GAZZONI - Il Contratto in Generale

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CONTRATTO E NEGOZIO GIURIDICO 1. La vicenda storica. Art. 1321: il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale . Il codice civile prevede una disciplina generale comune a tutti i contratti tipici e atipici (art. 1323) ed inoltre una disciplina specifica per taluni contratti. La disciplina generale è poi estesa agli atti unilaterali in base al disposto dell’art. 1324, secondo cui, salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale. Il contratto è dunque al centro del sistema mentre in nessuna norma il legislatore fa riferimento, diretto o indiretto, al negozio giuridico. La teoria negoziale è nata come parte della teoria del soggetto di diritto e scaturisce dalla dottrina pandettistica tedesca. Nel codice del 1865 il contratto era regolato nel terzo libro, tra i modi di acquisto e di trasmissione della proprietà, quella proprietà che costituiva il centro attorno a cui ruotava l’intero sistema del diritto privato. La teoria del negozio giuridico contribuì dunque ad una diversa costruzione che vedeva al centro del sistema il soggetto e la signoria del volere. Il contratto si rivelava strumento cardine della nascente impresa e dunque si cominciò ad ipotizzare la rilevanza del dichiarato prima ancora che del voluto. La dichiarazione prevaleva sulla volontà in caso di contrasto. L’opera è stata completata dal legislatore del 1942 che ha posto il contratto al centro del sistema, svincolandolo dalla proprietà. Tutto ciò è stato senza dubbio anche il portato inevitabile della riunificazione della legislazione fino ad allora divisa tra un codice civile e un codice di commercio, divisione che aveva creato due diverse categorie di cittadini non uguali di fronte alla legge, essendo le vicende degli uni regolamentate diversamente rispetto alle vicende degli altri. Questa realtà si è però modificata in virtù di leggi di attuazione delle direttive comunitarie, a tutela del consumatore non imprenditore o professionista, che si presume debole. Egli è tutelato dall’art. 1469bis, per quanto riguarda la disciplina generale, e dal d. lgs. 206/2005 per quanto riguarda quella speciale. In tal senso, sia pure con la rinnovata prospettiva, si sta ricreando l’antico dualismo tra atti civili e atti di commercio, tanto che comunemente ormai si distingue tra contratti dei consumatori e contratti commerciali o di impresa. 2. La teoria del negozio. 1

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CONTRATTO E NEGOZIO GIURIDICO

1. La vicenda storica.

Art. 1321: il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale.

Il codice civile prevede una disciplina generale comune a tutti i contratti tipici e atipici (art. 1323) ed inoltre una disciplina specifica per taluni contratti.

La disciplina generale è poi estesa agli atti unilaterali in base al disposto dell’art. 1324, secondo cui, salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale.

Il contratto è dunque al centro del sistema mentre in nessuna norma il legislatore fa riferimento, diretto o indiretto, al negozio giuridico. La teoria negoziale è nata come parte della teoria del soggetto di diritto e scaturisce dalla dottrina pandettistica tedesca.

Nel codice del 1865 il contratto era regolato nel terzo libro, tra i modi di acquisto e di trasmissione della proprietà, quella proprietà che costituiva il centro attorno a cui ruotava l’intero sistema del diritto privato. La teoria del negozio giuridico contribuì dunque ad una diversa costruzione che vedeva al centro del sistema il soggetto e la signoria del volere. Il contratto si rivelava strumento cardine della nascente impresa e dunque si cominciò ad ipotizzare la rilevanza del dichiarato prima ancora che del voluto. La dichiarazione prevaleva sulla volontà in caso di contrasto.

L’opera è stata completata dal legislatore del 1942 che ha posto il contratto al centro del sistema, svincolandolo dalla proprietà. Tutto ciò è stato senza dubbio anche il portato inevitabile della riunificazione della legislazione fino ad allora divisa tra un codice civile e un codice di commercio, divisione che aveva creato due diverse categorie di cittadini non uguali di fronte alla legge, essendo le vicende degli uni regolamentate diversamente rispetto alle vicende degli altri. Questa realtà si è però modificata in virtù di leggi di attuazione delle direttive comunitarie, a tutela del consumatore non imprenditore o professionista, che si presume debole. Egli è tutelato dall’art. 1469bis, per quanto riguarda la disciplina generale, e dal d. lgs. 206/2005 per quanto riguarda quella speciale. In tal senso, sia pure con la rinnovata prospettiva, si sta ricreando l’antico dualismo tra atti civili e atti di commercio, tanto che comunemente ormai si distingue tra contratti dei consumatori e contratti commerciali o di impresa.

2. La teoria del negozio.

La teoria del negozio non è più al centro del sistema. La disciplina del contratto domina sovrana quando c’è patrimonialità, con forza espansiva che va al di là dell’art. 1324. Interessi superindividuali possono infatti essere perseguiti da norme imperative in particolari settori privatistici.

La forza espansiva della disciplina contrattuale si manifesta anche in settori pubblicistici, quale quello penale. La giurisprudenza penale è concorde nell’applicare al patteggiamento della pena i principi sulla conclusione del contratto.

3. La disciplina del negozio unilaterale.

Sul piano disciplinare, il codice civile si occupa del negozio unilaterale in talune norme di carattere generale. Di rilievo è l’art. 1334 secondo cui tali negozi producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza della persona alla quale dono destinati. Con tale regola si traccia, in sostanza, la distinzione tra negozi recettizi (che sono destinati a terzi) e negozi non recettizi o non indirizzati. La recezione da parte del terzo è ritenuta dalla dottrina sicuramente essenziale, ma secondo taluni, per la stessa perfezione della dichiarazione, di cui costituirebbe così coelemento, secondo altri, invece, per la mera efficacia dell’atto, tesi questa senza dubbio più corretta. Il negozio unilaterale, sul piano del perfezionamento della fattispecie non può che dipendere in ogni caso dall’emissione della dichiarazione. La recezione da parte del terzo, dunque, si situa sul piano degli effetti costituendone condizione essenziale cosicché se si vuole attribuire ad essa un ruolo costitutivo dovrà dirsi che la costitutività è degli effetti e non della fattispecie. La dichiarazione solo se

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recettizia può essere revocata purché la revoca pervenga al destinatario prima della dichiarazione stessa. Viceversa è del tutto irrilevante la morte o l’incapacità sopravvenuta. La conoscenza della dichiarazione costituisce un mero fatto giuridico cosicché sarà del tutto irrilevante che essa sia acquisita in seguito a violenza o a frode esercitata dal dichiarante.

L’art. 1335 fissa poi una presunzione relativa di conoscenza. La dichiarazione si reputa infatti conosciuta quando giunge all’indirizzo del destinatario, salvo che costui provi di essere stato, senza colpa, nell’impossibilità di averne notizia.

L’art. 1414 estende poi la disciplina della simulazione ai negozi recettizi che siano simulati per accordo tra il dichiarante e il destinatario.

Infine l’art. 428 disciplina l’incapacità naturale con riguardo ai negozi unilaterali, comminando l’invalidità per il solo caso di grave pregiudizio.

Non esiste altra regola di carattere generale, sicché per la disciplina dei singoli negozi dovrà aversi riguardo a quanto dettato di volta in volta dalle specifiche norme. Poiché peraltro la normativa speciale è sempre tendenzialmente lacunosa nascono numerosi problemi che vanno risolti con l’applicazione diretta e non già analogica o estensiva, della disciplina generale del contratto, temperata dal criterio di compatibilità di cui all’art. 1324.

Accesa è la discussione in ordine alla necessità della forma scritta, non già nel caso in cui il negozio unilaterale produca immediatamente uno tra gli effetti previsti dall’art. 1350 o sia prevista una forma volontaria ex art. 1352 per gli atti che seguono la conclusione di un contratto o dimissioni o debba applicarsi una norma espressa, ma nel caso in cui il negozio unilaterale sia collegato ad una vicenda di per sé rientrante nella previsione del predetto art. 1350.

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LE FONTI DEL REGOLAMENTO CONTRATTUALE

1. L’autonomia contrattuale.

Autonomia significa facoltà di autoregolamentare i propri interessi.

In termini giuridici il problema è quello di verificare il rapporto che sussiste tra autonomia e ordinamento.

Prima ancora deve verificarsi se gli effetti giuridici sono frutto diretto ed immediato della volontà del privato ovvero si producono solo in seguito al comando normativo.

Teoria volontaristica. Secondo una prima impostazione è la stessa volontà privata a dar vita agli effetti giuridici, cosicché non sussiste alcuna dialettica tra volontà del privato e volontà della legge, dal momento che il ruolo svolto dall’ordinamento è unicamente quello di porre dei limiti esterni all’autonomia contrattuale, limiti costituiti dalla contrarietà a norme imperative, ordine pubblico e buon costume.

Teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici. Tale teoria costruisce il contratto come un ordinamento a sé stante disciplinato dalla regola posta dai contraenti. Tale ordinamento è bensì caratterizzato da elementi propri ed autonomi ma cede all’ordinamento statuale attraverso la potestà giurisdizionale e sanzionatoria di pertinenza esclusiva di quest’ultimo. Ma se si passa dalla fase statica a quella dinamica, e dunque alla giurisdizione che ha il compito precipuo di tutelare l’accordo, l’ordinamento statuale finisce per dettare esso stesso le condizione alle quali una data operazione economica può divenire giuridica. L’importanza della teoria è dunque essenzialmente quella di aver chiarito come l’attività dei privati è creativa sul piano sociale e pregiuridico, ponendo così in evidenza i legami strettissimi sussistenti tra realtà sociale e ordinamento statuale.

Teoria della costituzione a gradi (Kelsen). Altra teoria, sempre al fine di giustificare il ricollegarsi degli effetti contrattuali alla volontà dei contraenti, anziché porre in luce l’esistenza di un ordinamento dei privati, rilevante socialmente, ha dato vita ad un sistema pan-pubblicistico di carattere esclusivamente normativo.

L’ordinamento giuridico sarebbe quindi la risultante di una sorta di scala costituita da: Costituzione, legislazione ordinaria, giurisdizione, atti amministrativi, realizzazione dell’atto coattivo sanzionatorio come conseguenza dell’illecito.

L’atto coattivo ha dunque il carattere di pura esecuzione mentre il presupposto della Costituzione ha il carattere di pura posizione di norme. Tutto ciò che è intermedio, viceversa, è contemporaneamente posizione ed esecuzione del diritto: posizione per quanto riguarda la fonte sottordinata ed esecuzione per quanti riguarda la fonte sovraordinata.

Con il contratto (e più in generale con il negozio giuridico) le parti pongono norme concrete per regolare il comportamento reciproco in attuazione delle regole statuali. Anche in tal caso, dunque, vi è attuazione del diritto di grado superiore e creazione di una nuova regola, questa volta singola e atta a disciplinare solo il rapporto intersoggettivo. Tale regola si impone alla giurisdizione, nel senso che il giudice deve solo accertarne l’osservanza o l’infrazione. Questa teoria risente di una impostazione filosofica sostanzialmente pessimistica in quanto vede nella coazione un male necessario al fine di indurre l’uomo ad un comportamento giusto. Proprio per la sua astrattezza e scissione dal momento sociale, questa teoria rende le sue conclusioni inaccettabili.

Teoria del negozio come fattispecie. In senso diametralmente opposto si esprimono quelle dottrine che attribuiscono all’ordinamento giuridico in via esclusiva il potere di fissare gli effetti negoziali. L’impostazione più radicale riduce l’iniziativa privata alla configurazione di un mero schema di fatto, una fattispecie che è di fronte alla legge come morta, pietrificata. Il contratto apparterrebbe pertanto all’arbitrio individuale per il tempo che dura la sua confezione ma una volta raggiunto il necessario sviluppo esso entrerebbe nel dominio della legge a cui spetterebbe di fissare in via esclusiva gli effetti giuridici a tutto concedere avendo riguardo all’intento perseguito dai contraenti.

Teoria precettiva. La più accreditata delle teorie, se riconosce all’ordinamento statuale il compito esclusivo di fissare gli effetti del contratto, ritiene però che l’autonomia privata detti il regolamento vincolante. Da

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questo punto di vista la teoria in esame esplicitamente afferma che l’autoregolamento dei privati è in grado di dar vita ad un precetto, cioè ad un ordine, il quale però, sarebbe originario ed indipendente rispetto alla statualità, non si porrebbe alternativa ai poteri e alle funzioni statali, né darebbe vita ad un ordinamento in senso tecnico. In tal modo la teoria si distingue da quella della pluralità degli ordinamenti giuridici e da quella della costituzione a gradi ma non già da quella della fattispecie se non per l’attribuzione di un valore sociale all’autoregolamento. Solo l’ordinamento stabilisce quali effetti, nel campo giuridico, possono essere prodotti dall’autoregolamento, perché se si prescinde dalla giustiziabilità, c’è rapporto non già giuridico, ma amicale.

2. Contenuto ed effetti. L’art. 1374.

Nell’ambito del titolo II del libro IV dedicato ai contratti in generale, si disciplina innanzitutto il c.c. contenuto del contratto, mentre al capo V se ne disciplinano gli effetti.

Art. 1372: il contratto ha forza di legge tra le parti. Alla cui stregua i privati sono delegatari della potestà normativa. In realtà la c.d. forza di legge altro non significa se non irretrattabilità o immodificabilità unilaterale, salvo i casi previsti dalla legge o dall’autonomia privata.

Molto importante è invece il disposto dell’art. 1374, il quale recita: il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o in mancanza secondo usi e equità.

La tesi tradizionale ritiene che dal contratto non possono derivare conseguenze che non si riallacciano alla volontà delle parti, salvo che sia presente nella pattuizione privata una lacuna che la legge, gli usi e l’equità hanno la funzione di colmare con un intervento dunque di carattere esclusivamente suppletivo.

L’art. 1347 assume un diverso significato: quello di indicare quali sono nel nostro ordinamento le fonti che disciplinano il regolamento contrattuale, indicando con tale espressione l’insieme dei precetti che vincolano i contraenti non solo in base a ciò che essi hanno pattuito ma anche in base a ciò che detta la legge o, se del caso, l’uso e l’equità. A fianco alla fonte autonoma si pongono dunque le fonti eteronome (legge, usi, equità).

Il fatto che il contratto non esprima più l’ideale giusnaturalistico della signoria della volontà non significa che esso abbia perduto le caratteristiche di atto di autonomia. Quello che è venuto meno alla volontà dei privati è il monopolio nella costruzione dell’assetto di interessi vincolante, cioè della regola contrattuale.

Bisogna tener conto delle modificazioni sociali nonché di favorire un sempre maggiore adeguamento dello strumento contrattuale alle esigenze economiche via via mutevoli della società. In tal senso può parlarsi del contratto in termini di strumento a plurimo impiego, assolvendo esso, a fianco a quella tradizionale di manifestazione di autonomia privata e di autoregolamentazione, alla funzione di mezzo per il perseguimento di interessi superindividuali.

3. La legge e i limiti all’autonomia contrattuale.

Il richiamo alla fonte legale operato dall’art. 1374 deve intendersi ricognitivo e riassuntivo di tutti i singoli richiamo alle singole norme di legge integratrici del contratto.

Dal punto di vista del richiamo alla legge, l’art.1374 non costituisce una innovazione o una previsione aggiuntiva rispetto a ciò che si potrebbe già desumere da una analisi della normativa positiva. È infatti evidente che detto art. 1374, richiamando la legge, non può che far riferimento alla legge puntuale: in caso contrario, operando l’analogia legis e iuris, la legge non potrebbe mai mancare, cosicché l’inciso “in mancanza” non avrebbe più senso né sarebbe più possibile dare rilievo alle ulteriori fonti eteronome (usi ed equità). La singola norma puntuale di legge è dunque in grado di esercitare la propria funzione non già in quanto sussiste il richiamo di cui all’art. 1374 ma per il valore vincolante che intrinsecamente le è proprio, cosicché la funzione del richiamo stesso è solo quella di rendere stabile ed istituzionale ciò che, altrimenti, sarebbe qualificabile come eccezionale.

L’autonomia contrattuale ha modo di esplicarsi pienamente da più punti di vista e precisamente:

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a) Libertà di concludere o meno il contratto;b) Libertà di fissare il contenuto;c) Libertà di scegliere la persona del contraente;d) Libertà di dar vita a contratti atipici.

a) Talvolta il contraente non è però libero di contrarre ma vi è obbligato o dalla stessa volontà privata o dalla legge (c.d. obbligo a contrarre). Nel primo caso (ad es. il contratto preliminare) all’inadempimento consegue, almeno di regola, non già il mero obbligo di risarcire il danno ma la possibilità per la parte adempiente di ottenere una sentenza costitutiva che sostituisca il contratto non concluso, cosicché è difficile considerare il vincolo come frutto di autoregolamento. Nel secondo caso, poiché è la stessa legge che pone l’obbligo, la predetta difficoltà di accresce. È l’ipotesi ad esempio dell’obbligo a contrarre a carico di chi esercita un’impresa in condizioni di monopolio legale. In tale eventualità l’imprenditore dovrà stipulare con chiunque richieda le prestazioni tipiche dell’impresa, osservando la parità di trattamento (art. 2932).

Egualmente è da dirsi per il caso di servizi pubblici di linea (art. 1679).

Analogo fenomeno è ravvisabile per quanto riguarda l’assicurazione obbligatoria per i autoveicoli e i natanti a motore. In tal caso la legge impone a tutti i proprietari dei detti mezzi l’obbligo di stipulare un contratto di assicurazione contro i danni arrecati a terzi in seguito alla circolazione.

In questi casi la ratio nella limitazione normativa è chiara. Si vuole garantire il consumatore di fronte al monopolista o al concessionario di un pubblico servizio ovvero il cittadino di fronte ai danni da circolazione autoveicolare.

Vi sono peraltro ipotesi in cui non sussiste un interesse pubblico in senso stretto ma egualmente l’ordinamento interviene ipotizzando modificazioni patrimoniali conseguenti ad un accordo che è non già libero ma vincolato sotto il profilo quanto meno dell’onere e non dell’obbligo a contrarre. Si pensi al modo con cui si costituiscono le servitù coattive. (quando in forza di legge il proprietario di un fondo ha diritto di ottenere da parte del proprietario di un altro fondo la costituzione di una servitù, ad esempio di passaggio in caso di interclusione del fondo, questa, in mancanza di contratto, è costituita con sentenza, art. 1032).

In termini meramente economici eguale discorso può farsi per l’ipotesi di comunione forzosa del muro sul confine ex art. 874.

b) La libertà di fissare il contenuto del contratto è espressamente stabilita dall’art. 1322, il quale però ne restringe l’ambito con riguardo ai limiti imposti dalla legge. I contraenti possono utilizzare uno schema tipico recependo i contenuti normativi ma nel contempo ampliandone la portata ovvero restringendola liberamente, se la disciplina è derogabile, ovvero, quando la legge lo prevede per talune norme inderogabili, con assistenza.

La libertà del contenuto è a tal punto tutelata, in linea di principio, che la legge permette ai privati anche di deferire a terzi il potere di determinare la prestazione dedotta in contratto (art. 1349), prestazione che è parte essenziale del regolamento pattizio.

Inoltre la libertà di modellare il contenuto del contratto si apprezza particolarmente nel caso di contratti misti, atipici e anche collegati.

Nel caso dei contratti misti i privati utilizzano una pluralità di schemi tipici al fine di dar via ad un assetto di interessi che risulta in parte mutato da una certa disciplina tipica, in parte da un’altra.

Nel caso di contratti atipici invece la disciplina concreta è frutto di un’autonoma “invenzione” dei contraenti non suscettibile di inquadramento in alcuno degli schemi regolati dalla legge.

Nei contratti collegati bisognerebbe aver riguardo piu propriamente alla più vasta operazione economica realizzata dai privati con un collegamento funzionale tra due o più contratti di per sé autonomi sul piano contenutistico.

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L’autonomia contrattuale anziché incontrarsi può talvolta scontrarsi con l’ordinamento giuridico quando i principi travalicano i limiti di confine posti a tutela degli interessi collettivi, limiti costituiti alla contrarietà alle norme imperative, ordine pubblico e buon costume. In tale eventualità l’operazione economica non può essere giuridicizzata, con conseguente denegazione di garanzia giurisdizionale in caso di inadempimento. A fianco di questa limitazione se ne pone un’altra in qualche modo assai più penetrante. L’art. 1339 prevede un tipo di intervento diverso dalla nullità, perché nei casi contemplati da tale norma la legge anziché comminare la nullità (anziché cioè negare giuridicità al rapporto) mantiene in vita il contratto sostituendo però le clausole private difformi con quelle prefissate legislativamente. In tal modo i privati rimangono legati tra di loro da un assetto disciplinare che non è certo più frutto esclusivo di autoregolamentazione.

Vi sono poi interventi correttivi affidati, nella sostanza, al giudice, in virtù del richiamo all’equità e alla clausola generale di buona fede, interventi che rispondono ad una sorta di “paternalismo contrattuale”.

La legge prevede anche un altro tipo di intervento, volto ad ampliare il contenuto del contratto pur sempre a prescindere dell’accordo. È il caso dell’art. 1340, il quale statuisce che le clausole d’uso si intendono inserite nel contratto se non risulta che non sono state volute dalle parti.

Inoltre in questo contesto va segnalato il disposto dell’art. 1341, secondo cui il contenuto contrattuale può anche essere, sia pure in parte, unilateralmente fissato da un contraente mediante predisposizione di condizioni generali di contratto che sono efficaci e dunque vincolano l’altro contraente non predisponente se costui le aveva conosciute o le avrebbe dovuto conoscere usando l’ordinaria diligenza. In tal caso, come si vede, il contenuto del contratto non è più frutto esclusivo di accordo.

Infine può ricordarsi che talvolta il contenuto del contratto è bensì frutto di una proposta e di un’accettazione (e quindi un libero scambio di volontà) ma tale scambio avviene con riferimento ad un contenuto prefissato da uno dei due contraenti mediante la predisposizione di moduli o formulari.

c) La legge talvolta interviene non già obbligando il soggetto a contrarre, ma obbligandolo a stipulare con una data persona. È il caso della prelazione legale prevista a tutela di talune posizioni ritenute dall’ordinamento meritevoli di protezione e di preferenza rispetto a quella dei terzi. Così se il coerede vuole alienare ad un estraneo la sua quota o parte di essa, deve notificare la proposta di alienazione indicandone il prezzo agli altri coeredi i quali sono preferiti nell’acquisto rispetto a terzi (c.d. retratto successorio, art. 732). Ritroverà la propria libertà in caso di mancata accettazione.

Talvolta poi la legge indica non già il soggetto ma una rosa di soggetti tra i quali l’interessato può scegliere in vista della conclusione del contratto. È il caso dell’assicurazione obbligatoria contro i danni da circolazione, potendo il proprietario dell’autoveicolo contrarre solo con una delle compagnie autorizzate in uno dei Paesi dell’UE.

d) Infine va ricordata la libertà di contrarre per schemi atipici. Anche in questo caso sono posti limiti che tuttavia non derivano da norme puntuali ma da ricostruzioni dell’intero sistema operate da giurisprudenza e dottrina.

4. Costituzione e autonomia contrattuale.

Da una lettura della Carta si evince che né il contratto, né, più in generale, l’autonomia contrattuale sono fatti oggetto di espressa previsione in via immediata e diretta. Parte della dottrina ritiene che la tutela si ritroverebbe nel disposto dell’art.2 Cost. in quanto mezzo di esplicazione della personalità del singolo e quindi collegata ad un diritto inviolabile [Bianca]. Ma tale norma garantisce non già la libertà contrattuale in sé, quanto piuttosto le concrete manifestazioni dell’autonomia privata volte a dar vita alle formazioni sociali e quindi la libertà di matrimonio, di associazione, ecc… La libertà di contrarre, quale libertà a contenuto economico, non può invece essere ritenuta primaria ed incoercibile se non in una visione dell’economia del tutto utopistica. È dunque necessario andare alla ricerca di ulteriori norme che non possono essere collocate se non sotto il titolo III della parte I ove sono disciplinati i rapporti economici. In questo contesto deve aversi riguardo agli artt. 41 e 42 Cost. Peraltro il rinvio non può essere immediato e

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diretto, ma solo indiretto. Considerando infatti l’autonomia contrattuale come uno strumento (senza dubbio necessario) dell’iniziativa economica, ogni limite posto dal legislatore ad essa si risolve in un limite alla libertà dell’iniziativa economica privata e come tale legittimo solo se in armonia con quanto previsto dall’art. 42 Cost.

5. Gli usi normativi.

Nell’art. 1374 si potrebbe pensare ad una inutile ripetizione legislativa di quanto già statuito dall’art. 8 disp. prel. il quale dispone che gli usi, nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti, hanno efficacia solo in quanto da essi richiamati. In verità è invece opportuno scindere due aspetti nettamente distinti del problema: da un lato l’efficacia dell’uso normativo e dall’altro l’ambito di tale efficacia, cioè a dire la materia disciplinata da tale uso. I due problemi sono infatti risolti da due distinte norme delle disposizioni preliminari al codice civile: il primo dall’art. 1 e il secondo dall’art.8.

Dal primo punto di vista il richiamo operato dall’art. 1374 non è certamente necessario allo scopo di attribuire agli usi un valore vincolante, che deriva loro dall’essere essi previsti dalle fonti del diritto.

Per quanto riguarda invece il secondo aspetto deve chiarirsi che cosa il legislatore abbia inteso nel momento in cui ha posto una limitazione all’operatività dell’uso con riferimento alla materia regolata dalla legge. Se si prescindesse dall’art. 1374 si dovrebbe affermare che l’efficacia degli usi in materia contrattuale sarebbe limitata con riferimento ai singoli richiami puntuali agli usi operati da singole norme che disciplinano il contratto in generale, tipico e atipico, ed i singoli contratti tipici.

L’inciso “in mancanza” dimostra invece che il legislatore ha voluto attribuire all’uso un ruolo di fonte generale di regolamentazione del contratto, ma nello stesso tempo conforme all’art. 8 disp. prel. il quale subordina l’efficacia dell’uso ad espresso richiamo della legge. Tale richiamo è infatti possibile individuare proprio nell’art. 1374. Pertanto se l’art. 1374 non avesse richiamato gli usi, l’integrazione sarebbe stata sempre e solo secondo la legge (o l’equità).

Con riguardo al contratto, è dunque possibile l’applicazione di usi normativi anche là dove la legge puntuale non dispone rinvio, purché detti usi, ovviamente, non siano contra legem, dovendosi considerare tali anche quelli che dispongono in modo difforme rispetto a norme di legge derogabili. La derogabilità infatti vale di fronte all’autonomia privata ma non di fronte all’uso che è sempre ed in ogni caso una fonte subordinata dalla legge in base all’art. 1 disp. prel.

Secondo la tesi dominante gli usi normativi possono essere in ogni caso derogati dalle parti. Alla base di questo orientamento è essenziale l’idea della piena libertà dei contraenti di regolamentare i propri interessi, salvo i limiti della legge imperativa, ordine pubblico e buon costume. Questa motivazione suscita perplessità perché è lo stesso art. 1374 che pone una norma imperativa inderogabile nel senso di prevedere tra le fonti di integrazione del contratto anche gli usi. Può allora sostenersi che se i privati non possono dichiarare validamente di voler escludere l’applicabilità in astratto dell’art. 1374 (che è appunto norma imperativa) possono però di volta in volta derogare a singoli usi normativi.

6. L’equità.

Si ritiene che il richiamo all’equità abbia carattere sussidiario.

L’intervento equitativo sarebbe possibile solo in funzione suppletiva, cioè di ausilio dell’autonomia privata allo scopo di ricercare la volontà (anche presunta) dei contraenti, e secondo una tesi ulteriormente limitatrice (Ferri) opererebbe solo in presenza di un contratto atipico.

Si attribuisce così all’intervento del giudice una funzione del tutto marginale ed eventuale, sicché la norma non è quasi mai invocata in concreto nelle sentenze.

Il problema che pone il richiamo all’equità operato dall’art. 1374 è se e come il giudice possa intervenire pur al di fuori di un’espressa autorizzazione contenuta in una singola norma puntuale. Qualche apertura può operarsi ogni qualvolta il giudice debba ad esempio intervenire al fine di determinare l’oggetto della prestazione, sempre che le parti abbiano indicato i criteri per la determinazione o sussistano criteri obiettivi

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di mercato. È infatti escluso che il giudice possa intervenire autonomamente sul contratto fissandone il contenuto nei suoi aspetti qualificanti (c.d. contenuto minimo) sostituendo clausole che pur possono apparire inique con altre eque, allo scopo di garantire l’equità dello scambio, perché il contratto giusto è quello frutto della libertà delle parti.

Una dottrina isolata (Gazzoni) ha da tempo posto il problema se il giudice possa comminare ex art. 1374 la nullità di una singola clausola o dell’intero contratto ogniqualvolta la singola operazione economica appaia contraria al principio di equità.

L’equità sarebbe posta sì a presidio di principi superindividuali al pari delle norme imperative, ordine pubblico e buon costume, ma essa opererebbe non a priori, cioè in ogni caso, ma a posteriori, solo quando il giudice ravvisasse in concreto un grave squilibrio regolamentare a danno della parte. Dunque mentre l’illiceità consegue a violazioni di regole predeterminate ed opera in astratto, l’iniquità dipenderebbe da come il regolamento contrattuale, di per sé lecito, è costruito, ed opererebbe quindi in concreto. In tal senso l’equità non è clausola generale. Questa tecnica sanzionatoria individualizzante è utilizzata dalla legge in materia di clausole abusive. La caducazione delle clausole è dunque l’esito di un giudizio di iniquità, diverso da quello dell’illiceità, secondo la distinzione proposta, in linea di principio, dalla riferita (isolata) dottrina.

Anche il collegamento dell’equità al divieto di abusare del proprio diritto di credito potrebbe spiegare la nullità quando la regola privata sia esclusivo frutto di intento emulativo o di approfittamento conseguente ad una posizione di supremazia.

L’equità di cui all’art. 1374 deve essere intesa non come richiamo di norme extragiuridiche su cui fondare un giudizio libero, ma come criterio che deve essere applicato nell’ambito di un giudizio di diritto. La decisione va dunque sempre rigorosamente motivata, avuto riguardo ai principi regolatori della materia, in specie costituzionali e comunitari.

7. La buona fede esecutiva.

Secondo una dottrina che si rifà all’esperienza tedesca, la buona fede sarebbe un’ulteriore fonte di integrazione del contratto ed anzi dovrebbe occupare il posto dell’equità, ricondotta a semplice criterio di rilevanza delle circostanze del singolo caso (Rodotà).

Sennonché, secondo la tradizione del diritto romano, che la tiene distinta dall’equità, la buona fede è criterio di valutazione del comportamento tenuto dalle parti al momento dell’adempimento (Bianca).

L’equità dunque attiene al profilo regolamentare ed obiettivo, mentre la buona fede attiene a quello attuativo e comportamentale.

Il principio di buona fede esprime l’esigenza che vi sia un costante adeguamento in sede esecutiva alle mutevoli esigenze prospettate dal momento dinamico. Peraltro dovranno comunque tenersi quei comportamenti che, senza apprezzabili sacrifici, siano idonei a preservare gli interessi dell’altra parte.

L’abuso del diritto collegato alla buona fede è richiamato anche al fine di sanzionare, con l’inammissibilità, la domanda del creditore di una somma, il quale, con il proprio comportamento causi indirettamente lo stato di insolvenza e poi chieda il fallimento. Si ritiene, in relazione al principio del giusto processo (art. 111 Cost.), scorretto e quindi abusivo agire per il pagamento parziale di un credito.

Non è viceversa contrario a buona fede stipulare rapporti di lavoro con trattamento retributivo migliore rispetto ad altri, all’interno dell’impresa, perché il controllo ex art. 1375 opera nell’ambito del singolo rapporto e non dunque in relazione a comportamenti esterni.

In base all’art. 1375 si teorizza poi l’exceptio doli generalis che non presuppone un intento specificamente emulativo, essendo sufficiente un comportamento, nei rapporti intersoggettivi, scorretto e malizioso.

L’exceptio opera paralizzando l’efficacia dell’atto o giustificando la reiezione della domanda, ma non può incidere sui caposaldi minimi indispensabili per la sicurezza dei rapporti. Ad es. il primo avente causa che

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non trascrive non potrebbe prevalere sul secondo di mala fede che trascrive, opponendo l’exceptio doli in funzione paralizzante dell’effetto acquisitivo della proprietà da parte di costui, perché lo impedisce l’art. 2664.

Anche il principio secondo cui non si può esercitare il diritto in contrasto con un precedente comportamento (c.d. venire contra factum proprium) si ricollega alla buona fede.

Un’altra eccezione opponibile dal debitore ex art. 1375 è quella di inesigibilità della prestazione, quando la pretesa del creditore appare abusiva, in relazione a fatti sopravvenuti (leggi più favorevoli, impedimenti fisici o psichici, costi eccessivi per poter adempiere). In tal senso, a seconda delle circostanze, l’inesigibilità piò anche risolversi in un ampliamento della rilevanza della forza maggiore o dell’impossibilità o eccessiva onerosità sopravvenuta.

Va respinta ogni contaminazione tra regole di validità e regole di comportamento, onde il rimedio all’iniquità, che attiene al contenuto del contratto, è la nullità o l’integrazione del regolamento contrattuale; se è violata la buona fede, che attiene al comportamento esecutivo, vi è invece inesigibilità della prestazione, risoluzione per inadempimento o semplice risarcimento del danno.

Così ad esempio se le parti hanno previsto una clausola di rinegoziazione di un contratto di durata, in relazione alle sopravvenienze, e un contraente ostacola l’accordo in mala fede, l’altro potrà chiedere la risoluzione e il risarcimento dei danni ex art. 1375 ovvero la fissazione equitativa giudiziale del contenuto ex art. 1374. In difetto di clausola, il rifiuto di rinegoziare è rifiuto di contrarre.

La buona fede è dunque criterio di controllo dell’attività di relazione tra i contraenti e quindi anche del creditore, specie alla luce del principio costituzionale di solidarietà, distinguendosi così dalla diligenza che è criterio per valutare il comportamento del debitore in sede di adempimento.

Dalla buona fede esecutiva nascono doveri e obblighi di protezione, i quali peraltro non sono integrativi della regola contrattuale, perché non l’arricchiscono ma servono ad attuarla correttamente.

8. L’illiceità. L’ordine pubblico e il buon costume.

Il limite più ricorrente posto dalla legge all’autonomia contrattuale è quello della liceità. La regola contrattuale è illecita se contraria a norme imperative, ordine pubblico e buon costume, secondo quanto dispone l’art. 1343. Deve ora chiarirsi in che cosa consistano l’ordine pubblico e il buon costume. Secondo un’efficace espressione, l’equità e la buona fede, attribuendo al giudice un largo potere discrezionale, darebbero vita a regole di pura opinione, a differenza dell’ordine pubblico e del buon costume, i cui contenuti sarebbero oggettivamente desumibili.

All’origine l’ordine pubblico esprime unicamente una esigenza politica e conservatrice. Esso deve intervenire quale ultima ratio quando una determinata operazione non è di per sé vietata da puntuali norme imperative ma si presenta in opposizione o comunque è reputata eversiva rispetto alle strutture sociali.

*[In diritto civile si intende per ordine pubblico il complesso di principi fondamentali relativi, in una data epoca ed in un certo ordinamento, alla vita politica ed economica dei consociati la cui osservanza ed attuazione è ritenuta indispensabile per l'esistenza di tale ordinamento. La legislazione presenta numerosi richiami al concetto di ordine pubblico, senza tuttavia mai definirlo, lasciando pertanto all’interprete il compito di distinguere quali principi siano così qualificabili e quali invece no. In particolare, la causa di un contratto contraria all’ordine pubblico è illecita (art. 1343 c.c.) e provoca la nullità del contratto medesimo; la condizione contraria all’ordine pubblico inserita in un contratto lo rende nullo (art. 1354 c.c.); inserita in un testamento, si considera non apposta, a meno che non sia la sola che abbia determinato il testatore a disporre, nel qual caso rende nullo il testamento (art. 634 c.c.), e così via].

Il problema dell’ordine pubblico va rivisto alla luce dell’ingresso nel nostro ordinamento giuridico di una Costituzione rigida assai larga nell’indicare direttive, principi, valori da perseguire e da difendere. La funzione attuale dell’ordine pubblico infatti non è più esclusivamente di carattere latamente politico ma è quella di impedire che i privati possano darsi un assetto di interesse non conforme a quelle direttive e a quei principi.

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Ovviamente è necessario che il contratto non risulti già nullo per violazione di norme imperative. L’art. 1343 in verità enuncia la triade ben nota, senza accennare ad un ordine gerarchico, ma è palese che là dove già intervenga la legge in modo espresso, è escluso che possa intervenire il giudice se non in funzione meramente applicativa della singola norma.

Il campo di applicazione elettivo dell’ordine pubblico è quello delle libertà, personali e collettive, nonché quello economico.

È infatti illecito ogni patto che mira dietro corrispettivo ad obbligarsi a sposarsi o a non sposarsi, a prendere voti sacri, e così via. È parimenti nullo il contratto con cui si assume il vincolo obbligatorio di una prestazione personale per un periodo di tempo eccessivamente lungo o addirittura illimitatamente (c.d. servitù personali).

Nell’ambito delle libertà collettive vale la stessa conclusione per quanto riguarda l’obbligo di non votare, di iscriversi o non iscriversi ad un certo partito politico, e via dicendo. Pertanto sarebbe nullo ad esempio un bando di concorso che riservasse il posto a chi non possieda un determinato titolo di studio.

Nel campo economico la teorizzazione dell’ordine pubblico economico ha un valore non già ricostruttivo (dal momento che non esiste un ordine pubblico nel settore diverso e distinto da quello che opera in altri settori del diritto, quale quello ad esempio delle libertà private e pubbliche) ma piuttosto descrittivo (Ferri).

La nozione di buon costume non si ritrova per la prima volta nel codice Napoleone, come è invece per l’ordine pubblico, ma affonda le radici nel diritto romano e nei boni mores, esprimendo una direttiva comune ad ogni civiltà. Le esigenze della moralità non sono o non dovrebbero essere legate ad un particolare assetto politico. Il buon costume, dunque, a differenza dell’ordine pubblico, è criterio di giudizio che si pone dalla parte della realtà sociale e non dalla parte dell’ordinamento. Non sembra pertanto da accogliere quella tendenza dottrinaria che mira invece a desumere la nozione da un’analisi della legislazione positiva, anche perché in tal caso l’immoralità finirebbe per coincidere con l’illegalità per violazione dell’ordine pubblico.

Il giudice è naturalmente legittimato ad applicare il criterio del buon costume solo in assenza di una contraria disposizione di legge.

La nozione è ancorata a principi fissi pur se in evoluzione, e dunque, in una visione storica, mutevoli. La funzione del giudice non può essere allora quella di ricostruire la regola di giudizio, ma piuttosto quella di osservare la realtà sociale.

Va anche chiarito che l’immoralità cede sempre di più il campo all’illegalità. Ciò significa che più si amplia l’interesse dello Stato più si restringe l’area affidata ai boni mores (si pensi ai contratti di maternità e a quelli per il commercio di organi e sangue, ora vietati dalla legge). Questa sorta di osmosi giustifica il fatto che assai spesso si discuta se talune fattispecie concrete siano da qualificarsi siccome immorali o illegali per violazione dell’ordine pubblico e nel dubbio spesso ci si richiama ad entrambi i criteri di giudizio.

Inquadrare una fattispecie nell’ambito della contrarietà all’ordine pubblico o al buon costume comporta diversità di disciplina. Secondo l’art. 2035, infatti, chi ha eseguito una prestazione per uno scopo che, anche da parte sua, costituisce offesa al buon costume non può ripetere quanto ha pagato (ripetizione dell’indebito). La norma costituisce una palese eccezione alla regola generale della ripetibilità dell’indebito oggettivo (art. 2033) ed è difficilmente comprensibile. In termini di ratio legis il legislatore ha avvertito l’opportunità di non permettere discussioni ulteriori, in termini giuridici, una volta che la vicenda immorale si sia esaurita sul piano esecutivo.

L’art. 2035 costituisce un invito, specialmente per la giurisprudenza, ad inquadrare una fattispecie nella illegalità o nella immoralità a seconda che si voglia o non si voglia tutelare il solvens, in particolare valutando la sua eventuale posizione di supremazia psicologica nei confronti dell’accipiens come motivo per denegare la ripetizione. (illegalità = nullità, immoralità = irripetibilità)

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Un’ulteriore limitazione alla irripetibilità discende infine dal regime probatorio. Se la prestazione immorale si risolve nella consegna di un oggetto infungibile (altrimenti vi sarebbe confusione o commistione nel patrimonio dell’accipiens), il tradens può sempre agire in rivendica, dovendo solo dimostrare di averne avuto la proprietà, mentre l’accipiens dovrebbe giustificare il proprio possesso in base al rapporto illecito, così allegando però la propria turpitudine, con conseguente denegazione di tutela.

LA CAUSA

1. L’evoluzione concettuale.

Il codice civile prevede la causa tra i requisiti del contratto (art. 1325) cioè tra gli elementi essenziali.

Storicamente la causa è stata in un primo tempo riferita all’obbligazione. Ciò è dovuto al fatto che sotto il vigore del codice Napoleone (e di riflesso anche sotto il vigore del codice del 1865 italiano) dominava l’idea che il contratto fosse esclusivamente fonte dell’obbligazione e che non fosse dunque possibile concepire una causa del contratto che non fosse causa dell’obbligazione. La possibilità di stipulare contratti che avessero come effetto esclusivo l’immediato trasferimento del diritto, senza l’intermediazione di un’obbligazione, era, ed è ancora, inconcepibile, cosicché la causa del contratto finiva sempre e solo per identificarsi con lo scopo perseguito dal contraente nel momento in cui assumeva un certo obbligo. La causa era così riferita non già al contratto ma alla volontà del contraente, ponendosi in rilievo il dato soggettivo dell’utilità perseguita dal singolo individuo piuttosto che il dato oggettivo del ruolo svolto dal contratto.

Il superamento di questa impostazione avvenne con gradualità. Si cominciò a sostituire l’obbligazione con la prestazione, concetto di derivazione tedesca, che era meglio atta ad indicare e a ricomprendere anche vicende non obbligatorie ma immediatamente traslative. L’abbandono del riferimento all’obbligazione favorì anche l’abbandono dell’idea soggettivistica della causa a tutto vantaggio di una prospettiva oggettiva. In tal modo si è pervenuti all’idea che la causa, in ultima analisi, sia la funzione stessa cui assolve il contratto sotto il profilo economico-sociale.

La causa sarebbe l’astratta e quindi tipica ragione economico-giuridica del contratto, ciò che giustifica l’operazione privata, strumento, dunque, di controllo dell’operare dei singoli all’interno dell’ordinamento giuridico.

Il legislatore del 1942 ha chiaramente utilizzato il termine causa come sinonimo di tipo contrattuale, con una commistione concettuale che è fonte di notevoli equivoci. Non stupisce allora che la dottrina si sia dedicata a rivedere il concetto. Si deve recuperare l’impostazione soggettivistica non già però con un mero ritorno all’identificazione tra causa e scopo soggettivo perseguito dai singoli contraenti ma piuttosto sottolineando come più che di funzione economico-sociale dovrebbe parlarsi di funzione economico-individuale. In tal modo la causa è correttamente intesa come ragione dell’affare, come giustificazione dei movimenti dei beni da un individuo all’altro.

2. Causa e tipo.

In sostanza il legislatore appronta taluni tipi contrattuali che non sono inventati a tavolino ma sono la continuazione dei tipi di diritto romano, cui si sono aggiunti tipi nati dalla pratica commerciale. Il tipo legale pertanto intende racchiudere in sé la sintesi di tutti gli interessi socialmente utili.

Alla tipicità legale, dunque, si perviene attraverso la tipicità sociale rappresentata dalla tipicità giurisprudenziale, perché è a livello di giudizio che si manifestano le reali esigenze dei traffici e i reali problemi che il legislatore è tenuto a risolvere con una disciplina uniforme. Il tipo giurisprudenziale per

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divenire legale presuppone allora una reiterazione di comportamento, una pratica generale che se pur non assurta a consuetudine, ne potrebbe costituire la base, dettando già una regola. Restano così fuori da questo campo solo i comportamenti individuali o comunque i comportamenti ancora non socialmente generalizzati. Quindi il tipo legale altro non è se non un astratto schema regolamentare che racchiude in sé la rappresentazione di un’operazione economica ricorrente nella pratica.

La nozione di contratto sarebbe la descrizione del tipo, al fine di stabilire il riferimento normativo con cui dovrà essere misurata l’operazione privata per verificare se essa vada ricompresa in quel certo tipo o in un altro tipo o in caso negativo debba essere ricompresa nell’area dell’atipicità. Quest’attività di confronto tra operazione concreta posta in essere dai privati e di tipo astratto elaborato dal legislatore dà vita alla c.d. qualificazione che va condotta in termini rigorosamente oggettivi e del tutto distaccati dalla volontà privata. (I privati infatti non potrebbero pretendere di dar vita ad una compravendita che non ricalcasse lo schema definito dal legislatore: se non c’è scambio di cosa contro prezzo, non c’è compravendita ad onta di qualsiasi affermazione contraria delle parti, che volessero, per avventura, assoggettare alle regole della compravendita una operazione economica che non prevedesse il pagamento di un prezzo). Nessun ruolo da svolgere ha dunque la volontà privata dal punto di vista del tipo e della correlativa opera di qualificazione che spetta al giudice di compiere con un confronto oggettivo.

Può allora dirsi che la causa va identificata con la funzione economico-sociale del contratto e quindi con il tipo? (NO perché la causa è la ragione economico-giuridica del contratto).

I problemi posti dal tipo legale sono dunque del tutto peculiari. In primo luogo si deve verificare l’esistenza di una pattuizione che risponda in astratto ai requisiti posti da uno o da un altro schema tipico al fine di stabilire la normativa applicabile. In secondo luogo, e conseguentemente, si dovrà verificare se quel dato schema tipico esiste o non esiste in concreto, cioè sia o non sia presente. Infine dovrà verificarsi la presenza o l’assenza di un accordo.

Tutti questi problemi nulla hanno a che vedere con la causa, che va ravvisata avuto riguardo ai concreti interessi che i privati intendono perseguire con la concreta operazione economica. Infatti se l’indagine sul tipo è essenzialmente astratta e statica, quella sulla causa è esclusivamente concreta e sempre dinamica. Con il tipo si pone un problema di configurabilità dell’operazione, con la causa si pone invece un problema di liceità degli interessi perseguiti.

3. L’illiceità.

La necessità di distinguere il tipo dalla causa è chiara se si considera che chi identifica la causa con la funzione economico-sociale, cioè con il tipo, deve negare che possa porsi un problema di liceità della causa in presenza di contratti tipici, perché non sarebbe possibile concepire un tipo legale… contra legem. Il fatto stesso della previsione starebbe ad attestare la liceità dello schema e il positivo giudizio che l’ordinamento dà di quella certa operazione. Proprio dall’art. 2126 si può desumere che la causa non può identificarsi con il tipo, perché altrimenti la legge non avrebbe potuto ipotizzare la illiceità della causa di un contratto che, come quello di lavoro, è tipico.

Non è però sempre facile stabilire se il contratto è nullo per illiceità della causa o dell’oggetto, o del motivo comune o si limiti a violare una norma imperativa che non investe il profilo causale.

4. Il contratto atipico.

L’art. 1322 prevede il potere dei privati di determinare il contenuto del contratto, all’interno del tipo contrattuale, o arricchendo il regolamento rispetto a quanto già fissato dalla legge ovvero restringendone la portata con l’eliminazione di statuizioni dettate da norme derogabili. In tali ipotesi, secondo quanto detta l’art. 1323, il contratto atipico è egualmente soggetto alle norme generali sul contratto a condizione però di aver previamente superato l’esame circa la meritevolezza dell’interesse perseguito, esame previsto e quindi imposto dal secondo comma dell’art. 1322.

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Secondo taluni la norma avrebbe natura autorizzativa, senonché nel sistema generale del contratto elaborato dal legislatore una norma meramente autorizzatoria non avrebbe senso. Solo una norma di opposta previsione, che vietasse cioè esplicitamente ai privati di regolare i proprio rapporti mediante contratti atipici sarebbe in grado di limitare i poteri che ai contraenti competono in tale direzione.

Va poi tenuto presente che, in termini concreti, l’atipicità assoluta in materia contrattuale non esiste. Per un verso o per l’altro, infatti, gli assetti privati riecheggiano necessariamente i tipi legali ed anzi da essi in qualche modo discendono con varianti e collegamenti dettati dalle necessità del mercato.

In ogni caso si va alla ricerca del tipo legale analogo o affine per desumere quale debba essere, nel dubbio, la disciplina vincolante nel singolo caso atipico.

5. L’utilità sociale.

Secondo la dottrina che individua nella causa la funzione economico-sociale del contratto, il secondo comma dell’art. 1322 obbligherebbe il giudice ad un controllo dell’interesse perseguito dai contraenti che in tanto sarebbe meritevole in quanto fosse anche utile socialmente. In tal modo si dà vita ad una sorta di funzionalizzazione degli interessi privati che sarebbero protetti solo se coincidenti con interessi dell’intera collettività e dunque con interessi pubblici. Senza dubbio, leggendo la relazione al Re del Guardasigilli, non può negarsi che questa fosse l’intenzione del legislatore del ’42 nel momento in cui ha dettato la norma in questione, ma questa teoria è in realtà nata su altre basi.

Il più autorevole tra i suoi fautori, condizionato da reminiscenze romanistiche, sosteneva infatti che la libertà di dar vita a schemi atipici non va esercitata arbitrariamente ma deve restare all’interno di determinate costruzioni tipiche dei traffici. L’interesse individuale sporadico non può pertanto essere protetto perché solo le pretese sociali costanti che hanno già ricevuto una tipizzazione in chiave sociale meritano tutela giuridica.

È evidente allora che, così impostando i termini del problema, l’autonomia privata non sarebbe tutelata se non in quanto persegua finalità che si inquadrino in quelle proprie dello Stato non essendo più sufficiente il limite puramente negativo che la causa del negozio non sia illecita. In questa visione senza dubbio l’interesse privato si dissolve in pubblico e il contraente diviene un funzionario dello Stato.

Se dal punto di vista teorico questa dottrina postula un vero e proprio stravolgimento della corretta visione dell’autonomia privata e dell’interesse sotteso alla contrattazione (che è un interesse eminentemente privato) scarsa o nulla è la rilevanza pratica, perché quanto osservato con riguardo alle fattispecie giurisprudenziali dimostra che il contratto atipico in senso assoluto (che non riecheggia cioè alcuno schema tipico) non esiste. Qualsivoglia interesse economicamente di una certa rilevanza non può essere sporadico e puramente individuale. Per il fatto stesso di nascere e di svilupparsi all’interno dei traffici commerciali, esso per forza di cose è comune ad una molteplicità di soggetti, di tutti quei soggetti che operano nel commercio e che a ben vedere costituiscono l’ossatura della collettività sociale. Di conseguenza è inevitabile che detto interesse finisca per raccordarsi con uno dei tipi legali che tali generali interessi tutelano.

Quanto poi all’utilità sociale come ulteriore criterio di controllo del concreto contenuto disciplinare, a fianco ed oltre alla liceità, è difficile, per non dire impossibile, ipotizzare contratti socialmente dannosi, ma non illeciti; mentre per quelli socialmente futili (es. ci si accorda sul fatto che ciascuno dei contraenti darà da mangiare ai canarini dell’altro in caso di assenza) il problema è solo quello della giuridicità del vincolo e della patrimonialità della prestazione.

La verità è che l’art. 1322 non può essere veicolo per funzionalizzare gli interessi privati, tanto più considerando che sono semmai gli interessi pubblici ad essere attuati mediante strumenti consensuali.

6. Il giudizio di meritevolezza.

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Il giudizio ex art. 1322 circa la meritevolezza dell’interesse appare qualitativamente diverso rispetto a quello circa la liceità. Mentre quest’ultimo ha la funzione di salvaguardare l’ordine giuridico dalla presenza di singoli accordi impegnativi i cui contenuti siano in contrasto con i propri canoni regolamentari, al fine di non introdurre una evidente contraddizione nel sistema, il giudizio di meritevolezza si incentra nella valutazione dell’idoneità dello strumento elaborato dai privati ad assurgere a modello giuridico di regolamentazione degli interessi, vista l’assenza di una preventiva opera di tipizzazione legislativa intesa come mera predisposizione di schemi.

La meritevolezza, dunque, opera a livello di tipo e non a livello di causa, come viceversa ritengono i funzionalizzatori, perché in questa fase deve solo valutarsi se lo schema astratto è accettabile o inaccettabile sul piano giuridico ed è chiaro che tale indagine non deve essere compiuta in presenza di un contratto tipico, che si inquadra cioè in uno schema prefissato dal legislatore. Il giudice deve dunque osservare lo schema astratto ideato dai contraenti e verificare se esso abbia un significato economico sociale, in termini di scambio di utilità. Potrà parlarsi di utilità sociale perché lo schema astratto sarà utilmente adottato dalla collettività.

La meritevolezza è dunque certa in presenza di tipicità sociale, sempre che non si tratti di vicenda di cui l’ordinamento giuridico si disinteressi.

Lo schema, benché significativo, potrebbe però essere contrario a principi inderogabili dell’ordinamento, cosicché tutti i contratti su di esso modellati sarebbero illeciti. Il giudice dovrebbe allora dichiarare meritevole di tutela lo schema astratto, ma illecito in concreto il singolo contratto su di esso modellato.

In presenza poi di uno schema individuale e non sociale e quindi atipico in senso assoluto (ciò che, come detto, configura un’ipotesi irreale e puramente scolastica) acquisterebbe particolare rilevanza l’accertamento circa l’effettiva intenzione dei contraenti di dar vita ad un vincolo giuridico, come tale coercibile. Se la giuridicità del vincolo può infatti presumersi, non è detto che ad uno schema sporadico ed individuale, il quale dovrebbe ricollegarsi ad un interesse futile socialmente, corrisponda una reale volontà di giuridicizzare il vincolo.

L’indagine circa la volontà di giuridicizzare l’operazione va condotta in termini soggettivi ed oggettivi, avendo riguardo al concreto regolamento contrattuale, nonché ai rapporti intercorrenti tra i soggetti sia di carattere personale che patrimoniale. Uno schema contrattuale, benché socialmente utile nel senso di indifferente (ammesso che tra utilità e dannosità possa trovare un proprio posto la neutra inutilità) potrebbe allora essere meritevole di tutela se risultasse accertata una indiscussa volontà dei privati di autovincolarsi secondo le regole giuridiche, a condizione però che l’ordinamento giuridico non si disinteressi di quella materia (come nel caso in cui due soggetti si obblighino a rivolgersi l’uno all’altro con un predicato nobiliare, accordo non illecito ma immeritevole di tutela).

In conclusione, dunque, sembra possa dirsi che lo schema ideato dai privati con riguardo ad una operazione atipica in senso assoluto e quindi, secondo quanto chiarito, economicamente futile, potrà essere giudicato inidoneo non già perché asociale, cioè del tutto individuale e sporadico, ma perché la futilità è di per sé sintomo e indizio di un’assenza di reale, seria e definitiva volontà giuridica delle parti.

7. Il contratto misto.

Talvolta l’operazione economica realizzata dai privati presenta taluni elementi di un tipo e taluni elementi di un altro tipo contrattuale. In tale eventualità spesso si teorizza l’esistenza di un contratto misto piuttosto che di un contratto atipico. Mentre il contratto misto non ha una propria fisionomia, e quindi una propria autonomia, il contratto atipico si manifesta autonomo e pretende una altrettanto autonoma disciplina che il giudice deve ricavare dalla funzione concretamente svolta dall’operazione senza lasciarsi condizionare dal tipo legale prevalente o analogo sul piano della ricostruzione statica.

Sul piano ricostruttivo il contratto misto è configurato come la risultante della combinazione di una pluralità di frammenti di schemi tipici che si fondono e si condizionano vicendevolmente. Tali schemi non sono dunque suscettibili di autonoma e separata considerazione, perché perdono la loro individualità.

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La dottrina (Bianca) ha però osservato che in taluni casi un unico rapporto può presupporre una duplicità di autonomi tipi. Il contratto si presenta allora come un autonomo schema del tutto peculiare perché caratterizzato dalla riferibilità ad una pluralità di tipi legali e di funzioni. Esempio ne sarebbe la vendita con prezzo volutamente basso per donarne (con donazione indiretta e non già dissimulata) la differenza, rispetto a quello di mercato, all’acquirente. Non è possibile ipotizzare in tal caso un contratto misto, perché se unica è la causa, concorrenti sono i tipi, che mantengono la propria autonomia, cosicché le prestazioni sono giustificate per un verso dallo scambio (vendita) e per altro verso dalla liberalità (donazione). Si applicherà allora la disciplina della vendita per le garanzie e l’adempimento, nonché quella della donazione per il resto.

Il contratto misto non ha ovviamente una propria disciplina tipica. Si pone pertanto il problema di individuare i punti di riferimento normativi. Da questo punto di vista si contrappongono in sostanza due diverse teorie. Secondo la prima, la disciplina del contratto sarebbe quella del tipo contrattuale prevalente (c.d. teoria dell’assorbimento). Secondo l’altra, la disciplina sarebbe invece complessa nel senso che i vari profili dell’operazione andrebbero disciplinati sulla base del riferimento al tipo corrispondente (c.d. teoria della combinazione). Quest’ultima teoria, se appare più rispettosa della specifica realtà economica creata dai privati, rischia però di dare vita ad una sorta di mosaico la cui coerenza potrebbe anche essere difficilmente raggiungibile.

8. Il collegamento negoziale.

A volte l’operazione economica è realizzata dai privati attraverso una pluralità di negozi strutturalmente autonomi ma collegati, nel senso che le sorti dell’uno influenzano le sorti dell’altro in termini di efficacia, unico essendo l’interesse perseguito dai privati, sia pure attraverso la pluralità dei contratti, i quali simul stabunt, simul cadent, pur avendo distinte cause, perché preordinati ad uno scopo pratico unitario.

Il contratto misto rileva a livello di fattispecie, cioè di individuazione del tipo, risultante dalla fusione di frammenti di schemi tipici diversi, mentre il collegamento negoziale rileva a livello funzionale ponendo in relazione e influenzando i rapporti giuridici che nascono dai singoli contratti, i quali sono e restano tipologicamente e casualmente autonomi e diversi. Tale pluralità di cause distingue l’ipotesi del collegamento anche da quella del contratto complesso, là dove alla pluralità di elementi fa riscontro l’unicità della causa che caratterizza l’intero rapporto e che è frutto della fusione di più tipi contrattuali presi nella loro interezza (es. vendita con immediata locazione, appalto e promessa di vendita).

* Quindi:

CONTRATTO MISTO = unico contratto – unica causa

COLLEGAMENTO NEGOZIALE = più contratti – diverse cause – unico motivo

CONTRATTO COMPLESSO = più elementi – fusione di più tipi contrattuali, ma presi nella loro interezza (a differenza del contratto misto che prende diversi elementi di diversi tipi contrattuali) – unica causa

Oltre alla pluralità, la vicenda del collegamento presuppone dunque un legame tra i negozi, giuridicamente rilevante e quindi non occasionale, né puramente formale.

Sono stati proposti vari criteri per inquadrare la fattispecie del collegamento. È pacifico che esso possa presentarsi unilaterale o bilaterale a seconda che la dipendenza sia o non sia reciproca. La dottrina distingue a seconda che il collegamento si presenti come necessario (se esso è insito nella stessa funzione assolta dal negozio) o come volontario (se instaurato dai privati tra negozi di per se perfettamente autonomi). Sul piano della necessità sono ad esempio collegati dal punto di vista della nascita i c.d. negozi preparatori (così ad esempio il negozio di procura è il presupposto per la conclusione del contratto tramite rappresentante). Ulteriore ipotesi di collegamento, questa volta tipicamente funzionale, è ravvisata dalla dottrina nei negozi accessori come i negozi di garanzia, la convalida del negozio annullabile, la conferma del testamento e della donazione nulli. Per quanto riguarda invece il collegamento volontario l’indagine circa l’esistenza e la portata del collegamento va condotta caso per caso avendo riguardo alla volontà di tutti i contraenti, anche se diversi da contratto a contratto, quale risulta dalla operazione economica

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complessivamente e inscindibilmente posta in essere. Accertato il collegamento, va valutato l’interesse sotteso alla più ampia operazione e non già ai singoli contratti in se considerati.

Sul piano della pratica commerciale il collegamento è frequente, ad esempio in caso di alienazione dell’immobile e cessione dell’azienda in esso gestita o di leasing con patto di riscatto.

Le parti possono rafforzare il collegamento negoziale, stabilendo l’esclusione della facoltà di recesso in ordine al contratto funzionalmente subordinato all’altro.

9. Il negozio indiretto.

I privati possono utilizzare un dato tipo negoziale per raggiungere uno scopo che non è quello tipico del negozio stesso ma uno ulteriore o addirittura diverso. Talvolta, poi, i privati utilizzano anche più negozi collegati tra loro, come nel caso in cui, in presenza di una lite, un soggetto riconosce il pieno diritto dell’altro ad avere una certa somma e costui rinuncia a parte di essa, in tal modo ottenendosi, dal collegamento tra riconoscimento del debito e remissione parziale, lo stesso effetto che si sarebbe ottenuto stipulando una transazione. Come si vede le conseguenze giuridiche sono di per sé quelle proprie dei negozi posti in essere, cosicché il raggiungimento dello scopo ulteriore, in termini economici, si situa a livello di motivo individuale che resta estraneo al profilo causale. Non può allora dirsi che il fenomeno dell’uso indiretto del negozio dia vita ad una categoria giuridica a sé stante. Di conseguenza solo nel caso in cui lo scopo ulteriore è illecito l’ordinamento interviene comminando la nullità. Non può inoltre nemmeno parlarsi di simulazione, perché il negozio posto in essere è effettivamente voluto, né di negozio fiduciario, perché non si ravvisa una riduzione o limitazione dell’effetto tipico del negozio.

10. Il contratto in frode alla legge.

Secondo l’art. 1344 si reputa illecita la causa quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa. Si parla al riguardo di contratto in frode alla legge. Anche in tal caso, come nel caso di negozio indiretto, i contraenti utilizzano un dato schema contrattuale al fine di pervenire ad un concreto risultato economico difforme da quello tipico del contratto concluso e per di più vietato dalla legge.

Il contratto dunque non è tanto contra legem quanto in fraudem legis, perché la legge non è violata direttamente ma indirettamente, mediante una sorta di manovra di aggiramento, come nel caso di affitto di azienda, mezzo per eludere l’art. 18 St. Lav. Si capisce allora perché si parli al riguardo di negozio indiretto. Si pensi al caso non infrequente di un debitore il quale alieni al creditore un bene, collegando il trasferimento della proprietà all’inadempimento dell’obbligazione, con aggiramento dell’art. 2744 che vieta il patto commissorio.

Si ritiene che, oltre all’elemento oggettivo dell’aggiramento del divieto di legge, con conseguente realizzazione del fine vietato, sia anche necessario un intento fraudolento, in chiave di illiceità del motivo, che non a caso si pretende sa comune.

Secondo la dottrina più moderna il discorso va invece impostato in chiave oggettiva e di interpretazione della norma al fine di stabilirne l’avvenuta elusione. In effetti tale indirizzo appare più corretto ed anzi la norma di cui all’art. 1344 sembra perdere gran parte del suo significato alla luce della più moderna impostazione del problema causale. Infatti il legislatore, con ogni verosimiglianza, ha sentito la necessità di dettare tale norma in quanto costrettovi dalla prescelta impostazione della causa intesa come funzione economico-sociale, cioè come tipo. Se il tipo legale non può mai essere contra legem, è evidente la necessità di prevedere una sorta di valvola di sicurezza che permetta di comminare la nullità nel caso in cui il concreto risultato perseguito e raggiunto dai privati urti contro un divieto di legge ad onta della liceità astratta del mezzo prescelto. La causa allora “si reputa” illecita (così l’art. 1344), perché non si può ammettere che essa “è” illecita.

In una visione di causa concreta è invece proprio lo scopo della complessiva operazione economica che balza in primo piano, cosicché, come chiarito, ben può un contratto tipico essere illecito sul piano causale.

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In tal senso l’ipotesi di frode alla legge tende ad essere riassorbita in quella di illiceità della causa, con cui, in ogni caso, ha in comune la sanzione comminata dall’ordinamento che è quella della nullità.

11. Il principio della causalità negoziale. Il pagamento traslativo.

La causa è uno degli elementi essenziali del contratto (art. 1325). Essa dunque non può mai mancare, cosicché nel nostro ordinamento tutti i contratti sono causali. Se si eccettua l’ipotesi assolutamente peculiare dei titoli di credito astratti (ed in particolare la cambiale) là dove l’astrattezza è legata alla circolazione del documento, o della consegna, per chi lo consideri un negozio, è pertanto configurabile l’eventualità non già di una astrazione materiale intesa come irrilevanza della giustificazione causale dell’operazione economica, quanto solo di una astrazione processuale, la quale opera nel senso di invertire l’onere della prova in ordine al rapporto sottostante che giustifica la promessa di pagamento o la ricognizione di debito.

Il massimo rigore in termini di causalità è preteso dall’ordinamento quando le parti stipulano un contratto ad effetti reali avente ad oggetto un bene immobile. In tal caso non solo è richiesta la forma scritta, ma si ritiene che il contratto sia nullo se dal suo contesto non sia desumibile la giustificazione causale dell’operazione, limitandosi, ad es., Tizio a dichiarare di trasferire il bene a Caio.

Viceversa in materia di obbligazioni la causa si presume esistente, in via presuntiva, da un rapporto sottostante salvo prova contraria a carico di chi promette o riconosce. Parimenti si presume la causa solvendi negli atti esecutivi ed infatti spetta al solvens la prova contraria in sede di ripetizione dell’indebito.

La dottrina ha osservato che i privati, usando lo strumento della confessione, potrebbero dar vita a vicende in apparenza giustificate, ma in realtà acausali in quanto tale giustificazione potrebbe anche non sussistere. In particolare si sottolinea che la confessione non è impugnabile per simulazione ma solo per errore di fatto o per violenza (art. 2732), cosicché i privati potrebbero confessare (e quindi disporre del diritto) pur quando fosse carente una giustificazione causale. In tal modo la falsa confessione potrebbe rendere astratta l’obbligazione e a nulla varrebbe obiettare che, come è pur vero, operando essa sul piano probatorio, si avrebbe più una falsità delle prove che una falsità sostanziale riferita alla causa.

Secondo questa dottrina eguale conclusione varrebbe per quanto riguarda il negozio di accertamento, ma in verità in tal modo sembra sottovalutarsi il fatto che con l’accertamento non si può sostituire una situazione ad un’altra e quindi disporre del diritto stesso (come con la confessione) ma solo rimuovere la situazione di incertezza in cui si trova il rapporto, cosicché il trasferimento del diritto stesso non può farsi discendere che dal rapporto accertato, la cui inesistenza, dunque, sarà di per sé rilevante.

Più in generale non può negarsi che il principio di causalità può essere facilmente aggirato dalle parti con un accordo simulatorio che faccia apparire esistente una causa in realtà inesistente (es. contratto di transazione con cui le parti facendosi reciproche concessioni pongono fine ad una lite già cominciata o che può sorgere tra loro, simulando la lite stessa).

Un particolare atteggiarsi della giustificazione causale si osserva poi in tutte le ipotesi in cui essa non sia desumibile dal contesto dell’atto, ma da elementi esterni. Si parla al riguardo di negozio astratto, ma l’espressione è fuorviante, perché la causa pur sempre esiste ed è rilevante, anche se esterna. Più che di astrattezza dovrebbe dunque parlarsi di neutralità, nel senso che l’atto, considerato in sé e per sé, potrebbe essere giustificato da una o da un’altra causa, in specie solvendi o donandi.

In specie ciò accade nell’ipotesi di c.d. pagamento traslativo che si configura quando il trasferimento di proprietà avviene solvendi causa, cioè in adempimento di un obbligo preesistente. Tale obbligo ha ad oggetto un dare e si distingue dall’obbligo di consegna di cui all’art. 1476 n. 1 che è meramente esecutivo di un effetto reale già realizzato, nonché dall’obbligo di far acquistare la proprietà della cosa di cui all’art. 1476 n. 2. L’obbligo di dare si risolve infatti nell’obbligo di porre in essere un atto (consensuale e non reale) idoneo a trasferire la proprietà anche inter partes. Ecco perché tale atto traslativo è concluso solvendi causa del precedente obbligo ed ecco perché si usa l’espressione pagamento traslativo, che fa riferimento ad un adempimento atto a trasferire il diritto di proprietà di un bene.

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L’obbligo di dare può nascere dalla legge (art. 746, quando il bene è reso in natura), da sentenza (art. 2058, quando il giudice condanna il danneggiante a trasferire in proprietà al danneggiato cosa dello stesso genere di quella distrutta), da testamento (art. 651, quando il de cuius conosceva l’altruità del bene), da regole sociali o morali (art. 2043) ed anche da contratto di società (artt. 2253 e 2254, per i conferimenti in proprietà).

Se poi si ritiene che il definitivo abbia causa solvendi, deve dirsi che dal preliminare di vendita nasce un obbligo non già di fare (o meglio di prestare il consenso) ma di dare. Ciò è tanto più vero quando il prezzo è pagato dal promittente acquirente prima del trasferimento (c.d. preliminare ad effetti anticipati) o dallo stipulante, che si accorda con il promittente, nel senso che costui trasferirà la proprietà di un proprio bene ad un terzo (c.d. preliminare a favore di terzo).

In tutti questi casi, dunque, vi è scissione tra fase obbligatoria e fase traslativa. Dall’atto di trasferimento non si desume la causa, che non è interna, ma esterna (solvendi). Non vi è però astrattezza, una volta che l’atto traslativo sia ricondotto alla pregressa vicenda da cui è nato l’obbligo di dare, così adempiuto. È pertanto necessario che alla dichiarazione attributiva del solvens sia desumibile lo scopo per il quale si adempie. Così, ad esempio, il mandatario senza rappresentanza che trasferisce la proprietà di un bene immobile al mandante deve espressamente dichiarare (c.d. expressio causae), che l’atto ha lo scopo di estinguere l’obbligo nascente dal mandato, il quale costituisce, dunque, il fondamento dell’attribuzione e la giustifica causalmente dall’esterno. In quanto solvendi causa esso è, come l’adempimento, unilaterale e non negoziale. Anche affermatane la negozialità, non si può però negare che la neutralità causale lo caratterizzi in modo peculiare.

È allora importante distinguere i c.d. negozi fondamentali dai negozi di attribuzione patrimoniale, perché al diverso atteggiarsi della giustificazione causale (interna o esterna all’atto) corrisponde anche un diverso modo di reagire dei vizi o dell’assenza stessa della causa. Nel caso di negozi fondamentali, infatti, la conseguenza non potrà che essere l’invalidità dell’atto e più precisamente la nullità, essendo colpita la struttura stessa che è qualificata dalla causa, in quanto interna. Nel caso di negozi di attribuzione, invece, la conseguenza è diversa. L’atto, di per sé, non è strutturalmente idoneo a produrre effetti, la causa esiste, anche se è, come detto, esterna ad esso. La validità di tale atto è dunque subordinata alla presenza dell’elemento soggettivo, cioè dello scopo, che costituisce il momento soggettivo di imputazione (la c.d. expressio causae), necessario al fine di individuare la giustificazione causale dell’operazione. La mancata indicazione dello scopo comporta dunque la nullità, perché il negozio sarebbe astratto. L’assenza o l’invalidità o il venir meno del rapporto esterno (c.d. fondamento) giustificativo dell’attribuzione, inciderà invece non sul momento della produzione degli effetti, ma su quello della loro conservazione. In altre parole l’attribuzione sarà indebita e il solvens potrà agire in ogni caso con l’azione di ripetizione senza poter esperire quella di rivendicazione. Dunque ad esempio il trasferimento dal mandatario senza rappresentanza al mandante è indebito (e non nullo) se il mandato non era sorto validamente o era, ad esempio, stato risolto.

Nel caso di prestazioni isolate ciò che può all’occorrenza far difetto non è la causa (interna) del contratto, ma la causa (esterna) dell’attribuzione patrimoniale, la cui mancanza è appunto il presupposto per la condictio indebiti. La conseguenza di questa diversa impostazione è notevole, perché l’azione di ripetizione è un’azione personale, come tale non esperibile contro i terzi, che comunque fanno salvo il proprio acquisto. Nel caso di contratto di compravendita, l’illiceità della causa (che è interna) comporta invece in ogni caso la nullità, cosicché il venditore, una volta che essa sia stata dichiarata in giudizio, potrà agire con la condictio ma anche con l’azione reale di rivendica (esperibile come tale erga omnes) e non incontrerà quindi i limiti di cui all’art. 2038 nei confronti dei terzi subacquirenti, i quali potranno far salvo il proprio acquisto solo facendo valere un eventuale acquisto a tritolo originario o invocando eventualmente il disposto dell’art. 2652 n. 6, atteso che la rivendica presuppone in tal caso, la previa dichiarazione di nullità del titolo del trasferimento.

Lo strumento negoziale astratto costituirebbe dunque migliore garanzia per terzi e quindi per la certezza dei traffici e della circolazione dei diritti. Ma la scelta del nostro legislatore è stata nel senso opposto, perché nel nostro ordinamento vige la regola della causalità ed i negozi di attribuzione patrimoniale a causa

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esterna costituiscono un’eccezione, la cui disciplina, oltre tutto, solo per una parte della dottrina sarebbe diversa da quella propria dei negozi fondamentali.

Va precisato che talvolta anche i negozi fondamentali (con causa interna) presentano un collegamento con un pregresso rapporto, che è dunque ad esso esterno. In tal caso si tratta però di un collegamento di carattere complesso e non già semplice, nel senso che il rapporto pregresso integra la causa del negozio successivo che è dunque la risultante delle due diverse operazioni. Si pensi, ad esempio, ai negozi estintivi, modificativi e risolutivi (es. la novazione e il mutuo dissenso) o alla stessa transazione che presuppone l’esistenza di un rapporto oggetto della pretesa e della contestazione delle parti o ai negozi di garanzia.

È evidente allora che l’assenza del rapporto pregresso o la sua nullità si ripercuote sulla validità [o efficacia (assoluta) secondo la non precisa dizione normativa] del negozio e non determina la semplice ripetibilità della prestazione. In sostanza non si è in presenza in questi casi di un negozio di attribuzione meramente esecutivo di un pregresso rapporto, ma di un ipotesi di collegamento negoziale per volontà della legge.

12. I motivi.

La causa costituisce lo scopo oggettivo concreto ed immediato che le parti perseguono stipulando quel dato contratto. Il motivo invece è costituito da una rappresentazione soggettiva che induce le parti a concludere il contratto. Come tale esso rimane fuori dal congegno contrattuale, costituendo uno scopo ulteriore del tutto irrilevante.

Per la dottrina che identifica causa e tipo, la distinzione tra causa e motivo è chiara e netta: tutto ciò che non entra a far parte della funzione economico-sociale del contratto è causalmente irrilevante, cosicché si tratterà solo di verificare se il motivo sia risolto in una clausola accessoria del contratto, come tale non rilevando, salvo in caso di illiceità.

In chiave di causa in concreto il discorso è invece più articolato e più delicato. In sostanza i motivi ben possono penetrare all’interno dello schema causale proprio perché la causa va dedotta dalla concreta operazione economica realizzata dai privati e caratterizzata dalle circostanze oggettive e soggettive.

Non sempre però è facile stabilire quando un motivo resti al di fuori o penetri all’interno della struttura contrattuale. In linea di massima può dirsi che il passaggio dal motivo soggettivo irrilevante all’interesse) che essendo alla base del contratto lo compenetra in termini oggettivi, strutturali) non è necessariamente legato alla esteriorizzazione. Tale esteriorizzazione infatti può all’occorrenza costituire uno dei possibili elementi di giudizio, ma ciò che conta è accertare che ad essa corrisponda una particolare articolazione della vicenda contrattuale. Così lo scopo di turismo può essere un mero motivo irrilevante del contratto di trasporto ma può anche qualificare la struttura in termini causali dando vita al contratto di organizzazione di viaggio turistico.

Il motivo illecito, pur quando non entra a far parte della struttura negoziale è rilevante e determina la nullità del contratto, ma solo se è stato l’unico che ha indotto le parti a contrarre ed è anche comune (art. 1345) (comune cioè sia il medesimo che spinge entrambi i contraenti a contrarre). È invece irrilevante se, per l’eventualità che il contratto si ponga in diretto contrasto con una norma imperativa, la legge preveda una sanzione diversa dalla nullità. Non sarebbe comune il motivo che fa capo ad una sola parte ma è conosciuto dall’altra, pur se quest’ultima ne abbia assecondato la realizzazione, come nel caso di chi, consapevole del fatto che l’abitazione sarà destinata a casa di appuntamenti e pur non condividendo tale utilizzazione, egualmente conceda l’immobile in locazione. Diversamente è da dirsi se da tale utilizzazione l’altra parte tragga vantaggio (ad es. canone di locazione maggiorato ovvero prestazioni sessuali gratuite) perché allora il motivo è comune, essendo entrambe le parti interessate alla sua realizzazione. Più in generale si pensi a tutti quei contratti che servono da strumento per commettere reati.

Il negozio non è nullo quando il motivo illecito, pur determinante e comune, non è caratterizzato da attualità o è oggettivamente irrealizzabile. Infatti l’ordinamento non colpisce il mero intento o la mera velleità. Si può ricordare al riguardo l’ipotesi penalistica del reato impossibile (art. 49 c.p.).

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In caso di negozio unilaterale, l’art. 1345 è invocato quando l’esercizio di un diritto appare abusivo in relazione al motivo, ad esempio perché il licenziamento o il recesso ha carattere di ritorsione, accertabile dal giudice.

13. Tipologia dei contratti.

Sul piano del tipo contrattuale è possibile procedere a diverse classificazioni oltre a quella fondamentale che contrappone i contratti tipici a quelli atipici.

Avuto riguardo al modo nel quale le prestazioni si intrecciano, può distinguersi innanzi tutto il contratto a prestazioni corrispettive dal contratto c.d. unilaterale, con prestazioni a carico di una sola parte. Nel primo caso il contratto assolve ad una funzione di scambio, in quanto l’una prestazione è in funzione dell’altra ed il vizio o difetto che colpisce l’una incide necessariamente sull’altra. Si parla al riguardo di sinallagma, da cui anche l’espressione di contratti sinallagmatici. Il vizio del sinallagma determina la rescissione o la risoluzione del contratto. Il contratto unilaterale ha una disciplina speciale per quanto riguarda non solo la conclusione (art. 1333), ma anche i vizi funzionali, in particolare la risoluzione per eccessiva onerosità (art. 1468). In tal caso infatti, non sussiste sinallagma, perché non sussiste scambio, essendo la prestazione dovuta da uno solo dei contraenti.

Lo scambio non sussiste nemmeno nei contratti associativi o di collaborazione, là dove le prestazioni non si incrociano, ma mirano a perseguire uno scopo comune ai contraenti, come nel caso di contratto con il quale si costituisce una società o un’associazione.

Nell’ambito dei contratti a prestazioni corrispettive si distinguono i contratti commutativi dai contratti aleatori. Questi ultimi sono caratterizzati dal fatto che le parti non sono in grado di prevedere il vantaggio o lo svantaggio che deriverà loro. In tal modo l’elemento del rischio qualifica la stessa operazione economica a livello di giustificazione causale. I contratti possono essere aleatori per loro natura (assicurazione), ovvero per volontà delle parti, le quali possono rendere aleatorio un contratto che tale non sarebbe come nel caso di emptio spei, quando l’acquirente paga un prezzo fisso per la vendita, ad esempio, dell’intero raccolto, che potrà poi essere più o meno ricco o addirittura non venire ad esistenza. In tutte queste ipotesi, a causa della aleatorietà, pur essendo le prestazioni potenzialmente bilaterali ed una in funzione dell’altra, manca uuno scambio basato su un equilibri predeterminato, come è invece nei contratti commutativi, che aleatori non sono. Ne consegue che gli squilibri tra le prestazioni sono irrilevanti e pertanto non sarà applicabile la disciplina della rescissione per lesione e della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.

Sul piano dei vantaggi che si ricavano dalla contrattazione si usa distinguere tra contratto a titolo oneroso e contratto a titolo gratuito. Nel primo caso i vantaggi sarebbero reciproci al pari dei sacrifici, mentre nel secondo caso il sacrificio sarebbe sopportato solo da un contraente a vantaggio dell’altro.

Il contratto a titolo oneroso non è necessariamente a prestazioni corrispettive, non è, cioè, sempre basato sul sinallagma. Così è ad esempio per il mandato, là dove la prestazione del mandatario è collegata alla fiducia, che è alla base del rapporto e non già al compenso, tanto ciò vero che il mandato può anche essere gratuito. Il contratto a titolo gratuito poi non è un contratto privo di utilità per chi sopporta il sacrificio. Esso, al contrario, è sorretto da un interesse economico che non si esprime però e non consegue ad una prestazione dell’altro contraente. In tal senso è necessario distinguere gratuità da liberalità e quindi il contratto gratuito dalla donazione.

14. Il negozio gratuito.

Il legislatore ha tipizzato contratti ad effetti obbligatori gratuiti, come il comodato, o che si presumono gratuiti, come il deposito, o che le parti possono configurare gratuiti, come il mutuo, ma sono possibili anche contratti (o meglio negozi) gratuiti atipici. Vi è dunque una certa area comune a gratuità e liberalità, ma solo nel senso che se è vero che tutti gli atti di liberalità sono gratuiti, non è vero il contrario. Così nel caso di un giovane pianista che si obbliga ad esibirsi gratuitamente per farsi conoscere dal pubblico ovvero nel caso di sponsorizzazione, perché il c.d. ritorno pubblicitario se non può costituire di certo una controprestazione, atta a qualificare il contratto come oneroso, ne esclude però il carattere liberale.

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Così come la donazione, anche il negozio gratuito può essere dunque ad effetti obbligatori o ad effetti reali, come nel caso in cui un’università conceda gratuitamente alla diocesi il diritto di superficie su un terreno al fine di costruirvi la cappella universitaria, atteso che le funzioni religiose sono un servizio che l’università è interessata ad offrire ai propri iscritti che versano la retta.

Sul piano della struttura là dove c’è effetto obbligatorio, si tratta di una promessa unilaterale interessata, che si conclude ex art. 1333, cioè con un negozio unilaterale rifiutabile. Il contratto è necessario solo se, ad esempio nel caso del pianista, costui voglia vincolare l’impresario ad organizzare il concerto. Il contratto si impone però quando, ad esempio nel caso dell’università, si vuole vincolare il superficiario a costruire la cappella. Il contenuto può essere qualunque, obbligatorio o reale, al pari di quello donativo, ma riferito ad un interesse patrimoniale, che giustifica l’attribuzione. La donazione invece, salvo quella obnuziale, è un contratto, perfino se obbligatoria. La spiegazione del necessario accordo, può ritrovarsi nel fatto che il donatario, accettando espressamente l’attribuzione, ne condivide il carattere bilaterale e quindi si sottopone alla disciplina della donazione, specie in punto di revoca per indegnità e di alimenti, che lo vincolano, a livello di onere e di obbligo, a determinati comportamenti.

Il negozio gratuito, per la sua sostanziale rilevanza patrimoniale, si distingue, quindi, non solo dalla donazione, ma anche dal rapporto di cortesia, là dove non è ravvisabile un interesse, né patrimoniale né non patrimoniale, giuridicamente rilevante di colui il quale opera l’attribuzione. Il comportamento di cortesia, infatti, trova le proprie motivazioni in considerazioni di carattere sociale, di per sé irrilevanti. Peraltro non è sempre facile distinguere gratuità da liberalità o da cortesia. In particolare questa difficoltà sussiste in presenza di un contratto gratuito tipico (es. il comodato può essere di cortesia, come il prestito di un libro ad un amico, può essere a titolo gratuito ma può anche configurarsi come donazione indiretta se il comodante non ha un interesse proprio ed anzi può avere un controinteresse).

Il negozio gratuito è a forma libera, salvo quando produce gli effetti di cui all’art. 1350, come nel caso della costituzione del diritto di superficie.

Sul piano dell’interpretazione, l’art. 1371 e il conseguente principio della minore obbligazione, in caso di gratuità, inducono a preferire, nel dubbio, il rapporto di cortesia, non vincolante, rispetto a quello gratuito.

15. Gli atti di destinazione.

Gli atti in forma pubblica, con cui i beni immobili o i beni iscritti in pubblici registri sono destinati per un periodo non superiore a 90 anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione. Per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costruire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’art. 2915 solo per i debiti contratti per tale scopo (art. 2645ter).

La destinazione può rilevare come fatto giuridico, quale presupposto oggettivo di una data disciplina legale o essere imposta dalla legge, ma di regola essa è frutto di un obbligo assunto con contratto oneroso o con donazione, modale o remuneratoria, cui si applica, con efficacia inter partes.

L’art. 2645ter disciplina un rapporto obbligatorio e non un nuovo diritto reale, se si considera la collocazione della norma al di fuori del contesto degli artt. 2643 – 2645 che disciplinano appunto la circolazione dei diritti reali. Non potrebbe dunque porsi nemmeno in astratto il problema dell’acquisto per usucapione. Né può parlarsi di obbligazione propter rem, in assenza di un collegamento con un diritto reale.

Conferma del carattere obbligatorio è anche l’esclusione dei beni mobili, inspiegabile in termini di diritto reale, ma coerente con la necessaria trascrizione del vincolo, ed inoltre il sindacato di meritevolezza dell’interesse perseguito di cui è portatore il beneficiario persona fisica, fino, al massimo, alla sua morte, o, se ente o P.A., fino a 90 anni. Poiché questo interesse entra in conflitto con quello dei creditori, comportando la destinazione una limitazione della responsabilità patrimoniale, non solo la norma è di stretta interpretazione, ma sarebbe di dubbia costituzionalità identificare meritevolezza e liceità. La

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meritevolezza va interpretata nel senso che deve ricorrere un interesse che ridondi in pubblica utilità, così come un tempo era per le fondazioni, o attenga a diritti costituzionalmente protetti, come nel caso della famiglia, anche di fatto. La forma pubblica dell’atto è pretesa ad substantiam e non al solo scopo di poter trascrivere, essendo, all’uopo, sufficiente anche la scrittura privata autenticata (art. 2657). Ciò dimostra anche che non sarebbe possibile una destinazione onerosa, perché la forma dei contratti di scambio è, al massimo, quella della scrittura privata (art. 1350). L’accordo è peraltro necessario, perché è necessario che il beneficiario accetti, manifestando, anche a tutela dei creditori, l’effettività del proprio concreto interesse alla destinazione, oltre che la volontà di ricevere un’attribuzione liverale, per quel che essa comporta in termini di disciplina.

I beni destinati sono gestiti, a seconda di quel che le parti prevedono nell’atto, dal conferente, dal beneficiario o da un terzo mandatario. Si è dunque fuori dallo schema del trust, là dove al trustee è trasferita la proprietà, da trasferire poi al beneficiario o a un terzo, mentre nel caso di destinazione, la proprietà resta al conferente, onde, alla sua morte, nel vincolo succede l’erede o, in caso di legato di specie, il legatario, con applicazione estensiva dell’art. 668.

I beni destinati rispondono solo per i debiti funzionali, costi cioè per la realizzazione della destinazione, anche da fatto illecito (es. rovina dell’edificio destinato). La tutela dei creditori non funzionali è, se del caso, nell’azione revocatoria contro l’atto di destinazione. È dubbio invece che essi possano opporre la sussidiarietà e l’obbligo di escussione ai creditori funzionali.

Chi ritiene la destinazione un atto modificativo della proprietà, diverso ma analogo, ai diritti reali in re aliena, parla invece di efficacia costitutiva della trascrizione anche inter partes, senza porsi però il problema del consenso traslativo (art. 1376).

LA CONCLUSIONE

1. Soggetto e parte.

L’art. 1321 chiarisce che l’essenza stessa del contratto è racchiusa nell’accordo raggiunto da due o più parti. Parti del contratto sono dunque gli autori del regolamento negoziale.

Deve però distinguersi tra parte in senso formale (autore dell’atto) e parte in senso sostanziale (destinatario degli effetti), distinzione che si appalesa in tutta la sua importanza specialmente in caso di rappresentanza diretta, là dove vi è scissione tra chi (rappresentante) manifesta la volontà e quindi è parte in senso formale del negozio e chi (rappresentato) si appropria degli effetti e quindi è parte in senso sostanziale.

La parte può anche essere plurisoggettiva, formata cioè da più soggetti. Ciò che rileva, infatti, non è l’unicità del soggetto, ma l’unicità dell’interesse. Parte è dunque, sotto questo aspetto, un centro di interessi.

La parte formale del contratto non può non essere determinata, perché, in caso contrario, lo stesso accordo sarebbe inconfigurabile. Non necessariamente determinata al momento della nascita del vincolo deve essere invece la parte sostanziale. Come è possibile che la parte formale non coincida con quella sostanziale così è anche possibile che quest’ultima ancora non si sia manifestata al momento della conclusione del contratto, come nel caso di rappresentanza in incertam personam, o di conclusione di un contratto per conto di chi spetta. L’identificazione è peraltro sempre necessaria in caso di contratti c.d. intuitus personae, là dove la persona del contraente rileva dotto il profilo delle qualità personali (ad es. è intuitus personae il contratto di mandato). L’importanza della personalità della prestazione si ravvisa soprattutto nella intrasmissibilità del rapporto, anche per effetto di una successione mortis causa. Altra caratteristica di questi contratti è la possibilità di agire per l’annullamento in caso di error in persona (art. 1429, n. 3).

Il nome falso con cui si contrae non rileva in nessun caso perché la fittizietà non impedisce di certo la conclusione del contratto essendo determinate le parti nella loro identità fisica. Se c’è stata autorizzazione ad usare il nome altrui, gli effetti si produrranno regolarmente. Non si tratta tanto di un caso di rappresentanza c.d. mascherata, perché fa difetto la spendita del nome, ma potrà invocarsi l’analogia. Se invece il contraente usurpa il nome altrui, il contratto non produce effetto alcuno per il soggetto il cui nome è stato usurpato, salvo sua tolleranza. In senso negativo si osserva che il contratto non potrebbe se non

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essere riferito sempre e solo alla persona il cui nome è (illegittimamente) speso, con conseguente nullità per difetto assoluto di volontà o annullabilità ex art. 1429 n. 3 o 1439.

2. La proposta e l’accettazione.

L’art. 1321 pone in primo piano l’accordo. Per accordo si intende l’incontro delle volontà dei contraenti su un assetto disciplinare che realizza i loro interessi. All’accordo si può pervenire attraverso una trattativa o, al contrario, senza nessuna discussione, come nel caso in cui il contenuto di un contratto sia prefissato e pertanto venga meno la libertà di cui al primo comma dell’art. 1322. La formazione del consenso può essere inoltre istantanea o progressiva a seconda che, prima di raggiungere l’accordo, una o entrambe le parti si impegnino in via preliminare. Il programma contrattuale è dunque inizialmente fissato in una proposta che una parte (denominata proponente) fa pervenire ad un’altra, denominata oblato. L’oblato può accettare, rifiutare o trattare. Nel primo caso il contratto si conclude, nel secondo caso la conclusione è impedita, nel terzo caso l’oblato può contrapporre una nuova proposta difforme dalla prima e così l’oblato diviene il proponente e viceversa.

La proposta del preponente e l’accettazione dell’oblato sono manifestate di regola mediante dichiarazione, scritta o orale. Solo eccezionalmente la volontà può essere manifestata mediante comportamento esecutivo. Proposta e accettazione non sono negozi unilaterali con propria autonomia ma atti (in senso stretto) prenegoziali che si fondono dando vita al contratto. Essi pertanto, di per sé, non producono effetto alcuno.

Accettare è quindi esercizio di una facoltà, come tale imprescrittibile e non di un diritto potestativo.

Lo schema tipico della proposta e dell’accettazione è quello tipico, previsto dalla legge all’art. 1326.

La proposta è una dichiarazione recettizia, caratterizzata, sul piano oggettivo, dalla completezza del contenuto dispositivo che deve prefigurare quello contrattuale. Sul piano soggettivo poi dal contesto della dichiarazione deve desumersi l’intenzione di volersi vincolare incondizionatamente a quel dato assetto di interessi. Naturalmente la proposta dovrà rivestire la forma che la legge pretende per il contratto che si intende concludere. Il proponente è in una posizione di vantaggio rispetto all’accettante non solo per quanto concerne l’immediata conoscenza del momento in cui il contratto si conclude ma anche per quanto concerne la possibilità di imporre oneri temporali e formali all’oblato con riguardo all’accettazione. Un termine iniziale però può essere posto al contratto ma non alla proposta.

Anche l’accettazione è un atti prenegoziale a carattere necessariamente recettizio. Tale dichiarazione deve essere per sua natura conforme alla proposta ma su un piano sostanziale e non meramente formale. Un’accettazione non conforme alla proposta equivale a nuova proposta (art. 1326). L’accettazione inoltre deve essere definitiva. Essa deve osservare la forma pretesa per il contratto da concludere, se ad substantiam. Se la forma è libera può anche accettarsi oralmente una proposta scritta. Una forma particolare può però essere imposta dal proponente (art. 1326, 4° comma); in tal caso l’inosservanza formale attribuisce all’accettazione il valore di proposta. Il silenzio può valere quale manifestazione tacita di volontà di accettare (purché non sia necessaria una forma scritta) quando l’oblato per legge, per patto, per consuetudine, ha il dovere di parlare e se ne astiene. Il silenzio può quindi, in presenza di comportamenti concludenti, specie esecutivi, inequivoci, rilevare come manifestazione di volontà quando si tratta di instaurare un rapporto.

Quanto al tempo, l’accettazione deve giungere al proponente nel termine da lui stabilito, o in quello ordinariamente necessario secondo la natura dell’affare o secondo gli usi (art. 1326, 2° comma), perché non è lecito vincolarsi a tempo indeterminato. Il proponente, ricevuta un’accettazione tardiva, potrà ritenerla irrilevante ma potrà anche ritenerla efficace. In entrambi i casi egli è tenuto a darne immediatamente avviso all’accettante, ma per motivi diversi. Nel primo caso perché sussiste un obbligo di informazione derivante dal più generale obbligo di buona fede. Nel secondo caso gli è imposto dalla legge.

La dichiarazione di rifiuto da parte dell’oblato impedisce una successiva accettazione (che varrà invece come proposta).

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Sia la proposta che l’accettazione si caducano qualora il proponente o l’oblato muoiano o diventino legalmente incapaci prima della conclusione del contratto.

Il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell'altra parte (art. 1326, 1° comma). Il contratto si conclude nel luogo in cui l’accettazione perviene e dunque, nel caso di contratto concluso tra persone lontane, nel luogo fissato dal proponente, o comunque in quello ove egli si trova. Al riguardo l’art. 1335 stabilisce una presunzione di conoscenza valida per tutte le dichiarazioni recettizie e quindi anche per la proposta e l’accettazione e la loro revoca, che si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario se questi non prova di essere stato, senza colpa, nell’impossibilità di averne notizia. L’art. 1335 suscita molte discussioni:

Principio della cognizione : secondo l’impostazione tradizionale il sistema è basato sul principio della cognizione, con un’attenuazione derivante dal fatto che, provata la recezione, la conoscenza conseguente si presume juris tantum, e la prova contraria deve essere data dal destinatario e deve prescindere dalla sua colpa.

Principio della conoscibilità: in verità la dichiarazione è efficace quando entra in termini oggettivi nella sfera di conoscibilità del destinatario, quando cioè egli è posto in condizioni di conoscerla, anche mediante esibizione, eventualmente provata per testi, e non consegna del documento, cosicché la presunzione è vinta solo da un evento eccezionale ed estraneo alla sua volontà.

Dichiarazioni incorporate: un’attenta dottrina ha posto in evidenza che così la teoria della recezione personale come quella, oggettiva, dell’ingresso della dichiarazione nella sfera di conoscibilità del destinatario, non hanno molto senso quando il contratto si conclude tra persone presenti (ed se il destinatario della dichiarazione è sordo di certo non è irrilevante tale circostanza). In effetti la regola posta dall’art. 1335 vale solo per le c.d. dichiarazioni incorporate, cioè racchiuse in documento, e solo se le dichiarazioni sono scambiate tra persone lontane.

La proposta e l’accettazione possono essere revocate fino a quando il contratto è concluso, e quindi fino a quando al proponente è pervenuta l’accettazione. Una revoca parziale dell’accettazione vale come controproposta. La revoca è atto non formale, nemmeno per relationem. Non deve infatti essere osservata la forma che ha rivestito la proposta e l’accettazione. L’art. 1328 pone regole diverse per la proposta e l’accettazione. Mentre la revoca dell’accettazione deve giungere a conoscenza del proponente prima dell’accettazione stessa (secondo comma), la proposta può essere revocata finché il contratto non sia concluso (primo comma) pertanto la revoca della proposta non deve giungere a conoscenza dell’accettante prima che l’accettazione pervenga a conoscenza del proponente, ma solo deve essere inviata prima di tale momento. Essa è atto indirizzato ma non recettizio. In sostanza, per quanto riguarda la revoca della proposta, vale la regola della spedizione e non quella della recezione, anche se la dichiarazione di revoca giunga poi all’oblato molto tempo dopo rispetto alla spedizione dell’accettazione o addirittura non pervenga mai, cosi ingenerando nell’accettante l’affidamento circa la conclusione del contratto. L’art. 1328 seconda parte prevede che se l’accettante ha in buona fede intrapreso l’esecuzione del contratto prima di avere notizia della revoca, il preponente è tenuto ad indennizzarlo delle spese e delle perdite subite. Si tratta di responsabilità da atto lecito ed infatti si parla di indennizzo e non di risarcimento. Sulla base degli artt. 1334 e 1335 si sostiene che anche la revoca della proposta sarebbe atto recettizio con la conseguenza che dovrebbe pervenire a conoscenza che l’accettazione pervenga a conoscenza del proponente stesso. Gli effetti della revoca retroagiscono al momento della sua emissione.

La revoca della revoca è ammessa concordemente nel caso di accettazione, trattandosi di atto recettizio. Nel caso di proposta invece la soluzione dipende dalla stipulazione che si prescelga: la revoca in tal caso è costruita come atto bensì indirizzato, ma non recettizio, ne deriverà che producendo essa effetti immediati a prescindere dall’effettiva recezione non sarà suscettibile di essere a sua volta revocata. Nel caso contrario la revoca della revoca sarà efficace se perverrà all’accettante prima di quest’ultima, in tal modo lasciando in essere la proposta.

3. La proposta irrevocabile.

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L’art. 1329 prevede che se il proponente si è obbligato a mantenere ferma la proposta per un certo tempo, la revoca è senza effetto. In caso di proposta irrevocabile, la morte o la sopravvenuta incapacità del proponente non toglie efficacia alla proposta. La natura della proposta irrevocabile è assai discussa. Da un lato si afferma che la proposta irrevocabile non è un atti prenegoziale ma un negozio unilaterale di carattere procedimentale, che attribuisce all’oblato il diritto potestativo di concludere il contratto, analogamente all’opzione. Dall’altro si afferma invece che si avrebbe una duplice dichiarazione perché al fianco alla proposta ordinaria ex art. 1326 vi sarebbe una rinunzia al potere di revoca. La prima tesi appare preferibile anche perché l’altra ha difficoltà a spiegare come mai alla morte o alla sopravvenuta incapacità non consegue la caducazione della proposta irrevocabile, mentre la proposta di cui all’art. 1326 non può sopravvivere alla morte o all’incapacità sopravvenuta.

Il nodo centrale della disciplina della proposta irrevocabile riguarda il termine. Ci si chiede infatti cosa accade se il proponente omette di fissarlo. Un termine non sarebbe mai necessario in quanto dovrebbe applicarsi direttamente l’art. 1326 e quindi esso, in mancanza di determinazione ad opera del proponente, sarebbe fissato in relazione alla natura dell’affare o dagli usi. In tal modo però si opera una certa commistione tra termine di efficacia e termine di irrevocabilità della proposta che riguardano profili diversi. Una cosa infatti è il termine entro il quale la proposta deve essere accettata, altra cosa è il termine di irrevocabilità in pendenza del quale la proposta non può essere revocata. Il termine di cui all’art. 1329 è dunque termine di irrevocabilità che deve essere necessariamente fissato dal proponente, laddove quello di efficacia, in difetto, è fissato dall’art. 1326.

Infine se il termine fissato dal proponente scade senza che sia intervenuta accettazione, secondo la teoria unitaria, poiché non si potrebbe distinguere tra termine di irrevocabilità e di efficacia, la proposta in ogni caso cadrebbe. Secondo la teoria della doppia dichiarazione, invece, se risulta che il termine di irrevocabilità non era, per volontà del proponente, anche di efficacia, la proposta potrebbe essere accettata se, in base alla natura dell’affare o agli usi ex art. 1326, tale termine di efficacia debba ritenersi ancora non scaduto, salvo che sia intervenuta revoca da parte del proponente, anche nel periodo di irrevocabilità, valendo essa, in tal caso, a far tempo dalla scadenza del termine di irrevocabilità stesso.

4. L’offerta al pubblico.

È proposta l’offerta al pubblico, che si configura ad esempio, nel caso di merce in vendita esposta nella vetrina di un negozio con l’indicazione del prezzo. L’offerta al pubblico, quando contiene gli estremi essenziali del contratto alla cui conclusione è diretta, vale dunque come proposta, salvo che risulti diversamente dalle circostanze o dagli usi (art. 1336).

L’offerta al pubblico non va confusa con la promessa al pubblico con la quale ha in comune solo l’indeterminatezza del destinatario. Il criterio discretivo riguarda il contenuto e il momento della nascita del vincolo. Nel caso di offerta, a differenza della promessa, si ha riguardo a comportamenti negoziabili, cioè a dire a prestazioni in senso tecnico; inoltre il vincolo consegue solo ad un successivo atto di accettazione, mentre nel caso di promessa si è in presenza di un negozio unilaterale cosicché l’obbligazione nasce a prescindere dalla comunicazione di cui all’art. 1989.

Più difficile è invece distinguere l’offerta dall’invito ad offrire, a cui l’art. 1336 allude quando dà rilevanza alle diverse circostanze. L’invito è contenuto nei prezziari, nei listini e in generale nei materiali pubblicitari e non è atto giuridico rilevante ma solo atto lecito nei limiti in cui ovviamente non costituisca atto di concorrenza sleale o non violi diritti della personalità, in particolare il diritto all’immagine o alla reputazione.

Un giurista, improvvisatosi civilista, sostiene che varrebbe quale invito l’esposizione delle merci nella vetrina, perché ogni negoziante sarebbe libero di decidere a chi vendere, cioè di scegliersi la clientela (Galgano). Sarebbe anche bello trasformare i negozi in piccoli clubs esclusivi con tanto di tessera: peccato però che al rilascio della licenza di esercizio si accompagni un obbligo a contrarre. Ed infatti quello dell’esposizione in vetrina è il caso classico di offerta al pubblico.

In ipotesi di offerta al pubblico per la conclusione di un numero determinato di contratti, qualora sopravvenga un numero esuberante di accettazioni si applica il criterio temporale. Se c’è contemporaneità si avrà o attribuzione pro-quota in ipotesi di divisibilità, o costituzione di un diritto in comune.

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La revoca dell’offerta se fatta nella stessa forma dell’offerta o in forma equipollente, è efficace anche nei confronti di chi non ne ha avuto notizia (art. 1336, 2° comma). È questa la conseguenza del fatto che l’offerta non ha, né può avere, carattere recettizio, non essendo configurabile quale oblato la collettività. L’offerta deve essere emessa, cioè esternata e dunque resa conoscibile. Per lo stesso motivo andrà esternata e debitamente pubblicizzata la revoca, nelle stesse forme. Trattasi pertanto di forma per relationem. La revoca può anche derivare da facta concludenti, come nel caso di ritiro della merce dalla vetrina. Secondo la giurisprudenza la prenotazione varrebbe accettazione e concluderebbe il contratto.

5. Il contratto plurilaterale.

Qualora le parti del contratto siano più di due, il contratto si qualifica plurilaterale e si conclude con l’incontro dei consensi di tutte le parti interessate. Là dove l’interesse sia riferibile a due soli contraenti, i quali però prevedono che terzi si aggiungano ad uno di essi, non ci sarà allora contratto plurilaterale, né formazione di una parte plurisoggettiva, perché l’intervento del terzo varrà, in sede esecutiva, come cooperazione all’adempimento. L’interesse, peraltro, va valutato oggettivamente in punto di partecipazione essenziale. Si conviene che il contratto plurilaterale si configura ogniqualvolta è ravvisabile una pluralità di interessi diversi e contrapposti che confluiscono però verso il conseguimento di uno scopo comune, intesa la comunione di scopo come unicità del risultato giuridico o vantaggio comune. Secondo taluni sussiste contratto plurilaterale pur quando non è ravvisabile comunione di scopo, come nel caso di contratto di divisione, al quale, dunque, non può applicarsi l’art. 1332 o quando sia la legge a fissare il numero delle parti, come nel caso di cessione del contratto (art. 1406).

In particolare il problema sussiste per quanto riguarda la conclusione. Non può ritenersi che il contratto plurilaterale si perfezioni puramente e semplicemente quando tutte le parti hanno manifestato la propria volontà, perché deve aversi riguardo all’interesse, nel senso che solo la partecipazione di determinate parti può all’occorrenza ritenersi condizionante la nascita del contratto. Deve dunque distinguersi il contratto plurilaterale in cui le prestazioni di ciascuna parte sono dirette al conseguimento di uno scopo comune dai contratti plurilaterali che esauriscono in sé lo scopo dei contraenti, come nel caso di contratto di divisione. Resta in ogni caso il problema di stabilire se, in primo luogo, l’accettazione di ogni parte debba essere portata a conoscenza delle altre e, in secondo luogo, se chi ha accettato sia in qualche modo già vincolato ed eventualmente entro quali limiti, prima ancora che il contratto si perfezioni con l’accettazione di tutte le altre parti la cui partecipazione è in concreto o in astratto, essenziale. Si può sostenere che la parte che ha accettato non deve porre impedimenti alla formazione del contratto plurilaterale. Può discutersi se ciò comporti limitazioni al potere di revoca. Certamente la revoca è possibile se perviene al proponente prima dell’accettazione, secondo quanto detta l’art. 1328, ma il punto è di accertare se essa possa pervenire fino a quando il contratto è concluso. Il disposto dell’art. 1326 che fissa un limite temporale antecedente non è applicabile al caso di specie perché riferito alla conclusione del contratto bilaterale, laddove la recezione dell’unica accettazione conclude il contratto. Nel caso di contratto plurilaterale, viceversa, sussiste un ulteriore lasso di tempo tra recezione della prima accettazione e conclusione del contratto a seguito della recezione delle altre, in pendenza del quale l’accettazione potrebbe essere revocata. La risposta sembra però negativa perché il potere di revoca non può dilatarsi temporalmente fino ad occupare lo spatium deliberandi riservato agli altri oblati, una volta consumato volontariamente quello proprio con l’intervenuta spedizione e recezione dell’accettante.

Quanto alla necessità che tutte le parti vengano a conoscenza dell’accettazione operata dalle altre, il problema si pone comunque e non nel solo caso di partecipazione essenziale, perché sembra necessario, in termini giuridici, che ciascuna parte conosca chi sono le altre parti con cui il contratto è concluso. È necessario allora che la proposta sia indirizzata agli interessati con la precisa indicazione di tutti gli oblati ed è altrettanto necessario che ciascuno di essi, a sua volta, indirizzi l’accettazione non solo al proponente ma anche agli altri oblati. L’unico dubbio riguarda la possibilità che l’accettazione non sia notificata personalmente all’interessato ma sia portata a conoscenza degli altri oblati da uno di costoro, a cui l’accettazione sia stata indirizzata. Si ritiene che in tal caso il contratto si perfezioni egualmente perché deve distinguersi tra indirizzamento e recezione. La dichiarazione si distacca dal suo autore e quindi è indirizzata nel momento in cui viene spedita al primo soggetto interessato. Il fatto della recezione è invece plurimo

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ma, sotto questo aspetto, attesa la vincolatività per l’accettante della dichiarazione da lui già indirizzata, sembra indifferente che la recezione avvenga a sua iniziativa o ad iniziativa di un terzo interessato.

Quanto osservato con riguardo all’irrevocabilità dell’accettazione pur prima della conclusione del contratto vale anche per la proposta, con la conseguenza che il proponente ed oblato che ha accettato potrebbero revocare solo raggiungendo un accordo tra di loro per poi notificarlo agli altri oblati. Se si ritiene al contrario che sia possibile revocare fino a quando al proponente giunge l’ultima delle accettazioni, la revoca dell’accettazione impedirà la conclusione se fatta da un oblato la cui partecipazione era essenziale. Se invece la partecipazione non è essenziale la revoca non impedisce la conclusione del contratto con gli oblati che non hanno revocato l’accettazione. Naturalmente il proponente dovrà ai sensi dell’art. 1328 indennizzare gli oblati che avessero iniziato l’esecuzione, per le spese e le perdite subite.

Le regole appena illustrate vigono anche per quanto riguarda le dichiarazioni plurisoggettive qualora esse provengano distintamente dai singoli soggetti formanti la parte stessa. È necessario che tutti i soggetti esprimano una volontà conforme, perché la partecipazione di ciascuno è in questo caso essenziale non potendosi altrimenti dire che la parte come tale ha manifestato la propria volontà.

In caso di atto complesso si ritiene che la revoca possa anche essere unisoggettiva.

6. Il contratto aperto.

Se ad un contratto possono aderire altre parti e non sono determinate le modalità dell’adesione, questa deve essere diretta all’organo che sia stato costituito per l’attuazione del contratto o, in mancanza di esso, a tutti i contraenti originari. Così l’art. 1332 regola i contratti aperti, cui appartengono necessariamente i contratti a carattere associativo. Ad onta della terminologia usata nella rubrica dell’art. 1332, non si è in presenza dei c.d. contratti per adesione. Tali contratti nascono quando una parte accetta in toto un regolamento predisposto dall’altra. Nel caso di adesione un contratto è già nato e ad esso la parte di chiara di voler aderire. La c.d. clausola di adesione è dunque apposta ad un contratto già plurilaterale o inizialmente bilaterale. Il contratto bilaterale una volta manifestatasi l’adesione, è disciplinato dalle norme sul contratto plurilaterale.

L’adesione è, in realtà, una proposta, se la clausola del contratto, che si configura in tal caso quale invito a proporre, prevede il potere dell’organo o dei contraenti originari di rifiutarla. Altrimenti si parla in dottrina di accettazione di un’offerta al pubblico, ma di per sé la clausola di apertura non è aperta a tutti, né, in difetto di individuazione del destinatario e di precisa volontà dei contraenti, permetterebbe di parlare di contratto a favore di terzo.

La clausola più attendibilmente assegna invece valore costitutivo di nuovo vincolo all’adesione. In tal senso può parlarsi di atto formativo post-negoziale in ogni cado a carattere recettizio. Secondo altra impostazione vi sarebbe invece autonomo negozio unilaterale perché la clausola di adesione inserita nel contratto non diviene inefficace in caso di morte o di sopravvenuta incapacità di uno dei contraenti originari e quindi non può essere considerata alla stregua di una proposta, che in tali casi si caduca (art. 1330). Inoltre la clausola di adesione (a differenza della proposta) non ha natura recettizia.

È sempre possibile revocare l’adesione nei limiti in cui la revoca pervenga all’organo o all’ultimo dei contraenti originari prima dell’adesione stessa.

7. La conclusione mediante inizio di esecuzione.

Nei soli casi in cui, su richiesta del proponente o per la natura dell’affare o secondo gli usi, la prestazione debba eseguirsi senza una preventiva risposta, il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione (art. 1327), purché successiva e conforme alla proposta, con pronto avviso, pena, in difetto, l’obbligo di risarcire il danno arrecato al proponente.

Parte della dottrina parla con riguardo all’atto con cui si inizia l’esecuzione di negozio di attuazione; altra parte osserva che la mera esecuzione non può da sola integrare gli estremi di una fattispecie negoziale e sottolinea come si sia in presenza di un’accettazione per comportamento concludente, tacita e dunque

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eccezionalmente non recettizia; altra dottrina parla di operazione non partecipativa; infine di teorizza l’esistenza di un comportamento legalmente tipico. In ogni caso vi è concordanza nel ritenere rilevante la volontà di chi esegue, cosicché costui potrà dimostrare l’assenza dell’intenzione di concludere il contratto.

Una diversità certa e indiscussa è quella che concerne la forma. Non è concepibile infatti (nemmeno se vi è accordo delle parti) una equiparazione tra esecuzione e dichiarazione, cosicché l’art. 1327 sarà applicabile solo in caso di contratti che non richiedono la forma scritta ad substantiam.

Questo modo di conclusione del contratto trova la propria ragione d’essere essenzialmente nella necessità, spesso avvertita dal proponente, di una pronta ed immediata esecuzione, attraverso clausole di “pronta consegna” o “consegna urgente”. In difetto valgono la natura dell’affare e gli usi, salvo che il proponente abbia richiesto una formale accettazione.

Una dottrina amplia la portata della norma e osserva che i contratti che di regola si concludono mediante l’inizio dell’esecuzione sono quelli che presuppongono un ordine, un incarico, un’autorizzazione. L’esistenza di un ordine o di un incarico giustifica l’esecuzione senza accettazione. La tutela del proponente è nel fatto che la prestazione da lui dovuta avverrà solo se e quando l’oblato eseguirà a sua volta la propria prestazione.

Chi esegue prima di accettare finisce per ingerirsi nell’altrui sfera giuridica e deve quindi condurre a termine l’opera non tanto perché la sua iniziativa ha creato affidamenti quanto perché l’interruzione può determinare un danno. L’obbligo di prosecuzione fino al completamento è dunque fissato dalla legge come conseguenza della nascita di un vincolo contrattuale, al fine di garantire al massimo, anche sul piano del risarcimento del danno, il proponente che subisce l’altrui ingerenza sia pure autorizzata, specie se dannosa (ad es. utilizzazione del bene del proponente). Per questo motivo, l’art. 1327 non si applica là dove un’ingerenza non sia configurabile.

L’inizio dell’esecuzione deve pertanto avere una rilevanza esterna e quindi un significato concludente nel senso di dare luogo ad un comportamento non equivoco, ad es. con la consegna della merce al vettore. Perciò fino a quando l’esecuzione resta nella sfera di disponibilità dell’oblato, non può dirsi che il contratto si sia concluso perché è dubbio se l’atteggiamento tenuto da costui sia destinato a produrre effetti per sé o per il proponente o per un terzo. Si può invece discutere se la proposta sia irrevocabile in assoluto o solo dopo l’inizio dell’esecuzione, pur se nella sfera dell’oblato, come è preferibile, se si ritiene che la revoca, concludendosi il contratto presso l’oblato è, in questo caso, atto recettizio. In tal modo si verrebbe a tutelare pienamente l’oblato, al quale spetterebbe di decidere se avvalersi o meno, pervenuta la revoca, dell’inizio dell’esecuzione, ciò che viceversa non potrebbe fare il proponente.

Ci si chiede se sia possibile una protestatio, cioè a dire una dichiarazione con cui l’oblato manifesta di non voler ricollegare a quel dato comportamento che si configura oggettivamente come inizio di esecuzione, il valore di conclusione del contratto. La risposta è incondizionatamente positiva per chi ravvisa in tale comportamento un negozio di attuazione e comunque una manifestazione di volontà con valore negoziale. La tutela del proponente è essenzialmente affidata al disposto dell’art. 1327 che prevede un obbligo di avviso a carico dell’accettante.

Nel caso si conclusione mediante inizio di esecuzione non è l’accettante a dover essere tutelato quanto piuttosto il proponente, il quale ignora che il contratto si è concluso. Tale tutele è in verità assai incidente perché l’accettante deve dare conto (con atto non negoziale, indirizzato, ma non recettizio) prontamente avviso all’altra parte dell’iniziata esecuzione e, in mancanza, è tenuto non al pagamento di un’indennità ma al risarcimento del danno. Si tratta di un preciso obbligo di legge che si riallaccia al più generale principio di correttezza e di buona fede fissato dagli artt. 1175 e 1375. Il risarcimento del danno sarà in tal caso pieno, trattandosi di responsabilità contrattuale. Tutti i danni saranno risarcibili in relazione al c.d. interesse positivo.

Qualora l’oblato inizi l’esecuzione ritenendo erroneamente che ricorrano gli estremi di cui all’art. 1327 e poi invii l’avviso, questo, secondo la giurisprudenza, può valere come accettazione della proposta, per il principio di conservazione ex art. 1367.

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8. I c.d. rapporti contrattuali di fatto.

Talvolta si assiste ad una prestazione eseguita da un soggetto in favore di un altro senza che vi sia stata una preventiva proposta. In tal senso si tratta di una situazione analoga ma allo stesso tempo diversa da quella prevista dall’art. 1327. Analoga perché è pur sempre presente un comportamento esecutivo che surroga una dichiarazione, ma diversa perché la misura dell’esecuzione non è fissata da una preventiva proposta. Si parla da taluni, al riguardo, di contratto di fatto o contratto irregolare. La dottrina, specialmente quella tedesca, ha tipizzato tre possibili circostanze in cui detta vicenda di fatto potrebbe realizzarsi:

1. Rapporti derivanti da un contatto sociale. In tal caso alla ingerenza nell’altrui sfera giuridica deve far riscontro la nascita di un vincolo che va al di là del semplice dovere di neminem laedere, dovendosi collaborare al fine di realizzare le aspettative ingenerate nella controparte dall’avvenuta ingerenza (c.d. responsabilità da affidamento). Là dove c’è contatto sociale, pertanto, non c’è contratto, ma c’è responsabilità contrattuale. Nasce allora un’obbligazione, che non ha però ad oggetto la prestazione di cui al corrispondente contratto. L’obbligo è quello di tenere comportamenti virtuosi a protezione della sfera di coloro con i quali, appunto, si entra in contatto, per cui l’inosservanza delle regole si configura come culpa in non faciendo.

2. Rapporti derivanti dall’inserzione di un’organizzazione comunitaria. Si indicano ad esempi il caso della società nulla e della prestazione in esecuzione di un contratto di lavoro nullo. La nascita del rapporto è giustificata dalla solidarietà che deve unire gli appartenenti ad una stessa famiglia.

3. Rapporti derivanti da obblighi (non giuridici ma sociali) di prestazione ricollegati all’esistenza di un’offerta a tutti i cittadini di servizi di interesse generale, come nel caso di trasporto ferroviario. In tal caso il pagamento del prezzo discenderebbe dalla legge o, più di frequente, da un regolamento amministrativo e non potrebbe così considerarsi come una controprestazione del servizio, come nel caso dell’autostrada, onde la responsabilità del gestore non sarebbe contrattuale ma aquiliana. Lo stesso dovrebbe dirsi, ad es. per i trasporti municipali.

I presupposti politici di tale dottrina si riallacciano, almeno inizialmente, alla dottrina nazionalsocialista che voleva sostituire all’individuo (e quindi al consenso) la collettività.

9. Il contratto con obbligazioni a carico del solo proponente.

La proposta diretta a concludere un contratto da cui derivino obbligazioni solo per il proponente è irrevocabile appena giunge a conoscenza della parte alla quale è destinata (art. 1333). Il destinatario può rifiutare la proposta nel termine richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi. In mancanza di tale rifiuti, il contratto è concluso.

Si discute se si sia in presenza di un negozio unilaterale o di un contratto, sia pure a formazione atipica. Il contrasto di opinioni è il risultato, per motivi diversi, della polemica in ordine alla necessità o meno del consenso ogniqualvolta si modifichi l’altrui sfera giuridico-patrimoniale. Più in generale lo schema del contratto a favore di terzo dimostra la possibilità di produrre effetti favorevoli nella sfera giuridica di un terzo rimasto assolutamente estraneo e la circostanza che l’atto da cui deriva tale effetto sia bilaterale o unilaterale è, dal punto di vista del terzo, del tutto irrilevante.

Il principio della c.d. relatività e del valore inter partes della regola negoziale è dunque un principio non assoluto ma relativo, nel senso che il legislatore può derogarvi ed ha dimostrato di volervi derogare quando il terzo vede incrementato il proprio patrimonio. Un negozio unilaterale, dunque, può incrementare l’altrui patrimonio, salvo rifiuto. La fattispecie di cui all’art. 1333 prevedrebbe, quindi, uno speciale modo di conclusione che si situa a metà strada tra il contratto, che è a formazione bilaterale, e il negozio giuridico unilaterale, tanto ciò vero che si parla al riguardo di negozio unilaterale a rilievo bilaterale.

Ma se il rapporto giuridico si costituisce senza bisogno di accettazione, ciò significa che si è in presenza di un negozio unilaterale.

Da queste contrapposte posizioni derivano anche conseguenze pratiche diverse. Prima tra tutte quella relativa al momento in cui si producono gli effetti della c.d. proposta. Nel caso di negozio unilaterale,

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l’effetto si produce nel momento in cui l’oblato ne viene a conoscenza, mentre secondo l’impostazione contrattualistica l’effetto si produce solo al momento in cui il contratto si perfeziona presso l’accettante e cioè con il trascorrere del tempo utile all’esercizio del potere di rifiuto.

Del resto che non si tratti di un’ordinaria ipotesi di formazione di un contratto lo dimostra sia la struttura dell’atto di proposta che il modo con cui si configura l’accettazione. La proposta, infatti, è irrevocabile ex lege non appena pervenuta a conoscenza dell’oblato. In tal caso si priva il proponente del potere di revoca che è insito nella stessa natura della proposta, intesa come atto precontrattuale. In secondo luogo la legge non prevede un termine di efficacia della proposta mentre esso è sempre necessario in caso di irrevocabilità non potendo il proponente restare vincolato a tempo indeterminato. La spiegazione è nel fatto che l’art. 1333 pone un termine al potere di rifiuto. Trascorso invano tale termine il contratto (secondo la terminologia legislativa) si conclude; l’atto di accettazione finirebbe così per identificarsi con un mero comportamento di astensione, in tal modo facendosi eccezione alla regola secondo cui l’accettazione si ricollega pur sempre ad un comportamento commissivo. È necessario distinguere la rinunzia dal rifiuto i il rifiuto impeditivo dal rifiuto eliminativo. La rinunzia è un negozio unilaterale che si caratterizza per il fatto di produrre effetto abdicativo.

Il rifiuto invece non consuma in nessun caso il diritto, che ritorna nel patrimonio del dichiarante o perviene nel patrimonio di un terzo (es. rinunzia, che in realtà è un rifiuto, dell’eredità o del legato: nel primo caso l’effetto della delazione a seguito del rifiuto si indirizza ad un terzo e, nel secondo caso, il rifiuto incrementa il patrimonio dell’erede o comunque dell’onerato).

Deve poi distinguersi tra rifiuto impeditivo e rifiuto eliminativo. Nel primo caso il soggetto impedisce un acquisto al proprio patrimonio (ad es. in caso di c.d. rinunzia all’eredità), nel secondo caso, invece, rimuove con effetto retroattivo effetti che si sono già prodotti ma non si sono ancora stabilizzati (ad es. la c.d. rinunzia al legato). [Legato: si acquista di diritto, senza accettazione; Eredità: è necessaria l’accettazione]

Per quanto riguarda la forma è decisiva la qualificazione della fattispecie in termini di unilateralità o bilateralità. Nel primo caso non c’è dubbio alcuno che la proposta possa aver riguardo anche ad effetti giuridici che si possono produrre solo in presenza di un atto scritto, sol che tale forma sia osservata dalla proposta stessa. Se la fattispecie è invece contrattuale il problema si complica perché coloro i quali parlano di accettazione o di dichiarazione tacita non possono poi ammettere l’esistenza di un’accettazione o di una dichiarazione non formale quando la forma scritta è pretesa dalla legge. Diversamente invece è a dirsi per chi pur nell’ambito della contrattualità, parla di contratto a formazione unilaterale, perché allora il profilo formale finisce per riassumersi nella sola proposta, viene cioè riferito alla sola attività del proponente.

L’art. 1333 si applica quando si ha unicità di prestazione e così nel caso, ad esempio, di gratuità del mandato senza rappresentanza o del patto fiduciario, ad iniziativa del mandatario o fiduciario.

Per i contratti reali gratuiti di mutuo e deposito, l’ostacolo alla consegna è superabile se essa si realizza a prescindere dalla effettiva trasmissione del possesso, che richiede collaborazione, quindi con una fictio traditio. L’art. 1333 fa riferimento all’assunzione di obbligazioni, ma appare applicabile anche alla concessione di diritti potestativi, quale quello di opzione gratuita.

10. Contratto consensuale e contratto reale.

Il contratto di regola è consensuale: il mero accordo è atto a produrre gli effetti voluti dalle parti.

Con il consenso si dà vita sia ai contratti obbligatori sia ai contratti traslativi. I primi sono quelli che creano obbligazioni, pongono cioè a carico delle parti l’obbligo di eseguire una prestazione, come nel caso di mandato. I secondi sono quelli che hanno come effetto il trasferimento della proprietà, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale ovvero di trasferimento di altro diritto, ad esempio di credito (cessione del credito) (art. 1376).

Il nostro ordinamento accoglie in materia di trasferimento di diritti reali il principio del consenso traslativo. Ma nel nostro ordinamento il principio del consenso traslativo non vige integralmente. In caso di conflitto tra più aventi causa dallo stesso autore, non vale infatti il principio prior in tempore potior in iure, ma

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quello della priorità del possesso di buona fede del bene, se mobile (art. 1155) e della priorità della trascrizione del titolo, in caso di trasferimenti immobiliari (art. 2644). Pertanto il formalismo è ancora osservato nel nostro ordinamento in materia di acquisto di diritti reali a titolo derivativo, ma non già ai fini del trasferimento inter partes, quanto piuttosto per la sua opponibilità ai terzi.

Il consenso è alla base di qualsivoglia contratto. Non c’è dunque contratto senza accordo. Taluni contratti tipici, però, non si concludono se all’accordo non segue la consegna, la quale diviene così elemento strutturale, sul piano dunque della formazione e non già dell’esecuzione del contratto. Si parla al riguardo di contratti reali. Questa categoria, come del resto quella dei contratti consensuali, abbraccia sia contratti obbligatori, come il deposito e il comodato, sia contratti traslativi come il riporto, il mutuo e il pegno.

È possibile concludere un contratto preliminare di contratto reale, che, almeno per il mutuo, è secondo taluni previsto dall’art. 1822 (promessa di mutuo). Peraltro l’inadempimento al contratto non potrebbe essere sanzionato con l’esecuzione in forma specifica, ma darebbe vita al solo obbligo di risarcire il danno, perché la sentenza costitutiva di cui all’art. 2932 non può trasformarsi in una sentenza di condanna a consegnare la cosa.

Ricapitolando:

Contratto consensuale (che si perfezione con il semplice consenso) Contratto reale [si perfeziona con la consegna (traditio) ossia, oltre al consenso è necessaria anche la consegna] Contratto con efficacia reale [contratto che realizza il trasferimento della proprietà o altro diritto reale (es.

compravendita, permuta, donazione)]

TUTTI I CONTRATTI SONO OBBLIGATORI, NON TUTTI SONO REALI.

11. Autonomia privata e conclusione del contratto.

Si discute se i privati possano interferire nei meccanismi normativi, variando i procedimenti di formazione del contratto, perché l’art. 1322, che fonda il potere di autoregolamento riguarda il concreto assetto dispositivo e non già il modo in cui esso viene in vita. D’altra parte solo ove si dimostri l’inderogabilità di una norma, il generale potere dei privati di disciplinare liberamente i propri interessi, deve cedere.

I contraenti non potrebbero configurare come reale un contratto consensuale. Il contratto reale atipico violerebbe infatti il principio della sufficienza del consenso. Così, l’effetto traslativo conseguente al semplice accordo nella compravendita, non potrebbe essere ricollegato dai contraenti alla consegna della cosa. Ma è possibile dar vita a contratti atipici consensuali.

Viceversa non poggia su una norma inderogabile il principio del consenso traslativo (art. 1376) che è eccezionale rispetto alla nozione di contratto come fonte di obbligazione (artt. 1173, 1321). Del resto non solo esistono numerose norme che prevedono l’obbligo di dare, ma la possibilità di far precedere il trasferimento da un accordo, con ritorno al modello della scissione tra titulus e muds adquirendi, è, a ben vedere, codificato dall’art. 1351, dovendosi ricostruire il contratto preliminare di compravendita come vendita obbligatoria.

(art. 1376: nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale, ovvero il trasferimento di un altro diritti, la proprietà o il diritto di trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato.)

Si ammette da taluni il potere dei privati di raggiungere un accordo in ordine al modo in cui dovrebbero concludersi tra di loro gli eventuali futuri contratti, ferma restando la libertà di contrarre. Si parla al riguardo di negozi o accordi configurativi, i quali esprimono bensì una irretrattabilità di giudizio, ma non sono dispositivi sul piano degli effetti patrimoniali e quindi non sono contratti ai sensi dell’art. 1321. È quindi possibile accordarsi, ad esempio, nel senso che il futuro eventuale contratto si concluderà con la sottoscrizione dell’oblato “per ricevuta” apposta sulla copia della proposta.

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12. Il contratto a distanza.

Sempre più spesso il procedimento di conclusione di un contratto avente ad oggetto beni o servizi, stipulato tra un professionista e un consumatore, inizia con tecniche di comunicazione a distanza. Alcune leggi speciali hanno disciplinato la materia attribuendo al consumatore taluni diritti quali: il diritto a ricevere in tempo utile e per iscritto complete informazioni sui termini soggettivi e oggettivi del contratto prima della sua conclusione; il diritto di recesso dal contratto con comunicazione scritta entro 10 giorni; esecuzione del contratto entro 30 giorni successivi a quello in cui il consumatore ha trasmesso l’ordine al fornitore, salvo indisponibilità del bene; divieto di fornitura di beni o servizi al consumatore in mancanza di una sua previa ordinazione. Questa disciplina non si applica ai contratti: conclusi tramite distributori automatici o locali commerciali automatizzati; conclusi con gli operatori delle telecomunicazioni impiegando telefoni pubblici; conclusi in occasione di una vendita all’asta.

LA FORMAZIONE PROGRESSIVA DEL CONSENSO

1. Le trattative. La responsabilità precontrattuale.

Le parti possono pervenire all’accordo al termine di una trattativa, che deve svolgersi secondo buona fede (art. 1337), pena il risarcimento del danno da illecito precontrattuale. La norma si applica anche in caso di formazione senza trattative: ad esempio esercizio dell’opzione o contratto con condizioni predisposte da una sola parte.

Costituisce violazione della buona fede iniziare a trattare senza avere intenzione di concludere il contratto, ma solo, ad esempio, al fine di disturbare la trattativa altrui ovvero di conoscere talune notizie che riguardano la controparte. Egualmente è da dirsi se si fissa un termine impossibile per accettare.

Viola la buona fede il c.d. recesso ingiustificato che si configura ogniqualvolta chi ha creato nella controparte un legittimo affidamento in ordine alla conclusione del contratto recede, anche incolpevolmente, provocando un danno. La proposta contrattuale in verità può essere liberamente revocata, se non ferma ex art. 1329 fino a quando il contratto non è concluso. Pertanto la trattativa di per sé non obbliga a concludere il contratto, ma obbliga a non ingenerare affidamenti legittimi nella controparte.

L’art. 1338 prevede un caso tipico, che si concretizza quando una parte, conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all’altra, che confidava sulla sua validità, salvo che costei potesse conoscerla usando l’ordinaria diligenza. Per invalidità si intende sia la nullità sia l’annullabilità ma non, secondo la giurisprudenza, l’inesistenza e l’inefficacia del contratto.

La buona fede è peraltro posta a presidio dell’aspettativa non solo, in particolare, della conclusione del contratto, ma anche, e prima ancora, della correttezza e lealtà delle trattative. Pertanto pur se il contratto si conclude validamente, può esservi responsabilità precontrattuale, qualora ad esempio un contraente abbia causato un ritardo nella conclusione.

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Anche il terzo che influenzi la contrattazione dando informazioni non adeguatamente controllate e poi rivelatesi false deve risarcire il danno.

Il danno si identifica con le spese sostenute (danno emergente) e con la provata perdita di occasioni di concludere lo stesso o altro tipo di contratto con terzi (lucro cessante) o, se il contratto è stato concluso validamente, il minor vantaggio o il maggior aggravio causato dal comportamento di mala fede. Il risarcimento secondo la tesi tradizionale riguarderebbe il c.d. interesse negativo (a non iniziare cioè le trattative) e incontrerebbe il limite costituito dall’interesse positivo, nel senso che il quantum debeatur non potrebbe mai essere superiore a quello che sarebbe stato corrisposto in caso di conclusione del contratto e successivo adempimento.

Discussa è la natura della responsabilità precontrattuale. Escluso che si tratti di un tertium genus, taluni la ricomprendono in quella contrattuale, altri in quella extracontrattuale. La prima tesi afferma che l’obbligo di buona fede violato è quello stesso di cui all’art. 1375, ha riguardo ad un rapporto tra soggetti individuati e dunque presuppone un rapporto giuridico in essere, che nasce con il contatto sociale conseguente all’inizio delle trattative. In senso contrario si è però osservato che l’obbligazione impone un dato comportamento per realizzare un interesse del creditore mentre l’obbligo di buona fede preesiste alle trattative, si impone erga omnes, mira a tutelare un interesse superiore che è quello al corretto e leale svolgimento della libertà contrattuale. Di qui la ricomprensione della responsabilità nell’ambito di quella extracontrattuale.

L’adesione all’una o all’altra delle due tesi comporta notevoli conseguenze sul piano della disciplina, in termini di onere della prova, prescrizione, messa in mora, rilevanza della colpa e dell’incapacità naturale, danno risarcibile.

Non sempre facile è stabilire quando le trattative possono ritenersi concluse positivamente, perché a volte esse si svolgono attraverso complessi accordi anche scritti, cosicché si parla di formazione progressiva del consenso. Può darsi però che l’atto scritto contenente l’enunciazione degli elementi sia stato redatto dalle parti con limitata funzione probatoria (ai fini della responsabilità da eventuale recesso ingiustificato) delle trattative svoltesi positivamente fino a quel momento, senza dunque alcun carattere di definitività (c.d. puntuazione, detta anche lettera di intenti o minuta contrattuale). E ciò può accadere anche quando l’accordo sia stato raggiunto su tutti gli elementi essenziali del contratto, ma siano ancora in discussione altri aspetti, come le modalità di pagamento o magari solamente esecutivi come il luogo o il tempo dell’adempimento. C’è dunque distinzione tra completezza e perfezionamento.

2. Il contratto preliminare.

Le trattative possono anche terminare non con la nascita di un contratto definitivo, ma con la stipulazione (definitiva) di un contratto preliminare, di un accordo, cioè, che obbliga le parti a concludere in un secondo momento un contratto necessariamente definitivo (un preliminare di un preliminare non sarebbe infatti funzionalmente giustificato, con conseguente nullità).

I contraenti possono integrare o modificare con il definitivo gli accordi raggiunti con il preliminare. La modificazione non è però implicitamente deducibile dalla mancata conformità del contenuto del definitivo al preliminare.

È necessario anche distinguere tra contratto preliminare e contratto definitivo con cui le parti si obbligano a ripetere la stipulazione, di regola per ragioni attinenti alla forma per la trascrizione.

Dal contratto preliminare nasce dunque l’obbligo di prestare il consenso per la conclusione di un successivo contratto i cui effetti verranno in vita solo se e quando tale contratto definitivo sarà stipulato. Il contratto preliminare quindi produce in ogni caso effetti obbligatori, mentre quello definitivo può essere ad effetti reali come obbligatori.

Sebbene l’oggetto del contratto preliminare sia comunque la prestazione del consenso, il termine di riferimento è il più vario e non sono ravvisabili limitazioni. Parte della dottrina e la giurisprudenza individuano l’unico limite nel contratto di donazione, dal momento che sarebbe di ostacolo all’assunzione

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di un vincolo preliminare la necessaria spontaneità che caratterizza l’atto liberale. Qualche spunto in senso contrario potrebbe ricavarsi dall’art. 769 che prevede anche la c.d. donazione obbligatoria con cui il donante assume verso il donatario un’obbligazione. In tal modo peraltro l’atto donativo finirebbe per identificarsi con il contratto preliminare e non quello definitivo.

È necessario un termine entro il quale stipulare il definitivo. In difetto, poiché si tratta di un termine non già essenziale del contratto (altrimenti il preliminare sarebbe nullo), ma di adempimento dell’obbligo di contrarre, le parti potranno rivolgersi al giudice ex art. 1183, nell’ordinario periodo decennale di prescrizione, salvo che esso sia desumibile dalla natura dell’affare.

L’art. 1351 prevede che il contratto preliminare abbia la stessa forma che la legge prescrive per quello definitivo (forma per relationem).

Se si sottolinea che il preliminare comunque produce effetti solo obbligatori, il negozio che li risolve o il recesso avrà sempre forma libera pur se il preliminare pretendesse la forma scritta. Se invece si sottolinea l’incidenza che sugli effetti finali ha il preliminare, sia pure in via mediata, la forma sarà scritta ove il preliminare pretenda tale forma.

Se colui che è obbligato a concludere il contratto non adempie l’obbligazione, in alternativa alla risoluzione l’altra parte, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che produca gli stessi effetti del contenuto non concluso (art. 2932). La sentenza è costitutiva (art. 2908). Essa non già tiene luogo del consenso, quanto piuttosto produce gli effetti del contratto (definitivo) non concluso, cosicché la parte adempiente, ad esempio il promittente acquirente, diverrà proprietario del bene in forza della sentenza e non del contratto. Il titolo di proprietà, dunque, sarà la sentenza che infatti, va trascritta così come la domanda, in caso di vicende immobiliari. Il legislatore ha scelto questa strada e non quella della sentenza di condanna a stipulare, che non avrebbe potuto offrire adeguata tutela, perché la parte inadempiente avrebbe potuto persistere nell’inadempimento e l’unica strada possibile sarebbe stata la risoluzione e il conseguente risarcimento del danno. Dottrina più attenta individua peraltro la costitutività della sentenza nel fatto di rendere definitivo il preliminare e non già di sostituire un titolo giudiziale ad un titolo negoziale che mancano.

L’art. 2932 non è sempre utilmente applicabile (si parla quindi di inutilità). Per i contratti obbligatori con prestazione di fare ha poco senso sostituire all’obbligo preliminare quello definitivo, che sarebbe parimenti inadempiuto. Problemi non nascono invece in casi di contratti traslativi là dove l’effetto reale si produce con la sola sentenza costitutiva.

Vi sono poi casi di impossibilità più che di inutilità. Così per i contratti reali, per i quali non può concepirsi una consegna coattiva. La consegna nei contratti reali è coelemento per la conclusione. La sentenza ex art. 2932, sostituendo il solo consenso non sarebbe dunque sufficiente. Essa poi non potrebbe essere pronunciata in presenza di un preliminare di vendita di immobile abusivo, insuscettibile di trasferimento inter vivos, o altrui, mentre per quello in comunione è necessario distinguere. Perché in caso di comproprietà la parte è plurisoggettiva, tutti i comproprietari dovrebbero sottoscrivere il preliminare. In difetto, il contratto non si è concluso e la sentenza costitutiva non può essere ottenuta, salvo avere ad oggetto la sola quota della comunione di spettanza del comproprietario promittente alienante, se il preliminare aveva previsto questa possibilità. Tale soluzione non vale in caso di comunione legale tra coniugi, là dove la quota non esiste.

C’è impossibilità anche quando il bene alienato sia perito ovvero sia stato già alienato a terzi, purché con atto opponibile.

Un tempo si sosteneva che la sentenza costitutiva non potesse minimamente modificare il contenuto del contratto preliminare. Più di recente questo ordinamento si è modificato. Si ritiene pertanto che, ad esempio in caso di preliminare di vendita con riserva di usufrutto, se, nelle more della stipula del definitivo, il promittente venditore muore, il promittente acquirente della nuda proprietà, qualora gli eredi del morto rifiutino di stipulare il definitivo di vendita della piena proprietà, può ottenere all’uopo una sentenza costitutiva ex art. 2932, con l’automatica variante, rispetto al preliminare, della riunione dell’usufrutto e

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della nuda proprietà. Senonché questa soluzione sembra valere solo se la morte interviene dopo la scadenza del termine previsto per la stipula del definitivo e successiva alla messa in mora, perché allora opera la perpetuatio obligationis (art. 1221), che giustifica la fictio della riunione. Se la morte interviene prima, la soluzione più rigorosa è invece quella della risoluzione per impossibilità sopravvenuta. In caso poi di vizi o difformità della cosa o di oneri, il promittente acquirente può ottenere che la sentenza diminuisca il prezzo pattuito nel preliminare o condanni il promittente alienante ad eliminare i vizi o le difformità (non gli oneri).

Talvolta le parti anticipano gli effetti del definitivo, pagando in tutto o in parte il prezzo o immettendo il promittente acquirente nel godimento dell’immobile, con conseguente detenzione e non possesso.

Il regime dei vizi del preliminare è quello ordinario, ma qualche problema sorge nei rapporti con il contratto definitivo.

È importante chiarire se l’invalidità del preliminare possa considerarsi superata nel caso in cui il contratto definitivo nasca di per sé validamente.

Se la giustificazione causale del contratto definitivo va ravvisata avuto riguardo alla produzione dei propri effetti tipici, cioè alla causa interna, è evidente che da un lato si sarà in presenza di una fattispecie negoziale e dall’altro si affermerà la totale irrilevanza dei vizi del preliminare qualora il definitivo sia di per sé validamente concluso.

Se viceversa il contratto definitivo trova la propria giustificazione causale nell’adempimento dell’obbligo di contrarre, cioè in una causa esterna, non si sarà in presenza di una fattispecie negoziale ma di un atto dovuto, quale è l’atto di adempimento ed allora il contratto definitivo sarà caratterizzato sempre e solo da una causa solvendi, cosicché l’invalidità del preliminare, facendo venir meno la causa giustificatrice, legittimerà la ripetizione di quanto prestato perché oggettivamente indebito.

Pertanto se il preliminare, ad esempio, di vendita immobiliare è nullo perché orale, ma le parti concludono il contratto di compravendita per atto scritto è necessario distinguere. Se esse erano venute a conoscenza della nullità e sapevano di non essere obbligate a contrarre, cosicché il contratto sarà stato concluso spontaneamente e non alla stregua di un definitivo. Se invece ignoravano la nullità e avranno inteso concludere un definitivo, il quale, secondo la teoria dell’autonomia e della causa interna sarà valido ed efficace, ovvero annullabile per errore sull’esistenza dell’obbligo di contrarre, rilevante quale errore di diritto, mentre secondo la teoria dell’adempimento in difetto della causa solvendi per insussistenza dell’obbligo a contrarre, sarà nullo e comunque legittimerà la ripetizione di quanto prestato.

Se invece il preliminare era annullabile, ad esempio per errore, e l’errante scopertolo nelle more della stipula del definitivo, anziché impugnare il preliminare, stipula in definitivo stesso, nessun problema nasce per la teoria della causa interna, atteso che il definitivo non nasce viziato, essendo l’errore stato scoperto, mentre per la teoria della causa esterna, la conclusione del definitivo, essendo atto di esecuzione dell’obbligo a contrarre, nella conoscenza del motivo di annullabilità vale convalida del preliminare ex art. 1444.

Quanto alla rescissione per lesione, la teoria del doppio contratto ipotizza una doppia azione, anche perché la lesione, solo potenziale quando si conclude il preliminare, si attualizzerebbe con il definitivo. In tal modo, qualora tra preliminare e definitivo intercorra più di un anno, si porrebbe nel nulla il termine annuale di prescrizione, perché l’azione, ove prescritta per il preliminare, sarebbe riproponibile entro un ulteriore anno dal definitivo. Chi invece attribuisce carattere solutorio al definitivo, ritiene proponibile l’azione solo entro un anno dalla conclusione del preliminare.

Il preliminare può risolversi. L’eccessiva onerosità e l’impossibilità sopravvenute rispetto a quanto pattuito con il preliminare, vanno valutate al tempo in cui il definitivo andrebbe concluso.

Se si ammette la revoca anche degli atti di assunzione delle obbligazioni il preliminare è revocabile.

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Importanti principi si traggono infine delle decisioni in materia di contratto preliminare di compravendita di cosa altrui. Il promittente venditore di cosa dichiaratamente altrui è obbligatorio non già a concludere il contratto definitivo di vendita di cosa altrui, ma a procurare al promittente acquirente l’acquisto della proprietà della cosa sia acquistando a sua volta previamente il bene dal terzo proprietario per venderlo poi alla controparte, sia inducendo il proprietario stesso a dare il proprio consenso alla vendita in sede di stipula del contratto definitivo ovvero a vendere direttamente al promittente acquirente, cosicché non si procederà alla stipula del definitivo.

Il contratto preliminare di vendita genera dunque l’obbligo non tanto di prestare il consenso, quanto di dare.

I preliminari dei contratti di cui all’art. 2643, se risultanti da atto pubblico o scrittura privata autenticata, possono essere trascritti. L’efficacia della trascrizione è però limitata nel tempo fino ad un anno dalla data convenuta per la conclusione del definitivo o comunque non oltre tre anni. Se interviene entro uno di tali alternativi termini, la trascrizione del definitivo o di un altro atto con effetti reali oppure della domanda ex art. 2652 n. 2, prevale sulle trascrizioni o iscrizioni curate contro il proponente alienante dopo che il preliminare è stato trascritto (art. 2652bis).

Secondo l’opinione dominante la trascrizione avrebbe funzione di prenotazione, sicché l’opponibilità deriverebbe dalla successiva trascrizione del definitivo i cui effetti retroagirebbero alla data della trascrizione del preliminare.

Senonché sembra più corretto ritenere che questa trascrizione vada curata ai fini di autonoma opponibilità ex art. 2644, sia pure temporalmente circoscritta (3 anni al massimo), come è inevitabile in relazione alla natura obbligatoria degli effetti. Pertanto la trascrizione del definitivo non retroagisce ma risolverà i conflitti con chi acquista diritti incompatibili con atto trascritto successivamente, perché i conflitti precedenti, se sorti dopo la trascrizione del preliminare, sono risolti da quest’ultima.

In caso di mancata esecuzione del preliminare, la relativa trascrizione attribuisce privilegio sull’immobile per i crediti del promittente acquirente purché non sia scaduto il suddetto termine di opponibilità.

L’art. 2748, in virtù del quale il privilegio immobiliare prevale sulle ipoteche, non trova applicazione per quelle iscritte prima della trascrizione del preliminare, dovendosi applicare l’art. 2644. Chi parla di prenotazione non riesce invece a spiegare in modo convincente la prevalenza, pur affermandola.

3. L’opzione. (contratto preparatorio al definitivo)

Quando le parti convengono che unna di esse (c.d. concedente) rimanga vincolata alla propria dichiarazione e l’altra (c.d. opzionario) abbia la facoltà di accettarla o meno, la dichiarazione della prima si considera quale proposta irrevocabile per gli effetti previsti dall’art. 1329 (art. 1331). L’opzione determina pertanto la nascita in capo all’opzionario di un diritto che, se esercitato, conclude automaticamente il contratto di vendita. Tale diritto è potestativo, perché corrisponde ad esso dal lato passivo, e quindi in capo al concedente, una soggezione, dovendo costui, se del caso, subire la conclusione del contratto finale ad iniziativa del solo opzionario. Lo schema perfezionativo non è dunque quello della proposta-accettazione ex art. 1326, ma quello del contratto preparatorio di opzione, seguito dall’esercizio del suddetto diritto, mediante dichiarazione unilaterale recettizia entro il termine fissato nel contratto stesso o, in difetto, dal giudice. Pertanto scaduto il termine l’opzione viene meno e non può sopravvivere come proposta semplice, trattandosi di termine di efficacia di un contratto e non di irrevocabilità di una proposta. L’esercizio tardivo del diritto potestativo vale, dunque, quale nuova proposta.

Rispetto alla proposta irrevocabile l’opzione si distingue sotto molteplici aspetti, discendenti dalla struttura bilaterale. L’opzione può essere onerosa, laddove la proposta irrevocabile, per la sua unilateralità, è gratuita. Inoltre in difetto di fissazione convenzionale del termine, interviene il giudice ex art. 1331, laddove

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il difetto di termine nella proposta irrevocabile comporta gravi problemi. Infine l’opzionario può prima dichiarare di non voler esercitare il diritto e poi esercitarlo, purché entro il termine, perché il diritto di estingue solo per accordo tra le parti o scadenza del termine per l’esercizio, mentre in caso di proposta irrevocabile al rifiuto consegue la revocabilità della proposta o, per la tesi del negozio unilaterale, la sua caducazione.

Come è da dirsi per il contratto preliminare, anche in caso di opzione si è in presenza di un contratto preparatorio, ma la produzione degli effetti definitivi è incerta, dipendendo dalla volontà di una parte (opzionario) che ha, al riguardo, libertà di scelta, laddove in caso di preliminare essa è incerta, anche perché, in caso di adempimento, soccorre la sentenza ex art. 2932. In caso di preliminare nasce un obbligo di contrarre, in caso di opzione il successivo contratto si perfeziona invece con il semplice esercizio del diritto potestativo.

Qualche difficoltà a distinguere opzione e preliminare può sorgere in caso di preliminare unilaterale, quando cioè l’obbligo di contrarre è assunto da una sola parte. In tal caso alla dichiarazione dell’altra di coler concludere il contratto deve poi seguire la stipula del definitivo, mentre in caso di opzione la dichiarazione da parte dell’opzionario perfeziona il contratto finale. Si avranno allora tre fasi (conclusione del preliminare, dichiarazione di voler concludere il definitivo, successiva conclusione) e non già due come nell’opzione. Ma le diversità sfumano se si raffronta il preliminare unilaterale con l’opzione di preliminare bilaterali, in cui parimenti si ravvisano le tre suddette fasi, pur se resta fermo che in un caso c’è obbligo, nell’altro soggezione. Viceversa non sembra ipotizzabile un’opzione di preliminare unilaterale, in cui si passa da un vincolo unilaterale con soggezione, ad altro vincolo unilaterale con obbligo.

Il codice, salvo il profilo del termine, non regolamenta il contratto d’opzione. Di qui numerose questioni. In ogni caso è certa l’applicabilità dello schema dell’opzione a tutti i contratti onerosi. È altrettanto certo che la forma è quella stessa pretesa dalla legge per il contratto che si intende concludere (forma per relationem).

Se il concedente aliena il bene a terzi, l’opzionario, esercitato il diritto, potrà solo agire per il risarcimento dei danni. Essa non spiega effetto alcuno per i terzi e non è quindi opponibile nei loro confronti. L’opzione in assenza di norma espressa, qual è per il contratto preliminare l’art. 2654bis, non estendibile all’opzione, non può essere trascritta. La tutela verso i terzi è dunque quella che discende dalle regole sulla risoluzione dei conflitti tra più aventi causa, dopo che l’opzione è stata esercitata. Pertanto restano fermi l’art. 1155 in caso di beni mobili, se l’opzionario consegue per primo il possesso, e l’art. 2652 n. 3 se, in caso di immobili, egli trascrive la domanda volta ad accertare l’autenticità delle sottoscrizioni dell’opzione e della dichiarazione di esercizio che conclude il contratto, prima della trascrizione dell’acquisto ad opera del terzo.

La responsabilità non è contrattuale perché, a differenza del contratto preliminare bilaterale, là dove infatti è applicabile l’art. 1218, il contratto definitivo è solo eventuale. Per parte sua l’opzionario è libero di esercitare o di non esercitare il diritto di opzione, ma se con il suo comportamento ingenera nel concedente l’affidamento incolpevole circa l’esercizio e poi non lo esercita, risponderà per culpa in contrahendo.

4. La prelazione volontaria.

Il codice non regolamenta la prelazione volontaria, che si ha quando un soggetto (c.d. promittente o concedente) promette ad un altro (c.d. prelazionario) di preferirlo, a parità di condizioni, rispetto a terzi qualora in futuro decida di addivenire ad una certa contrattazione, ad es. la vendita della propria abitazione. La promessa può essere gratuita ex art. 1333 o onerosa e avrà allora struttura contrattuale.

Il vincolo attiene solo alla scelta del contraente a parità di condizioni. È dunque in ogni caso garantita la libertà in ordine all’an e al quomodo del contratto, perché nel patto di prelazione non deve essere fissato il contenuto del futuro (eventuale) contratto che il concedente è libero di trattare come meglio crederà.

L’assoluta libertà di cui gode chi concede la prelazione, induce a ritenere possibile, qualsivoglia comportamento da cui derivi l’impossibilità di addivenire alla conclusione del contratto, come la trasformazione o la distruzione del bene.

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Dal patto di prelazione non nasce dunque per il promittente un obbligo a contrarre ma nascono due obblighi diversi: l primo, a carattere positivo (facere), di rendere nota al prelazionario l’intenzione di concludere un contratto a certe condizioni (c.d. denuntiatio) e il secondo, a carattere negativo (non facere), di non stipulare il contratto stesso con terzi prima o in pendenza della denuntiatio. Pertanto la denuntiatio farebbe avverare la condizione sospensiva quale comunicazione dell’intenzione di vendere, ma, nel contempo sarebbe una proposta irrevocabile di concludere il contratto di compravendita. In caso di vendita immobiliare a terzi non preceduta da comunicazione e successivo rifiuto, il prelazionario potrebbe quindi agire in giudizio ex art. 2932 prevalendo sul terzo acquirente se la trascrizione della domanda ex art. 2651 n. 2 precedesse quella dell’acquisto del terzo ex art. 2643, come per il preliminare.

Secondo l’altra più corretta tesi, la denuntiatio può anche contenere una proposta, peraltro revocabile, ma di regola essa è solo un invito ad offrire, atto (non formale) di adempimento di un obbligo di comunicazione delle condizioni per la vendita. In caso di risposta positiva il contratto non si conclude automaticamente, ma potrà (e non già dovrà) essere stipulato in un secondo momento. Se la risposta è negativa il concedente potrà vendere a terzi alle stesse condizioni.

Poiché non c’è obbligo a contrarre il promittente è infatti comunque libero di non vendere al prelazionario, ma a condizione di non vendere nemmeno a terzi, in caso di vendita senza denuntiatio il prelazionario avrà diritto al risarcimento dei danni da inadempimento, senza poter invocare l’art. 2932. Ne deriva sul piano formale che se la prelazione è un contratto preliminare deve applicarsi l’art. 1351 ed inoltre la denuntiatio deve accompagnarsi ad un’offerta da parte di un terzo che fissi per relationem il contenuto del contratto. Se viceversa, più correttamente, si nega l’esistenza di un obbligo a contrarre la forma del patto è libera così come è libero il contenuto della denuntiatio che può essere fissato direttamente dal promittente pur in assenza di offerte di terzi.

Il rifiuto di contrarre da parte del prelazionario non consuma il diritto ad essere preferito ove alla denuntiatio non segua la vendita del terzo. L’estinzione del diritto consegue invece sicuramente alla scadenza del termina fissato convenzionalmente dalle parti nel patto di prelazione, dovendosi così distinguere tra termine di efficacia del patto e termine per l’adesione alla denuntiatio.

La prelazione volontaria, a differenza di quella legale, non è di per sé opponibile ai terzi, né suscettibile di trascrizione. Il prelazionario ha dunque solo diritto al risarcimento del danno anche nei confronti di terzi, se di mala fede.

Secondo altra meno attendibile impostazione, il patto di prelazione sarebbe invece un contratto preliminare unilaterale.

5. Il contratto normativo.

Può accadere che due soggetti raggiungano un accordo nel senso di fissare il contenuto dei futuri contratti che essi saranno pertanto liberi di concludere tra di loro. Non si tratta dunque di un contratto preliminare che obbliga a concludere un successivo contratto con contenuto già prefissato ma di un fenomeno diverso che non tocca la libertà di concludere il contratto quanto piuttosto quella di fissarne il contenuto. Si parla al riguardo di contratto normativo, ma dovrebbe, in verità, parlarsi di accordo normativo, a sottolineare che le parti non dispongono dei propri interessi, come nel caso di contratto, ma solo fissano la disciplina dei futuri contratti.

L’accordo normativo può riguardare singole clausole o l’intero contenuto degli eventuali futuri contratti, come nel caso di contratto-tipo quando tra le parti (di regola impresa e fornitori abituali) si instaurano ripetuti rapporti contrattuali sempre identici.

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Qualora una parte si rifiuti di contrarre secondo il contenuto prefissato pattiziamente, si avrà diritto al risarcimento del danno precontrattuale, ma non si potrà agire ex art. 1932 perché non vi è obbligo a contrarre. L’accordo, infatti, non è un pactum de contrahendo, ma un pactum de modo contrahendi.

L’accordo normativo fa dunque venir meno non già la libertà di contrarre, ma, in tutto o in parte, le trattative per i successivi contratti, salvo quando le parti, d’intesa, inseriscono nel contratto clausole difformi.

Secondo una tesi superata e inaccettabile, le clausole difformi sarebbero invece sostituite da quelle dell’accordo, che avrebbe efficacia non già obbligatoria ma reale, cosicché le parti in tanto potrebbero disporre diversamente in quanto ponessero prima nel nulla, risolvendolo, l’accordo stesso. L’accordo avrebbe allora un carattere legale e non già pattizio e la sostituzione di clausole sarebbe analoga a quella prevista dall’art. 1339, mentre la forza di legge di cui parla enfaticamente l’art. 1372, è riferita al singolo contratto dispositivo e non già ad un accordo una tantum di programma.

6. Le imposizioni legislative.

La legge interviene nel procedimento di formazione del consenso in vario modo. La forma di intervento più evidente è quella dell’obbligo a contrarre, previsto ad esempio in materia di monopolio legale (art. 2597). Il rapporto non si costituisce ex lege ma solo con la conclusione del contratto. Non vi è dunque una sorta di sostituzione della legge alla volontà dei privati, ma solo una limitazione della libertà contrattuale del singolo.

In caso di rifiuto di contrarre, il richiedente può agire ex art. 1218, e non già ex art. 2043, mentre non ha senso il dubbio circa l’applicabilità dell’art. 2932. Infatti tale norma non distingue a seconda della fonte ed a nulla vale richiamare il fatto che il legislatore ha usato il termine obbligazione (che è tipico della vicenda contrattuale) anziché obbligo (che è tipico della vicenda legale), perché ciò che conta è l’individuazione del soggetto obbligato, operata senza alcuna limitazione.

La legge interviene poi anche in altri modi nel procedimento di formazione del contratto, ad esempio prevedendo forme di opzione, come nel caso di emissione di nuove azioni da parte della società, dovendo esserne offerta la sottoscrizione ai soci, in proporzione al numero delle azioni possedute (art. 2441). Parimenti il datore di lavoro ha opzione per l’uso dell’invenzione del dipendente o per l’acquisto del relativo brevetto.

Infine numerose sono le ipotesi di prelazione legale. Si pensi al c.d. retratto successorio (art. 732), richiamato anche in materia di impresa familiare, alla c.d. prelazione agraria dei coltivatori diretti affittuari del fondo.

La prelazione legale ha efficacia reale ed è opponibile quindi all’acquirente. Pertanto in caso di omessa denuntiatio, costui acquisterà bensì il bene, perché il contratto è valido ed efficace, ma tale acquisto viene meno nel caso di esercizio (mediante atto unilaterale recettizio) del diritto potestativo di riscatto da parte del titolare del diritto di prelazione, con pagamento del prezzo dichiarato nell’atto. Non c’è infatti risoluzione del contratto con formazione di un titolo di acquisto ex nunc in favore del riscattante o un nuovo trasferimento del bene dall’acquirente al riscattante stesso, ma la sostituzione con effetto ex tunc di costui all’acquirente, sulla base della propria dichiarazione unilaterale recettizia, sia pure subordinata all’effettiva pagamento del prezzo o alla sua offerta reale, onde l’azione per il riscatto è di mero accertamento. Il termine per esercitare il diritto di riscatto è variabile e decorre dal momento in ci il contratto di compravendita è trascritto. In tal modo si pone un grave onere a carico del prelazionario, il quale dovrebbe consultare periodicamente i registri immobiliari. Il sistema è tanto più iniquo se si considera che quando la legge è rispettata e la denuntiatio è regolarmente comunicata, anche verbalmente, il termine per l’esercizio della prelazione decorre dall’effettiva conoscenza, mentre quando la legge non è osservata e la denuntiatio è omessa, il termine per il riscatto decorre da un momento in cui non vi è conoscenza ma mera conoscibilità, a seguito della trascrizione.

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Peraltro il prelazionario ha diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 ove non abbia esercitato tempestivamente il diritto di riscatto, perché il comportamento del venditore e del terzo lo ha indotto a ritenere che non vi fosse stata vendita.

La denuntiatio deve indicare le condizioni che individuano la sostanza giuridica economica del contratto, compreso il prezzo, irrilevante essendo la conoscenza che il prelazionario ne abbia aliunde. Anche il nome del terzo acquirente deve essere comunicato in caso di prelazione dell’affittuario o del locatario, perché costui ha interesse a conoscerlo, in relazione all’eventuale subingresso nel contratto, interesse che invece non ha i confinante.

Il diritto di prelazione nasce de iure e quindi esiste già potenzialmente e può essere rinunziato, a prescindere dalla notifica della denuntiatio, dal prelazionario che sia a conoscenza dell’alienazione al terzo. In difetto di ciò la rinunzia è nulla per indeterminatezza dell’oggetto.

D. lgs. 42/2004: prelazione legale dello stato sui beni di interesse storico o artistico.

IL REGOLAMENTO CONTRATTUALE

1. Contenuto ed oggetto.

Il codice identifica nella prestazione, intesa come risultato dell’accordo, compresa dunque la produzione di effetti reali, il termine di riferimento oggettivo del contratto e nel bene dovuto l’oggetto della prestazione.

Si parla anche di contenuto contrattuale, che assorbe in sé quella di oggetto, come può desumersi dagli artt. 1322 e 1376, che parlano rispettivamente di contenuto e di oggetto.

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Jacques de Chabannes (signore di La Palice) definiva l’oggetto quale entità materialmente percepibile, estraneo al contenuto del contratto, del quale però entrerebbe a far parte la rappresentazione descrittiva dei suoi caratteri.

2. I requisiti.

L’oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile (art. 1346).

L’impossibilità può essere fisica o giuridica. La prima va valutata sul piano materiale (ad es. vendita di bene inesistente), la seconda invece dipende da una valutazione normativa (ma non già a disfavore conseguente alla violazione di divieti posti dall’ordinamento giuridico o dai principi del buon costume, ricadendosi altrimenti nell’illiceità) e così quando il bene non è suscettibile di essere dedotto in contratto (ad es. vendita del possesso), ma anche in caso di indifferenza, che si realizza quando l’ordinamento ritiene determinati interessi, pur non illeciti, insuscettibili di tutela giuridica.

L’illiceità dell’oggetto va valutata invece al momento in cui il contratto è stipulato ed in base alla legge a quel momento vigente, cosicché in caso di illiceità sopravvenuta si porrà eventualmente solo un problema di successioni di leggi nel tempo, da risolversi con riferimento al criterio dei diritti quesiti, ovvero un problema di impossibilità sopravvenuta per factum principis con riferimento all’adempimento della prestazione. Parimenti se un a legge sopravvenuta alla conclusione di un contratto abroga un’altra legge vigente a quel momento che ne determina l’illiceità, non per questo il contratto diverrà lecito.

Si ha determinatezza dell’oggetto anche quando esso non sia indicato con assoluta precisione, purché sia chiara la volontà delle parti.

Si ha determinabilità quando l’oggetto è individuabile in base a criteri oggettivi (ad es. calcoli matematici) o quando le parti abbiano previsto il procedimento mediante il quale pervenire alla determinazione, comunque non unilaterale.

Il bene infine è determinato pur nel caso in cui le parti lo abbiano indicato per relationem, abbiano cioè operato un rinvio ad una fonte esterna, quale un altro contratto intercorso tra le parti o tra diverse parti.

La prestazione di cose future può essere dedotta in contratto (art. 1472), salvo i divieti di legge (art. 1348). Discussa è la natura giuridica dei contratti di cosa futura. Secondo taluni opererebbe una sorta di sospensione di efficacia conseguente ad una condicio iuris o piuttosto collegata al venir ad esistenza di un elemento costitutivo dell’efficacia stessa. Secondo altri si tratterebbe di un contratto a formazione progressiva, cosicché il perfezionamento e non già la produzione degli effetti, dipenderebbe dal venir ad esistenza del bene: in difetto i contraenti risponderebbero eventualmente solo a titolo di culpa in contrahendo.

Senonché il contratto è perfetto ab initio, essendo presenti tutti gli elementi essenziali, ivi compreso l’oggetto, che va identificato nella res sperata o in fieri. La non attualità del bene comporta solamente la nascita di un obbligo a carico della parte volto a rendere possibile o comunque a facilitare il venire ad esistenza del bene stesso. Si pensi alla vendita di cosa futura (art. 1472), là dove nasce immediatamente a carico del venditore l’obbligo strumentale di far venire ad esistenza il bene al fine di permettere la produzione dell’effetto traslativo.

3. La determinazione ad opera del terzo.

La prestazione dedotta nel contratto può anche essere determinata da un terzo (denominato arbitratore) l quale le parti, congiuntamente, deferiscano tale compito (art. 1349). Se, nonostante l’impegno assunto, le parti non procedono alla nomina, la determinazione della prestazione può essere fatta dal giudice.

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L’arbitratore è un prestatore d’opera intellettuale e non un mandatario perché egli svolge un’attività non solo nell’interesse ma anche nei confronti delle parti e non già di terzi, ciò che è incompatibile con lo schema del mandato.

È discussa la natura negoziale dell’atto di determinazione (c.d. arbitraggio). L’arbitratore, determinando l’oggetto, regola interessi non già propri ma altrui, avendo come punto di riferimento un regolamento contrattuale già nato e a cui la sua persona resta del tutto estranea. Si è in presenza di una dichiarazione di scienza o comunque un atto non negoziale. Non esiste allora un problema di forma (in ogni caso libera, pur se vincolata sia quella del contratto) e nemmeno capacità d’agire, essendo sufficiente quella naturale.

Il terzo deve procedere alla determinazione con equo apprezzamento, avuto riguardo a tutte le circostanze obiettive e prescindendo da considerazioni in ordine alla posizione soggettiva delle parti. Non si tratta di un giudizio d’equità in senso stretto, ma di un giudizio di carattere tecnico, esulando dalla decisione dell’arbitratore ogni profilo di discrezionalità. Una valutazione discrezionale è invece possibile se le parti si sono concordemente rimesse al mero arbitrio del terzo, fermo restando che costui deve comunque operare diligentemente e soprattutto imparzialmente, pur se con libertà di giudizio.

Sul piano della verifica, il giudice può intervenire, con sentenza determinativa, ogniqualvolta la determinazione sia manifestamente iniqua o erronea in caso di equo apprezzamento ovvero, in caso di mero arbitrio, se la decisione del terzo sia viziata da mala fede, per aver egli intenzionalmente agito in danno di una parte. L’intervento del giudice è anche previsto dall’art. 1349, 2° comma, qualora il terzo non proceda alla determinazione, nel caso di equo apprezzamento. Se invece il terzo doveva procedere secondo il proprio arbitrio le parti possono sostituirlo, ma in difetto di accordo il contratto è nullo.

L’arbitraggio non va confuso con l’arbitrato previsto dagli artt. 806 ss. c.p.c. che termina con una decisione (c.d. lodo) analoga ad una sentenza. Gli arbitri risolvono una controversia insorta tra le parti in ordine all’interpreta<ione o all’esecuzione di un contratto per altro verso già definito in ogni aspetto.

La perizia contrattuale con la quale le parti affidano ad uno o più esperti l’incarico di operare un accertamento tecnico è arbitrato irrituale se esiste una lite, o arbitraggio se lite non c’è.

4. Le condizioni generali di contratto.

Secondo l’art. 1341 le condizioni generali di contratto predisposte (unilateralmente) da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell’altro se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza. Per condizioni generali si intendono quelle clausole che un soggetto predispone al fine di regolare in modo uniforme una serie indefinita di rapporti di cui egli diverrà parte.

Teoria normativa. La c.d. teoria normativa sottolinea che il predisponente ha una posizione di supremazia rispetto al non predisponente, legata in particolare alla qualità di imprenditore. Tale qualità da un lato gli impone di procedere secondo criteri di uniformità e dall’altro gli permette di imporre tale uniformità al cliente almeno nei limiti in cui la sua in cui la sua posizione di mercato sia dominante sotto l’aspetto del tendenziale monopolio o sotto il profilo della qualità del prodotto. È evidente infatti che solo un’alta domanda permette all’offerente di precostituire i termini della contrattazione. In tal modo le condizioni generali sono accostate ad una sorta di comando giuridico che tende a risolversi in una consuetudine per il particolare significato, al punto che si parla al riguardo di fonti del diritto extra ordinem.

Teoria negoziale. In senso contrario è stato osservato che alla base del rapporto è pur sempre un accordo delle parti. Si potrà parlare di accordo tacito ovvero di conseguenza dell’autoresponsabilità che impone al contraente di sincerarsi di quanto egli sottoscrive.

Teoria della dichiarazione tipizzata. Altra dottrina ritiene che il comportamento del non predisponente abbia valore di dichiarazione tipizzata, nel senso che la legge considera accettazione delle clausole la sua dichiarazione contrattuale in presenza di un onere di diligenza posto a suo carico dalla legge.

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A carico del predisponente v’è l’onere di pubblicità, ossia di rendere ben visibili ai potenziali contraenti tali clausole.

Il meccanismo delle clausole generali non opera con riguardo al contenuto contrattuale essenziale in astratto, cioè a dire al c.d. contenuto minimo, quello dal quale è desumibile la causa. Questo contenuto infatti non può che essere frutto di un accordo. Attesa l’unilateralità della predisposizione, le condizioni generali si interpretano, nel dubbio, in favore del non predisponente (art. 1370).

5. Il contratto concluso mediante moduli o formulari.

In caso di condizioni generali, parte del contratto è predeterminata unilateralmente. Quando a contrarre sono imprese che stipulano contratti sempre identici con una massa di clienti, il contenuto del contratto è predisposto sempre unilateralmente mediante moduli o formulari prestampati, anche mediante documento informatico. Non è peraltro esclusa una trattativa (art. 1469ter), tant’è che le clausole aggiunte prevalgono su quelle del modulo o formulario. Il contratto si conclude in ogni caso con la sottoscrizione da parte dell’aderente e nel dubbio va interpretato contro il predisponente (art. 1370).

6. Le clausole vessatorie.

Il pericolo comune a condizioni generali e contratti per adesione è che, in assenza di trattative, al non predisponente siano imposte clausole vessatorie. Al riguardo, se la disciplina di cui agli artt. 1341 e 1342 è generale, diversificata è invece quella relativa a dette clausole, a seconda che contraggano tra di loro soggetti di pari forza o meno. Si distingue così tra professionista e consumatore.

Se il contratto è concluso tra professionisti o tra consumatori, cioè tra soggetti che si presumono di pari forza, le clausole vessatorie contenute in condizioni generali o moduli o formulari devono essere approvate per iscritto.

Secondo una prima tesi la clausola vessatoria non approvata, se conoscibile si inserirebbe bensì nel contratto, ma sarebbe nulla per difetto di forma ad substantiam, con applicazione dell’art. 1419 e possibile nullità dell’intero contratto o sua salvezza se si ritiene che l’art. 1419 possa essere riferito anche al diritto dispositivo con conseguente sostituzione della norma derogata alla clausola vessatoria derogante. Si parla pure di nullità relativa, di cui potrebbe avvalersi solo il non predisponente. Altri infine ritengono la clausola inefficace con salvezza, in ogni caso, del contratto.

L’approvazione scritta non è pretesa se la clausola vessatoria è prevista in un regolamento approvato con decreto ministeriale o riproduce un uso normativo (non dunque quello contrattuale ex art. 1340); se essa è frutto di specifiche trattative; se il contratto ha la forma dell’atto pubblico, dovendo in tal caso il notaio accertare che esso sia frutto della volontà di entrambi i contraenti.

Se invece un professionista e un consumatore concludono un contratto, costui, in quanto contraente debole, è fortemente tutelato. Si considerano infatti vessatorie le clausole che pur non contrarie a buona fede, determinano, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. Il giudizio sulla vessatorietà è individualizzante nel senso che attiene a quel singolo contratto. La vessatorietà va valutata tenuto conto della natura del bene o del esercizio, delle circostanze esistenti al momento della conclusione e dell’insieme delle clausole del contratto.

L’art. 33 del d. lgs. 206/2005 elenca venti clausole che si presumono vessatorie, salvo prova dell’assenza di significativo squilibrio. Esse prevedono: in favore del professionista limitazioni di responsabilità; in danno del consumatore esclusioni o limitazioni di azioni e di diritti in caso di inadempimento del professionista, un termine eccessivamente anticipato per comunicare la disdetta del contratto ed evitarne la proroga tacita.

Le clausole vessatorie sono nulle, mentre il contratto rimane comunque efficace. Non si applica dunque l’art. 1419. La nullità opera solo a vantaggio del consumatore, ma è rilevabile d’ufficio dal giudice.

7. La sostituzione automatica di clausole.

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Le clausole, i prezzi dei beni o dei sevizi, imposti dalla legge (con norma puntuale e predeterminata) sono di diritto inseriti nel contratto, anche in sostituzione delle clausole difformi apposte dalle parti (art. 1339).

La norma riserva al legislatore il potere di limitare l’autonomia privata al fine di favorire il contraente più debole. Si pensi in particolare al c.d. calmiere che ha la specifica funzione di evitare, in periodi in cui l’offerta è inferiore alla domanda, che la categoria dei produttori possa prevaricare oltre il giusto e l’equo la categoria dei consumatori, imponendo prezzi esorbitanti per merci di prima necessità.

Se questa è la ratio legis meno facile è individuare la tecnica con cui avviene l’intervento. La norma non opera con la mera eliminazione delle clausole nulla, senza sostituzione, perché allora varrebbe il primo e non il secondo comma dell’art. 1429. L’art. 1339 non opera solamente in chiave sostitutiva, perché la clausola legale è inserita de iure nel contratto pur quando le parti non abbiano pattuito una clausola difforme. Ciò significa che non necessariamente si assiste ad una duplice operazione: nullità della clausola pattizia per illiceità derivante da contrarietà a norme imperative e successiva sostituzione della clausola nulla con quella legale. In ogni caso pur quando si è in presenza di questa più complessa operazione, non può parlarsi di conversione. È del tutto assente una qualsivoglia indagine, da parte dell’ordinamento, circa la volontà dei contraenti di mantenere in vita il contratto così modificato ed è anzi proprio questo il dato caratteristico dell’intervento della legge, la quale mantiene in vita il contratto pur contro la volontà del contraente controinteressato (ad es. il farmacista che ha venduto la medicina ad un prezzo superiore a quello imposto). La tecnica normativa dunque è semmai quella della conservazione, affidata al disposto dell’art. 1419, 2° comma, secondo cui la nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative.

L’art. 1339 fa bensì riferimento alla legge, ma per legge deve intendersi norme aventi valore di legge in senso sostanziale e quindi anche i regolamenti. La legge può peraltro rinviare anche ad un atto amministrativo.

Circa il richiamo alla clausola, del tutto irrilevante è la sua essenzialità. La sua definizione è peraltro difficile. Di certo essa non si identifica con la disposizione, perché una clausola ne può contenere più di una. Clausola è dunque quella proposizione che contiene una unità precettiva negoziale autonoma e che può essere semplice, se la disposizione ivi contenuta è unica, o complessa, in caso di pluralità di disposizioni.

8. Le clausole d’uso.

Le clausole d’uso si intendono inserite nel contratto se non risulta che non sono state volute dalle parti (art. 1340). L’art. 1340 fa riferimento ai c.d. usi contrattuali, o negoziali, che si distinguono da quelli interpretativi previsti dall’art. 1368, da quelli individuali (che si formano tra singoli contraenti), e da quelli normativi, previsti dall’art. 1374.

L’uso contrattuale si forma in base alla diffusione di una certa pattuizione in una certa zona e con riferimento a dati tipi contrattuali (la c.d. prassi corrente).

Gli usi contrattuali non hanno il carattere generale e obbligatorio proprio degli usi normativi per cui integrano il contenuto del contrato soltanto quando siano esplicitamente o implicitamente richiamati dalle parti.

Un uso contrattuale si inserirà nel contratto solo se non vessatorio.

Le clausole d’uso non vanno confuse con le c.d. clausole di stile, che sono inserite tradizionalmente nel contratto sulla base di formulari o di modelli predisposti di regola dall’avvocato o dal notaio. In tal caso non è ravvisabile una effettiva volontà di vincolarsi, ma spetta comunque a chi a tale clausola intenda sottrarsi di dare la prova positiva circa la sua natura di mero stile.

* Le cosiddette «clausole di stile» sono quelle espressioni tradizionali in alcuni atti notarili che, intese a colmare eventuali omissioni, in realtà rimangono prive di qualsiasi significato giuridico a cagione della loro genericità ed indeterminatezza (nella specie: la suprema corte ha confermato la decisione dei giudici del merito che hanno ritenuto la frase «la compravendita è fatta con ogni inerente diritto», contenuta in un contratto traslativo di proprietà, inidonea a determinare l'estensione del bene compravenduto).

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LA FORMA

1. Forma libera e forma vincolata.

La forma è il veicolo mediante il quale la volontà negoziale è manifestata. La forma altro non è se non il modo in cui l’atto umano si esteriorizza.

Si pone però il limite legale, costituito dalla necessità di adottare talvolta la forma scritta, che può assumere la vesta di scrittura privata o dell’atto pubblico. Tale forma svolge funzioni diverse, non riconducibili sempre e solo ad un problema di esteriorizzazione dell’atto.

Ulteriore funzione della forma è quella di rendere possibile la pubblicità dell’atto ed anzi può dirsi che l’area della forma vincolata si amplia proprio in ragione dell’opportunità di rendere pubblici certi atti a causa degli effetti prodotti, specie quando si tratta di diritti reali immobiliari.

Del resto è lo stesso legislatore che talvolta esplicitamente riferisce la necessità della forma alla pubblicità e non alla conclusione del contratto. Così, ad esempio, in caso di trasferimento di autoveicoli, che si perfeziona anche oralmente ma pretende una dichiarazione scritta del venditore con firma autenticata ai fini della trascrizione al P.R.A.

Altre volte la forma è collegata non alla pubblicità ma all’attività di certificazione di un fatto storico già accaduto. È il caso, ad esempio, delle verbalizzazioni di adunanze, in particolare di quelle di organi collegiali, là dove le deliberazioni assunte non pretendono (ne hai fini di validità, né ai fini della prova) la forma scritta.

La forma, inoltre, può anche assolvere alla funzione di rendere opponibili al terzo gli effetti dell’atto concluso dalle parti. Ad esempio, la vendita di beni mobili con riserva di proprietà.

Infine la forma può anche avere la funzione di dirimere le controversie tra terzi, come nel caso di pluralità di cessioni di credito, là dove prevale il creditore che per primo ha notificato al debitore la propria cessione (art. 1265).

2. La forma ad substantiam.

La legge talvolta pretende la forma scritta a pena di invalidità dell’atto. La forma ad substantiam è dunque solo quella che la legge impone al fine di giuridicizzare l’operazione, sottraendo così ai privati la libertà di scelta in materia. Solo in tal caso la forma è requisito (giuridico) dell’atto, ne diviene cioè elemento essenziale (art. 1325 n. 4) con conseguente nullità in caso di mancata osservanza (art. 1428, 2° comma, che richiama l’art. 1325).

È da escludere, benché parte della dottrina meno recente abbia tentato questa strada, che dal contratto nullo per vizio di forma nasca un’obbligazione naturale, con conseguente solutio retentio in caso di spontanea prestazione, perché essa sarebbe contra legem, come tale non protetta, onde è sempre possibile l’azione di ripetizione, salvo il limite positivamente previsto dall’art. 1422, della prescrizione di questa azione o dell’intervenuta usucapione.

Si ammette la validità del contratto definitivo osservante la forma scritta, pur se il contratto preliminare sia stato concluso oralmente in violazione dell’art. 1351.

Il limite formale si atteggia a ben vedere come un vero limite all’autonomia delle parti. Il limite è così rilevante da estendersi sul piano processuale anche alla confessione e al giuramento che sono, in tale eventualità, inammissibili.

È forma del negozio anche l’oralità o il comportamento omissivo o commissivo. Può invece sostenersi che la forma scritta ha carattere eccezionale, in base all’art. 1350 n. 13 che parla di atti specialmente indicati dalla legge.

Essendo le parti portate a scrivere l’atto potranno meglio riflettere su di esso, a differenza che nell’accordo verbale. Lo scritto esprime la volontà negoziale. Si distingue in contenuto minimo, che attiene agli effetti

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tipici che le parti intendono produrre, e contenuto effettivo, che è l’insieme delle pattuizioni concluse di volta in volta dai privati tramite l’autonomia privata e con l’inserimento di clausole particolari. Solo il contenuto minimo pretende la forma scritta. Tale distinzione rileva quando si tratta di risolvere il problema della relatio nei negozi formali, intendendosi per relatio il richiamo, nel corpo di un contratto, ad un dato esterno già esistente in rerum natura, che si risolve in una integrazione ab extra del contenuto del contratto stesso, integrazione peraltro che assicura la completezza del regolamento contrattuale ab initio. In dottrina si ammette entro certi limiti la relatio, perché solo il contenuto minimo deve risultare dal documento cosicché quello ulteriore può anche essere fissato con riguardo ad una fonte esterna.

Quanto alle modalità dell’atto scritto, esso può anche non essere redatto dalle parti, che devono però in ogni caso sottoscriverlo (es. contratto concluso mediante moduli o formulari, atto pubblico ecc.).

Una particolare ipotesi è quella del c.d. biancosegno. Se le parti convertono su una determinata questione ed intendono raggiungere un accordo di carattere transattivo, possono deferire ad arbitri irrituali il compito di comporre la lite. Essi fisseranno dunque il contenuto dell’accordo che sarò riprodotto in un foglio consegnato loro, previamente sottoscritto. Al di fuori di questa ipotesi non è ammissibile una dichiarazione in bianco che non sarebbe sorretta da una adeguata volontà.

Non ha efficacia probatoria della scrittura privata il telegramma.

Non è valida la sottoscrizione mediante la riproduzione meccanica come in caso di timbro.

È invece possibile la conclusione di contratti formali mediante telefax. Il telefax è associato ad un numero telefonico il quale è ubicato presso un determinato indirizzo. Il contratto si intende concluso in quel luogo e dal destinatario.

3. La forma ad probationem.

Talvolta la legge pretende la forma scritta non già per la validità del contratto ma a fini probatori. Non è pertanto ammissibile la prova per testi (salvo che il documento sia stato smarrito senza colpa), né, di conseguenza, quella per presunzioni, cosicché residua solamente la possibilità della confessione e del giuramento.

Essa, dunque, è forma della prova e non forma dell’atto, laddove quella ad substantiam opera bensì anche sul piano probatorio, ma innanzitutto su quello strutturale. Si tratta pertanto di un’ulteriore funzione assoluta della forma che non può dirsi sempre e solo necessaria ai fini della esteriorizzazione. La diversa funzione comporta che il contratto che pretende la forma ad probationem, pur se concluso oralmente, è suscettibile di esecuzione, di accertamento e di ricognizione in quanto valido ed efficace.

4. La sottoscrizione.

Quando si stipula per iscritto un contratto assume carattere essenziale la sottoscrizione ad opera dei contraenti (art. 2702) la quale svolge la duplice funzione di individuare gli autori della scrittura (cioè le parti) e di attestare circa l’assunzione degli impegni risultanti dal testo scritto. Pertanto la sottoscrizione deve essere idonea ad individuare inequivocabilmente il soggetto ed autografa, mentre il testo contrattuale può essere redatto a macchina o a stampa e non necessariamente a mano.

La sottoscrizione quindi può essere apposta anche in stampatello e con nome e cognome non esatti con riferimento alle risultanze anagrafiche, ed anche, all’occorrenza, con uno pseudonimo, purché atto ad individuare senza incertezze il sottoscrittore. Il c.d. crocesegno non è invece ammesso pur in presenza di testimoni.

La sottoscrizione è il momento finale della sequenza perfezionativa del contratto formale e la sua mancanza impedisce che l’accordo possa ritenersi raggiunto (quando la forma scritta è richiesta ad substantiam) ovvero possa essere provato (quando la forma scritta è richiesta ad probationem).

La sottoscrizione peraltro non è parte del contenuto del contratto ma elemento a sé stante di carattere documentale.

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L’assenza di sottoscrizione impedisce di per sé la conclusione del contratto, cosicché il soggetto che produce in giudizio una copia del contratto non sottoscritta da tutte le parti in buona sostanza esibisce una proposta contrattuale ancora non accettata. Si tratta di vedere allora se tale accettazione anziché dalla sottoscrizione può derivare dalla esibizione. In verità l’accettazione, come atto prenegoziale, non ammette equipollenti in caso di forma ad substantiam, cosicché l’esibizione in giudizio collegata alla domanda di esecuzione potrà avere solo valore confessorio con riguardo all’esistenza e al contenuto del contratto ma non varrà a dar vita, in favore della parte, ad un titolo suscettibile di esecuzione.

La giurisprudenza ritiene invece che l’equipollenza possa essere ammessa, anche in caso di forma ad probationem, se la parte che non ha sottoscritto (o i suoi eredi) chiede l’esecuzione sia perché, in linea di principio, le sottoscrizioni non debbono necessariamente essere contestuali, sia perché equivarrebbe a sottoscrizione l’inequivocabile manifestazione di volontà di avvalersi del negozio documentato dalla scrittura incompleta.

Limiti a tale equipollenza peraltro esistono. L’esibizione deve avvenire nei confronti di chi ha sottoscritto ad opera della parte che non ha sottoscritto.

La giurisprudenza ammette che un’accettazione stragiudiziale possa essere operata dalla parte che non ha sottoscritto il contratto qualora costei manifesti, anche implicitamente, il consenso, purché tale manifestazione risulti da uno scritto indirizzato alla controparte che ha sottoscritto, quale ad esempio, una lettera con cui si sollecita l’adempimento degli obblighi previsti nella scrittura.

Questi orientamenti giurisprudenziali non considerano però che l’accettazione deve intervenire nel termine previsto dall’art. 1326, sicché la produzione in giudizio sarebbe comunque tardiva. Inoltre sembra più corretto fissare la conclusione al momento non già dell’esibizione ma della stipulazione, cioè non già ex nunc, ma ex tunc, pur mancando, agli atti del giudizio, la prova documentale dell’intervenuta conclusione, potendosi invocare, in via estensiva, la regola di cui agli artt. 2724 n. 3 e 2725. Ciò è tanto più vero se si considera che chi esibisce il documento, ben avrebbe potuto sottoscriverlo in ogni momento.

5. Il documento informatico. La firma elettronica e digitale.

Questa materia è disciplinata dal d. lgs. 82/2005.

Il documento informatico è la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti. Tale è ad es. la e-mail.

La firma elettronica è l’insieme dei dati in forma elettronica, allegati oppure connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici, utilizzati come metodo di autenticazione informatica. La firma elettronica qualificata è la firma elettronica ottenuta attraverso una procedura informatica che garantisce la connessione univoca al firmatario e la sua univoca autenticazione informatica, creata con mezzi sui quali il firmatario può conservare un controllo esclusivo e collegata ai dati ai quali si riferisce.

La firma digitale è un particolare tipo di firma elettronica qualificata, basata su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare, tramite la chiave privata, e al destinatario, tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici.

I certificati elettronici sono gli attestati elettronici che collegano i dati utilizzati per ver verificare le firme elettroniche ai titolari e confermano l’identità informatica dei titolari stessi.

Il documento informatico, cui è apposta una firma elettronica, sul piano probatorio è liberamente valutabile in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità e sicurezza.

I documenti informatici contenenti copia o riproduzione di atti pubblici, scritture private e documenti in genere hanno piena efficacia ai sensi degli artt. 2714 e 2715, se ad essi è apposta o associata una firma digitale o altra firma elettronica qualificata.

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L’apposizione di firma digitale integra e sostituisce l’applicazione di sigilli, punzoni, timbri, contrassegni e marchi di qualsiasi genere.

Ai contratti stipulati con strumenti informatici o per via telematica con firma digitale, si applica l’art. 64, d. lgs. 206/2005.

6. Le forme volontarie.

Se le parti hanno convenuto per iscritto di adottare una determinata forma per la futura conclusione di un contratto, si presume che la forma sia stata voluta per la validità e quindi ad substantiam e non ad probationem (artt. 1352 e 2725). La norma è estensibile ex art. 1324 anche agli atti unilaterali che seguono alla conclusione di un contratto (ad es. recesso dal rapporto di lavoro o di fideiussione, disdetta).

Il patto ha carattere configurativo e non già dispositivo, in quanto fissa le regole che le parti stesse dovranno osservare in materia di forma nella futura contrattazione, con la quale disporranno dei propri interessi. Si è dunque in presenza di un accordo, ma non di un contratto in senso tecnico, quale definito dall’art. 1321.

Il vincolo, comportando un limite all’autonomia privata e alla libertà formale, nasce solo se il patto riveste la forma scritta.

Il problema centrale è quello delle conseguenze della inosservanza della forma pattuita. La tesi più rigorosa è per la nullità rilevabile d’ufficio, ma si parla anche d’inefficacia. Peraltro, anche ammesso che il patto sulla forma possa essere risolto solo con un altro patto formale, in difetto di forma scritta, potrebbe operare la conversione formale o, con estensione dell’art. 1424, sostanziale, quando, anche tacitamente per facta concludentia, è provata la volontà di concludere il contratto in forma diversa da quella pattuita.

Allo stesso risultato si può, peraltro, giungere osservando che pur trattandosi di nullità, non può dirsi che sia in gioco la violazione di norme inderogabili, atteso che la fissazione della forma ad substantiam è, nel caso di specie, frutto di un accordo privato. Pertanto la nullità potrebbe essere fatta valere solo dalla parte interessata, la quale potrebbe anche rinunziarvi mediante esecuzione spontanea o in altro modo, non essendo per tale rinunzia necessaria la forma scritta.

7. La ripetizione del contratto.

L’art. 1352 non prevede l’ipotesi che le parti si vincolino alla futura ripetizione in altra forma del contratto peraltro già concluso, come nel caso di un contratto orale di compravendita di bene mobile registrato o per scrittura privata di un bene immobile, che debba essere ripetuto per atto pubblico o scrittura privata autenticata ai fini della trascrizione. Il contratto ha dunque già prodotto gli effetti reali.

La ripetizione si distingue dalla riproduzione e dalla ricognizione.

Riproduzione = le parti riproducono integralmente il testo di un contratto già concluso al fine di sostituire il documento andato smarrito ovvero al fine di disporre di altre copie originali da poter utilizzare.

Ricognizione = le parti operano un mero accertamento dell’esistenza e del contenuto di un contratto, come nel caso di ricognizione richiesta dal concedente enfiteutico nei confronti di chi si trova nel possesso del fondo (art. 969), essenzialmente al fine di evitare il maturarsi dell’usucapione da parte del possessore. L’atto di ricognizione ha dunque funzione meramente probatoria.

Rinnovazione = l’art. 2720 accomuna poi, sul piano disciplinare, l’atto di ricognizione all’atto di rinnovazione, senza peraltro specificare in cosa consista la differenza tra le due ipotesi. Probabilmente si tratta della stessa figura, come si evince anche dal disposto dell’art. 1231, là dove la rinnovazione del documento è, in sostanza, una ricognizione. Il termine rinnovazione è dunque, più propriamente, utilizzato ad indicare una situazione del tutto diversa rispetto alla ricognizione, situazione che si verifica quando le parti hanno posto in essere un contratto nullo (ad es. una donazione conclusa per scrittura privata) ed intendono rinnovarlo.

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Ripetizione = la ripetizione si distingue pertanto così dalla ricognizione come dalla rinnovazione: dalla prima perché non ha funzione meramente probatoria, dalla seconda perché il contratto ripetuto è di per sé già valido ed efficace. Né può parlarsi di collegamento negoziale, attesa l’identità di contenuti.

Quanto alla natura giuridica…

Secondo alcuni la natura è la stessa del primo, anche se ciò non ha molta logica. Il contratto successivo sarebbe per certi versi inutile perché si manifesta in esso un identico consenso e dunque ha ad oggetto un rapporto già costituito.

Secondo altri il negozio successivo non sarebbe inutile in quanto costituirebbe un’ulteriore fonte del rapporto. Tuttavia tale teoria non giustifica il senso economico dell’operazione e quale sia la causa del contratto successivo ovvero l’interesse in esse conseguito.

Sembra, dunque, che ogni situazione vada valutata in materia autonoma. A volte i contraenti possono ripetere per rimuovere dubbi o incertezze (negozio di accertamento), altre volte per interpretare (interpretazione autentica), altre volte ancora per superare il vizio che comporta l’annullabilità del primo contratto (convalida).

L’azione è imprescrittibile, perché di accertamento e non già perché atto di esercizio di una facoltà.

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GLI ELEMENTI ACCIDENTALI

1. L’accidentalità.

La legge fissa in modo inderogabile gli elementi essenziali del contratto (art. 1325), a pena di nullità (art. 1418). Non può nascere un valido contratto se non è stato raggiunto un accordo tra le parti, se lo spostamento patrimoniale non è giustificato sul piano causale, se la contrattazione non ha un termine di riferimento oggettivo ed infine se non è stata rispettata la forma richiesta ad substantiam.

L’oggetto del contratto inteso come regolamento contrattuale deve dunque sempre esistere, ma non sempre esso è disciplinato solo dalla legge. L’art. 1322 attribuisce infatti ai contraenti il potere di determinare il contenuto nei limiti della legge, cioè a dire nel rispetto delle norme imperative, ordine pubblico e buon costume. Tale potere può ampiamente spaziare fino a dar vita a contratti atipici, che non si configurano solamente quando il contenuto del contratto non è inquadrabile in nessuno degli schemi tipici previsti dalla legge, ma anche quando le clausole aggiunte dai contraenti allo schema tipico sono così incidenti da rompere l’elasticità del tipo, qualificando a tal punto il regolamento contrattuale da incidere sull’elemento causale.

In tutti questi casi il contenuto del contratto è determinato dall’autonomia delle parti in concreto, nel senso che la clausola pattizia può divenire essenziale, nei limiti in cui sia condizionante la volontà dei contraenti. La distinzione tra clausole essenziali e clausole accidentali non si identifica dunque con quella tra contenuto legale e contenuto autonomo del contratto, perché l’essenzialità deriva, all’occorrenza, anche da quest’ultima fonte. Questo dato è importante tener presente quando si parla, con eccessiva generalizzazione, di elementi accidentali del contratto, perché l’accidentalità è sempre tale solo in astratto, nel confronto cioè, con il tipo legale, ma non in ogni caso in concreto, se riferita alla effettiva volontà privata.

Il legislatore, regolando il tipo legale spesso prevede anche una disciplina per così dire accessoria, in quanto non imperativa ma dispositiva (c.d. elementi naturali, ovvero naturalia negotii). Il contenuto precettivo di tali norme diviene parte del contratto solo se i contraenti non manifestano un intento derogatorio.

Ma il legislatore disciplina anche talune clausole accessorie di portata tendenzialmente generale che nella pratica dei traffici patrimoniali sono frequentemente apposte dai privati. Si tratta della condizione, del termine e dell’onere o modus.

Come l’onere non può essere apposto a tutti i negozi (ne sono esclusi quelli a titolo oneroso) così la condizione e il termine non possono essere apposti ai c.d. negozi puri, anche detti actus legittimi, quali, ad esempio, il matrimonio, l’atto di adozione, il riconoscimento del figlio naturale, l’accettazione e la rinunzia all’eredità. Altri atti tollerano la condizione ma non il termine (es. l’istituzione ereditaria, per il principio semel heres semper heres).

Condizione e termine sono clausole accidentali solo in astratto, nel senso che possono indifferentemente essere o non essere inserite in un contratto, ma una volta inserite esse divengono essenziali, sempre che non siano state apposte nell’interesse esclusivo di un solo contraente, perché allora di esse si potrà avvalere solo costui, con possibile rinuncia.

Condizione e termine, inoltre, incidono sul piano effettuale, nel senso di limitare l’an o il quando degli effetti prodotti dal programma contrattuale.

2. La condizione.

Con l’apposizione della condizione è possibile dare rilevanza ai motivi, se gli effetti di un contratto sono voluti solo se o fino a quando un certo fatto si verifichi. La condizione può anche desumersi in via interpretativa dal contenuto del contratto.

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La condizione, dunque, è un avvenimento futuro e oggettivamente incerto dal quale le parti fanno dipendere l’efficacia o la risoluzione del contratto (art. 1353). Essa può configurarsi pertanto come sospensiva, ed allora il contratto produrrà effetti solo se essa si avvererà, ovvero come risolutiva, ed allora gli effetti del contratto verranno automaticamente meno qualora la condizione stessa non si avveri. La prova dell’avveramento è in ogni caso libera.

In entrambi i casi il contratto si perfeziona immediatamente, ma in caso di condizione sospensiva esso è inefficace fino a quando e nei limiti in cui la condizione non si avveri, mentre in caso di condizione risolutiva produce i suoi effetti immediatamente ma essi verranno meno se la condizione si avvera. Comunque, gli effetti dell’avveramento della condizione retroagiscono al tempo in cui è stato concluso il contratto, salvo che, per volontà delle parti, o per la natura del rapporto, gli effetti del contratto o della risoluzione debbano essere riportati ad un momento diverso (art. 1360).

La retroattività, che rende irrilevanti eventuali inadempimenti verificatisi nel periodo di pendenza, ha carattere reale, perché è opponibile erga omnes e non solo inter partes; non sono dunque fatti salvi ad esempio, gli acquisti che i terzi abbiano operato medio tempore, durante il periodo di pendenza della condizione sospensiva.

L’art. 1361 limita la retroattività disponendo che l’avveramento della condizione in ogni caso non pregiudica la validità degli atti di amministrazione ordinaria compiuti dalla parte a cui, in pendenza della condizione stessa, spettava l’esercizio del diritto. Inoltre, salvo diverse disposizioni di legge, o diversa pattuizione, i frutti percepiti sono dovuti dal giorno dell’avveramento.

Un’altra limitazione è posta dall’art. 1360, a mente del quale se la condizione risolutiva è apposta ad un contratto ad esecuzione continuata o periodica, l’avveramento di essa, in mancanza di patto contrario, non ha effetti riguardo alle prestazioni già eseguite.

L’avvenimento dedotto in condizione deve essere futuro e incerto. Proprio l’incertezza distingue la condizione dal termine, che è invece collegato ad un evento certo anche quando incerto è il momento in cui esso si produrrà, come nel classico caso della morte. Si distinguono dunque quattro ipotesi a seconda che l’evento sia:

- Incertus an e incertus quando (arrivo della nave dall’Asia)- Incertus an e incertus quando (vittoria del concorso, le cui prove sono prefissate temporalmente

ma il cui esito è incerto)- Certus an e incertus quando (la morte)- Certus an e certus quando (fissazione di una data precisa)

Nei primi due casi, attesa l’incertezza, si avrà condizione, negli altri due si tratterà di termine. Il rapporto tra condizione e termine non è però sempre di reciproca esclusione, perché un termine può essere apposto alla condizione sotto il profilo dell’avveramento, pur nell’interesse di una sola parte, che potrebbe allora rinunziarvi anche tacitamente.

La condizione può essere volontaria, se apposta dalle parti, o legale, come nel caso di concessioni di autorizzazioni o licenze.

La c.d. condicio iuris va peraltro esattamente inquadrata perché nell’ambito di essa si tende a ricomprendere situazioni ed eventi eterogeni. Deve escludersi che costituisca condicio iuris ogni evento da cui dipende non già l’efficacia dell’atto ma il suo stesso perfezionarsi. In questo caso, infatti, si sarebbe in presenza di una fattispecie a formazione progressiva o di una fattispecie invalida. Circa la disciplina, si discute. Sembra applicabile l’art. 1360 sulla retroattività, salvo che vi osti la natura del rapporto e non applicabile l’art. 1359.

Sul piano del fatto dedotto in condizione, si distingue a seconda che l’evento dipenda o non dipenda dalla volontà del contraente. Nel primo caso si parla di condizione potestativa (ad es. il contratto di locazione di una casa a mare è condizionato al fatto che il locatario decida di annullare la vacanza per impegni di lavoro). Nel secondo caso si è in presenza di una c.d. condizione casuale (si potrà richiamare ancora il

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classico esempio dell’arrivo della nave dall’Asia). È anche possibile che sia apposta una condizione mista che partecipa ad entrambi i caratteri (ad es. una donazione condizionata alla vittoria di un concorso).

Dalla condizione potestativa si distingue quella meramente potestativa, regolata dall’art. 1355, secondo cui è nulla l’alienazione di un diritto o l’assunzione di un obbligo subordinata ad una condizione sospensiva che la faccia dipendere dalla mera volontà dell’alienante o, rispettivamente, da quella del debitore. La ratio della norma è chiara: non può ritenersi seriamente vincolante un contratto la cui efficacia dipende dal mero arbitrio di una parte, per carenza di animus obligandi.

Si discute circa la validità della condizione meramente potestativa risolutiva atteso che l’art. 1355 prevede la sola condizione sospensiva. In senso favorevole si sottolinea trattarsi, in sostanza, di una facoltà di recesso ex art. 1373, ovvero di un mutuo dissenso ex art. 1372 concordato tra le parti ma la cui concreta operatività è rimessa all’iniziativa di una sola di esse. In senso contrario si sottolineano le diversità di disciplina tra la condizione, che è retroattiva, e il recesso, che può essere esercitato finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione (art. 1373). Solo per i contratti ad esecuzione continuata o periodica, per i quali non sussiste tale limite, potrebbe dunque ravvisarsi una certa analogia, attesa la irretroattività della condizione in tale ipotesi (art. 1360). Per il mutuo dissenso poi è evidente la diversità ontologica, atteso che l’accordo, in tal caso, deve essere raggiunto successivamente alla stipulazione mentre la condizione è parte del contenuto del contratto. Peraltro pur se nulla, la condizione si avrebbe per non apposta e il contratto produrrebbe immediatamente i propri effetti.

L’art. 1354 disciplina infine la condizione illecita o impossibile ab origine. La prima rende nullo il contratto cui è apposta. La seconda invece rende nullo il contratto se sospensiva, mentre quella risolutiva si ha per non apposta.

La condizione può essere apposta nell’interesse di una sola parte, senza necessità di un’apposita pattuizione, potendo l’unilateralità desumersi anche in via interpretativa dell’assetto contrattuale. La condizione secondo l’opinione dominante sarebbe rinunziabile dall’interessato in ogni momento, senza formalità. Senonché è impossibile ipotizzare una rinunzia successiva al non avverarsi o all’avverarsi della condizione rispettivamente sospensiva o risolutiva, perché la volontà non può disporre dei fatti giuridici, che causano l’inefficacia definitiva del contratto. Semmai la rinunzia potrebbe operare come rinnovazione unilaterale del contratto, con efficacia ex nunc. Durante la pendenza, essa opera invece non già come modificazione (unilaterale) del contratto, con efficacia ex nunc, secondo parte della dottrina, ma come fatto potestativo che, in alternativa a quello causale, fa avverare la condizione sospensiva o impedisce che si avveri quella risolutiva, in entrambi i casi con efficacia ex tunc. La rinunzia è implicita nell’esecuzione del contratto condizionato sospensivamente.

Durante il periodo di pendenza della condizione, cioè fino a quando il rapporto è condizionato, valgono talune regole dettate dagli artt. 1356 ss. Secondo l’art. 1356 in pendenza della condizione sospensiva l’acquirente di un diritto può compiere atti conservativi mentre in caso di condizione risolutiva lo stesso potere spetta all’alienante a pronte al diritto dell’acquirente di esercitare il diritto.

Le parti si trovano dunque in una situazione di aspettativa, fonte di effetti preliminari che discendono, secondo taluni dalla legge, secondo altri dalla stessa volontà delle parti. Nessun effetto riferito alla situazione finale può così verificarsi finché dura la pendenza, ma la situazione di aspettativa di diritto è disponibile sia inter vivos, che mortis causa, cosicché chi acquista subentrerà nel rapporto condizionato (art. 1357).

Gli atti conservativi abbracciano un ampio ventaglio ed hanno riguardo non solo alla conservazione materiale e giuridica dell’oggetto della prestazione ma anche alla conservazione delle condizioni che rendono possibile l’adempimento. Si può così agire con il sequestro conservativo, con l’azione di apposizione di sigilli, con l’intervento nelle procedure esecutive a carico della controparte. Se al compimento di atti conservativi non segue l’avveramento, chi ha agito dovrà risarcire il danno secondo le regole dettate per il sequestro.

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Chi si è obbligato o ha alienato un diritto sotto condizione sospensiva ovvero lo ha acquistato sotto condizione risolutiva, deve, pendente la condizione (anche legale), comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte (art. 1358). Si tratta di un’applicazione della regola dettata dall’art. 1375, che comporta l’immediato risarcimento del danno ex contractu (sempre che la condizione non si avveri per circostanze obiettive e comunque non imputabili alla parte inadempiente).

L’art. 1359 prevede la c.d. finzione di avveramento della condizione, ogniqualvolta la condizione sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario, e non già concorrente all’avveramento stesso. Si determina così, sul piano giuridico, la stessa situazione che si sarebbe determinata in seguito all’avveramento. Per l’imputabilità è sufficiente la colpa.

La norma non è applicabile per analogia al caso inverso di condizione che si avvera per fatto imputabile alla parte interessata. L’art. 1359 non si applica in caso di condizione potestativa, semplice e non mista, per incompatibilità tra libertà di comportamento, pattuita tra le parti in forza del carattere potestativo della condizione e obbligo di buona fede.

La condizione riguarda fatti esterni e quindi estranei al contratto. L’adempimento delle prestazioni (ad es. il pagamento del prezzo della vendita) non potrebbe pertanto essere dedotto in condizione.

Se il contratto è soggetto a trascrizione, l’esistenza della condizione va menzionata nella relativa nota (art. 2659). Si ritiene che, in difetto, il terzo subacquirente può opporre il proprio acquisto all’alienante ove si verificasse la condizione risolutiva o non si verificasse quella sospensiva. In buona sostanza la menzione svolgerebbe la stessa funzione della trascrizione. Se il contratto diviene definitivamente inefficace per avveramento della condizione risolutiva, deve procedersi ad annotazione a margine della trascrizione ai fini della continuità (art. 1655). Nel silenzio della legge si discute se si debba procedere ad annotazione anche in caso di mancato avveramento definitivo della condizione sospensiva, e non possa avverarsi nemmeno in futuro, ovvero a cancellazione della trascrizione. Nel caso in cui invece il contratto diviene efficace, l’avveramento della condizione sospensiva o il mancato avveramento di quella risolutiva, va reso pubblico mediante cancellazione della menzione.

3. La presupposizione.

La condizione consiste in un avvenimento futuro ed incerto. Non è quindi possibile condizionare in senso tecnico un rapporto ad un evento passato o presente. In caso di c.d. condicio de praesenti o de praeterito gli effetti si producono infatti immediatamente, pur se possono risolversi per espressa volontà delle parti.

Diverso è il discorso per la presupposizione, che ricorre quando una determinata situazione, di fatto o di diritto, di carattere obiettivo, possa, pur in mancanza di uno specifico riferimento nelle clausole contrattuali, ritenersi tenuta presente dai contraenti stessi nella formazione del loro consenso come presupposto comune avente valore determinante ai fini del permanere del vincolo contrattuale.

La presupposizione assume rilevanza quando la detta situazione, passata o presente, ben nota ai contraenti, ovvero futura, ma ritenuta certa realizzazione, venga rispettivamente meno o non si realizzi in corso di rapporto per fatto non imputabile alle parti.

Classico è l’esempio del contratto di locazione di un balcone per assistere ad uno spettacolo che poi non si tiene più. Pur se le parti non nulla hanno esplicitamente pattuito al riguardo, lo spettacolo funziona come evento condizionante la pattuizione avendo esse consapevolmente concluso il contratto in cista di quell’evento, che dunque ne costituisce il presupposto.

Non può darsi incondizionato ingresso all’errore di previsione, che si risolve in un errore sulla previsione economica, del tutto irrilevante, ovvero di un errore sui motivi, altrettanto irrilevante quante volte esso non si risolva in un errore di diritto.

Si ritiene che il veicolo normativo attraverso il quale dare rilevanza alla presupposizione vada ravvisato nell’art. 1374 o, più direttamente, nell’art. 1467. La risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta è accordata infatti, nei contratti a prestazione continuata o periodica o ad esecuzione differita, per il

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verificarsi di avvenimenti straordinari o imprevedibili, dovendosi così ritenere presente in ogni programma contrattuale la clausola (legale) rebus sic stantibus, in base alla quale l’efficacia del contratto per il futuro è subordinata al fatto che le posizioni contrattuali di partenza non di modifichino (si pensi alla svalutazione monetaria che incide sul prezzo).

Il venir meno o il non verificarsi del fatto presupposto sposta allora gli equilibri contrattuali e, sconvolgendo l’economia del negozio, determina una distribuzione del rischio contrattuale difforme da quella prevista e voluta dalle parti, con conseguente possibilità di risolvere il rapporto.

Se la situazione presupposta, passata o presente, già difetta al momento della conclusione del contratto (c.d. falsa presupposizione), potrebbe sostenersi la presenza di errore comune sui motivi, di per sé irrilevante. In termini di causa in concreto, c’è invece vizio genetico che comporta nullità ex art. 1418.

4. Il termine.

Le parti possono fissare un termine a far tempo dal quale (termine iniziale) o fino al quale (termine finale) si produrranno gli effetti del contratto.

Il termine di efficacia va tenuto distinto dal termine di adempimento, che attiene al momento esecutivo (art. 1183).

Se il contratto p soggetto a trascrizione, il termine deve essere menzionato nella relativa nota (art. 2659). La menzione va cancellata quando il termine (solo se iniziale) è scaduto (art. 2668).

5. Il modus.

Anche del modus il legislatore non ha dettato una disciplina organica. Le uniche norme si rinvengono in fatti in materia di donazione e di testamento. Il modus è un ulteriore elemento accidentale, a fianco della condizione e del termine, purché il contratto sia a titolo gratuito.

La gratuità spiega peraltro perché la disciplina del modus sia quella stessa della donazione modale. Il modus impossibile o illecito si considera pertanto come non apposto, salvo che abbia costituito l’unico motivo determinante, perché allora il contratto è nullo. L’inadempimento del modus è causa di risarcimento del danno ed anche di risoluzione del contratto, ove prevista espressamente.

Il modus può consistere nel compire un’azione o un’omissione in favore dell’altro contraente o di un terzo nell’erogare il vantaggio patrimoniale o nel destinare ad un dato scopo il bene ricevuto.

Dalla condizione, il modus si distingue perché non incide sull’efficacia del negozio cui accede. Pertanto la condizione rende incerta l’efficacia del contratto, ma non obbliga. Il modus invece obbliga ma non modifica l’efficacia del contratto, cosicché la prestazione principale deve essere eseguita a prescindere dall’adempimento dell’obbligo modale, che non trasforma il contratto da gratuito in corrispettivo.

IL CONTRATTO E I TERZI

1. Gli effetti inter partes. Effetti reali ed effetti obbligatori.

Secondo l’art. 1372 il contratto ha forza di legge tra le parti e non può essere sciolto se non per mutuo consenso (cioè un nuovo contratto a carattere risolutorio) o per cause ammesse dalla legge. In ogni caso, l’effetto immediato e imprescindibile che scaturisce dall’accordo è la nascita di un vincolo, cioè di un rapporto obbligatorio. L’effetto di irretrattabilità è sempre presente così come è presente la nascita di una nuova situazione giuridica atta a modificare i patrimoni dei contraenti. Quest’ultima affermazione trova tuttavia qualche ostacolo con riferimento alla categoria del contratto ad effetti reali ex art. 1376, il cui ambito coincide con quello dei contratti traslativi.

Secondo taluni, poiché il trasferimento del diritto è effetto immediato del consenso, non vi sarebbe presenza di un effetto obbligatorio.

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Secondo altri invece anche in caso di contratto traslativo nasce un rapporto obbligatorio tra alienante e acquirente: il primo ha l’obbligo di far acquistare il diritto al secondo. Egli ha inoltre l’obbligo di assicurare all’acquirente stesso la titolarità del diritto rispetto a rivendicazioni altrui.

In ogni caso resta comunque vero che l’effetto finale perseguito dalle parti nei contratti traslativi è di carattere reale. L’obbligo è strumentale all’effetto finale del contratto.

Nel caso di contratti ad effetti obbligatori invece l’effetto finale consiste nella nascita di un rapporto obbligatorio. L’obbligazione è il cuore del contratto e non è strumentale al prodursi di effetti ulteriori (es. contratti di lavoro).

Bisogna tuttavia specificare che in cado di contratti ad effetti reali, l’obbligo di far acquistare il bene all’acquirente è spesso articolato e complesso poiché l’effetto traslativo non si produce immediatamente ma presuppone l’adempimento di una prestazione che cambia a seconda della fattispecie concreta. Pensiamo ad una ipotesi di vendita di cose altrui odi cosa futura. L’effetto reale non può prodursi immediatamente perché o il bene è indeterminato, o è nel patrimonio non dell’alienante o perché inesistente.

Altre volte invece sono le parti che impediscono il prodursi immediato dell’effetto ad esempio con l’opposizione di una condizione sospensiva.

Il momento esatto in cui si produce l’effetto, e dunque la sua determinazione, sono essenziali per la disciplina della impossibilità sopravvenuta della prestazione (art. 1465). Se la cosa trasferita è determinata e perisce per una causa non imputabile all’alienante, l’acquirente non è liberato dall’obbligo della controprestazione ancorché la cosa non gli sia stata consegnata, perché l’effetto reale si è immediatamente prodotto e sul proprietario grava il rischio del perimento del bene (res perit domino). Se invece la cosa trasferita è generica, l’acquirente non è liberato dall’obbligo di eseguire la controprestazione (ma solo) se l’alienante ha conseguito la consegna o se la cosa è stata individuata. Infine l’acquirente è comunque liberato in caso di trasferimento condizionato sospensivamente se l’impossibilità della prestazione è sopravvenuta prima che si verifichi la condizione.

Il passaggio del rischio è un evento fondamentale e poiché esso è collegato al prodursi dell’effetto reale, per il principio res perit domino si determinano complicazioni in caso di vendita di cose mobili, attesa la diversa rilevanza che assume a tal fine il consenso nei vari ordinamenti, essendo esso talvolta, come in quello italiano, sufficiente a trasferire il diritto ed altre volte meramente prodromico perché collegato alla successiva fase della consegna. Il rischio è a carico dell’acquirente anche se non ha ancora ritirato il bene, perché l’alienante glielo abbia messo a disposizione.

Infine va ricordato che la categoria del contratto ad effetti reali non prevede solamente l’ipotesi di trasferimento di diritti ma anche quella della costituzione di un diritto reale. In tal caso si parla di contratto derivativo-costitutivo atteso che non sussiste un rapporto di perfetta derivatività non esistendo nel patrimonio dell’alienante il diritto trasferito, ma uno più ampio. È il caso dei diritti reali di godimento su cosa altrui.

2. Gli effetti per i terzi.

L’art. 1372 al primo comma enuncia la regola della forza di legge del contratto tra le parti. Al secondo comma enuncia la regola della relatività degli effetti nel senso che il contratto è, di fronte ai terzi, del tutto inefficace, salvo nei casi previsti dalla legge.

Il concetto di terzo può, in prima approssimazione, delinearsi in termini negativi, nel senso di considerare terzi tutti coloro che non sono parte del contratto.

Se deve escludersi un’efficacia diretta, non può però escludersi un’efficacia indiretta o riflessa.

Si pensi all’ipotesi di un terzo danneggiato da un animale o dalla rovina di un edificio: costui può agire, rispettivamente ex artt. 2052 e 2053, per il risarcimento dei danni nei confronti del proprietario, il quale magari avrà acquistato la proprietà mediante contratto.

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A volte poi il contratto si pone come fatto giuridico nei confronti del terzo nel senso di legittimare l’esercizio di un diritto potestativo o di credito, che nasce, rispettivamente, dalla legge o da altro contratto. È il caso della prelazione, laddove il titolare di tale diritto può esercitare, in caso di mancata notifica della denuntiatio e successiva conclusione del contratto con il terzo, il diritto (potestativo) di riscatto se la prelazione è legale ovvero il diritto (di credito) al risarcimento del danno se essa è volontaria.

3. L’opponibilità.

Diversa dall’efficacia del contratto è la sua opponibilità. Mentre infatti l’efficacia per i terzi è sempre solo riflessa ed indiretta, l’opponibilità è nei confronti dei terzi sempre e solo diretta. L’opponibilità riguarda i rapporti o meglio i conflitti che, in seguito alla conclusione del contratto, possono nascere tra contraenti e terzi.

Il conflitto che in tal modo si determina è, in realtà, un conflitto tra titoli, da cui i diritti derivano.

Un problema di opponibilità per i contratti ad effetti obbligatori è, anche sul piano astratto, difficilmente concepibile. Non si vede infatti come l’assunzione di un’obbligazione possa dar luogo a conflitti. Certo può anche immaginarsi che un soggetto assuma contemporaneamente due obbligazioni sapendo di non poterle adempiere entrambe, come nel caso di chi accetti un mandato a gestire un affare in America ed uno in Asia per lo stesso periodo di tempo. Ovviamente uno dei due mandatari soccomberà. Il problema si risolverà puramente e semplicemente in un fatto di risarcimento dei danni da inadempimento, essendo a quel punto del tutto irrilevante che il mandatario esegua il primo o il secondo (in ordine di tempo) dei mandati accettati.

Un problema di diritti incompatibili potrebbe invece prospettarsi qualora il proprietario stipulasse due contratti di opzione o due contratti preliminari per il trasferimento di diritti reali incompatibili relativi allo stesso bene ovvero stipulasse prima un contratto d’opzione o un contratto preliminare e poi alienasse il bene ad un terzo.

Se il bene è immobile o mobile registrato, nel caso di duplicità di opzioni non prevale chi per primo accetta ma chi per primo trascrive l’acquisto conseguente all’accettazione.

Non diversamente è da dirsi se in pendenza dell’opzione il concedete trasferisce ad un terzo il bene: costui prevarrò purché trascriva prima della trascrizione dell’eventuale acquisto dell’opzionario conseguente all’accettazione.

In caso di duplicità di contratti preliminari prevarrà chi trascriverà per primo il preliminare o, in difetto, o venuta meno l’opportunità, il contratto definitivo ovvero la domanda ex art. 2652 n. 2. Parimenti si risolverà il conflitto tra promittente acquirente e terzo che acquista dal promittente alienante.

Per i conflitti mobiliari, in base all’art. 1155 prevarrà l’acquirente che in buona fede avrà conseguito per primo il possesso, pur sei si sarà avvalso per secondo del diritto di opzione o per secondo avrà stipulato il contratto definitivo.

Il comune autore (e il terzo, se di mala fede) deve comunque risarcire il danno, contrattuale, se pretermesso è un promittente acquirente, o precontrattuale, se pretermesso è un opzionario.

È inoltre esperibile l’azione revocatoria se ne ricorrono gli estremi. Al riguardo la giurisprudenza ha statuito che in caso di duplicità di preliminari non sia ravvisabile una consapevolezza del pregiudizio del secondo promittente acquirente che stipula il contratto definitivo ignorando l’esistenza del precedente preliminare, anche se ne è venuto a conoscenza dopo aver concluso il preliminare in quanto la stipula del definitivo si configura come atto dovuto a cui il promittente acquirente non può sottrarsi.

Per quanto riguarda invece i contratti traslativi, dati i pericoli derivanti dalla circolazione dei beni, i terzi vanno tutelati mediante la garanzia della celerità e della certezza dei traffici. In ciò consiste il problema dell’opponibilità del titolo d’acquisto ed in particolare del contratto. Ecco dunque che l’opponibilità non può essere valutata esclusivamente sulla base dei principi che regolano l’efficacia. Per l’opponibilità la legge pretende di volta in volta anche ulteriori condizioni.

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Deve dunque aversi riguardo alle varie situazioni ipotizzabili, che ricevono risposte diverse dalla legge. In particolare il quadro dei potenziali conflitti può essere così sintetizzato:

- Acquisto a non domino. In tal caso il conflitto è tra chi acquista mediante contratto a non domino e il dominus. L’acquirente acquista il diritto da chi non è proprietario e non può nemmeno vantare un titolo di proprietà sia pure inefficace o invalido (ma questa precisazione vale solo per gli acquisti immobiliari), come, ad esempio, nel caso di alienazione ad opera di un ladro o di un omonimo del proprietario. Il conflitto è risolto, in caso di trasferimento di diritti reali mobiliari, mediante applicazione del principio possesso vale titolo (art. 1153). Se invece il diritto reale trasferito è immobiliare, l’acquirente potrà solo opporre, eventualmente, l’avvenuta usucapione, magari decennale, non trovando applicazione l’art. 2644 perché non si tratta di conflitto tra aventi causa dallo stesso autore. In ipotesi di trasferimento di diritti di credito, invece, l’acquisto da chi non è creditore non è mai opponibile né al vero creditore né al debitore.

- Può darsi invece che il conflitto si ponga tra un avente causa dall’acquirente e l’alienante. L’avente causa è, in sostanza, un successore a titolo particolare nella posizione del dante causa, il quale opera il trasferimento. Il subacquirente, ad esempio, è avente causa dall’acquirente, cosicché, sebbene terzo rispetto all’originario contratto di compravendita non può dirsi che sia ad esso estraneo dal punto di vista degli effetti. Se cade l’acquisto dell’acquisto dell’acquirente cade anche l’acquisto del subacquirente, fondando tale secondo acquisto la propria efficacia sull’efficacia e validità del primo contratto. Anche in tal caso dunque si avrà un acquisto a non domino con la particolarità che il non dominus al momento del trasferimento era, o comunque appariva, dominus. L’intermediazione di un titolo diversifica questa ipotesi dalla precedente in cui l’alienante non poteva vantare alcun titolo di acquisto nemmeno apparente ed infatti la legge se, in caso di acquisti mobiliari, dichiara applicabile anche in tal caso il principio del possesso vale titolo, in caso di trasferimento immobiliare fa salvo l’acquisto del subacquirente nei confronti dell’alienante se ricorrono tutte le condizione poste di volta in volta dall’art. 2652 e quindi perfino nel caso in cui il titolo d’acquisto dell’acquirente fosse nullo e dunque costui fosse dall’inizio un non dominus. Ciò vale nel caso di trasferimento di diritti reali. Nel caso, invece, di trasferimento di diritti di credito, vale la disciplina generale, ad esempio per quanto riguarda la salvezza dei diritti dei terzi in materia di annullamento, rescissione e risoluzione.

- Il conflitto può inoltre porsi tra più aventi causa dallo stesso autore. Anche in tal caso è necessario distinguere la natura del diritto in contestazione. In caso di doppia alienazione mobiliare vale la regola fissata dall’art. 1155. In caso di conflitto tra più diritti personali di godimento prevale chi per primo ha conseguito il godimento stesso e non già chi, al momento in cui il conflitto nasce, goda della cosa, non essendo necessaria l’attualità del godimento, ovvero, se nessuno lo ha conseguito, prevale chi ha il titolo di data certa anteriore. In cado di conflitto tra più cessionari dello stesso diritto di credito, prevale chi per primo ha notificato la cessione al debitore ovvero ha conseguito l’accettazione, con atto di data certa (art. 1265).

- Il conflitto, infine, può porsi tra l’acquirente o i suoi aventi causa e i creditori dell’alienante i quali hanno interesse a salvaguardare la propria garanzia patrimoniale in funzione dell’azione esecutiva da esperire in ipotesi di inadempimento. In tal caso si applicheranno le regole fissate per l’esperibilità dell’azione revocatoria dagli artt. 2901 ss. In particolare il subacquirente farà salvo il proprio acquisto (cioè potrà opporre il proprio titolo al creditore) se, in caso di alienazioni mobiliari, potrà invocare l’art. 1153 e, in caso di alienazioni immobiliari, potrà invocare l’art. 2652 n. 5. Azione revocatoria = il creditore, anche se il credito è soggetto a termine o a condizione, può domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni, quando concorrono le seguenti condizioni: a) che il debitore conoscesse il pregiudizio che l’atto recava alle ragioni del creditore, o, trattandosi di atto anteriore al credito, l’atto fosse dolosamente preordinato al dine di pregiudicarne il soddisfacimento; b) che trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse consapevole del pregiudizio o fosse partecipe della dolosa preordinazione.

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4. Il contratto a favore di terzo.

Le parti possono concludere un contratto, anche preliminare o di opzione, inserendo una clausola (c.d. stipulazione) in virtù della quale gli effetti si producono in via diretta ed immediata nel patrimonio di un terzo. Il contratto a favore di terzo non è pertanto un contratto (tipico) a sé stante, ma un modo di essere del contratto di volta in volta concluso. Le parti contraenti sono dunque:

- Il promittente, che si obbliga alla prestazione in favore del terzo;- Lo stipulante, che designa la persona del terzo.

Il terzo è pertanto estraneo alla conclusione del contratto, di cui non è parte. Non sarà quindi necessaria una sua positiva accettazione, ed infatti egli acquista il diritto contro il promittente per effetto della sola stipulazione conclusa tra promittente e stipulante. È errato allora affermare che l’adesione del terzo si configurerebbe come condicio iuris sospensiva dell’acquisto del diritto. Per questo motivo, il terzo deve esistere e possedere i requisiti di legge ab initio.

Il terzo può dichiarare di voler profittare della stipulazione in proprio favore, ma tale dichiarazione non è un’accettazione in senso tecnico ed ha appunto la funzione, da un lato, di impedire la modifica o la revoca della stipulazione stessa da parte dello stipulante e, dall’altra, di consumare il potere di rifiutare, che può essere esercitato fino al momento in cui egli ha aderito o lo stipulante ha revocato.

In caso di revoca della stipulazione o di rifiuto del terso di volerne profittare, la prestazione (operando revoca e rifiuto ex tunc) rimane, con effetto fin dal momento della conclusione del contratto, a beneficio dello stipulante, salvo che risulti diversamente dalla volontà delle parti (in tal caso il contratto si scioglie per impossibilità sopravvenuta dell’adempimento).

La vicenda che origina dal contratto a favore di terzo si sviluppa attraverso fasi successive.

Innanzitutto le parti devono comunicare al terzo la stipulazione, al fine di permettergli l’esercizio eventuale del potere di rifiuto. La comunicazione è di solito successiva alla conclusione del contratto, soprattutto quando lo stipulante si sia riservato di indicarlo. È possibile che la stipulazione sia in via alternativa e solo eventuale a favore di un terzo non ancora designato. In tal caso la vicenda s presenta in apparenza analoga a quella del contratto per persona da nominare ma in realtà essa è del tutto dissimile perché in caso di contratto per persona da nominare la nomina incide sull’identificazione stessa di uno dei contraenti, mentre nel caso di contratto a favore di terzo la nomina identifica solo la persona che può ricevere la prestazione. In tal caso la designazione del terzo dovrà essere comunicata anche al promittente.

Per parte sua, il terzo deve comunicare l’adesione o il rifiuto ad entrambi i contraenti. Si tratta dunque di negozi unilaterali recettizi, anche se parte della dottrina sostiene la loro natura non negoziale.

Il rifiuto ha carattere eliminativo ex tunc di diritti già acquisiti al momento della conclusione del contratto.

L’adesione alla stipulazione attribuisce al terzo definitivamente la titolarità del diritto ma non del rapporto contrattuale, che fa sempre capo ai contraenti (e qui la differenza col contratto per persona da nominare). Il terzo non potrà dunque invocare la risoluzione del contratto ma potrà agire contro il promittente per l’adempimento della prestazione e per il risarcimento del danno. Allo stesso modo contro il promittente può agire lo stipulante, essendo anch’egli portatore di un interesse all’adempimento. Dei comportamenti illeciti del terso non risponde lo stipulante. In sede di adempimento, il promittente può opporre al terzo le eccezioni fondate sul contratto dal quale il terzo deriva il proprio diritto (ad es. invalidità) ma non quelle fondate su altri rapporti con lo stipulante (ad es. compensazione).

La disciplina del contratto a favore di terzo risulta dalla fusione della normativa di cui agli artt. 1411 ss. con quella dettata per il singolo contratto concluso.

Secondo dottrina e giurisprudenza non esistono limiti riguardanti la qualità e il contenuto dell’attribuzione del terzo. Pertanto è anche concepibile un contratto traslativo a favore di terzo. Al riguardo è però stato obiettati che il contratto a favore di terzo non tollera oneri od obblighi a carico del terzo, a prescindere da

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un’espressa accettazione, cosicché non è possibile trasferire nel suo patrimonio diritti reali quali quelli di proprietà e di usufrutto che comportano oneri di gestione e di custodia.

Se il trasferimento ha ad oggetto beni immobili o mobili registrati, il contratto sarà suscettibile di trascrizione, con eventuale annotazione della revoca o del rifiuto che fanno venir meno l’attribuzione in favore del terzo. L’adesione invece non è suscettibile di trascrizione in quanto non incide sulla produzione degli effetti reali ma solo sulla possibilità di revoca da parte dello stipulante o di rifiuto da parte del terzo, non più possibile dopo l’adesione, per consumazione del relativo potere. Ovviamente in caso di trasferimento immobiliare il contratto, la revoca e il rifiuto (ma non l’adesione che può operarsi in ogni caso per facta concludentia) dovranno rivestire la forma scritta, in particolare, ai fini della trascrizione, dell’atto pubblico, anche per il rifiuto, che va annotato. Il terzo sopporterebbe così i relativi costi, pertanto o il contratto prevede che i costi del rifiuto sono a carico dello stipulante o l’attribuzione traslativa dovrebbe essere limitata ai soli beni mobili.

Per quanto riguarda i beni mobili, essi non solo non comportano costi e obblighi di gestione, custodia e manutenzione, ma il loro acquisto può essere rifiutato senza formalità e comunque la loro proprietà può essere dimostrata con la semplice derelictio.

Dal contratto in favore di terzo originano due diversi spostamenti patrimoniali che pongono il problema della giustificazione causale. Da un lato deve giustificarsi il fatto che della prestazione benefici un terzo che non è parte contraente; dall’altro deve giustificarsi il rapporto che nasce tra promittente e stipulante, cioè tra i contraenti.

Sul piano della giustificazione dell’attribuzione al terzo deve richiamarsi il disposto dell’art. 1411 secondo cui la stipulazione è valida qualora lo stipulante vi abbia interesse, anche di natura esclusivamente morale o affettiva.

Per accertare l’interesse dello stipulante bisogna guardare il c.d. rapporto di valuta che intercorre tra stipulante e terzo. L’interesse dello stipulante si spiega col fatto che, tramite il contratto in favore del terzo, egli può estinguere una preesistente obbligazione nei confronti del terzo stesso ovvero può eseguire una controprestazione a fronte di una prestazione che il terzo compie nei suoi confronti sulla base di un altro rapporto, del tutto autonomo ed estraneo al contratto che lo stipulante conclude con il promittente. Infine lo stipulante può operare una liberalità. Anche il terzo, per parte sua, deve avere un interesse all’attribuzione in proprio favore, in difetto del quale non si vede come potrebbe nascere un diritto. Interesse dello stipulante e interesse del terzo finiscono per coincidere sul piano funzionale nel senso che entrambi sono soddisfatti dalla prestazione eseguita dal promittente, tanto ciò vero che così lo stipulante come il terzo possono agire contro il promittente per l’esecuzione della prestazione.

Per quanto riguarda la giustificazione causale del contratto che nasce tra promittente e stipulante deve sussistere un interesse del promittente con riguardo all’eventuale rapporto di provvista che lo lega allo stipulante. Il promittente, con la stipulazione, può infatti estinguere un’obbligazione che preesisteva nei confronti dello stipulante ovvero assumere un’obbligazione dietro corrispettivo ma può anche compiere un atto di liberalità.

Se la prestazione deve essere fatta al terzo dopo la morte dello stipulante (es. assicurazione sulla vita) questi può revocare il beneficio anche con disposizione testamentaria e quantunque il terzo abbia dichiarato di volerne profittare, salvo che, in quest’ultimo caso, lo stipulante abbia rinunziato per iscritto al potere di revoca (art. 1412), con atto unilaterale che deve essere comunicato al promittente ovvero, secondo altra dottrina, con accordo bilaterale con il terzo non necessariamente a titolo gratuito e comunque esterno ed autonomo rispetto al contratto. La prestazione deve essere eseguita a favore degli eredi del terzo se questi premuore allo stipulante. Si discute se l’acquisto degli eredi avvenga iure proprio o iure successionis.

Quando lo stipulante rinuncia al potere di revoca la fattispecie si presta ad eludere il divieto dei patti successori (art. 458: è nulla qualsiasi convenzione con sui taluno dispone della propria successione). Parte della dottrina parla infatti di eccezione alla regola. La diversità è che in caso di contratto a favore di terzo

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l’attribuzione al terzo è immediatamente operante, con acquisto del diritto inter vivos, cosicché solo la prestazione dovrà essere eseguita post mortem.

Il contratto a favore di terzo presenta un meccanismo per molti versi analogo a quello di talune fattispecie legali. Tra queste ricordiamo:

- L’accollo esterno in cui l’adesione del creditore determina l’irrevocabilità della stipulazione in suo favore (art. 1273). La dottrina paragona l’adesione del creditore alla dichiarazione di voler profittare della stipulazione. Tuttavia mentre l’accordo nasce come interno, e solo eventualmente viene portato a conoscenza del creditore, il contratto a favore di terzo produce immediatamente effetti per il terzo e solo in caso di revoca o di rifiuto può avere efficacia interna. L’adesione del creditore inoltre viene vista come accettazione di una proposta formulata da accollante e accollato.

- Il modus, o meglio donazione modale, con attribuzione ad un terzo determinato di un autonomo diritto. La differenza principale è che il modus non è revocabile mentre la prestazione in favore al terzo lo è.

- Il contratto con prestazione da eseguire ad un terzo che non produce effetti immediati nel patrimonio di costui e non gli attribuisce dunque la qualità di creditore (es. delegatio solvendi).

Va infine segnalato che talvolta il contratto ha ad oggetto una pluralità di prestazioni, in cui accanto ed oltre al diritto alla prestazione principale è garantito e rimane esigibile un ulteriore diritto, di carattere accessorio e derivante dai doveri di protezione, a che non siano arrecati danni a terzi estranei al contratto. Si parla, al riguardo, di contratti con effetti protettivi a favore di terzi.

5. La promessa del fatto del terzo.

Colui che ha promesso l’obbligazione o il fatto del terzo è tenuto ad indennizzare l’altro contraente, se il terzo si rifiuta di obbligarsi o non compie il fatto promesso (art. 1381). È un’ipotesi sostanzialmente opposta a quella del contratto in favore di terzo. Infatti in questo caso il terzo non è destinatario di vantaggi ma dovrebbe assumere obbligazioni o tenere comunque un dato comportamento.

In sostanza si è in presenza di un fenomeno analogo a quella che da tempo la dottrina ha individuato con l’espressione contratto sul patrimonio del terzo, tra cui rientra tipicamente la vendita di cosa altrui; il contratto produce effetti solo se il terzo, in piena libertà, decide di alienare il bene.

La dottrina inquadra la fattispecie nell’ambito dei contratti di garanzia. L’obbligazione del promittente-garante sarebbe condizionata al mancato comportamento del terzo, con la conseguenza che il rischio del rifiuto sarebbe assunto dal promittente stesso. È comunque evidente la diversità rispetto alla fideiussione, là dove l’obbligazione del terzo debitore e quella assunta dal fideiussore hanno identico contenuto e la prima preesiste alla seconda.

Secondo altra impostazione, si è in presenza di un’autonoma obbligazione (non di garanzia) avente ad oggetto un facere e più precisamente il comportamento volto a favorire l’assunzione dell’obbligazione o il compimento del fatto da parte del terzo. Così impostato il problema, dovrebbe trattarsi, dunque, di una obbligazione c.d. di mezzi e non già di risultato. Ma la responsabilità del promittente sorge per il semplice rifiuto del terzo, a prescindere quindi dallo sforzo di diligenza, cosicché l’obbligazione del promittente stesso dovrebbe, a questo punto, configurarsi quale obbligazione di risultato, come in effetti autorevole dottrina sottolinea.

La promessa può essere isolata, configurandosi allora come promessa unilaterale ex art. 1333, o contrattuale, se previsto un corrispettivo.

La promessa isolata è giustificata solo se risponde ad un interesse patrimoniale del promittente, dovendo altrimenti rivestire la forma donativa. L’interesse patrimoniale del promissario è invece sempre ricorrente.

La forma, se non donativa, è sempre libera.

Il fatto del terzo, contenuto della promessa, può essere il più vario.

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L’indennità che il promittente deve al promissario in caso di rifiuto del terzo consiste nel pagamento di una somma pari al valore dell’utilità non conseguita dal promissario stesse ed è liquidata equitativamente. È escluso che il promittente debba adempiere la prestazione in luogo del terzo. L’indennità può peraltro essere fissata pattiziamente, senza possibilità di ridurla ex art. 1384. Ovviamente se il promittente ha promesso l’assunzione di un’obbligazione da parte del terzo, non è tenuto ad alcuna indennità qualora il terzo, una volta assunta l’obbligazione, non l’adempia.

Se però la promessa si inserisce nel contesto di un contratto a prestazioni corrispettive, condizionandolo funzionalmente, l’autonomia dei due negozi viene meno, cosicché l’eventuale inadempimento del terzo è inadempimento del promittente, con risarcimento dovuto.

La promessa non è valida, per vizio della causa, se il terzo non è identificato ovvero se essa ha ad oggetto l’assunzione di un’obbligazione invalida per illiceità, impossibilità o indeterminatezza. Se il terzo è incapace si ritiene la promessa valida se tale incapacità era nota alle parti mentre in caso contrario si ritiene la promessa impugnabile per errore, ma questa soluzione cozza contro il principio di tutela degli incapaci, sicché è preferibile optare per la nullità della promessa. Se invece l’incapacità del terzo sopravviene non potrà assumere rilievo il rifiuto e quindi la promessa sarà caducata, salvo il caso di inabilitazione, perché il rifiuto del terzo in abilitato, in presenza dell’assenso del curatore, obbliga il promittente ad indennizzare il promissario.

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I VIZI DELLA VOLONTÀ

1. Tipologia.

Nel codice civile non si ritrova una sezione dedicata alla disciplina unitaria delle situazioni che incidono in modo anomalo sul processo di formazione della volontà. Il legislatore infatti ha unificato errore, violenza e dolo, solo sul piano sanzionatorio, disponendo che l’errante ovvero colui che subisce il dolo o la violenza può chiedere in ogni caso l’annullamento del contratto, ma secondo modalità e sulla base di presupposti diversi (art. 1427).

Talvolta c’è dichiarazione, ma non volontà.

Sono le ipotesi di:

- Contratto concluso da un infante, che ignora il significato delle parole- Violenza fisica (o vis absoluta)- Dichiarazione emessa per ioci causa o per necessità didattica- Riserva mentale- Errore ostativo, errore che cade cioè sulla dichiarazione o sulla sua trasmissione.

In questi casi il contratto è nullo per difetto di accordo o di causa.

Nell’ultima fattispecie è stata assimilata dal legislatore a quella dell’errore vizio (art.1433), con conseguente unitarietà di disciplina. La spiegazione sta nel fatto che il legislatore ha dato rilevanza alla dichiarazione più che alla volontà, al fine di tutelare l’affidamento del non errante.

Ancora diversa, infine, è l’ipotesi di simulazione perché non vi è una discordanza tra voluto e dichiarato. L’intera vicenda fa capo infatti alla volontà dei contraenti per quanto attiene sia al contratto simulato che a quello dissimulato.

La disciplina dei vizi della volontà, dunque, riguarda solo le ipotesi in cui una volontà sussiste e non è ravvisabile in alcuna divergenza rispetto alla dichiarazione, ma questa volontà si è formata non correttamente per l’intervento di fatti ed azioni che hanno influito sulla determinazione finale del contraente e di conseguenza, hanno impedito che volontà dichiarata e volontà c.d. ipotetica coincidessero.

2. L’errore.

Errore vizio ed errore ostativo.

L’errore può essere di due tipi: errore vizio (altrimenti detto errore motivo) ed errore ostativo.

L’errore vizio corrisponde ad una falsa rappresentazione della realtà che ha sviato il soggetto e lo ha indotto a contrarre sulla base di una volontà non corrispondente alle effettive intenzioni, come nel classico caso di chi acquista un oggetto di bronzo reputandolo oro.

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L’errore ostativo cade invece sulla dichiarazione o sulla trasmissione ad opera della persona o dell’ufficio che ne è stato incaricato (art. 1433). Tipica è l’ipotesi di errore nella trasmissione telegrafica dovuto al fatto che il dichiarante scrive erroneamente il testo della propria dichiarazione o l’impiegato mal la trascrive.

Nel caso di errore vizio la dichiarazione è quindi voluta, sia pure in base ad una volontà difforme da quella ipotetica, mentre nel caso di errore ostativo essa è del tutto divergente dalla volontà. Il legislatore ha pertanto comminato la stessa sanzione cioè l’annullabilità del contratto.

Errore ostativo e falsa demonstratio.

È importante distinguere l’errore ostativo dalla falsa demonstratio, la quale consiste nell’indicazione erronea di una persona o di un bene, quando peraltro non vi è incertezza alcuna in ordine alla sua identificazione. Proprio tale certezza rende l’erronea indicazione del tutto irrilevante.

Errore riconoscibile.

La legge accorda tutela all’errante a condizione che l’errore sia riconoscibile ed essenziale. L’errore si considera riconoscibile quanto, in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo (art. 1431), in quanto palese. L’effettiva conoscenza è parificata alla riconoscibilità.

Errore comune.

Poiché la ratio della norma è quella di tutelare l’affidamento del terzo, si comprende perché la giurisprudenza ritenga irrilevante il requisito della riconoscibilità se l’errore è comune ad entrambi i contraenti.

Errore ostativo conosciuto.

In caso di errore ostativo, se l’oblato sa che l’offerta telegrafica di vendita è stata formulata, per erronea omissione di uno zero, al prezzo di mille, anziché diecimila, ed accetta, potrebbe anche sostenersi che il contratto si conclude al prezzo di diecimila, in virtù di un’interpretazione di buona fede (art. 1366), piuttosto che al prezzo di mille, con onere per il proponente di impugnarlo per poi concluderlo, se del caso, di nuovo.

Errore essenziale.

L’errore, oltre che riconoscibile, deve anche essere essenziale, nel senso di aver influito in modo determinante sulla formazione della volontà del soggetto, ad una stregua oggettiva, cosicché dalla formula negoziale risulta un criterio di identificazione dell’interesse, diverso da quello assunto concretamente dall’errante.

Il legislatore ha tipizzato le ipotesi di essenzialità, sia pur in modo non tassativo. In base all’art. 1429 è essenziale:

- L’errore che cade sulla natura o sull’oggetto del contratto;- L’errore che cade sull’identità dell’oggetto della prestazione ovvero sopra una qualità dello stesso,

in ogni caso determinante del consenso;- L’errore che cade sull’identità o sulle qualità della persona dell’altro contraente sempre che l’una o

le altre siano state determinanti nel consenso;- L’errore di diritto è rilevante nel nostro ordinamento a date condizioni. L’art. 1429 n. 4 specifica che

esso si considera essenziale quando è stata la ragione unica o principale del contratto, cioè vale a dire quando è stato determinante.

La rilevanza dell’errore di diritto non viola il principio, che vige incondizionatamente nel diritto privato, a differenza di quello penale, secondo cui ignorantia legis non excusat.

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È necessario peraltro circoscrivere l’ambito entro il quale l’errore di diritto rileva. L’errore sulla denominazione e quindi sulla qualificazione giuridica del contratto è irrilevante, salvo che si risolva in un errore di fatto sulla natura del contratto. Non può ad esempio essere annullato un contratto qualificabile di abitazione, sol perché esso è stato denominato contratto di usufrutto. Naturalmente l’errore rileva solo se il contratto è stato validamente ed efficacemente concluso.

L’ampia dizione dell’art. 1429 n. 4 va ridimensionata anche da un altro punto di vista, perché non può attribuirsi all’errore di diritto un ambito di operatività più vasto rispetto all’errore di fatto. Di conseguenza l’errore di diritto non solo dovrà essere determinante del consenso, ma dovrà essere essenziale con riferimento alla natura del contratto o al profilo oggettivo o soggettivo, secondo i riferimenti di cui all’art. 1429 n. 1-3. Così ad esempio, la qualità del bene può essere valutata, sul piano dell’errore, anche dal punto di vista giuridico. Si pensi all’acquisto di un’area al fine di costruirvi un’abitazione per la propria famiglia. In tal caso il bene è stato acquistato in base ad un preciso motivo, che tuttavia si specifica con riferimento ad un’intrinseca qualità giuridica del bene stesso, cosicché sarà annullabile per errore sulla qualità del bene se l’area risulterà inedificabile in base al piano regolatore che è approvato con norma di legge.

Il motivo e quindi l’errore di diritto deve però essere non solo riconoscibile, ma anche inscindibilmente legato al contenuto del contratto che si conclude. Così, ad esempio, l’inedificabilità del terreno non incide sulla validità del contratto con cui sono stati acquistati i materiali per la costruzione.

Al di fuori del collegamento con l’oggetto o il soggetto del contratto, l’errore di diritto non rileva mai, salvo, secondo una criticabile tesi, l’ipotesi del contratto definitivo concluso in base all’erroneo convincimento di esservi obbligato.

La formula dell’art. 1429 n. 4, dunque, dà rilevanza ai motivi. Ed infatti essa riecheggia con quella di cui all’art. 787 in tema di errore sul motivo della donazione. In tal caso non c’è un problema di affidamento del terzo e quindi riconoscibilità ed essenzialità dell’errore, problema che sorge solo in caso di contratti onerosi. Ciò che conta è esclusivamente il motivo, che in caso di errore legittima l’azione di annullamento se è stato il solo a determinare il soggetto a compiere l’attribuzione, a prescindere dalla sua essenzialità e dunque a prescindere da ogni riferimento all’oggetto o al destinatario dell’attribuzione stesso.

L’unico limite a tale disciplina è che gli effetti prodotti siano incrementativi, secondo lo schema dell’art. 1333, per il patrimonio dell’altro contraente o del terzo.

L’errore di calcolo dà luogo solo a rettifica (art. 1430: l’errore di calcolo non dà luogo ad annullamento del contratto, ma solo a rettifica, tranne che, concretandosi in errore sulla quantità, sia stato determinante del consenso). L’errore non deve essere determinante, perché altrimenti, risolvendosi in errore sulla quantità, il contratto non è rettificabile ma annullabile. L’errore poi deve in ogni caso essere riconoscibile, cosicché, esso è irrilevante se, ad esempio, il prezzo è stato offerto senza alcuna specificazione dell’operazione matematica ma globalmente. Per quanto riguarda la rettifica si tratta di un rimedio di cui può avvalersi l’errante e non la controparte, come è invece nella diversa ipotesi prevista dall’art. 1432. Inoltre la rettifica, in caso di errore di calcolo, non è alternativa all’annullamento (che può comunque essere richiesto), mentre nell’ipotesi di cui all’art. 1432 l’errante può annullare e la controparte rettificare.

3. Il dolo.

L’errore può anche essere frutto di raggiri operati dalla controparte o da un terzo. Si parla in tal caso di dolo contrattuale o negoziale, che ovviamente nulla ha a che vedere con il dolo inteso come elemento psicologico che può caratterizzare il comportamento del soggetto.

Il dolo è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati da uno dei contraenti (c.d. deceptor) sono stati tali che, senza di essi, l’altra parte (c.d. deceptus) non avrebbe contrattato (art. 1439).

Può dunque parlarsi di truffa contrattuale.

Tra raggiri e conclusione del contratto deve sussistere uno stretto nesso di causalità, restando irrilevante lo scopo ulteriore che si prefiggeva il deceptor e l’eventuale mancanza di danno. I raggiri devono comunque

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essere tali da indurre a contrarre un uomo medio. Si tratta di una valutazione da concludere ad una stregua oggettiva e non soggettiva. Non sembra infatti che l’ordinamento intenda dare rilevanza agli stati soggettivi del deceptus e alla sua ingenuità, dovendosi in caso di dolo ritenere rilevante solo l’errore scusabile, cioè, non negligente secondo una valutazione oggettiva.

In ogni caso non costituisce raggiro il c.d. dolus buonus, costituito dal complesso di quei comportamenti tenuti di regola dai soggetti nella fase delle trattative per invogliare la controparte a concludere il contratto. Tipico è il caso del commerciante che induce ad effettuare un certo acquisto il cliente incerto. In questo contesto largo spazio per la valutazione del comportamento dovrà essere dato alla correttezza e alla buona fede ex artt. 1175 e 1337.

Il problema vero, però, è quello di difendere la categoria dei consumatori dalla categoria dei produttori, i quali utilizzano le comunicazioni di massa come mezzo per promuovere comportamenti e scelte di modelli imitativi, inducendo così all’acquisto di merci, spesso di nessuna utilità o scadenti (quindi pubblicità ingannevole).

Talvolta accade che società di vendita per corrispondenza, al fine di invogliare il consumatore ad ordinare la merce, comunichino la vincita di un premio, che è subordinata ad un ordinativo ed inoltre ad un concorso con sorteggio finale. In tal caso se il consumatore non ha avuto precedenti rapporti con la società, tali da far ritenere acquisita la conoscenza del meccanismo concorsuale, può esservi, se la comunicazione interpretata ex artt. 1362 ss., è ambigua, un effetto ingannatorio con diritto a conseguire il premio annunciato.

Costituisce dolo, sempre che si accompagni ai raggiri, la c.d. reticenza, che consiste nel tacere circostanze che avrebbero indotto la controparte a non contrarre e che dovevano essere chiarite in base al dovere di agire secondo buona fede.

In caso di dolo finiscono per essere rilevanti anche circostanze che, in caso di errore, non avrebbero condotto all’annullamento, perché non determinanti. Infatti, in conseguenza del dolo, i motivi finiscono per balzare in primo piano, costituendo essi la spinta alla contrattazione, quella spinta su cui incide, con nesso di causalità, il raggiro.

La tutela del deceptus è più intensa di quella dell’errante, tanto ciò vero che taluni negozi (accettazione e rinunzia all’eredità, divisione) sono impugnabili per dolo ma non per errore (artt. 482, 526, 761).

Il comportamento del deceptor costituisce di per sé un illecito che obbliga a risarcire il danno, a prescindere dall’inizio dell’azione di annullamento.

Il danno, in via extracontrattuale, deve in ogni caso essere risarcito anche dal terzo che usi raggiri al fine di indurre una parte a contrarre con altro soggetto. L’annullamento in tal caso può essere richiesto solo se i raggiri erano noi all’altro contraente (art. 1439, secondo comma).

Se i raggiri non sono stati tali da determinare il consenso, il contratto è valido, benché senza di essi sarebbe stato concluso a condizioni diverse, ma il contraente in mala fede risponde dei danni (art. 1440), per responsabilità non già contrattuale, ma precontrattuale.

In caso di dolo proveniente dal terzo, costui risponderà in ogni caso ex art. 2043 e il contraente solo se a conoscenza dei raggiri.

4. La violenza.

Costituisce violenza ogni forma di coazione psicologica che menoma la libertà di determinazione e non dunque la mera rappresentazione interna di un pericolo. Si parla perciò di violenza morale (o vis compulsiva) in contrapposizione alla violenza fisica che impedisce la stessa imputabilità dell’atto al suo apparente autore ovvero, secondo altra impostazione, ne determina la nullità.

La paura deve essere indotta da un fatto umano finalizzato a provocare la conclusione del contratto.

La violenza è causa di annullamento del contratto anche se esercitata da un terzo (art. 1434). In tal caso, a differenza di quanto statuito in materia di dolo, è del tutto irrilevante che il contraente ne sia stato a

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conoscenza: ciò che conta, infatti, è esclusivamente il nesso di causalità che deve sussistere tra violenza e conclusione del contratto.

Secondo l’art. 1436 la violenza è causa di annullamento del contratto anche quando il male minacciato riguarda la persona o i beni del coniuge del contraente o di un discendente o ascendente di costui.

Il solo timore reverenziale non è causa di annullamento (art. 1437). È tale quello che incute una persona a causa della sua età, della sua fama o di particolari rapporti personali.

La violenza si pone in relazione ad un male ingiusto e notevole. Ecco perché l’art. 1438 prevede l’annullamento del contratto se chi minaccia di far valere un proprio diritto mira a conseguire un vantaggio ingiusto, che si configura quando il fine ultimo perseguito consista nella realizzazione di un risultato che oltre ad essere abnorme e diverso da quello conseguibile con l’esercizio del diritto, sia anche esorbitante ed iniquo rispetto ad esso. In sostanza l’ordinamento intende colpire la strumentalizzazione dell’esercizio del diritto.

Così, ad esempio, al fine di recuperare la somma di denaro data a mutuo il creditore può chiedere il fallimento del debitore che sia imprenditore ma può anche, minacciando il fallimento, stipulare un contratto di datio in solutum perfettamente valido nei limiti in cui non sia ravvisabile una lesione che permetterebbe al debitore di invocare l’art. 1448. Lo stesso criterio deve applicarsi per quanto riguarda la denuncia o la querela penale.

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LA SIMULAZIONE

1. Gli effetti tra le parti.

I contraenti possono dar vita ad un regolamento solo apparente, essendo in realtà gli interessi che figurano dedotti nel negozio o inesistenti o diversi rispetto a quelli effettivamente perseguiti, a seconda che la simulazione sia assoluta ovvero relativa.

La dottrina ha elaborato numerose ricostruzioni.

Quella più risalente ritiene che il fenomeno simulatorio consista in una divergenza tra volontà e dichiarazione. Le parti non vogliono produrre alcun effetto ovvero vogliono produrre effetti diversi rispetto a quelli discendenti da ciò che è stato dichiarato.

In senso contrario si è però sottolineato che la volontà delle parti mira a porre in essere l’intero congegno simulatorio, cosicché non può dirsi che il negozio simulato non sia voluto, avendo esso la funzione di creare l’apparenza. Sussistono dunque due volontà, distinte ma collegate, le quali convergono nella direzione di creare un complesso meccanismo in cui i piani dell’efficacia esterna e dell’efficacia interna del regolamento, pur difformi, convivono. Questa convivenza è regolata dalla legge con una peculiare disciplina, che opportunamente distingue da un lato gli effetti (interni) della simulazione tra le parti (art. 1414) e dall’altro gli effetti (esterni) della simulazione rispetto ai terzi (art. 1415), con particolare riguardo ai creditori (art. 1416).

Apprezzabile è quella dottrina che spiega il fenomeno in termini causali. In questa visione il negozio simulato è privo di causa in quanto, sul piano del concreto interesse perseguito, le parti hanno escluso la produzione di ogni effetto mentre il contratto effettivamente voluto (in caso di simulazione relativa) è valido ed efficace in quanto dotato di propria causa.

Base della simulazione è dunque l’accordo simulatorio, cioè l’intesa raggiunta dalle parti per dar vita ad un negozio simulato in modo assoluto o relativo. L’accordo, dunque, non è una mera attività preparatoria, una sorta di preliminare di fatto del negozio simulato, pur dovendo essere raggiunto precedentemente o contestualmente alla stipula del negozio simulato.

È discussa la natura negoziale o non negoziale dell’accordo. In quest’ultima direzione potrebbe dirsi che l’accordo non è idoneo di per sé a creare, modificare o estinguere rapporti giuridici e quindi sarebbe una mera dichiarazione di scienza. In tal modo però si sottovaluterebbe il collegamento esistente tra accordo e negozio simulato, mirando il primo o ad eliminare o a modificare gli effetti che il secondo, di per sé, sarebbe atto a produrre sul piano strutturale, tant’è che si parla di clausola accessoria del negozio. Dalla natura negoziale, che pertanto va riconosciuta, discende che l’accordo può anche essere invalido o, a sua volta, simulato ed anche risolto per mutuo dissenso, senza oneri formali né ad substantiam, né ad probationem, con piena efficacia del contratto (già) simulato, che non è nullo.

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Le parti dell’accordo devono essere le stesse del negozio simulato. Il richiamo al consenso dimostra che per controdichiarazione si intende innanzi tutto accordo simulatorio.

La controdichiarazione non va infatti confusa con l’accordo simulatorio di cui costituisce solo elemento di prova e non atto richiesto ad substantiam per la sua esistenza. Si tratta di una dichiarazione di scienza, dunque non risolubile per mutuo dissenso, che può anche valere come confessione e quindi essere unilaterale, cioè sottoscritta dalla sola parte contro il cui interesse è redatta, purché consegnata alle altre parti del contratto simulato, ed anche posteriore alla stipula del contratto stesso.

Secondo quanto dispone l’art. 1414 il negozio simulato non produce mai effetti tra le parti, attesa l’esistenza di un intento contrario nell’accordo simulatorio.

Secondo l’opinione prevalente il negozio simulato sarebbe nullo nei rapporti tra le parti. Senonché non può correttamente parlarsi di nullità, attesa la diversa disciplina ed il fatto che uno stesso negozio non può essere nullo tra le parti ed efficace per i terzi che non ne subiscano un pregiudizio. Del resto la legittimazione ad agire in simulazione è relativa e non già assoluta, come in caso di azione di nullità. Inoltre la vicenda simulatoria non può che essere opposta dalle parti in giudizio cosicché il giudice non può sollevare d’ufficio la relativa eccezione.

In realtà si è in presenza di una inefficacia originaria del negozio.

Il negozio non produce effetti non solo tra le parti ma anche nei confronti dei terzi qualora dalla vicenda simulatoria derivi loro un pregiudizio (art. 1415). L’unica eccezione è dunque costituita dall’ipotesi di terzi non danneggiati dalla vicenda, quale è un avente causa del simulato acquirente. In tal caso la spiegazione dell’efficacia relativa del negozio si ritrova nei più generali principi dell’apparenza giuridica, miranti a tutelare i terzi i quali, in buona fede, hanno fatto affidamento su una certa situazione (art. 1415).

Se le parti hanno invece voluto concludere un negozio in tutto o in parte diverso da quello apparente (è il caso della simulazione relativa), ha effetto tra le parti questo diverso negozio (c.d. negozio dissimulato), purché ne sussistano i requisiti di sostanza e di forma, non potendo prodursi effetti se il negozio non osserva le norme imperative che lo disciplinano.

Il negozio dissimulato non ha propria autonomia, a causa del nesso di compenetrazione rispetto al negozio simulato. Non vi sono dunque due dichiarazioni autonome e separate. Pertanto i requisiti di sostanza e di forma del negozio dissimulato devono essere rispettati dal negozio simulato.

Ciò significa, ad esempio, che le parti non potranno concludere una compravendita di cosa futura che dissimula una donazione, perché se è vero che in tal caso la vendita (simulata) sarebbe valida, è anche vero che la donazione dissimulata sarebbe nulla, potendo la donazione avere ad oggetto solo beni presenti.

Parimenti, se dissimula una donazione, la vendita dovrà comunque rivestire la forma dell’atto pubblico con assistenza di due testimoni, che è quella della donazione.

Se il negozio dissimulato è nullo è esclusa la possibilità di convertirlo in quello simulato, che non può in nessun caso produrre effetti nei rapporti tra le parti. È parimenti esclusa, secondo le regole generali, qualsivoglia tipo di convalida o di esecuzione volontaria (art. 1423).

È simulazione relativa soggettiva, l’interposizione fittizia di persona, che si realizza ogniqualvolta l’accordo simulatorio ha ad oggetto l’attribuzione della qualità di parte del contratto (che di per sé non è simulato) ad un soggetto che resta estraneo al contratto stesso e presta solo il proprio nome. Così se tizio vuole acquistare un bene da caio ma non vuole figurare come acquirente, può accordarsi con caio e far apparire che l’acquisto è stato realizzato da sempronio. L’accordo simulatorio dunque, intercorre tra l’interponente Tizio, il terzo Caio e l’interposto Sempronio e può anche essere a formazione progressiva nel senso di intervenire tra interponente e interposto per poi essere portato a conoscenza del terzo che vi aderisce prima o contestualmente alla stipula del contratto.

L’adesione del terzo è necessaria, perché costui deve essere consapevole della funzione meramente figurativa del contraente interposto e manifestare pertanto la volontà di contrarre con l’interponente. In

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difetto di adesione, pur nella conoscenza dell’accordo tra interponente e interposto, non vi è contrasto tra volontà e dichiarazione e quindi gli effetti si producono tra le parti contraenti, sicché si tratterà solo di stabilire se l’accordo stesso valga come mandato senza rappresentanza o come negozio fiduciario oppure come negozio di accertamento.

Talvolta l’interposizione fittizia è presunta dalla legge. È il caso delle disposizioni testamentarie in favore dei genitori, discendenti e coniuge di una persona incapace a ricevere (artt. 599 e 627) ovvero di donazione in favore delle stesse categorie di parenti, o del tutore.

L’interposizione fittizia di persona si distingue nettamente dall’interposizione reale, che si verifica quando l’accordo è sempre solo bilaterale, tra interponente ed interposto con assoluta e totale estraneità del terzo contraente. L’interposto è dunque vera e propria parte del negozio, cosicché non è ravvisabile un’ipotesi di simulazione. Di regola l’accordo con l’interponente concerne in particolare l’obbligo di trasferire il bene, successivamente all’acquisto. Tale obbligo, se l’atto da compiere è uno di quelli previsti dall’art. 1350, si ritiene debba essere assunto con atto scritto. L’interposizione reale presenta così una stretta analogia con l’ipotesi del mandato senza rappresentanza, che obbliga infatti il mandatario al trasferimento in caso di acquisti immobiliari e fa acquistare immediatamente la proprietà al mandate in caso di beni mobili (art. 1706).

L’interposizione fittizia si distingue dalla intestazione di beni notto nome altrui, come nel caso del figlio che acquista effettivamente e non quale interposto un immobile, ma il prezzo è pagato dal padre, il quale opera così una donazione indiretta dell’immobile stesso e non del denaro.

2. Gli effetti rispetto ai terzi.

L’intesa simulatoria non è, di per sé, illecita e quindi non è fonte di responsabilità nei confronti dei tersi.

Se non pregiudizievole, per i terzi vale infatti il negozio simulato, per il principio dell’apparenza.

Così se Tizio aliena simulatamente a Caio un bene immobile per sottrarsi a possibili esecuzioni forzate e poi Caio aliena (a titolo oneroso o gratuito) il bene a Sempronio, costui (se ignorava che l’alienazione era simulata e ha trascritto il proprio acquisto prima della trascrizione della domanda di simulazione) prevarrà nei confronti sia delle parti dell’atto (Tizio e Caio) sia di un eventuale avente causa di Tizio (ad esempio un acquirente del bene), sia di un creditore di Tizio stesso che ha interesse ad agire in simulazione per far dichiarare non mai uscito il bene dal patrimonio del proprio debitore, così da rafforzare la garanzia patrimoniale.

A predetti fini, per terzo deve intendersi colui che non è stato parte del contratto, nemmeno tramite rappresentante.

I terzi possono però far valere la simulazione in confronto delle parti, quando essa pregiudica i loro diritti (art. 1415), nel senso di impedire o di rendere più difficile la realizzazione del diritto.

In tal caso saranno terzi innanzitutto gli aventi causa dal simulato alienante che potranno far valere la simulazione nei confronti del titolare apparente a prescindere da ogni priorità di trascrizione dell’acquisto.

Sono inoltre terzi i legittimari del simulato alienante che agiscano dopo la sua morte con l’azione di riduzione per aggredire donazioni dissimulate, lesive della quota di riserva. Parimenti sono terzi i coeredi aventi diritto alla collazione, i quali agiscano per far accertare la dissimulazione di una donazione fatta sotto forma di vendita ad altro coerede soggetto a collazione.

È terzo il curatore del fallimento.

Infine la giurisprudenza considera terzo anche il mandante che, essendo restato estraneo all’accordo simulatorio pregiudizievole per i suoi diritti, agisca per far dichiarare la simulazione dell’atto compiuto dal mandatario con rappresentanza.

Non è terzo il creditore che agisce in surrogatoria ex art. 2900, quale sostituto processuale.

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3. I rapporti con i creditori.

I creditori del simulato alienante possono far valere il proprio diritto di credito nei confronti degli aventi causa dal titolare apparente se costoro sono di mala fede ovvero se hanno trascritto il proprio acquisto, in caso di diritti su beni immobili e su beni mobili registrati, dopo la trascrizione della domanda di simulazione da parte dei creditori (art. 1415).

L’art. 1416 disciplina poi le controversie che possono nascere tra le parti e i creditori del titolare apparente. Costoro prevalgono in ogni caso a condizione che abbiano compiuto in buona fede atti di esecuzione sui beni che sono stati oggetto del negozio simulato. L’atto di esecuzione, infatti, dà vita ad uno specifico diritto sul bene, opponibile ai terzi, quali sono le parti rispetto al creditore che ha iniziato l’esecuzione forzata. Nel caso di beni immobili e mobili registrati, il creditore, oltre ad essere di buona fede dovrà però anche aver trascritto l’atto di pignoramento prima della trascrizione della domanda di simulazione.

Per quanto riguarda i conflitti che possono nascere tra un creditore del simulato alienante pregiudicato, pur se il credito non è liquido ed esigibile, e un creditore del simulato acquirente, quando entrambi sono creditori chirografari (non assistiti cioè da alcuna garanzia reale, pegno o ipoteca, o personale, fideiussione o anticresi), il creditore del simulato alienante prevale se il credito è precedente all’atto simulato, perché, a quel momento, egli poteva far affidamento sull’esistenza del bene nel patrimonio del debitore.

Questa regola ammette però un’eccezione importante in caso di beni immobili e di beni registrati, secondo quanto si desume applicando i principi generali in materia di trascrizione. Il creditore del simulato alienante prevale infatti in ogni caso rispetto al creditore del simulato acquirente se la trascrizione della domanda di simulazione ad opera del primo precede la trascrizione del pignoramento immobiliare ad opera del secondo. Trova infatti applicazione l’art. 2652 n. 4, cosicché è comunque irrilevante la buona o la mala fede del creditore del titolare apparente.

Se invece il creditore del simulato acquirente ha un privilegio speciale prevarrà comunque rispetto al creditore chirografario del simulato alienante avendo acquistato uno specifico diritto sul bene.

È dubbio il regime giuridico del privilegio generale, che nasce ex lege in favore di talune categorie di creditori sull’insieme del patrimonio mobiliare del debitore, quando uno di tali beni sia stato acquisito al patrimonio del debitore stesso simulatamente. Infatti in tal caso il creditore del simulato acquirente è certamente un creditore non chirografario ma egli non è titolare di un diritto su uno specifico bene, cosicché sembra venire meno la ratio della norma che regola il conflitto tra le due categorie di creditori in base alla priorità del credito rispetto all’atto simulato, con il contemperamento della nascita di un diritto specifico sul bene.

4. L’ambito.

Qualsivoglia contratto è suscettibile di essere simulato. Per gli atti unilaterali si deve tener presente che la necessità di un accordo simulatorio presuppone quanto meno un rilievo bilaterale della vicenda.

L’art. 1414 dispone quindi che le norme sulla simulazione si applicano anche agli atti unilaterali (recettizi) destinati a persona determinata che siano simulati per accordo tra il dichiarante e il destinatario.

In dottrina si sostiene (con interpretazione estensiva) che la norma avrebbe riguardo anche ai negozi non recettizi, qualora esista un controinteressato ben individuato, potendo tra costui e l’autore del negozio intercorrere un accordo simulatorio. Un accordo, dunque, potrebbe ipotizzarsi in questa direzione tra il chiamato all’eredità che rinunzia o accetta simulatamente e il successivo chiamato, benché il negozio di accettazione e quello di rinunzia non siano di certo recettizi.

Altra dottrina invece restringe l’ambito di applicazione della norma ai soli negozi unilaterali recettizi (ad es. promessa di pagamento e ricognizione del debito), in cui l’interessato, cioè colui nel cui patrimonio incidono gli effetti finali del negozio, sia non tanto (o non solo) l’autore del negozio quanto piuttosto il destinatario.

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Non è configurabile la simulazione della cambiale, per irrilevanza del rapporto sottostante per i terzi, né di una società di capitali, a differenza di quella di persone.

Per le delibere sociali la simulazione al massimo può incidere sulle singole manifestazioni di voto, con conseguente invalidità della delibera nei limiti della c.d. prova di resistenza, qualora, cioè, venga meno la maggioranza pretesa di volta in volta.

Per quanto riguarda gli atti giuridici in senso stretto in linea di massima deve escludersi la possibilità della simulazione. Atteso infatti che gli effetti in tal caso sono ricollegati alla legge automaticamente e immediatamente al verificarsi dell’atto, non sarebbe possibile concepirne la simulazione.

Discussa, infine, è la possibilità di simulare la data dell’atto. La risposta, in termini strutturali, dovrebbe essere negativa, in quanto trattasi di dichiarazione di scienza. Se però si ha riguardo allo scopo perseguito dalle parti (spostamento nel tempo della decorrenza degli effetti con conseguenti possibili ulteriori modificazioni patrimoniali) la soluzione positiva sembra imporsi. Va comunque ricordato che il problema non si pone per i terzi, nei confronti dei quali in tanto un atti è opponibile in quanto abbia data certa (art. 2704).

5. L’azione di simulazione.

L’azione di simulazione ha natura di accertamento della inefficacia assoluta del contratto simulato. Essa, pertanto, è imprescrittibile in caso di simulazione assoluta. In caso di simulazione relativa è necessario distinguere. Se c’è interposizione fittizia, poiché non si mira a far riconoscere gli elementi costitutivi di un negozio, ma ad accertare il vero contraente, l’azione è imprescrittibile. Tale essa è anche quando mira all’accertamento dell’eventuale nullità del negozio dissimulato, ma se essa mira proprio a far valere tale negozio, qualora esso sia di per sé valido, la giurisprudenza ritiene l’azione soggetta alla prescrizione stabilita par i diritti che discendono dal negozio stesso, di regola quella ordinaria decennale. Si pensi all’ipotesi di pretesa al pagamento del maggior prezzo dissimulato della vendita o di azione di riduzione della donazione dissimulata. In questi casi una imprescrittibilità dell’azione di simulazione relativa avrebbe poco senso, una volta prescritta l’azione decennale che mira a far valere il diritto al prezzo ovvero quello alla riduzione. Più che di prescrittibilità dell’azione dovrebbe allora parlarsi di difetto di interesse ad agire in simulazione.

La domanda di simulazione, se ha ad oggetto uno degli atti di cui all’art. 2643, va trascritta.

La prova della simulazione tra le parti è libera solo quando, in caso di simulazione relativa, il contratto dissimulato è illecito (art. 1417). Altrimenti, configurandosi l’accordo simulatorio come patto contrario al contenuto del contratto si applicheranno gli artt. 2722 e 2724, ma varranno la confessione, il giuramento e l’interrogatorio formale, senza rilevabilità d’ufficio. Questa regola vale anche in caso di simulazione assoluta di contratto formale, perché la prova riguarda l’inesistenza del contratto simulato e non l’esistenza di quello dissimulato. In caso di simulazione relativa, viceversa, se le parti chiedono l’esecuzione del negozio dissimulato formale, non illecito (altrimenti la prova è libera), dovrà darsi la prova della sua esistenza esibendo lo scritto che lo racchiude; pertanto la prova per testi sarà ammissibile solo quando il documento è stato, senza colpa, smarrito, mentre non saranno ammissibili giuramento, confessione e interrogatorio formale. Il limite di cui all’art. 2725 vale anche quando c’è interposizione fittizia nella conclusione di un negozio formale. In tal caso non c’è un negozio dissimulato perché la simulazione riguarda i soggetti, ma è necessario che l’interposizione risulti da un documento.

Per i creditori e per i terzi, invece, la prova è sempre libera (art. 1417), essendo la vicenda simulatoria, nei loro confronti, un mero fatto, per cui essa potrà essere offerta con testimoni o per presunzioni anche semplici.

6. Il negozio fiduciario.

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Nel negozio fiduciario il fiduciante si accorda con il fiduciario (c.d. pactum fiduciae) nel senso che il primo trasferirà al secondo la piena proprietà di un bene, che costui dovrà amministrare, per poi ritrasferirlo al fiduciante, come atto dovuto, irrevocabile ex art. 2901, terzo comma, o a un terzo da lui designato, sicché, nei rapporti interni, ma non di fronte ai terzi, la proprietà sarà limitata da un vincolo, a carattere giuridico e non solamente sociale o morale.

Il patto può stabilire un’amministrazione c.d. statica, per cui il bene da amministrare e ritrasferire è lo stesso di quello ricevuto, oppure un’amministrazione c.d. dinamica, per cui il fiduciario ha il potere di alienare e reinvestire, trasferendo, nel termine fissato dalle parti, il capitale, mobiliare o immobiliare, che risulterà, quale frutto dell’amministrazione.

La fiducia è diversa dalla simulazione assoluta, là dove l’effetto traslativo non si produce. È anche evidente però l’affinità di situazione sul piano della fiducia. Pur in caso di simulazione assoluta, infatti, il titolare apparente può alienare il bene a terzi, i quali, se di buona fede, faranno salvo il proprio acquisto, al pari dei terzi che si rendono acquirenti dal fiduciario, con l’importante differenza peraltro che, in tal caso, la buona fede non rileva appunto perché il fiduciario è proprietario e la limitazione derivante dal pactum fiduciae è inopponibile ai terzi secondo la generale regola dettata dall’art. 1372. Il terzo di mala fede, pur facendo salvo l’acquisto dal fiduciario, è pertanto tenuto a risarcire il danno al fiduciante ex art. 1043, avendo cooperato all’adempimento del pactum fiduciae.

Il fiduciante, in cado di inadempimento, può agire per l’esecuzione specifica della prestazione.

In difetto di termine pattizio di adempimento, la prescrizione decennale del diritto al ritrasferimento decorre dal momento in cui il fiduciario, richiestone, si rifiuti di ritrasferire.

CAUSA. L’atto traslativo dal fiduciante al fiduciario ha lo scopo di permettere a costui di amministrare il bene per poi ritrasferirlo, sicché può essere accostato all’atto con il quale il mandante fornisce al mandatario la provvista per gestire l’affare, fermo restando che il fiduciario acquista la proprietà.

Non vi è dunque una vendita o una donazione collegata al pactum fiduciae ma un atto traslativo giustificato dall’esterno dal pactum fiduciae stesso, con conseguente expressio causae, onde la nullità del patto rende nullo (o ripetibile) il trasferimento. Non può dunque ipotizzarsi un contratto traslativo atipico, con causa interna, consistente in un trasferimento di proprietà, da un lato, e nell’assunzione di un obbligo, dall’altro.

La struttura dell’atto è unilaterale, senza potere di rifiuto ex art. 1333, perché il fiduciario si è obbligato con il pactum ad acquistare, a differenza del fiduciante, il quale non si è obbligato a trasferire, salvo che il pactum l’abbia previsto, se il fiduciario è portatore di un interesse, proprio o di un terzo, a conseguire la proprietà ed amministrare il bene.

Non c’è però trasferimento nella c.d. fiducia statica che si distingue da quella dinamica perché il fiduciario è già titolare di una situazione attiva che, con il pactum fiduciae, si obbliga a modificare.

Per la prova non vale l’art. 2722, perché il pactum non è patto contrario al negozio di trasferimento, mentre per l’art. 2725, si tratta di stabilire se esso debba avere forma scritta. La giurisprudenza invoca l’art. 1352 con riguardo all’obbligo di ritrasferimento, ma se c’è amministrazione dinamica non si può sapere quale bene sarà ritrasferito, sicché la forma non può essere per relationem. In termini di causa, viceversa, il pactum deve avere forma scritta se tale è quella ex art. 1350 del negozio di trasferimento al fiduciario e si ritenga che l’expressio causae coinvolga non solo l’atto traslativo (di per sé neutro), ma anche il pactum, cioè il negozio fondamentale.

7. Il trust.

Nei Paesi di Common Law i tribunali di equità hanno dato vita al trust, basato sulla fiducia. Il trust è sconosciuto al nostro diritto in quanto contrastante con i principi in materia di proprietà, non esistendo una proprietà fiduciaria “atipica”, di successioni e di tutela dei terzi, ma la L. 364 dell’89 ha ratificato la Convenzione dell’Aja, la quale detta disposizioni comuni relative alla legge applicabile anche dal giudice

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italiano chiamato a risolvere conflitti nel caso in cui i beni del trust siano situati in Italia. Tale legge ha dunque risolto un problema di applicazione della legge nello spazio.

Secondo la predetta convenzione per trust si intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente (settlor), con atto inter vivos o mortis causa, qualora taluni beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un terzo beneficiario o per un fine specifico. I beni del trust sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto del trustee, ma costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee stesso. Costui, peraltro, è investito del potere e onerato dell’obbligo di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni secondo i termini del trust e le norme particolari impostegli dalla legge scelta dal costituente o che ha più stretti legami con il trust.

Il trust non è dunque un autonomo ente giuridico del tipo fondazione, ma un patrimonio separato del trustee basato sulla fiducia, la cui disciplina non ha valore solo inter partes, come accade nel nostro ordinamento per il negozio fiduciario, ma è opponibile ai terzi, in specie ai creditori personali, anche in caso di fallimento, al coniuge ed agli eredi del trustee. Inoltre l’attività posta in essere dal trustee è riferita direttamente al beneficiario, il quale ha una tutela reipersecutoria.

si discute della possibilità di dar vita ad un trust interno, costituito da cittadini italiani residenti, con beni situati in Italia, a favore di beneficiari italiani, con applicazione di legge straniere scelta dai contraenti tra quelle che lo disciplinano, ipotesi, in verità, assai bizzarra, perché l’applicazione di una legge straniera presuppone un conflitto tra ordinamenti, che non sussisterebbe.

Anche il riconoscimento del trust internazionale incontra peraltro non lievi difficoltà, specie per l’opponibilità.

Diverso dal trust è l’atto di destinazione, che non può essere a favore del c.d. conferente, non dà vita ad una vicenda circolatoria, né ad un patrimonio separato in senso stretto e osserva il principio di tipicità, anche della trascrizione (art. 2645ter).

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L’INVALIDITÀ

1. Invalidità e inefficacia.

Il codice disciplina due ipotesi di invalidità negoziale: la nullità e l’annullabilità. Le due ipotesi regolano vicende molto diverse tra di loro ed infatti le conseguenze sono altrettanto diverse, perché il negozio nullo è del tutto inefficace mentre quello annullabile produce effetti, rimuovibili con una sentenza costitutiva avente, tra le parti, efficacia ex tunc.

È invalido il contratto che al momento della sua conclusione, presenta uno o più difetti “gravi” che riguardano la struttura del contratto, il quale non potrà produrre gli effetti che le parti intendevano raggiungere. È invece inefficacie quel contratto che, anche se perfettamente valido, non può ancora produrre i suoi effetti per via della mancanza di un elemento, che deve attuarsi in un momento successivo (es. un contratto di compravendita sottoposto a condizione sospensiva o a termine iniziale: finché la condizione o il termine non si avvereranno, il contratto non produrrà effetti).

I negozi giuridici, si realizzano quando risultano efficaci: idoneità concreta del negozio a produrre effetti.Di regola il negozio valido è anche efficace, ma non sempre è così. Infatti esistono negozi validi ma inefficaci (es. testamento premorte) come esistono negozi invalidi ma efficaci (es. contratto annullabile).

L'atto nullo è invece di per sé originariamente invalido ed inefficace.

2. La nullità.

È uno dei due aspetti, per la precisione il più grave, che può assumere, l‘invalidità del negozio.

L’atto nullo è bensì improduttivo di effetti per un vizio strutturale.

L’art. 1418 prevede le cause di nullità con disciplina molto articolata. Il primo comma detta infatti una sorta di norma di chiusura, facendo generico riferimento alla contrarietà a norme imperative. Il secondo comma elenca invece ipotesi tipiche. Il terzo comma è mera norma di rinvio alle ulteriori, singole ipotesi positivamente previste.

Il contratto è nullo dunque, innanzitutto, quando difetta ab origine di un requisito essenziale ovvero quando è illecito l’oggetto, il motivo, la causa, la condizione.

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Nel primo caso i contraenti non osservano il disposto dell’art. 1325, cosicché non è ravvisabile un accordo ovvero una causa che giustifichi lo spostamento patrimoniale ovvero ancora un oggetto possibile, determinato o determinabile o la forma ad substantiam, se richiesta dalla legge.

Con riguardo al difetto causale, a ben vedere, ciò che può far difetto non è la causa, ma il tipo contrattuale come nel caso di acquisto di cosa propria. Impropriamente, dunque, si parla di mancanza di causa perché essa non può mancare se il tipo è individuabile.

Nel caso di illiceità, una fattispecie, sul piano strutturale, è invece ravvisabile, ma l’ordinamento giuridico reagisce negativamente nei confronti dell’operazione privata, che si pone in contrasto con una norma imperativa, con l’ordine pubblico o il buon costume, secondo quanto detta l’art. 1343, norma generale in materia. L’illiceità discende dunque da un giudizio di disfavore normativo.

L’ipotesi di illiceità va distinta dalla più generica illegalità che si configura quando il contratto è contrario a norme imperative secondo il disposto dell’art. 1418 (c.d. nullità virtuale), con incidenza sugli elementi intrinseci del contratto (struttura e contenuto), ma anche su elementi estranei, che vietano di concludere il contratto se non a date condizioni, quali autorizzazioni o iscrizioni in albi. Non è però facile distinguere l’una ipotesi dall’altra, facendo riferimento anche l’illiceità alla contrarietà a norme imperative.

Inoltre mentre l’illiceità non può non condurre in ogni caso alla nullità, egualmente non può dirsi per l’illegalità, perché l’art. 1418 statuisce che la nullità è bensì comminata quando il contratto viola una norma imperativa, pur se tale norma non la preveda espressamente, ma sempre salvo che la legge non disponga diversamente. La norma va interpretata in modo non restrittivo, perché la nullità va esclusa non solo in presenza di un’espressa disposizione contraria di legge ma anche quale risultato di una ricostruzione della ratio legis.

La distinzione tra illegalità e illiceità (della causa o dell’oggetto) è particolarmente importante in materia di contratto di lavoro per stabilire l’applicabilità dell’art. 2126, esclusa quando entra in gioco la fede pubblica o la salute, ma non in caso di assunzione di dipendenti pubblici senza concorso ovvero in spregio a norme che fissano un limite quantitativo, ma non già qualitativo.

Non vi è nullità quando la legge assicura l’effettività della norma imperativa con la previsione di rimedi diersi.

Il contratto è anche nullo negli altri casi previsti espressamente dalla legge (art. 1418, 3° comma). Peraltro la terminologia usata dal legislatore non è sempre univoca. Così può discutersi se l’art. 1349, 2° comma, commini la nullità o non possa piuttosto parlarsi di inefficacia definitiva del contratto ovvero di impossibilità sopravvenuta della prestazione, atteso che la nullità sopravvenuta è categoria difficilmente configurabile.

Le clausole contrattuali nulle per contrarietà a norme imperative non sono suscettibili di reviviscenza in occasione della successiva abrogazione delle norme stesse, salvo che la nuova legge operi retroattivamente, incidendo sulla qualificazione degli atti compiuti.

Al contrario, si ritiene possibile una nullità sopravvenuta (diversa e distinta dalla impossibilità sopravvenuta), conseguente ad una mutata valutazione normativa, con riguardo essenzialmente ai negozi ad effetti differiti o sospesi e di durata, operando, peraltro, essa ex nunc e dunque sugli effetti futuri: nel primo caso perché effetti non si sono ancora prodotti, nel secondo in base all’art. 1458 (in via analogica).

In verità parlare di nullità sopravvenuta è una contraddizione in termini, perché la nullità, riguardando l’atto, non può che essere originaria, laddove è l’inefficacia che opera sugli effetti. Ciò emerge, del resto, da fattispecie disciplinate da norme sopravvenute.

Poiché gli interessi da tutelare sono superindividuali, l’iniziativa per la dichiarazione di nullità dell’atto deve poter partire da qualunque interessato ed anche dal giudice al quale i privati si siano rivolti per far valere quanto pattuito. L’art. 1421 ricollega pertanto al concreto interesse la legittimazione ad agire con l’azione di nullità.

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La nullità è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, ma solo nella controversia promossa per far valere i diritti che presuppongono la validità del contratto, in considerazione del potere-dovere del giudice di verificare la sussistenza delle condizioni dell’azione, non anche quando la domanda prescinda da detta validità e miri, ad esempio, ad accertare l’insussistenza dell’obbligazione, o a porre nel nulla il contratto per cause di nullità rivelatesi insussistenti, laddove altre ne sussistevano, onde se fatte valere in appello, la domanda sarebbe nuova.

Peraltro, se la parte chiede l’annullamento o la risoluzione o la rescissione del contratto, poiché in ognuna delle di tali domande è implicitamente postulata l’assenza di ragioni che determinino la nullità, il giudice potrebbe rilevarla d’ufficio in via incidentale.

La superindividualità degli interessi pretende inoltre l’imprescrittibilità dell’azione. Così dispone l’art. 1422, che fa peraltro salvi gli effetti dell’usucapione e della prescrizione delle azioni di ripetizione, cioè che presuppone che il contratto, pur se nullo, sia stato eseguito.

Quanto all’usucapione, matura quella ordinaria ma non quella abbreviata. Per la prima è infatti sufficiente il possesso protratto nel tempo e il titolo nullo seguito da consegna è idoneo a determinare l’impossessamento. Per la seconda (art. 1159) è invece ostativa l’assenza di un acquisto a non domino, prima ancora di un titolo valido ed efficace.

Le azioni di ripetizione sono quelle accordate ex artt. 2033 ss. a chi abbia pagato in base ad un contratto nullo, privo quindi di una giusta causa che sorregga l’attribuzione operata mediate il pagamento (solutio indebiti). La prescrizione dell’azione è decennale, ma si discute se essa decorra dalla sentenza o dal pagamento. Un limite alla ripetibilità è previsto dall’art. 2035 in caso di nullità del contratto per contrarietà al buon costume.

La terza regola che governa la nullità è l’impossibilità di procedere ad una convalida, anche mediante esecuzione, se la legge non dispone diversamente (art. 1423). La più importante eccezione è stata individuata nell’art. 799, che disciplina la conferma della donazione nulla. Tale impostazione appare però da respingere perché l’art. 799 prevede una conferma e non una convalida, la quale presuppone identità soggettiva tra autore della convalida e parte del contratto convalidato. In caso di donazione nulla, invece, la legittimazione a confermare, così come ex art. 590, non spetta al donante (che può solo rinnovare l’atto) ma ai suoi eredi o aventi causa dopo la sua morte.

Nemmeno eccezionale, sul piano della pretesa efficacia dell’atto nullo, è l’ipotesi del matrimonio putativo, là dove, a prescindere dalla peculiarità dell’atto, di certo in nessun modo avvicinabile ad un contratto, è facile osservare che gli effetti sono ricollegati non già al semplice atto matrimoniale nulla ma alla più complessa fattispecie formata dall’atto nullo, dalla esecuzione e dalla buona fede.

Lo stesso è da dirsi per il contratto di lavoro nullo ma eseguito di cui all’art. 2126. Deve ravvisarsi un’ipotesi di rapporto contrattuale di fatto piuttosto che di contratto nullo convalidato.

Si parla di sanatoria anche nell’ipotesi prevista, in materia di trascrizione della domanda di nullità, dagli artt. 2652 n. 6 e 2690 n. 3, affinché il terzo avente causa da autore munito di titolo nullo possa vedere conservato il suo diritto, in un contesto, dunque, diverso ed autonomo rispetto a quello della convalida (c.d. pubblicità sanante). Infatti tali norme regolamentano esclusivamente i conflitti con i terzi e non già i rapporti inter partes. Inoltre la regola si inserisce nel più generale quadro della circolazione dei beni immobili e mobili registrati e presuppone l’esistenza di una fattispecie complessa (atto nullo, sua trascrizione, buona fede, quinquennio) analoga a quella dell’art. 1159, pur essendo l’acquisto a titolo derivativo. Tra le parti, dunque, il contratto nullo non può in nessun caso produrre di per sé effetti, né regolari, né eccezionali, né ridotti.

Nei confronti dei terzi invece la vicenda contrattuale non può non tener conto della necessità di tutelare e garantire la certezza dei traffici. Pertanto se un soggetto acquista con contratto valido un bene, immobile o mobile registrato, da chi, a sua volta, se ne è reso acquirente con un contratto nullo, l’originario venditore non potrà agire contro il subacquirente se costui avrà acquistato in buona fede, ignorando cioè la nullità

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dell’acquisto del proprio dante causa e avrà trascritto il proprio acquisto prima della trascrizione della domanda di nullità, purché siano trascorsi cinque anni in caso di acquisto di beni immobili e tre anni in caso di acquisto di beni mobili registrati tra la trascrizione della domanda e la trascrizione dell’atto nullo impugnato, che quindi ha, sotto questo aspetto, valore costitutivo. In ogni caso il terzo subacquirente potrà opporre, in difetto di questi presupposti, l’usucapione, anche abbreviata, se ne ricorrano gli estremi, potendo solo discutersi se la buona fede sussista qualora la trascrizione dell’acquisto del terzo stesso sia successiva alla trascrizione della domanda.

È opportuno notare che la norma non pone limitazioni per quanto riguarda il titolo in base al quale il terzo acquista. Potrà dunque trattarsi, all’occorrenza, anche di una donazione, magari effettuata in mala fede dal donante in quanto a conoscenza della nullità del proprio precedente acquisto. Ciò che conta infatti è la buona fede del terzo subacquirente, cioè, nel caso di specie, del donatario.

La norma ha chiaramente natura eccezionale cosicché la trascrizione della domanda non ammette equipollenti. È dunque escluso che la notifica di citazione anche al terzo possa sostituire la trascrizione.

In materia di edifici abusivi, la nullità dell’atto di trasferimento non è opponibile al terzo creditore ipotecario dell’acquirente o titolare di un diritto reale di servitù costituito sempre dall’acquirente, se l’iscrizione dell’ipoteca sull’edificio abusivo o la trascrizione dell’atto costitutivo di servitù ha preceduto la trascrizione della domanda di nullità. Non è dunque necessaria la buona fede, né devono essere trascorsi i cinque anni di cui all’art. 2652 n. 6.

I principi della nullità prevista dal codice civile sono talvolta deroganti da leggi speciali, senza possibilità di delineare una categoria unitaria, suscettibile, magari, di applicazione analogica. L’unico minimo comun denominatore può ritrovarsi assai spesso nella tutela del consumatore, contraente debole, sicché si tratta di proteggere (si parla infatti di nullità protettive) una parte e non già gli interessi generali. La nullità va pertanto qualificata, ad onta dei dubbi dottrinari, come relativa, anche quando la legittimazione del solo consumatore non è espressamente prevista, con esclusione dell’intervento ex officio del giudice, ma con imprescrittibilità e insanabilità.

La nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità (art. 1419). La norma si applica anche in caso di contratti collegati, al fine di stabilire se la nullità dell’uno faccia cadere anche l’altro.

L’art. 1419 statuisce che la nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative.

Nei contratti con più di due parti, in cui le prestazioni di ciascuna sono dirette al conseguimento di uno scopo comune, la nullità che colpisce il vincolo di una sola delle parti non importa nullità del contratto, salvo che la partecipazione di essa debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale (art. 1420).

Il contratto nullo può produrre gli effetti di un contratto diverso, del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma, qualora, avuto riguardo allo scopo oggettivo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero concluso, perché atto a realizzare lo scopo stesso, se avessero conosciuto la nullità (art. 1424) (ad es. conversione di un contratto di affitto di azienda con immobile, nullo per mancanza dell’azienda e quindi dell’oggetto, in contratto di locazione di immobile ad uso diverso). In tal modo il legislatore disciplina l’istituto della conversione sostanziale, che opera cioè con riferimento al contenuto del regolamento contrattuale e si distingue pertanto dalla conversione formale che presuppone la possibilità che un atto rivesta una pluralità di forme. Così, ad esempio, in caso di testamento che, nullo come segreto, può valere come olografo se la scheda consegnata al notaio è stata scritta di propria mano dal de cuius (art. 607).

La conversione opera automaticamente senza che le parti debbano manifestare alcuna volontà al riguardo. Si ritiene peraltro che presupposto implicito del procedimento di conversione sia l’ignoranza, da parte dei contraenti, circa la nullità del contratto. Dall’automaticità della conversione deriva che, in caso di contrasto tra le parti in ordine alla sussistenza dei presupposti di legge, il giudice pronuncerà una sentenza di mero

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accertamento, anche d’ufficio, con riferimento al principio di conservazione. Tale principio trova però applicazione a date condizioni. Sul piano oggettivo è evidente che i due negozi (quello nullo e quello diverso) devono essere omogenei sul piano funzionale, devono cioè mirare alla realizzazione di interessi non divergenti, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti. Si tratta pertanto di quella stessa analisi che pretende l’indagine sulla causa in concreto.

La c.d. volontà ipotetica delle parti, dovrà essere valutata sulla base di criteri oggettivi, sempre che non risulti provato che esse avevano inequivocabilmente escluso la possibilità di obbligarsi con riguardo ad una causa stipulandi diversa da quella posta alla base del contratto nullo.

La legge pretende, quale ulteriore presupposto della conversione, che il contratto nullo contenga i requisiti di sostanza e di forma di quello diverso, intendendosi per requisiti di sostanza quelli che attengono all’oggetto e ai soggetti (capacità, legittimazione). La formula riecheggia quella dell’art. 1414 in materia di simulazione relativa, ma è evidente che nessun rapporto sussiste tra conversione e simulazione. Deve infatti escludersi, ad esempio, che un negozio dissimulato, eventualmente nullo, possa essere convertito in quello simulato, atteso che questo meccanismo è di per sé ostativo alla conversione se si considera che l’accordo simulatorio mira proprio ad escludere inter partes l’efficacia del contratto simulato.

Infine va segnalato che la dottrina è divisa circa la possibilità di applicare la conversione anche all’ipotesi di contratto annullabile, considerato che esso è pur sempre efficace. Diversamente è a dirsi, dunque, per il contratto inefficace in senso stretto attesa la ratio legis e la forza espansiva del principio di conservazione.

3. L’annullabilità.

Il contratto può nascere privo di vizi strutturali ma nel contempo presentare vizi diversi, che attengono per lo più al profilo della consapevolezza e volontarietà dell’atto. Così in materia di vizi della volontà (errore, dolo, violenza) e di incapacità d’agire e naturale. In questi casi l’ordinamento protegge il contraente comminando l’annullabilità del contratto.

Caratteristica saliente di tale sanzione è quella di lasciare all’iniziativa di chi ha contratto senza la dovuta consapevolezza e volontarietà l’eliminazione degli effetti che il contratto (strutturalmente perfetto) ha prodotto. È evidente che in tal modo l’ordinamento intende proteggere interessi personali ed individuali del singolo contraente, con la conseguenza di dettare una disciplina dell’azione di annullamento perfettamente antitetica a quella dell’azione di annullamento perfettamente antitetica a quella dell’azione di nullità che in linea di principio è posta a garanzia di interessi superindividuali.

A questa ratio risponde del resto l’art. 1426 quando esclude l’annullabilità del contratto per incapacità d’agire nel caso in cui il minore abbia occultato con raggiri la propria età. Se la norma contenuta all’art. 1425, che tutela l’incapace, fosse posta infatti a garanzia di interessi superiori nessuna eccezione sarebbe stata concepibile.

Rispetto alla nullità le differenze sono dunque radicali, ad iniziare dalla stessa rinunziabilità dell’azione. Tale facoltà di rinunzia deriva dal fatto che l’annullamento può essere domandato solo dalla parte nel cui interesse è stabilito dalla legge (art. 1441). Il giudice non ha quindi potere di intervento ex officio.

La legittimazione relativa è pertanto la regola. Sussistono però anche ipotesi normative di legittimazione assoluta con conseguente attribuzione del potere di impugnativa a qualunque interessato, come nel caso di interdizione legale prevista dall’art. 1441, 2° comma. In tal caso, infatti, l’interdizione non si atteggia come un istituto di protezione dell’incapace ma come una sanzione comminata dall’ordinamento (art. 32 c.p.) ed è quindi logico che la legittimazione sia allargata. Si parla al riguardo di annullabilità assoluta.

Si discute se il destinatario di una dichiarazione annullabile possa o meno respingerla, impedendo così che la fattispecie produca i suoi effetti. L’interesse della parte al rifiuto è evidente se si considera che, in caso contrario, essa dovrà subire l’attesa (almeno quinquennale) dell’azione di annullamento con conseguente incertezza in ordine alla eventuale cancellazione del negozio ad opera del giudice. Si pensi alla situazione in cui si trova ad esempio il proponente che, venuto a conoscenza che l’oblato ha subito violenza ad opera di un terzo, non abbia avuto il tempo di revocare la proposta prima dell’arrivo dell’accettazione. La tesi della

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rifiutabilità, benché autorevolmente sostenuta, non considera che spetta al giudice e non alla parte il potere di annullamento. La necessità di una sentenza (costitutiva) impedisce così al destinatario, che non è del resto nemmeno legittimato all’azione, di eliminare la dichiarazione.

Né il destinatario della dichiarazione può ridurre il pericolo di incertezza con una interpellatio al dichiarante, perché altrimenti il silenzio di costui varrebbe come perdita dell’azione mentre ciò può conseguire solo ad una convalida, che però deve essere espressa o per fatti concludenti ma non può mai essere basata sul silenzio.

L’azione di annullamento, dunque, si prescrive in cinque anni che decorrono di regola dalla concluzione del contratto. Tale periodo può peraltro risultare anche più lungo se si considera che in caso di vizio della volontà o di incapacità legale la prescrizione inizia a decorrere (per il disposto dell’art. 2935) dal giorno in cui è cessata la violenza, è stato scoperto l’errore o il dolo ovvero è cessato lo stato di interdizione o di inabilitazione o il minore ha raggiunto la maggiore età (art. 1442).

La giurisprudenza attribuisce effetto interruttivo alla sola domanda giudiziale e non già a qualsiasi atto stragiudiziale di messa in mora, perché il diritto all’annullamento del contratto è un diritto potestativo con conseguente inesistenza, dal lato passivo, di un obbligato cui possa richiedersi l’adempimento di una prestazione.

In ogni caso l’annullabilità può essere opposta dalla parte convenuta in giudizio per l’esecuzione del contratto, anche se è prescritta l’azione per farla valere (art. 1442, 4° comma). Questa regola si ricollega esclusivamente all’ipotesi che il contratto non avvia avuto esecuzione pur dopo un quinquennio dopo la sua conclusione, considerandosi tale anche la vendita, cui non sia seguita la consegna.

La sentenza di annullamento è costitutiva, perché elimina ex tunc (e quindi retroattivamente) gli effetti prodotti dal contratto, a differenza di quella di nullità che è meramente dichiarativa. In particolare verrà meno ex tunc la giustificazione degli spostamenti patrimoniali verificatisi sula base dell’iniziale efficacia del contratto annullabile, con conseguente ripetibilità di quanto prestato. Inoltre colui che era a conoscenza della causa di annullabilità deve risarcire il danno ex art. 1338.

L’azione di ripetizione nei confronti del contraente incapace (d’agire o naturale) incontra peraltro un limite, costituito dal fatto che costui non è tenuto a restituire la prestazione ricevuta se non nei limiti in cui essa è stata rivolta a proprio vantaggio (art. 1443).

L’annullamento non pregiudica però i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di annullamento (art. 1445).

Se invece l’acquisto è a titolo gratuito o il motivo di annullabilità è l’incapacità legale, il regime è lo stesso della nullità, cosicché non sarà sufficiente la priorità della trascrizione dell’atto di acquisto rispetto alla trascrizione della domanda ma dovrà anche essere trascorso un periodo di almeno cinque anni (in caso di acquisto di diritti immobiliari) o di almeno tre anni (in caso di acquisto di diritti su beni mobili registrati) tra la trascrizione dell’atto annullabile e la trascrizione della domanda giudiziale.

Per i diritti mobiliari il terzo pur se di buona fede non potrà invece acquistare a titolo derivativo in cado di annullamento per incapacità legale ovvero di acquisto a titolo gratuito. Comunque egli potrà acquistare a titolo originario per usucapione (art. 1161) o, ma non in caso di donazione se si ritiene che essa non sia titolo idoneo, ex art. 1153.

Il contratto annullabile può essere convalidato, dal contraente al quale spetta l’azione di annullamento, mediante un atto di convalida (art. 1444). La convalida può essere espressa o tacita.

La convalida espressa è un negozio giuridico unilaterale non recettizio, a carattere accessorio e con contenuto tipico. La norma infatti fissa in modo puntuale che cosa deve risultare dall’atto e precisamente il riferimento al contratto convalidato, la menzione del vizio e la dichiarazione che si intende convalidarlo.

Si discute in ordine alla forma, che taluni vorrebbero per relationem con riguardo al contratto da convalidare (Gazzoni), altri, in ogni caso, libera, come opina anche la giurisprudenza, altri sempre scritta.

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La c.d. convalida tacita si realizza quando il contraente al quale spetta l’azione di annullamento ha dato volontaria esecuzione al contratto, conoscendo il motivo di annullabilità. Quanto alla sua natura giuridica, si parla di negozio di attuazione o, al contrario, di atto reale, cioè di una c.d. operazione.

L’iniziativa della convalida del contratto, e quindi della stabilizzazione degli effetti, spetta al soggetto legittimato all’azione di annullamento. Se costui è l’errante la convalida può però essere bloccata qualora l’altra parte offra di rettificarlo. La rettifica è un negozio unilaterale a carattere anch’esso accessorio, come la convalida, e certamente recettizio con il quale la parte non in errore, prima che possa derivarne pregiudizio, offre all’errante di eseguire la prestazione in modo conforme al contenuto ed alle modalità del contratto che costui intendeva concludere (art. 1432).

La rettifica non dà luogo ad un nuovo contratto ma ad un mutamento in fase esecutiva della prestazione da eseguire, che non è più quella concretamente dedotta in contratto ma l’altra che l’errante avrebbe dedotto al fine di perseguire correttamente il proprio interesse se non fosse caduto in errore. In tal modo viene meno la possibilità di esperire l’azione di annullamento perché non è più ravvisabile un danno per l’errante ma non è più possibile nemmeno una convalida essendo intervenuta una modificazione atta ad eliminare il vizio.

Si assisterà allora ad una sorta di gara contro il tempo perché l’errante ha la possibilità di eliminare il contratto in radice ovvero di convalidarlo consolidando così definitivamente i suoi effetti mentre l’altra parte può bloccare entrambe le iniziative notificando tempestivamente l’offerta di rettifica.

Il rimedio della rettifica non è applicabile nei casi di dolo e di violenza, mentre lo è in caso di errore ostativo.

Per quanto riguarda i contratti plurilaterali, l’art. 1446 detta la stessa regola già posta dall’art. 1420. Pertanto l’annullabilità che riguarda il vincolo di una sola delle parti non importa annullamento del contratto plurilaterale, salvo che la partecipazione di questa debba, secondo le circostanze, considerata essenziale.

È discussa invece la possibilità di configurare una annullabilità parziale. La dottrina favorevole all’estensione pone l’unico limite della divisibilità dell’oggetto del contratto. La soluzione positiva sembra preferibile, potendosi ravvisare una certa identità di situazione, tra contratto nullo e contratto annullato, sul piano della prospettiva funzionale, ciò che induce a fare applicazione del generale principio di conservazione di cui l’art. 1419 è espressione.

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LA RESCISSIONE

1. Il fondamento.

È assai discussa in dottrina la natura del rimedio rescissorio. Ci si chiede infatti se il contratto rescindibile sia un contratto invalido e se quindi la rescissione sia una forma di invalidità, analoga, in particolare, all’annullabilità, per vizio del consenso, analogo alla violenza morale.

Quel che più conta è chiarire quale sia la ratio dell’istituto con riguardo all’individuazione del vizio del contratto che il legislatore ha inteso sanzionare. La disciplina positiva della rescissione è per molti versi addirittura opposta a quella dell’annullabilità, ravvisandosi la base comune solo in due dati di fondo che caratterizzano le rispettive azioni: prescrittibilità (peraltro con termini di prescrizione diversi: un anno e cinque anni) e legittimazione relativa.

La soluzione del problema è resa ancor meno agevole dal fatto che il rimedio della rescissione si applica in due ipotesi non del tutto omogenee: la prima è quella del c.d. stato di pericolo, la seconda è quella del c.d. stato di bisogno.

2. Lo stato di pericolo.

Il contratto con cui una parte ha assunto l’obbligo a condizioni inique per la necessità, nota alla controparte, di salvare se od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, può essere rescisso su domanda della parte che si è obbligata (art. 1447).

Lo stato di pericolo coincide, in buona sostanza, con lo stato di necessità di cui agli artt. 54 c.p. e 2045 c.c. Esso, dunque, deve essere attuale, deve cioè essersi già verificato e deve avere riguardo alla persona e non a cose e beni. Il riferimento alla persona è peraltro inteso in senso lato, ricomprensivo quindi non solo del diritto all’incolumità fisica ma anche del diritto all’onore, alla riservatezza, al pudore.

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Stato di necessità e stato di pericolo si differenziano nettamente sul piano funzionale. Lo stato di necessità è esonera l’autore dell’atto dall’obbligo di risarcimento (in quanto è causa di esclusione dell’antigiuridicità dell’atto illecito, ossia è un’esimente); costui dovrà corrispondere solo un’indennità ai sensi dell’art. 2045 c.c. Lo stato di pericolo invece spinge il soggetto non a commettere un atto lesivo ma a contrarre a condizioni inique, a vantaggio del terzo.

Pertanto le due vicende si differenziano sul piano disciplinare.

Così l’art. 1447 non richiede né l’inevitabilità del pericolo, né richiede che esso non dipenda dal contraente che lo subisce, né, infine, che vi sia proporzionalità del comportamento di costui e il pericolo.

Il pericolo può essere cagionato da un fatto naturale come da un fatto umano. In quest’ultima ipotesi la fattispecie rientra peraltro nell’ambito della violenza morale.

Il pericolo deve essere grave e si deve porre come causa efficiente della contrattazione, nel senso che la parte deve essere convinta di trovarsi di fronte all’alternativa tra il subire il danno o stipulare il contratto e la controparte deve esserne a conoscenza. In dottrina si ritiene che anche il convincimento solo supposto (c.d. putativo) in ordine all’esistenza del pericolo conduca alla rescissione.

Oltre al presupposto soggettivo del pericolo è però anche necessario che la parte abbia assunto obbligazioni a condizioni inique. Secondo la teoria dominante l’iniquità coincide andrebbe identificata con la sproporzione tra le prestazioni. Secondo altri invece essa andrebbe valutata ad una stregua sociale ed etica senza riguardo al valore economico dell’azione di salvataggio, la quale di per sé non appare suscettibile di valutazione economica.

In ogni caso il giudice, nel pronunciare la rescissione, può, secondo le circostanze, assegnare un equo compenso all’altra parte per l’opera prestata (art. 1447, 2° comma). Si tratta di una valutazione discrezionale avente ad oggetto il valore economico della prestazione.

L’art. 1447 si applica a qualsivoglia contratto. Secondo un’isolata dottrina invece il raggio è ristretto finendo nel ricadere sotto il vigore della norma solo il contratto di prestazione d’opera, dal momento che lo stato di pericolo pretende la conclusione di un contratto da cui derivi una prestazione di salvataggio, come si potrebbe desumere, d’altra parte, dall’art. 1447, 2° comma.

3. Lo stato di bisogno.

Se vi è sproporzione tra la prestazione di una parte e quella dell’altra ed essa è dipesa dallo stato di bisogno di una parte, del quale l’altra ha profittato per trarne vantaggio, la parte danneggiata può domandare la rescissione del contratto (art. 1448). L’azione non è ammissibile se la lesione non eccede la metà del valore che la prestazione eseguita o promessa dalla parte danneggiata non aveva al tempo del contratto (art. 1448, 2° comma), salvo per la divisione (art. 1448, 5° comma), la cui rescindibilità è legata unicamente alla lesione oltre il quarto (art. 763). I tre presupposti (lesione ultra dimidium, stato di bisogno e approfittamento) devono essere tutti presenti al momento della conclusione del contratto per poter addivenire alla rescissione.

Non possono essere rescissi per causa di lesione i contratti aleatori (art. 1448, 4° comma).

Lo stato di bisogno è legato ad un momento di difficoltà economica, ma non può escludersi che esso si ricolleghi alla mancanza di un bene diverso dal denaro o anche alle condizioni ambientali (ad esempio ambiente mafioso).

Benché l’art. 1448, a differenza dell’art. 1447, menzioni solamente la persona del contraente, lo stato di bisogno può riguardare anche i familiari o altre persone.

Il bisogno può essere stato causato dallo stesso contraente, purché sia effettivo e non già solamente putativo. Inoltre deve essere stato determinante per la contrattazione. Tale non sarebbe ad esempio la conclusione di un contratto di servitù di passaggio a favore di un fondo già collegato alla via pubblica, al solo scopo di realizzare un risparmi nel trasporto.

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Lo stato di bisogno si distingue dallo stato di pericolo in termini di natura degli interessi. Nel primo caso, infatti, gli interessi in questione sono di carattere patrimoniale mentre nel secondo caso essi sono di carattere strettamente personale.

Si discute in ordine al concetto di approfittamento. In particolare da taluni si ritiene sufficiente la mera conoscenza dello stato di bisogno, da altri si pretende l’intenzione specifica di avvantaggiarsi a spese dell’altro contraente. La giurisprudenza ritiene comunque sufficiente il contegno passivo di chi si limita a mantenere ferma un’offerta lesiva, così come ritiene irrilevante il fatto che l’offerta provenga dal contraente leso o che costui non sia stato indotto in errore ma fosse ben consapevole della portata negativa dell’affare concluso.

Il problema finisce per determinare una certa interferenza tra il profilo civilistico della rescissione e quello penalistico dell’usura. Infatti in presenza della lesione si distingue tra contratto rescindibile per generica consapevolezza dello stato di bisogno e contratto usurario, nullo per illiceità della causa, quando è ravvisabile uno specifico intento depredatorio nel senso che il soggetto non intende addivenire al contratto se non a condizioni lesive, tenendo un comportamento volto ad incidere sulla determinazione volitiva del bisognoso.

Senonché, sebbene l’art. 644 c.p. sanzioni anche l’usura c.d. reale (prestazione di servizi e vendita di beni) la rescissione mantiene una propria ragion d’essere in quanto detta norma colpisce il comportamento dell’usurario e non prende in considerazione il contratto, il cui regime è in ogni caso quello civilistico che esclude la nullità, anche virtuale ex art. 1418 e commina la rescissione, non potendosi invocare, in presenza di una sanzione tipica, l’illiceità per pretesa violazione del buon costume, né una nullità relativa, da violazione della norma.

Che la vicenda civilistica doveva essere mantenuta distinta da quella penalistica è del resto confermato dal disposto dell’art. 1449 secondo cui la prescrizione dell’azione di rescissione, qualora il fatto costituisca reato, non è annuale ma quella stessa fissata per il reato, applicandosi l’art. 2947, 3°comma.

Va comunque tenuto presente che l’usura ha presupposti diversi dalla rescissione, perché si configura, a prescindere dallo stato di bisogno e del conseguente approfittamento che costituisce solo un’aggravante.

Lo squilibrio tra le prestazioni va verificato sulla base di accertamenti rigorosamente oggettivi, con riferimento al valore delle prestazioni al momento della conclusione del contratto. Tale valore va calcolato avuto riguardo non solo alla prestazione principale ma anche a quelle accessorie. Si pretende la lesione ultra dimidium (e dunque uno squilibrio del sinallagma e proprio in questo squilibrio va ravvisato il vizio del contratto), segno evidente che il legislatore ha inteso fissare il limite entro il quale non rileva la sproporzione tra le prestazioni. La norma dunque ha la stessa ratio di quella penalistica che colpisce il reato di usura.

Secondo l’art. 1448, 3° comma, la lesione deve perdurare fino al tempo in cui la domanda è proposta e quindi potrebbe venire meno in seguito ad un incremento di valore del bene leso o ad un decremento del valore di quello ricevuto dalla controparte.

4. La disciplina.

La disciplina della rescissione è del tutto peculiare, benché per taluni versi analoga a quella dell’annullabilità. Il contratto rescindibile produce effetti provvisori ma essi si consolidano solo a seguito della prescrizione dell’azione essendo inammissibile un atto di convalida, secondo quanto disposto dall’art. 1451. È questa la prima fondamentale diversità rispetto all’annullabilità. La rescissione infatti è un mezzo di tutela dell’equilibrio oggettivo del contratto sotto il profilo dell’equità e non tanto tutela la libertà del volere del contraente leso. Peraltro in caso di annullabilità non viene in questione l’iniquità del regolamento ma piuttosto l’effettiva volontà di vincolarsi, cosicché il vizio può ben essere superato da una successiva manifestazione di volontà conforme. In caso di rescissione invece l’iniquità non può essere superata se non in seguito ad una modificazione del regolamento ed è infatti questo l’unico mezzo offerto

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dalla legge che detta all’art. 1450 un’apposita disciplina dell’offerta di modificazione. Ciò spiega perché non si possa convalidare pur quando sia venuto meno lo stato di bisogno.

L’inammissibilità della convalida comporta, ovviamente, anche l’inammissibilità della rinunzia all’azione di rescissione. Si discute invece in ordine alla possibilità di transigere. La dottrina è contraria perché la transazione comporta sempre una rinunzia. La giurisprudenza invece ammette questa possibilità osservando che la transazione è contratto del tutto autonomo rispetto a quello rescindibile. Si obietta peraltro che la parte che transige deve poter disporre del diritto che forma oggetto della lite (art. 1966) mentre il diritto alla rescissione non è disponibile, tanto ciò vero che non è rinunziabile.

Gli opposti punti di vista sembra possano però comporsi se si considera che il contratto rescindibile può essere modificato in seguito ad offerta del contraente non leso, atta a ricondurre il contratto ad equità. In tal modo però la transazione non manterrebbe la propria autonoma funzione ma si collegherebbe strettamente al precedente assetto di interessi. Di conseguenza non sarebbe applicabile la disciplina sua propria ed in particolare l’art. 1970 che ne dichiara la non impugnabilità per causa di lesione. Del resto se così non fosse effettivamente la transazione costituirebbe un mezzo per aggirare la norma sul divieto di convalida del contratto rescindibile.

L’azione di rescissione si prescrive in un anno dalla conclusione del contratto o, in caso di vendita, dalla determinazione del prezzo, se successiva.

Anche sotto questo profilo la disciplina della rescissione si differenzia da quella dell’annullabilità per vizi della volontà. Il termine, infatti, è nettamente più breve (un anno anziché cinque) ed inizia a decorrere dalla conclusione del contratto, mentre in caso di vizi della volontà il termine a quo è spostato nel tempo (art. 1442).

La brevità del termine di prescrizione è però superata quando il comportamento del contraente integra gli estremi del reato, ciò che può accadere in caso di stato di bisogno con riferimento all’usura. In tal caso infatti come già detto si applica l’art. 2947, 3° comma, per il rinvio operato dall’art. 1449, cosicché se il contraente inizia l’azione di rescissione davanti al giudice civile, una volta trascorso l’anno di prescrizione, questi dovrà sospendere il giudizio ed attendere che il giudice penale si pronunci in ordine ad esistenza del reato.

Se il reato è dichiarato estinto senza accertamento della responsabilità dell’imputato (ad es. per amnistia), il giudice civile potrebbe accertare incidenter tantum, ai soli fini della fissazione del termine di prescrizione, se il comportamento del contraente che ha approfittato costituisca o non costituisca reato. Inoltre può utilizzarsi il disposto dell’ultima parte dell’art. 2947 per affermare che se il fatto costituisce reato, il termine annuale di prescrizione dell’azione di rescissione inizia a decorrere dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza del giudice è divenuta irrevocabile.

Il contraente contro il quale è domandata la rescissione può evitarla offrendo una modificazione del contratto sufficiente per ricondurlo ad equità (art. 1450).

L’ordinamento ha interesse esclusivamente al riequilibrio del sinallagma, cosicché del tutto irrilevante sarà la volontà del contraente che ha subito il danno, una volta che l’offerta di modificazione sia idonea a riequilibrare le prestazioni. L’offerta è quindi un atto unilaterale recettizio.

L’offerta deve essere puntuale, nel senso che l’offerente deve indicare esattamente quali clausole devono essere modificate ed in quali termini. Il giudice può solo accertare se l’offerta è o non è atta a ricondurre ad equità il contratto.

Il giudizio sull’equità dell’offerta va reso con riferimento al momento della pronuncia. Non si tratta di un vero e proprio giudizio di equità, perché qui l’equità non è quella integrativa ex art. 1374, ma è solo un’espressione linguistica, sinonimo di equilibrio oggettivo tra le prestazioni, senza alcuna discrezionalità del giudice.

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La sentenza che pronuncia la rescissione del contratto ad iniziativa del solo contraente che si trovava in stato di pericolo o di bisogno, ha carattere costitutivo ed elimina gli effetti ex tunc. Le parti dovranno quindi procedere alle debite restituzioni ovvero, se la restitutio è impossibile, al pagamento del valore di stima.

La rescissione del contratto non pregiudica i diritti acquistati dai terzi, salvo gli effetti della trascrizione della domanda di rescissione (art. 1452). Gli artt. 2652 n. 1 e 2690 n. 1 dispongono al riguardo che la sentenza che accoglie la domanda di rescissione non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in base ad un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda.

Diversa è dunque la disciplina della rescissione rispetto a quella dell’annullabilità per quanto riguarda la tutela dei terzi. Costoro infatti se il contratto è rescisso sono sempre tutelati pur se in mala fede e perfino se hanno acquistato a titolo gratuito. L’unico limite, in caso di diritti su beni immobili o su mobili registrati, è costituito dalla priorità della trascrizione dell’acquisto rispetto alla trascrizione della domanda. Un limite peraltro davvero minimo se si considera che gli artt. 2652 n. 6 e 2690 n. 3 richiedono, in caso di contratto invalido, ben latri presupposti. È questa, tra le tante, la diversità disciplinare che più di ogni altra induce a differenziare la rescissione dall’annullabilità e ad essere molto cauti nella direzione di un suo inquadramento nel fenomeno dell’invalidità.

Infine bisogna ricordare che la disciplina della rescissione non si applica né ai negozi unilaterali, né ai c.d. contratti unilaterali ex art. 1333, come la fideiussione gratuita e nemmeno al contratto di società, per i relativi conferimenti.

LA RISOLUZIONE

1. Il fondamento.

La validità del contratto attiene al momento della conclusione. Un contratto concluso validamente può peraltro non produrre effetti o per circostanze coeve alla nascita o per circostanze sopravvenute. La risolubilità del contrato è legata a questa seconda eventualità. Essa si verifica quando il programma contrattuale non è più in grado di svolgere la propria funzione che è quella di assicurare il soddisfacimento degli interessi dei contraenti composti nel regolamento. Tale sopravvenuta eventualità può essere causata dal comportamento delle parti ma può anche dipendere da eventi non imputabili e non prevedibili.

Ciò che viene ad essere turbato è, così come nel caso di rescissione, il sinallagma cioè l’equilibrio delle prestazioni, che sono l’una in funzione dell’altra. In caso di rescissione il difetto è genetico, cioè originario, in caso di risoluzione è funzionale, cioè sopravvenuto; in ambedue i casi, poi, il vizio del sinallagma può colpire solamente i contratti a prestazioni corrispettive, là dove le prestazioni sono a carico delle parti e sono legate da un nesso di interdipendenza funzionale. Ecco perché un’eventuale clausola di irresolubilità, vanificando il sinallagma e quindi incidendo sulla disciplina tipologica, sarebbe nulla.

La risoluzione dunque mira a riequilibrare la posizione economico-patrimoniale dei contraenti eliminando, con efficacia ex tunc, non il contratto ma i suoi effetti.

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A fronte ad un comune fondamento corrisponde però una pluralità di fattispecie risolutorie, che difficilmente possono essere ridotte ad unità sul piano disciplinare. Non a caso il codice civile regolamenta separatamente i casi di risoluzione.

2. L’inadempimento.

Di fronte all’inadempimento o al rifiuto di adempiere di una parte, l’altra può scegliere tra due possibili strade, a seconda che abbia o non abbia ancora interesse all’adempimento tardivo. Nel primo caso, se ancora non ha adempiuto, esse può opporre l’eccezione di inadempimento al fine di rifiutarsi di adempiere a sua volta, secondo quanto disposto dall’art. 1460. Se invece la parte ha già adempiuto, può costituire in mora la controparte debitrice, in vista di un adempimento tardivo ovvero al fine di iniziare il giudizio per ottenere la condanna ed agire poi, in caso di eventuale inosservanza della sentenza, con l’esecuzione forzata. Se poi la parte adempiente non ha più interesse all’adempimento tardivo o alla realizzazione coattiva del proprio credito, percorrerà la strada della risoluzione del contratto.

Le due strade hanno in comune l’obbligo risarcitorio che grava sulla parte inadempiente per l’illecito contrattuale commesso (art. 1454). La domanda di risarcimento può anche essere proposta autonomamente rispetto alla domanda di adempimento o di risoluzione. Pertanto, in caso siano entrambe proposte, la condanna a risarcire il danno può essere pronunciata anche se la domanda di risoluzione è stata respinta a causa della scarsa importanza dell’inadempimento, che non esclude il danno.

In ogni caso il creditore, qualunque azione inizi, deve provare la fonte, negoziale o legale, del suo diritto e, se è previsto un termine, la sua scadenza, ma non l’inadempimento, che va solo allegato, mentre spetta al debitore provare il fatto estintivo del diritto stesso.

Il danno risarcibile è quello derivante dal c.d. interesse positivo, anche in caso di contestuale pronuncia di risoluzione. In tal caso però, ai fini del quantum debeatur, deve tenersi conto di ciò che il creditore lucra per non dover più adempiere la propria prestazione.

L’art. 1453, 2° comma, detta talune regole volte a tutelare entrambe le parti, in relazione alla possibile scelta tra la strada dell’adempimento e quella della risoluzione.

1. Innanzitutto l’azione di adempimento interrompe la prescrizione dell’azione di risoluzione, essendo entrambe volte a tutelare il diritto alla prestazione. Inoltre la risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento. Infatti l’interesse del creditore all’adempimento può venir meno con il tempo, cosicché egli deve sempre potersi avvalere della risoluzione. Il mutamento di domanda (la c.d. mutatio libelli) può avvenire in ogni grado di giudizio. La facoltà di modifica sopravvive poi alla sentenza di condanna ad adempiere, ovviamente fino al momento in cui non interviene l’adempimento.

2. La seconda regola è esattamente opposta. Non è possibile chiedere l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione, perché evidentemente la parte inadempiente, di fronte alla scelta della strada risolutoria, può essersi messa in condizione di non poter più adempiere alla propria obbligazione nemmeno volendo. La preclusione tuttavia non opera se il creditore prova che il debitore non ha interesse ad opporla e quindi dimostra di aver interesse alla conservazione del rapporto. Se il debitore non si oppone, la domanda di adempimento è comunque preclusa.

3. La terza regola disciplina l’ipotesi dell’adempimento successivo alla domanda di risoluzione. In linea di principio il debitore non potrebbe adempiere, una volta iniziato il giudizio di risoluzione, perché il creditore ha chiaramente manifestato con tale sua iniziativa di non aver interesse ad un adempimento tardivo. Questa regola deve però tener conto di quanto disposto dall’art. 1219, cosicché ci si può domandare se, prima di iniziare l’azione di risoluzione, il creditore debba costituire in mora il debitore. La risposta è negativa per quanto attiene all’ipotesi ordinaria di inadempimento grave e definitivo, mentre è dubbia se l’inadempimento è grave ma la prestazione è ancora possibile ovvero quando esso è temporaneo e il debitore si appresti ad adempiere. In tal caso la necessità di una richiesta di adempimento prima di iniziare il giudizio di risoluzione deriverebbe peraltro non già dal disposto dell’art. 1219, ma piuttosto dal fatto che la mancata tempestiva contestazione al momento dell’inadempimento può avere ingenerato nel debitore

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l’affidamento circa una tolleranza in ordine al ritardo, se non in ordine allo stesso inadempimento. Ma, a prescindere dalla tolleranza, che presuppone circostanze qualificanti ulteriori rispetto all’inerzia, la messa in mora non è necessaria, perché anche se il debitore offrisse l’adempimento, il creditore potrebbe rifiutarlo, se è venuto meno il suo interesse, invocando il motivo legittimo di cui all’art. 1220, attesa la gravità dell’inadempimento, per poi agire in risoluzione. Il divieto per il debitore di adempiere la propria obbligazione dopo la proposizione della domanda di risoluzione non è però assoluto, in quanto, basandosi sulla mancanza di interesse del creditore ad ottenere l’adempimento, presuppone il fondamento della domanda di risoluzione. Di conseguenza, qualora la domanda non sia fondata, lo stesso debitore non è esonerato dall’obbligo di adempiere. Quanto fin qui detto vale se l’inadempimento sussisteva al momento della domanda, ma se a quel momento la prestazione era ancora inesigibile e diviene esigibile nelle more del giudizio, il debitore deve adempiere se vuole evitare la risoluzione.

Il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra (art. 1455).

Anche l’inadempimento ad una prestazione accessoria può rilevare, nei limiti in cui faccia venir meno l’utilità della prestazione principale e non sia quindi di scarsa importanza.

Così ancora in caso di ritardo nell’esecuzione della prestazione principale, tale da menomare la fiducia nell’esattezza dei successivi adempimenti in caso di somministrazione (art. 1564).

Nei contratti di durata l’inadempienza successiva alla domanda di risoluzione rileva ai fini della valutazione della qualità dell’inadempimento.

È molto discusso il fondamento giuridico della risoluzione per inadempimento.

La dottrina più antica riteneva che ogni contratto a prestazioni corrispettive fosse per tacito accordo sottoposto alla condizione risolutiva del reciproco adempimento.

Più di recente si è ravvisato il fondamento nell’alterazione causale che discende dal mancato attuarsi dello scambio. Ma la causa non è in questione e comunque non può essere valutata in base a situazioni sopravvenute. In ogni caso, poi, il vizio causale comporta la nullità del contratto. Né può dirsi che il rimedio risolutoria intenda prevenire ad un ingiustificato arricchimento, atteso che dalla risoluzione discende l’obbligo restitutorio che prescinde assolutamente dal profilo dell’arricchimento ed è invece legato all’indebito oggettivo.

Probabilmente è nel vero quella dottrina che nega rilevanza al problema osservando che è nella logica delle cose eliminare gli effetti di un contratto restato lettera morta, specie quando l’inadempimento è unilaterale. Oggetto di discussione può dunque essere il modo con cui si perviene a tale risultato.

Altra domanda che ci si pone è se l’inadempimento debba essere necessariamente colposo. Tale problema è sollevato dall’art. 1218 (il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa non a lui imputabile). La giurisprudenza sostiene che l’illecito è escluso quando l’inadempimento è stato provocato da motivi oggettivi che per il debitore si risolvono in assenza di colpa. Se il creditore dimostra che così non è, interviene la risoluzione come sanzione.

Sul piano concretamente disciplinare, alla risoluzione per inadempimento può pervenirsi ad iniziativa della parte adempiente ovvero perché quel dato inadempimento è stato fatto oggetto di valutazione negativa in sede di stipula ad opera dei contraenti. Sul piano procedimentale due sono peraltro i modi con cui si attua la risoluzione a seconda che non sia o sia necessaria una sentenza. Si parla così di risoluzione di diritto e di risoluzione giudiziale.

Alla risoluzione di diritto si perviene in tre casi distinti che ricevono autonoma ed altrettanto distinta disciplina dal codice civile.

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1. Diffida ad adempiere (art. 1454). È una dichiarazione negoziale (negozio unilaterale recettizio, che pretende in ogni caso la forma scritta) attraverso la quale la parte adempiente intima alla parte inadempiente di eseguire una prestazione entro un termine, non inferiore a 15 giorni, e contemporaneamente avverte la controparte che, decorso inutilmente detto termine il contratto si intenderà risolto (sempre che l’inadempienza sia grave). In ogni caso il termine deve essere congruo alla prestazione da effettuare. Il termine decorre dal momento della ricezione della diffida. In pendenza del termine di adempimento fissato con la diffida il creditore non può chiedere né l’adempimento né la risoluzione. Non può procedere nemmeno all’esecuzione forzata, a meno che il debitore non dichiari per iscritto di non voler adempiere. Una volta notificata, la diffida non può essere revocata e dunque l’effetto risolutorio è inevitabile.

2. Clausola risolutiva espressa (art. 1456). I contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva qualora una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. Di regola la clausola risolutiva è parte dello stesso contratto; essa può peraltro essere pattuita anche con atto autonomo, che dovrà rivestire la stessa forma del contratto a cui si riferisce. Le parti devono indicare specificamente quale o quali sono le obbligazioni che devono essere adempiute a pena di risoluzione. Se l’indicazione è invece generica o addirittura il riferimento è al complesso delle pattuizioni, la clausola non avrà alcun valore. L’inadempimento deve essere imputabile, sul piano della colpa, al debitore, ma non può essere grave. La risoluzione non è però automatica, non consegue cioè de iure al mancato adempimento dell’obbligazione secondo le modalità stabilite, perché è necessario che la parte interessata dichiari all’altra che intende avvalersi della clausola risolutiva (art. 1456, 2° comma). Rispetto al momento in cui la clausola è stata pattuita potrebbe infatti essere sopravvenuto un interesse del creditore all’adempimento tardivo. La dichiarazione è unilaterale, recettizia, non formale, ha natura negoziale. Il risarcimento del danno andrà fissato avuto riguardo alla data in cui la dichiarazione perviene al debitore, così come da tale data inizia a decorrere la prescrizione delle azioni restitutorie conseguenti all’avvenuta risoluzione. È però possibile che il creditore rinunzi alla facoltà di avvalersi della clausola. Tale rinunzia può essere espressa ma anche conseguente ad un comportamento inequivoco.

3. Termine essenziale (art. 1457). Se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale nell’interesse dell’altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole esigerne l’esecuzione nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia all’altra parte entro tre giorni. In mancanza il contratto si intende risolto di diritto anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione. Diversamente dalla clausola risolutiva, il termine essenziale opera automaticamente ma l’effetto risolutorio può essere evitato da un’espressa dichiarazione del creditore, il quale comunichi, entro il termine di decadenza di tre giorni, il proprio interesse ad un adempimento tardivo con un a dichiarazione a carattere negoziale e a forma libera. L’automaticità della risoluzione può essere evitata anche da una pattuizione o da un uso contrario. L’essenzialità del termine può desumersi dalla volontà dei contraenti ovvero dalla natura del contratto o dalle modalità della prestazione. Nel primo caso si parla di essenzialità soggettiva, che risulta da una dichiarazione espressa o tacita dei contraenti. Nell’altro caso si parla di essenzialità oggettiva, come nel classico esempio di scuola della prestazione del sarto avente ad oggetto la confezione di un vestito da sposa. Nel caso di essenzialità soggettiva il termine deve essere indicato in modo preciso e rigoroso e le dichiarazioni in ordine all’inderogabilità devono essere inequivoche. Tale non sarebbe, ad esempio, la formula secondo cui la prestazione deve essere adempiuta entro e non oltre un dato giorno. In ogni caso il termine essenziale può essere rinnovato dalla parte interessata.

Se il creditore vuole risolvere il contratto ma non ha pattuito una clausola risolutiva espressa o un termine essenziale ovvero non vuole assegnare al debitore un termine per l’adempimento, rischiando così di non poter più pervenire alla risoluzione, deve agire giudizialmente. La sentenza ha carattere esecutivo.

Se scade il termine non essenziale e c’è offerta di adempimento tardivo prima che sia iniziato il giudizio di risoluzione, l’altra parte, se è venuto meno l’interesse in relazione alla non scarsa importanza

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dell’inadempimento, può rifiutare e poi iniziare il giudizio stesso, perché il difetto di interesse all’adempimento non coincide con l’interesse allo scioglimento e quindi con l’inizio dell’azione giudiziale.

Il giudice potrà anche essere chiamato a risolvere una controversia in ordine all’avvenuta risoluzione di diritto del contratto. Ma in questo caso la sentenza del giudice sarà di mero accertamento dell’intervenuta risoluzione e non potrà parlarsi di risoluzione giudiziale. In caso di accertamento negativo il creditore si troverà a dover risarcire il danno per aver impedito o comunque per non aver accettato l’eventuale offerta di adempimento del debitore, non essendosi il contratto risolto.

La giurisprudenza ritiene che pur se il rapporto si fosse risolto, di diritto o giudizialmente, la parte non inadempiente potrebbe rinunciare agli effetti risolutori, facendo rivivere così il rapporto.

Nel caso di contratto plurilaterale l’inadempimento di una delle parti non importa la risoluzione del contratto rispetto alle altre, salvo che la prestazione mancata debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale (art. 1459). In dottrina si sostiene che in tal caso la risoluzione debba essere richiesta congiuntamente da tutti i contraenti adempienti, ma in verità il problema sembra debba essere impostato in termini oggettivi, di essenzialità o meno della prestazione mancata. Nel caso di essenzialità, infatti, non vi è motivo per negare azione a ciascun contraente. La norma non si applica all’ipotesi di contratto di società e di associazione, là dove gli interessi sono convergenti e sono dettate norme speciali, ad esempio in punto di inadempimento dell’obbligo del conferimento che dà luogo ad esclusione del socio.

Ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere se l’altro non adempie o dichiara di non voler adempiere o non offre di adempiere contemporaneamente, salvo che termini diversi per l’adempimento siano necessari o siano stati stabiliti dalle parti (art. 1460) (eccezione di inadempimento).

La ratio della norma è chiara. Quando le prestazioni devono essere eseguite, come si suol dire, mano contro mano, ciascuno dei contraenti può pretendere che l’altro, nel mentre chiede l’adempimento altrui, offra anche il proprio. In tal modo si pervengono possibili danni derivanti da futuri inadempimenti della parte che ha ricevuto la controprestazione. Si tratta, in sostanza, di una forma di autotutela affidata ad un’eccezione, senza dunque intervento ex officio del giudice, il cui fondamento deve essere provato dal contraente che l’oppone. Il contrasto tra i contraenti può essere risolto con una sentenza che condanni il convenuto ad adempiere, subordinatamente all’adempimento da parte dell’attore. Se entrambe le parti oppongono l’eccezione sostenendo di non aver adempiuto in quanto la controparte a sua volta non ha adempiuto, spetterà al giudice di accertare quale dei due inadempimenti sia il più grave sul piano della proporzionalità e tale da legittimare l’eccezione, avuto anche riguardo alle obbligazioni secondarie, ma ritenute essenziali dalle parti.

L’eccezione può anche paralizzare una domanda di risoluzione, essendo sia giudiziale che stragiudiziale, come nel caso della diffida ad adempiere o di dichiarazione di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa ovvero di costituzione in mora.

In ogni caso il contraente non può rifiutare l’esecuzione se il rifiuto è contrario alla buona fede (art. 1460, 2° comma).

Un inadempimento di lieve importanza o che derivi dall’inadempimento dell’altra non legittima l’eccezione.

La buona fede non pretende che l’eccezione sia preceduta da diffida ad adempiere.

L’art. 1461 prevede infine la possibilità che il contraente sospenda l’esecuzione della propria prestazione se le condizioni patrimoniali dell’altro siano divenute tali da porre in evidente pericolo il conseguimento della controprestazione, salvo che sia prestata idonea garanzia (sospensione dell’esecuzione).

Anche questa norma si inquadra nel più generale contesto dell’autotutela e delle eccezioni che il contraente può opporre al fine di garantirsi nei confronti di possibili futuri inadempimenti della controparte. I rapporti con l’art. 1460 sono pertanto strettissimi. In particolare la sospensione può invocarsi quando la controparte deve eseguire la propria prestazione in un secondo momento mentre l’eccezione di inadempimento può opporsi quando le prestazioni devono essere seguite mano contro mano. Ciò non

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impedisce l’opponibilità dell’eccezione di inadempimento anche quando la prestazione va eseguita in un secondo momento ma il debitore ha già dichiarato di non voler adempiere o il suo inadempimento appare probabile ovvero la scadenza successiva è già decorsa. Anche in caso di sospensione si applica il secondo comma dell’art. 1460 (attesa l’identità della ratio normativa), cosicché varrà sempre il limite della buona fede.

Le parti possono pattuire l’inopponibilità di eccezioni al fine di evitare o ritardare la prestazione dovuta, che può intervenire, peraltro, anche nel corso di giudizio iniziato dal creditore per l’adempimento e non dunque per la risoluzione. Tale clausola (c.d. solve et repete) non ha effetto per le eccezioni di nullità, di annullamento e di rescissione del contratto (art. 1462).

La giurisprudenza limita notevolmente la portata della clausola nel momento in cui nega che essa sia in grado di bloccare l’eccezione di inadempimento e ne afferma l’efficacia solo con riguardo all’eccezione in presenza di un adempimento inesatto.

Attese le gravi conseguenze che comporta la clausola, l’art. 1462, 2° comma, statuisce che il giudice, se concorrono gravi motivi, può sospendere la condanna all’adempimento, imponendo, se del caso, una cauzione.

3. L’impossibilità sopravvenuta.

Se la prestazione diviene impossibile per causa non imputabile al debitore, l’obbligazione si estingue. La disciplina dell’impossibilità sopravvenuta è dettata nel contesto dei modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento. Gli artt. 1463 ss. disciplinano invece le conseguenze dell’intervenuta estinzione dell’obbligazione, quando il contratto è a prestazioni corrispettive.

Lo scioglimento del contratto opera di diritto, cosicché l’eventuale sentenza che dirime una controversia in ordine alla sussistenza dell’impossibilità sopravvenuta non imputabile, sarà di mero accertamento. In tal caso non può parlarsi di risoluzione del contratto, perché l’automaticità dell’effetto di scioglimento al di fuori di ogni pattuizione o iniziativa di parte (come nel caso di risoluzione di diritto) esclude che si tratti di un mezzo di tutela offerto alla parte adempiente. Resta però fermo che la disciplina, peraltro derogabile, dello scioglimento è sul piano funzionale quella della risoluzione, perché dal punto di vista degli effetti prodotti il fenomeno è identico, avuto riguardo al venir meno del sinallagma.

Nel caso di impossibilità totale la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione non può richiedere la controprestazione e deve restituire quella che abbia già ricevuto, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito (art. 1463). In base all’art. 1256, si ha estinzione anche nel caso di impossibilità temporanea quando il creditore non può più pretendere la prestazione ovvero non ha più interesse a riceverla.

Secondo quanto disposto dall’art. 1258, l’impossibilità parziale non estingue l’obbligazione ed il debitore è liberato solo se esegue la prestazione che è rimasta possibile. In caso di contratto a prestazioni corrispettive questa disciplina non può peraltro applicarsi perché determinerebbe altrimenti un grave squilibrio del sinallagma. L’art. 1464 introduce pertanto un correttivo nel senso di legittimare il creditore o a pretendere una corrispondente riduzione della propria prestazione o a recedere dal contratto, se non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale.

L’art. 1466 disciplina l’ipotesi di impossibilità totale della prestazione di una delle parti di un contratto plurilaterale. In tal caso il contratto non si scioglie tra le altre parti, salvo che la prestazione mancata debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale.

La norma in questione non disciplina l’ipotesi di impossibilità parziale per un solo contraente. In tal caso, in base all’art. 1464, dovrebbe ridursi la partecipazione all’affare del contraente impossibilitato ad adempiere in toto ovvero gli altri contraenti potrebbero recedere, nei confronti di costui, dal contratto, ma congiuntamente.

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Una disciplina particolare dell’impossibilità sopravvenuta totale è dettata dall’art. 1465 con riguardo ai contratti che trasferiscono la proprietà di una cosa determinata ovvero trasferiscono o costituiscono diritti reali. si tratta di una norma derogabile.

Se l’impossibilità sopravviene al trasferimento, l’acquirente non è liberato dall’obbligo di eseguire la controprestazione, ancorché la cosa non gli sia stata consegnata (primo comma). Ciò significa che la custodia della cosa da parte dell’alienante nelle more della consegna non entra a far parte del sinallagma e quindi non costituisce una controprestazione.

La stessa disposizione si applica nel caso in cui l’effetto traslativo o costitutivo sia differito fino allo scadere di un termina (secondo comma), perché l’alienante con la prestazione del consenso ha eseguito la propria prestazione, avendo reso possibile l’effetto traslativo, per quanto in suo potere, effetto che non ha caso si produce automaticamente alla scadenza del termina.

Se il trasferimento ha ad oggetto una cosa generica, l’acquirente non è liberato dalla propria obbligazione se l’alienante ha operato la consegna o la cosa è stata individuata (terzo comma), pur se non è seguita la consegna. Si tratta di una concreta applicazione del principio res perit domino.

L’acquirente è in ogni caso liberato dalla propria obbligazione se il trasferimento era sottoposto a condizione sospensiva e l’impossibilità è sopravvenuta prima che si verifichi la condizione. Secondo parte della dottrina questa regola farebbe eccezione al principio della retroattività della condizione (art. 1360) ma altra dottrina ha obiettato che, in pendenza della condizione, la proprietà del bene resta nel patrimonio del venditore, quindi: res perit domino.

4. L’eccessiva onerosità sopravvenuta.

Nei contratti ad esecuzione continuata o periodica (c.d. di durata) ovvero ad esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta, al momento dell’esecuzione, eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari o imprevedibili, comunque non imputabili al contraente, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, sempre che la sopravvenuta onerosità non rientri nell’alea normale del contratto (art. 1467).

La dottrina prevalente spiega l’art. 1467 in chiave di sopravvenuto squilibrio patrimoniale che consegue ad un’alterazione del rapporto di valore tra le due prestazioni in occasione di eventi straordinari o imprevedibili. In buona sostanza il legislatore ha inteso porre rimedio ad una situazione non prevista al momento della conclusione del contratto, la quale sposta su un contraente gli esiti negativi di un rischio non legato alla normale alea insita in ogni contrattazione. Per questo motivo il rimedio si applica ai contratti corrispettivi la cui esecuzione non sia immediata ma protratta nel tempo e quindi esposta a variazioni economiche che tuttavia non possono superare la soglia della normale prevedibilità e tolleranza. Per lo stesso motivo l’art. 1469 dichiara inapplicabile il rimedio ai contratti che sono aleatori per loro natura o per volontà delle parti, anche se per un solo contraente.

Anche tale rimedio mira quindi a tutelare l’equilibrio delle prestazioni e quindi il sinallagma. Discende da ciò che l’ambito di applicazione dell’art. 1467 è più ampio di quanto risulti dall’espressa dizione normativa. Il rimedio può infatti essere invocato ogniqualvolta la prestazione è differita nel tempo, cosicché si ritiene che l’art. 1467 sia applicabile anche in caso di contratto ad esecuzione immediata quando le parti hanno rinviato l’adempimento della prestazione, perfino con accordo tacito. Essa non rileva invece in caso di ripetizione negoziale di contratto traslativo, essendosi gli effetti reali già prodotti.

L’art. 1467 si applica all’opzione e al preliminare, perché le conseguenze negative che comporta la stipula del definitivo divenuto eccessivamente oneroso sono già insite e si identificano nelle conseguenze negative del preliminare, che è atto strumentale.

La straordinarietà attiene alla non ripetizione con frequenza e con regolarità statistica; la prevedibilità riguarda la conoscenza o conoscibilità dell’evento o l’assunzione del rischio ad opera di una parte o la valutabilità circa il verificarsi dell’evento stesso.

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Il debitore gravato dall’eccessiva onerosità non può liberarsi con una dichiarazione stragiudiziale. Egli deve agire in giudizio, senza potersi limitare, ove convenuto, a proporre una mera eccezione,

la parte contro la quale è domandata la risoluzione può in ogni caso evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto(art. 1467, 3° comma). Si tratta della stessa offerta di riduzione prevista dall’art. 1450, di cui possiede le medesime caratteristiche.

Inoltre il contratto deve essere ricondotto non già esattamente in equilibrio, ma ad una dimensione sinallagmatica tale che, se fosse sussistita al momento della stipula, la parte onerata non ne avrebbe potuto chiedere la risoluzione.

Nel caso di contratto con obbligazioni a carico di una sola parte, questa può chiedere una riduzione della sua prestazione, ovvero una modificazione nelle modalità di esecuzione, sufficiente per ricondurla ad equità (art. 1468). Si ritiene che tale disciplina sia applicabile al contratto con prestazioni corrispettive se eseguito integralmente da una sola parte. La riconduzione ad equità del contratto è, questa volta, opera del giudice non potendosi configurare un’offerta da parte di un controinteressato. Il giudice non dovrà avere come punto di riferimento l’equilibrio economico attesa l’inesistenza di prestazioni corrispettive e quindi non utilizzerà un criterio oggettivo di giudizio. Si assiste pertanto ad una modificazione giudiziale del contratto in base ad un criterio sostanzialmente discrezionale ma tale modifica è pur sempre legittimata da una domanda del contraente interessato.

Se sopravvengono eventi bensì prevedibili, ma che modificano l’equilibrio contrattuale, la risoluzione, o meglio lo scioglimento del contratto, potrebbe conseguire ad una valutazione dell’economia del negozio qualora la pretesa della prestazione divenuta eccessivamente onerosa apparisse contraria alla buona fede esecutiva e quindi inesigibile.

5. Gli effetti.

Sebbene il codice civile disciplini gli effetti della risoluzione con riguardo all’ipotesi di inadempimento è pacifico che l’art. 1458è applicabile anche nel caso di impossibilità sopravvenuta e di eccessiva onerosità sopravvenuta.

In caso di contratto ad esecuzione continuata o periodica l’effetto non si estende alle prestazioni già eseguite (art. 1458). Si avrà dunque risoluzione parziale. Salvo tale ipotesi, gli effetti della risoluzione retroagiscono tra le parti, pur se essa derivi da clausola risolutiva espressa o da termine essenziale. L’acquisto dei terzi non è pregiudicato, purché, in materia immobiliare, sia stato osservato il disposto dell’art. 2652 n. 1. Pertanto il terzo prevarrà solo se avrà trascritto il proprio acquisto anteriormente alla trascrizione della domanda di risoluzione o della domanda che mira ad accertare l’avvenuta risoluzione di diritto.

La risoluzione deve anche essere annotata ai fini della continuità di cui all’art. 2650, in margine alla trascrizione del contratto risolto.

All’effetto risolutorio consegue per i contraenti l’obbligo reciproco della restituzione di quanto ricevuto.

Naturalmente l’azione di risoluzione non può essere iniziata da chi non è in grado di operare le restituzioni, a meno che sia possibile la restituzione dell’equivalente e salvo il caso fortuito. Né in caso di parziale imparzialità di restituire, sarebbe ammissibile una domanda di risoluzione parziale.

6. Lo scioglimento volontario.

L’art. 1372 prevede la possibilità per le parti di scioglierlo per mutuo consenso o, per meglio dire, per mutuo dissenso.

Con tale contratto è possibile porre nel nulla gli effetti di un contratto traslativo o costitutivo solo se essi non si siano ancora prodotti. Altrimenti si ritiene debba procedersi alla stipula di un contratto uguale e contrario a quello che si intende eliminare. Ma in realtà questo ritrasferimento non può avere causa di vendita, donazione o permuta, perché è solo l’effetto del contratto risolutorio, il quale, se da un lato

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elimina il precedente rapporto, dall’altro obbliga a concludere l’atto di ritrasferimento solutionis causa, giustificato, cioè, dal pregresso accordo. Si tratterà dunque di un c.d. pagamento traslativo, a fronte del quale si situa l’atto solutorio della restituzione di quanto ricevuto, entrambi a struttura unilaterale, collegati tra loro. In caso di inadempimento, il contratto risolutorio si risolve, con ripristino della situazione preesistente.

In caso di contratto ad effetti obbligatori il mutuo dissenso opererà limitatamente alle prestazioni non ancora eseguite e dunque con efficacia ex nunc, ma è ammissibile una diversa volontà dei contraenti. In dottrina si sostiene peraltro anche la tesi del mutuo dissenso come negozio eliminativo con efficacia ex tunc di qualsivoglia tipo di contratto, pur se ad effetti reali o già eseguito, salvi i diritti dei terzi quali ad esempio quelli dei subacquirenti o dei creditori dell’acquirente.

Secondo la giurisprudenza il contratto risolutorio richiede la stessa forma pretesa dalla legge, non dunque quella osservata per il contratto che viene sciolto. Al contrario, si deve avere riguardo solo agli effetti prodotti, sicché, in caso di risoluzione di donazione la forma non sarà quella dell’atto pubblico ma, se la donazione è immobiliare e traslativa, quella scritta. Se poi la forma è libera, lo scioglimento può anche conseguire ad un comportamento concludente, anche mediante distruzione del documento se il contratto è stato concluso per iscritto o richiedeva la forma ad probationem.

L’art. 1373 prevede la possibilità che il contratto sia sciolto ad iniziativa di una delle parti e dunque unilateralmente. Attesa la vincolatività dell’accordo, il recesso è possibile solo se il relativo potere è stato attribuito in sede di contratto, con fissazione di un termine. Esso, in ogni caso, può essere esercitato finché il contratto stesso non ha avuto un principio di esecuzione. È ammesso peraltro il patto contrario (art. 1373, 4° comma), come nel caso di recesso attribuito in correlazione ed in funzione di un patto di prova, che necessariamente presuppone l’esecuzione delle prestazioni dedotte in contratto.

Si deve escludere la possibilità di un recesso in caso di contratti traslativi quando l’effetto reale si sia prodotto.

Nei contratti ad esecuzione continuata o periodica il recesso può essere esercitato anche successivamente all’inizio dell’esecuzione, ma sono salve le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione. In tal caso dunque, il recesso opera ex nunc.

I contraenti possono anche fissare la prestazione di un corrispettivo per il recesso, che può essere versato anticipatamente (c.d. caparra penitenziale) (art. 1386) o al momento del recesso stesso (c.d. multa penitenziale) (art. 1373, 3° comma).

Anche la legge attribuisce in taluni casi il diritto di recesso, talvolta a tutti i contraenti (ad es. in caso di società), altre volte ad uno solo di essi (ad es. il committente nell’appalto ex art. 1671).

La legge tutela peraltro anche la posizione dell’altro contraente. Pertanto di regola è necessario un preavviso, il cui difetto può condizionare l’efficacia stessa del recesso ovvero obbligare al pagamento di un’indennità o ad un risarcimento. In difetto di previsione il preavviso non va dato, ma il recesso non può essere esercitato secondo modalità e tempi che rispondano al solo scopo di recare danno all’altra parte.

Talvolta la legge collega il recesso alla presenza di una giusta causa ovvero alla presenza di un grave motivo, il cui difetto è insuperabile e non sostituibile con il pagamento di indennità.

Pur in assenza di previsione di legge o pattizia, è sempre possibile, ex art. 1375, recedere, con preavviso, da un contratto a tempo indeterminato, a causa della necessaria temporaneità dei vincoli obbligatori.

7. Segue: il diritto di pentimento.

Gli artt. 64 ss. del d. lgs. 206 del 1005 (codice del consumo), prevedono che il solo consumatore (salvo pattuizione espressa) possa pentirsi e porre nel nulla una sua precedente manifestazione di volontà contrattuale.

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La speciale disciplina non si applica ai contratti (o proposte) aventi ad oggetto beni immobili o altri diritti immobiliari, prodotti alimentari o di uso domestico o bevande consegnati a scadenze frequenti e regolari, né ai contratti di assicurazione o relativi a strumenti finanziari.

A tutela del consumatore, è previsto quale foro esclusivo quello della sua residenza. Inoltre l’operatore deve informarlo per iscritto del suo diritto (irrinunziabile) a recedere dal contratto o dalla proposta, pur se irrevocabile, indicando termini, modalità ed eventuali condizioni per il relativo esercizio, nonché l’indirizzo del soggetto nei cui riguardi il diritto di recesso va esercitato o il prodotto eventualmente già consegnato vada restituito.

Entro il termine non inferiore a dieci giorni, la dichiarazione di recesso deve essere spedita (e non già ricevuta) per lettera raccomandata con avviso di ricevimento, anche se non sottoscritta.

In caso di vendita di beni, la sostanziale integrità della merce da restituire è condizione essenziale per l’esercizio del diritto di recesso e quindi del diritto a ricevere entro i successivi trenta giorni il rimborso delle somme eventualmente pagate.

Il recesso è stato costruito come mancata accettazione di un contratto di opzione, ma esso dovrebbe allora concludersi con il silenzio, mentre si è in presenza di un pronunciato formalismo. Più probabile è che si tratti di una condizione risolutiva o di un mancato avveramento di quella sospensiva o piuttosto di una revoca o recesso, se non addirittura di una forma rescissoria del contratto. La dottrina più autorevole parla peraltro di “sorpresa”, come di una nuova figura di vizio del consenso.

LA CESSIONE

1. La struttura.

Ciascuna parte (cedente) può sostituire a sé un terzo (cessionario) nei rapporti derivanti da un contratto con prestazioni corrispettive, se queste non sono state ancora eseguite, purché l’altra parte (ceduto) vi consenta (art. 1406).

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Dottrina e giurisprudenza ritengono che il contratto di cessione di un contratto sia trilaterale e si concluda quindi con l’incontro dei consensi del cedente, del cessionario e del ceduto, il quale può limitarsi ad aderire all’accordo tra le altre due parti. La trilateralità è giustificata se si considera che mediante la cessione, dovendo essere il contratto ceduto necessariamente a prestazioni corrispettive, si viene a modificare la persona del debitore, cosicché non potrà prescindersi dal creditore ceduto ed è per questo anche possibile una cessione senza liberazione del concedente.

Secondo una dottrina minoritaria, che non appare da condividere, il contratto sarebbe invece bilaterale e si concluderebbe tra cedente e cessionario costituendo il consenso del ceduto una mera condicio iuris.

Trattandosi di contratto trilaterale il perfezionamento coinciderà con la conoscenza da parte del contraente proponente (che può anche essere il cessionario) dell’ultima accettazione. Fino a questo momento, la proposta è revocabile.

Il consenso del contraente ceduto deve risultare da atto scritto se il contratto di cessione pretende tale forma, in base alla regola generale secondo cui i negozi modificativi devono rivestire la stessa forma del negozio cui si collegano (forma per relationem). Il consenso può essere manifestato dal contraente ceduto anche prima della cessione mediante apposita clausola inserita nel contratto. In tal caso il contratto nasce validamente tra cedente e cessionario, ma la sostituzione è efficace dal momento in cui essa è notificata al ceduto o dal momento in cui egli l’ha accettata (art. 1407).

L’accettazione della sostituzione nulla ha a che vedere con il consenso che di regola deve manifestare anche il contraente ceduto. Si tratta solo di una presa d’atto a carattere ricognitivo: si è dunque in presenza non di un atto prenegoziale ma di una mera dichiarazione di scienza.

La notifica non è invece necessaria se tutti gli elementi del contratto risultano da un documento nel quale è inserita la clausola “all’ordine” o altra equivalente. In tale ipotesi la girata del documento produce la sostituzione del giratario nella posizione del girante (art. 1407, 2° comma).

La giurisprudenza ritiene che la cessione sia peraltro perfetta, pur in assenza di girata, se essa è stata notificata all’altro contraente o da quest’ultimo accettata.

Secondo taluni la girata avrebbe la stessa funzione della notificazione e cioè di rendere nota al ceduto l’attuazione di un rapporto contrattuale già venuto in vita.

Secondo altri invece sarebbe ravvisabile un consenso implicito del ceduto con rinunzia alla notificazione.

Secondo altra dottrina il contratto con clausola all’ordine si configurerebbe come titolo di credito improprio ex art. 2002 che rende superflua l’osservanza degli oneri previsti dalla legge per la cessione.

Infine va sottolineato che la legge prevede spesso casi di cessione del contratto dove si prescinde dal contraente ceduto. Dovrà parlarsi in tal caso di cessione ex lege, fenomeno diverso dalla cessione volontaria, la cui disciplina non è applicabile nemmeno in via analogia. Caso tipico di successione ex lege è quella prevista dall’art. 2558 in caso di trasferimento d’azienda, in cui si assiste ad una successione immediata, salvo recesso del terzo contraente per giusta causa.

2. L’ambito.

Con la cessione si attua una successione inter vivos a titolo particolare di un soggetto non già nei diritti e negli obblighi di un altro soggetto ma nella stessa posizione contrattuale di costui. Essa ricomprende anche tutti i diritti potestativi, le aspettative nonché, sul piano processuale, le azioni che ad un soggetto competono in quanto parte del contratto.

Contratto a prestazioni corrispettive significa essenzialmente oneroso, cosicché non sono cedibili i contratti a titolo gratuito e può discutersi, quindi, per quelli c.d. unilaterali. Dubbio è anche se possano essere ceduti i contratti eseguiti da una sola parte ed in particolare i contratti traslativi, dal momento che in tal caso l’effetto reale si produce al momento stesso in cui il contratto si conclude consensualmente.

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Piuttosto limitazioni alla cedibilità possono derivare dalla natura stessa del contratto, come nel caso in cui i contraenti debbano rivestire particolari qualità, così come in caso di cessione del contratto di lavoro sportivo tra una società e l’altra.

Con riguardo all’ipotesi di contratti intuitus personae l’incedibilità del contratto non appare invece logica, perché la valutazione di convenienza dovrà essere fatta dal contraente ceduto che ben potrà accordarsi in tal senso con il cedente che deve eseguire la prestazione infungibile e con il cessionario.

Va chiarito che la cessione fa subentrare il cessionario nell’identica posizione del cedente, cosicché non sarà possibile una cessione parziale, né cedente e cessionario potranno modificare il contenuto del contratto oggetto di cessione. È solo ipotizzabile un accordo a carattere novativo tra veduto e cessionario successivamente alla cessione.

Infine si ritiene cedibile ad opera dell’oblato la proposta contrattuale, semplice o irrevocabile, e, ad opera dell’opzionario, il diritto di opzione, sempre che la cessione sia stata autorizzata, rispettivamente dal proponente o dal concedente e il contratto da concludere rientri tra quelli suscettibili di cessione.

3. Gli effetti.

L’effetto della cessione si situa nel quadro delle vicende circolatorie. Il contratto di cessione non ha infatti una propria causa e può definirsi, sotto questo aspetto, un contratto di alienazione. La funzione negoziale finisce dunque per emergere da un’analisi della più vasta operazione economica. Così potrà parlarsi di vendita se il cessionario corrisponde al cedente un corrispettivo ovvero di donazione o ancora di transazione, ecc.

L’effetto della cessione del contratto è dunque quello di operare una successione a titolo particolare nella qualità di parte contraente. Tale effetto comporta conseguenze tra le tre parti.

L’art. 1408 regola i rapporti tra ceduto e cedente. Costui è liberato dalle sue obbligazioni dal momento in cui la sostituzione diviene efficace nei confronti del ceduto. Si tratta di un effetto naturale che però può essere evitato dal ceduto che dichiari di non liberare il cedente, con la conseguenza di poter poi agire nei suoi confronti in caso di inadempimento del cessionario. La disciplina è dunque estremamente inversa a quella dell’espromissione e dell’accollo, là dove la regola non è la liberazione ma la solidarietà.

Qualora il ceduto non liberi il cedente, questi non risponde solidalmente, né si configura un caso di beneficio di escussione, ma soltanto una responsabilità subordinata a quella del cessionario. In caso di mancata liberazione il contraente ceduto deve dare notizia al cedente, con atto partecipativo, dell’inadempimento del cessionario, entro quindici giorni da quando esso si è verificato. All’omessa comunicazione non consegue però la liberazione del cedente ma solo l’obbligo di risarcire il danno.

L’art. 1409 disciplina i rapporti tra contraente ceduto e cessionario. Il contraente ceduto può opporre al cessionario tutte le eccezioni derivanti dal contratto, comprese l’invalidità e l’inefficacia, ma non quelle fondate su altri rapporti col cedente, salvo che ne abbia fatta espressa riserva al momento in cui ha consentito alla sostituzione.

Infine l’art. 1410 disciplina i rapporti tra cedente e cessionario. È possibile l’inserimento di obbligazioni aggiuntive, con oggetto diverso da quello del contratto ceduto, purché non ne alterino il sinallagma e non siano con esso confliggenti. In caso di cessione donativa, il cedente risponde nei limiti previsti dall’art. 797.

Se il cedente poi assume la garanzia dell’adempimento del contratto, risponde come un fideiussore per le obbligazione del contraente ceduto. L’assunzione della garanzia, in caso di mancanza di scrittura, può essere provata in ogni modo, anche mediante presunzioni.

4. Il subcontratto.

Del tutto distinto dalla cessione del contratto è il subcontratto. Si pensi al caso tipico della sublocazione: in tale ipotesi colui che figura come locatario nel contratto di locazione assume la veste di locatore nel contratto di sublocazione.

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La legge prevede, oltre alla sublocazione, il subappalto, la subfornitura, il submandato, ma non si dubita che è possibile stipulare anche altri subcontratti nell’ambito dei contratti ad effetti obbligatori tipici, quali il deposito, l’agenzia e il trasporto, e atipici, quali il leasing. La subenfiteusi invece non è ammessa (art. 968).

Il subcontratto è legato al contratto base perché non può sopravvivergli, una volta che esso venga a scadenza ovvero sia invalidato o risolto, essendo presente un rapporto di stretta dipendenza in termini di derivazione e di subordinazione ed in ciò è la netta differenza rispetto alla cessione del contratto che determina una successione nel rapporto. In entrambi i casi è comunque necessario il consenso, rispettivamente del creditore della prestazione o del ceduto.

Sul piano concretamente disciplinare l’unica regola desumibile dal codice civile è l’azione diretta che al titolare della posizione attiva del contratto base spetta nei confronti del titolare della posizione passiva del subcontratto. Così il locatore, senza pregiudizio dei diritti verso il conduttore, ha azione diretta contro il subconduttore per esigere il pagamento del prezzo della sublocazione e per costringerlo ad adempiere tutte le altre obbligazioni derivanti dal contratto di sublocazione (art. 1595).

La dottrina si è affaticata nel tentativo di ricostruire dogmaticamente questa figura ma i tentativi non sembrano del tutto riusciti. In particolare non sembra possibile parlare di collegamento negoziale dato che un collegamento in termini tecnici va visto con riferimento alla necessaria partecipazione di una pluralità di negozi al raggiungimento di un dato interesse unitario, che in caso di subcontratto non è ravvisabile. Parimenti non sembra possibile un accostamento al contratto a favore di terzo, la cui disciplina è del tutto peculiare. Né più convincente sarebbe l’idea che il subcontratto sia un accollo esterno, rispetto al quale l’adesione del terzo sarebbe requisito o presupposto di efficacia.

LA RAPPRESENTANZA

1. Delimitazione.

Non sempre un soggetto è in grado di manifestare di persona la propria volontà perché impedito da malattia o perché assente. Altre volte la complessità dell’attività svolta, in specie se a carattere imprenditoriale, obbliga a delegare a persona di fiducia talune iniziative o decisioni. In questi casi, dunque, si assiste alla sostituzione di fronte ai terzi di un soggetto (rappresentante) nell’attività giuridica di altro soggetto (rappresentato o dominus).

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Rispetto alle altre ipotesi di sostituzione previste dalla legge (si pensi ad esempio all’ipotesi di azione surrogatoria) la rappresentanza presenta una caratteristica del tutto peculiare, perché il rappresentante dichiara di agire in nome e per conto del rappresentato, restando estraneo, nei rapporti con il terzo, all’affare e non assumendo la veste di parte. L’altruità dell’interesse è qualificante.

La rappresentanza è caratterizzata da un incarico attribuito dal rappresentato al rappresentante in vista della gestione, da parte di costui, degli interessi del rappresentato stesso.

Talvolta la gestione dell’attività, pur avvenendo sempre nell’interesse altrui, è condottai n nome proprio. Il sostituto, infatti, non dichiara di agire in nome altrui e quindi l’altruità dell’interesse non appare immediatamente all’esterno. Si parla in tal caso di rappresentanza indiretta, mentre la rappresentanza diretta coinciderebbe con l’ipotesi di attività compiuta in nome e per conte del sostituito. Nella rappresentanza indiretta gli effetti degli atti conclusi dal rappresentante indiretto si producono nel suo stesso patrimonio con obbligo di trasferimento in favore del rappresentato, nell’interesse del quale l’attività è stata gestita. La modificazione patrimoniale non è dunque immediata ma mediata e quindi indiretta.

Il rapporto che si instaura con il terzo non può essere imputato al diretto interessato a prescindere dalla spendita del suo nome. Dalla diretta imputazione discende che gli effetti degli atti compiuti dal rappresentante incideranno in via altrettanto diretta nel patrimonio del rappresentato (art. 1388). A tal fine è però necessario che il rappresentante sia legittimato ad agire in nome altrui o che comunque ne abbia il potere o ne sia autorizzato.

Dal punto di vista del rappresentato è di certo necessaria un’autorizzazione, senza la quale la spendita del nome sarebbe illecita. Dal punto di vista del rappresentante questa autorizzazione si risolve nell’attribuzione del potere di spendere il nome altrui di fronte ai terzi, cioè in un potere d’agire. Dal punto di vista del terzo, infine, l’autorizzazione fonda la legittimazione del rappresentante in via sostitutiva. Lo stesso fenomeno, riguardato da diversi punti di vista, costituisce dunque un’autorizzazione, un potere d’agire, una legittimazione sostitutiva.

La vicenda rappresentativa presuppone che il rappresentato attribuisca volontariamente al rappresentante il potere di spendere il nome. L’art. 1387 in verità sembra prescindere da questo presupposto nel momento in cui traccia un quadro unitario affermando che il potere di rappresentanza è conferito dalla legge ovvero dall’interessato. Non si dubita più tuttavia che la c.d. rappresentanza legale costituisca un fenomeno a sé stante del tutto distinto dalla rappresentanza volontaria, sebbene ad essa in qualche modo analogo. La rappresentanza legale oltretutto è istituto posto a tutela di interessi generali e superindividuali. La tecnica della sostituzione nell’attività è utilizzata dalla legge in via strumentale quando si è in presenza di situazioni in cui il soggetto non è in grado di gestire da sé i propri interessi. Tipico il caso del minore di età, o più in generale dell’incapace d’agire che deve essere sostituito dai genitori esercenti la potestà. La rappresentanza in tale eventualità è regolata da una propria autonoma disciplina, tanto è vero che si ritiene che, ad esempio, l’espressa spendita del nome, essenziale ex art. 1388, sia invece necessaria.

Eguali considerazioni possono farsi per quanto riguarda la c.d. rappresentanza organica, là dove non è ravvisabile scissione tra ente e persona che agisce a suo nome. L’ente infatti non è in grado, di per sé, di manifestare la propria volontà che invece è manifestata da colui il quale di volta in volta ricopre l’ufficio di organo rappresentativo.

In linea di principio quando l’atto non deve essere compiuto, per sua intrinseca natura, dall’interessato, la rappresentanza è sempre ammessa. Può dirsi anzi che un’eventuale esclusione dell’agire rappresentativo deve essere espressamente accettata, perché il potere di sostituire altri a sé è una delle libertà di cui gode il soggetto in materia contrattuale. Così, ad esempio, il divieto di delegare il voto in assemblea deve essere introdotto con delibera collegiale presa a maggioranza.

L’unica eccezione è costituita dai c.d. atti personalissimi quali il testamento e la sua revoca, il matrimonio e più in generale gli atti di diritto familiare.

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Si discute se sia possibile farsi rappresentare per il compimento di atti non negoziali. La risposta negativa è basata sul fatto che il rappresentante, dovendo manifestare la volontà altrui con conseguente produzione di effetti voluti dal rappresentato, non potrà che concludere negozi giuridici. In senso contrario si obietta però che il fenomeno della rappresentanza si caratterizza per la scissione tra autore dell’atto e soggetto nel cui patrimonio incidono gli effetti, a prescindere dalla natura di questi, cosicché ben può il rappresentante compiere atti giuridici in senso stretto in nome e per conto del rappresentato, quali diffide, pagamenti, notificazioni e partecipazione, atti cioè dichiarativi, essendo al centro dell’istituto la c.d. spendita del nome.

Discussa è anche la possibilità di farsi rappresentare nel compimento di atti non dichiarativi, cioè materiali o reali. Le c.d. operazioni possono infatti essere riferite, quanto agli effetti, a soggetti diversi dall’autore, ma in tal caso non può configurarsi un’ipotesi di rappresentanza in senso tecnico perché manca la possibilità di spendere il nome altrui per assenza di dichiarazione. Si potrà parlare, all’occorrenza, di generica sostituzione o di gestione sostitutiva.

Altrettanto discussa è la possibilità di conferire un potere di rappresentanza meramente passivo, avente ad oggetto la ricezione di atti o di prestazioni da parte di terzi. In senso positivo si è richiamato l’art. 1188 secondo cui il rappresentante del creditore è legittimato a ricevere il pagamento; può però dubitarsi della possibilità di attribuire un potere che si sostanzia in una mera ricezione ai sensi degli artt. 1334 e 1335. Probabilmente il limite entro il quale la rappresentanza passiva opera può essere individuato con riguardo alle ipotesi normative previste dagli artt. 1913 e 2212, da cui emerge che l’agente che ha concluso il contratto di assicurazione e il commesso relativamente agli affari gestiti, sono titolari anche del potere di ricezione in nome e nell’interesse rispettivamente dell’assicuratore e dell’imprenditore. Più in generale, dunque, può sicuramente dirsi che la rappresentanza (attiva) contempla anche quella passiva, perché il rappresentante che può compiere determinati atti non può non essere legittimato anche a ricevere i correlativi atti del terzo.

Tale potere può invece sussistere in caso di rappresentanza a fini processuale, per la ricezione, cioè, di atti notificati da ufficiale giudiziario. In tale materia, infatti, sussiste una precisa esigenza che impone una disciplina del tutto peculiare. Sul piano processuale la rappresentanza può anche essere attribuita a fini non meramente di ricezione di atti. Si parla al riguardo di rappresentanza sostanziale nel processo, che attribuisce il potere di convenire o di essere convenuti in giudizio.

Questa rappresentanza attiene alla gestione del diritto sul piano del processo ed è quindi diversa dalla rappresentanza processuale vera e propria che riguarda l’incarico di difesa affidato al legale. La parte infatti può stare in giudizio in proprio o tramite rappresentante (sostanziale) ma non può (tranne in rare eccezioni) difendersi da sola. Pertanto se un soggetto che risiede in America deve iniziare un giudizio in Italia ma non vuole seguire di persona la vicenda, può nominare un proprio procuratore (sostanziale) per iniziare il giudizio e compiere tutti i successivi atti a contenuto sostanziale necessari o utili all’uopo ma deve anche nominare un rappresentante processuale nella persona di un procuratore legale, il quale compirà tutti gli atti di carattere processuale (atti istruttori, notifiche, difese scritte ed orali).

2. Il potere rappresentativo.

La rappresentanza presuppone dunque il potere di spendere il nome (c.d. contemplatio domini) essendo tale solo quella diretta. Il potere di spendita comprende non solamente la facoltà di dichiarare che il c.d. negozio rappresentativo è compiuto a nome del rappresentato ma anche quella di formare la volontà negoziale, eventualmente secondo le direttive ricevute dall’interessato.

Va chiarito che il rappresentante ha la facoltà di spende il nome altrui e non ne è obbligato.

Egli è infatti titolare di una potestà che è una situazione giuridica soggettiva attiva e non già passiva. È ben vero che nell’ambito della potestà a fianco al potere si ravvisa un dovere, ma è anche vero che tale dovere attiene al modo in cui il potere va esercitato, trattandosi di un potere non già libero, essendo altrui l’interesse gestito. Di qui la rilevanza delle situazioni di conflitto di interesse.

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Non può parlarsi di rappresentanza là dove il soggetto non manifesta una volontà ma si limita a trasmettere quella del soggetto interessato. Chi si limita a trasmettere è un mero nuncius o messo, che non assume alcuna iniziativa e non partecipa in alcun modo alla formazione della volontà la quale non è infatti dichiarata ma trasmessa. Nuncius è, ad esempio, chi deferisce o rende un giuramento ovvero chi rende una confessione a nome di altra persona. Da questa profonda e determinante differenza deriva che il nuncius sul piano oggettivo e nel campo delle dichiarazioni incontra minori limiti rispetto al rappresentante tanto ciò vero che egli può anche trasmettere la volontà del nubendo di contrarre matrimonio. Sul piano disciplinare, poi, i problemi sollevati dalla erronea o infedele trasmissione della volontà del soggetto sono risolti dall’art. 1433 e non già dall’art. 1398.

Il potere del rappresentante è un potere di secondo grado. Egli, cioè, esercita un potere che gli deriva dal rappresentato. Poiché dunque il rappresentante spendendo il nome altrui esercita anche l’altrui autonomia privata ci si può chiedere se per avventura tale esercizio non spogli l’interessato del correlativo potere di agire. La risposta è evidentemente negativa perché il potere del rappresentante è un potere derivato. Egli ha una legittimazione di secondo grado, che non assorbe né rende superflua l’originaria posizione del rappresentato, il quale può dunque sempre agire personalmente in forza della propria legittimazione primaria, revocando così tacitamente la procura.

Il rappresentante piuttosto non può a sua volta liberamente cedere il suo potere, ma non già perché, secondo l’antico brocardo, delegatus delegare non potest, quanto piuttosto perché con tutta evidenza il potere è attribuito intuitus personae. Di conseguenza il rappresentato può anche autorizzare il rappresentante a delegare in tutto o in parte i propri poteri a terzi. La pratica conosce infatti di frequente la c.d. subprocura.

3. La procura.

Il rappresentato attribuisce il potere al rappresentante mediante il negozio di procura. Si tratta di un negozio unilaterale a carattere latamente autorizzatorio, che non ha effetto se non riveste le forme prescritte per il negozio che il rappresentante deve concludere 8art. 1392) (forma per relationem).

La procura può anche essere rilasciata, se la forma è libera, in base a comportamenti concludenti purché imputabili ed effettivamente tenuti dal rappresentato. È quindi estranea a questa ipotesi la c.d. procura apparente, che si configura quando il rappresentato (apparente) ha ingenerato nei terzi, mediante un comportamento colpevole, la convinzione che costui rappresenti un determinato soggetto; gli effetti degli atti compiuti dal rappresentante apparente si producono nel patrimonio del rappresentato apparente secondo le ordinarie regole della rappresentanza diretta. Ovviamente, ciò è vero a condizione che la procura non pretenda la forma scritta, in assenza della quale sarebbe irrilevante qualsivoglia affidamento ingenerato nel terzo. Nel caso di procura apparente il rappresentato apparente risponde dell’operato del rappresentante apparente ma egli risponde a titolo di responsabilità per l’affidamento ingenerato nei terzi e non già per il fatto che esiste una procura, che in realtà non è mai esistita nemmeno in forma tacita.

L’unilateralità del negozio di procura si giustifica perché l’effetto consiste nell’attribuzione al rappresentante di un potere e cioè di una situazione attiva che costui potrà esercitare o non esercitare risolvendosi il potere stesso, sotto questo aspetto, in una facoltà.

Si può discutere in ordine alla recettizietà del negozio. Chi nega tale carattere osserva che il rappresentante non ha necessità di essere tutelato e che la conoscenza della procura non è indispensabile alla produzione dell’effetto, cosicché se un soggetto spende il nome altrui pur ritenendo di non aver ancora ricevuto la procura, gli effetti si produrranno direttamente e immediatamente nel patrimonio del rappresentato se la procura era già stata rilasciata al momento della conclusione del negozio. L’opinione prevalente è tuttavia nel senso della recettizietà, secondo la giurisprudenza e la dottrina dominante, nei confronti del rappresentante, secondo altri nei confronti del terzo, fermo restando che la comunicazione a costui può essere effettuata, anziché dal rappresentato, dal rappresentante stesso ma in qualità di nuncius, tacitamente investito di questo compito con rilascio della procura.

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La procura può essere speciale o generale. Quella speciale attribuisce al rappresentante esclusivamente il potere di compiere l’atto specificamente previsto. Nel caso di procura generale, invece, il rappresentante può anche diventare una sorta di alter ego del rappresentato, nel senso di avere il potere di compiere in nome e per conto di costui qualsivoglia atto al di fuori di quelli personalissimi.

Se il rappresentato neghi di aver mai rilasciato la procura, spetterà al terzo (il quale intenda viceversa avvalersi dell’efficacia immediata e diretta dell’atto), offrirne la prova. Tale prova, in caso di procura a forma libera, potrà essere raggiunta anche per presunzioni. In ogni caso il terzo può sempre esigere che il rappresentante giustifichi i suoi poteri e, se la rappresentanza risulta da un atto scritto, che gliene dia una copia da lui firmata (art. 1393). Si tratta di una mera facoltà del terzo e non già di un suo onere, tanto ciò vero che in caso di mancata richiesta, egli, da un lato, non può essere considerato in colpa ai fini di cui all’art. 1398, salvo che avesse motivo di dubitare dei poteri e, dall’altro, potrà sempre invocare, se ne ricorrono gli estremi, l’esistenza di una procura apparente.

Il rappresentante non è obbligato a gestire l’affare in nome e per conto del rappresentato, il quale, dunque, non ha alcuna garanzia al riguardo. Se un soggetto attribuisce ad un altro mediante procura l’incarico di vendere la casa potrà pertanto anche rischiare che essa non sia mai venduta, qualora il procuratore preferisca occuparsi di altri affari. Per ovviare a questo inconveniente e vincolare il rappresentante, il dominus deve pertanto stipulare un contratto in base al quale la gestione dell’affare in nome e per conto diviene obbligatoria. Di regola questo contratto è un mandato, mediante il quale una parte si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto dell’altra (art. 1703), ma può anche essere un rapporto di lavoro dipendente o autonomo o un rapporto societario ovvero una preposizione institoria (art. 2203). Ad un rapporto esterno costituito dalla procura si somma allora un rapporto interno costituito dal contratto. La procura attribuisce il potere di spendere il nome e fona la relativa legittimazione di fronte a terzi. Il contratto obbliga il rappresentante a gestire l’affare, concludendo il negozio rappresentativo. Se procura e contratto di regola convivono può però ipotizzarsi non solo una procura senza contratto ma, ancor più spesso, un contratto senza procura. Tipico il caso del mandato, che può essere con rappresentanza, cioè con rilascio di procura, o senza rappresentanza, cioè senza potere di spendere il nome (artt. 1704-1705).

Dottrina minoritaria ritiene che il rappresentante sarebbe obbligato a concludere l’affare perché la stessa procura si configurerebbe come un contratto oppure come un negozio unilaterale, ma sospensivamente condizionato alla positiva risposta del rappresentante e quindi alla sua volontà di assumere l’obbligo di gestire. Senonché ove la risposta del rappresentante dovesse essere espressa, vi sarebbe mandato, mentre nel silenzio, non potrebbe nascere un obbligo, ostandovi l’art. 1333. La tesi è dunque inaccettabile.

Talvolta si qualifica la procura come negozio astratto in quanto indipendente dall’eventuale rapporto interno. L’osservazione è senza dubbio corretta, ma perfettamente superflua in quanto non concludente perché l’astrattezza o la causalità della procura va desunta da un’analisi del negozio in sé e per sé considerato. Da questo punto di vista può dunque dirsi che la procura ha una propria, autonoma funzione che è quella di attribuire il potere di spendere il nome altrui, in tal modo attuando il preciso interesse dell’autore dell’atto a farsi sostituire nella gestione dell’affare. Deve peraltro tenersi presente l’esistenza di un collegamento negoziale c.d. necessario, per cui l’illiceità del negozio che il rappresentante deve compiere non può non comportare l’illiceità della procura.

L’atto di revoca o di modificazione è recettizio nei confronti del rappresentante ma non dei terzi, che di regola sono indeterminati. Le modificazioni e la revoca della procura devono essere portate a conoscenza dei terzi con mezzi idonei. In mancanza esse non sono opponibili ai terzi se non si prova che costoro le conoscevano al momento della conclusione del contratto (art. 1396). La giurisprudenza ammette la pubblicità c.d. di fatto, equiparando l’avvenuto adempimento da parte del rappresentato dell’onere di pubblicizzare l’atto di revoca o di modificazione, alla effettiva conoscenza che il terzo ne abbia avuto al momento della conclusione del contratto. In ogni caso la prova della conoscibilità o dell’effettiva conoscenza è a carico del rappresentato.

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È opinione comune che le norme che regolano il mandato irrevocabile (artt. 1723 e 1726) siano estensibili alla procura, la quale dunque non potrebbe essere revocata se attribuita nell’interesse anche del rappresentante o di terzi ovvero se collettiva.

Il rappresentato non ha l’onere di rendere pubbliche le cause di estinzione diverse dalla revoca, ma esse non sono opponibili a terzi che le hanno senza colpa ignorate (art. 1396, 2° comma), cosicché il rappresentato dovrà comunque provare le circostanze che escludono l’apparenza e quindi l’affidamento dei terzi stessi. Tali ulteriori cause sono la scadenza del termine, la morte del rappresentante o del rappresentato, la sopravvenuta incapacità o fallimento di costui, l’esaurimento dell’affare e la rinunzia del rappresentante. Il rappresentante è tenuto a restituire il documento dal quale risultano i suoi poteri quando questi sono cessati.

Il rappresentato deve avere la capacità di agire non solo sotto il profilo dell’attribuzione del potere di spendita del nome, ma, prima ancora, per il fatto di subire le conseguenze dell’attività di gestione. Per lo stesso motivo, per la validità del contratto concluso dal rappresentante è necessario che il contratto non sia vietato al rappresentato (art. 1389, 2° comma).

Il rappresentante, invece, non deve essere necessariamente capace d’agire, perché gli effetti dell’atto non si ripercuotono nel suo patrimonio. Egli tuttavia in quanto parte formale dell’atto deve essere consapevole del significato di ciò che dichiara e quindi deve essere capace di intendere e di volere. L’incapacità naturale del rappresentante comporterà pertanto l’annullabilità del negozio in applicazione dell’art. 428.

La scissione fra parte formale e parte sostanziale dell’atto è anche alla base della disciplina dei vizi della volontà e degli stati soggettivi rilevanti. In linea di principio, infatti, ciò che attiene al momento psicologico dell’atto va valutato con riferimento alla persona del rappresentante mentre con riguardo alla persona del dominus deve essere considerato il profilo dell’interesse sostanziale. In base a questa ripartizione il negozio rappresentativo è annullabile se è viziata la volontà del rappresentante. Quando però il vizio riguarda elementi predeterminati dal rappresentato esso è annullabile solo se era viziata la volontà di costui (art. 1390).

In tal modo si distingue correttamente la posizione del rappresentante da quella del nuncius. Poiché quest’ultimo si limita a trasmettere la volontà altrui è ovvio che a quest’ultima debba aversi riguardo ai fini dei relativi vizi. C’è da dire che uno stesso soggetto può sommare in sé la veste di rappresentante e di nuncius quando a predeterminazione riguarda solo taluni aspetti del negozio. In tal caso il terzo può non essere in grado di distinguere se il soggetto agisca in una veste o nell’altra, almeno quando la procura non è scritta. La dottrina, in base al principio dell’affidamento, ritiene allora che il vizio della volontà del rappresentato non può essere opposto al terzo che non era a conoscenza della predisposizione.

Quando è rilevante lo stato di buona o di mala fede, di scienza o di ignoranza di determinate circostanza (ad es. conoscenza dell’insolvenza del terzo), si ha riguardo alla persona del rappresentante, salvo anche che in tal caso si tratti di elementi predeterminati dal rappresentato (art. 1391). Dello stato di ignoranza o di buona fede del rappresentante non può però giovarsi il rappresentato che è in mala fede (art. 1391, 2° comma), pur se tale mala fede sia intervenuta dopo il conferimento della procura.

Quanto all’incapacità naturale o ai vizi della volontà nei quali sia incorso il rappresentato con riguardo allo stesso conferimento della procura, non può pensarsi che costui possa richiederne l’annullamento, cosicché al negozio rappresentativo concluso dal rappresentante, in realtà senza potere, dovrebbe applicarsi la disciplina del falsus procurator. Il problema sussiste infatti solo quando sia intervenuta la spendita del nome, potendo altrimenti il rappresentato, piuttosto che chiederne l’annullamento, revocare la procura una volta venuto meno lo stato di incapacità o il vizio. L’impugnativa riguarderà allora il negozio rappresentativo e si rivolgerà pertanto contro il terzo, il cui affidamento è tutelato secondo le ordinarie regole e così, ad esempio, in caso di riconoscibilità dell’errore ovvero di mala fede o grave pregiudizio in caso di incapacità naturale, a seconda dunque della bilateralità o unilateralità del negozio rappresentativo concluso e del suo carattere recettizio o non recettizio. Poiché era in grado di conoscere il vizio, il terzo infine non è mai tutelato se la procura è rilasciata da un incapace legale. Egualmente è a dirsi, ovviamente, in caso di vizio di forma.

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4. L’abuso di potere.

Il potere di spendita del nome è limitato al proprio interno da dovere di usare tale potere nell’interesse altrui. Se ciò non avviene, se cioè il rappresentante persegue, anziché l’interesse del rappresentato, quello proprio o di un terzo è configurabile l’ipotesi di abuso di potere. Non vi è però abuso se il rappresentante conclude un cattivo affare per inesperienza, negligenza o imperizia senza voler favorire se stesso o terzi. In tal caso, infatti, il rappresentato deve solo subire le conseguenze della cattiva scelta della persona del rappresentante.

Per configurare l’abuso è necessario che il rappresentante persegua l’interesse proprio o di un terzo in via esclusiva, potendo invece concorrere o convergere l’interesse proprio o di un terzo con quello del dominus. Non è necessario che sia provato un danno.

L’abuso sussiste dunque se c’è un conflitto di interessi, che la legge sanziona con l’annullabilità del contratto su domanda del rappresentato, se il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo (art. 1394), a prescindere dalla prova di un eventuale vantaggio del rappresentante o del terzo, purché sia dimostrato il danno. Non vi è conflitto quando il contratto è atto dovuto, perché di adempimento di un preliminare.

Si discute in ordine alla natura del vizio che colpisce l’atto compiuto abusando del potere. Potrebbe parlarsi di vizio della causa della procura, perché il perseguimento dell’interesse del dominus ne costituisce l’essenza stessa sul piano funzionale. Più plausibilmente, attesa la difficoltà di ipotizzare un vizio sopravvenuto della causa, dovrebbe ravvisarsi nell’abuso un vizio che attiene al profilo di legittimazione dell’esercizio del potere di fronte a terzi.

In caso di collusione (intesa clandestina tra due o più parti per conseguire un fine illecito, mediante il tradimento della fiducia o l’eluzione dell’attività legittima di terzi) tra rappresentante e terzo contraente, costui potrebbe essere chiamato a risarcire il danno da illecito extracontrattuale in base all’art. 2043, ma la questione è discussa in quanto si obietta che la sanzione dell’annullabilità costituisce sufficiente tutela per il rappresentato. Costui inoltre potrà sempre agire nei confronti del rappresentante per il risarcimento del danno contrattuale in base al rapporto interno che, di regola, le parti stipulano parallelamente al negozio di procura.

La prescrizione dell’azione di annullamento secondo un’opinione isolata inizia a decorrere dal momento in cui il dominus viene a conoscenza della conclusione e dei termini del contratto, in analogia con quanto disposto dall’art. 1442, 2° comma, ma in realtà non si ravvisa quella identità di ratio che permette tale estensione. Sarà dunque applicabile la regola generale di cui all’art. 1442, 3°comma (quindi dal giorno della conclusione del contratto).

L’art. 1395 regola un’ipotesi particolare di conflitto di interessi: quella in cui il rappresentante conclude il contratto con se stesso, in proprio o come rappresentante di un’altra parte (c.d. doppia rappresentanza). Anche in tal caso il contratto è annullabile nel quinquennio ad iniziativa del rappresentato a meno che costui abbia specificamente autorizzato ovvero il contenuto del contratto sia determinato in modo tale da escludere la possibilità di un conflitto di interessi (ad es. acquisto della merce da parte del commesso al prezzo fissato per il pubblico). Ogniqualvolta il rappresentante contrae con sé stesso si ravvisa pertanto una presunzione iuris tantum di conflitto, che può essere vinta da una delle due circostanze tassativamente e alternativamente indicate dalla norma.

5. Il difetto di potere.

Diversa dall’abuso è l’ipotesi di eccesso o difetto del potere rappresentativo, che si configura quando chi contrae spende bensì il nome ma non ha poteri, per assenza di procura ovvero perché l’attività svolta eccede i limiti delle facoltà conferitegli (c.d. falsus procurator). In tal caso il contratto concluso non potrà produrre effetti per il (falso) rappresentato (salvo procura apparente) ma non potrà nemmeno produrre effetti per il falsus procurator, perché costui ha dichiarato di agire in nome altrui e non a proprio nome.

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Parte della dottrina ritiene che il contratto sia nullo secondo quanto potrebbe desumersi dall’art. 1398. Infatti tale norma non attribuisce alcuna azione giudiziale al falso rappresentato, da ciò bisognerebbe desumersi la possibilità di agire per far dichiarare l’irrilevanza, e quindi la nullità, dell’atto ad iniziativa di qualsivoglia interessato e senza limiti temporali.

In realtà si tratta di inefficacia nei confronti del falso rappresentato perché il contratto, di per sé, è perfetto e il vizio è esterno incidendo esso sulla legittimazione, che non sussiste al momento della conclusione del contratto ma può sopravvenire in seguito a ratifica (art. 1399), la quale opera dunque alla stregua di una condicio iuris.

In giurisprudenza si ritiene anche che il contratto non sia invalido e nemmeno inefficace ma solo in via di formazione, sia in attesa, cioè, della ratifica ad opera del falso rappresentato.

La funzione della ratifica dunque è assai discussa, in relazione alle varie e possibili impostazioni di fondo. Sul piano strutturale si tratta certamente di un negozio unilaterale recettizio, indirizzato al terzo contraente e non al falsus procurator. Sul piano funzionale può dirsi che con la ratifica lo pseudo-rappresentato dichiara la propria volontà di assumere la posizione di parte del contratto e quindi di far propri i relativi effetti che di conseguenza si producono. In sostanza, secondo l’impostazione più lineare, la ratifica è un negozio di legittimazione successiva che opera come una sorta di procura a posteriori, tanto ciò vero che, come la procura, deve rivestire la stessa forma dell’atto ratificato (forma per relationem).

Inoltre se il contratto fosse nullo sia il terzo contraente, sia il falsus procurator, potrebbero recedere unilateralmente senza dover attendere la mancata ratifica dello pseudo-rappresentato. Al contrario l’art. 1399, 3° comma, statuisce che essi possono bensì sciogliere il contratto prima della ratifica, ma solo di comune accordo.

Il contratto dunque non è irrilevante in assoluto se il suo scioglimento consegue solo ad un accordo tra falsus procurator e terzo ovvero alla mancata ratifica. Del resto proprio al fine di non tener legato il terzo indefinitivamente, l’art. 1399, 4° comma, prevede che costui possa invitare l’interessato a pronunziarsi sulla ratifica assegnandogli un termine, scaduto il quale, nel silenzio, la ratifica si intende negata.

La ratifica opera retroattivamente ma sono salvi i diritti dei terzi. Per i beni mobili: possesso vale titolo. Per i beni immobili, in caso di alienazione dello stesso bene da parte sia del falsus procurator che dello pseudo-rappresentato, chi acquista da costui prevarrà se avrà trascritto prima della trascrizione della ratifica.

Se il contratto non è ratificato. Il terzo nulla potrà pretendere dal falso rappresentato. Potrà perciò richiedere al falsus procurator il risarcimento del danno sofferto per aver confidato, senza colpa, nella validità del contratto (art. 1398). Secondo la regola generale la colpa si misura in termini di diligenza.

Il falsus procurator risponde però anche in caso di avvenuta ratifica ove il danno si sia già verificato a causa del ritardo nel perfezionamento del contratto.

La responsabilità del falsus procurator nei confronti del terzo ha natura precontrattuale (ovvero, secondo la giurisprudenza, extracontrattuale) cosicché il danno risarcibile sarà limitato all’interesse negativo.

Solo eccezionalmente la legge stabilisce che, in caso di rifiuto di ratifica, gli effetti si producono a titolo di sanzione nel patrimonio del falsus procurator. Così in caso di cambiale, assegno e assicurazione in nome altrui (art. 1890).

Infine, quanto all’ambito di applicazione, la disciplina della rappresentanza senza potere si applica ex art. 1324 anche agli atti unilaterali. Potrebbe però obiettarsi che mentre è giusto che il terzo che contrae senza verificare i poteri ne subisca le conseguenze, altrettanto non potrebbe dirsi per il destinatario dell’atto unilaterale, al quale costui è estraneo. Potrebbe però invocarsi l’art. 1393, esteso ex art. 1324, per attribuire al destinatario un potere di rifiuto dell’atto stesso in difetto di prova dei poteri rappresentativi.

6. Il contratto per conto di chi spetta.

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Il codice civile conosce ipotesi di rappresentanza c.d. in incertam personam. In particolare è tale il c.d. contratto per conto di chi spetta che è concluso da un soggetto nell’interesse di altro soggetto di cui, al momento, si ignora l’identità.

Ad esempio i casi del curatore dell’eredità giacente (art. 528) e di chiamato all’eredità, autorizzato dall’autorità giudiziari ad alienare i beni (art. 460). In entrambe queste eventualità gli effetti degli atti si ripercuoteranno infatti nel patrimonio dell’erede, di cui si ignora, al momento in cui gli atti stessi sono compiuti, l’identità.

Chi agisce per conto di chi spetta resta del tutto estraneo all’atto, non stipulando per sé. È egli dunque non è mai parte in senso sostanziale.

Per questo motivo rientra invece nell’ipotesi di contratto a favore di terzo con beneficiario indeterminato l’assicurazione per conto di chi spetta (art. 1891). Lo stipulante, infatti, deve adempiere gli obblighi derivanti dal contratto, con la sola eccezione di quelli che per loro natura non possono essere adempiuti che dall’assicurato. Non è peraltro applicabile l’art. 1411, 3° comma.

Non rientra in questa figura nemmeno il contratto per persona da nominare, perché la nomina è eventuale e comunque la individuazione della persona dipende dallo stipulante e cioè da una scelta soggettiva e non già da un fatto oggettivo, come nel caso di contratto per conto di chi spetta.

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IL CONTRATTO PER PERSONA DA NOMINARE

1. Origini e funzione.

Al momento della conclusione del contratto una parte, detta stipulante, può riservarsi la facoltà di nominare successivamente la persona che deve acquistare i diritti e assumere gli obblighi nascenti dal contratto stipulato con l’altra parte, detta promittente (art. 1401). In difetto di nomina gli effetti si producono tra i contraenti originari (art. 1405) e cioè tra promittente e stipulante.

La nomina è sempre libera per lo stipulante, mentre il terzo designato può trovarsi in condizione di non poter rifiutare la nomina stessa. Ciò avviene in particolare quando egli abbia preventivamente autorizzato lo stipulante a nominarlo. La legge parla al riguardo di procura ma si è al di fuori dell’ipotesi di rappresentanza.

Dal punto di vista storico l’istituto nasce come risposta ad una precisa esigenza pratica: le persone di un certo rango sociale non desideravano apparire acquirenti alle vendite all’asta e fu così elaborato (all’epoca del diritto comune) uno strumento che affidava alla nomina ad opera dello stipulante, successiva all’acquisto, l’individuazione della persona del definitivo contraente, realizzandosi, peraltro, dal punto di vista giuridico, un unico trasferimento. Tale strumento si rivelò ben presto ottimo mezzo di evasione fiscale, perché, prolungando i tempi della nomina, per suo tramite si poteva realizzare un vero e proprio doppio trasferimento sul piano commerciale, soggetto tuttavia al pagamento di un’unica imposta. Per questo motivo la legislazione impose la fissazione di un termine brevissimo per sciogliere la riserva, trascorso il quale l’eventuale nomina equivaleva a nuovo trasferimento.

Il codice civile del 1942 ha disciplinato l’istituto ma la norma che lascia ai privati la facoltà di fissare un termine convenzionale derogatorio dei tre giorni di legge (art. 1402) è del tutto platonica e marginale, perché a fronte ai vantaggi di un termine di nomina anche lungo, stanno gli svantaggi di vedersi tassare doppiamente l’atto, trascorsi solo tre giorni.

2. La natura giuridica.

Il contratto per persona da nominare non è un tipo contrattuale a sé stante: la compravendita per persona da nominare, ad esempio, in nulla differisce, quanto al tipo, rispetto alla compravendita senza clausola di riserva di nomina. Esso però presenta uno speciale modo di atteggiarsi sotto il profilo dell’individuazione di una delle due parti. Il contratto, infatti, nasce ambiguo sul piano soggettivo perché fino alla scadenza del termine utile per la nomina non si sa chi acquisterà i diritti e assumerà gli obblighi derivanti dal contratto.

Il problema centrale è dunque quello di spiegare tale ambiguità soggettiva. Varie teorie sono state elaborate ma tutte, per un verso o per l’altro, appaiono insoddisfacenti.

Così non appare possibile parlare di surrogazione legale, quasi che lo stipulante, con la designazione, operasse un recesso unilaterale e il terzo subentrasse per effetto della legge: oltre ad ostarvi l’efficacia ex tunc della dichiarazione (art. 1404) è palese che l’atto di nomina e non la legge costituisce la fonte dell’imputazione.

Parlare di fattispecie complessa o a formazione progressiva, che verrebbe ad esistenza con la nomina, non spiega come mai la fattispecie sia già completa al momento dell’accordo, tanto da impegnare lo stipulante, qualora egli non proceda alla nomina (art. 1405).

Né meno errata è la teoria condizionale secondo cui l’atto di designazione fungerebbe da condizione risolutiva dell’acquisto dello stipulante e da condizione sospensiva dell’acquisto del terzo. Non solo infatti si riduce a mero elemento accidentale quel che costituisce una vera e propria clausola essenziale del contratto, non solo si ipotizza che uno stesso evento possa simultaneamente operare in direzioni opposte, ma si dimentica che la condizione rende incerta la situazione effettuale e non già quella soggettiva.

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La teoria più accreditata è quella secondo cui lo stipulante sarebbe rappresentante in incertam personam del designando, il quale, in caso di difetto di preventiva procura ai sensi dell’art. 1402, 2° comma, opererà con l’accettazione una vera e propria ratifica. In senso contrario può però osservarsi che lo stipulante è, all’origine, parte del rapporto a differenza del rappresentante.

Diverso è anche il contratto per conto di chi spetta, in base al quale la individuazione del soggetto che sarà parte sostanziale del rapporto non dipende dall’esercizio del potere di nomina ma da circostanze oggettive come, ad esempio, l’esito della lite nel caso previsto dall’art. 1513, 2° comma, ovvero l’accettazione dell’eredità in caso di vendita ex art. 529 da parte del curatore dell’eredità giacente per conto del futuro erede.

Deve ricordarsi che il contratto per persona da nominare produce immediatamente l’effetto di attribuire allo stipulante il potere di nomina. Orbene, poiché in caso di esercizio di tale potere il designato accetta (se accetta) un regolamento già predisposto e immodificabile, è necessario affermare che non si può scindere la titolarità del diritto di scelta dalla titolarità del contratto: il primo in capo allo stipulante, il secondo, invece, in capo, alternativamente, allo stipulante o al terzo.

Consegue da ciò che il contratto nasce sempre e solo tra promittente e stipulante ed è esclusa ogni forma di alternatività e dunque di concentrazione soggettiva. Se non vi è alternatività vi è però facoltà alternativa di sostituzione nel rapporto. La clausola di riserva autorizza dunque lo stipulante a modificare il profilo soggettivo del rapporto, mediante sostituzione del terzo designato a sé: gli attribuisce un ius variandi.

Si può operare un accostamento alle vicende che originano dalla cessione del contratto, mediante la quale si opera un subingresso nel rapporto. Le diversità sono peraltro evidenti sia sul piano disciplinare che su quello ricostruttivo. Dal primo punto di vista anche se si vuole prendere in considerazione l’ipotesi di cessione previamente autorizzata, non vi è alcuna analogia disciplinare tra gli artt. 1404 e 1407. Inoltre sono assenti, in caso di riserva di nomina, le reciproche garanzie dovute tra ceduto e cedete e tra questi e il cessionario: lo stipulante, infatti è bensì responsabile in solido per il pagamento dell’imposta di registro, ma non dell’adempimento ad opera del nominato. Sul piano ricostruttivo, poi, il contratto può essere ceduto solo se le prestazioni non sono state eseguite o se sono differite, mentre nel caso di riserva di nomina è esclusa in radice la possibilità di un subingresso (cioè a dire una vicenda circolatoria) perché la produzione defli effetti, ad eccezione del potere di nomina che nasce immediatamente, è sospesa nelle more della designazione e comunque perché la sostituzione opera ex tunc (art. 1404).

La fictio iuris della retroattività è dunque la chiave di volta dell’istituto, permettendo di considerare il nominato non già terzo, ma parte del contratto fin dalla conclusione, onde egli deve esistere fin da questo momento e non può quindi trattarsi di una persona fisica nata o di una società costituita nelle more del procedimento di nomina.

3. Gli effetti.

In pendenza del termine di nomina non si producono dunque effetti per lo stipulante a prescindere da un suo comportamento che possa valere rinunzia alla nomina e quindi autodesignazione.

Per quanto riguarda il promittente non può parlarsi di un semplice vincolo obbligatorio di indisponibilità ma di una vera e propria opponibilità dell’accordo. Le relative regole circolatorie vanno applicate in caso di eventuale successiva alienazione a terzi, i quali prevarranno sullo stipulante o sul designato in base ai principi del possesso vale titolo, in caso di beni mobili, e della trascrizione, in caso di immobili.

È ben vero che sembra impossibile concepire una perdita del diritto di proprietà in capo al promittente cui non corrisponda un acquisto contestuale, ma tale ostacolo è superato, sia pure attraverso una fictio, dalla disposizione di cui all’art. 1404 che elimina il periodo di vacanza nella titolarità e permette dunque di affermare l’immediata perdita del diritto di proprietà in capo al promittente.

Poiché lo stipulante è parte, il contratto è invalido se esso gli è vietato, pur se vietato non fosse per il nominato. Soluzione opposta deriva invece dalla teoria della rappresentanza (art. 1389, 2° comma).

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Un problema sorge per quanto riguarda la legittimazione alle azioni giudiziali volte ad impugnare il contratto. Chi ritiene che il contratto produce effetti immediati anche in capo allo stipulante (teoria della condizione risolutiva) attribuirà anche a costui la legittimazione. Se invece si sottolinea che gli effetti sono sospesi per lo stipulante ma non per il promittente si dovrà dire che quest’ultimo potrà iniziare immediatamente ogni azione avendo come legittimato passivo lo stipulante, il quale viceversa se iniziasse il giudizio prima della nomina decadrebbe dal relativo potere, per aver formulato un giudizio di convenienza che presuppone la titolarità del diritto.

Naturalmente deriva dal principio sancito dall’art. 2935 che prima della nomina o dell’autodesignazione la prescrizione non decorre né per lo stipulante, né tantomeno per il designato, il quale è legittimato sia attivamente che passivamente (in caso di azione iniziata dal promittente) solo dopo la nomina o l’accettazione, cosicché solo da questa data potrà iniziare a decorrere nei suoi confronti il termine di prescrizione.

4. Il potere di nomina.

La scelta potrebbe configurarsi, a seconda delle varie teorie propugnate, come adempimento di un obbligo assunto in sede contrattuale di addivenire alla c.d. concentrazione soggettiva ovvero, più propriamente, come adempimento di un onere, se con ciò si vuole sottolineare che il contratto nasce come destinato a produrre effetti per il designato e solo sussidiariamente per lo stipulante.

La scelta è bensì esercizio di un diritto potestativo, ma il promittente, pur se in soggezione, potrebbe, se del caso, invocare l’art. 1461 (secondo il quale il promittente può sospendere l’esecuzione della prestazione da lui dovuta se le condizioni patrimoniali dell’altro sono divenute tali da porre in evidente pericolo il conseguimento della controprestazione).

Il potere di nomina è trasmissibile mortis causa mentre la trasmissione inter vivos è concepibile solo a seguito di cessione del contratto. La cessione del solo potere di nomina, infatti, si configurerebbe come una delega e gli effetti del mancato esercizio ricadrebbero comunque nella sfera dello stipulante.

5. Il procedimento di nomina.

La dichiarazione di nomina è atto unilaterale dello stipulante, non surrogabile da un accordo con il terzo, di cui può discutersi la negozialità.

Ponendosi la dichiarazione di nomina come presupposto di legittimazione ai fini dell’accettazioni, essa sembra avere natura negoziale, se non altro perché l’electio implica una valutazione di interessi, sia pure sotto il profilo della omissio adquirendi, discendente da una precisa volontà del soggetto, che ha come punto di riferimento non solo l’atto ma anche i suoi effetti. Consegue da ciò che per la validità della nomina si richiede la piena capacità d’agire, mentre, secondo i fautori della teoria della rappresentanza, dovrebbe applicarsi l’art. 1389 e quindi sarebbe sufficiente la capacità di intendere e di volere. La dichiarazione di nomina, inoltre, sarà impugnabile in caso di violenza, errore e dolo. Perplessità sorgono invece per quanto riguarda l’error in persona, perché, trattandosi di una sostituzione, interessato all’identità o alle qualità del designato sarà semmai il promittente e non lo stipulante. Per lo stesso motivo il dolo rileverà in termini di induzione alla nomina più che di scelta di un dato soggetto.

Nel caso di invalidità della dichiarazione gli effetti si produrranno in capo allo stipulante, sempre che il termine stabilito dalla legge o dalle parti sia scaduto (art. 1405), altrimenti lo stipulante potrà procedere ad una nuova nomina.

Il predetto termine convenzionale deve essere certo e non può essere rinnovato prima della sua scadenza. Esso va osservato a pena di decadenza cosicché l’eventuale dichiarazione tardiva, pur se accettata dal promittente, non avrà effetto.

Il termine deve essere osservato per quanto riguarda la comunicazione al promittente, anche con atto di citazione, della dichiarazione di nomina, unitamente, se del caso, dell’accettazione del terzo. La forma della comunicazione è libera e può anche essere orale, pur se scritta doveva essere la forma della dichiarazione.

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La dichiarazione di nomina segue la sorte del contratto anche per quanto riguarda la pubblicità mediante trascrizione (art. 1403, 2° comma).

Ci si è chiesti se la dichiarazione di nomina possa contenere condizioni o termini e si è risposto negativamente, in base alla considerazione che il potere di nomina deriva dal contratto, il quale è immodificabile unilateralmente.

La sequenza perfezionativa del meccanismo di nomina non si realizza sempre istantaneamente ma può anche proiettarsi nel tempo, purché entro il termine fissato dalla legge o dal contratto.

Ciò accade in particolare ogniqualvolta lo stipulante non riceve una preventiva autorizzazione alla nomina e quindi si assiste ad una duplice dichiarazione: da un lato la nomina, dall’altro l’accettazione del designato (art. 1402, 2° comma). Entrambe le dichiarazioni dovranno essere comunicate al promittente ma non di necessità in unico contesto, né ad opera dello stipulante. L’accompagnamento di cui all’art. 1402, 2° comma, va infatti inteso in senso giuridico e non in senso fisico, a sottolineare che senza l’accettazione la dichiarazione di nomina è inefficace.

La negozialità dell’accettazione non è dubbia, comportando essa l’acquisto dei diritti e l’assunzione degli obblighi derivanti dal contratto. Saranno dunque applicabili tutte le norme in materia di capacità, vizi della volontà, stati soggettivi rilevanti, legittimazione.

Lo stipulante potrà sempre revocare la dichiarazione di nomina prima della notifica dell’accettazione e ciò spingerà il terzo ad accelerare i tempi.

Poiché la nomina non è atto recettizio nemmeno nei confronti del terzo, potrà dirsi che lo stipulante può revocare notificando al designato la revoca prima che a costui pervenga la dichiarazione di nomina, secondo lo schema generale previsto dall’art. 1334. Il criterio della priorità della notifica dell’accettazione allo stipulante vale anche a risolvere il conflitto tra più nominati.

L’art. 1403, 2° comma, richiede la trascrizione anche della dichiarazione di nomina, con l’indicazione dell’atto di procura o di accettazione ma tale onere deve essere assolto al solo fine di poter opporre ai terzi aventi causa dal promittente l’acquisto dei diritti e tale possibilità, ovviamente, presuppone che sia stata curata tempestivamente la trascrizione del contratto, senza la quale a nulla varrebbe una trascrizione della mera dichiarazione di nomina pur se precedente a quella dell’acquisto da parte dei terzi.

Problemi non si pongono se lo stipulante nomina la persona che lo ha già preventivamente autorizzato. In tal caso risolvendosi il meccanismo partecipativo nella comunicazione del solo atto di nomina, con menzione dell’autorizzazione, lo stipulante potrà revocare nei limiti in cui la dichiarazione di revoca giunga a conoscenza del promittente prima della nomina, atteso che, in tal caso, la nomina stessa è atto finale e non già procedimentale.

Che anche in tal caso allo stipulante spetti il potere di revoca deriva dal fatto che egli non è obbligato a nominare la persona che lo ha preventivamente autorizzato, dal momento che tala autorizzazione ha efficacia interna e non è opponibile all’esterno, né al promittente, né ad eventuali terzi nominati.

6. L’ambito.

In linea di principio il meccanismo di riserva può essere apposto a qualsivoglia contratto, indipendentemente dagli effetti prodotti, siano essi reali o obbligatori.

Limiti possono sussistere in base a diversi criteri. Ad esempio la fungibilità soggettiva impedisce la nomina in caso di contratti intuitus personae. Parimenti è inoperante tale meccanismo nel caso di contratti di secondo grado o che si riferiscono a beni determinati e a diritti appartenenti ai contraenti originari, ad es. in caso di permuta o di transazione.

Non v’è invece ragione di limitare la possibilità do una riserva ai soli contratti a prestazioni corrispettive ed infatti è ammessa la possibilità di una nomina del terzo da parte dell’opzionario nel caso di contratto di opzione a titolo gratuito.

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Esclusa è però la donazione, perché l’animus donandi non può che riferirsi al donatario.

L’INTERPRETAZIONE

1. L’operazione ermeneutica.

Oggetto dell’interpretazione è la comune intenzione delle parti, che va ricercata al di là di quanto risulti dal senso letterale delle parole (art. 1362). Inoltre, sempre al fine di determinare la comune intenzione, si deve valutare il comportamento complessivo tenuto dalle parti anche dopo la conclusione del contratto (art. 1362, 2° comma).

Innanzitutto è dunque necessario accertare i fatti applicando le regole procedurali e sostanziali in materia di prove. Successivamente tali fatti (documentali o comportamentali) vanno appunto interpretati, nel senso di dare loro il giusto significato (anche alla luce del motivo del contratto, se dedotto in una specifica clausola). Sotto questo secondo aspetto l’interprete deve assumere il dato storico, così come accertato, nello schema giuridico, deve cioè qualificare l’operazione alla luce del nomen iuris. Va precisato che è del tutto irrilevante ciò che le parti hanno al riguardo dichiarato, in quanto spetta al giudice di inquadrare il fatto sul piano del diritto. Così le parti potranno anche aver concluso un contratto dichiarando che esso è una compravendita ma se il giudice accerta che la comuna intenzione delle parti era quella di operare un reciproco trasferimento della proprietà di cose, qualificherà il contratto come contratto di permuta (art. 1552).

Anche se qualcuno ne dubita, non sembra trovare posto nel nostro ordinamento il principio in claris non fit interpretatio . La mera interpretazione letterale, infatti, non può giammai condurre alla certezza, perché non esiste una sola espressione del linguaggio anche comune che non sia suscettibile di interpretazione nel contesto del comportamento tenuto dalle parti ex art. 1362, 2° comma (interpretazione globale) e con riguardo all’intero atto, come del resto pretende l’art. 1363, a mente del quale le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre (interpretazione sistematica).

Portata a termine l’opera di oggettivazione del contratto, quel che conta è ciò che le parti si sono dette, le espressioni che hanno usato, interpretate evolutivamente. Ciò significa che il giudice può interpretare il contratto in modo difforme alle prospettazioni delle parti.

Le norme di interpretazione sono riconosciute come norme di legge ad ogni effetto e non già come regole logiche. Consegue da ciò che l’operazione ermeneutica è ben condotta quando dette regole sono correttamente applicate.

2. I criteri di interpretazione.

Non può dunque dirsi che esista un’interpretazione soggettiva e un’interpretazione oggettiva del contratto. L’interpretazione è infatti sempre e comunque oggettiva sia perché ha come punti di riferimento l’accordo, sia perché è condotta con i criteri fissati in norme di legge. È però vero che tali criteri sono diversi perché alcuni mirano ad accertare in via diretta ed immediata il senso e la portata dell’accordo e quindi l’intenzione delle parti sulla base delle loro dichiarazioni e dei loro comportamenti; altri invece prescindono dall’indagine sulla comune intenzione e mirano a ricostruire il significato dell’operazione economica alla luce di regole esclusivamente normative.

I primi (i criteri soggettivi) sono alla base dell’interpretazione letterale, globale e sistematica (artt. 1362-1363). Sono inoltre criteri soggettivi quelli fissati dall’art. 1364 (secondo cui per quanto generali siano le espressioni usate nel contratto, questo non comprende che gli oggetti sui quali le parti si sono proposte di contrarre) e dall’art. 1365 ( a mente del quale quando in un contratto si è espresso un caso al fine di spiegare un patto, non si presumono esclusi i casi non espressi, ai quali, secondo ragione, può estendersi lo stesso patto, come nel caso di divieto d’uso del nome, che ricomprende in sé anche l’immagine).

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I criteri di interpretazione oggettivi sono previsti dagli artt. 1366-1371 e, secondo l’opinione comune, sono sussidiari rispetto a quelli soggettivi.

Secondo parte della dottrina, la comune intenzione andrebbe invece individuata in base ad una valutazione di buona fede, anche del comportamento complessivo delle parti. Parte della dottrina e la giurisprudenza compatta ritengono che il criterio della buona fede sia, nel caso di specie, un criterio soggettivo di interpretazione, volto a favorire la piena rilevanza del principio di affidamento. Il contratto dunque dovrebbe essere interpretato secondo quanto la controparte aveva diritto di intendere e il dichiarante ha lasciato intendere. È stato però sottolineato, in senso contrario, che oggetto dell’interpretazione non è la dichiarazione ma l’accordo, cosicché, sotto questo aspetto, non esiste una dichiarazione rilevante né, quindi, un destinatario il cui affidamento debba essere tutelato. Inoltre il criterio dell’affidamento si risolve nell’imporre un particolare onere di diligenza, cosicché la buona fede finirebbe per essere degradata a criterio di giudizio sulla colpa.

Nel merito, poi, è ben difficile stabilire in che cosa consista la buona fede interpretativa, fermo restando che si è in presenza di buona fede oggettiva, quella stessa che rileva nelle trattative e nell’esecuzione.

L’interprete, secondo taluni, dovrebbe adeguare l’interpretazione al significato sul quale ciascuna parte poteva contare, cosicché sono da escludere interpretazioni cavillose e formalistiche, contrarie allo spirito dell’intesa.

Regola sicuramente oggettiva è quella che recepisce il principio di conservazione. Nel dubbio (quando cioè non è possibile risalire alla comune intenzione dei contraenti, anche se essa fosse nel senso della inutilità di una clausola) il contratto o le singole clausole si debbono infatti interpretare nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno (art. 1367). Peraltro questa norma non autorizza la conversione di contratti nulli mediante interpretazioni sostitutive della reale intenzione delle parti.

Secondo l’art. 1368, poi, le clausole che restano ambigue pur dopo l’adozione dei prioritari criteri ermeneutici (artt. 1362 ss.), s’interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui il contratto è stato concluso. In tal modo si dà rilevanza ai c.d. usi interpretativi, che, essendo sicuramente negoziali, si distinguono sul piano funzionale dalle clausole d’uso di cui all’art. 1340, così come si distinguono dagli usi normativi di cui all’art. 1374, che sono fonte, sia pure sussidiaria, del diritto.

L’uso, come di regola, va provato nella sua concreta portata da chi intende avvalersene. A tale scopo non è però necessario che le parti ne abbiano fatto menzione nel contratto mentre al fine di escluderne la rilevanza è necessario che le parti abbiano manifestato una volontà contraria alla sua applicazione.

Criterio oggettivo di interpretazione assai poco richiamato nella pratica è quello fissato dall’art. 1369. Le espressioni che possono avere più sensi devono, nel dubbio, essere intese nel senso più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto.

L’art. 1370 prevede poi la c.d. interpretazione contro l’autore della clausola. Di conseguenza le clausole inserite nelle condizioni generali di un contratto o in moduli e formulari predisposti da uno dei contraenti si interpretano, nel dubbio, a favore dell’altro. La ratio della norma è evidente se si ha riguardo al procedimento di formazione, che vede il non predisponente in posizione di debolezza per l’inesistenza di trattative e il predisponente in posizione di forza anche perché egli può scegliere le espressioni del testo in modo ambiguo o addirittura oscuro.

Infine l’art. 1371 detta una regola di chiusura in base alla quale, se, nonostante l’applicazione delle regole ermeneutiche previste dagli artt. 1362 ss. il contratto rimanga oscuro, esso deve essere inteso nel senso meno gravoso per l’obbligato, se è a titolo gratuito, e nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti al momento se è a titolo oneroso. Per quanto riguarda l’equo contemperamento degli interessi si è in presenza di un rinvio alla c.d. equità interpretativa.

Il giudice non sarà mai legittimato a creare da sé, prescindendo cioè dall’effettiva sussistenza in concreto, l’interesse che l’operazione da lui ricostruita con il procedimento ermeneutico deve tendere a raggiungere.

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Le norme sull’interpretazione si applicano in via diretta ex art. 1324 ai negozi unilaterali e, in via analogica, agli atti non negoziali quale quello di costituzione in mora, avuto riguardo alla volontà dell’atto e non dell’effetto.

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