma della vita delle persone non si parla mai. Forse può essere utile avere un’ora non di educazione sessuale, come si è sempre pensata, medicalizzata, biologizzata, ma per riflettere criticamente sulle modalità di relazione tra i sessi. La cosa che mi ha colpito è che in Commissione alla Camera è stato chie-sto di modificare questa proposta di legge chiedendo che non prevedesse la scuola dell’infanzia e la scuola elementare, le scuole medie, ma solo le scuole superiori, perché di certi temi è un po’ sconveniente parlarne quando si è piccoli. Ma abbiamo visto che i modelli stereotipati di genere vengono invisibilmente proposti e imposti sin dalla nascita.Non solo: sappiamo benissimo che tutti i ragazzi e le ragazze vedono pub-blicità, pornografia, film di tutti i tipi, violenza, ecc., ma a scuola dobbiamo ipocriticamente dire: “Di questa cosa non si parla e di questa cosa non si tratta”.

C’è poi un’ulteriore motivazione nell’ostilità allo sviluppo di un lavoro didat-tico sui generi nelle scuole. La denuncia fatta contro l’insegnate del liceo “Giulio Cesare” a Roma è dovuta a un retropensiero abbastanza significativo: “Si fa propaganda all’omosessualità”. Si propone cioè l’idea che se leggo un brano di letteratura che racconta non di un amore eterosessuale, ma di un amore omosessuale il ragazzino che mi ascolta diventerà omosessuale. Come se dire a ragazze e ragazzi: “esistono persone omosessuali, esistono

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relazioni omosessuali e devi accettare questa differenza, misurarti, acco-glierla e riconoscerla”, rischi di far diventare qualcuno omosessuale. Questo allarme è peraltro paradossalmente contraddittorio con l’afferma-zione che la naturalità corrisponda alla rigida distinzione di genere e all’e-terosessualità obbligatoria e parla molto di questa paura, di una precarietà e fragilità delle identità che costruiamo: una naturalità tanto fragile che basta che qualcuno ne parli a scuola, per cambiare il proprio orientamento sessuale.

Vorrei in conclusione fare due osservazioni sugli interventi dei ragazzi che, in modo diverso, si riferivano alla compresenza di ragazze e ragazzi nella scuola. Io sono molto convinto del fatto che vivere a scuola quotidianamen-te il confronto tra ragazzi e ragazze arricchisca la qualità del modo di stare insieme, di pensare e di relazionarsi e che vivere in luoghi monosessuati sia qualcosa del tutto innaturale e che distorce anche il percorso formativo.C’è però qualcosa di sottinteso nella battuta fatta da un ragazzo che mi ha colpito. Lui, ridendoci giustamente su, diceva: “Nella mia scuola i maschi sono degli animali”. Questa sembra una battuta ironica, ma rimanda all’idea che i maschi siano un po’ delle bestie che hanno bisogno dell’attenzione e della cura femminile per civilizzare quella bestialità. In una scuola un ragazzino, di 11 anni, diceva: “Io lo so che i maschi hanno una bestia dentro di loro, che sono portati ad avere questo desiderio in-governabile, e bisogna capire come mettere in gabbia questa bestia”. Noi abbiamo una rappresentazione di una antropologia negativa - per cui homo homini lupus, gli uomini sono lupi per gli altri – che non è asessuata: gli uomini hanno questo desiderio, questa voracità, questa violenza che può trovare solo nella relazione col femminile un modo per ingentilirsi. Questa rappresentazione parla molto dell’immagine che come uomini ab-biamo di noi stessi: un’idea che il nostro corpo, il nostro desiderio, la nostra sessualità, il nostro sguardo sia portatore di una natura ferina, di una natura violatoria, bulimica, che consuma i corpi delle donne.

C’è tanto da lavorare sul nostro immaginario, che se volete è lo stesso im-maginario che ci fa dire: esiste una dimensione della sessualità maschile bassa, degradata, un po’ animale, che si sfoga con la prostituta e poi esiste la sessualità nobilitata dall’amore e dalla finalità procreativa che metto in

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gioco con la mia donna, che amo e che rispetto. Questa distinzione tra donna per bene e donna per male in realtà parla di una scissione che gli uomini vivono dentro di sé. Io penso che noi come maschi paghiamo questa scissione e forse dovremmo provare a far pace col nostro corpo, col corpo di maschi. Non a caso, la ma-nifestazione dei gruppi neofascisti a Roma contro l’iniziativa del liceo “Giulio Cesare” diceva: meglio maschi selvatici che checche isteriche. Il maschio brutale, come ho cercato di dire, in realtà non è per niente selvatico, libero: è intruppato nel gruppo dei maschi rudi e virili, minacciati dal rischio, se non si segue quel modello, di diventare una checca isterica, un non uomo. Un potentissimo dispositivo di controllo e di condizionamento su ogni maschio.

Altra osservazione molto più veloce. Tu dicevi: “da noi si fa informatica” rife-rendoti all’idea che ancora ci siano materie considerate da maschi e materie da femmine. Questo per molto tempo e ancora oggi interdice l’accesso delle ragazze a percorsi di studio storicamente maschili. Ma ormai la barriera si è rotta. Nel nostro immaginario una donna che fa l’avvocato, l’ingegnere, l’in-formatica non perde la sua dimensione sessuata, possiamo disapprovare o meno che quello è un lavoro da uomini o da donne. Pensate, invece, quanto incrina l’immagine di virilità l’idea che quell’uomo nella vita cambi pannolini e faccia le pappine, che faccia l’insegnante nella scuola dell’infanzia.

Io ho lavorato a Bolzano sul tema della concessione dei congedi di maternità e molti uomini rinunciavano al congedo di paternità e dunque al diritto di godere di giorni liberi retribuiti. Abbiamo fatto delle interviste a questi uomi-ni da cui emrgeva pressappoco questa risposta: “la mia autorevolezza come maschio, la mia autorevolezza professionale viene incrinata dal fatto che io stia a casa a fare le pappine, che stia lì a lavare il sedere di mio figlio e di mia figlia, perché è una cosa poco virile”. Non a caso io che lavoro come tecnico all’università sono considerato pro-fessionalmente meno autorevole perché vado a parlare di cose da femmine in giro, perché non parlo di cose importanti e di cose da uomini.

Questa riflessione riguarda molto la costruzione dell’identità maschile e cioè l’idea che ci siano dei luoghi, dei saperi e delle professioni che gli uomini hanno visto come il luogo di costruzione della propria identità: dei luoghi

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maschili, dei saperi maschili, dei mestieri maschili che garantivano una ge-nealogia e un percorso di costruzione e conferma dell’identità maschile. A fronte dell’incrinarsi di questa genealogia cresce la rappresentazione sociale di una minaccia: professioni, competenze, saperi che vengono invase dalle donne, donne che diventano ingegneri, donne che diventano avvocato e che ti tolgono quei luoghi che ti rassicuravano.

Non è una banalità: un ragazzo in Canada che ha ucciso 14 donne entrando in un college nel quale era stato escluso dalle selezioni per entrare a Inge-gneria ha giustificato il proprio gesto più o meno con queste parole: “Per-ché le donne stanno invadendo tutti i posti degli uomini”. Questa reazione rimanda all’idea che la tua identità di maschio non sia un’identità che trovi dentro di te ma ti è confermata dall’esterno perché fai un mestiere da uomo, perché hai una genealogia con altri uomini, perché condividi un sapere con altri uomini. A fronte di questa affermazione dominante e al tempo stesso di precarietà dell’identità maschile che ha bisogno di luoghi, ruoli, saperi, professioni che ti confermino che sei maschio, forse dovremmo riprenderci l’idea di essere maschi perché ognuno si inventa il proprio modo di essere maschio.

Io credo che questo sia il nodo su cui dovremmo ragionare: riflettere su quanto inconsapevolmente raccontiamo il cambiamento tra donne e uomini come una minaccia per gli uomini e per la loro identità. Dovremmo invece raccontarci quanto possa essere un guadagno possibile per la vita degli uo-mini. Ma è qualcosa che facciamo ancora fatica a dire a noi stessi.

PROgRAmmA

ore 10.10La Commissione per le scuole: A proposito di genere… formazione docenti a.s. 2013-2014Alessandra Tosi, Elena Danielformatrici – Il Sestante di Venezia soc. coop.

ore 10.30Tavola rotonda conSaveria Capecchiricercatrice in sociologia processi culturali e comunicativi Università di BolognaBarbara Mapellidocente di pedagogia di genere Università di Milano BicoccaStefano Cicconeassociazione MaschilePlurale

ModeraMaria Elena Tomat

ore 12.30Marina Balleello presidente del Consiglio provincialeintroduzione al concorso “Che genere di scuola”, segue premiazione

ore 9.45BenvenutoFrancesca Zaccariottopresidente della Provincia di VeneziaGiacomo Grandolfoassessore alle Pari OpportunitàClaudio Tessariassessore IstruzioneDomenico Martinodirigente Ufficio ScolasticoTerritoriale di Venezia

IntroduzioneMaria Elena Tomatpresidente Commissione Pari Opportunità

ore 9.30 Accoglienza

ATTI DELLA TAVOLA ROTONDA

GENERAZIONI

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centri stampa della provincia di venezianovembre 2014