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Funeral Train DOMENICA 1 GIUGNO 2008 D omenica La di Repubblica MARIO CALABRESI WASHINGTON I l treno più lento del mondo lasciò la stazione di Washington alle ore 8 di venerdì 21 aprile e arrivò a destinazione a Chi- cago alle ore 10 del 3 maggio, viaggiando alla lugubre velo- cità di otto chilometri all’ora. Ci vollero tredici giorni perché il convoglio con la salma di Abraham Lincoln, e del figlio Willie morto ancora bambino e disseppellito per unirsi al padre nel viag- gio verso la tomba, lasciasse la capitale dove il presidente era stato assassinato e raggiungesse la città dove sarebbe stato sepolto. Fu un corteo funebre lungo duemila e cinquecento chilometri, il più lungo che il mondo avesse visto. E che avrebbe costruito il rito del lutto pubblico americano, la scenografia colossale e spontanea di quei lunghi addii dell’America ai grandi della propria storia, che prima avventatamente uccide e poi amarissimamente rimpiange. (segue nelle pagine successive) VITTORIO ZUCCONI cultura I disegni di Picasso per Lucia Bosè MARIA PIA FUSCO spettacoli Eleonora Duse, le lettere alla figlia LEONETTA BENTIVOGLIO e ROBERTO BIANCHIN i sapori Povera ma bella, la cucina di montagna LICIA GRANELLO e CARLO PETRINI FOTO PAUL FUSCO / MAGNUM / CONTRASTO il racconto I duelli maledetti con Muhammad Ali la memoria La battaglia dove morì Peter Pan PAOLO RUMIZ ANTONIO MONDA Quarant’anni dopo l’ultimo viaggio di Robert Kennedy ecco le foto perdute che Paul Fusco scattò alla gente lungo i binari NEW YORK L’ uomo che rinunciò a fotografare Bob Kennedy da vi- vo, che abbassò l’obiettivo per timidezza e cortesia, sa- rebbe stato l’unico capace di raccontare il lungo addio che il popolo americano gli tributò per 328 chilometri di ferrovia in un sabato pomeriggio del giugno 1968. Paul Fusco ave- va trentotto anni quel giorno, quando il feretro di Robert Francis Ken- nedy partì da Penn Station, a New York, per arrivare alla Union Station di Washington. Il candidato democratico era morto due giorni prima a Los Angeles, colpito da un proiettile al cuore mentre festeggiava la vittoria alle primarie della California. Il funerale si tenne a Manhattan, nella cattedrale di St. Patrick, poi la bara venne caricata su un treno di dieci vagoni che la portò alla destinazione finale: il cimitero di Arling- ton, dove Bob Kennedy venne sepolto poco lontano dal fratello John. (segue nelle pagine successive) Repubblica Nazionale

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FuneralTrain

DOMENICA 1GIUGNO 2008

DomenicaLa

di Repubblica

MARIO CALABRESI

WASHINGTON

Il treno più lento del mondo lasciò la stazione di Washingtonalle ore 8 di venerdì 21 aprile e arrivò a destinazione a Chi-cago alle ore 10 del 3 maggio, viaggiando alla lugubre velo-cità di otto chilometri all’ora. Ci vollero tredici giorni perché

il convoglio con la salma di Abraham Lincoln, e del figlio Williemorto ancora bambino e disseppellito per unirsi al padre nel viag-gio verso la tomba, lasciasse la capitale dove il presidente era statoassassinato e raggiungesse la città dove sarebbe stato sepolto. Fuun corteo funebre lungo duemila e cinquecento chilometri, il piùlungo che il mondo avesse visto. E che avrebbe costruito il rito dellutto pubblico americano, la scenografia colossale e spontanea diquei lunghi addii dell’America ai grandi della propria storia, cheprima avventatamente uccide e poi amarissimamente rimpiange.

(segue nelle pagine successive)

VITTORIO ZUCCONI cultura

I disegni di Picasso per Lucia BosèMARIA PIA FUSCO

spettacoli

Eleonora Duse, le lettere alla figliaLEONETTA BENTIVOGLIO e ROBERTO BIANCHIN

i sapori

Povera ma bella, la cucina di montagnaLICIA GRANELLO e CARLO PETRINI

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il racconto

I duelli maledetti con Muhammad Ali

la memoria

La battaglia dove morì Peter PanPAOLO RUMIZ

ANTONIO MONDA

Quarant’anni dopo l’ultimo viaggiodi Robert Kennedy ecco le foto perdute

che Paul Fusco scattò alla gente lungo i binari

NEW YORK

L’uomo che rinunciò a fotografare Bob Kennedy da vi-vo, che abbassò l’obiettivo per timidezza e cortesia, sa-rebbe stato l’unico capace di raccontare il lungo addioche il popolo americano gli tributò per 328 chilometri

di ferrovia in un sabato pomeriggio del giugno 1968. Paul Fusco ave-va trentotto anni quel giorno, quando il feretro di Robert Francis Ken-nedy partì da Penn Station, a New York, per arrivare alla Union Stationdi Washington. Il candidato democratico era morto due giorni primaa Los Angeles, colpito da un proiettile al cuore mentre festeggiava lavittoria alle primarie della California. Il funerale si tenne a Manhattan,nella cattedrale di St. Patrick, poi la bara venne caricata su un treno didieci vagoni che la portò alla destinazione finale: il cimitero di Arling-ton, dove Bob Kennedy venne sepolto poco lontano dal fratello John.

(segue nelle pagine successive)

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32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1GIUGNO 2008

Non sapevo cosa fare, ero pieno d’ansiaMi bastò guardare dal finestrino, vidi

la folla e tutto fu chiaro: quella era la storia

la copertina

Il lungo addio a Bobby(segue dalla copertina)

Paul Fusco, fotografo di LookMagazine, rivista bisettima-nale con una storia illustre,era sul quel treno con tremacchine fotografiche etrenta pellicole a colori.

«Nell’ultimo vagone i servizi segretidecisero di mettere la bara di Bobby, laappoggiarono per terra, poi dissero aifamiliari e agli amici di prendere postonella penultima carrozza. Erano loro adaver preso il comando del treno e nonvolevano discussioni. Ma i ferrovieripensarono che sarebbe stata un offesaalla folla che attendeva e appena il con-voglio cominciò a muoversi la solleva-rono e la appoggiarono sugli schienalidei sedili. Era una sistemazione instabi-le e precaria, ma così il feretro si potevavedere attraverso i finestrini».

Fusco racconta lentamente e con vo-ce bassissima, muove molto le mani espesso strizza gli occhi per ricordare.«Era l’8 giugno, un giorno caldissimo, unanticipo d’estate. Il viaggio durò più diotto ore attraverso cinque Stati: NewYork, New Jersey, Pennsylvania, De-

laware e Maryland. Un milione di perso-ne aspettavano lungo i binari. Il treno simuoveva lentissimo, si fermava spessoper dare la precedenza agli altri convo-gli, impiegammo quasi il triplo del tem-po che si impiega normalmente. Ma erala velocità giusta per un funerale. Queltreno è stato il vero funerale, quello del-l’America, è durato un’intera giornata,era fatto per il popolo. Era il funeraltrain».

Scattò quasi duemila fotografie, finoad oggi ne conoscevamo soltanto cin-quantatré, ma ora dagli archivi della Bi-blioteca del Congresso a Washington nesono riemerse altre milleottocento. Ilreportage di Paul Fusco è uno dei piùemozionanti ritratti del popolo ameri-cano mai fatti, un documento che com-muove e indigna.

«Quel giorno non dovevo lavorare,ma vivevo a Manhattan e decisi di pas-sare in redazione. Gli uffici di Look era-no su Madison Avenue, proprio allespalle di St. Patrick, i colleghi erano tut-ti in silenzio, si respirava un’angosciafortissima. Mi siedo. Bill Arthur, il diret-tore, mi vede e mi chiama nella sua stan-za: “Paul vai a Penn Station, porterannola bara di Kennedy a Washington. Sali suquel treno”. Non aggiunse una parola,

non disse cosa voleva, che tipo di foto, seaveva delle idee, nulla. Io non chiesi nul-la, allora funzionava così, presi le pelli-cole, attraversai la strada e mi fermai permezz’ora fuori dalla cattedrale. Poicamminai veloce fino alla stazione. Tro-vai subito il treno, era circondato dagliuomini del secret service. Era un convo-glio speciale: non ho mai capito se fossestato organizzato dal governo o dalla fa-miglia. Mostro il tesserino e salgo, unagente mi mostra un sedile dell’ottavovagone e mi dice: “Siediti qui e non timuovere”».

«Non sapevo cosa fare, pensavo che aWashington e poi al cimitero di Arling-ton avremmo trovato decine di colleghie di telecamere ad aspettarci, avevo bi-sogno di un’idea subito. Ero pieno d’an-sia ma mi bastò guardare fuori dal fine-strino per capire: vidi la folla e tutto fuchiaro. Abbassai il finestrino, allora sipoteva fare, e cominciai a scattare. Ri-masi nella stessa posizione per otto orea fotografare la gente accanto ai binari.Quella era la storia».

Tutto scorre lungo il finestrino, PaulFusco ferma quasi duemila ritratti, si ve-dono bambini scalzi, genitori con i neo-nati in braccio, pensionati con il cappel-lo, coppie vestite con l’abito della festa,

boy scout, donne in lutto, ragazze convestiti coloratissimi, come voleva la mo-da alla fine degli anni Sessanta, suoreche accompagnano le allieve di un col-legio femminile, ragazzi seduti sullemotociclette, vigili del fuoco, famiglie inpiedi sul tetto dei furgoncini, anzianiche aspettano seduti sulla sedie a sdraio,uomini in bilico su un palo.

«Venni investito da un’onda emotivaimmensa, c’era tutta l’America che eravenuta a piangere Bobby, a rendergliomaggio. Vedevo mille inquadraturepossibili, non avevo tempo per pensare,per aspettare, dovevo reagire al volo. Lemie macchine non avevano il motore eio mi ripetevo soltanto: “Dai, scatta,scatta, scatta”».

Si vedono bambini piccoli che si sfor-zano di capire cosa sta succedendo, ra-gazzini che ridono, sollevano bigliettiscritti a pennarello, sventolano bandie-re a stelle e strisce. Si scoprono i cortilidelle case, i giardini, periferie fatiscenti.Si vede una popolazione di tutti i ceti so-ciali, molti sono i neri. C’è chi si mette lamano sul cuore, chi fa il saluto militare,chi ride, chi tira fiori, chi si tiene la testatra le mani, chi si inginocchia, chi prega.

Verso il tramonto inquadra una fami-glia di sette persone disposta in ordine

d’altezza e di età, a sinistra la più picco-la dei cinque figli a destra la madre, poi ilpadre. Tutti sull’attenti con la testa bas-sa. È la foto che meglio restituisce la ma-linconia dell’addio.

La luce cala, le fotografie comincianoad essere mosse, sgranate. «Avevo unapellicola Kodachrome, quella che ama-vo di più, ma era lenta e cominciai apreoccuparmi mentre vedevo il solescendere». I volti si fanno sempre menoriconoscibili: è la dissolvenza di una sto-ria, di una vita, del sogno americano.

«La mia immagine preferita è quellain cui si vedono un padre e un figlio su unponticello di legno che salutano portan-dosi la mano alla fronte, dietro di loro lamadre ha la mano al petto. Il giovane è atorso nudo, hanno i capelli arruffati.Quella è la foto simbolo dell’Americadopo l’omicidio di Bobby: quella fami-glia era povera, combatteva per soprav-vivere e vedeva passare via la possibilitàdi una vita diversa. I Kennedy avevanodato speranza alla gente e ora quellagente vedeva tramontare il sogno. Se neandava con quel treno, era chiuso inquella bara».

«Una folla meravigliosa», disse ArthurSchlesinger, lo storico che era stato allaCasa Bianca con John Kennedy prima di

MARIO CALABRESI

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 1GIUGNO 2008

scrivere i discorsi di Bob, guardandofuori dal finestrino della penultima car-rozza. «È vero — gli rispose Kenny O’-Donnel, che del presidente ucciso a Dal-las era stato l’assistente speciale — maora cosa faranno?».

Look magazine non pubblicò nessu-na di quelle foto. Il direttore disse cheerano belle ma il concorrente Life uscìprima con le foto della morte e dei fune-rali; allora a Look decisero di fare unospeciale sulla vita di Bob Kennedy e il re-portage di Fusco finì in archivio. Ci ri-mase per tre anni, finché la rivista nonchiuse per una crisi economica e di pub-blicità, nonostante vendesse più di seimilioni di copie.

«Io mi portai a casa un centinaio distampe e non mi sono mai dato pace chenon fossero state pubblicate. Ho dovu-to aspettare trent’anni per vederlestampate. Le proposi al primo anniver-sario, al secondo, poi dopo dieci anni,venti, venticinque. Nel frattempo erodiventato uno dei fotografi di Magnumma ogni volta che c’era un anniversariotondo cominciavo il mio giro di art di-rector, quotidiani, riviste. Nessuno levoleva, tutti mi dicevano di no. Nel tren-tesimo anniversario, era ormai il 1998,provo a chiamare Life, che era diventato

un mensile, ma rispondono che non in-teressava. Torno sconsolato qui nellasede di Magnum e mi fermo a parlarecon una giovane ragazza che era appe-na stata presa come photo editor, Nata-sha Lunn. Le dico sconsolato: “Sonotrent’anni che vado in giro con questolavoro, ma cosa devo fare per vederlopubblicato?”. Mentre lo sto per rimette-re via lei mi stupisce: “Io lo so, fammiprovare” e telefona a George Magazine,il mensile del giovane John John Ken-nedy, il nipote di Bobby. Impiegò solodue minuti a convincerli e finalmente iovidi le mie foto pubblicate».

Da quel momento nasce l’interesseintorno al “Funeral Train”. «Il nuovo di-rettore dell’ufficio di Magnum non puòcredere che quella storia sia stata chiusain archivio per tre decenni: “Ma perchésiete stati seduti su questo lavoro pertutti questi anni?”. Fa preparare unportfolio e lo manda in Europa. Una fa-mosa galleria londinese organizza laprima mostra, la Xerox stampa un libroin edizione limitata di trecento copie.Poi nel Duemila diventa un volume cheviene pubblicato in tutto il mondo.Chiedo che le foto siano stampate solosulle pagine di destra perché i lettori nondevono muovere la testa, ma restare im-

mobili, girare solo la pagina e veder scor-rere le facce come se fossero anche lorodietro il finestrino del treno, accanto alferetro di Bobby». Fusco ricorda quan-do la mostra venne esposta alla primaedizione di FotoGrafia, il Festival inter-nazionale di Roma: «Era stata allestitaalla stazione Termini, la gente scendevadai treni e se la trovava davanti, fu un’i-dea bellissima e geniale».

Quando Lookfallì, in cambio della be-nevolenza del fisco il proprietario deci-se di donare tutto l’archivio alla Libreriadel Congresso: cinque milioni di fotopresero la via di Washington. «Anche imiei scatti finirono là. Due anni fa il gal-lerista James Danziger è andato a cer-carli e ha trovato le altre milleottocentofoto. Erano inedite, nessuno le avevamai viste. Eccitatissimo mi ha chiamatoe mi ha convinto a fare un nuovo libro euna mostra con lui, che inaugurerà allafine di questa settimana a New York».

Paul Fusco non ama l’America di og-gi, abita fuori New York e fa una vita riti-rata. «Il Paese è diviso, pieno di battaglie,bugie e falsità e la politica pensa solo airicchi. Bobby era diverso. L’avevo in-contrato una volta. Ero in Messico, adAcapulco, per fare un servizio sul paeseche si preparava alle Olimpiadi del ’68.

La giornalista con cui lavoravo, si chia-mava Laura, venne a sapere che c’eranoTed e Bob Kennedy, li conosceva e miconvinse ad andare a cercarli. Trovam-mo la villa dove erano ospiti ed entram-mo. Io ero imbarazzatissimo, non homai attaccato la gente con la macchinafotografica, ho sempre cercato di scatta-re con gentilezza senza invadere, senzacreare reazioni di fastidio. Laura comin-ciò a dire: “Paul scatta, fai una foto”, maTed si infastidì e ci chiese di andare via:“Siamo in vacanza, lasciateci tranquilli:via di qui”. Io mi sentii umiliato per l’in-trusione e me ne andai immediatamen-te. Tornato in albergo mandai una lette-ra di scuse a Bobby e lui mi rispose rin-graziandomi e dicendo che era stato“magnifico” conoscermi. Rimasi im-pressionato dalla sua cortesia. A casa, daqualche parte in mezzo alle carte con-servo ancora quel biglietto. Ho tenutotutto».

Paul Fusco era venuto a Manhattanper fare questa intervista, gli dispiaceche dopo «solo» tre ore sia finita. Mentresi chiude l’ascensore ribadisce la sua le-zione: «Non buttare via niente, tieni tut-to quello che scrivi, può sempre servire,chissà magari tra quarant’anni». E ridestrizzando gli occhi azzurri a fessura.

I Kennedy avevano dato speranzae ora la gente vedeva tramontare

il sogno: se ne andava con quel treno

LA MOSTRA E IL LIBRO

La mostra con le foto ineditedi Paul Fusco, dal titoloRfk Funeral Train - Rediscovered

apre il 6 giugno a New Yorkalla galleria Danziger Projects(521 West 26th Street) e resteràaperta fino al 31 luglio. La casaeditrice americana Aperture’salla fine di agosto pubblicheràil nuovo libro che conterrà115 foto scattate da Paul Fusco:60 tra quelle riscopertenegli archivi della Bibliotecadel Congresso e 55che facevano parte anchedel volume edito nel Duemila

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la copertina34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1GIUGNO 2008

La passione corale con cui la gente salutai suoi leader caduti è segno di un rapporto

non più civile o politico ma religioso

I fedeli della dea America(segue dalla copertina)

Per trovare un’esplosione dirimpianto e di tenerezzaparagonabile a quella chegli Stati Uniti vissero ac-compagnando il treno fu-nebre di Lincoln nel 1865,

di Franklyn Delano Roosevelt nel1945, di Robert Kennedy e di MartinLuther King nel 1968, noi dobbiamotornare alle miracolose giornate del-l’aprile di tre anni or sono, in quellaRoma dolce e malinconica allagatadai milioni di pellegrini in coda lungoil Tevere per un ultimo sguardo a Gio-vanni Paolo II.

E in questa evidente somiglianza fra

i due milioni e mezzo di persone chesfilarono accanto al feretro di KarolWojtyla e i milioni che hanno chinatola testa o inviato un bacio al passaggiodel treno funebre dei presidenti ame-ricani assassinati o del carretto chetrasportava la bara di Martin LutherKing c’è un indizio importante per ca-pire l’enormità corale e la passionecon la quale il popolo americano salu-ta i propri leader caduti. C’è il segno diun rapporto non più politico o civile,e neppure più soltanto umano, ma re-ligioso con coloro che incarnano,adorati o odiati che siano, la «Religio-ne America» e ne divengono, laica-mente ma definitivamente, i martiri.

Nelle folle immense che seguono ilviaggio dei convogli funerari, munitedi orari ferroviari precisi pubblicatidai giornali locali, trasmessi dalle ra-dio o dal tamtam del passaparola, conl’ora e il minuto esatti nei quali il tre-no attraverserà il proprio villaggio inGeorgia, in Pennsylvania, in Indiana,o nelle città fuligginose dei Grandi La-ghi del Nord, non ci sono mai, neppu-re nella Atlanta nera che vide passareil feretro di King, quelle tracimazionidi isteria collettiva che accompagna-rono la morte della «principessa del

popolo», di Diana Spencer. E neppu-re si assiste alle scene da grande me-lodramma latino che accompagnaro-no l’addio dell’Argentina a Evita Pe-ron. La compostezza dolente dei con-tadini in salopette o cuffie plissettatelungo i binari sui quali passavano iconvogli di Lincoln, Roosevelt oBobby, o il rispetto silenzioso deglioperai delle ferriere hanno il saporedelle illustrazioni puritane di Nor-man Rockwell e la nitidezza di un di-pinto iperrealista. Ma sempre con iconnotati di una manifestazione reli-giosa.

La mistica dell’americanità trovanella grande tragedia pubblica l’occa-sione per esprimersi, soprattutto se èun funerale ferroviario, perché è il tre-no, più ancora del Winchester a ripe-tizione, della carabina Remington odella Colt 45, il mezzo che ha costrui-to una nazione e ha unificato le suemembra lontane. In una democraziafondata sulla libertà di religione equindi, implicitamente e fortunata-mente, sulla assenza di religioni distato, di ayatollah e di gerarchie in-gombranti, la sola affermazione di fe-de comune è la fede nella propria ap-partenenza a una comunità umana

che ha avuto, nel treno che conquistòil West, uno dei suoi massimi totem. Equando la persona che questa comu-nità rappresenta muore, o viene ucci-sa, la perdita è sentita come una per-dita collettiva e l’offesa portata daiproiettili dell’assassino come un’of-fesa fatta a tutti, all’essenza della pro-pria fede laica.

Per questo sembra sorprendenteassistere all’unanimità del cordoglio,alla totalità della partecipazione difronte all’assassinio di personaggiche, da vivi, erano invisi, addiritturaesecrati da quelli che poi andranno adassieparsi lungo la massicciata ferro-viaria per onorarne il passaggio, damorti.

Racconta la più minuziosa studiosadelle presidenze americane, DorisKearns Goodwin, che i sindaci dellecittadine e dei paesi attraversati dalconvoglio funebre di Lincoln restava-no stupefatti contando il doppio, avolte il triplo degli abitanti di quellelocalità, accorsi per salutare il feretrodi un presidente nel cui nome, e per icui ordini, settecentomila dei loro uo-mini più giovani, figli, fratelli e mariti,erano stati sacrificati.

«Non sapevo che tanta gente vives-

se nel mio comune», disse il sindaco diAshley, un paese di tremila personenell’Ohio che contò ottomila fra don-ne, uomini e bambini alla stazioncinadove il “Lincoln Special”, come sichiamava il treno funebre, sostò perdue minuti esatti. A Indianapolis, do-ve la bara fu prelevata dal treno edesposta nel palazzo del comune, sul-l’edificio di fronte era stato teso unostriscione con la scritta: «Riposa sere-no Abe», l’abbreviazione affettuosa diAbraham, «ora ti amano anche i ne-mici».

La morte violenta, l’assassinio poli-tico, sigilla, come quello striscioneproclamava, la universalità della fedenell’America, proprio nel momentoin cui l’odio dell’infedele, quasi un an-ticristo, si manifesta nel modo più de-finitivo. Lincoln fu eletto, nelle ultimepresidenziali prima della secessionedel Sud e della guerra, con appena il 39per cento dei voti, e anche nel 1864,quando alla sua elezione parteciparo-no soltanto gli stati del suo Nord, vin-se con un mediocre 55 per cento con-tro il 45 dell’avversario, anche in quel-le città e in quei paesi che appena unanno dopo avrebbero venerato la suasalma nel lungo addio sulla sacra ro-

VITTORIO ZUCCONI

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 1GIUGNO 2008

taia. «Sic semper tirannis», questa siasempre la sorte dei tiranni, aveva gri-dato il suo assassino, nel teatro dovegli aveva sparato.

Roosevelt, eletto per quattro volte,era visto, anche lui, come un despotada quei 22 milioni di americani, su 47milioni di elettori, che gli votaronocontro anche nel novembre 1944,quando la Depressione era stata su-perata e le forze armate americanestavano trionfando in Europa e lavan-do l’infamia di Pearl Harbor.

Ma, come avrebbe detto molti annidopo il chirurgo toracico dell’ospeda-le George Washington a un RonaldReagan gravemente ferito dall’atten-tatore prima di addormentarlo e cer-care di salvargli la vita sul tavolo ope-ratorio: «Dorma tranquillo Presiden-te, oggi qui siamo tutti repubblicani».

Tutti repubblicani per Lincoln, tut-ti democratici per i Kennedy, detesta-ti in vita dai cittadini degli stati del Sude in particolare del Texas che non per-donavano l’imposizione dei diritti ci-vili e la lotta contro l’apartheid di fat-to. Tutti “civil righters” neri, tutti atti-visti accanto al feretro di Luther King,trascinato per le vie della sua Atlanta,sopra un carretto da mezzadro tirato

dai muli, l’umile simbolo della finedello schiavismo quando ai neri libe-rati venivano regalati come compen-sazione quaranta acri di terra, sediciettari, e appunto un mulo per colti-varli. Il corteo che seguiva la bara si al-lungò, secondo la polizia della Geor-gia, per oltre dieci chilometri, ben ol-tre il limite della città.

Di nuovo tutti democratici, e addi-rittura kennediani, alla fine di questomaggio, quando è arrivata dal Massa-chussetts General Hospital la diagno-si tremenda sul tumore terminale alcervello di Ted, che per due giorni haoccupato senza interruzione, in un«funerale per un uomo vivo», tutte letelevisioni americane, in una detta-gliata e impudica prova generale del-le future esequie e dell’addio all’ulti-mo dei veri Kennedy, celebrato anchedai suoi avversarsi politici e persona-li più accaniti.

Tutti sembravano aver dimenticatoche nei quarantasei anni della suapresenza in Senato, in quel seggio cheil fratello John Fitzgerald aveva lascia-to vacante dopo l’elezione alla CasaBianca, Teddy era stato il bersagliopreferito dell’odio, del dileggio e delsarcasmo delle destre, che lo descri-

vevano come la manifestazione sata-nica del liberalismo statalista e del li-bertinismo di famiglia.

Non ci furono per i caduti sul lavo-ro, per i presidenti, i politici, i leaderuccisi, neppure per quelli consideratipiù di parte, oppositori che uccides-sero la gallina più grassa per festeg-giarne la morte, come nelle campa-gne rosse alla notizia della scomparsadell’odiato Alcide De Gasperi. E sol-tanto la morte improvvisa sul frontedella lotta politica di Enrico Berlin-guer sfiorò il sentimento di un luttocollettivo oltre le appartenenze dibandiera, come invece l’assassinio diAldo Moro, immediatamente avvele-nato da polemiche di partiti, non fece.Se controversie e spasmi dietrologiciscoppiano anche negli Stati Uniti, es-si avvengono sempre a posteriori, do-po che la comunione dei credenti neldio America ha pagato il proprio tri-buto unanime alla vittima, cioè il tri-buto a sé stessa.

Se attorno al regicidio più strazian-te del Ventesimo secolo, l’assassiniodi JFK a Dallas, continua il tormento-ne del «chi ha davvero ucciso Ken-nedy» anche quarantaquattro annipiù tardi, forse è perché a lui, e alla na-

zione, fu negato quel lungo addio sul-l’altare ferroviario che fu tributato aLincoln e, più tardi, al fratello Bobby.Il corpo di John F Kennedy fu traspor-tato in fretta, quasi clandestinamen-te, la sera stessa dell’omicidio da Dal-las a Washington nel timore di tramee attacchi bellici, in piena Guerrafredda, per ordine di colui che sullasua bara, con il braccio alzato in un ge-sto quasi rattrappito, avrebbe giuratoe assunto la successione accanto allavedova Jackie con l’abito macchiatodi sangue, Lyndon Johnson. Una na-zione che non poté riconciliarsi con isuoi resti, non vuole, non può accet-tare la sua fine. Privata di quel lungoaddio su rotaie nel quale avrebbe per-donato sé stessa per averlo lasciatouccidere.

Così si accomiata dai grandi della propriastoria che prima avventatamente uccide

e poi amarissimamente rimpiange

REPUBBLICA.IT

Da oggi sul sito di Repubblica.it

un’ampia galleria di immaginirealizzate da Paul Fusco,fotografo della Magnum,che nel giugno 1968 salì a bordodel “Funeral Train” che portavail feretro di Robert Kennedyda New York a WashingtonPaul Fusco “raccontò”quel viaggio fotografandola gente accorsa lungoi binari per l’ultimo addio

Una parte delle foto pubblicatein queste pagine sono ineditee saranno esposte alla mostraRfk Funeral Train Rediscovered

© Paul Fusco/Magnum/ContrastoF

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1GIUGNO 2008

l’attualitàMattanza

L’Unione Europea condanna l’Italia perché in primaveravengono abbattuti, per colpa di una superstizione, i rapaciche volano verso nord attraverso lo Stretto. Viaggio nei ritidel bracconaggio, che un tempo si faceva per fame e oggiper soldi o per sadismo.Tra carabine di precisione, trappoleda Inquisizione e lacrime, di rabbia e impotenza, dei forestali

si bloccano come statue. A volte sei ap-postato per controllare un branco e al-l’improvviso vedi un animale colpito dauna fucilata. Con le carabine di precisio-ne, non capisci nemmeno da che partesia partito il colpo».

È anche scrittore, il guardiacaccia vi-centino («non metta il nome del miopaese, le guardie non sono molto amatee a qualcuno hanno anche bruciato lamacchina). Ha scritto Ho visto piangeregli animali e altri libri sulla sua vita di

«nemico naturale dei bracconieri».«Arrivi anche a odiarli, questi de-

linquenti. Quando vai nel bosco

e trovi la femmina di capriolo uccisa dallaccio di acciaio, ti senti male. Le apri ilventre e scopri che il giorno dopo avreb-be partorito due piccoli. Lo sanno, ibracconieri, che è sempre la femmina aguidare il branco, ed è lei a morire per-ché arriva al laccio prima degli altri. Cer-ca di liberarsi e si strozza».

Ci sono anche le favole alla rovescio,sulle montagne del Pasubio. Il film Lavolpe e la bambina qui ha un finale tra-gico. Una bimba adotta un cucciolo divolpe, lo tiene in casa e lo coccola. Quan-do è adulta, la volpe va nel bosco e trovaun pezzo di carne appeso a un albero.Salta per morderlo e rimane appesa a ununcino, come un pesce all’amo. Vienetrovata dal guardiacaccia Ferron, chenon dirà mai nulla alla bambina. «No,non è la fame a spingere i bracconieri.Quando li prendi, o stanno zitti o dico-no: “Le bestie le abbiamo sempre presecosì”. Sono organizzati bene, in grossecompagnie. Tengono caprioli o lepri neifreezer della zia o dell’amico. E anchequando li prendi con le mani nel sacco,non rischiano quasi nulla. Se paganoun’oblazione fra i mille e i duemila euro,c’è l’estinzione del reato. Se c’è la de-nuncia penale, quasi sempre arrivi da-vanti al giudice quando il reato è già pre-scritto. La licenza di cacciatore viene so-spesa solo se un individuo viene trovatotre volte con uccelli protetti. E anche inquesto caso non vengono tolte le armi. Èuna battaglia impari, la nostra. Nel vi-centino ci sono ventimila cacciatori equaranta guardie, e noi dobbiamo oc-cuparci anche di cave, miniere, pesca,funghi, agriturismi… Sì, lo so che michiamano “il guardiacaccia bastardo,uno che non la risparmierebbe nemme-no a suo padre”. Ma quando trovi il ca-

La guerra sporcadei killer di animali

VALLI DEL PASUBIO

Dice che «anche gli anima-li piangono». Poi si cor-regge. «Forse sono io che

piango, quando vedo gli occhi di un ca-moscio in agonia colpito al ventre da unbracconiere. Questi delinquenti usanouna palla di piombo grande come unanoce — si chiama brenneke — che nonlascia scampo, qualunque parte colpi-sca. E io devo usare la pistola per non fa-re soffrire più l’animale». Giancarlo Fer-ron, quarantacinque anni, è un guardia-caccia della Provincia di Vicenza. «Nonci sono più i bracconieri per fame, quel-li che partivano a mezzanotte per le ci-me dei monti per essere pronti all’albaquando gli stambecchi iniziano il loropascolo. Ci sono invece tanti delinquen-ti che uccidono gli animali per sfidare lalegge, per fare vedere che sono più furbidei guardiacaccia. Sfidano il mondo perpoter dire: io sono il padrone della mon-tagna, se qualcosa mi piace la prendo ebasta. Fra di loro ci sono anche dei ma-lati di mente. Ma come si fa a tagliare conun coltellino la pancia di un tordo vivosolo per capire se sia maschio o femmi-na? Vedere se ci siano o no le gonadi —dicono — è l’unico modo per conoscer-ne il sesso. Solo il maschio canta e vienemesso in gabbia come richiamo di altriuccelli. La femmina finisce allo spiedo».

Non è ancora stata raggiunta la pace,fra le guardie e i ladri di animali. Il brac-conaggio resiste in tutta Italia, isole com-prese. Non abbandona i vecchi strumen-ti — il fucile, la rete, la trappola, la taglio-la… — e ne utilizza di nuovi: la carabinache uccide a quattrocento metri, i visorinotturni, i mirini telescopici, i fari delle

auto. «Una volta almeno — dice Giancar-lo Ferron — il bracconiere faceva fatica.Ore e ore di cammino notturno per arri-vare alla preda. Adesso il cacciatore difrodo usa il fuoristrada, in un quarto d’o-ra arriva ovunque. Ha il telefonino, perrestare in contatto con altri bracconieried essere informato sulla presenza delleguardie. Nelle notti di luglio i fari dei fuo-ristrada, nei prati di alta montagna,abbagliano lepri e caprioli. Glianimali vedono la luce,credono sia sorto il so-le all’improvviso eper la meraviglia

JENNER MELETTI

“Sfidano il mondoper poter dire:

io sono il padrone”

(Vicenza)

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 1GIUGNO 2008

lissimo. In natura can-tano all’arrivo della pri-

mavera, ma questi sonotenuti al buio per mesi e

mesi fino all’autunnoquando dovranno richiama-

re gli uccelli di passo. Appena ve-dono la luce si mettono a cantare, cre-

dono sia finalmente arrivata la primave-ra. Li chiudono in gabbie piccolissime. Siammalano perché non possono mai fareil bagno e dopo poco tempo si lascianomorire».

Sarebbe vietata, la “polenta eosei” con uccelli locali.

«Ma basta comprareun pacco di passeri

o fringuelli con-gelati che arri-vano dalla Tu-nisia o dai Pae-si dell’Est, te-nere la fattura ese c’è un con-

trollo dire che gliuccellini (com-

prati dal bracco-niere) arrivano dall’e-

stero. È per questo chenoi, quando facciamo i control-

li, andiamo a vedere anche nei bidonidella spazzatura e spesso troviamo lepiume. È successo anche in un ristoran-te di Roncà. In frigorifero c’erano millefra capinere, passeri, lucherini e ancheun picchio verde. I bracconieri prendo-no cinque euro per un uccellino di dodi-ci grammi, penne comprese. Il ristora-tore fa uno spiedino con cinque uccelli-ni e lo vende a cinquanta euro, e così tut-ti ci guadagnano. Non si tratta certo dicasi isolati. Basta dire che si possonocomprare anche le macchine automati-che per spiumare gli uccellini. Non si co-struiscono macchine così costose senon c’è mercato».

Ci sono trappole crudeli nel museodel bracconaggio al castello di Bardi. C’èil “bussolotto”, un cono di corteccia cheveniva infilato nel terreno con dentrochicchi di granoturco; il fagiano o il gal-lo cedrone beccavano il mangime e la lo-ro testa restava bloccata dalla colla di vi-schio. C’è la “fossa lupaia” per catturarei lupi; si scavava una buca profonda, sicopriva con rami e arbusti; il lupo veni-va attirato da un’esca viva — un cane ouna pecora — e cadeva nel fossato. C’èl’“archetto spezzagambe” che mutila gliuccellini che si posano su un ramo. C’è ilgancio che soffoca i caprioli. «Anch’io dapiccolo — confessa il sindaco, PietroTambini, settant’anni — facevo il brac-coniere. Noi bambini andavano a cerca-re i nidi dei merli per rubare i piccoli po-co prima che imparassero a volare. Lamamma li preparava in umido. I grandicacciavano la volpe mandando il fumonella tana, poi la uccidevano con un col-po alla gola, per non rovinare la pelliccia.Ma erano anni in cui solo chi emigravatrovava da mangiare e chi restava dove-va arrangiarsi». Oggi non serve l’inge-gno per costruire un archetto che spez-za le gambe o soffoca gli uccelli. Nel ve-ronese si comprano già fatti, di plastica.E se la trappola non funziona, c’è sem-pre la carabina che uccide a quattrocen-to metri.

moscio sventrato da una pallottola, perl’uomo che ha sparato non puoi averenessuna comprensione».

«Impiccheranno Giordi con una cordad’oro / è un privilegio raro / rubò sei cervinel parco del re / vendendoli per denaro».Alessandro Bettosi, comandante delNoa, il Nucleo operativo antibracco-naggio della Forestale, nei corsi di for-mazione per le guardie cita sempre que-sta canzone di Fabrizio De André. «Untempo si rubava al re, oggi allo Stato. Ilbracconaggio è cambiato perché nonc’è più la necessità di portare un po’ dicarne su tavole troppo povere ma resta,purtroppo, la “tradizione”. Si mettonole reti per catturare pettirossi e fringuel-li nel Bresciano, per l’antica “po-lenta e osei”, si cacciano i ghi-ri in Calabria». A Bivonci eStilo, nella Locride, conl’operazione “Piatti in-digesti”, in due risto-ranti sono stati trova-ti i ghiri già cucinatima ancora con testa ecoda, per essere rico-nosciuti dai clientiche, pagando caro,non volevano esseretruffati. «Si mangia l’i-strice in Toscana, si metto-no reti e roccoli sulle isole, do-ve si posano gli uccelli sfiniti dallemigrazioni. In nome della “tradizione”si commettono crimini che non hannonessuna giustificazione. E poi ci sono gliatti vandalici. Si mettono bocconi avve-lenati nei parchi protetti per tenere lon-tano i predatori. Ma i bocconi messi peri lupi finiscono per uccidere, come èsuccesso nel parco nazionale dell’A-bruzzo, anche un’orsa che ancora allat-tava i cuccioli».

Pettirossi, cinciallegre, capinere, pi-spoloni nelle campagne veronesi sonochiamati «quelli del becco gentile». «Ibracconieri dicono che sono i più buoni— spiega Francesco Di Grazia, delegatoregionale della Lipu e coordinatore delleguardie volontarie di Verona — perchémangiano insetti. Ne fanno strage per la“polenta e osei” che sarebbe vietata maancora resiste, perché le norme antibrac-conaggio sono lassiste e chi fa controlliviene visto come un guastafeste». Gli uc-celli vengono presi con le reti che sonomesse fra arbusti e alberi. «Ci sono quel-le illegali e anche quelle che, solo in ap-parenza, sono in regola. Qui a Verona adesempio ci sono dieci roccoli autorizzatidalla Provincia e altri venticinque sono aVicenza. In teoria, funzionano così. Gliuccelli finiti nella rete vengono conse-gnati alla Provincia che li paga otto eurol’uno al concessionario del roccolo e poili regala ai cacciatori per essere usati co-me richiamo. Ma c’è il mercato nero. Ba-sta consegnare alla Provincia solo unaparte degli uccelli e nascondere le altrecatture. Un maschio che canta, in questomercato non tanto nascosto, viene paga-to dai venti ai cinquanta euro. Il gestoredel roccolo diventa ricco. Certo, anchequi, per distinguere il tordo maschio dal-la femmina si fa un’incisione per vederese ci sono le gonadi e poi si richiude lapancia con una goccia di attaccatutto. Gliuccelli destinati al richiamo vivono ma-

Fossimo condannati a morte, probabilmente preferi-remmo morire fucilati piuttosto che appesi a unaforca. Finire i nostri giorni per una sciocca supersti-

zione ci sembrerebbe però ancora più assurdo dell’idea diessere diventati la cena di un animale feroce. Gli uccelli si-mili distinzioni non ne fanno, ma sono le due “opzioni”che gli offre il bracconaggio. Se al Settentrione il fenome-no ha il volto crudele di chi nasconde micidiali trappoleper dare ai ristoranti la possibilità di cucinare “polenta eosei”, in Calabria cacciare di frodo significa sparare ai ra-paci che attraversano lo Stretto di Messina diretti a nord.La morte in questo caso arriva sotto forma di un colpo sec-co di doppietta, e probabilmente è meno dolorosa, ma il“movente” è forse persino più atroce di un peccato di go-la.

«Sono più di dieci anni che combatto questa battaglia ele posso assicurare che il vecchio credo popolare secondocui abbattere un “adorno”, come vengono chiamati i fal-chi in dialetto calabrese, mette al riparo dalle infedeltà co-niugali è molto più che una nota di folclore, ha un aspettoessenziale». Alessandro Bettosi è il comandante del Nu-cleo operativo antibracconaggio della Forestale e la bat-taglia di cui parla è l’“Operazione adorno”, la più impe-gnativa — insieme alla “Pettirosso” — delle campagne atutela della fauna selvatica. È dal 23 aprile che, come ognianno, un centinaio di agenti di tre reparti divisi in cinquepattuglie controllano dall’alba al tramonto il tratto di co-sta che va da Bagnara a Capo Pellaro. E non smetterannofino al 5 giugno, quando sarà finito il “passo”, ovvero la mi-grazione di falchi pecchiaioli, poiane, nibbi e albanelledall’Africa centrale verso i rilievi dell’Europa nordocci-dentale e dei Balcani, in cerca di un posto per fare il nido.Un flusso di specie protette che riprende puntuale a ogniprimavera, ma che la brutalità degli uomini qualche anno

fa aveva quasi spezzato. «Ora l’Italia è obbligata dalle con-venzioni internazionali e dalle norme comunitarie a pro-teggere l’incolumità di questi uccelli — ricorda Bettosi —ma se siamo diventati così attenti e scrupolosi è ancheperché in passato ci fu una sollevazione dell’opinionepubblica europea per quanto accadeva durante il sorvo-lo del nostro territorio».

Se vi indigna il fatto che ancora oggi ci sia bisogno diquesto spiegamento di forze per proteggere i rapaci dai ri-ti scaramantici dei mariti che temono di finire cornuti,non avete idea di cosa poteva accadere fino a qualche an-no fa. «Oltre agli uomini che setacciano boschi e campa-gne — spiega Bettosi — a darci una mano ci sono anchedue elicotteri: ci permettono di trasportare rapidamentele pattuglie da un capo all’altro della costa, ma originaria-mente abbiamo organizzato questo servizio come formadi tutela dopo una serie di attentati. Ricordo le prime vol-te che ho partecipato all’operazione: si sentivano spariovunque, sembrava ci fossero i fuochi d’artificio, i colpipartivano anche dalle finestre delle periferie delle città».

Ora la situazione è migliorata, ma fino a un certo pun-to. «Inevitabilmente certe tradizioni si vanno affievolen-do, ma qualche anno fa abbiamo arrestato un insegnantedi liceo che era tornato apposta dal Piemonte per adem-piere al rito». A incastrarlo era stato il possesso di un fuci-le non dichiarato. Di solito se la cavano con una denunciaper contravvenzione della legge sulla caccia, visto che inprimavera la stagione è chiusa. Se sono riusciti a fare del-le prede, si può aggiungere il reato di “abbattimento dispecie protette”. Il bilancio finale della “Adorno”, dal 1986a oggi, parla di 12 arresti, 247 comunicazioni di reato, 160denunce, 150 armi sequestrate, 47 animali trovati uccisi,180 feriti e dati in affidamento ai centri di riabilitazionedella fauna selvatica.

Ogni anno una strage di falchiper proteggersi dalle corna

VALERIO GUALERZI

LE IMMAGINI

Nell’altra pagina una faina (martes foina); accanto,una volpe rossa (vulpes vulpes). I due animaliimbalsamati, che non sono vittime di bracconaggio,sono stati battuti all’asta a Firenze dalla casa d’astePandolfini, lo scorso mese di aprile. Facevano partedi una trentina di lotti, tra animali impagliati e trofei,provenienti da una collezione privata

www.bompiani.eu

UN CASO MONDIALE

g o r d o n d a h l q u i s t

L A S E T T A d e i L I B R I B L UUN RITORNO AI TEMPI IN CUI

UN LIBRO A OGNI PAGINA TI CATTURAVA IN

UN VORTICE DI AVVENTURE

“Questo è il romanzo più originale che abbia letto negli ultimi anni: architettura perfetta,

una immaginazione che corre senza sosta, un trio di eroi inusuali e seducenti.”

Diana Gabaldon

Repubblica Nazionale

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la memoriaGrande guerra

Nel giugno di novant’anni fa l’esercito italiano respingeva l’offensivaaustro-tedesca sul Piave frustrando definitivamente il progettodi avanzata su Venezia e la valle del Po. Abbiamo sorvolato col biplanodi Francesco Baracca i luoghi di uno scontro che costò decine

di migliaia di mortie che ancora ne trattienee tramanda i ricordi, i resti, le voci

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1GIUGNO 2008

È gonfio come non succedeva da anni. Èsegnato da squarci di schiuma, tagliatodiagonalmente da piatte isole a forma dipesce. Una fu chiamata «dei Morti» perl’ecatombe che vi si consumò. Tanti luo-ghi cambiarono nome allora. Persino ilfiume. Prima si diceva “la Piave”, a indi-care una dea fertile. Poi la reclutarono, lecambiarono sesso e ne fecero “il Piave”.Stessa sorte ebbe «la Brenta» sotto il pon-te di Bassano, e la montagna detta “Grap-pa”, che non potevano essere femminesul quel fronte di maschi.

Il pilota che inseguiamo nel cielo diBaracca è Giancarlo Zanardo, sessanta-nove anni, industriale chimico di Cone-gliano. Una passionaccia per il volo. Gio-ca con le nubi, scende a spirale, s’im-penna, infila una finestra con vista sulleDolomiti innevate. A Nervesa ha messosu una squadriglia di aerei d’epoca, in-cluso quello dei fratelli Wright e il rossotriplano “Fokker B1” dell’asso austriacodella Grande guerra, detto il Barone Ros-so. «Non è roba stantia piena di muffa —ci ha detto con orgoglio nel suo hangarstipato di gloriosi modelli — ma roba chevola». Vorrebbe lasciare il suo patrimo-nio in buone mani — mani pubbliche —ma in quest’Italia non è facile far capireil valore di una cosa simile.

Dall’alto, il Montello è come un zatte-rone inclinato verso la pianura; ora siamosopra i punti chiave della Grande Memo-ria. Dietro una montagna di vaporeemerge all’improvviso il bianco sacrariodi Nervesa, sulla sommità di un colle, cu-bo fascista riempito di loculi. Nei giorni ditemporale, la pioggia e il vento infilando-si all’interno costruivano un lamento, poiun’oscena cupola in plexiglas ha tolto aimorti l’ultima voce. Nel ‘39 il Duce lo fecesorvolare da squadriglie da combatti-mento; erano passati ventuno anni e lagente mangiò la foglia. Un’altra guerrastava arrivando. Tutti i sacrari lì intornoerano stati costruiti per glorificare e nonper maledire la guerra. Troppo grandiosaquella mobilitazione di Caduti chiamatia propiziare nuove imprese. Ancora nu-bi, turbolenze, poi lo scheletro dell’abba-zia di Sant’Eustachio, dove monsignorDella Casa scrisse Il Galateo, monconesopravvissuto delle bombe di giugno.

PAOLO RUMIZ

UFFICIALE DI BATTAGLIONE AVIATORINel 1911 venne costruita

negli stabilimenti di Mirafiori la primaflottiglia del battaglione aviatori,

nucleo originario dell’Aeronautica italiana

DRAGONE DI PIEMONTE REALEUno dei più antichi corpi italiani,

nato nel 1682, più volte scioltoe rinato, si distingue

nel 1917 a Pozzuolo del Friuli

Nei giorni di temporale, la pioggiae il vento si infilavano nel sacrario

di Nervesa e costruivano un lamento

SolstizioLa battagliadove morìPeter Pan

NERVESA DELLA BATTAGLIA

Il trabiccolo giallo a doppia ala rul-la sul prato, oscilla, emette il bor-bottio esitante di un barchino. È

un De Havilland Tiger Mouth, bipostoda addestramento classe 1935. Prima disalire a bordo, il pilota ha dato istruzionitipo «non monti qua che le ali si sfonda-no», «non muova le ginocchia in volo,potrebbe toccare il cavo dell’accelerato-re», poi mi ha ficcato in testa un casco dicuoio e ha dato di manetta. Via subito,senza i noiosi preamboli dei jet di linea.Non si fa in tempo ad abbassare gli oc-chialoni e si decolla, leggeri come in unacquarello di Walter Molino, e oltre unfilare di pioppi il Piave in grigioverde giàsprofonda sotto le ali.

Non è un gioco. È guerra. Un altro bi-plano ci precede, vira verso il Montello.Ha colore grigio e due mitraglie davantial parabrezza. È lo Spad 13 monoposto diFrancesco Baracca, l’eroe dell’aria mor-to il 18 giugno di novant’anni fa nella piùtremenda battaglia del Piave, quella delSolstizio, vinta dall’Italia dopo un’offen-siva austro-tedesca scatenata dalla pia-nura fino alle falde del Grappa, tutta inprovincia di Treviso. L’inferno cominciòla notte tra il 14 e il 15 con uno sfonda-mento sul fiume, in pochi giorni tuttofinì, con decine di migliaia di morti e larinuncia del nemico esausto a ogni altroprogetto di avanzata su Venezia e la val-le del Po. Oggi il tempo è come allora, bi-sogna infilarsi fra banchi di pioggia e nu-bi turrite, gonfie come cavolfiori.

Fracasso e vento, ma tutto scorre co-me in un film muto. Dall’alto la battagliadel Montello si dispiega come su unacarta militare, aperta sul tavolo di unquartier generale. C’è tutto. La 31ma di-visione degli Honved ungheresi cheguada il Piave a Falzé, dove il fiume è piùstretto. La 13ma divisione degli Schuet-zen che getta un ponte di barche all’al-tezza di Villa Jacur. La 17ma divisioneHonved che attacca a Nervesa, poco amonte del ponte della Priula: il puntodove gli austriaci videro Venezia ed esul-

millenario sotto l’urto della modernità.In un anno arrivarono la corrente elettri-ca, la radio, i motori, i cannoni, la carnein scatola, le macerie, le evacuazioni, lamorte di massa. E la fame.

Vennero soprattutto quegli aerei cheriempivano il cielo. Milleduecento, tra lePrealpi e la Laguna. I piloti erano i piùesposti di tutti i soldati al fronte. La lorovita media in prima linea era di novegiorni, un suicidio. Bastava una fucilataad abbatterli. I motori si incendiavanouna volta su tre, la visibilità era nulla,l’addestramento precario, la velocitànon andava oltre i centosessanta orari.Mai industria ebbe tanti disperati col-laudatori come quella aeronautica nellaGrande guerra.

Scendiamo sul Piave, ora lo Spad fa ilpelo all’acqua, risale controcorrente. Èidentico all’originale, salvo il motore, piùsicuro. Lo seguiamo a cento metri, bassianche noi, sotto un cielo di temporale.Stavolta il fiume non mormora, ruggisce.

tarono. Dietro di me il pilota si sbraccia— anche urlando non ci si sente — indi-ca i punti che ha mostrato sulla carta pri-ma del decollo. Ma già lo Spad prendequota, sorvola il ponte ferroviario subitopiccolo come un modellino Rivarossi,poi un sacello di bianche colonne, persoin mezzo al bosco. Il monumento a Ba-racca.

Novant’anni non sono niente. ElenaOlivotto, che ne ha novantanove, se lo ri-corda bene il cavaliere dell’aria. Ce ne haparlato a Nervesa prima che la nostrapattuglia prendesse il volo. Tutto è lì,nella sua memoria. La partenza del pilo-ta in stato di sovraffaticamento, il gua-sto, forse una mitragliata nemica, lui ches’avvita e cade sulla riva italiana. «Decol-lando, salutava i bambini con un affet-tuoso “guai a voi”, perché gli tiravamosassolini… Al ritorno ci distribuiva cara-melle… Era un grande». Sorride com-mossa. Per lei come per tutti i veneti il Di-ciotto fu uno shock, la fine di un mondo

(Treviso)

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 1GIUGNO 2008

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ARDITO FLAMMIEREI primi reparti arditi furono costituititra i soldati della seconda armatanell'estate del 1917Divennero subito il corpo di élite

SOLDATO DI FANTERIAIl protagonista assoluto del primoconflitto mondiale, la lunga guerradi trincea. Furono impegnati 244reggimenti inseriti in 120 brigate

Cinque chilometri di galleria scavatia mano,dove i cannoni incavernatilanciavano rimbombi da malebolge

più leghista d’Italia — Treviso — ma chequi lavora per valorizzare questa grandememoria italiana sulla scorta di quantofatto da belgi e francesi, con criteri moder-nissimi, sul fronte occidentale.

C’è un loculo che ha molti fiori, più fioridi qualsiasi altra tomba, su in cima, sul la-to nord del sacrario austriaco. «Venga a ve-dere», dice D’Agostino e indica sorriden-do il nome. «Peter Pan» c’è scritto, in bron-zo. Groppo in gola. Lassù, sul suo galeonerovesciato nell’Isola-che-non-c’è, quelragazzo venuto da chissà dove accende lacommozione dei bambini, come se il tem-po non esistesse. Sul monumento garriscela bandiera austriaca, ma i morti dell’Im-pero sono anche sloveni, croati, polacchi,bosniaci, ungheresi. Andreas Koudelka,Ivo Kratic, Ujos Hagy. «Quanti povari tosa-ti», dicono i veneti davanti a quei nomi im-pronunciabili.

Galleria Vittorio Emanuele III, cinquechilometri scavati a mano, con i cannoniincavernati che a ogni colpo lasciavano

un rimbombo da tomba, da malebolge,da paura. «Per capire — spiega Faverosparando dalla bocca nuvolette di vapore— bisognerebbe mettersi qui dentro conun sacco a pelo e accendere una candela».Una volta i morti erano tutti qui, nelle gal-lerie gelide, nel gocciolio, come sul mar-mo di un tavolo autoptico. «Portar qua iboce xe importante. C’è come una conse-gna generazionale, un ordine cui obbedi-re. Qui mi ha portato mio padre e qui hoportato mio figlio. La memoria storicapassa come una corrente carsica attraver-so i luoghi-simbolo di un’identità».

Si finisce a polenta e luganeghe in un“fojarol”, una casetta col tetto in foglie difaggio che tiene la pioggia a meraviglia. Dasotto il Sasso delle Capre, oltre le linee au-striache, gran vista sul versante di Feltre.«Ma da questi monti si vede anche l’Istriae l’Appennino», gioisce Giovanno Code-mo, sessantatré anni, bellunese, attizzan-do il suo fuoco. Esce, affonda le mani a ca-so nella terra bagnata, ne tira fuori scagliemarroni a forma di losanga. «Balistite, achili, dappertutto. Funziona ancora». Nemette insieme quattro frammenti e li ac-cende, provocando una piccola vampa.«La polvere da sparo non muore mai…qui ce n’è a tonnellate… Dove credi chel’abbiano trovata la dinamite negli anniSessanta in Alto Adige?».

Ne viene fuori di roba. Ossa anche, incontinuazione. Basta un solo anno diguerra a vomitare resti per novant’anni. Ilmitico Ferruccio Tarmena, ex partigianoStoppa, anni ottantasei, tempo fa ha tro-vato un elmo tedesco e quando l’ha tiratosu gli è venuta dietro anche la testa. Ghisa,ferro, bronzo, acciaio. Reticolati, baionet-te, medicinali, bottiglie, gavette, barche.Una tragica abbondanza, e anche unagrande saggezza nel riciclo di questi mate-riali. Grattugie dalle gavette, scaldaletto dabottiglie, fioriere da elmetti, abiti da lavo-ro da divise, irroratori di verderame da lan-ciafiamme, pallini da caccia dal piombodelle contraeree. Giovanni Callegari, checoordina questi ricuperi: «Il luogo dellagrande vittoria campale della stato unita-rio ha anche rinsaldato l’unità delle gentidel Piave. Prima eravamo divisi da antago-nismi paurosi, tra riva destra e sinistra. Og-gi tutti dicono: sono del Piave».

Saliamo verso il Grappa tra grandi ma-novre di nembi. Fa freddo, il casco dicuoio si gonfia di vento. Ora si sta apren-do un altro fronte del Solstizio. MonteFenera, la valle dei Solaroi, prati idilliciimpregnati di ferro e balistite. La stradadel generale Giardino, ancora imbandie-rata dell’ultima adunata degli alpini, chesale su a strappi, con pattuglie di motoci-clisti (tedeschi?) che fanno zigzag verso ilrifugio Bassano. Il ponte San Lorenzo,sull’altro versante, quattro case e un al-berghetto, segnano il punto della massi-ma avanzata austriaca e l’inizio dellacontroffensiva italiana raccontata, pro-prio in quel punto da Ernest Hemingwayin Addio alle armi. Un patrimonio stori-co unico, concentrato in uno spazio mi-nimo, che la Provincia di Treviso sta fi-nalmente collegando con una rete se-gnaletica e di guide.

Vista da est, la cima calva del Grappapare la chiglia di un Titanic rovesciata inun fondale oceanico. La prua guarda lapianura. Un luogo magico, abitato dachissà quali dei, colpito per primo dal so-le che nasce e per ultimo dal sole chemuore. Anche lì, sacrari, uno italiano euno austro-ungarico, che il Duce vollevicini, negli anni dell’avvicinamento aHitler. D’inverno si coprono di gelo e ilvento fa suonare le stalattiti di ghiacciocome canne d’organo. Ma anche in pri-mavera, con la pioggia in giro, può farefreddo. Dobbiamo rientrare, passandoaccanto al sentiero delle Meatte, scava-to per i fanti in uno scenario dantesco dipicchi e strapiombi, con vista immensasulla pianura. Ottanta teleferiche saliva-no sul Grappa per rifornire la prima li-nea. Tutte sistemate a mano. Uno sforzologistico pauroso.

Scendiamo a scaldarci le ossa, Zanardonel suo hangar brinda con un «prosecchi-no», poi decolla di nuovo per un giretto. Èora di tornare sul Grappa, per vederlo davicino, col maresciallo Diego D’Agostino,artiglieria da montagna, direttore dei sa-crari sul fronte del Diciotto. A furia di in-contrare visitatori austriaci e tedeschi, haimparato che attorno ai monumenti diguerra si costruisce al meglio la pace. Conlui anche Marzio Favero, assessore allaCultura della Provincia che sarà anche la

LE IMMAGINIL’immagine grande è il fotomontaggiodi un disegno di Achille Beltrame e di una fotodi Massimo Baldassini dello Spad 13 in volosul Piave, simile a quello di FrancescoBaracca. Sopra, una cartina della battagliadel Solstizio. Nelle foto in basso, a sinistra,Baracca; a destra, italiani sul Piave nel 1918(per gentile concessione del Museo Baracca)

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il raccontoLeggende sportive

Sono quindici grandi campioni del pugilato ma tuttipasseranno alla storia solo per un destino comune:aver incrociato i guantoni con Muhammad AliUn libro pubblicato negli Stati Uniti, “Facing Ali”,ha raccolto i ricordi, gli sfoghi, i rancori, i rimpiantidei duellanti che osarono insidiare il Re

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1GIUGNO 2008

NEW YORK

Molti dei protagonisti del libroche vi sto per raccontare sonostati grandissimi campioni, ealcuni rappresentano tuttora

un esempio di coraggio, abnegazione e lealtàsportiva. Ma non c’è uno di questi quindici pugi-li, anche tra i più grandi, che passerà alla storia senon per il fatto di aver incrociato i guantoni conMuhammad Ali. Perché il campione che vinsel’oro olimpico a Roma, salì sul trono dei massimisconfiggendo l’orso cattivo Sonny Liston, rivo-luzionò la boxe con tattiche funamboliche e im-prevedibili, rifiutò di combattere in Vietnam,rinnegò il nome da schiavo Cassius Clay, diven-ne un musulmano nero, fu privato del titolomondiale ma poi lo riconquistò due volte conmatch leggendari ed indimenticabili, è statosemplicemente il più grande. Un genio dellaboxe e anche il più bell’atleta che abbia mai cal-cato un ring, come lui stesso proclamava senzaalcuna autoironia, confinando il suo rivale diturno, che si chiamasse Joe Frazier o George Fo-reman, al ruolo del non protagonista.

Un appassionante libro pubblicato negli StatiUniti con il titolo Facing Ali, a firma di StephenBrunt, riunisce le testimonianze di quindici pugi-li che lo hanno sfidato lungo i vent’anni di una car-riera costellata di trionfi e dolorose interruzioni,strutturando gli incontri come se fossero i quin-dici round di un unico ideale match con il mito.Pochi sport hanno la capacità di creare leggendecome questa disciplina bestiale e scientifica, vio-lenta e raffinata, per il semplice motivo che in ogniincontro sul ring si ripropone la quintessenza delduello, di ogni duello. Uno scontro che non con-templa palloni da infilare in rete o bandierine daaggirare con gli sci, ma solo la forza delle mani el’intelligenza tattica dei due contendenti; e che siconclude sempre con la gloria del vincitore che di-venta re (il gergo pugilistico proclama: «È salito sultrono»), e l’umiliazione dello sconfitto.

Il genio di Ali si è manifestato nel modo in cui habattuto avversari quasi sempre più potenti di lui,esaltando il rituale antichissimo della noble art. Ele testimonianze dei quindici sfidanti raccolte nellibro ci ricordano come sul ring non possano esi-stere margini di riscatto: la gloria e l’umiliazionehanno a che fare direttamente, e ineluttabilmen-te, con la virilità dei contendenti. Soltanto uno ri-mane in piedi e alza le braccia al cielo, e soltantolui è il campione. Proprio George Foreman, il pu-gile che salì sul trono mortificando Joe Frazier eche poi massacrò Ken Norton prima di essere de-molito da Ali, intuì l’essenza del fascino della no-ble art, e disse a Joyce Carol Oates, nel suo magni-fico On Boxing: «La boxe è lo sport al quale tutti glialtri vorrebbero assomigliare».

Ma l’aspetto più sorprendente di questo libro èche Ali risulta una figura mitica e distante, che fi-nisce per esaltare l’umanità dei suoi rivali.Muhammad Ali è Davide che sconfigge Golia, o ilMozart di Peter Schaffer che ridicolizza l’umano,troppo umano Salieri. I quindici avversari mini-mizzano gli aspetti più controversi e meno nobilidella sua personalità, sottolineando soprattuttol’indiscussa genialità sul ring. È una scelta com-prensibile (più grande è il rivale, meno cocente èla sconfitta), che tuttavia ci priva di un ritratto rea-listico e a tutto tondo. Pochi campioni dello sport

hanno fatto quanto lui per difendere con orgogliola propria razza, eppure Ali non esitò a usare ap-pellativi razzisti nei confronti di Joe Frazier e diSonny Liston. È un peccato che quest’ultimo,scomparso in maniera sospetta nel 1971 (la ver-sione ufficiale fu overdose, ma c’è chi parla diun’esecuzione mafiosa), non offra la propria te-stimonianza, come non la offre Ernie Terrell, ilgigante che fece l’errore di chiamarlo provoca-toriamente Cassius Clay e venne massacratoper quindici riprese con colpi cattivi e mai defi-nitivi, in modo da non provocare un ko liberato-

ANTONIO MONDA

“Noi, gli eroi maledettiche hanno sfidato il Mito”

‘‘Ron LyleSono il dodicesimo di diciannove figli. Mio padreera un pastore protestante, mia madre era così devotache non andava neanche al cinema. Io sono una personabuona, ma ho passato otto anni in carcere per aver uccisoun uomo. In realtà era lui che voleva uccidermi,e io mi sono solo difeso, ma il giudice non mi ha volutocredere. In carcere sono stato accoltellato e salvatoper miracolo dai medici. Ma lì ho imparato a boxare,e devo al pugilato se ho potuto passare alla storia:ho combattuto contro Ali

‘‘Joe Frazier

Guardate bene le foto e ditemi voi chi è il più belloChi, secondo voi, nella realtà e nell’intimità è l’uomo

più bello. Ditemelo in faccia se non sono più bellodi Ali. Forse lo ha fatto per vendere più biglietti

e per promuovere i nostri incontri, ma mi ha definitocon i soprannomi che mi sono rimasti appiccicati

addosso per sempre: «Orribile», «Ignorante»,«Zio Tom», «Il campione dei bianchi», «Gorilla»

IL LIBRO

Si intitola Facing Ali (The Lyons Press,22,95 dollari) il libro in cui il giornalistasportivo canadese Stephen Brunt raccontaquindici storie di quindici avversari del grande Muhammad Ali attraverso le lorotestimonianze dirette. Sfilano sul ring tra gli altri, George Foreman, KarlMildenberger, Joe Frazier, TunneyHunsacker, Ken Norton. Per tutti,l’incontro con “il Re” è stato l’eventopiù importante della carriera sportiva

ULTIMOROUNDNella fotogrande,MuhammadAli; accanto,le locandinedegli incontritra Alie gli sfidanticitatiin questepagine

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 1GIUGNO 2008

rio. Terrell terminò l’incontro con il volto defor-mato per la gragnuola di pugni che Ali gli sferròdurante l’incontro, ripetendo a ogni colpo: «Co-me mi chiamo?».

Manca nel libro anche Cleveland Williams, ilrivale dell’incontro più bello che abbia mai di-sputato, ma quello che c’è è materiale per alme-no una decina di film. Basti pensare alla vicendadi George Chuvalo, il roccioso canadese che nonè mai stato atterrato in novantatré incontri e cheper quindici riprese non arretrò mai di fronte adAli. Il suo coraggio sul ring è diventato metafora

dello stoicismo con cui ha affrontato l’esistenza:Chuvalo ha visto due figli morire per droga, unterzo suicida, così come la moglie. Ha devolutotutti i guadagni in beneficenza e ora assiste i tos-sicodipendenti.

Non meno esemplare la vicenda del grandissi-mo Joe “Smoking” Frazier, che è stato il primo abatterlo ma poi è stato sconfitto sia nella rivinci-ta che nella bella, e ancora non riesce a accettaredi essere sempre considerato il secondo. Il librorivela che gli insulti di Ali, e in particolare quellodi «ignorante» lo hanno ferito più delle sconfitte.Sembra un film invece la vicenda di Ron Lyle, fi-glio di un reverendo battista, che imparò la boxein carcere dove era stato rinchiuso per aver ucci-so, ancora adolescente, un coetaneo. Era un pic-chiatore formidabile, ma quando incontrò Ali simise in testa di sfidarlo sul piano della tecnica efinì per ricevere una pesantissima lezione.

Non c’è campione che non racconti la sogge-zione provata sul ring di fronte al mito. Il boatocon cui veniva ritmato il nome Ali, la standingovation, e poi quel sorriso da star del cinema sulcorpo di un gigante. E il peso della sua storia, cheandava ben oltre le corde del ring: Ali era l’uomoche aveva sfidato l’establishment, che aveva avu-to il coraggio di dire no alla guerra in Vietnamspiegando che nessun Vietcong lo aveva «maichiamato nigger». Che aveva cambiato le regoledella boxe, trasformandola in uno spettacolo mi-liardario nel quale lui era l’unico protagonista,che «volava come una farfalla e pungeva comeun’ape». Ed era anche un grandissimo show-man: nei suoi duetti con il fido Drew “Bundini”Brown, era stato un precursore di quello che og-gi conosciamo come rap.

Ma era anche un grandissimo manipolatore,come imparò a sue spese George Foreman, ilcampione indistruttibile che venne demolito daAli nel “Rumble in the jungle”. L’incontro haispirato un bellissimo libro a Norman Mailer in-titolato Il match, e un film non meno bello:Quando eravamo re. È l’apoteosi di Ali che, sfa-vorito in tutti i pronostici, non esitò a far passareForeman per uno yankee asservito al potere erazzista a dispetto del colore della pelle. Riuscì aportare il pubblico tutto dalla sua parte, e du-rante l’incontro incitò la folla a gridare «BomaYe» (uccidilo) prima di impartire al frastornatorivale una lezione di scienza pugilistica. QuandoForeman crollò al tappeto Mailer scrisse chesembrava «un maggiordomo di colore che ap-prende una terribile notizia». Il libro ci raccontache dopo quella sconfitta passò un lunghissimoperiodo di depressione, ma oggi è tra coloro chericordano Ali con maggiore affetto. Dice di es-sersi commosso quando lo ha visto accendere latorcia di Atlanta con la mano tremolante per ilparkinson. E racconta che, quando si sente chia-mare per nome da coloro che lo riconoscono,pensa che «è quasi come essere Ali».

‘‘Larry HolmesAmavo Ali, e lo amo ancora.È stato un grande.Non ho tentato di diventarecome lui, anche se la gentelo ha detto sin dall’inizio della miacarriera. (…) Quando ci siamosfidati ho sperato che l’arbitrointerrompesse l’incontro. Quelloche succede a un pugile dopoquattro o cinque round di colpicontinui è una punizione che lasciadei segni indelebili. Ogni personache ha visto quei terribiliundici round dice che sarebbe statomeglio se non li avesse mai visti.Il re era finalmente,e innegabilmente morto.Lunga vita al re.

‘‘Ken NortonÈ stata l’unica volta che ho pianto da quando avevo ottoanni. Per me fu devastante. Io sapevo di aver vintol’incontro. Ali sapeva che avevo vinto l’incontro. I giudicisapevano che avevo vinto l’incontro. Ma nonostanteciò diedero a lui la vittoria. In quei giorni la boxe andavadove andava Ali. Se avesse perso, la boxe avrebbe subitoun grande danno. E lo sapevano. In quei giorni la boxeera Ali, e così ha vinto ‘‘

George ChuvaloHo sessantanove anni,e ne sono passati quarantunodall’incontro con AliMa è quello che la gente ancoraricorda di me: «L’uomoche arrivò sino al quindicesimoround con Ali senzamai indietreggiare». A volte,giovani che all’epoca non eranoancora nati mi chiedonodi parlarne e quando mi dicono«Hai perso il match», rispondo«Indovinate chi è andatoall’ospedale quella sera?E chi invece è andato a ballarecon sua moglie?»

”George Foreman

Non ho problemi quando sentodire che Muhammad Ali è il più

grande. Quando applaudonoal suo ingresso in un qualunque

luogo, e poi parte la standingovation. Penso sempre:

lo merita. La vita è un lungoviaggio pieno di problemi

Può accadere di tuttoe, se una persona merita

un applauso, così sia. Ma vogliodire una cosa: se io avessi battuto

il più grande, e se fossi riuscitoa colpirlo con uno dei miei pugni,

allora io, George Foreman,sarei diventato il più grande?

Repubblica Nazionale

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Poi i nipoti e ognuno vuole una cosa. Non so cosa ne farebbero infuturo, ognuno ha la sua vita, i suoi interessi, piuttosto che lasciareche vendano loro, preferisco venderla io. Ne ho bisogno per man-tenere il mio Museo degli Angeli a Siviglia».

Tre figli — Miguel, Lucia e Paola «in omaggio a Pablo, che è statoil suo padrino»; sette nipoti e «sono anche bisnonna» — Lucia Bosèha collezionato angeli di ogni tipo, oggetti, sculture, dipinti: «Era unsogno che coltivavo da ragazza, da quando vidi per la prima volta lestatue di pietra di Ponte Sant’Angelo. L’ho realizzato, il museo si ar-ricchisce di continuo. È un sogno che costa, i ricavi dell’asta mi ser-vono per quello, ma è una mia scelta e sono felice così». Ed è feliceanche «per la possibilità di mostrare ad altri un aspetto di Picassoche credo pochi conoscano. Io non so parlarne da critico, per meera l’amico che toccavo, che abbracciavo, con cui avevo il privilegiodi dividere momenti di gioia o di malinconia. Soprattutto di gioia,perché Pablo amava la vita, il mare, la bellezza, il cibo. Non dimen-ticherò mai le nostre lunghe serate tra mille chiacchiere e mille si-garette».

Le opere che Picasso regalava alla famiglia Dominguin non era-no legate ad occasioni particolari: «Erano le sue dimostrazioni di af-fetto, erano slanci del momento. Come quando fece per me il dise-gno dell’omino con i baffi. “Luis Miguel è spesso in giro, non voglioche tu ti senta sola. Tieni questo omino sul cuscino e sarà lui a te-nerti compagnia, vedrai”».

Miguel e Lucia Dominguin, i figli più grandi, «hanno vissuto alungo con Pablo, una volta, quando accompagnai mio marito in ungiro in Sudamerica, ce li lasciammo per tre mesi. La prima volta cheMiguel entrò nello studio di Picasso rimase incantato dalla confu-sione di tele, di sculture incompiute, di oggetti, di pennelli di ognitipo, era affascinato dai colori. «Ma questo è un paradiso!», disse.«Forse per te, per me è più l’inferno», rispose lui. Gli piaceva discu-tere con Miguel perché anche quando lo provocava lui rispondeva

a tono. Una volta Dominguin chiamò Miguel dopouna corrida, gli disse che aveva tagliato quattro orec-chie al toro. Quando glielo raccontò tutto eccitato,Picasso lo prese in giro, gli disse che non esistevanotori con quattro orecchie. “E allora tu perché fai le don-ne con quattro occhi”», replicò il bambino. Nacque co-sì il disegno di un toro con quattro orecchie».

La Bosè ricorda divertita anche l’“incidente” con lapiccola Lucia. «Lei voleva tanto una bambola che anda-va molto di moda tra le bambine nella Spagna di queglianni. Pablo le face un disegno alla sua maniera e Luciascoppiò a piangere, la trovava bruttissima e gliela tirò infaccia. Lui non si arrabbiò. “I bambini dicono sempre la ve-

rità”, fu la sua reazione». Tra gli scherzi di Picasso «c’è quello delle uo-va di rondine. Una volta a pranzo mi offrì un

piccolo uovo, disse che era una specialità ar-rivata dalla Cina. Lo mangiai, non aveva nes-sun sapore. “Ne vuoi un altro?”. Mangiai an-che il secondo, anch’esso senza sapore. Luiscoppiò a ridere. “Sono uova di rondine, han-no trecento anni, per forza non sanno di nien-

te. Stasera proviamo la zuppa che si fa con il ni-do”, disse ridendo. Poi però per tutto il giorno si

preoccupò di come stavo, temeva che mi avesse-ro fatto male».

Il primo incontro della Bosè con Picasso avvenne aBordeaux. «Dominguin andava spesso a toreare in Francia e Pa-blo una volta gli chiese di portarmi con lui, voleva conoscermi. Mistrinse la mano. “Ma noi ci siamo già incontrati. A casa di Viscon-ti, tanti anni fa, avevi un bellissimo tailleur nero”. E mi ricordò dicolpo una serata da Luchino, in cui c’erano Renato Guttuso, Anto-nello Trombadori e tanto partito comunista italiano. L’avevo com-pletamente dimenticata, ma avevo diciannove anni, era entrata da

poco in quel mondo, chissà cosa avevo nella mente. Certo, il perio-do romano fu meraviglioso, c’erano amici fantastici, c’era una soli-darietà e un entusiasmo tra la gente del cinema e della cultura chequelli di oggi se la sognano».

Un altro primo incontro è quello con Dominguin. «Fu all’amba-sciata di Cuba, una festa per il film La morte di un ciclista. Il toreroera amico del produttore che me lo presentò. Al primo impatto lotrovai antipatico, mi sembrava un po’ troppo fanatico. Poi è scatta-to qualcosa, non il grande amore, ma una grande passione». Unapassione che ha cambiato la sua vita: per la durata del matrimonio— dal 1955 al 1967 — la Bosé ha lasciato il cinema, che pure le ave-va offerto occasioni, incontri, riconoscimenti prestigiosi e l’af-fetto di tanti compagni di lavoro. «Non ci puoi tradire conun torero!», le dicevano Mastroianni e Interlenghi che«quando giravamo Parigi è sempre Parigi rientravanoin albergo prima di me e li trovavo nella mia camera,tutti e due dentro il letto. Quanto ridevamo! Ci voleva-mo bene, ma li cacciavo via, ero incorruttibile». Se Vi-sconti l’aveva notata, ancora Lucia Borloni, commes-sa in una pasticceria milanese, dopo l’elezione a missItalia ‘47, l’ingresso nel cinema bello fu grazie ad auto-ri come Giuseppe De Santis (Non c’è pace tra gli ulivi) eAntonioni (Cronaca di un amore).

«Non ho mai avuto rimpianti. Volevo i figli, volevo una fa-miglia e l’ho avuta. Poi non ha funzionato, ho ripreso a lavorare e lavita mi ha regalato altri incontri, amanti e la fortuna di un grandeamore. Dopo il divorzio, l’amicizia con Picasso è rimasta viva, manon ci sono più state le vacanze insieme, le serate infinite. Mi è man-cata la sua gioia di vivere, mi è rimasta la ricchezza della memoria».Ha ancora i capelli blu? «Sì. Ero diventata bionda, tutti dicevano chestavo male e sono tornata blu. Mi dà energia, blu è mare ed è cielo.E c’era tanto blu anche in Picasso».

Un grande pittore,una bellissima attrice,un celebre torero

La loro amicizia è ricca di aneddotiche Lucia Bosè ci ha raccontato adesso che,per finanziare il suo Museo degli Angeli,ha deciso di vendere la collezione di disegnie ceramiche dell’artista in un’astache si sta per tenere da Christie’s a Londra

CULTURA*

MARIA PIA FUSCO

“Miguel vestiva Pablocon abiti da corrida e spadinoLui si metteva in posa da arena”

“Fece per me lo schizzodell’omino coi baffi. Mi disse:così non ti sentirai sola”

Un angelo-toro per Lucia

Una serata a “La Californie”, la villa di Picasso a Can-nes. Que bonita!, esclama il maestro all’apparizionedi Lucia Bosé, appena uscita dalla doccia, avvolta inuna sontuosa vestaglia rossa firmata Dior. Anchel’altro ospite, Luis Miguel Dominguin, esprime am-mirazione per la moglie e per la vestaglia. Che attrae

in modo particolare Picasso, tanto da spingerlo a chiedere al torerodi provarla, poi la indossa anche lui, decide che conserva eleganzaanche su un uomo. «Era una serata come tante, scherzavamo e ri-devamo così, c’era la gioia di stare insieme, tra amici. Per Pablo leoccasioni più entusiasmanti erano quando Miguel lo vestiva da to-rero, con lo spadino e tutti gli ornamenti. Lui si metteva in posa e fa-ceva i movimenti da arena. Ho ancora le fotografie. Non ho mai ca-pito perché, ma la vera arte per Picasso era la tauromachia, un’artesacra, la più bella secondo i canoni estetici. Per Dominguin avevaun’adorazione, lo guardava come un dio, gli diceva che avrebbeamato essere lui. “Ma non so se io avrei voluto essere te”, risponde-va Dominguin», racconta Lucia Bosé. «Personalmente non sonomai stata attratta dalle corride, ne avrò viste un paio nella mia vita.Che c’entro io, milanese, con la corrida? Però è una parte impor-tante della cultura spagnola e le rispetto, non mi piace quando qual-cuno ne parla con disprezzo senza sapere di che parla».

Lucia Bosé, con la sua calda voce roca da fumatrice, è al telefonodalla casa di Madrid, dove vive dagli anni Cinquanta, da quando nel‘55 sposò Dominguin, allora il più famoso torero di Spagna. L’oc-casione per tornare ai ricordi della bella amicizia tra la sua famigliae Picasso è l’asta della sua collezione privata di opere su carta e ce-ramiche del pittore, che si terrà da Christie’s a Londra a partire dal25 giugno, dopo un’esposizione pubblica il giorno 20. «Ho presouna decisione: non voglio più possedere nulla. Ho fatto tanti sforziper mettere insieme questa collezione, ma mantenerla è un pro-blema, poi arrivano i figli e dicono “questo è mio” e “questo è mio”.

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CARTETaureau ailé, dietroal disegno (a pennae inchiostro) Picassoscrisse: “I tori sonoangeli che portanole corna”. Nell’altrapagina a destra,

La poupée (matitee pastelli a cera

su cartoncino)del 1961

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1GIUGNO 2008

BosèPicasso

Jonathan Simon

Il governodella pauraGuerra alla criminalitàe democraziain America

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 1GIUGNO 2008

IL RICORDO

Dell’amicizia tra Pablo Picasso e la coppiaDominguin-Bosè si parla anche in un piccolo libro,Incontrando Picasso, pubblicato di recenteper conto della IMP, International MediaProduction, in occasione del decimo anniversariodella scomparsa di Mario Bocchi, animatoreculturale, collezionista d’arte e amicodel grande pittore spagnolo

PUPAZZIA centro pagina, La chumbera(pastelli a cera su carta tagliata)L’opera è datata 16 febbraio 1963Qui in basso a destra, il buffo Portraitaux moustaches (pastelli a cera e oliosu carta tagliata). Sopra al coperchio della cassetta dei colori,Lucia Dominguin, disegno a matita di Picasso del 1961Nell’altra pagina dall’alto, Picasso con Lucia Bosè e l’artistacon la famiglia Dominguin: Luis Miguel, Lucia e i figli Miguel e Lucia

RITRATTIPortrait en bonnetde nuit del 15 gennaio1964 (pastelli a cerasu carta tagliata)Qui sotto, Picadoret torero attendantle paseo de cuadrillas

Più in bassoa destra,Portrait

de Jacqueline,litografia

in nero, grigioe marrone

su carta firmataPicasso e dedicata

a Luis Miguel(17 settembre 1959)

Tutti i disegnidi queste paginesono stati fornitida Christie’sImages Ltd 2008

FOTO CHRISTIE’S IMAGES LTD. 2008

Repubblica Nazionale

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In occasione dei centocinquant’anni dalla nascita,la Fondazione Cini pubblica per la prima volta il carteggiotra la grande attrice e la figlia Enrichetta. Dalle cinquantasei

missive, scritte tra il 1892 e il 1924, emerge il ritratto di una mammatormentata dai sensi di colpa per quella bambina che cresce lontana:una primadonna agli antipodi del cliché di “femme fatale”

SPETTACOLI

“Se io ti parlo di stelle, tu, pupa, cercadi non vivere sulla luna... Come vuoiche lasci il lavoro? Con che vivere allora?”

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1GIUGNO 2008

ASOLO (Treviso)

Dietro la maschera dellagrande attrice, dietro gliocchi della “Divina” tantoamata, corteggiata, vene-

rata, c’era un cuore inquieto di mamma.Tenera, preoccupata, angosciata, per-vasa dalla solitudine, tormentata da sen-si di colpa nei confronti della figlia, quel-la sua unica figlia sempre così distante,lontana, eppure sempre così presentenei suoi pensieri. «Je suis chaque instantauprès de toi — le scriveva — sono sem-pre con te, e ogni tua lettera che mi arri-va è per me una grande gioia e insiemeuna grande ansietà».

È un ritratto che fa a pugni con la suaimmagine di “femme fatale” quello cheesce dalle lettere, ancora inedite, inviateda Eleonora Duse alla sua unica figlia En-richetta. Ce ne sono cinquantasei, tutteautografe, scritte tra il 1892 e il 1924, l’an-no della morte della “Divina”, a Pittsbur-gh, stroncata dalla polmonite a sessanta-sei anni. Le lettere, insieme a quattroquaderni in cui la figlia aveva ricopiato al-tre missive della madre andate perse,scritte per lo più in francese, ma anche initaliano e in inglese, sono la parte più pre-ziosa del fondo “Sister Mary of St. Mark”custodito nella “Stanza del Tesoro” dellaFondazione Cini di Venezia, insieme amolte cose appartenute alla “Divina”: ve-stiti, mobili, oggetti, libri, copioni.

Furono donati nel 1968 dalla nipotedella Duse, Eleonora Ilaria Bullough, unadei due figli di Enrichetta, che si fece suo-ra con il nome di Sister Mary. La Fonda-zione Cini le pubblicherà per la primavolta, in due volumi, in occasione dellecelebrazioni per i centocinquant’anni

della nascita dell’attrice. Inoltre, tra set-tembre e ottobre ad Asolo, dove la Duseaveva una casa ed è sepolta, si terrannoconvegni, mostre e spettacoli per inizia-tiva della stessa Fondazione, della Regio-ne Veneto, del Teatro Stabile e dell’Uni-versità di Cà Foscari, i cui studenti hannorealizzato anche un dvd sul «laboratoriodell’attrice».

«Da queste lettere esce un rapportomadre-figlia complesso e contrastato,fatto di dolore e sofferenza, e dove i ruo-li spesso si scambiano», dice Maria IdaBiggi, docente di storia dello spettacoloe responsabile del fondo “Sister Mary”.Dove la vita si intreccia alla commedia.Non è un caso infatti che la Duse abbiascelto ruoli di madre disperata in moltilavori teatrali, da Spettri a Casa di bam-bola, e anche in film come Cenere, trattodal libro di Grazia Deledda. «Tante coseche mi turbavano nel libro, noi le viveva-mo», scrive Eleonora alla figlia nel 1916.

Madre e figlia, difatti, si sono viste po-chissimo, e il loro rapporto, peraltro maiinterrotto, è stato quasi esclusivamenteepistolare. Figlia dell’attore TebaldoMarchetti in arte Checchi, nata un annodopo che Eleonora l’aveva sposato,quando aveva ventitré anni, Enrichettasegue la madre nelle tournée fino all’etàdi cinque anni. Poi va in collegio fino aisedici, prima a Torino e poi a Dresda, equindi si trasferisce in Inghilterra, dovesi sposerà con un professore di Cam-bridge, Edward Bullough, avrà due figliche andranno uno frate e l’altra suora, enon si muoverà più. Morirà a settanta-nove anni.

Proverà più volte Enrichetta, ma senza

successo, a convincere sua madre, speciequando la sua salute peggiorerà, a trasfe-rirsi da lei in Inghilterra. Ne otterrà sem-pre rifiuti decisi, col pretesto del lavoro odella guerra. Sono le uniche volte in cui la“Divina” si mostra dura con la figlia. Co-me quando, nel 1904, la rimprovera: «Seio ti parlo di stelle, tu, pupa, cerca di nonvivere sulla luna. Una delle tue lettere midiceva: “Ora, a Monaco, la tua tournée èfinita, forse ritorni a casa”. Vivi nella luna?Come vuoi che lasci il lavoro? Con che co-sa vivere allora? Che idea, dormivi men-tre la scrivevi!». O come quando, nel 1914,le intima di non parlarle più di guerra: «Tiprego, non scrivermi notizie di guerra, leleggo sul giornale, e mi rattrista sentirleraccontare da te. Parlami dei piccoli, deiloro giochi, ma di politica o guerra no».

Per il resto c’è una madre accorata, di-sperata, dolcissima, che chiama la figlia«mia coraggiosa e buona pupa», «pou-pon» in francese, che scrive frasi come «ilmio cuore di mamma è con te e ti accom-pagna ogni istante», e «la tua mammanon sa dirti la sua tenerezza né la sua fe-deltà a te». Una mamma che manda di-spacci urgenti per telegrafo da BuenosAires con scritto solo «Maman aime pu-pon», che manda gli auguri per il matri-monio della figlia («sono felice che gettilontano questo stupido cognome dasposata di tua madre e anche questo stu-pido Duse»), che approva la sua conver-sione cattolica («hai scelto una strada dif-ficile che ammiro, ma io son troppo po-veretta per seguirti»), e che sul finire del-la vita si affida a lei totalmente: «Ma fille,tienimi stretta fra le tue braccia. Non sodove vado, nel senso materiale della pa-

rola, ma so che cammino nel tuo raggio,e l’anima promette pace. Baci e fede daMamma tua».

Le lettere di Enrichetta sono molto piùlunghe di quelle della madre, che scrivespesso di corsa, con una grafia irregolare,confusa, davanti, dietro e a margine deifogli, dai camerini dei teatri di mezzomondo, sulle cartoline e sulla carta inte-stata degli alberghi. Enrichetta vorrebbeche la madre le scrivesse «tous les jours».Ma la Duse non ce la fa, risponde in me-dia ogni dieci giorni. «Vorrei scriverti as-sai — si giustifica — ma bisogna perdo-narmi se non riesco!». Quando è depres-sa poi non scrive affatto. «Non ti ho scrit-to perché un po’ di depressione mi ha te-nuta così così, incapace di far granché —spiega nel 1915 — oggi sto meglio e man-do questo saluto... Tu lo sai che quandosoffro ho orrore di dirlo, e allora facciol’indifferente... e le parole sono fatte pernon essere dette e comprese... sono sicu-ra che tu comprendi il conflitto di tua ma-dre. Baci, baci».

C’è poi la guerra, c’è «l’orrore» dellaguerra: «Ne risento il terrore, come dapiccola, mamma mia mi teneva tra lebraccia e in una notte di luna vedemmopassare dei soldati stracchi e allampana-ti nella penombra, e non sapevamo seerano i nostri o i nemici», scrive da Firen-ze il 24 maggio 1915, il giorno che l’Italiaentra in guerra. Poi parla del suo lavoro,dei viaggi, della fatica delle tournée («aVienna non è duro, invece in provincia,in Germania, è la morte»), dei paesi chevisita («che noia in Olanda! Che peste inSvizzera! Tutto è numerato e meschi-no»). E quando crolla il campanile di San

SOMIGLIANZA Eleonora Duse con la figlia Enrichetta (foto Mario Nunes Vais, Roma)

ROBERTO BIANCHIN

Fare la madre, la parte più difficile

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 1GIUGNO 2008

Marco, nel 1902, se la prende anche conl’Italia «vigliacca, molle, fiacca, che la-scia perire tutto». Ogni tanto, qua e là,spunta anche qualche preoccupazioneeconomica («spero che tra un anno avre-mo un pezzo di pane»), come quando,nel 1915, chiede alla figlia se «si possono

vendere i tappeti» di casa. Fino a che ar-riva il giorno in cui la “Divina” dice chenon ha più voglia di scrivere niente: «So-no così stanca che tutto è fatica. La tuapovera vecchia mamma ringrazia la for-za che l’accompagna. Che Dio ci accom-pagni. Mamma».

“Divina” come Eleonora Duse: con lei nacquequesto modo di aggettivare le vere star, dotatedi un magnetismo che suscita fascinazioni, co-

me la Garbo e la Callas. Già in vita Eleonora è una leggen-da, oggetto di fanatismi. Al culmine della carriera, verso fi-ne Ottocento, l’Europa è ai suoi piedi. Dovunque è accoltada ovazioni, coperta di omaggi, inseguita da tributi deli-ranti. A Torino una folla di studenti ferma la sua carrozzaper condurla a braccia fino al suo albergo, innalzata comeun monumento. A Pietroburgo emoziona lo spettatore Ce-chov, che scrive alla sorella: «Non conosco l’italiano, ma re-citava così bene che mi sembrava di capire ogni parola». ALondra George Bernard Shaw s’infiamma per il suo «fre-mito del labbro, più intuito che veduto, con cui vi penetranel cuore». Rilke afferma che «non c’è poeta al mondo ingrado di cantarla degnamente», e Matilde Serao scriveràche «recita come i fiori profumano, come le stelle risplen-dono, come cantano gli uccelli».

Cos’ha di unico e speciale? Non una bellezza travolgen-te o una sensualità selvaggia o un corpo che si fa fantasti-care in quanto tale. Piuttosto è pallida e mingherlina, col vi-so privo di trucco (non ne portava mai, né in scena né fuo-ri) scavato in lineamenti irregolari e incerti. Eppure emanail senso conturbante di un “altrove”. È un’anima riflessa nelvolto, soprattutto negli occhi immensi, che pescano ba-gliori in zone misteriose. Ed è un talento interpretativo mo-dernissimo, non solo per l’assenza di retorica e l’essenzia-lità del gesto, peculiarità inconsuete in un’epoca di recita-zioni appariscenti e declamatorie, ma nella capacità di me-tamorfosi che di volta in volta la rende meravigliosa o per-fida, spiritata o carnale, decrepita o bambina, casta comeOfelia e soave come Desdemona oppure feroce come unabelva, secondo quanto narrano le cronache della TeresaRaquin di Zola, suo primo, grande trionfo a Napoli. «Esse-re» il personaggio: questo era la Duse. Diventarlo non co-gliendone l’esteriorità, ma ricreandolo con originale veritàpoetica, secondo un metodo vicino a quello di Stanislav-skij e su una linea volta al futuro, la stessa che avrebbe con-dotto all’Actor’s Studio e ai massimi attori del cinema ame-ricano degli ultimi decenni del Novecento.

Figlia di guitti (nasce durante una tournée, nel 1858, inuna camera dell’albergo Cannon d’oro di Vigevano), Eleo-nora debutta in teatro a quattro anni, come Cosetta in unariduzione de I Miserabili di Victor Hugo, e per farla recita-re devono picchiarla sulle gambe. È adolescente quando sitrova a sostituire la madre malata e a dire in scena, senzacapirle, le parole roventi di drammi come Francesca da Ri-mini di Pellico e Pia de’ Tolomei di Marenco, e ha quattor-dici anni quando interpreta Giulietta all’Arena di Verona.Rimasta orfana di madre giovanissima, a vent’anni s’am-mala di tisi, e per tutta la vita sconterà un’opprimente de-bolezza dei polmoni. Una ferita in più, un’ombra che laperseguita, una battaglia col proprio corpo che reca sullascena.

Sarah Bernhardt, vista in teatro nel pieno della fama aTorino, le fa comprendere il percorso, l’elevazione dal me-ro mestiere, il potere comunicativo dell’anti-retorica. Equando si cimenta nella Principessa di Bagdad di Dumasfiglio, parte non recitata fino a quel momento altro che daSarah, conquista un successo travolgente. Nel 1881 sposaTebaldo Cecchi, modesto attore e padre di Enrichetta, poiliquidato per amore di Flavio Andò, che ha accanto nellaCavalleria rusticana di Giovanni Verga. Lo lascia per Arri-go Boito, compositore, critico, poeta e librettista di Verdi,che la introduce negli ambienti della scapigliatura milane-se, la spinge a coltivarsi, traduce per lei Antonio e Cleopatradi Shakespeare (altro trionfo al Manzoni di Milano, nell’88)e la guida nell’approfondimento della dialettica dei ruoli.

La successiva relazione con D’Annunzio, per la Duse, si-gnifica l’utopia dell’arte condivisa, l’attaccamento arden-te e doloroso, un supplizio masochistico che consuma.Iniziato a Venezia nel 1894, il rapporto dura una decinad’anni e sospinge in modo decisivo l’ascesa del Vate, i cuidrammi Eleonora fa conoscere al mondo assumendosi ilcarico finanziario degli allestimenti. Lui la premia sce-gliendo Sarah Bernhardt per il debutto parigino de La cittàmorta, affidando il ruolo principale de La figlia di Jorio al-la più giovane Irma Grammatica e infierendo con continuie dichiarati tradimenti. E nel suo libro Il fuoco non esita aumiliarla descrivendo «lo sfacelo fisico» della compagnaquarantenne.

Dopo la separazione la Divina s’immerge nel teatro del-l’amatissimo Ibsen. Poi abbandona le scene, attraversauna lunga fase di crisi mistiche e consegna ai posteri la suaunica e non felice apparizione cinematografica nel film Ce-nere (1916), tratto dalla Deledda. Al termine della guerratorna alla ribalta con fatica, fino al definitivo e immanesforzo dell’ultima tournée in America, dove ancora si faosannare da New York all’Avana. Eppure è malconcia, lo-gorata dagli affanni e coi capelli bianchi. Brusca e sfidante,non teme di nascondere le sue brutture. Quando muore aPittsburgh, nel 1924, la sua gloria è magicamente intatta,insuperata.

L’appellativo “Divina”fu inventato per lei

LEONETTA BENTIVOGLIO

GENERAZIONISotto, Enrichetta Checchi Duse a un anno(la scritta “Angelo custode” è di Eleonora);

accanto, Eleonora Duse con sua madreAngelica Cappelletto nel 1863 circa

FOTOGRAFIEQui sopra, dall’alto, Eleonora ed Enrichetta nel 1886 circa; madre e figlia

verso il 1888. Le fotografie e le lettere che illustrano queste paginesi pubblicano per gentile concessione della Fondazione Cini di Venezia

MANOSCRITTIA sinistra, alcuni foglidelle lettereche, dagli alberghidove scendeva,Eleonora Dusescriveva a “Pupa”,l’appellativoaffettuosodato alla figliaEnrichetta

Repubblica Nazionale

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Accoccolatanel cuore dell’AltaBadia (1483 metri)accantoa San Cassiano,con cui divide la famadi paradisodegli sciatori,

è dominata dal Ciastel Colz, memoria delle viles

rurali. In estate, gite alle malghe sulle faldedella Gardenazza e del Piz

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Rivisondoli (Aq)

Karl Baumgartner è lo chef del ristorante “Schöneck”,a Molini di Falzes, in val Pusteria. Tra i suoi piattipiù appetitosi, i ravioli di carrube ripieni con fondutadi formaggio d’alpeggio in salsa di cavolo cappuccio

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1GIUGNO 2008

i saporiIn alta quota

Farine rustiche, legumi, patate, orzo, castagne, burro,latte, formaggi di malga, carni selvatiche e cotturelentissime che accompagnano la giornata. Quellaquotidianità alimentare così legata alla terra si è quasismarrita, ma la primavera - con sagre e appuntamentimontani - ci offre l’occasione per riscoprirne i segreti

StrudelNel passaggio dalla Turchiaall’Impero austro-ungarico(Sedicesimo secolo),la baclava ha perso il liquoree aggiunto le mele. La pasta(frolla o sfoglia) avvolgel’impasto di frutta frescae secca con cannella

GnocchiPatate bianche, farinosee di montagna da impastarecon la farina: i due ingredientisono in dosi inversamenteproporzionali (pochissimafarina). In Val d’Aosta,si condiscono con fontinad’alpeggio sciolta nel burro

Muset e brovadePiatto della cucina friulanaHa come base un insaccatodi maiale (tipo cotechino)Si serve affettato e senzapelle, abbinato alle brovade,rape fermentate in vinacce,grattate e cotte in un soffrittoaromatico diluito con vino

CastagnaccioNomi diversi (migliaccio,pattona) per la torta bassadi Centro Italia e Campaniaa base di farina di castagneIl gusto varia secondola quantità di zucchero,lo spessore, l’aggiunta di olio,rosmarino, uvetta, pinoli

Polenta taragnaNelle valli lombardela polenta si preparacon farina di mais e granosaraceno, girata a lungo(tarata) nel paiolo di rameA fine cottura si aggiungonoformaggi di malga(Branzi, Casera) e burro «L

a miseria era tale che ogni serasi mangiava la polenta a cuc-chiaiate, tutti dalla stessa sco-della…». Il ricordo attraversasenza distinzioni geografichela memoria di tutti gli over ses-

santa cresciuti in montagna. Sembra passato unsecolo e invece è storia di ieri, quando l’unica con-solazione alimentare era appendere un’aringa af-fumicata sopra al tavolo e strusciarci contro le fet-te di polenta rapprese e abbrustolite per rubarnealmeno il profumo.

L’eterno rimestare col cucchiaio dilegno, sicuramente più vicino a unobbligo domestico che a un piaceregastronomico — con la lenta cotturadella polenta nel paiolo di rame, ap-peso nel camino o appoggiato sullapiastra della cucina economica — og-gi è un tesoro gastronomico da confi-dare solo agli amici più stretti, indiriz-zo a cui dedicare una giornata gour-mand. Non a caso, i ristoranti monta-ni che più hanno affinato e moderniz-zato le ricette d’antàn si sono benguardati dal sostituire attrezzi e ma-nualità connessi alla preparazioneoriginale.

Al contrario, la ricerca di farine il piùpossibile rustiche — da grani antichi,macinate a pietra, rigorosamentebiologiche — insieme alle cotturelunghissime, quasi esasperate — an-che due ore — sono fiori all’occhielloche ogni chef d’alta quota esibiscecon orgoglio. Allo stesso modo, fagioli e patate, or-zo e castagne continuano a dominare i menù, purrivisitati con leggerezza: il consumo calorico di-mezzato dei sedentari in gita ha fatto ridurre dra-sticamente la quantità di grassi permessi, con lar-do, burro e cotenne ormai dosati in grammaturemisuratissime.

Poi ci sono le carni. Lontana dai privilegi di filet-ti e bistecche, la cucina di montagna manda in pas-

serella volatili e selvaggina, tagli poveri — il cosid-detto quinto quarto — e frattaglie. Ancora una vol-ta, la nostra quotidianità alimentare si ritrova orfa-na: un po’ perché abbiamo smarrito la pratica culi-naria di quei piatti, un po’ perché mangiare ghian-dole e organi-filtro (fegato, animelle, rognoni) hasenso solo se gli animali che li hanno donati sonostati allevati in maniera super-sana.

Così, dal valdese Walter Eynard (Flipot, TorrePellice) a Norbert Niederkofler (St. Hubertus, AltaBadia), da Nico Romito (Il Reale di Rivisondoli,Abruzzo) a Michelina Fischetti (Oasis di Vallesac-carda, Irpinia), nei menù dei grandi chef d’altura ifornitori-allevatori sono amici, parenti, persone

con cui si condividono il rispetto perla terra, per i pascoli, per il bestiame.

Se le istanze di filiera corta e di ap-provvigionamenti a chilometri zerovi affascinano, regalatevi qualchegiorno nelle Langhe. Salite fino a SaleSan Giovanni: lì i benemeriti vignaio-li del progetto “Insieme”, guidati daElio Altare e Sergio Miravalle, hannolanciato il progetto “Adotta una muc-ca”, collegato alla riapertura di unavecchia azienda agricola semi-ab-bandonata, “Anastasia”: cinquantaettari di campi, prati e boschi. In cam-bio delle “adozioni”, oltre a carni eformaggi, i barolisti recuperano il le-tame che serve a dare forza alle lorovigne.

Poi scendete a Piozzo, dove TeoMusso, inventore delle strepitose bir-re artigianali Baladin ha inauguratouna locanda con cinque stanze e unpiccolo ristorante aperto alle culturedel mondo, che dal 12 giugno al 13 lu-

glio ospiterà una mostra fotografica di solidarietà afavore dei bambini del Tibetan Children Village,nel Ladakh. Per entrare in sintonia con le foto diCarlo Macinai, lo chef Maurizio Camilli ha ideatoun menù di ispirazione tibetana: potrete gustare ipiatti delle vette himalayane — churu (crema di fo-maggio con carne) accompagnato da balep korkun(panini in tegame), ravioli al vapore e burro di yak— senza i patimenti di quota quattromila.

LICIA GRANELLO

Gli appuntamentiSequenza di golosi week end

nell’estate di Verbania,sul Lago Maggiore

Si comincia mercoledì 25giugno, con Letteraltura,festival della letteraturadi montagna, tra viaggi,

avventura e sapori:fino a domenica 29, scrittori,

poeti, filosofi, fotografianimeranno dibattiti

e appuntamenti culinariE a luglio, via libera a escursioni e visite

agli artigiani del gusto

Ricette povere ma bellemontagnaCucinadi

TofejaLenta cottura per la zuppadella tradizione canavesanaSi utilizzano le parti poveredel maiale – zampettie cotenna – bollite per tre orenel coccio con fagioli, cipolla,sedano, carota, chiodidi garofano,odori

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 1GIUGNO 2008

«La montagna non divide: unisce. Perché viene voglia di attraversar-la per vedere cosa c’è dall’altra parte». Mi spiace non ricordare dachi, molti anni fa, udii questa frase insolita e illuminante. Dire che

le alture non sono un ostacolo ma un invito a mettersi in viaggio significacontrastare le descrizioni correnti della montagna come ambiente isolato,statico, immutabile. In realtà, compatibilmente con le situazioni meteoro-logiche e la praticabilità dei valichi, in montagna c’è sempre stato movi-mento: di uomini, animali, derrate; per commerci, transumanze o salite/di-scese dagli alpeggi, emigrazioni temporanee (anche all’estero). È, comesempre, nel confronto e nello scambio con «cosa c’è dall’altra parte» che an-che in Italia ha potuto delinearsi una “cultura montana” ben riconoscibile,peculiare e omogenea, seppure declinata in varianti numerose come le er-be dei prati.

La montagna unisce: anche gastronomicamente. Sono state le frequen-tazioni tra opposti versanti del Gran Paradiso a regalarci la seupetta co-gneintze, piatto in cui fontina valdostana e pane raffermo scortano il riso,coltivato in pianura e cotto con le modalità tipicamente lombardo-pie-montesi del risotto. Ma la montagna unisce anche luoghi molto distanti,quanto meno all’interno dei grandi comparti alpino e appenninico, dove èfacile constatare la presenza di piatti simili, benché mai identici. Mi limito adue esempi, riferiti l’uno alle frattaglie ovine, simbolo del Mezzogiorno tran-sumante, e l’altro a pappe(la polenta e il suo ascendente meridionale, il mac-co di legumi) diffuse ad alta quota a tutte le latitudini. In Lazio, Abruzzo, Pu-glia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, decine di nomi dialettali indica-

no in pratica la stessa preparazione: interiora di agnello con aromi, avvoltenelle budelline dell’animale e cotte alla griglia, in forno o in umido.

Diverso il caso della polenta, il piatto più noto e versatile della cucina mon-tanara: un’unica, semplicissima procedura ha dato origine a innumerevoliricette, imparentate tra loro dall’uno all’altro capo dello stivale. Perché dafarina di granturco, acqua e sale non può che venir fuori una polenta. La ge-nialità sta nel variarne la consistenza e, soprattutto, nel combinarla con al-tri ingredienti autoprodotti, quali latte, burro e formaggi (da cui la miriadedi polente conce o grasse che costellano l’arco alpino), fagioli (infasolà po-lesana, calzagatt emiliano, infarinata casentinese), patate (mata occitana),cavoli o rape (bisna friulana, farinata col cavolo nero toscana), un miscugliodi questi e altri vegetali (incatenata ligure, infarinata garfagnina), pesce“esotico” salato o affumicato (merluzzo, aringa), cacciagione, rane, luma-che, rigaglie, lardo, salsicce... Una varietà che esprime fantasia, sapienza ga-stronomica e razionalità dietetica, perché a mangiare polenta scondita ci siammala di pellagra, come purtroppo accadeva.

Va quindi corretto lo stereotipo di un regime alimentare uniformementedimesso, monotono e squilibrato. Quella montanara è sì una cucina di in-gredienti poveri, cotti a lungo in preparazioni poco elaborate tendenti più asedare la fame che a stuzzicare l’appetito; non è però né da rimuovere inblocco come retaggio di un passato infelice, né da confinare nel folclore, néda stravolgere con incaute rivisitazioni. È una cucina che può piacere ancheagli ipernutriti consumatori metropolitani del Duemila, e spingerli a salirelassù per vedere — e gustare — cosa bolle nel paiolo da quelle parti.

Uguale, anzi diverso: ecco il tesoro degli alpeggiCARLO PETRINI

Polenta conciaTome fresche e stagionate,burro e latte per trasformarela più diffusa ricetta poveradella montagna in piattogoloso. Due le macinature di farina gialla: grossa e fineIl giorno dopo, affettata,si mette al forno o in padella

CanederliLe bales da cioce ladineuniscono la tradizionedel maiale col pane raffermo I bocconcini, arricchitida dadini di speck, cipolladorata e prezzemolo,ammorbiditi con uova e latte,si cuociono in acqua o brodo

Minestra di farroIl “grano vestito” identificamolto zuppe del Centro Italiamontano. Dopo l’ammollonotturno, si cuoce in acquao in passato di fagioli. Servitoanche asciutto (farrotto)Si arricchisce con pancetta,peperoncino o pepe

TestaroliFarina, acqua e basiliconel piatto di Lunigiana, val Graveglia e val di Vara,tra Lucca e La SpeziaLa pastella viene cottasul testo (disco di terracotta)tagliata in rombi, poi bollitie conditi con olio o pesto

Repubblica Nazionale

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le tendenze Giacche dai tessuti tecno, bermuda ecologici,bagagli leggeri, beauty case trasparenti, scarpeda globetrotter: così gli italiani, che siano single,separati o in coppia, si preparano ai week ende alle grandi partenze della stagione.Trionfail look sportivo-casual, ecco cosa dice la moda...

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1GIUGNO 2008

Viaggia leggero, veste casual ma mai sciat-to, considera il bagaglio da imbarcare inaereo un’assurdità. Sportivo quanto ba-sta ed ecologicamente corretto. Ecco ilprototipo della nuova specie dominantedell’estate 2008: il traveller. Lontanissimo

dal suo predecessore, quello per intenderci che si facevapreparare la valigia da moglie o fidanzata, l’uomo dalle“molte qualità” è perfettamente autonomo. Allenato du-rante il lungo inverno da continui viaggi di lavoro, ormaiha imparato l’arte della valigia fai-da-te. Il suo bagaglio èpiù preciso di un dottorato in matematica: nulla è lascia-to al caso. A cominciare dalle misure. Tutte le compagnielow cost, infatti, hanno recentemente stabilito nuove re-gole sulle dimensioni delle valigie: la grandezza standardsi aggira sui 55 centimetri di lunghezza e 40 di larghezzaper 20 chilogrammi di peso. Per chi supera il carico sta-bilito, per ogni chilo eccedente, ci sono dai 5 ai 15 euro dapagare. Di conseguenza, meglio organizzarsi.

Soprattutto per l’uomo, più che per le signore spessoassalite da insaziabili peccati di vanità, trionfano i capidefiniti intelligenti. Le aziende di moda maschile, pen-sando a lui, propongono una perfetta fusione tra formu-le tecnologiche ed estrema pulizia delle linee. Il capo cultè l’utility jacket, considerata il vero passe-partout dell’e-state: antivento, impalpabile, resistente e senza peso.

Rappresenta la nuova interpretazione dei classici dapioggia. È sagomata, leggerissima, entra nella tasca del-la valigia o nello zaino. Sono i tecno-tessuti il vero puntodi forza del moderno viaggiatore: cotone trattato, resi-nato, tela di lino e nylon. Materiali pensati per una resaottima in ogni condizione climatica. E poi le fibre natu-rali come canapa e cachemire. Ma anche vinile e pvc peri dettagli.

Per la valigie in pelle, invece, è di rigore il trattamen-to “seconda mano” per evitare l’effetto nuovo di zecca.Tracolle e borse ideate per contenere i vari oggetti, cheil globetrotter ha acquistato in terre lontane, hanno unaspetto vissuto. E per chi non ama la pelle l’alternativaè la borsa che richiama suggestioni di matrice militare.Altro intramontabile simbolo del consumato viaggia-tore è la sahariana. Sono stati in molti, da Lawrenced’Arabia a Bruce Chatwin, a costruirci attorno il pro-prio stile. Sarà per la comodità delle tante tasche, ma lasahariana non sembra proprio volersi avviare sulla viadel tramonto. Anzi. Ritorna in nuove tinte come il gri-gio ghiaccio e il bianco sporco.

Deposti nell’armadio i gessati e i completi grigi l’uo-mo, almeno in vacanza, scopre il piacere di vestirsi a co-lori. Soprattutto se la destinazione è marina il bianco eblu rimangono un classico, altrimenti vanno per la mag-giore le tinte polverose del deserto, i bruciati, i kaki ravvi-vati (per i più coraggiosi) da pennellate di verde acido,rosso e giallo. Guardaroba “green”, dunque, per lui. Ijeans sono rigorosamente eco, in puro stile giapponese.Preferisce bermuda, maglie leggere beachwear esneakers traforate.

Per i più audaci è da segnalare la prima t-shirt ad effet-to rinfrescante. Si chiama Ice Skin e, attraverso specialimicrocapsule a base di mentol e myrtol, dovrebbe assi-curare principi tonificanti ed energizzanti.

Se anche in pieno agosto si prospetta una serata ele-gante, la scarpa sportiva va sostituita con mocassini leg-geri e ultramorbidi, in stile Capri anni Sessanta. Tra le no-vità più chic c’è anche la scarpa da barca proposta in ver-sione mocassino e scamosciata. Un occhio speciale, in-fine, va riservato agli accessori. L’orologio deve esseresincronizzato sul doppio orario, per non confondersicon il jet leg, il kit beauty è rigorosamente 50 ml, per pas-sare anche i controlli più rigorosi, e gli occhiali da solediventano un accessorio indispensabile per aggiunge-re fascino al fascino.

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 1GIUGNO 2008

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un cuscinettoda collo rosaper dormire

in aereo

COMODISSIMIVogliono stupire i mocassiniCar Shoe in tinta giallo uovoMorbidi e resistenti, hannoil vantaggio di occuparepoco spazio in valigia

CONFORTEVOLIPer chi nel tempo liberoama camminare, eccole scarpe Bally marroni

con cuciture a contrastoche riprendono la para candida

INNOVATIVESneakerinnovativecon una fascialateraleche è estensionedella suolaIl modelloDaytona-Momodesignè realizzatocon materialipreziosi

Il miglior consiglio che si possa dare ai viaggiatori sullaloro tenuta e sui bagagli è quello di non dare alcun con-siglio. L’homo sapiens sapiens è stato nomade per cen-

toventimila anni e solo da poco più di diecimila è diventa-to stanziale: qualcosa del nostro lontano passato deve es-sere arrivato fino a noi, trasportato dai cromosomi, se an-cora sentiamo il viaggiare come un’attività fondamentaledella nostra specie, simile al dormire o al mangiare. E unodei piaceri o delle qualità del viaggio è l’uscita dal tran tranquotidiano e familiare e la liberazione da qualsiasi costri-zione per chi ha degli obblighi di comportamento e di rap-presentanza, dovendo indossare abiti che hanno la stessafunzione della divisa e gli stessi intenti di riconoscibilità. Edunque questa precettistica impartita dai cosiddettiesperti è assolutamente detestabile: solo dei sadici incalli-ti possono pensare di imporre a chi è appena uscito dallagalera di un decalogo, immediatamente un altro decalogonon meno cogente del primo.

Bisogna ignorare il terrorismo di chi ti guarda con com-miserazione se non scendi all’Old Cataract di Assuan in-dossando una sahariana di seta grezza color paglia conmartingala e tasche a soffietto, comprata da “Voyage”, ilpiù pretenzioso e costoso negozio di Londra specializzatoin stracci pagati come abiti da sera, ricercatissimi dai viag-giatori eleganti. E se un giorno vi salta in mente di partireper Timbuctù o per Kashgar in un doppio petto blu gessa-to con sotto la maglietta dell’Inter, fatelo tranquillamente.L’importante è che vi sentiate a vostro agio. Non c’è nien-te di peggio che trovarsi estraneo e sconsolato in indu-menti che non ti appartengono.

Tuttavia, dicono in Sicilia, se le cose complicate ti sem-brano semplici vuol dire che non hai capito. Molti anni faMario Soldati, quando compariva alla televisione, si trave-stiva da Mario Soldati. Aveva intuito che quel suo modo pe-tulante di chiedere, il basco sbertucciato e l’ombrello sem-pre appeso al braccio, anche quando c’era il sole, avevanocontribuito alla riconoscibilità e dunque al successo. Lamaggioranza degli italiani è affetta dalla sindrome di Arlec-chino e non pensa di rafforzare la propria personalità con la

maschera, ma di immedesimarsi con un modello che vie-ne dall’esterno: Orson Welles diceva che erano tutti sulpalcoscenico. È incredibile la trasformazione che avvie-ne in persone che in patria hanno un comportamentosobrio e misurato, persino timido, appena varcato il con-

fine. Quello che avevi preso per un impiegato di concettodel catasto, era diventato un misto tra un pirata della Male-sia e un disk jockey, con una bandana che gli penzolava dal-la fronte, il commerciante di frutta e verdura assomiglia aBottego ed è pronto a compitare una frase in inglese impa-rata di recente: «Mister Livingstone, I presume?».

Numerosi tra questi modelli vengono non dalla vita rea-le ma dal cinema. Conoscevo un vero cacciatore bianco,che operava in Somalia e che tra gli altri copricapo preferi-va sempre un onesto casco coloniale di sughero. Sembra-va amatissimo tra i suoi indumenti e quasi un oggetto si-mile ad un feticcio, quando da un giorno all’altro lo sosti-tuì con un feltro molto “paraculo”, una striscia di pelle dileopardo che girava intorno al posto del nastro, visto in te-sta a Stewart Granger in Le miniere di re Salomone. Questiprototipi creati dai costumisti hollywoodiani che non sa-pevano nulla di storia e spesso anche del costume, erano ingran parte delle invenzioni con scarso riferimento allarealtà. Ma erano in pochi a saperlo e tutti gli altri sono an-dati in giro per le colonie pavoneggiandosi in vestiti falsi eche nessuno aveva mai indossato in precedenza.

Post scriptum. Contraddicendo quello che ho detto al-l’inizio vorrei dare due consigli che mi sembrano non so-lo necessari ma urgenti. Non spedire mai, dico mai, il ba-gaglio, se si viaggia nelle linee nazionali dirette a Roma. Itempi di attesa nella capitale superano normalmente iltempo impiegato per il viaggio. Se siete diretti in posti lon-tani e potenzialmente pericolosi, portate con voi, nasco-sta in una taschina interna dei calzoni, una moneta d’orodi un certo peso, possibilmente cinquanta dollari degliStati Uniti, ancora meglio il pezzo da cinquanta pesosmessicani. Capisco che questo consiglio può sembrare digenere salgariano. Ma in certe situazioni non c’è nulla dimeglio che l’improvvisa comparsa dell’oro per addolcirei comportamenti ostili.

E l’italiano all’estero

si mette in mascheraSTEFANO MALATESTA

Repubblica Nazionale

Page 20: Funeral - download.repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2008/01062008.pdf · vagone e mi dice: “Siediti qui e non ti muovere”». «Non sapevo cosa fare, pensavo che

50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1GIUGNO 2008

‘‘

‘‘l’incontroComici

ROMA

Ci sarebbeda dedicare un ca-pitolo a parte al percorso diguerra da attraversare pri-ma di guadagnare un ap-

puntamento con Corrado Guzzanti. Ibuoni diranno: è molto schivo, quando sispoglia dell’abito di scena è se stesso, nongli piace la ribalta continua. I cattivi: do-vrebbe farsi vedere da uno molto bravo.Buonisti militanti, noi sottoscriviamo “laprima che hai detto”. Ma questo è colore.

Corrado Guzzanti è uno di quegli arti-sti che per via del genere che praticano fi-niscono per attrarre attenzioni di stampapoco artistiche e molto dipendenti dal-l’attualità, dalla cronaca, dalla politica.Non bisognerebbe invece sottovalutareche non inflaziona mai le sue invenzionie trovate, che diverse sue creature di suc-cesso non le ha spremute come un limo-ne, non le ha sfruttate all’infinito, di alcu-ne si sono perse le tracce. E questo per uncomico è un banco di prova, perché noispettatori siamo un po’ pigri e ci piace ri-trovare e applaudire quello che cono-sciamo già. Soprattutto se è satira politi-ca e ci permette di riscaldarci i cuori can-tandocela e suonandocela da soli spe-cialmente quando le urne ci danno torto.

Sospendendo qui ogni giudizio di me-rito e valore, poi, prendiamo l’avventuradi Fascisti su Marte. Guzzanti, non perbrama di riciclaggio ma per pura fissa-zione artistica, l’ha portata avanti fino achiudere il ciclo con un film che — se l’a-vete visto tutto intero — ha poco del mor-di e fuggi dello sketch. Che è un’operaestrema e quasi underground. Di accat-tivante poco. Ora poi, facendo mente lo-cale, vi accorgerete che le sue apparizio-ni tv sono col contagocce: un interventoa Parla con medi Serena Dandini (marzo2008) nelle vesti del cinico cardinale donPizzarro. Da un paio di settimane guest-star nel nuovo ciclo di Boris, la serie Foxche fa la parodia dei tormentoni tipo In-cantesimo. È “il conte”, attore con maniemistiche, un vero squilibrato.

Non è — me lo dico a voce alta — che

possiamo pretendere un compendio sulsenso della satira ieri oggi e domani. Mainsomma neanche si può far finta cheGuzzanti non sia quello che per un de-cennio in tv (Avanzi, Tunnel, PippoChennedy Show, L’ottavo nano, Il casoScafroglia) ha preso in giro tutto il parter-re politico della Seconda Repubblica:Bertinotti e Rutelli, Bossi e Tremonti,Prodi. La domanda stroncherebbe unelefante e già mi pento un po’ mentre lafaccio. Sarà anche un luogo comune maponiamo che contenga un pezzo di ve-rità: nell’ultima sconfitta elettoralequanto ha pesato l’effetto-antipatia diuna sinistra percepita anche come castae salotto, quello dell’Auditorium o quel-lo dell’Ambra Jovinelli e dei programmidi RaiTre? E, in quanto partecipe o ex par-tecipe di quella tribù se ne sente corre-sponsabile? Non senza un filo di preoc-cupazione che si alzi e se ne vada, mi affi-do alla speranza che la prenda a ridere. Einvece attacca serio serio.

«Penso di sì. Io sono fuori dai giochi daun po’, defilato. Ma penso che quest’an-tipatia ci fosse anche prima e dubito cheabbia avuto un peso rilevante nelle ele-zioni. L’argomento “Invece che stare die-tro alla festa del cinema Veltroni avrebbefatto meglio a preoccuparsi delle buchesulle strade” lo conosco. Io non ho nullada ridire sulle cose che ha fatto, menomale che esistono e spero che adesso nonvengano mortificate. È proprio un luogocomune e del resto noi stessi lo abbiamopreso di mira scherzandoci su. Gli artistisono visti come privilegiati, certo, anchese è vero fino a un certo punto. Ma più chesoffermarmi sulla vanità eventualmentecontroproducente delle parate elettoralidel mondo della cultura, mi allarmo peril fatto che la sinistra perde il consenso dipezzi di società storicamente suoi. Pensoche Veltroni sia stato troppo ambiguoverso il governo Prodi, e ha pagato l’am-biguità. Comunque lo vedo anche io illuogo comune, in parte riflette una veritàe in parte è propagandisticamente ali-mentato. Io però c’entro poco».

L’itinerario di Guzzanti, a spanne, èper metà di pura invenzione — la galleriaoriginale che comprende Lorenzo, il san-tone Quelo, il regista Rokko Smitherson— e per l’altra metà è parodia e imitazio-ne su materiale politico e non solo (Fu-nari, Emilio Fede, Venditti). Soprattuttoriguardo al materiale politico viene unpo’ da compatirlo. Da immaginarlo inperenne ansia verso una materia sfug-gente e deperibile, a scadenza rapida,che si esaurisce, consuma, logora in fret-ta, bisognosa di costante rinnovo e ag-giornamento. Sarà un luogo comune pu-re questo ma si rimpiange il passato cheoffriva materia più resistente e solida, ol-tre che contrapposizioni più ferme e ri-conoscibili. Del resto a lui, che ha inizia-to durante la stagione di svolta tra gli an-ni Ottanta e Novanta e ha visto coincide-re la propria strada con Mani pulite, il tra-monto delle antiche ideologie della Pri-ma Repubblica, la nascita della Secondae dell’avventura berlusconiana, questo è

tica. Sospinto da grande interesse e fidu-cia verso il cambiamento. Poi siamo en-trati nell’era berlusconiana».

Sorge, di lato, il piccolo grande dubbioche a Guzzanti non piaccia tanto essereetichettato come imitatore e artefice diparodie. Deve probabilmente lottarecon questa identificazione, avvertirla ri-duttiva. «Un po’ sì. Anche se non ho unavisione epica del mio lavoro. Faccio il co-mico. Sono riuscito a farlo in modo per-sonale, da autore. Io volevo scrivere.L’autore per mestiere e l’attore per tera-pia. Credevo fosse un modo per supera-re alcuni miei dati caratteriali. Non ci so-no riuscito. Ma non ho mai creduto che lasatira potesse avere un valore salvifico.Fa parte del costume e della generale os-servazione critica sul mondo. Non solosulla politica ma anche sul costume, lasocietà, la cultura, i film, la tv. Infatti noipartimmo con programmi che facevanoun po’ di tutto. Scalfaro e Cossiga ma an-che la Parietti. Mai vista come una mis-sione. Cerco di dire sempre quello chepenso, di argomentare, di fare in modoche il pedigree di un pezzo comico siainattaccabile, che sia informato, che nondica cose a vanvera. Questo distingue unpo’ dall’imitazione pura e semplice. Ionon sono neanche così talentuoso, ce nesono di più bravi, perfezionisti nel rifarevoci e gesti. Io reinvento e tradisco sem-pre il personaggio originale, cercando dibeccare e inchiodare alcuni tratti e lavo-rando su quelli. Non cerco mai la copiaperfetta. Ritratti e non fotografie, unaversione reinterpretata. L’esempio è ilmio Rutelli, che parla come Alberto Sor-di». La tecnica di avvicinamento è questa.Identificare un tic e caricare su quello.«Catturare i tratti del personaggio, mimi-ca e voce, ma soprattutto riprodurre ilmodo di pensare. Così ho fatto con Fu-nari e Fede: li ho scippati e ho dato lorouna vita indipendente».

Dato l’interlocutore, cerchiamo di re-cuperare un po’ di provocazione, un to-no più cattivista. Fare satira politica at-traverso la televisione pubblica. Si dice:Guzzanti e gli altri sono ospiti scomodi. Ese invece la lettura giusta fosse: bellascorciatoia, troppo comodo, andateveloa cercare in giro per i teatri e a pagamen-to il vostro pubblico. Reagisce. «Intantotutti noi facciamo moltissimo teatro. Latelevisione pubblica è proprio scomodainvece, non ti viene attribuita libertà dipensiero ma vieni immediatamente in-casellato. Ecco, tra l’altro, perché io in tvnon ci sto più tanto. La televisione hasoffocato la satira, non ne resta molto.Luttazzi sembra un alieno. È un tipo di in-trattenimento nel quale, in America, vie-ne fatto Bush a pezzi e nessuno fa una pie-ga. Ma la sua mortificazione da noi nonviene da una sola parte politica. Anche dasinistra: tutti i dibattiti sul fatto che la sa-tira sarebbe controproducente, “faccia-mo vincere l’avversario”. La satira deveessere indipendente o non è».

Altro spunto antipatico. Si rischia l’e-quivoco di trattare Guzzanti o chi per luicome un maître a penser invece che per

toccato. «Il rapporto tra satira e politica è cam-

biato. Quando ho cominciato, la politicaper lo meno a chiacchiere occupava unaposizione più alta. La parodia adessofunziona meno. Non c’è tra i due mondiil distacco che fa funzionare il meccani-smo del paradosso. C’è un mondo tra po-litica, cultura e televisione che è tuttoamalgamato. In Parlamento c’è di tutto.Sono mondi comunicanti. Ogni spuntosatirico, anche il più crudele, viene im-mediatamente assorbito dal sistema.Non c’è nulla di eversivo, rara è l’effica-cia. I fatti e le personalità politiche sonocosì eclatanti che rincorrerli con la paro-dia è meno forte di quello che fanno giàloro. Borghezio è tale, direttamente, checome fai a farne un valido atto di creazio-ne critica. La classe politica è di qualitàmolto più bassa rispetto a quando maga-ri erano grandissimi figli di mignotta maanche finissimi intellettuali, figure istitu-zionali di alto profilo. Il cambiamento siriflette sulla satira. Io ho cominciato conun gruppo che faceva una buona satira dicostume e, quando ci è scoppiata Tan-gentopoli tra le mani, è stata mia la re-sponsabilità di virare verso la satira poli-

ciò che è. Un comico, un artista. La parteantipatica è: non si rischia la sopravvalu-tazione? Quella simpatizzante è: il condi-zionamento pone sempre il soggetto nel-la necessità di salvaguardare la propriaindipendenza artistica. «Io cerco di sal-vaguardarmi evitando ogni presenziali-smo, magari sbagliando; quando non stofacendo spettacoli sparisco, non vadonei talk show. Fin da ragazzo ho detesta-to la televisione e la regola che mi sonosempre dato è quella di fare solo quelloche mi piace o vorrei vedere come spet-tatore. Sarà banale ma è vero. Purtropposulla satira si fanno troppe chiacchieregeneriche, si ragiona sempre in terminidi sistema e si rileva troppo poco che cisono delle persone e degli artisti che so-no esclusivamente se stessi. Luttazzi,mia sorella Sabina, Grillo sono ognuno sestesso e basta. Ciò che passa è il contrario,l’ammucchiata, il finto teatro off fatto intelevisione. Le suggestioni dalle quali ab-biamo cominciato noi, dal Saturday Ni-ght Live ai Monty Python, sono andateperse. Modelli di intrattenimento creati-vi, molto lavorati e scritti».

Va bene, però quello che da un bel po’si è verificato, non solo con la satira maanche in altre forme e attraverso altrepersonalità di spettacolo, da Grillo a Mo-retti, è stato un processo di sostituzione edi delega: gli artisti surrogano la politica.Ed è un po’ malsano. «Lo è. Ma l’anorma-le sta dalla parte della politica. In Italianon c’è una parte terza, di opinione pub-blica forte. Le cose che dice Grillo sononormali e legittime. In un contesto finta-mente maggioritario. Qualunque inter-vento che non fosse partitico è stato vistocome qualunquista e antipolitico oppu-re fazioso, “al soldo di”, “fa il gioco di”. In-vece è semplice e naturale. Una personafa momentaneamente politica, fa unabattaglia. I girotondi, Grillo. Puoi criticar-li ma non respingerli come illegittimi.L’anormalità è nel vuoto di rappresen-tanza e rappresentatività della politica».

Ma in tutto questo che fine avrà fattoLorenzo, com’è, come sarebbe oggi?«Mah, sarà diventato assessore alla cul-tura da qualche parte. Non lo so, ormail’ho accantonato per ragioni di età».

Che fine ha fattoil mio Lorenzo?Mah, sarà diventatoassessorealla culturada qualche parteIo oramaiho perso i contatti,l’ho accantonatoper ragioni d’età

Per un decennio dagli schermidella televisione ha preso in girol’intera fauna di potere della SecondaRepubblica “ma oggi - dice - la satirafunziona meno: i politici sono così

eclatanti che rincorrerlicon la parodia è menoforte di quello che giàfanno loro”.Di quila tentazione di artisticome Grillo o Morettidi farla da protagonistiin un’arena in cui tutto

si confonde. “Un po’ malsano - obiettalui - ma l’anormalità va cercatanel vuoto lasciato dalla politica”

Corrado GuzzantiF

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PAOLO D’AGOSTINI

Repubblica Nazionale