Gambone, Bruno. Oggetti 1965-1970

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a cura di A. Alibrandi, testo di M. Holman, intervista di C. Orlandini. Edizione in italiano e inglese, Firenze 2014. 112 pp. formato 21,5x30 cm, 54 illustrazioni nel teso, 13 tavole in bianco/nero, rilegato in brossura.

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45LE MOSTRE

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EDIZIONI IL PONTE FIRENZE

testo diMARTIN HOLMAN

intervista a Bruno Gambone diCAROLINA ORLANDINI

BRUNO GAMBONEOGGETTI 1965-1970

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in controfrontespizio ritratto fotografico di Bruno Gambone, Dusseldorf, 1964

pag. 7Paolo Scheggi per Bruno Gambone in Bruno Gambone catalogo della mostra al Centro d’Arte Il Chiodo, Palermo, 1966

BRUNO GAMBONEOGGETTI 1965-1970

a cura diANDREA ALIBRANDI

testo di MARTIN HOLMAN

intervista a Bruno Gambone diCAROLINA ORLANDINI

9 maggio - 25 luglio 2014GALLERIA IL PONTE FIRENZE

le opere sono state rimesse in ordine daEquipe Mood (Modern Operativity On Damages) sotto la direzione di Caterina Canettiin collaborazione con Bruno Gambone

www.associazionebastioni.com

redazione editoriale Federica Del Re

ufficio stampaSusanna Fabiani

referenze fotografiche Torquato Perissi

traduzioni in ingleseKaren Whittle

traduzioni in italianoSusanna Fabiani

impaginazione graficaAlessio Marolda

© 2014 EDIZIONI IL PONTE FIRENZE 50121 Firenze - Via di Mezzo, 42/b tel +39 055240617 fax +39 0555609892 website: www.galleriailponte.com e-mail: [email protected]

stampaTipografia Bandecchi & Vivaldi, Pontedera

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pag. 9 Martin Holman Perspectives on a passage of time A Speculative History of Bruno Gambone’s Journey into Space

pag. 17 Martin Holman Prospettiva storica su un arco di tempo Una storia speculativa del viaggio di Bruno Gambone nello spazio

pag. 25 Repertorio per immagini 1965-1970

pag. 67 Intervista a Bruno Gambone Carolina Orlandini

pag. 73 Interview with Bruno Gambone Carolina Orlandini

pag. 85 Tavole

pag. 103 Nota biografica

pag. 104 Biografical Note

pag. 105 Appendice

SOMMARIO

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Gli oggetti di Bruno Gambone emersero nel corso di un decennio di straordinaria integra-zione, sviluppo e progresso, non solo per la carriera di questo artista italiano, ma anche per le comunità culturali progressiste in cui egli si muoveva con notevole convivialità, entusiasmo e sicurezza, sia a New York che in Italia. Durante questo periodo, iniziato in-torno al 1959, Gambone reindirizzò la sua attività professionale, dal fondamentale coin-volgimento nella produzione di ceramiche all’interno dell’affermata azienda fondata dal padre dieci anni prima, a essere attivamente partecipe nella cerchia dell’avanguardia di due nazioni.Gambone, dunque, sfruttava a suo favore il duplice vantaggio dell’esperienza diretta di due centri di dibattito e di scambio tra arti-sti. A partire dal 1963 stette per quasi cin-que anni negli Stati Uniti, ma aveva comun-que mantenuto rapporti con i connazionali a Roma, Milano e altrove, trovandosi in prima linea tra i progressi delle applicazioni fisiche, tecnologiche e concettuali dell’arte non-ogget-tiva. Allo stesso tempo viveva a New York, che si era definitivamente affermata come ca-pitale critica, creativa e commerciale del mon-do dell’arte.New York aveva assunto la sua posizione di preminenza con l’arrivo sulla scena della Pop art all’inizio degli anni ‘60, con mostre di Roy Lichtenstein e con l’entusiasmante pre-senza dell’influente cerchia di Andy Warhol. Gambone era stato presentato ad entrambi gli artisti non molto tempo dopo il suo arrivo e conosceva Warhol abbastanza bene da aver avuto un coinvolgimento nel film suo Empire, registrato fra le ore 20:06 e 14:42, durante la notte del 25-26 luglio 1964.

PROSPETTIVA STORICA SU UN ARCO DI TEMPOUna storia speculativa del viaggio di Bruno Gambone nello spazio

La posizione di Gambone come testimone di eventi che da allora sono entrati nella storia e nella mitologia del modernismo è stata facilita-ta dalla qualità e dalle caratteristiche delle sue amicizie transatlantiche. Egli possiede ancora il requisito essenziale per gli artisti, impazienti di imparare dall’esperienza diretta del vede-re, toccare, parlare e riflettere, piuttosto che assumendo un approccio più accademico e teorico, comune oggi tra gli apprendisti. La sua affabilità lo aveva naturalmente portato all’amicizia con coetanei di cui egli poteva beneficiare in termini di idee e di favorevoli compagnie. Per esempio, vi aveva conosciuto Mario Schifano, che era venuto per la prima volta a New York nel 1962, essendo stato in-cluso nella rivoluzionaria esposizione “I Nuovi Realisti” alla Sidney Janis Gallery con Warhol e Lichtenstein. La mostra annunciava l’arrivo di una nuova generazione di artisti, in bre-ve soprannominata la ‘Slice of Cake School’ (Scuola della fetta di torta) dalla rivista Time, e innescava l’ininterrotta scalata della Pop art americana alla preminenza mondiale.Gambone insiste sul fatto che, anche se a casa era cresciuto in un ambiente artistico, la sua formazione era avvenuta attraverso le gal-lerie e le illustrazioni studiate nei libri. Questo approccio lo convinse che gli sviluppi che lo interessavano maggiormente stavano avve-nendo lontano da Firenze. Alla fine degli anni ‘50 si era reso conto che la città non era in grado di offrire a un giovane artista sufficiente supporto e stimolo, nonostante alcuni gruppi di artisti informali e di poeti (come quelli che si sarebbero evoluti in Poesia Visiva) e le attività di gallerie come L’Indiano, Numero e Vigna Nuova. In questo panorama non era solo: aveva sviluppato uno stretto rapporto con Pa-

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olo Scheggi, da quando quest’ultimo studiava all’Istituto Statale d’Arte di Porta Romana e che nel 1961, dopo un breve soggiorno a Lon-dra, a ventuno anni era arrivato a Milano alla ricerca di opportunità più stimolanti. Un altro collega di Firenze, Mario Fallani, le cui espe-rienze di décollage ed espressionismo astratto erano state ben accolte nelle mostre alla gal-leria Numero, aveva ricevuto nel 1961 una borsa di studio Fulbright e quell’anno si era trasferito a Chicago.Così Gambone, e non fu il solo, concluse che per cogliere la nuova estetica della pittura non-figurativa, i suoi fini e i suoi meccanismi, l’a-spirante artista dovesse andare negli Stati Uniti dove, a quanto pareva, stavano sviluppandosi i maggiori progressi, così da incontrare coloro che li stavano portando avanti. La possibilità del suo viaggio arrivò casualmente, quando il titolare della rivista Art in America, Lee Ault, di cui Gambone conosceva la figlia, rivolse un in-vito al giovane che soddisfece le richieste delle autorità di immigrazione statunitensi.Fino a quel punto, come in seguito, i suoi interessi nei confronti della recente arte con-temporanea non erano stati esclusivamente americani. La Biennale di Venezia fu una par-ticolare fonte di ispirazione: Eduardo Chillida vi espose nel 1958 e con il francese Georges Mathieu era tra i principali artisti contempo-ranei che attiravano la sua attenzione. Indi-cativo del tenore delle preferenze artistiche di Gambone in questo momento era anche il suo interesse per i rilievi astratti e i dipinti di Ben Nicholson, l’artista britannico che pri-ma della guerra era connesso con il gruppo Abstraction-Création. Con le loro linee pulite, nettamente definite e l’interazione delle aree di profondità e di superficie, le composizioni astratto geometriche di Nicholson venivano presentate in questi anni nelle gallerie di Mila-no e riprodotte spesso nelle illustrazioni d’arte.Eppure l’America esercitò una grande influen-za sui giovani artisti italiani nati dalla metà degli anni ‘30 in poi, maturati in una società postbellica aperta agli impulsi transatlantici, nutriti tanto da relazioni personali (dopo tutto molti italiani avevano legami familiari con gli Stati Uniti attraverso l’emigrazione, che aveva

ripreso dopo il 1945), quanto dalla forte pro-mozione culturale, come anche economica, da parte degli interessi statunitensi. Tuttavia non fu l’unico approccio, come riconosciuto da Pino Pascali, di un anno più grande di Gambone, la cui attrazione per la sensazionalistica cultu-ra statunitense, film e spirito commerciale, fu mitigata dalla consapevolezza artistica delle sue profonde radici italiane. Pascali non visitò mai l’America e, per ragioni politiche e anche culturali, ebbe atteggiamenti conflittuali verso quel paese, come fecero molti della sua età nell’era controversa della guerra fredda. Con-fessò a Carla Lonzi nel 1967: “…Lo spazio dell’Europa è uno spazio molto differente da quello degli americani, più che appartenere all’azione, appartiene alla riflessione sull’azio-ne, capisci?”L’azione era ciò che Gambone ammirava. A Venezia nel 1958, il padiglione degli Stati Uniti ospitava il lavoro di Mark Rothko a fian-co di Mark Tobey e le sculture costruite di Da-vid Smith e Seymour Lipton, mentre nel 1960 sempre gli americani presentavano Franz Kli-ne con Hans Hofmann e Philip Guston. Gam-bone ricorda l’impatto che il lavoro di Kline (che aveva visto per la prima volta a Roma nel 1958, alla Galleria La Tartaruga) e Rothko ebbero su di lui, ampliato dal suo crescente in-teresse verso altri artisti americani, come Sam Francis. Infatti, quando incontrò Rothko per la prima volta, Gambone colpì il pittore ameri-cano con la dettagliata interpretazione delle sue opere, in particolare quelle che Gambone aveva visto nella retrospettiva di Rothko che, attraversando l’Europa, aveva raggiunto la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nei mesi di aprile e maggio del 1962.I due artisti si incontrarono quando la vasta rete di relazioni di Gambone gli fruttò una presentazione attraverso Fabio Coen: editore di libri per bambini, nato a Roma, conosce-va molti artisti importanti, soprattutto per il suo ruolo alle Edizioni Pantheon, dove si occupa-va di affidare incarichi agli illustratori. Fu per questa stessa via, ad esempio, che Gambone incontrò Ben Shahn e Jacques Lipchitz, che in-contrò per giocare a bocce e discutere di arte. Rothko, ricorda, era un uomo riservato con il

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quale la conversazione non era sempre facile fino a quando non si sentiva a suo agio con la compagnia del suo ospite. Gambone visitò i suoi studi nell’Upper East Side e lo presentò anche agli italiani che lo venivano a trovare, come i critici Guido Ballo e Franco Russoli, che avevano scritto l’introduzione all’edizione italiana del catalogo “La Nuova Pittura Ameri-cana”, mostra internazionale dell’espressioni-smo astratto americano estremamente influen-te, organizzata a New York e che inaugurò a Milano nel 1958.L’importanza che Gambone attribuiva a que-sta amicizia è evidente sotto l’aspetto artisti-co. Rothko era stato attirato dalla sensibilità dell’uomo più giovane, dalla sua descrizione delle tele esposte a Roma. Gambone aveva re-agito in maniera particolarmente profonda alle opere che Rothko aveva fatto nel 1958-59 per l’installazione al Seagram Building, in cui ave-va adottato una tavolozza di nero su marrone e rosso scuro su marrone e strutture compositive aperte, rettangolari come le forme di una fine-stra (con un effetto che poi egli paragonò allo spazio dello scalone di Michelangelo ideato per la biblioteca Laurenziana in San Lorenzo). “Penso ai miei quadri come drammi”, Rothko aveva scritto nel 1947. “Le forme nei quadri sono gli attori. Iniziano come un’avventura sco-nosciuta in uno spazio sconosciuto...” e Gam-bone fu colpito dall’allusione di Rothko alle proprietà spaziali e architettoniche che, egli ricordava, gli dettero la sensazione di essere all’interno del concetto pittorico dell’immagine. Questo aspetto, pensò, prevedeva una qualità onirica in cui storia e tempo erano sospesi; Gambone ricorda di aver detto a Rothko che gli sarebbe piaciuto se il suo lavoro avesse raggiunto una comparabile “maiestà”.In effetti l’esempio di Rothko, come interpre-tato da Gambone, può essere percepito nei dipinti che l’italiano stava facendo alla metà degli anni ‘60, anche se esteriormente non c’era somiglianza al di là di un comune inte-resse per le forme come blocchi. Utilizzando in aree rettilinee l’acrilico di colore forte su fon-di bianchi, queste opere avevano la formalità dell’astrazione geometrica senza i suoi con-torni definiti (“hard-edge”). Invece, Gambone

ammorbidiva i margini e più tardi introdusse dispositivi come gocce che suggerivano una relazione gravitazionale con il mondo fuori dall’immagine. Forme sommerse sotto strati successivi di vernice e ancora parzialmente vi-sibili, implicavano sia un’invenzione nella ca-pacità pittorica, che una relazione tra figura e sfondo riferibili a quella di Rothko.Nel ristretto spazio pittorico sottinteso da que-sto effetto, lo spettatore percepiva un ambiente di superficie in cui la sua immaginazione pote-va entrare. Questo interesse per i falsi volumi fu la forza trainante nello sviluppo del lavoro di Gambone a New York, espresso in questa fase da un’allusione spaziale su una superficie piana. Queste opere riflettono l’ampiezza del dialogo di Gambone con le avanguardie del-la pittura intorno a lui, in particolare con il tipo di spazialità proposta dalla “post-painterly ab-straction” (astrazione post-pittorica) di Kenneth Noland e, in una certa misura, di Frank Stella, le cui opere erano state esposte costantemen-te nelle gallerie di New York alla metà degli anni ‘60. Mentre queste tele scambiavano un’illusione fisica dello spazio raffigurato con un’esperienza disponibile alla sola vista, i di-pinti di Gambone offrivano un interno imma-ginato di piani sovrapposti all’interno di una struttura architettonica. Anche se indipendente dalla narrazione, lo spazio poteva essere in-terpretato sensualmente, come se si potesse attraversare fisicamente.La conoscenza di Gambone con Robert Rau-schenberg fu meno direttamente influente sul corso del suo lavoro rispetto a quella di Rothko. È però degno di nota che Gambone fosse tra i trecento artisti, tecnici e altri interes-sati che risposero all’invito di Rauschenberg e Billy Külver a partecipare a Experiments in Art and Technology, lo straordinario progetto di collaborazione con ingegneri che, dal 1967, diede agli artisti accesso al mondo tecnico delle proiezioni video e dei trasmettitori audio in condizioni senza precedenti. La partecipa-zione di Gambone non durò a lungo, ma è un ulteriore esempio della sua presenza nel flusso degli eventi.La posizione centrale di Rauschenberg nel mondo dell’arte ha fatto sì che pochi artisti

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con una visione lungimirante non fossero toc-cati creativamente da incontri di questa na-tura. “Dal 1961-1965”, Brian Doherty ha scritto, “Rauschenberg aveva un appetito on-nivoro, come se il suo studio fosse un grande stomaco che digeriva l’eccesso dei media del ventesimo secolo”. L’artista fu divorato, a metà del decennio, dal fare da mediatore del presente attraverso decalcomanie, litografie e altre stampe che costituivano una tempesta di immagini ritagliate da riviste e giornali. Quan-do Gambone lo incontrò, Rauschenberg si era trasferito da Broadway in uno studio sulla adiacente Lafayette Street, che guizzava della stessa vitalità generata dal flusso costante di materia di cui si era appropriato, stampata, dipinta e umana. Tuttavia il significato simbo-lico di Rauschenberg, per chi lo conosceva, manteneva nella sua produzione fasi alterne rilevanti, con le quali le loro prove trovava-no maggiore corrispondenza. Rauschenberg rimase, dopo tutto, l’artista che nel 1951 ave-va elevato alla condizione di opere i White Paintings, alti pannelli monocromi in diverse serie di tele prive di narrazione. Secondo il famoso commento di John Cage, assomiglia-vano a “piste di atterraggio” per luci, ombre e particelle di polvere, fissandone una compren-sione durevole, quali silenti superfici ricettive che rispondono al mondo circostante.Essere capace di mescolarsi con i suoi omolo-ghi americani, alle inaugurazioni di mostre e in altre visite a gallerie e studi, e in situazioni informali quali feste e luoghi di incontro per bere, come al Cedar Tavern nel Greenwich Village, che era stato un ritrovo fisso dei pit-tori della Scuola di New York negli Anni ‘50, lo mise in contatto con figure del firmamento creativo della città al di là delle arti visive, come il poeta beat Gregory Nunzio Corso. Si stavano presentando anche le opportunità di mostrare l’evoluzione del suo linguaggio vi-sivo. La sua prima mostra personale a New York si era tenuta presso la Galleria Armory nel 1963, ma il rapporto più fecondo iniziò nel 1965 con la Galería Bonino sulla 57th Street, dove Gambone fu incluso in due mo-stre collettive. La galleria era stata aperta da Alfredo Bonino, un napoletano emigrato in

Brasile dove, oltre a rappresentare artisti suda-mericani, promuoveva artisti europei e soste-neva continui progetti interdisciplinari tra arte e tecnologia. Prima dell’apertura a New York nel 1963 aveva fondato e sostenuto una gal-leria a Buenos Aires e una a Rio de Janeiro, dove la mostra personale di Gambone ebbe luogo nel 1966.La scelta di inaugurare la galleria di New York con una mostra di Achille Perilli, serve a ricor-dare che la cultura italiana, anche nelle sue manifestazioni contemporanee, non era una presenza aliena in città, ma un ingrediente della sua identità cosmopolita. Anche se non ci sono dubbi sull’ampio predominio degli interessi di lingua inglese, le prospettive per gli artisti italiani erano un po’ più favorevo-li a New York che, per esempio, nel Nord Europa. Ancora più importante, in relazione all’esperienza di Gambone, era la possibilità di contribuire a un dialogo transatlantico tra i centri creativi di New York e l’Italia. Anche se la distanza era allora un ostacolo alla comu-nicazione, artisti come Gambone non furono esclusi dagli sviluppi per lui stesso rilevanti che stavano accadendo in Italia.Oltre a significative presenze italo-americane relative ad artisti più giovani, come Salvatore Scarpitta, che esponeva regolarmente negli Anni ‘60 con Leo Castelli (originario di Trie-ste, che viveva a New York dal 1941), in città c’era una significativa comunità di espatriati. Fallani, che nei suoi dipinti esplorava ormai linguaggi figurativi, vi si era trasferito da Chi-cago nel 1964 per insegnare al Pratt Institute e poi alla Scuola di Arti Visive a Manhattan, prima di tornare in Toscana nel 1968. Nell’e-state del 1966, Paolo Icaro aveva preso uno studio in Greene Street, nello stesso quartiere di SoHo dove si trovavano edifici industriali di ghisa in disuso come quello di Gambone in Spring Street. Icaro aveva già esposto in una mostra collettiva alla Galleria Odyssia, nel 1965, e si era trasferito a New York l’anno seguente con la moglie americana, prima di tornare in Italia nel 1968 per cogliere i frut-ti della sua partecipazione alle prime mostre dell’Arte Povera organizzate da Germano Ce-lant, a Genova nel 1967, e ad Amalfi l’anno

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successivo. Tornò poi in America nel 1971, ri-manendovi per quasi un decennio. Come Ica-ro, Mario Ceroli stava emergendo sulla scena artistica d’avanguardia in Italia, quando nel settembre 1966 arrivò a New York. Rimase negli Stati Uniti per tredici mesi ed espose due volte alla Galería Bonino, dove ottenne una personale nell’aprile del 1967, due mesi pri-ma di trasferirsi a Chicago.New York era una grande metropoli e le re-lazioni e gli scambi di Gambone erano prin-cipalmente con artisti americani, tuttavia si può immaginare che le visite temporanee di artisti italiani che egli conosceva avessero un effetto catalizzatore sulle sue affini modalità artistiche. L’interesse di Gambone per spazio e colore nella pittura astratta riecheggiava uno dei dibattiti dominanti nel modernismo del dopoguerra, che avvolgeva quello che si iniziava a ritenere “il campo” dove i con-fini del tradizionale spazio pittorico erano infranti e si riscontrava un nuovo regno del te-atro astratto. Questa indagine complessa era particolarmente evidente negli Stati Uniti e in Italia, dove si era sviluppata una dimensione ambientale drammatica, attraverso i concetti spaziali di Lucio Fontana, un pioniere nella creazione di ambienti spaziali, che espresse la sua ossessione verso i misteri di uno spazio puro oltre i confini della tela.La presenza così forte di Fontana in questo dialogo giunse attraverso l’Atlantico con una mostra, organizzata dal MoMA a New York, che attraversò le città americane tra il 1966 e il 1969. Tra coloro che visitavano gli Stati Uniti e che erano al passo con le vedute di Gambone nella metà degli anni ‘60, c’erano Alberto Moretti e Getulio Alviani; quest’ultimo era stato selezionato per “The Responsive Eye” (L’occhio reattivo), mostra molto popolare al MoMA nei primi mesi del 1965, che si con-centrava sugli aspetti percettivi dell’arte, inclu-dendo l’illusione del movimento dell’arte cine-tica e l’interazione delle relazioni del colore nella pittura astratta. Alviani ritornò nel 1967 per una mostra presso l’ICA a Boston. Enrico Castellani espose alla Betty Parsons Gallery di New York nel 1966, dopo un soggiorno prolungato nella città, mentre Agostino Bona-

lumi esponeva “costruzioni-pittura” da Bonino a New York nel 1967. Questi artisti stavano lavorando contro la tendenza verso l’espressi-vità e l’arte informale: Castellani e Bonalumi perseguivano l’idea poetica ed estetica della pittura oggetto, formulata dal navigato critico Gillo Dorfles, in particolare con tele di un’uni-ca superficie indivisibile modellata in rilievo da ritmi di strutture e pressioni sottostanti, pro-iezioni e sporgenze. Infine, prima della par-tenza definitiva di Gambone da New York, la mostra “Young Italians” (Giovani Italiani), organizzata da Alan Solomon, quando inau-gurò a Boston nel mese di gennaio, prima di spostarsi al Museo Ebraico di New York in maggio, portò in America il lavoro di molti suoi contemporanei.Questi artisti avevano spostato gli esperimenti sulla spazialità oltre la pittura tradizionale, an-che se ancora in relazione a questo medium. Non c’era un equivalente americano diretto, anche nelle riduttive “strutture primarie” con-temporanee di Robert Morris, Sol LeWitt, Carl Andre, Donald Judd e altri promosse come la “nuova arte” dalla mostra al Museo Ebraico nella primavera del 1966. I primi esperimenti di “luce e spazio” di artisti come Robert Irwin e James Turrell erano ancora almeno due anni indietro. È possibile, quindi, vedere Gambo-ne a New York rispondere alle innovazioni che si intersecavano con i suoi interessi e che venivano proposte peraltro da artisti che co-nosceva. Castellani e Bonalumi avevano col-laborato a stretto contatto a Milano con Paolo Scheggi fin dai primi anni ‘60. Gli scambi tra questi artisti erano all’ordine del giorno e, anzi, la tecnica di Scheggi di intersuperfici, superfici sovrapposte le cui interruzioni del rit-mo creavano un senso di profondità, era sta-ta assorbita dai primi ambienti di Castellani, installazioni site-specific che incoraggiavano attivamente la partecipazione dello spettato-re nella sensibile, ripetuta interazione di luce, tempo e spazio che divenne l’elemento princi-pale che si dispiegava nell’”architettura dello spazio” di questo artista.Anche se nel lavoro di tali artisti, far sì che og-getti unici esplorino una vasta grammatica di forme è sempre stato un contributo importante,

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la creazione di ambienti spaziali fu stimolata in Italia dall’avvento di mostre che evidenzia-vano sia questo modo di lavorare su larga scala, sia l’indirizzo intrapreso, da quando, all’inizio del decennio, in America l’era degli “happening” aveva rotto le distinzioni fra og-getto d’arte attiva e spettatore passivo. Questi eventi attiravano il pubblico in ambienti con-cepiti come entità totali, come la vera opera d’arte. Alla fine del 1966, nella sua persona-le alla Galleria L’Attico di Roma, Pascali era intervenuto nello spazio della galleria con la sua opera a struttura seriale, installata sul pa-vimento, Il Mare (1966): unità cubiche di tele bianche ondulate come onde tese su armature di legno. Al di là della sua presenza fisica, l’insieme somigliava a pensieri oggettivati sul-la natura della rappresentazione, che i visita-tori non potevano evitare di affrontare.Subito dopo, alla Galleria del Naviglio di Mi-lano nel gennaio 1967, Scheggi mostrò la sua Intercamera Plastica (1967), un interno modulare giallo, fisicamente accessibile, con pareti curve punteggiate da aperture spaziali circolari attraverso le intersuperfici. Seguirono velocemente mostre che passavano in rasse-gna quanto esplorava questo fenomeno di “propagandato” spazio pittorico nel lavoro dei singoli artisti. La prima, e ancora la più importante storicamente, fu “Lo spazio dell’im-magine”. Svoltasi a Palazzo Trinci in Foligno, nell’estate del 1967, essa coinvolse dician-nove artisti e gruppi di artisti: vi presero par-te Fontana, Alviani, Bonalumi, Castellani e Scheggi, così come Ceroli, Colombo, Fabro, Pascali e Pistoletto, che misero immediatamen-te in rilievo i diversi filoni di ricerca. Le diffe-renze erano evidenti anche tra gli artisti i cui interessi sembravano convergere. Perciò, per quanto tutte le opere d’arte possano essere in-terpretate, secondo le parole del gruppo tede-sco Zero che, a questo stadio, fu di notevole stimolo per l’arte ambientale, quali “punti di inizio per una nuova consapevolezza del no-stro ambiente”, almeno due posizioni teoriche furono evidenziate dalle indagini degli artisti italiani sulla teoria di spazio nell’arte.Mentre una prospettiva propendeva verso esperienze fenomenologiche, affini alle im-

pressioni e intuizioni mediate nella letteratura attraverso la metafora, l’altra adottava un ap-proccio più investigativo, che gettava l’artista nel ruolo intellettuale di inventore. Mentre Fon-tana, Bonalumi e Castellani possono essere considerati sotto la prima voce, artisti come Colombo e Alviani, e il Gruppo N e il Grup-po T, con cui furono associati, corrisponde-vano più strettamente alla seconda definizio-ne. Eppure non esisteva uniformità in nessuna categoria (che, naturalmente, non costituiva più che degli atteggiamenti): laddove l’Am-biente bianco di Castellani (1967) era una meditazione su luce, tempo e ritmi tempora-li, in cui gli angoli appiattiti e il monocromo bianco disorientavano i sensi dei visitatori, il contributo di Bonalumi a Foligno, Blu abitabi-le (1967) esplorava proprietà visive e tattili. Come Castellani, il suo lavoro non aveva fun-zione rappresentativa. Ma in contrasto con la sua contemporanea proposta di immaterialità, Bonalumi si concentrava esclusivamente sulla pura forma fisica dell’interno del suo ambiente e sulla possibilità di generare tensione tra idee astratte e realtà percepibile.Da parte sua, Alviani stava combinando mate-riali industriali, design e grafica in una moda-lità quasi scientifica, che trasformava le con-dizioni ambientali in relazione ai movimenti delle persone. La molteplicità di proposte fu ulteriormente presentata in successive impor-tanti esposizioni, concepite come un insieme di eventi, piuttosto che come mostre, coinvol-gendo molti degli stessi partecipanti: “Teatro delle Mostre” presentava venti artisti alla Gal-leria La Tartaruga nel maggio 1968, “Amore mio” riuniva diciassette artisti a Montepulcia-no dal giugno 1970; e “Vitalità del negativo nell’Arte italiana 1960-1970” inaugurava al Palazzo delle Esposizioni di Roma, nel novem-bre 1970, con trentasei contributi.Nello stesso arco di quattro anni, all’interno di questa spumeggiante atmosfera di possibilità, ma al di là della ribalta delle mostre stesse, si può immaginare la compulsione che Gambo-ne sentiva al fine di perfezionare la propria de-finizione di arte spaziale in competizione con i suoi compagni. In primo luogo la testimonian-za dei dialoghi, nelle gallerie, negli gli studi

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e nei luoghi di incontro degli artisti americani e degli italiani che li venivano a trovare. Non è un caso, quindi, che il suo lavoro bidimen-sionale prenda l’avvio nel 1967, né che, alla fine dello stesso anno, egli abbia realizzato la sua prima installazione spaziale alla Galleria del Cenobio di Milano, in un contesto italiano piuttosto che in un scenario americano.La genesi di quella installazione, tuttavia, può essere rintracciata in parte attraverso i dipinti dei due anni precedenti a New York. Le sue astrazioni pittoriche avevano impegnato i sensi sia per la loro impressione di spazi ac-cessibili attraverso l’immaginazione sia per la natura di tale spazio, come articolato dall’in-terpretazione dello spettatore nelle relazioni cromatiche. Il rapporto con l’umanità attraver-so uno spazio che la mente poteva occupare, cosa che egli ammirava nel lavoro di Rothko, stava diventando sempre più suo: libero da ri-ferimenti esterni a sé. Lo spazio che Gambone dipingeva era in una sorta di flusso, soggetto a cambiamenti proiettati in esso dall’immagi-nazione di chi, nella sua mente, ne aveva otte-nuto una temporanea presa di possesso.Eppure, allo stesso tempo, l’Ambiente a Mila-no non aveva precedenti nel suo lavoro. Gam-bone era stato invitato da Alviani a esporre presso la sede che era strettamente associata con le nuove tendenze dell’arte costruita, inte-rattiva e aveva voluto che questa opportunità in Europa avesse un carattere diverso da quel-lo che aveva raggiunto a New York. Fu questa considerazione che lo spinse verso un formato ambientale. Ritornò dall’America appositamen-te per intraprendere la costruzione, che fu effet-tuata nello studio di Bonalumi. Ricorda di voler “rimpolpare” i volumi impliciti dei suoi dipinti americani; la manifestazione nello spazio rea-le degli angoli e delle nicchie ombrose, avan-zamenti e recessioni che contraddistinguono il primo ambiente (e che Scheggi, nella sua anteprima pubblicata sulla rivista Centroarte, descriveva come “brunelleschiano”), ovviava alla necessità di quelle relazioni spaziali, che il colore aveva articolato nei suoi dipinti.La sua adozione del bianco suggerisce inizial-mente un omaggio o, almeno, il riconoscimen-to dei rivoluzionari spazi bianchi precedenti.

Alla galleria Iris Clert di Parigi nel mese di aprile del 1958, Yves Klein aveva cercato di dematerializzare l’architettura in un vuoto su-blime, un unico ambiente in cui la “pittura” era invisibile ma presente. Concettualmente più vi-cina alle intenzioni di Gambone, tuttavia, era la Casa Zero (1959-1962) di Nanda Vigo a Milano, dove ogni aspetto, compreso l’arre-damento, era bianco. Influenzata dalle idee dello Spazialismo di Fontana, gli ambienti di Vigo erano principalmente sfondi per vivere, e Gambone allo stesso modo considerava il suo ambiente come uno spazio che conferiva a coloro che vi entravano il permesso di agire spontaneamente in relazione a un ambiente di cui avevano completo comando. Il bian-co, come quello usato da Piero Manzoni e i suoi colleghi di Azimuth, collocava ogget-ti materiali fuori dalle convenzioni pittoriche e, quindi, riferimento storico per affermare la loro presenza immediata, una concentrazione sull’hic et nunc rilevabile anche negli Oggetti di Gambone.Mentre i monocromi contribuivano all’ogget-tività delle sue tele sagomate; dopo il 1967 Gambone fu attratto dall’associazione del bianco con la pace, uno stato d’essere che trasudava dalla sua terza installazione, Ara, creata per la Galleria Annunciata di Milano nel 1970. In contrasto con i rilievi di Bonalu-mi e Castellani, Gambone aveva sperimenta-to proiezioni molto più audaci dal muro nello spazio tradizionalmente assegnato dalla pittu-ra allo spettatore. La sua esecuzione impecca-bile poteva suggerire una fredda produzione meccanica influenzata dal design, piuttosto che la realtà di una meticolosa lavorazione artigianale, e sembra ambiguo nel contesto dell’umanesimo essenziale dell’opera. La tela, tesa su un supporto geometrico irregolare, dava fisico volume sinuoso alla forma, simile a quella di uno schermo, raffigurata nei suoi quadri nel 1966 e caratterizzava la composi-zione modulare della sua seconda installazio-ne, una recinzione quale palcoscenico a Bo-chum, in Germania, nel 1969, che sembrava programmata per far precipitare l’azione o la performance. In Ara, la fisicità degli elementi era moderata in modo che, mentre i pannelli

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sacro, nella sua scelta del titolo suona come una nota non familiare. Tuttavia ciò riconnette il suo lavoro allo spirito di Mark Rothko i cui dipinti furono spesso paragonati a secolari pale d’altare. Nel 1964, all’artista america-no fu commissionato da John e Dominique de Menil la creazione di uno spazio meditativo a Houston, Texas. I dipinti furono realizzati tra il 1964 e il 1967, anni che coincidevano con la residenza di Gambone a New York, ma attesero fino al 1971 per essere installati in quella che oggi è chiamata la Cappella Rothko. Rothko morì nel febbraio 1970 ed è allettante, anche se bizzarro, interpretare l’A-ra di Gambone, con la sua scelta poetica di un nome descrittivo, come parziale tributo al suo compagno in arte.Quanto agli spazi negli oggetti di Gambo-ne, prendendo in prestito le parole di Rothko sui suoi dipinti, “sono profondamente coinvolti nella possibilità di una comune umanità”.

21 Aprile 2014 Martin Holman

Senza titolo, 1963, olio su tela, 100×180 cm

erano proiettati in avanti dal piano frontale, gli angoli meno profondi stabilivano più sottili modulazioni di luce e ombra.A differenza degli altri due precedenti am-bienti Ara vieta l’ingresso fisico. La sua area può essere occupata solo attraverso l’immagi-nazione. L’uso di un titolo, inusuale per questi lavori, conferma lo spazio come un luogo con associazioni evocative per il pubblico, che può poi capire come debba essere sperimen-tato da una certa distanza. In questo modo, Gambone innescava una tensione tra un rap-porto “pittorico”, come con un oggetto (i pan-nelli sono tele tese come quadri in attesa di gesti e immagini), e i desideri irrealizzati di entrare in un ambiente reale, attraente, così da essere racchiusi in esso e toccare le sue superfici. In questa occasione realizza un pa-vimento inclinato, che digrada verso una gola centrale. Di conseguenza, sarebbe sconcer-tante calpestarlo e sottolinea la strana “alteri-tà” dell’esperienza stessa.L’allusione di Gambone ad un altare o luogo

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Bruno Gambone’s objects emerged during a decade of extraordinary assimilation, devel-opment and advance, not just in the career of this Italian artist but also for the progressive cultural communities in which he circulated, with remarkable conviviality, eagerness and assurance, in New York and Italy. During this period, which began around 1959, Gam-bone redirected his career from being primari-ly involved in the production of ceramics in the successful business established by his father 10 years earlier to being an active participant in the avant-garde circles of two countries. Gambone, therefore, brought to his practice the dual advantage of first-hand experience of two centres of debate and exchange between artists. While resident in the United States for almost five years from 1963, he nonetheless maintained relationships with compatriots in Rome, Milan and elsewhere at the forefront of advances in the physical, technological and conceptual applications of non-objective art. At the same time he was in New York as it established itself definitively as the world’s crit-ical, creative and commercial artistic capital. New York had assumed its prime position with the arrival of Pop art on the scene at the start of the 1960s with exhibitions by Roy Lichtenstein and the stirring presence on the influential pe-riphery of Andy Warhol. Gambone had been introduced to both artists not long after his ar-rival and knew Warhol well enough to have had an involvement with Warhol’s film Empire, recorded in the hours between 8.06pm and 2.42pm during the night of the 25-26 July 1964. Gambone’s position as witness of events that have since entered the history and mythology of modernism was facilitated by the quality

PERSPECTIVES ON A PASSAGE OF TIMEA Speculative History of Bruno Gambone’s Journey into Space

and extent of his transatlantic friendships. This artist possesses still the essential qualification for artists impatient to learn from direct experi-ence of seeing, touching, talking and reflect-ing, rather than assume the more academic and theoretical approach, common today among practitioners. His social gregariousness drew him naturally to the company of contem-poraries from whom he could benefit in terms of ideas as well as of agreeable company. For instance, he had met Mario Schifano who had first travelled to New York in 1962 when he was included in the groundbreaking exhibi-tion ‘The New Realists’ at Sidney Janis Gallery with Warhol and Lichtenstein. The show an-nounced the arrival of a new generation of art-ists, briefly dubbed the ‘Slice of Cake School’ by Time magazine, and triggered American Pop art’s uninterruptible climb to worldwide pre-eminence.Gambone insists that, although he grew up in an artistic atmosphere at home, his education as a fine artist came from galleries and the illustrations he studied in books. This perspec-tive also persuaded him that the developments about which he cared most were happening away from Florence. He realised by the late 1950s that the city was unable to offer a young artist sufficient support and stimulation, in spite of the few informal groupings of artists and poets (like those that would evolve into Poesia Visiva) and the activities of galleries like L’Indi-ano, Numero and Vigna Nuova. He was not alone in this view; Paolo Scheggi, with whom he developed a close rapport when Scheggi was studying at the Istituto Statale d’Arte at Porta Romana, was aged 21 when he arrived in Milan in 1961, after a brief stay London, in his quest for more challenging opportunities.

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Another associate in Florence, Mario Fallani, whose décollage techniques and expressive abstraction had been well received in exhi-bitions at Numero, had received a Fulbright scholarship in 1961 and emigrated that year to Chicago. Thus, Gambone concluded that in order to grasp the new aesthetics of non-figurative paint-ing, its intentions and mechanics, the aspiring artist had to go to the United States where, it seemed, the largest strides were being made, in order to meet the people making them. His opportunity to travel arrived by chance, when the proprietor of Art in America magazine, Lee Ault, whose daughter Gambone knew, issued an invitation to the young man that satisfied the US immigration authorities.Up to that point, as afterwards, his interests in new and recent art had not been exclusively American. The Venice Biennale was a spe-cial source of inspiration; Eduardo Chillida showed there in 1958 and this artist, with the Frenchman Georges Mathieu, was prominent among the contemporary figures who attract-ed his attention. Also indicative of the tenor of Gambone’s artistic preferences at this time was his interest in the abstract reliefs and paintings of Ben Nicholson, the British artist who had been associated with the Abstraction-Création group before the war. With their clean, sharp-ly-defined lines and the interplay of depth and surface areas, Nicholson’s abstract, geometric compositions were on show in Milan galleries in these years and often printed in illustration.Yet America exerted an influence on young Italian artists, born in the mid-1930s onwards, who had come to maturity in a postwar society open to transatlantic impulses nurtured as much by personal connections (after all, many Italians had family links with the USA through Italian mi-gration which had resumed after 1945) as by forceful cultural as well as economic promotion by US interests. It was not entirely one way, however, as admitted by Pino Pascali, a year older than Gambone, whose fascination with US pulp culture, films and commercialism was mitigated by his artistic awareness of deep Ital-ian roots. Pascali never visited America and, for political as well as cultural reasons, had

conflicted attitudes towards that country, as did many his age in the contentious era of the cold war. He admitted to Carla Lonzi in 1967 that: ‘It has to be admitted that European space dif-fers radically from American space. There, it’s action that counts; here, it’s the reflection on what one is doing…’It was the action that Gambone admired. At Venice in 1958 the US pavilion hosted work by Mark Rothko alongside Mark Tobey and the constructed sculptures of David Smith and Seymour Lipton, while in 1960 the Americans presented Franz Kline with Hans Hofmann and Philip Guston. Gambone recalls the im-pact that work by Kline (which he first saw in Rome in 1958, at Galleria La Tartaruga) and Rothko made on him, augmented by his growing interest in other Americans, such as Sam Francis. Indeed, when he first met Roth-ko, Gambone impressed the American paint-er with his detailed interpretation of his imag-es, especially those Gambone had seen in Rothko’s retrospective exhibition that travelled around Europe, reaching the Galleria nazion-ale d’arte moderna in Rome in April and May 1962.The two artists met when Gambone’s extensive social network yielded an introduction through Fabio Coen; the Rome-born children’s book editor knew many leading artists, especially through his role at Pantheon Books in commis-sioning illustrators. It was by this same route, for instance, that Gambone encountered Ben Shahn and Jacques Lipchitz, whom he vis-ited to play bocce and discuss art. Rothko, he remembers, was a private man with whom conversation was not always easy until he felt at ease with his visitor’s company. Gambone visited his Upper East Side studios and also introduced him to visiting Italians, such as the critics Guido Ballo and to Franco Russoli who had written the introduction to the Italian edi-tion of the catalogue for ‘The New American Painting’, the highly influential international touring show of American abstract expression-ism, organised in New York, that opened in Milan in 1958.The value Gambone attached to this friend-ship is apparent in artistic terms. Rothko had

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been drawn to the younger man’s sensibility by his description of the canvases exhibited in Rome. Gambone had responded particularly profoundly to the works Rothko had made in 1958-9 for installation at the Seagram Build-ing. Rothko had adopted a palette of black on maroon and dark red on maroon, and com-positional structures of open, rectangular, win-dow-like forms (for an effect he later likened to the staircase space Michelangelo devised at the Laurentian library at San Lorenzo). ‘I think of my pictures as dramas,’ Rothko had written in 1947. ‘The shapes in the pictures are the per-formers. They begin as an unknown adventure in an unknown space…’ and Gambone was struck by Rothko’s allusion to spatial and archi-tectonic properties which, he recalled, gave him the sensation of being inside the pictorial concept of the image. This aspect, he thought, projected a dream-like quality in which history and time were suspended; Gambone recalls telling Rothko that he would like his work to achieve comparable ‘majesty’.Indeed, Rothko’s example as interpreted by Gambone can be sensed in the paintings the Italian was making in the mid-1960s, even though outwardly there was no resemblance beyond a common interest in block-like forms. Using acrylic in rectilinear areas of strong col-our on white grounds, these works had the formality of geometric abstraction without its hard edge. Instead, Gambone softened con-tours and later introduced devices such as drips to infer a gravitational relationship with the perceived world outside the image. Forms submerged beneath subsequent layers of paint and still partially visible implied both an in-vented, painterly domain and a figure-ground relationship similar to Rothko’s. In the restricted pictorial space implied by this effect, the viewer perceived a shallow environment his imagination could enter. This concern with assumed volumes was the driv-ing force behind Gambone’s development in New York, expressed at this stage by an allu-sion to space on a flat surface. These works reflected the range of Gambone’s dialogue with the advanced painting around him, in particular with the type of spatiality proposed

by the ‘post-painterly abstraction’ of Kenneth Noland and, to an extent, Frank Stella, whose works were regularly displayed in New York galleries in the mid-1960s. Whereas these canvases exchanged a physical illusion of de-picted space for an experience available to eyesight alone, Gambone’s paintings offered an imagined interior of superimposed planes within one architectonic structure. Although in-dependent of narrative, the space could be interpreted sensually, as if travelled through in person.Gambone’s acquaintance with Robert Raus-chenberg was less directly influential on the course of his work than perhaps Rothko. It is notable, however, that Gambone was among the 300 artists, technicians and interested oth-ers who responded to the invitation from Raus-chenberg and Billy Külver to become involved with Experiments in Art and Technology, the remarkable collaborative project with engi-neers that, from 1967, gave artists access to the technical world of video projections and sound transmitters in unprecedented circum-stances. Gambone’s participation was not long lasting, but is one further example of his presence in the flow of events. Rauschenberg’s central position in the art world meant that few artists with forward-look-ing attitudes were untouched creatively by en-counters of this nature. ‘From 1961 to 1965’, Brian Doherty has written, ‘Rauschenberg had an omnivorous appetite, as if his studio were a vast stomach digesting twentieth-century media glut.’ The American was consumed, at mid-decade, by mediating the present mo-ment through transfer drawings, lithographs and other prints that comprised a windstorm of imagery clipped from magazines and news-papers. When Gambone met him, Rauschen-berg had moved from Broadway to a studio on adjacent Lafayette Street that flickered with the same vitality generated by a constant throughput of material – appropriated, print-ed, painted and human. Yet Rauschenberg’s symbolic significance for those who met him kept relevant alternative phases in his career with which their practices had greater equiv-alence. Rauschenberg remained, after all, the

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artist who had brought into being such work as the White Paintings in 1951, tall mono-chrome panels in several series of canvases that contain no narrative. As John Cage fa-mously commented, they resembled ‘landing strips’ for lights, shadows and dust particles, establishing an enduring understanding of the series as silent receptive surfaces that respond to the world around them.Being able to mix with his American counter-parts, at exhibition openings and other visits to galleries and studios, and socially at parties and drinking establishments, such as the Ce-dar Tavern in Greenwich Village which had been a regular haunt of the New York School painters in the 1950s, brought him into con-tact with figures in the city’s creative firmament beyond the visual arts, such as the Beat poet, Gregory Nunzio Corso. Opportunities to show his evolving visual language were also occurring. His first one-man exhibition in New York was held at the Armory Gallery in 1963 but the a more fruitful relationship began in 1965 with Galería Bonino on 57th Street where Gambone was included in two group shows. The gallery had been opened by Alfre-do Bonino, a Neapolitan who had emigrated to Brazil where, as well as representing South American artists, he promoted European artists and supported progressive, interdisciplinary projects between art and technology. Prior to opening in New York in 1963 he had set up and maintained galleries in Buenos Aires and in Rio de Janeiro where Gambone’s solo show took place in 1966. The New York gallery’s choice of opening ex-hibition, by Achille Perilli, serves as a remind-er that Italian culture, even its contemporary manifestations, was not an alien presence in the city but an ingredient of its cosmopoli-tan identity. While there is no question of the far-reaching dominance of English-speaking interests, prospects for Italian artists were mar-ginally more favourable in New York than, for instance in northern Europe. More important-ly, in relation to Gambone’s experience, there was the opportunity to contribute to a transat-lantic dialogue between the creative centres of New York and Italy. Although distance was

then an obstacle to communication, artists like Gambone were not excluded from develop-ments relevant to their own that were occurring in Italy. Apart from significant Italo-American presenc-es relevant to younger artists, like Salvatore Scarpitta, who showed regularly in the 1960s with Leo Castelli (himself a native of Trieste who had been in New York since 1941), there was a significant community of expatri-ates in the city. Fallani, by now exploring figu-rative idioms in his paintings, had moved from Chicago in 1964 to teach at the Pratt Institute and then at the School for Visual Art in Man-hattan, before returning to Tuscany in 1968. By summer 1966, Paolo Icaro was occupying a studio in Greene Street, in the same SoHo neighbourhood of disused cast-iron industrial premises as Gambone’s workplace in Spring Street. He had already shown work in a group show at the Odyssia Gallery, in 1965, and had moved to New York the following year with his American wife before returning to It-aly in 1968 to take advantage of his partic-ipation in the earliest shows of Arte Povera organised by Germano Celant, in Genoa, in 1967, and in Amalfi in the following year. (Icaro subsequently returned to America in 1971, remaining there for almost a decade.) Like Icaro, Mario Ceroli was emerging onto Italy’s progressive art scene when he arrived in New York in September 1966. He stayed in the USA for 13 months and showed twice at Galería Bonino, receiving a solo exhibition there in April 1967, two months before he moved to Chicago. While New York was a huge metropolis and Gambone’s relationships and exchanges were primarily with Americans, nonetheless, tempo-rary visits by Italian artists he knew can be imagined as having a catalytic effect on his like-minded practices. Gambone’s interest in space and colour in abstract painting ech-oed one of the dominant debates in postwar modernism surrounding what has come to be thought of as ‘the field’ where the boundaries of traditional pictorial space were crossed and a new realm of abstract theatre was en-countered. This complex enquiry was espe-

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cially prominent in the United States and in Italy where it had evolved a dramatic envi-ronmental dimension through the concetti spa-ziali of Lucio Fontana, a pioneer in creating room-sized environments that expressed his obsession with the mysteries of a pure space beyond the confines of the canvas. Fontana’s presiding presence in this dialogue reached across the Atlantic with a show, or-ganised by the Museum of Modern Art, New York, which travelled to American cities be-tween 1966 and 1969. Among those visit-ing the USA in person who were in step with Gambone’s outlook in the mid-1960s were Alberto Moretti and Getulio Alviani; the latter had been selected for ‘The Responsive Eye’, the immensely popular exhibition at MoMA in early 1965 that focused on the perceptual aspects of art, including the illusion of move-ment in kinetic art and the interaction of colour relationships in abstract painting. Alviani re-turned in 1967 for a show at the ICA, Boston, in 1967. Enrico Castellani exhibited at Betty Parsons Gallery in New York in 1966 after an extended stay in the city while Agostino Bonalumi showed ‘painting-constructions’ with Bonino in New York in 1967. These artists were working against the tide of expressive-ness and arte informale, with Castellani and Bonalumi pursuing the poetic, aesthetic idea of pittura oggettuale formulated by the veteran critic, Gillo Dorfles, specifically with canvases whose single, indivisible surface was shaped into relief by rhythms of underlying structures and pressures, projections and protrusions. Fi-nally, prior to Gambone’s final departure from New York, the exhibition ‘Young Italians’, or-ganised by Alan Solomon, brought the work of many of his contemporaries back to Ameri-ca when it opened in Boston in January before travelling to the Jewish Museum, New York, in May.These artists had moved experiments on spati-ality beyond traditional painting although still in relation to the medium. There was no direct American equivalent, even in the contempo-rary reductive ‘primary structures’ of Robert Morris, Sol LeWitt, Carl Andre, Donald Judd and others promoted as the ‘new art’ by the

Jewish Museum exhibition in spring 1966. (The first ‘light and space’ experiments by artists such as Robert Irwin and James Turrell were still at least two years off.) It is possi-ble, therefore, to see Gambone, in New York, responding to innovations which intersected with his own concerns that were being pro-posed, moreover, by artists he knew. Castel-lani and Bonalumi had collaborated closely in Milan with Paolo Scheggi since the early 1960s. Exchanges between these artists were commonplace and, indeed, Scheggi’s tech-nique of intersuperfici, overlapping surfaces whose breaks in rhythm create a sense of depth, had been absorbed into Castellani’s first ambienti, site-specific installations that ac-tively encouraged the viewer’s participation in the sensitive, repetitive interplay of light, time and space that became the principal element unfolding in this artist’s ‘architecture of space’. Although always an adjunct activity in the careers of these artists to making individual objects exploring a broad grammar of forms, the creation of room-sized ambienti was stim-ulated by the advent of exhibitions in Italy that highlighted both this large-scale way of work-ing and the tendency, since the era of ‘hap-penings’ in America broke down the distinc-tions of active art object and passive spectator at the start of the decade. These events drew audiences into environments conceived of as total entities, as the actual work of art. At the end of 1966, in his one-man show at Galleria L’Attico in Rome, Pascali had interjected into the gallery space his floor-based, serial-format work Il Mare (1966), cubic units of wave-like undulating white canvas stretched over wooden armatures. In addition to its physical presence, the ensemble resembled objectified thoughts about the nature of representation that visitors could not avoid confronting. Soon after, at Milan’s Galleria del Naviglio in January 1967, Scheggi exhibited his In-tercamera Plastica (1967), a physically ac-cessible, modular yellow interior with curved walls punctuated by circular spatial apertures through the intersuperfici. Survey exhibitions quickly followed that explored this phenome-non of ‘publicised’ pictorial space in the work

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of individual artists. The first, and still the most historically important, was ‘Lo Spazio dell’Im-magine’. Located at Palazzo Trinci, Foligno, in summer 1967, it involved 19 artists and artists’ groups: Fontana, Alviani, Bonalumi, Castelli and Scheggi took part, as did Ceroli, Giorgio Colombo, Luciano Fabro, Pascali and Michelangelo Pistoletto. They immediately set the divergent strands of research in relief; dif-ferences were apparent, even, between artists whose interests appeared to converge. For, whereas all the artworks could be interpreted, in the words of the German Zero group that was a considerable inspiration on environ-mental art at this level, as ‘starting points for a fresh awareness of our surroundings’, at least two theoretical positions were highlighted by the Italian artists’ investigations of the notion of space in art.One perspective inclined towards phenome-nological experiences akin to the impressions and insights mediated in literature through metaphor and the other adopted a more in-vestigative approach that cast the artist in the intellectual role of inventor. While Fontana, Bonalumi and Castellani can be considered under the first heading, artists like Colombo and Alviani, and Gruppo N and Gruppo T with which they were associated, correspond-ed more closely with the second definition. Yet uniformity existed in neither category (which, of course, never constituted more than attitudes): whereas Castellani’s Ambiente bianco (1967) was a meditation on light, time and tempo-ral rhythms, in which flattened angles and the white monochrome disorientated visitors’ senses, Bonalumi’s contribution at Foligno, Blu abitabile (1967) explored visual and tactile properties. Like Castellani, his work had no representational function but in contrast to his contemporary’s suggestion of immateriality, Bonalumi concentrated exclusively on the in-terior’s own discrete physical form and its po-tential to generate tension between abstract ideas and perceivable reality.For his part, Alviani was combining industri-al materials, design and graphics in a qua-si-scientific fashion that transformed ambiential conditions in relation to the movements of peo-

ple. The multiplicity of purposes was further ex-posed in subsequent notable shows conceived as a collection of events rather than exhibits, involving many of the same participants: ‘Te-atro delle Mostre’ featured 20 artists at Gal-leria La Tartaruga in May 1968, ‘Amore mio’ gathered 17 artists in Montepulciano from June 1970; and ‘Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960-70’ which opened at Rome’s Palazzo delle Esposizioni in November 1970 with 36 contributions. In the same span of four years, within this bub-bling atmosphere of possibilities but beyond the limelight of the exhibitions themselves, the compulsion that Gambone would have felt to refine his own definition of a spatial art in competition with his peers can be imagined. Witnessing the dialogues first-hand, in the gal-leries, studios and meeting places of Ameri-can and visiting Italian artists, it is no coin-cidence, therefore, that he took the step into two-dimensional work in 1967, nor that, by the end of the same year, he had created his first spatial installation, at the Galleria del Ce-nobio, Milan, in an Italian context rather than an American setting. The genesis of that installation, however, can be traced in part back through the paintings of the previous two years in New York. His painterly abstracts had engaged the senses with both their impression of spaces accessi-ble through the imagination and in the nature of that space as articulated by the viewer’s interpretation of colour relationships. The rap-port with humanity through a space that the mind could occupy, that he admired in Roth-ko’s work, was becoming increasingly his own: unhindered by references outside itself, the space Gambone depicted was in a kind of flux, subject to the changes projected onto it by the imagination of the person who, in his mind, had gained temporary occupancy. Yet, at the same time, the ambiente in Milan was unprecedented in his output. Gambone had been invited to exhibit by Alviani at the venue which was closely associated with the nuove tendenze of constructed, interactive art and had wanted this opportunity in Eu-rope to have a different personality to what

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he had achieved in New York. It was this consideration that prompted his move into an environmental format. He returned from Amer-ica specifically to undertake the construction, which was carried out in Bonalumi’s studio. He recalls wanting to ‘flesh out’ the volumes implied by his American paintings; the man-ifestation in actual space of the corners and shadowy alcoves, advances and recessions, that distinguish the first environment (and which Scheggi, in his preview published in the magazine, Centroarte, described as ‘Brunelleschian’) obviated the need for the spatial relationships that colour had articulat-ed in his paintings. His adoption of white initially suggests an hommage to or, at least, acknowledgement of earlier revolutionary white rooms. At the Iris Clert gallery, Paris, in April 1958, Yves Klein had sought to dematerialise architecture into a sublime void, a single environment in which ‘painting’ was invisible but present. Closer in concept to Gambone’s intentions, however, was Nanda Vigo’s Zero House (1959-62) in Milan where every aspect, including the

furniture, was white. Influenced by Fontana’s ideas of spatialism, Vigo’s environments were principally backgrounds for living, and Gam-bone similarly regarded his environment as a space that conferred upon those who entered it permission to act spontaneously in relation to surroundings of which they had full command. White, as used by Piero Manzoni and his col-leagues at Azimuth, placed material objects outside pictorial conventions and, therefore, historical reference to assert their immediate presence, a concentration on ‘now’ also de-tectable in Gambone’s oggetti. While colour monochromes contributed to the objecthood of his shaped canvases after 1967, Gambone was attracted to white’s as-sociation with peace, a state of being exuded by his third installation, Ara, created for Gal-leria Annunciata, Milan, in 1970. In contrast with the reliefs of Bonalumi and Castellani, Gambone had been experimenting with much bolder projections from the wall into the space traditionally assigned by painting to the spec-tator. Its impeccable execution could suggest cold, design-influenced machine production

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rather the reality of meticulous hand-crafting, and seems ambiguous in the context of the work’s essential humanism. Canvas stretched over an irregular geometric support gave phys-ical volume to the undulating screen-like form depicted in his paintings in 1966 and charac-terised the modular composition of his second installation, a stage-like enclosure at Bochum, Germany, in 1969, that seemed programmed to precipitate action or performance. In Ara, the physicality of the elements was moderated so that, while the panels projected forward from the frontal plane, the shallower angles set up more subtle modulations of light and shadow. Unlike its two predecessors, however, Ara pro-hibits physical entry. Instead, its area can only be occupied imaginatively. The use of a title, unusual for these works, confirms the space as a place with evocative associations for the public, who may then understand that it is to be experienced from a distance. In this way, Gambone triggered a tension between a ‘pictorial’ relationship, as with an object (the panels are stretched canvases like paintings awaiting gestures and images), and unfulfilled desires to enter an attractive, real environment, in order to be enclosed by it and to touch its

surfaces. On this occasion, he included an uneven fabricated floor area that slopes into a central gully. Consequently, it would be disconcerting to walk on and underlines the strange ‘otherness’ of the experience itself.Gambone’s allusion to an altar, or sacred place, in his choice of title strikes an unfamiliar note. Yet it also reconnects his work with the spirit of Mark Rothko whose paintings were frequently referred to as secular altarpieces. In 1964, the American was commissioned by John and Dominique de Menil to create a meditative space in Houston, Texas. His paint-ings were made between 1964 and 1967, years that coincided with Gambone’s resi-dence in New York, but waited until 1971 to be installed in what is now called the Rothko Chapel. Rothko died in February 1970 and it is tempting, although fanciful, to interpret Gambone’s Ara, with its poetic choice of de-scriptive noun, as partly in tribute to his com-rade in art. For the spaces in Gambone’s objects, to bor-row Rothko’s words about his own paintings, ‘are deeply involved in the possibility of ordi-nary humanity’.

London, 21 April 2014 Martin Holman

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REPERTORIO PER IMMAGINI1965-1970

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1. Senza titolo, 1964, acrilici su tela, 150×180 cm

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2. Senza titolo, 1964, acrilici su tela, 120×180 cm

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3. Senza titolo, 1964, acrilici su tela, 120×180 cm

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4. Senza titolo, 1964, acrilici su tela, 200×360 cm

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5. Disegno progettuale e schizzi preparatori per Oggetto, 1965 penna biro e matita su carta, 34,2×24 cm

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6. Oggetto, 1965, acrilici su tavola scanalata, 80×130 cm

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7. Disegno progettuale e schizzi preparatori per Oggetto,1966 penna biro e matita su carta, 34×23,9 cm

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8. Oggetto, 1966, acrilici su tavola e tela sagomata, 80×120×25 cm

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9. Disegno progettuale e schizzi preparatori per Oggetto,1966 penna biro e matita su carta,34×23,9 cm

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10. Oggetto, 1966, acrilici su tavola e tela sagomata, 80×120×15 cm

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11. Disegno progettuale e schizzi preparatori per Ambiente,1967 penna biro e matita su carta, 33,6×23,9 cm

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12. Ambiente, tela estroflessa, 293×200×240 cm, Galleria del Cenobio, Milano, 1967

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13. Ambiente, tela estroflessa, 293×200×240 cm, Galleria del Cenobio, Milano, 1967

14. Oggetto, 1969, tela estroflessa, 70×120 cm

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15. Oggetto, 1970, tela estroflessa, 160×160×15 cm (composto da due elementi)

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16. Oggetto, 1970, tela estroflessa, 100×100 cm

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17. Oggetto, 1970, tela estroflessa, 120×120 cm

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18. Oggetto, 1970, tela estroflessa, 120×120×13,5 cm

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19. Oggetto, 1970, tela estroflessa, 120×120×12 cm

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20. Oggetto, 1970, tela estroflessa, 80×320 cm (quattro elementi)21. Oggetto, 1970, tela estroflessa, 80×320 cm (quattro elementi)

22. Oggetto, 1970, tela estroflessa, 121×150 cm

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23. Oggetto, 1970, tela estroflessa, 80×150 cm

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24. Oggetto, 1970, tela estroflessa, 100×120×20 cm

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25. Oggetto, 1970, tela estroflessa, 100×120 cm

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26. Locandina-invito per la mostra di Bruno Gambone, Ara, alla galleria Salone Annunciata, Milano, 8-27 gennaio 1970

27. Ara, 1970, installazione in tela estroflessa, 240×240×735 cm, Salone Annunciata, Milano, 1970

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28. Ara, 1970, installazione in tela estroflessa, 240×240×735 cm, Salone Annunciata, Milano, 1970

29. Oggetto, 1970, tela estroflessa, 60×60×12 cm

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30. Oggetto, 1970, tela estroflessa, 100×100 cm

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31. Oggetto, 1970, tela estroflessa, 131×121×20 cm

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32. Oggetto, 1970, tela estroflessa, 77×77×15 cm

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33. Ambiente, 1969, tela estroflessa, 293×200×240 cm, Galleria Kuckels, Bochum, 1969

34. Ambiente, 1969, tela estroflessa, 210×210×210 cm (particolare)35. Oggetto, 1969, tela estroflessa, 210×70 cm

Nella pagina successivaRitratto fotografico di Bruno Gambone, Firenze, 2014 (foto di Torquato Perissi)

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INTERVISTA A BRUNO GAMBONEdi Carolina Orlandini

Per iniziare la nostra chiacchierata vorrei ave-re da te qualche informazione sugli anni della tua formazione. Quali sono gli artisti che ti hanno colpito maggiormente e che in qualche modo ti hanno segnato?Sam Francis era un artista che amavo mol-to, mi piacevano anche Georges Mathieu e Franz Kline, che vidi per la prima volta a La Tartaruga. Apprezzavo anche Frank Stella e Eduardo Chillida. Ricordo ancora molto bene la forte impressione che ebbi dalla mostra di Rothko a Roma, alla Galleria d’Arte Moder-na, mi sembra all’inizio degli anni Sessanta, forse era il 1962. Quando a New York ne riparlai direttamente con lui ricordavo ancora tutti i quadri con emozione.In Italia apprezzavo molto Burri, la ricerca che portava avanti sui materiali mi affascinava.

Come è avvenuta quindi la tua formazione artistica? Ho avuto un approccio sostanzialmente im-mediato, quasi naturale. Non frequentai scuole o accademie, ma iniziai direttamente nel laboratorio di ceramica di mio padre e poi nel mio studio. Il resto è avvenuto attra-verso ciò che vedevo. Diciamo che la mia formazione è passata attraverso le visite alle Biennali, alle mostre e alle gallerie, inizial-mente fiorentine e poi ho spaziato il più pos-sibile, ho sempre sentito la necessità della vi-sione diretta. Volevo scoprire quello che era, allora, il panorama artistico scegliendo una via empirica.

Hai iniziato giovanissimo a lavorare come ce-ramista nello studio di tuo padre. Come ti è venuta l’idea poi di iniziare a dipingere e di sperimentare altre tecniche artistiche al di là

della ceramica? Cosa ti ha fatto scattare la curiosità?Ho avuto la fortuna di respirare e muovermi, fin da piccolo, in un ambiente artistico. L’inse-gnamento di mio padre mi ha permesso di av-vicinarmi al mondo dell’arte, ma soprattutto, mi ha permesso di crescere con la curiosità verso questo. Ho avuto la necessità di provare con la pittura, il mio percorso è stato cerami-ca-pittura e poi verso altre esperienze. Tornan-do a quanto dicevo poco fa, mi sono avvi-cinato alle gallerie che allora erano presenti a Firenze dove si faceva avanguardia, come la Galleria L’Indiano, Quadrante, la Galleria Schema o Numero di Fiamma Vigo, dove feci una delle mie prime mostre.

Un momento che penso possa aver fortemente segnato la tua ricerca artistica, in particolare modo per l’apertura culturale e di prospettive, credo sia stato il tuo soggiorno a New York tra il 1963 e il 1968. Con quali artisti si sono sviluppati i rapporti in quegli anni e quali sono state le modalità? Hanno portato a collaborazioni?In quegli anni ho avuto contatti e rapporti di amicizia con numerosi artisti, in particolare ricordo Andy Warhol, con cui ero in confi-denza e che frequentavo spesso. Ricordo anche Gregory Corso e gli anni della Beat Generation o Frank O’Hara, che all’epoca collaborava con il museo di arte moderna. Vedevo spesso Frank Stella alle inaugurazioni e alle feste, come anche Oldenburg, Spoerri e Rothko, con quest’ultimo avevo un rapporto molto stretto, forse anche per il grande rispetto che provavo per il suo lavoro. Andavo spesso nello studio di Louise Nevelson, avevamo gli studi vicini e pranzavamo insieme, il mio era

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avevo a Spring Street, il suo all’altro angolo della strada. Ho frequentato anche moltissimi artisti sud americani attraverso la galleria con cui lavo-ravo in quegli anni, la Galleria Bonino, che aveva una sede anche a New York, ricordo per esempio Alicia Penalba.Collaborazioni vere e proprie non ce ne sono state, ho avuto più che altro rapporti di ami-cizia, anche se ho partecipato, insieme a Schifano, ad alcune scene di un film di Andy Warhol. Schifano veniva spesso a trovarmi a New York, dove ci siamo conosciuti e poi di-ventati amici. Schifano venne a New York nel ’64 per preparare la sua personale alla Gal-leria Odyssia, negli anni successivi vi tornò diverse volte e io lo ospitavo e siamo rimasti in contatto anche dopo il mio rientro in Italia.All’epoca partecipai ad alcuni eventi di Nam June Paik e di Charlotte Moorman, una delle donne più importanti per Fluxus. Collaborai con lei ad una pièce incentrata sulla proiezio-ne doppia di alcune immagini per realizzare una scenografia molto ampia a teatro. Succes-sivamente tutto questo mi dette suggerimenti e spunti per i miei interventi, legati soprattutto al teatro sperimentale.Per esempio con Rauschenberg partecipai al progetto Experiments in Art and Technology, connubio tra arte, ingegneria e industria. C’e-ra a disposizione moltissimo materiale, erano aziende che finanziavano la ricerca artistica finalizzata poi all’idea della riproducibilità, una sorta di design artistico industriale.La tua ricerca artistica di quegli anni è ancora lontana, almeno apparentemente, dalle tele estroflesse – che arriveranno dopo – siamo ancora agli acrilici. Mi puoi dire qualcosa al riguardo? La tua ricerca era solo pittorica? I lavori pittorici, su cui mi ero concentrato mag-giormente, erano in effetti per lo più acrilici, erano opere legate a richiami sostanzialmente geometrici, che potevano trovare consonanze con il mondo di Ben Nicholson, un artista che mi interessava per come sviluppava le forme nello spazio. Poi, a poco a poco, alla mia pittura si sono andati ad aggiungere i volumi. Era infatti una pittura geometrica fatta non tan-to di piani, quanto di volumi.

Le frequentazioni di New York hanno sicura-mente prodotto un loro effetto, ma non ti ave-vano ancora portato definitivamente alle tele estroflesse. Una volta rientrato in Italia, nel 1968, frequenti Scheggi, Castellani e Bonalu-mi, è da queste connessioni che nasce l’idea dell’estroflessione? Come ci sei arrivato?Diciamo che mi stavo avvicinando all’idea dell’ “estroflesso” già attraverso la pittura, ver-so la metà degli anni Sessanta. Come dicevo poco fa, avevo iniziato a lavorare concentran-domi più sui volumi nello spazio pittorico, co-struiti attraverso colori vividi e squillanti. L’idea per questa tipologia di opere nasce prima del mio ritorno in Italia. Quando ero ancora a New York ero già stato colpito da alcuni lavori di Castellani, ma partivo da presupposti diversi, ero in una fase di lavoro in cui tende-vo a far emergere il volume dalla bidimensio-nalità della tela attraverso la pittura. Inizialmente ho lavorato a delle tele con i colo-ri sovrapposti, creando dei veri e propri spes-sori di colore. Da questa mia prima ricerca ho proseguito attraverso vere e proprie tavole lignee scanalate e dipinte, poi attraverso l’uso di tavole sagomate ho costruito solidi schiac-ciati sulla parete, fasciandoli con la tela, cre-ando così dei veri e propri altorilievi. Mi sem-brava la via più naturale. Le forme realizzate erano spesso riprese da quanto avevo fatto sulla tela col colore. Avevo iniziato a concepire le tele più orientate verso la scultura che non come opere piane.La spinta finale verso opere estroflesse mi ven-ne quando, tramite Alviani, fui invitato a rea-lizzare una mostra a Milano.

La tua personale alla Galleria del Cenobio nell’autunno del 1967? Come è nata la mostra?Incontrai Alviani a New York, lui all’epoca collaborava con Germana Marucelli che co-noscevo bene e per cui realizzai un progetto che ruotava intorno al tema delle farfalle.

Quindi tornasti in Italia per la mostra?Si, la mostra del Cenobio fu il primo vero ban-co di prova per le opere estroflesse. Tornai ap-posta a Milano. Poi mi sono fermato a Milano per un paio di anni, tenni lo studio lì anche

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quando mi ero già trasferito a Firenze, l’ho tenuto fino al 1972, era in via Solferino.

Venendo alle fasi organizzative della mostra del Cenobio, l’idea per realizzarla venne quindi in quel periodo a New York dall’incon-tro con Alviani?Esatto. Da lì nacque la mostra, i tempi furono serratissimi. All’inaugurazione vennero anche Feltrinelli e Fontana.

Come realizzavi le opere estroflesse?Partivo dal telaio, lo realizzavo solo di legno, poi stendere la tela era la parte più complica-ta, non far venire le pieghe, era il momento più delicato.Le tele del Cenobio per esempio le ho realiz-zate costruendo prima i telai e poi con grosse difficoltà si è proceduto a tirare la tela. Per quell’occasione realizzai un’istallazione am-bientale, l’opera aveva una grande dimensio-ne e questo sicuramente complicò la fase ese-cutiva. Non volevo che si vedessero gli angoli vivi. Il Cenobio è stata la prima vera esperien-za con le tele estroflesse. E da lì intrapresi una nuova via nella mia ricerca.

La tua scelta di creare per l’occasione un am-biente spaziale in cui il visitatore potesse en-trare, risente della lezione della coeva espe-rienza de Lo spazio delle Immagini che si era appena tenuta a Foligno?La scelta dell’ambiente nasce più dall’esigen-za dell’environment, non tanto da quanto fatto a Foligno, quanto dal momento storico-artisti-co. Non eravamo in tanti a realizzare opere del genere. Dopo quanto realizzato da Fon-tana, Scheggi, Alviani e Colombo avevano già sperimentato ambienti spaziali. A Foligno non venni chiamato e subito dopo ci fu un’al-tra esperienza analoga a Montepulciano. L’ambiente spaziale lo trovavo stimolante per la connessione che permetteva di creare con l’osservatore, lo costringe alla partecipazione attraverso la stessa occupazione dello spazio. Per esempio l’Ara che presentai all’Annuncia-ta aveva una conformazione tale che impedi-va all’osservatore di percorrerla, poteva solo osservarla, era un altare impraticabile, volevo giocare sull’idea stessa della sacralità.

Ti riferisci ad Amore mio con Achille Bonito Oliva?Si, conoscevo bene anche Achille.

Per quanto hai continuato con le estroflessioni?Ho iniziato con la mostra del Cenobio, come si diceva, e poi ho continuato nel tempo, tuttora le sperimento, ma non più come prima. Gli ultimi lavori estroflessi furono quelli che realizzai con Anna Canali, con la Galleria d’Arte Struktura, verso la fine degli anni Ottanta. Ho poi conti-nuato a lavorare comunque con le estroflessio-ni, ma in maniera diversa, portando avanti un lavoro che direi più intimo e personale.

La mostra del Cenobio come venne recepita?A Milano piacque molto, ricordo che Guido Ballo portò tutti i suoi allievi dell’Accademia di Brera. La presentazione alla mostra mi fu scritta da Germano Celant, una delle ultime sue cose prima che si dedicasse completamente all’Arte Povera. Poi Celant organizzò l’esperienza di Amalfi, Arte Povera+Azioni Povere, dove andai anche io. C’erano gli artisti invitati e altri, come me, Paolo Icaro, Gino Marotta o Daniel Buren, che facevano delle azioni personali, sponta-nee, per partecipare e sostenere la situazione. Io non presentai una mia opera, ma partecipai con Marotta e con Pistoletto alla realizzazione di alcuni interventi. Con Pistoletto per esempio feci un lavoro, nella piazza principale, se non ricordo male, era una sorta di performance te-atrale; l’altra azione fu con Richard Long, che mise in scena una vera e propria performance che si sviluppava nel paesaggio di Amalfi.

Bruno Gambone con Agostino Bonalumi, Milano, 1968

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I contatti di New York sono rimasti anche quando poi sei tornato in Italia o sono andati perduti?Non ho tenuto rapporti continui dall’Italia con gli artisti che avevo conosciuto a New York e di conseguenza molti di quei legami si sono andati affievolendo fino a perdersi. Vi è da dire che la tipologia di confronto con gli artisti americani era in parte diversa rispet-to a quella che avevo con gli artisti italiani, analogamente si frequentavano gallerie e si avevano numerosi scambi, ma le modalità erano un po’ diverse. Lo scambio di idee era comunque forte e ne conservo tuttavia un ri-cordo vivissimo. L’esperienza di New York mi è servita sicu-ramente, mi ha permesso di allargare il mio orizzonte, dandomi una diversa apertura di visione. Furono anni importanti per la forma-zione, ho potuto incontrare di tutto, sia a li-vello artistico che politico. Anche se lì per lì le cose non si capiscono, lasciano un grande segno, si stratificano, per poi riemergere nel tempo.

Una volta che sei rientrato in Italia, come si sono sviluppati invece i rapporti con l’ambien-te milanese?I legami con gli ambienti milanesi erano inizia-ti prima che partissi per New York, in partico-lare con il gruppo di Brera, capitavo a Milano e frequentavo la zona di Brera, il Jamaica. I rapporti con molti degli artisti che conobbi in quegli anni sono rimasti intatti anche mentre ero in America, per esempio ricordo che Gui-do Ballo mi venne a trovare, e come lui molti altri. Con Ballo una volta andammo insieme a Philadelphia, dove incontrammo Dorazio, in quel periodo insegnava ancora all’università di Philadelphia per un semestre l’anno. Duran-te quel soggiorno andai con Ballo a visitare il Philadelphia Museum of Art.

Quindi furono anni particolarmente ricchi di connessioni e di scambi, in un lasso di tempo così breve si concentrano esperienze molto di-verse che si intrecciano tra loro. Il confronto doveva essere forte, cosa porti con te di que-gli anni?

Furono anni stupendi, c’era collaborazione, sintonia di pensiero e il bisogno di confrontar-si. Non era come ora che si è aiutati da inter-net, l’unico modo allora per avere contatti e scambi era quello di incontrarsi, di parlare. Le mie estroflessioni nascono da un determinato momento artistico e da una fase ben precisa del mio percorso, in parte anche dal confron-to con Castellani e Bonalumi, ma le mie sono tuttavia diverse dalle loro. Partono da diversi presupposti. Ho notato che c’era una certa attenzione sia da parte tua che di questi artisti per il Nord Europa, per esempio con la tua mostra a Bo-chum o quelle di Francoforte e poi di Dort-mund del 1969 e 1970? Si; certe esperienze erano meglio recepite e capite in Nord Europa, erano mostre che lì potevano essere più apprezzate. La ricer-ca dei volumi e dei piani che stavo portando avanti vi trovava maggior riscontro.

A proposito dei contatti che avevi in quel pe-riodo, abbiamo già nominato Scheggi, Ca-stellani e Bonalumi. Con il Gruppo T e il Grup-po N hai mai avuto rapporti? Sentivi la coeva corrente dell’Arte Programmata?Conoscevo le loro esperienze e ho partecipa-to con Biasi ed altri ad alcune manifestazioni, per esempio anche a Zagabria, dove c’era la Nouvelle Tendence. C’erano diversi critici di Zagabria e di Belgrado che si occupavano di queste ricerche, venivano spesso a Milano o si andava noi là, ricordo i contatti con Biljana Tomic.A proposito dei rapporti con Zagabria, per esempio, una volta con Paolo Scheggi por-tai da Basilea anche alcuni elementi del Li-ving Theatre a Milano. Da lì poi andammo a Zagabria, dove partecipai, anche insieme a Paolo, a Tendencies 4 al Museo delle Arti e Artigianato, era il ‘69.La memoria mi sfugge un po’, ma ricordo che a Basilea feci anche un intervento con Luigi Nono, al Progressives Museum di Carl Laszlo.Sicuramente il Gruppo T e il Gruppo N han-no dato impulsi interessanti, guardavo al loro lavoro con attenzione, ma anche a quello di altri gruppi, come quello di Roma, il Gruppo

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Uno, con Pace e Frascà. Quegli anni erano segnati da un sottile filo rosso che accumuna-va il pensiero di alcune ricerche artistiche. I miei lavori erano chiaramente diversi da quelli di questi gruppi, ma certi intenti erano, per certi aspetti, similari.Veniamo alle tue sperimentazioni teatrali, ab-biamo già citato diverse esperienze: Cathe-rine Moorman, Pistoletto ad Amalfi, ma non dobbiamo dimenticare che tra i tuoi interessi c’è proprio il teatro. Mi riferisco in particolare allo spettacolo al Nuovo Teatro a Varese con Luciano Giaccari, allo Studio 970, incentrato su El Lisitzkij, 1 operaio + 1 contadino + 1 soldato dell’Armata rossa.La sperimentazione teatrale mi ha sempre inte-ressato, anche se quella ricordata ora fu un’e-sperienza diversa rispetto alle altre. Realizzai la pièce usando delle lampade di Wood. Il teatro era completamente al buio e si vedeva-no solo le lettere cirilliche che circolavano sul palcoscenico: le singole lettere alfabetiche, illu-minate dalla sola lampada a raggi ultravioletti, si muovevano sul palco e dovevano rappresen-tare l’operaio, il soldato e il contadino. Ricordo un bell’articolo di apprezzamento su Domus. Con Giaccari partecipai anche ad un altro evento, si trattava di una manifestazione all’a-perto. All’epoca avevo già iniziato a lavora-re ad opere estroflesse e per questo realizzai una scenografia sfruttando un lenzuolo bianco molto grande e due aspiratori; uno gonfiava il lenzuolo e l’altro lo sgonfiava, per cui si creava una sorta di forma tonda in divenire. Ricordo che si trattava di una manifestazio-ne insieme ad altri artisti, c’era anche Paolo Scheggi, con il quale ero legato da una soli-da amicizia.Più tardi partecipai alla rassegna Pollution a Bologna, dove realizzai un’istallazione dal titolo Nord artificiale, davanti al sagrato di Santo Stefano. Anche in questo caso si tratta-va di un’azione scenica.In quegli anni hai partecipato anche ad atre significative esperienze, in particolare ad al-cune legate alla ricerca linguistico-visiva e del-la poesia concreta, mi riferisco per esempio a Ipotesi linguistiche Intersoggettive.Fu organizzata da Lara Vinca Masini e c’era

anche Pietro Grossi, che in quegli anni aveva portato avanti diverse ricerche ed esperienze di composizione musicale estremamente inno-vative. Fu un evento a cui parteciparono nu-merosi artisti. Il clima culturale di quel tempo ci portava a stare insieme, era un momento di grande scambio. Per esempio con Paolo Scheggi e altri amici di Roma fondammo anche una piccola rivista, Il Malinteso, riuscimmo però a stampare un solo ed unico numero, il numero zero, avrebbe dovuto parlare di arte e lettera-tura, ma non avevamo fondi, ricordo che ci aiutò Fiorenzo Fiorentini per finanziarlo.

Come abbiamo già ricordato, hai iniziato come ceramista, in qualche modo la cera-mica ha influenzato il tuo modo di lavorare come pittore?Ho sempre pensato che il lavoro fatto con la ceramica avesse dei risultati più immediati, mi sembra che la bellezza legata a questo me-dium venga recepita prima. Proprio per que-sta ragione, i lavori che ho fatto in ceramica li ho sempre sentiti più semplici, sono cose a sé, da tenere separati rispetto alle altre mie esperienze artistiche. Questo non per una maggiore considerazione dell’uno o dell’altro. La ceramica mi ha dato molte soddisfazioni, ma l’ho sempre sentita di-versa dalla pittura, dalla tela o dalla scultura. I lavori in ceramica trasmettono prima l’idea sottesa alla loro realizzazione; per questa ra-gione ho sentito la necessità di dividere i due momenti.La pittura è meno diretta. Non mi riferisco a una maggiore facilità tecnica per la cerami-ca, ma piuttosto a una percezione più diretta da parte del fruitore rispetto alle opere su tela. La pittura è più difficile da penetrare. Il bello lo si vede dopo, poco a poco, va svelato. Forse in parte dipende dal senso tattile della stessa materia ceramica. Curioso, può essere tran-quillamente considerata scultura, ma la sua stessa materia, il suo intrinseco legame a un materiale povero, la rende, per associazione di idee, un gradino sotto la scultura. Questo erroneo collegamento ne è forse anche il suo limite.

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Dopo essere tornato alla ceramica hai “trascu-rato” per certi versi la pittura, come mai?Ho sentito l’esigenza di sperimentare di nuo-vo, non volevo fermarmi a quanto avevo già fatto. Ho voluto provare a vedere fino a dove potessi arrivare anche con altri materiali, per esempio con il vetro e il cristallo. È fondamen-tale per me il contatto diretto con i materiali per poterli sentire. Ancora una volta mi sem-brava necessario lo spessore.

A conclusione dell’incontro con Bruno Gambo-ne, mi piacerebbe ricordare quanto osservato ormai diversi anni fa, da Germano Celant ad introduzione del suo lavoro alla Galleria del Cenobio. Ben puntualizza il suo operato, fo-calizzando l’attenzione sulla sua accezione di spazio:

“[…] lo spazio “scoperto” da Gambone vuole perdere tutta la “magicità” che ha soffocato la partecipazione dello spettatore, si pone come possibile spazio da utilizzare e da agire. Non vuole direzionare l’atteggiamento umano, ma essere direzionato, vissuto, secondo la spon-tanea reazione del pubblico. Vuole, nel suo porsi, focalizzare la polarità dualistica tra la forma resa visibile e le forze sensibili del mu-tamento. Così si aggetta, scorre in progres-sione, si nega e si enfatizza in ogni singolo elemento. Non ammette ordine gerarchico tra idea e forma, tra spazio costruito e spazio da costruire. Aspira a concretizzare un modo di vivere che non sia conservazione o siste-ma, ma che sia libertà di agire in un sistema, anche se questo sistema si chiama ambiente spazio”.

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INTERVIEW WITH BRUNO GAMBONEby Carolina Orlandini

To start our chat I’d like you to tell me some-thing about your formative years. Which artists struck you most and what mark did they make on you? Sam Francis was an artist I loved a lot, and I also liked Georges Mathieu and Franz Kline, who I saw for the first time at La Tartaruga. I also admired Frank Stella and Eduardo Chill-ida. I still clearly remember the strong impres-sion the Rothko exhibition at the Galleria d’Arte Moderna in Rome had on me, I think it was at the start of the 60s, 1962 perhaps. When I spoke to him directly about it in New York I still had an emotional memory of all the pictures. In Italy I greatly admired Burri, I found his re-search on materials fascinating.

So how did your artistic formation take place? I had a substantially immediate, almost natu-ral approach. I didn’t go to schools or acade-mies, instead I started straight out in my father’s ceramics workshop and then in my studio. The rest happened through what I saw. Let’s say that my formation took place through visits to the Biennials, exhibitions and galleries, first of all in Florence and then I got around as much as I could. I always felt the need for a direct vision. I wanted to discover the artistic panora-ma of the time by choosing an empirical route.

You started to work as a ceramist in your fa-ther’s studio at a very young age. Where did the idea come from to start to paint and try out other artistic techniques to ceramics? What was it that prompted your curiosity? I was lucky enough to breathe and move around in an artistic environment from a young age. My father’s teaching allowed me to get close to the world of art, but above all it gave

me a curiosity towards it as I grew up. I need-ed to try painting, I went from ceramics-paint-ing and then towards other experiences. Going back to what I was saying before, I ap-proached the galleries in Florence that were doing avant-garde stuff at the time, such as Galleria L’Indiano, Quadrante, Galleria Sche-ma or Fiamma Vigo’s Numero, where I held one of my first shows.

A moment that I think might have made an important mark on your artistic research, in particular in terms of cultural openness and

Alfredo Bonino, Louise Nevelson, Bruno Gambone e Guido Ballo, nello studio di Louise Nevelson, New York, 1965

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perspectives, was your period in New York between 1963 and 1968. Which artists did you build relations with at that time and how? Did they lead to any joint work?In those years I had contacts and friendships with various artists, in particular I remember Andy Warhol: he was a close friend and we would often get together. I also remember Gregory Corso and the years of the Beat Gen-eration, or Frank O’Hara, who was working with the museum of modern art at the time. I often saw Frank Stella at openings and par-ties, as well as Oldenburg, Spoerri and Roth-ko. I had a very close relationship with Rothko, perhaps also because of the great respect I had for his work. I often went to Louise Nev-elson’s studio. Our ateliers were close by and we would have lunch together. Mine was in Spring Street, and hers was on the other cor-ner of the road. I also hung out with a lot of South American artists through Galleria Bonino, the gallery I was working with at the time, which also had premises in New York. For example, I remem-ber Alicia Penalba.But none of this resulted in working together. More than anything I had friendships, even though I did take part with Schifano in some scenes of a film by Andy Warhol. Schifano often came to visit me in New York, where we had met and become friends. Schifano came to New York in 1964 to prepare his solo ex-hibition at the Odyssia Gallery, and he came back several times over the next few years.

He used to stay with me and we kept in touch after I returned to Italy. At the time I took part in some events by Nam June Paik and Charlotte Moorman, one of the most important women for Fluxus. I worked with her on a piece that revolved around mak-ing a dual projection of some images to create a very wide theatrical-type setting. Afterwards, all this gave me suggestions and ideas for my works, especially on experimental theatre.For example, I took part with Rauschenberg in the Experiments in Art and Technology project which combined art, engineering and indus-try. There was a great deal of material availa-ble. Companies financed the artistic research, seeking reproducible works in a sort of artistic industrial design.

At that time, in appearance at least, your ar-tistic research was still a long way away from the extroflected canvases – which would come later. We were still on acrylics. What can you tell me about that? Was your research only pictorial? The pictorial works which I had concentrated on most were in effect mostly acrylic. These works were mainly linked to geometric ideas, which could ring true with the world of Ben Nicholson, an artist who I found interesting owing to how he developed forms in space. Then, little by little, I started to add volumes to my painting. In fact it was geometrical paint-ing not made so much of levels, but volumes.

Your New York acquaintances definitely had an effect, but they had not led you to the extroflect-ed canvases once and for all. When you came back to Italy, in 1968, you spent time with Scheggi, Castellani and Bonalumi. Was it from these connections that the idea of extroflection came about? How did you come up with it?Let’s say that I was already approaching the idea of “extroflection” through painting to-wards the middle of the 1960s. As I was say-ing just now, in my work I had started to con-centrate more on volumes in pictorial space, built through bright and vivid colours. The idea for this type of work came about before my return to Italy. When I was still in New York

Getulio Alviani e Bruno Gambone, Milano, 1968/69

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I had already been struck by some of Castel-lani’s works, but I was coming from a different starting point. I was in a phase when I tended to make the volume emerge from the two-di-mensionality of the canvas through painting. At first I worked on some canvases with over-lapping colours, creating really thick colour. I followed this initial research with actual wood-en tablets that were chased and painted, then I built solid forms using shaped tablets. I squashed them against the wall, wrapped them with canvas, and thus created high re-liefs. It seemed the most natural way to me. The shapes I made were often taken from what I had done on the canvas with the colour. I had started to conceive of canvases more ori-ented towards sculpture than flat works.The final push towards extroflected works came when, through Alviani, I was invited to make an exhibition in Milan.

Your solo exhibition at Galleria del Cenobio in autumn 1967? How did it come about?I met Alviani in New York. At the time, he was working with Germana Marucelli who I knew well. I made a project for her revolving around the topic of butterflies. So you came back to Italy for the exhibition?Yes, the exhibition at the Cenobio was the first real test bed for the extroflected works. I came back to Milan specially. Then I stayed in Milan for a couple of years, and I even kept the studio there when I had already moved to Florence. I kept it until 1972, it was in Via Solferino.

Let’s come to the organisational phases of the exhibition at Cenobio. So the idea dated back to that period in New York and your meeting Alviani?That’s right. That’s when we devised the exhibi-tion, with very little time to spare. Feltrinelli and Fontana also came to the opening.

How did you make the extroflected works?I started from the frame, I made it just from wood. Then the most complicated part was stretching over the canvas so there weren’t any creases. That was the most delicate moment.

For example, I made the Cenobio canvases first by building the frames, then, with great dif-ficulty, by stretching the canvas across. For that occasion I made an environmental installation; the work was very big and this definitely made the construction phase more complicated. I didn’t want them to see the unfinished corners. Cenobio was the first real experience with the extroflected canvases. And that’s where a new path in my research started.

On that occasion was your choice to create a spatial environment that the visitor could enter the result of the lesson learnt shortly before at Lo Spazio delle Immagini (The Space of Imag-es) experience in Foligno?The choice of environment came about more out of necessity, rather than as a result of what we did in Foligno, and owing to the historic moment in art. There weren’t many of us who did that type of work. After what Fontana had done, Scheggi, Alviani and Colombo had already experimented spatial environments. I wasn’t invited to Foligno, and straight away after there was another similar experience in Montepulciano. I found the spatial environ-ment stimulating because of the connection it was able to create with the observer, forcing him to take part through the same occupation of space. For example, the shape of the Ara that I presented at the Annunciata meant that the observer could not go along it, he could only observe it. It was an impracticable altar, I wanted to play on the very idea of sacredness.

Paolo Scheggi nell’Ambiente di Bruno Gambone, Galleria Kuckels, Bochum 1969

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Are you referring to Amore Mio with Achille Bonito Oliva?Yes, I knew Achille well too.

How long did you carry on with the extroflec-tions?I started with the Cenobio exhibition, as we were saying, and then carried on over time. I still test them out now, but not like I used to. The last extroflected works were the ones I did with Anna Canali, with Galleria d’Arte Struktu-ra, towards the end of the 1980s. Then I did carry on working with extroflections, but in a different way, creating an oeuvre that I would say is more intimate and personal.

How was the Cenobio exhibition received?It went down very well in Milan, I remember that Guido Ballo took his pupils from the Brera Academy. Germano Celant wrote the pres-entation of the exhibition for me. It was one of the last things he did before going over com-pletely to Arte Povera. Then Celant organised the Amalfi experience, Arte Povera+Azioni Povere (Arte Povera-Poor Art+Poor Actions) where I went too. There were invited artists and also others, like me, Paolo Icaro, Gino Marotta or Daniel Buren, who did some spon-taneous, personal actions in order to take part and support the event. I did not present my work, but took part by putting on some inter-ventions with Marotta and Pistoletto. For ex-ample, I did a work with Pistoletto in the main piazza. If I’m not mistaken it was a sort of the-atrical performance. The other action was with Richard Long, who put on a true performance out in the Amalfi landscape.

When you came back to Italy did you keep the contacts you made in New York or did they get lost along the way?In Italy I didn’t constantly keep up the relation-ships with the artists that I had met in New York, so lots of those bonds got weaker and weaker and eventually disappeared. I have to say that the type of relationship I had with the American artists was in part different to what I had with the Italian artists. We went to galleries and exchanged views like before,

but in a slightly different way. All the same, we swapped lots of ideas and I still have a very clear memory of it. The experience in New York was definitely useful for me. It opened up my horizons, giv-ing me a different and more open vision. They were important years for my formation. I came across all sorts of things, both in artistic and political terms. Even if you don’t understand things right there and then, they leave a great mark, they settle in you, and then re-emerge in time.

Once you came back to Italy, how did your re-lationships with the Milanese milieu develop?I had started to form bonds with the Milanese milieu before I left for New York, in particu-lar with the Brera group. I sometimes went to Milan and hung out in the Brera area, at the Jamaica bar. I also kept in touch with many of the artists that I met in that period while I was in America. For example, I remember that Gui-do Ballo came to visit, and so did many others like him. Once I went to Philadelphia with Bal-lo, where we met Dorazio. At that time he still taught at the University of Philadelphia for one semester a year. During that stay with Ballo I went to visit the Philadelphia Museum of Art.

So they were years with lots of ties and to-ing and fro-ing of ideas, with very different, intertwining experiences in a short time span. It must have been quite an interchange, what have you brought with you from that period?It was an amazing time. We worked togeth-er, thought in the same way, and we needed to swap ideas. It was not like now with the help we get from the Internet. The only way to have contacts and swap views was to meet, to speak. My extroflections come about from a particular artistic moment and a very precise phase in my career, and in part also from the comparison with Castellani and Bonalumi, but mine were nevertheless different from theirs. They were starting from a different tack.

I’ve noticed that both on your and these artists’ parts there was a certain interest in Northern Europe, for example with your exhibition in

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Bochum or the ones in Frankfurt and then in Dortmund in 1969 and 1970? Yes, certain experiences were given a bet-ter reception and were understood better in Northern Europe. They were exhibitions that could be appreciated more there. My re-search into volumes and levels gained more feedback there.

About the contacts you had at that time. We’ve already brought up Scheggi, Castellani and Bonalumi. Did you ever have anything to do with Gruppo T and Gruppo N? Were you af-fected by the simultaneous Arte Programmata current?I knew about them and their work, and I took part with Biasi and others in some events, for example in Zagreb, where there was the Nouvelle Tendence. There were various critics in Zagreb and Belgrade who dealt with this research. They often came to Milan, or we went there. I remember the contacts with Bil-jana Tomic.As regards my ties with Zagreb, for example,

once with Paolo Scheggi I took some elements of Living Theatre from Basel to Milan. From there we went to Zagreb, where again with Paolo I took part in Tendencies 4 at the Muse-um of Arts and Craft. It was 1969.My memory lets me down a bit, but I remember that I also did an intervention in Basel with Luigi Nono, at Carl Laszlo’s Progressives Museum.Without doubt Gruppo T and Gruppo N gave some interesting impulse. I didn’t only observe their work with attention, but also that of oth-er groups, such as Gruppo Uno in Rome with Pace and Frascà. Those years were marked by a thin thread that linked the thought of various lines of artistic research. My work was definite-ly different from these groups, but in certain as-pects some of our intents were similar.

Let’s come to your theatrical experiments. We’ve already mentioned various experienc-es: Catherine Moorman, Pistoletto in Amalfi, but we mustn’t forget that theatre is one of your interests. In particular I’m referring to the per-formance at the Nuovo Teatro in Varese with Luciano Giaccari, at Studio 970, centred on El Listikij, 1 operaio + 1 contadino + 1 sol-dato dell’Armata Rossa (El Lissitzky, 1 manual worker + 1 farmer + 1 Red Army soldier).I’ve always been interested in theatrical exper-imentation, even though what you’ve just men-tioned was a different experience to the rest. I made the piece using black light. The theatre was totally dark and you could only see the Cyrillic letters going round on the stage: the single letters of the alphabet, only lit up by the ultraviolet light, moved on the stage and were supposed to represent the manual worker, sol-dier and the farmer. I remember a good article in its praise in Domus. I also took part in another event, an open-air manifestation, with Giaccari. At the time I had already started to work on extroflected works and so I made a backdrop using a very large white sheet and two fans; one blew up the sheet and the other deflated it, so it created the beginnings of a sort of round shape. I re-member that it was an event with other artists. Paolo Scheggi, who was a great friend, was also there.

Bruno Gambone con Pietro Longo vicino al Palazzo delle Nazioni Unite, New York, 1969

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Later I took part in the Pollution show in Bo-logna, where I made an installation entitled Nord artificiale (Artificial North) in the square in front of the church of Santo Stefano. In this case too it was a scenic action.

In those years you also took part in other sig-nificant experiences, in particular some linked to linguistic-visual research and poetry proper. I’m talking about Ipotesi linguistiche intersog-gettive (Intersubjective Linguistic Hypotheses) for example.It was organised by Lara Vinca Masini, and Pietro Grossi was there too. At that time he had conducted various lines of extremely in-novative research and musical composition experiences. The cultural climate at the time brought us to-gether. It was a time there was a great ex-change of ideas. For example, with Paolo Scheggi and other friends from Rome we also founded a small journal, Il Malinteso (The Mis-understood) but we only managed to print a issue no. 0. It would have talked about art and literature, but we didn’t have the funds. I remember Fiorenzo Fiorentini helped us to finance it.

As we’ve already said, you started out as a ceramist. Did ceramics somehow influence how you worked as a painter?I’ve always thought that work done with ceram-ics had more immediate results. It seems that the beauty linked to this medium is felt sooner. This is why I’ve always felt that the works I did in ceramics were more simple, a thing unto themselves, something to keep separate from my other artistic experiences. That’s not because I consider one better than the other. Ceramics gave me a great deal of satisfaction, but I’ve always felt it to be differ-ent from painting, from the canvas, or from sculpture. Ceramic works first transmit the idea underly-ing their creation; that’s why I felt the need to divide the two moments.Painting is less direct. I’m not saying that ce-

ramics has an easier technique, but that the user has a more direct perception of it than works on canvas. Painting is more difficult to penetrate. You see the beauty afterwards, it’s revealed bit by bit. Perhaps to some extent it depends on the tactile nature of the ceramic matter. Curiously, it can easily be considered sculpture, but, through an association of ide-as, its very matter, its intrinsic bond with a poor material, makes it one step below sculpture. This false connection is also perhaps where its limit lies.

After going back to ceramics, you’ve “neglect-ed” painting in some ways. Why? I felt the need to experiment again, I didn’t want to stop at what I’d already done. I want-ed to see how far I could get with other materi-als too, with glass and crystal for example. It’s fundamental for me to have direct contact with the materials, so I can feel them. I seemed to need the thickness once again.

At the end of this meeting with Bruno Gam-bone, I’d like to remember what I had noted, several years ago now, from Germano Cel-ant’s introduction to his work at Galleria del Cenobio. He pinpoints his work well, focus-sing his attention on Gambone’s acceptation of space:“[…] the space ‘discovered’ by Gambone wants to lose all the ‘magic’ that suffocated the spectator’s participation. It appears as a space that can be used and acted in. It does not aim to direct human behaviour, but to be given direction and lived, according to the public’s spontaneous reaction. In its manifesta-tion, it intends to focus on the dualistic polarity between the form made visible and the sen-sitive forces of change. So it protrudes, pro-gresses, denies and emphasises every single element. It does not permit a hierarchical order between idea and form, between space that is and is to be built. It aspires to realise a way of living that is neither preservation nor system, but the freedom to act in a system, even if this system is called environment-space.”

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Invito Esperimento di Nuovo Teatro, Varese, 1969

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Schizzo per 1 OPERAIO + 1 CONTADINO + 1 SOLDATO DELL’ARMATA ROSSA

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Schizzo per 1 OPERAIO + 1 CONTADINO + 1 SOLDATO DELL’ARMATA ROSSASchizzo per 1 OPERAIO + 1 CONTADINO + 1 SOLDATO DELL’ARMATA ROSSASchizzo per 1 OPERAIO + 1 CONTADINO + 1 SOLDATO DELL’ARMATA ROSSASchizzo per Geremia e Galone s.p.a. alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna, 1969

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Paolo Scheggi ed Emilio Isgrò alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna (1969) per l’allestimento di Geremia e Galone s.p.a.

Bruno Gambone, Franca Sacchi, Paolo Scheggi ed Emilio Isgrò, in Geremia e Galone s.p.a. alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna, 1969

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TAVOLE

Le opere contraddistinte nella didascalia con un numero fra parentesisono riprodotte anche nelle foto d’epoca del Repertorio per immagini

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I Oggetto, 1970, tela estroflessa, 32,5×32,5×10 cm

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II Oggetto, 1970, tela estroflessa, 60×60×12 cm (29)

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III Oggetto, 1970, tela estroflessa, 70×70×10 cm

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IV Oggetto, 1970, tela estroflessa, 60×60×8 cm

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V Oggetto, 1970, tela estroflessa, 70×70×4 cm

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VI Oggetto, 1970, tela estroflessa, 100×120×20 cm (24)

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VII Oggetto, 1970, tela estroflessa, 100×120×12,5 cm

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VIII Oggetto, 1970, tela estroflessa, 120×120×12 cm (19)

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IX Oggetto, 1970, tela estroflessa, 100×100×20 cm

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X Oggetto, 1970, tela estroflessa, 131×121×20 cm (31)

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XI Oggetto, 1970, tela estroflessa, 120×120×13,5 cm (18)

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XII Oggetto, 1970, tela estroflessa, 99×240×16 cm (4 elementi)

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XIII Ara,1970, installazione in tela estroflessa, 240×240×735 cm, Galleria Il Ponte, Firenze, 2014 (27-28)

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Bruno Gambone nel suo Ambiente, Galleria Kuckels, Bochum, 1969

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NOTA BIOGRAFICA

Bruno Gambone nasce a Vietri sul Mare (Salerno) nel 1936. Fin da ragazzo, agli inizi degli anni cinquanta, si dedica alla ceramica facendo esperienza nello studio fiorentino del padre Guido, uno dei grandi ceramisti italiani del XX secolo. Ad una successiva collaborazione nella manifattura di An-drea d’Arienzo (1958) si accompagna la sperimentazione di interventi su stoffe e la pittura su tela, esperienze queste che l’artista porta avanti in parallelo, tanto da presentare la sua prima personale di pittura alla galleria La Strozzina in Palazzo Strozzi a Firenze alla fine degli Anni Cinquanta. Nei primi anni sessanta si stabilisce a New York dove frequenta Rauschenberg, Nevelson, Stella, Lichtenstein, Warhol. Oltre che di pittura e scultura si occupa di teatro e cinema. In questo decennio il suo lavoro viene presentato in personali e collettive tanto in Italia (tra le altre, Galleria Il Chiodo, Paler-mo, 1966; Galleria del Cenobio, Milano; Mostra internazionale dei giovani, Milano, Torino, 1967; Oggi, Salone Annunciata, Milano, 1968) quanto all’estero (Henry Gallery, Washington, 1964; Gal-leria Bonino, Rio de Janeiro, 1967; 30 artisti europei, Galleria M, Bochum, 1969). La sperimentazione di materiali, forme, colori e decorazioni sempre più presente nella sua opera dalla fine degli anni sessanta arricchisce le esperienze fatte proprie negli anni cinquanta. La “geometria della forma” che risentiva dell’eredità classica presente nella ceramica del padre, viene sostituita da una “geometria percettiva”, immateriale, e l’”idea” diventa punto focale del suo lavoro. Nel 1968 torna in Italia e si trasferisce a Milano, città d’elezione dell’arte contemporanea, dove conosce e frequenta gli artisti Castellani, Fontana, Scheggi, Bonalumi, Colombo. L’anno seguente, venendo a mancare il padre, Gambone ritorna a Firenze dedicandosi quasi esclusivamente alla ce-ramica, con un’attività espositiva che lo vede impegnato per un ventennio in un susseguirsi di mostre e partecipazioni a fiere nazionali (Concorso Internazionale della Ceramica, Faenza, 1971 - ‘72, ‘74, ‘77 - Biennale di Venezia, 1972; XV Triennale di Milano, 1973; Concorso della Ceramica Me-diterranea, Grottaglie, 1979, Gallery, Bologna, 1985; Galleria Piaser, Torino, 1987; Galleria My Home, Albenga, 1988; Galleria L’Angololungo, Roma, 1990; Arte Fiera, Bologna, 1991; Galleria Fallani Best, Firenze 1996) ed internazionali (Fiera di Monaco, 1974; Galleria Silverberg, Malmoe, 1975; Art Muddy, Tokyo, 1979; Museum Modern Art, New York, 1982; Festival del design italiano, Houston, 1983; III International Ceramic Festival, Mino, Giappone, 1992). L’artista non manca al contempo di fare degli sconfinamenti, soprattutto negli anni settanta e ottanta, in altri campi: nel vetro con alcune collaborazioni con le cristallerie di Colle Val D’Elsa e successiva-mente con i laboratori veneziani, creando oggetti d’arredo tra cui tavoli e lampade, e nell’oreficeria, disegnando gioielli ispirati ad animali fantastici, quegli stessi che popolavano le sue ceramiche. Bruno Gambone fa parte del Consiglio Nazionale della Ceramica ed è Membro dell’Accademia di Gine-vra. Da un decennio è direttore artistico del Premio Nazionale della Ceramica di Vietri sul Mare e tra le sue recenti esposizioni si annoverano Donne Madonne e Sirene (Napoli, 2001), Corno d’Autore (Napoli, 2001), Terra e Fuoco (Bruxelles, 2003), Metamorfosi di terra (Torino, 2007), Sculture (Galle-ria Il Ponte, Firenze, 2007), Bruno Gambone. Oggetti 1965-1970 (Galleria Il Ponte, Firenze, 2014).

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BIOGRAPHICAL NOTE

Bruno Gambone was born in Vietri sul Mare (Salerno) in 1936. Since boyhood, at the beginning of the 1950s, he dedicated himself to pottery, gaining experience in the Florentine workshop of his father Guido, one of the greatest Italian potters of the 20th century. After working for Andrea d’Arien-zo (1958), he began to experiment by working on fabrics and painting on canvas. The artist was to continue the two activities in parallel, going onto present his first solo painting exhibition at Galleria La Strozzina in Palazzo Strozzi in Florence at the end of the 1950s.  In the early 1960s he set up in New York where he frequented the likes of Rauschenberg, Nevelson, Stella, Lichtenstein and Warhol. As well as painting and sculpture, he also worked in theatre and cin-ema.  In this decade his work was presented in solo and group exhibitions both in Italy (among others, Gal-leria Il Chiodo, Palermo, 1966; Galleria del Cenobio, Milan; Mostra internazionale dei giovani, Mi-lan, Turin, 1967; Oggi, Salone Annunciata, Milan, 1968) and abroad (Henry Gallery, Washington, 1964; Galeria Bonino, Rio de Janeiro, 1967; 30 artisti europei, Galleria M, Bochum, 1969).His experimentation with materials, shapes, colours and decorations, increasingly present in his work in the late 1960s, was enriched by the experience he had gained in the 1950s. The “geometry of shape” influenced by the classical education he inherited from his father’s pottery, was replaced by a “perceptive, immaterial geometry” and the “idea” became the focal point of his work. In 1968 he returned to Italy and moved to Milan, contemporary art’s chosen city, where he met and frequented the artists Castellani, Fontana, Scheggi, Bonalumi and Colombo.The following year his father died and Gambone returned to Florence, devoting himself almost entirely to pottery. For twenty years he became involved in a series of exhibitions and took part in national (International Pottery Competition, Faenza, 1971 - ‘72, ‘74, ‘77 – Venice Biennale, 1972; XV Milan Triennale, 1973; Mediterranean Pottery Competition, Grottaglie, 1979, Gallery, Bologna, 1985; Galleria Piaser, Turin, 1987; Galleria My Home, Albenga, 1988; Galleria L’Angololungo, Rome, 1990; Arte Fiera, Bologna, 1991; Galleria Fallani Best, Florence 1996) and international fairs (Mu-nich fair, 1974; Silverberg Gallery, Malmö, 1975; Art Muddy, Tokyo, 1979; Museum of Modern Art, New York, 1982; Festival of Italian Design, Houston, 1983; III International Ceramic Festival, Mino, Japan, 1992).At the same time, the artist did not fail to break out into other fields, in particular in the 1970s and 80s: glass, with some partnerships with the glass works in Colle Val D’Elsa and subsequently with laborato-ries in Venice, creating furnishings such as tables and lamps, and jewellery, designing pieces inspired by imaginary animals, the same ones that populated his pottery. Bruno Gambone is part of the National Pottery Council and is a member of the Geneva Academy. For around a decade he has been the artistic director of the Vietri sul Mare National Pottery Prize. Number-ing among his recent exhibitions are Donne Madonne e Sirene (Naples, 2001), Corno d’Autore (Na-ples, 2001), Terra e Fuoco (Brussels, 2003), Metamorfosi di terra (Turin, 2007), Sculture (Galleria Il Ponte, Florence, 2007), Bruno Gambone. Oggetti 1965-1970 (Galleria Il Ponte, 2014).

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BIBLIOGRAFIA / BIBLIOGRAPHY

Germano Celant, presentazione, catalogo della mostra personale, Galleria del Cernobio, Milano, 1967Paolo Scheggi, Gambone – L’astrazione geometrica a colori, in “Centro Arte,” n. 2 dicembre 1967, p. 38Guido Ballo, Sviluppi della pittura-oggetto, in “Ottagono”, n. 14, luglio 1969, pp. 110-113Tommaso Trini, Mostre d’inverno a Milano, Roma e Napoli, in “Domus”, febbraio 1970Lara Vinca Masini, presentazione, catalogo della mostra personale, Galleria Il Segnapassi, Pesaro, febbraio 1972Giuseppina Mazzoni Rajna, Bruno Gambone, presentazione al catalogo della mostra personale, Centro Tellino di Cultura, Teglio Valtellina, luglio-agosto 1976Savina Roggero, Uno zoo in miniatura, in “Smack”, marzo 1979Giorgio Lilli Latino, presentazione al catalogo della mostra Ci troviamo da Giotto, Monte San Savino, maggio 1980Titti Carta, Come si perpetua l’arte dei Gambone. Il gusto della ceramica tramandato di padre in figlio, in “Il Mes-saggero”, 20 agosto 1980La ceramica secondo Bruno Gambone, in “GIFT”, Firenze, ottobre 1981Arcangelo Izzo, Bruno Gambone: la ceramica messa in scena, in “Lapis/Arte”, 1981Angelo Izzo, Un viaggio nella ceramica, in “Progress”, 1982Lucia Scaggiante, Ceramica primo amore di Bruno Gambone, in “La Ceramica Moderna”, II, n. 19, novembre 1981Lucia Scaggiante, Fantasia e realtà di Bruno Gambone, in “Forme 95”, 1982Andrea Zanfei, Bruno Gambone, catalogo della mostra, Galleria La Scelta, Trieste, marzo 1983Isa Vercelloni, catalogo della mostra, Galleria Desir, Spoleto, giugno – agosto 1983Isa Vercelloni, Bruno Gambone, in “Pottery in Australia”, maggio – giugno 1983Bruno Galante, Bruno Gambone: un poeta della ceramica, in “Gift”, Firenze, settembre 1983Estenio Mingozzi, Su Bruno Gambone, catalogo della mostra, Gallery, Bologna, 1985Estenio Mingozzi, Bruno Gambone, in “Dame”, Tokyo, luglio 1987Manuela Milan, La tela estroflessa nell’area milanese dal 1958 ad oggi, catalogo della mostra, Galleria Arte Struktu-ra, Milano, 1989Manuela Milan, Fatto a mano. Bruno Gambone, in “Forme”, 1989Mariolina Cosseddu, presentazione della mostra Frequenze, Torre di San Giovanni, Alghero, agosto 1989Camilla Michelotti, La riscoperta della ceramica. Forme elementari e colori della natura nelle opere ricche di interiorità e poesia di Bruno Gambone, in “A artigianato”, Milano, dicembre 1991Camilla Michelotti, Bruno Gambone, in “Gift”, Firenze, settembre 1992Gilda Cefariello Grosso, Bruno Gambone, catalogo della mostra, Studio blu arredamenti, Livorno, dicembre 1994Marida Faussone Boido, Volumi d’argilla per Bruno Gambone, in “Gazzetta d’Asti”, 14 aprile 1995Nicola Mileti, Aldo Moretto, Scultura ceramica del ’900. Bruno Gambone: la virtualità del vaso. La forma e lo stile nell’impatto con l’opera d’arte, in “superfici”, VII, n.15, dicembre 1995Giorgio Lilli Latino, Quando l’arte è in ascolto della libera voce del poeta, in “Il mondo dei gioielli”, dicembre-gennaio 1995-1996Marco Fagioli, In spazio: ricerche intorno alla modernità perduta, testo al catalogo della mostra In Spazio. Installa-zioni nello spazio urbano e in Palazzo Piccolomini, Pienza, giugno-luglio 1996Gilda Cafariello Grosso, Bruno Gambone, presentazione del catalogo della mostra nell’ambito della personale del Gift Mart, Firenze, Fortezza da Basso, gennaio-febbraio 1997Gilda Cafariello Grosso, Bruno Gambone, in “D’A”, giugno 1997Elisa Massoni, Il gioco del grès di Bruno Gambone, in “Magazine”, gennaio 1998Enrica Pellerano, Gambone. La ceramica che non perde lo smalto, in “Il Giornale”, 1998Alessandra Bruscagli, Bruno Gambone. Una vita a contatto con l’arte, in “Metropoli”, 6 marzo 1998Massimo Bignardi, Bruno Gambone: la forma del racconto, catalogo della mostra Napoli Scuderie di Palazzo Reale 1999 – Vietri sul Mare, Palazzo della Guardia 2000Marco Alfano, Metamorfosi di terra. Bruno Gambone, catalogo della mostra, Torino, Galleria Terre d’Arte, 12 aprile – 12 maggio 2007Bruno Gambone. Oggetti 1965-1970, a cura di A. Alibrandi, testo di M. Holman, intervista di C. Orlandini, Edizioni Il Ponte, Firenze 2014

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1959 Galleria La Strozzina, Firenze1961 Galleria L’Indiano, Firenze1962 Galleria Il Traghetto, Venezia1963 Armony Gallery, New York1964 Henry Gallery, Washington1966 Galleria Il Chiodo, Palermo1967 Galleria Bonino, Rio de Janeiro1967 Galleria del Cenobio, Milano1969 Galleria Kuckels, Bochum1970 Galleria Salone Annunciata, Milano1974 Galleria Portobello, Torino1975 Galleria Silveberg, Malmoe1976 Centro Tellino di Cultura, Teglio Valtellina1978 Galleria Il Vicolo, Genova1979 Galleria La Gorgona, Trieste1979 Galleria Tamma, Porto Ferraio1980 Centroforme, Alghero1981 Galleria Kent, Firenze1981 Galleria Plok, Bari1982 Galleria Tamma, Porto Ferraio1982 Galleria L’Angolo, L’Aquila1983 Galleria La Scelta, Trieste1983 Galleria Desir, Spoleto1983 Atelier Voggeneder, Eferding1984 Chiostro Abbazia di Rosazzo, Manzano1984 Galleria Kent, Firenze1985 Abitare oggi, Romagnono Sesia1985 Galleria Gagliardi, San Gimignano1985 Gallery, Bologna1985 Abitare oggi, Romagnano Sesia1986 Galleria La Piazzetta, Minori1986 Galleria Blitz, Cava dei Tirreni1987 Galleria L’Angolo, L’Aquila1987 Galleria Il Gelso Moro, Viareggio1987 Galleria Piaser, Torino1987 Galleria L’Angolo, L’Aquila1988 Galleria La Piazzetta, Minori1988 Galleria La Gorgona, Trieste1988 Galleria My Home, Albengo1989 Galleria Centroforme, Alghero1990 Galleria L’Angolungo, Roma1991 Galleria L’Angolo, L’Aquila1991 Galleria Gagliardi, San Gimignano1995 Galleria San Pietro, Asti1995 Galleria Gagliardi, San Gimignano1996 Gift Mart, Firenze1996 Galleria Fallani Best, Firenze1998 Galleria La Soffitta, Sesto Fiorentino1999 Palazzo Reale, Napoli2000 Bambole della bottega scura, Isola d’Elba2000 Materia Crea, Greve in Chianti2000 Palazzo Guardia, Vietri sul Mare2000 Centro Culturale La Firma, Riva del Garda

MOSTRE PERSONALI / SOLO SHOWS

2000 D’A Gallery, Firenze2001Taverna Ho-la-la, Napoli (con Giovanni Carta)2002 Galleria Corso Tintori Arte, Firenze2003 Geometria, Greve in Chianti2004 Spazio Nibe, Milano2004 In cammino sull’isola da Antonio Baldo, Milano2005 Jack and Joe Theater, Cerbaia2006 Gallerie d’Agata, Bruxelles2007 Terre d’Arte, Torino2007 Galleria L’Immagine, Pontassieve2007 Fattoria Cerreto Libri, Pontassieve 2007 Comune di Avigliana, Torino2008 Galleria il Ponte, Firenze2009 La Galerie de Pierre Bergé&Associés, Bruxelles2012 Villa Aruch, Firenze2014 Galleria Il Ponte, Firenze

MOSTRE COLLETTIVE E RICONOSCI-MENTI / GROUP SHOWS AND AWARDS

1960 Galleria Numero, Firenze 1960 Galleria L’Aquilone, Festival Due Mondi, Spoleto1961 Conservatorio Cherubini, Firenze1962 Giovane pittura italiana, Denver1962 Premio Fiesole, Fiesole1963 Galleria Quadrante, Firenze1963-1964 Premio Internazionale, Palazzo Strozzi,

Firenze1964 Cocran Museum, Washington1964 Premio Nazionale del Fiorino, Firenze1965 Premio Nazionale Silvestro Lega, Modigliana1965 Galleria Bonino, New York1966 Gallery Modern Art, Washington1966 Il gioco degli artisti, Galleria del Naviglio, Milano1966 Galleria Bonino, Rio de Janeiro1966 Premio Termoli, Termoli1966 Indicazioni ’66, Chiostri della Basilica del Carmine, Firenze1966 Ten by twelve, Galleria Bonino, New York1967 Mostra Internazionale dei Giovani, Milano, Torino1967 Mostra Gualdo, Sesto Fiorentino1967 Premio Silvestro Lega, Modigliana Bologna1967 Ricerche linguistiche intersoggettive, Firenze Torino, Termoli, Livorno, Napoli1968 24 hours open theater, Varese1968 Oggi, Galleria Salone Annunciata, Milano1969 30 artisti europei, Galleria M, Bochum1969 Oggi, Salone Annunciata, Milano

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1969 Esperimento di nuovo teatro, Studio 970 Vare-se – presenta la pièce teatrale 1 operaio + 1 contadino +1 soldato dell’armata rossa

1969 Tendencies 4: Retrospective NT-1 NT 3; Recent examples of visual research, Museo delle Arti e Artigianato, Zagabria

1969 2+35, Galleria Cadario, Caravate Varese1969 Geremia e Galone, spettacolo di Gambone,

Isgrò, Sacchi e Scheggi, Museo Civico di Bo-logna

1969 Gambone-Scheggi e X-art, Galerie Ursula Lichter, Francoforte

1970 Settimana italiana, Kiel organizzata dell’ICE 1970 Neue Italienische Kunst, Stazione di Rolandseck,

Bonn1970 Galerie K-7, Dusseldorf1971 Concorso Internazionale della ceramica, Faenza1972 Concorso Internazionale della ceramica, Faenza1972 Pollution per una nuova estetica dell’inquinamen-

to, Bologna1972 Biennale di Venezia1973 XV Triennale, Milano1973 See of Japan Exibition, Kyoto e Kanazawa1973 Mostra design dell’arredamento, Milano1973 II Esposition Internazional de la Ceramique, Element ceramique dans l’Art moderne, Francia1974 Treno Italia, mostra itinerante tra le principali ca-

pitali Europee ENAPI-ICE1974 IV Concorso della ceramica mediterranea, Grot-

taglie 1974 Concorso internazionale della ceramica, Faenza1974 Fiera di Monaco - medaglia d’oro dell’ENAPI1975 MIA, Faenza a cura dell’ENAPI1975 Concorso internazionale della ceramica, Faenza1975 Mostra autonoma italiana, Tokyo a cura dell’ICE1975 Gualdo, Sesto Fiorentino1977 Gualdo, Sesto Fiorentino1977 Concorso della ceramica mediterranea, Grotta-

glie – primo premio 1977 Mostra permanente alla sedi ICE, Dusseldorf 1977 Mostra a Lione, Francia organizzata dalla Re-

gione Toscana1977 Concorso della ceramica mediterranea, Grotta-

glie – primo premio1977 Concorso internazionale della ceramica, Faenza1979 ART MUDDY, Tokyo, Nagoya e Kyu-shu1979 Biennale Nazionale della ceramica d’arte, Reg-

gio Calabria1980 Biennale della ceramica, Vallauris 1981 II Biennnale Nazionale della ceramica d’arte,

Reggio Calabria - premio dell’ente provinciale per il turismo

1982 MIA, Monza 1982 Il design degli anni 80, Museum Modern Art ,

New York1982 Il design degli anni 80, La Jolla Museum, Cali-

fornia1982 Terra collettiva, Alghero1982 Iris, Villa Romana , Firenze

1983 Concorso Nazionale Biennale Piatto di cerami-ca, Asti

1983 Kent’s art gallery , Firenze1983 Arte Azzura, Westerly 1983 Sakowitz Festival del design italiano, Houston,

Texas1983 Metamorfosi dell’oggetto, Cefalù1984 Salone internazionale della ceramica, porcella-

na e vetro, Fiera di Vicenza1984 Rassegna del design delle arti e dei mestieri,

Tonara, Nuoro1984 Concorso nazionale della ceramica tradizionale

e d’arte, Cagliari 1984 World Class, Gallery of Italia Artisty - Allen For-

nitures, Needham Heights M.A.1984 Esposizione di belle arti, Fran Murphy - West

Palm Beach , Florida 1984 Artigianato d’arte della Toscana, Zurigo 1984 Materia forma e colore, Desir, Vulcano Isole Eolie1984 Rassegna del design delle arti e dei mestieri,

Tonara, Nuoro1985 Accent on Design, New York1985 Mostra dell’artigianato artistico, Francoforte 1985 Concorso internazionale della ceramica tradi-

zionale e d’arte, Assemini 1985 Ricerche, Desir, Spoleto1985 Campanaccio D’oro, Tonara, Nuoro1985 Nazionale Biennale piatto di ceramica 85, Asti1986 I segni di Firenze1986 Esposizione della città di Firenze, Reims1987 Florence Gift Mart, Francoforte1987 Florence a Paris exposition d’artisanat Florentin,

Parigi1987 II Concorso nazionale della ceramica d’arte Savona1987 Florence Gift Mart, Fucikplatz, Dresden1987 Concorso nazionale della ceramica d’arte Reggio Calabria1988 CNA, Bassano del Grappa1988 Artigianato e Città, Bologna1989 29°Concorso della ceramica pro Tadino, Gual-

do Tadino1989 Chiesa di Santo Spirito, Firenze 1989 Arte contemporanea, La Loggia, Bologna1989 Torre comunale, Alghero1989 Gunther, Merano1989 Comune di Castellamonte, Torino1989 Mostra della ceramica di Castellamonte, Torino1989 Mostra dell’artigianato, Firenze1989 Arte Fiera, Bologna1989 Travering gallery, Bruxelles, Utrecht e Parigi 1989 Esposizione artigianato artistico toscano, Firenze

e Nanchino1989 La tela estroflessa nell’area milanese dal 1958

ad oggi, Galleria Arte Struktura, Milano1989 XIII Mostra Regionale della Cerica Comune di

Castellamonte, Torino1989 Mostra collettiva, Certaldo

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1989 Galleria Gunther Herart, Merano1989 Frequenze, La Torre Comunale di Alghero1989 L’Angolo, L’Aquila1990 Mostra concorso comune di Capraia e Limite,

Firenze1990 14°mostra regionale della ceramica Santo Stefano di Camastra1990 Gift Mart, Madrid 1990 Arte Fiera, Bologna1990 Artigian export-cenacolo Ognissanti, Firenze1990 Mostra itinerante Gift, Tokyo1990 Mostra d’arte contemporanea organizzata dal

Ministero dell’Industria del Commercio e dell’Ar-tigianato in occasione dei Campionati Mondiali di calcio, Roma

1990 La seduzione del partigianato, Roma1990 Libreria Asit Immagini, Salerno1990 Mostra presso Mobilcasa, Pisa1991 Arte artigianato e design, Ferrara1991 Arte Fiera, Bologna1991 XXX Mostra della ceramica di Castellamonte Torino1991 Concorso nazionale della ceramica, Assemini1991 Intreccio d’autore, Vicenza1992 Mostra della ceramica di Castellamonte, Torino1992 Palazzo dei Priori , Volterra 1992 III International ceramic festival Mino - Giappone1992 Straordinario, Firenze1992 Vino e materia, Firenze1992 Arte Fiera, Bologna1993 Mostra della ceramica di Castellamonte, Torino1993 Galleria Fallani Best, Firenze1993 Fiera di Viterbo1993 Monteroni in vetrina, Monteroni d’Arbia1994 Sogese, Berlino1994 Studio Blu, livorno1995 Virtualità del vaso, Macef , Palazzo Cisi, Milano1995 Mostra della ceramica di Castellamonte, Torino1995 La terra plasmata1996 Meridiani-La carnale, Salerno1996 Fatta a mano, Todi1996 In spazio, Pienza1996 Materia Plasmata, Firenze1997 Creta, Ravello1997 Migrazioni Spirituali Mediterranee, Firenze, Bet-

tona , San Gimignano e Sciacca1997 Mostra artigianato, Livorno1997 XXV Rassegna dell’olio extravergine di oliva di

Reggello, Pratomagno1998 Mostra artigianato, Anghiari1998 Visioni, Firenze1998 38°Mostra della ceramica di Castellamonte ,

Torino1998 Due giorni di arti e mestieri, Castello di Masino,

Caravino1998 Castello di Satigliana, Pavia 1999 39°Mostra della ceramica di Castellamonte Torino

1999 La versiliana, Marina di Pietrasanta1999 In vino veritas, Monaco1999 Mediterrarte, Milano1999 La diversità dai rituali domestici odori, sapori

della cucina italiana, Firenze 1999 Metamorfosi di una bottiglia, Marta , Firenze1999 Le opere estroflesse, Galleria Scalarte, Verona 2000 La casa del collezionista , Gift , Firenze2000 Nel blu dipinto di blu, Firenze2000 Colori locali, Firenze2000 Religiosità e artigianato, Palazzo del Monte Padova2000 A proposito dell’uovo, Asolo2000 40°Mostra della ceramica di Castellamonte Torino2000 Convento Sant’Agnese, Vitorchiano2000 Museo permanente all’aperto, il muro di Caltagirone2001 Donne, madonne e sirene, Salerno2001 Corno d’autore, Napoli 2001 Terre toscane, Greve in Chianti2001 Albero d’autore, Firenze2002 L’oggetto travestito, Firenze2002 Esposizione internazionale d’arte decorativa

moderna, Torino2002 Nuovo Antico- dalla materia all’artefatto, Palaz-

zo Carignano , Torino2003 Mercato internazionale, Gmunden2003 Nuove Spazialità per l’arredo urbano, Gualdo

Tadino2003 Group exibition of castel art , Gmunden2003 Radici antiche e omaggio al moderno, Monte

San Savino, Arezzo2003 Dalla materia all’arte fatto -Casale dei Monaci

- Centro culturale comunale per le arti applicate ed il territorio, Comune di Ciampino

2003 Fuoco vivo-riti , ritmi e pratiche della creatività ceramica, Salerno

2003 Terra e fuoco, Bruxelles2003 Le stanze delle meraviglie, Firenze2004 Chambre des beaux de mediterranee exposition

galerie sema, Parigi2004 I capolavori dell’artigianato artistico in Toscana,

Chicago2004 Ceramiche Pasquinucci , Limite e Capraia 2004 Amore d’autore, Bologna2004 I capolavori dell’artigianato artistico in Toscana,

Certaldo2005 Ad arte biennale delle arti applicate, Boario Terme2005 Galleria dell’Artigianato, Firenze2005 The Tuscany life style, Felissimo design house,

New York2006 Hotel Astria , Firenze2006 Galleria dell’Artigianato, Firenze2006 Mostra dell’artigianato artistico italiano San Pietroburgo2006 Carrusel du Louvre, Parigi 2006 Toscana Promozione, Francoforte2006 Intimamente fermo esternamente flessibile, Biella

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2007 Galleria dell’Artigianato, Firenze2007 Galleria Anghiari, Arezzo 2007 Fatto ad arte, Roma2007 Premio Bancarella, Pontremoli 2007 Sala della Cancelleria, San Gimignano 2008 Mostra d’arte contemporanea di sculture di cera-

mica sul tema dell’Omeopatia, Napoli2008 Sala del Tempio Adriano, Roma2008 Animal, Principato di Monaco2008 Galleria dell’Artigianato, Firenze2008 Castello Carlo V, Monopoli2008 Comune di Castellamonte, Torino

2009 Maison & Objet , Parigi2009 Galleria dell’Artigianato, Firenze2009 Maschere, Galleria Delle Piane , Milano2009 Ceramica Contemporanea, Are Art Gallery Firenze2010 Galleria dell’Artigianato, Firenze2011 Mostra dell’artigianato, Firenze2012 Galleria Blanchaert, Milano 2012 54° Biennale di Venezia padiglione Italia Torino2012 Galleria dell’artigianato, Firenze2012 Artigianato in fiera, Milano

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Questo volume a cura di Andrea Alibrandi è statostampato dalla Tipografia Bandecchi & Vivaldi di Pontedera

per i tipi delle Edizioni Il Ponte Firenze

Finito di stampare a Firenze nell’aprile duemilaquattordici

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