FRIGO TALES - Storie di un Espatrio
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AUTORIPPESI
FRIGOTALES
0 9
STORIe DI UN ESPATRIO
PREFAZIONE DI VINCENZO SPARAGNA
Autori Appesi
Frigo TalesStoria di un espatrio
ILLUSTRAZIONI DI
Gianni Cusumano
2010 Autoproduzioni Appese
Frigo Tales
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Frigo TalesUna introduzione di Vincenzo Sparagna
Questi Frigo Tales si fanno leggere d’un fiato. Perché sono
divertenti e rapidi come un’automobile lanciata in autostrada, ma
nientaffatto frenetici, anzi stranamente riflessivi, coscienti, lucidi. I
Frigo Tales sono un viaggio raccontato in diretta da viaggiatori che non
si prendono troppo sul serio, ma al viaggio ci credono. Lo ritengono
assurdamente, ma anche razionalmente indispensabile, un’occasione che
forse non porta a niente, ma forse porta a qualcosa e perciò vale la pena
di cogliere. Ci senti dentro la strada che fugge, le soste negli autogrill,
il sapore delle birre e dei panini. E poi, come accadeva nei classici
Canterbury Tales medioevali questi moderni viaggiatori, un po’ sballati
e pieni d’energia, hanno una meta, un luogo da raggiungere. D’altra
parte, curiosamente, il luogo non è una cattedrale, ma una persona,
in questo caso io stesso, immaginato come un guru mitico, un eremita
metropolitano, un vecchio Tiresia che ancora ci vede, fantastico, ma in
carne e ossa. Fissi alla meta, anche le soste, le disavventure, i ritardi,
le persone e le situazioni si raccolgono pur nel loro disordine casuale
secondo un senso, una direzione, un fine.
Questo carattere realistico del viaggio, questo suo essere necessario,
anche se gratuito e arbitrario, condiziona felicemente anche la scrittura,
che anche quando svaga non è mai sospesa nel vuoto, ha una sua
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Autori Appesi
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necessità, un ancoraggio fermo, come fosse incollata sulla strada.
E così anche i personaggi diventano visioni concrete: dal mitico, ma
iperrealistico, napoletano che ride, al mio amico Pasquale, mostro di
forza, energia e chiacchiera, il viceguru, che ha girato ogni parte del
mondo dall’Europa agli States e ne ha viste di ogni colore, forma e
dimensione.
In questo racconto c’è insomma una tensione che giustifica e motiva
la narrazione, la rende un diario senza compiacimenti, una testimonianza
preziosa di stati d’animo frementi, succosi. Per questo, a differenza di
certi testi un po’ troppo appesi (per aria) non sfiora nemmeno l’esibizione
letteraria, ma appare come una vera cronaca, simile davvero per questo
suo carattere pratico e utile, a quelle dei viaggiatori medioevali, unici
testimoni nel loro tempo dei paesi lontani e meravigliosi che avevano
visitato.
Questo gusto un po’ da beat generation, un po’ da Brancaleoni
a cavallo di una macchina, mi sembra il merito maggiore dei Frigo
Tales. Un risultato eccellente proprio perché ottenuto con una semplice
operazione di sincerità narrativa. Qui non ci si presenta per dire
chissà che, ma solo per testimoniare un sogno, lo spostamento verso
un altrove che è una persona immaginata, che però alla fine è proprio
un tipo strambo, dai capelli bianchi e l’animo largo e accogliente come
nel sogno che si era fatto. Una persona che si confonde con la sua
repubblica immaginaria, che, come dice il mio amico Oreste Scalzone, è
una repubblica monoanarchica, un re senza corona, poiché non insegue
la regalità del potere, ma, come i narratori di questo viaggio, la potenza
travolgente della semplicità.
Vincenzo Sparagna
Frigo Tales
Era stato un brutto viaggio...
selvaggio e veloce in certi momenti,
lento e sporco in altri,
ma alla fin fine, un disastro.
(Hunter S. Thompson)
La cosa più pericolosa da fare
è rimanere immobili.
(William Burroughs)
Autori Appesi Frigo Tales
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Spiragli di Democrazia(P. A.)
Qualcuno era ancora intento a preparare la borsa e qualcun’altro la
vita
ma tutti sapevamo che nessun inferno sarebbe rimasto vergine
e le nostre madri avevano già sognato per noi un altro futuro.
Baluardi di ricordi archiviati, pessime concezioni di fottuti legislatori
o ricerca spasmodica di una vecchia chimera: la democrazia!
Senza nomi e senza pretese ma con una sola necessità: comunicare.
Ci diamo dentro sull’asfalto, nessuno di noi ha la certezza dell’arrivo
e le birre stappate sono una semplice ninna nanna, dormi un poco dai.
Quattro animali feriti per le vie di una città dal sorriso bizantino
e la voce fioca di un impero sepolto dalle vecchie pietre.
Le scalinate della cattedrale sotto il sole cocente come a Melito P. S.
focacce al formaggio che mi fanno vomitare, vorremmo dormire tutti
ma dobbiamo cantare le nostre bugie, tanto Dio è ubriaco e se ne fotte.
Certi titoloni sui giornali li ho letti davvero ma ero un ragazzino ateo
bevevo e fumavo, portavo i capelli lunghi e mi nutrivo di minchiate.
Poi ho incontrato Dio e non posso dire che l’evento mi ha lasciato
indifferente
il fatto è che avevo un casino di cose da fare e coltivavo anche gelsomini.
Ma tu che sei un impiegato di questa democrazia, taci un poco dai.
È tempo di elezioni, tempo di numeri e di verità, tempo di prese per il
culo.
E anche tu compagno sovversivo, cerca di svincolarti dalle retoriche,
dalle grandi puttanate, da un sogno che non hai mai sognato.
Fottiti !
Giù con le nostre bugie, vino bianco se ricordo bene e poi un passo
un grande passo indietro di trent’anni, io tredicenne e un po’ anche voi
fratelli miei bastardi.
Si riparte, ma stavolta con spiragli di democrazia.
Autori Appesi Frigo Tales
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Calante Vs Perugia
(G. C.)
Scontro impari, vittoria schiacciante 5 a 0 a favore di Perugia. In-
somma, una vittoria a tavolino. Precisamente quello che Frigidaire ci
aveva riservato come spazio per il nostro materiale, di cui solo 1/5 era
occupato dai nostri libri ed opuscoli. L’area restante era ricoperta da
bottiglie di vino e, a tratti, anche da democrazia spicciola. E carta-filtro.
Serve sempre quello pacato del gruppo perché per quanto possa essere il
più rompicoglioni di certo è l’unico in grado di fare un minimo ragiona-
mento in certi casi. Quei casi in cui è così necessario farli perché si è trop-
po ubriachi, tanto da considerare esperienze avvincenti l’assideramento
in un bosco o il gettarsi sotto la rotaia di un tram elettrico di cui si ti
teme che il conducente sia Gesù.
Quel pomeriggio passai a prendere in un punto non ben definito di
Reggio Calabria Carnera, la persona che devi temere di più al mondo se
si trova sulla macchina, -la tua-, quella piena di birre nel retro. Capii che
la faccenda avrebbe potuto complicarsi in un attimo se non avessi preso
in mano la situazione. Acquistai, consapevole e previdente, 4 pacchetti
di cartine, 2 scatole di filtrini ed infine 2 pacchi di tabacco Pueblo. Uno
per me e uno per Carnera, così in caso l’avesse smarrito (cosa tra l’altro
verificatasi), gliel’avrei potuto rinfacciare con fare da fratello maggiore,
cosa che mi diverte parecchio visto che adoro infamarlo. Era chiaro che
il passo successivo sarebbe stato quello di andare a salutare le nostre
rispettive ragazze prima di partire. Optammo per incontrarci presso un
bar, il Royal, il posto peggiore se hai deciso di essere felice ed in pace
con te stesso, perché lì qualcuno non lo sarà mai con te. Patatine e drink
di terza scelta come pasto serale ci sembrò un’ottima idea. Quando ci
congedammo dalle ragazze, le svariate affermazioni dislessiche del tipo:
“Amore non siamo proprio ubriachi ubriachi ubriachi... si forse un po’
brilli, ma non ubriachi!” oppure: “Ti prometto che farò attenzione alla
guida”, non le convinsero per nulla. Ricordo di esser partito sgomman-
do con i One Dimensional Man a palla e la rassegnazione sul volto delle
nostre rispettive consorti.
Andammo a prendere il compagno democristiano. Lo sguardo im-
paurito di una coppietta che passava di lì fece rinsavire Amoddio che in
teoria doveva essere il più responsabile del gruppo. In teoria.
Così salirono in macchina. Ripensai a quella scena. Fu più racca-
pricciante di Berlusconi quando parla di legalità e amore, cosa che suc-
cede 20 volte al giorno.
Il quadro: Carnera super-intostato ululava alla luna; Amoddio
bestemmiava senza vergogna e apparentemente senza un motivo; io gri-
davo cose irripetibili alla gente per strada. Un trittico di merde pronte a
conquistare la collina. Arrivammo allo svincolo che porta a casa del pro-
fessor Needermayer. Eravamo in ritardo di almeno un’ora e mezza. Caso
volle che ad attenderci ci fossero 2 posti di blocco contemporaneamente.
Ne presi visione una ventina di metri prima delle pattuglie. Voltai molto
lentamente lo sguardo verso Carnera che sedeva alla mia destra, così
tanto per capirne lo stato. Quando lo vidi aprire il porta filtri di latta
coi denti e dalla parte sbagliata, capii che eravamo fottuti. Dieci secondi
Autori Appesi Frigo Tales
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Scampati alla Legge:sulla scia del Vecchio Testamento
(J. C.)
L’ago puntava a Nord. Needermayer guidava, io farneticavo,
Amoddio e Calante, seduti dietro, ci passavano da bere. L’avevamo
scampata. Stabilimmo, senza doverne mai parlare apertamente, che 8
litri di birra e 3 di vino sarebbero bastati per affrontare i primi 200
chilometri di viaggio. Superati quelli ci saremmo fermati a fare il pieno,
Dio solo sapeva dove. La cosa, in realtà, non mi preoccupava gran-
ché. Oltre a uno zaino con pochi stracci mi ero preparato a dovere al
viaggio, e molto prima di mettere piede su quella macchina. Quello che
mi preoccupava sul serio, pochi minuti dopo la mezzanotte di quello
strano venerdì sera delirante e speranzoso, era Amoddio. La contrazi-
one muscolare simile a un sorriso vagamente eccitato che gli disegnava
i lati della bocca era una chiara presa di posizione. Di tanto in tanto
mi voltavo indietro a guardarlo, Amoddio, il nostro carpentiere della
parola bellica. E lui mi restituiva quel suo sorriso sbilenco che solo, chi
come noi in quella macchina densa di brutalità aveva conosciuto prima,
poteva tradurre in un modo e uno soltanto: guerra.
Segnavamo una linea di confine nell’asfalto freddo di una notte ap-
pena cominciata, che bruciavamo ogni secondo a più di 100 chilometri
orari sul manto catramoso di un’autostrada che col Sole aveva ben poco
a che spartire. Delimitavamo in modo netto e irreversibile quello che
dopo il tipo con la fiamma in testa alzò la paletta, segnando inesorabil-
mente la fine di un viaggio mai iniziato e il sequestro del mezzo, il mio
unico, povero, sporco mezzo di locomozione. L’agente alla richiesta di
patente e libretto fu rapido a capire a pieno la situazione, anche perché
gli diedi la carta di identità. Mi puntò un faro sulla faccia, poi verso gli
altri due, e con voce tonante mi chiese:
«Signor Calante lei dove andava alle superiori?».
Risposi abbastanza preoccupato:
«Al liceo Volta, agente».
Mi disse di guardarlo in faccia. Incredibile! Lo sbirro era un mio ex com-
pagno di classe. Anni e anni di duro lavoro nel cercare un po’ di fortuna
e, per Dio!, eccola. Tre ubriachi strafatti e rilasciati tranquillamente per
un viaggio di 10 ore sull’autostrada con una cassa di birra nel retro e
tanta voglia di acquistare vino negli Autogrill.
Non succederà mai più.
Il calcolo delle probabilità è inesorabile.
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eravamo da quello che saremmo stati da lì a poco. Non stavamo oltre-
passando il confine. Non noi. Perché non c’era alcun confine da superare
e, se c’era, era lui a venirci incontro e nessuno l’aveva invitato. Non in
quella macchina almeno. Cercavamo solo di tenerci lontani abbastanza
da certe frenesie voyeuristiche di Reggio Calabria. Da certe propensioni
“radical chic che, a nostro modo di vedere, avrebbero più che legittima-
to l’estinzione di buona parte del genere umano sulla faccia della Terra.
Ma con quello che stavamo per fare, con quel viaggio diretti 900 chilo-
metri più su, più in alto, nel cuore più anarchico dell’Umbria nascosta, a
incontrare un pezzo di storia ancora in vita, stavamo per compiere una
strage attitudinale. E in fondo al cuore, forse, ne eravamo consapevoli.
FRIGIDAIRE. FRIGIDAIRE. FRIGIDAIRE. La più rude, blasfe-
ma, esplosiva violenza della parola scritta e vissuta senza censure e senza
correzioni. Andavamo dritti a combattere la nostra personale battaglia
al mondo mentre altri se ne stavano sicuri, al riparo nei loro pub alla
moda, a bere birra e ballare stupida musica aspettando di potersi abbev-
erare allo stesso tavolo dei soldati al loro ritorno. Del resto, ogni popolo
ha i suoi martiri e i suoi codardi di corte. Noi, che con la storia con la S
maiuscola centravamo ben poco.
Nessuno, chiuso in quella scatola di latta sparata sulla strada, ha
mai conosciuto il fascismo “di marca”. Non Needermayer, con i suoi
due metri di stazza e una barba così folta da non lasciare spazio al dub-
bio. Nessuno di noi ha mai sparato un colpo alla fine dei ‘70. Nep-
pure Amoddio, col suo cuore quarantenne maledettamente più rosso e
consapevole degli altri. Nessuno di noi ha mai lanciato 100 lire contro
l’auto blu di Craxi fuori da quell’albergo nel centro di Roma. Nemmeno
Calante e il suo scalpo rasato per errore. Nessuno di noi ha mai subìto
prima alcuna violenza indiscriminata da parte di una gallina. Non io, col
mio impermeabile blu sporco di cenere. Ci restava solo la consapevolez-
za che, superato quel limite, una volta fuori da quelle oscure mura medi-
evali affacciate sulla pozzanghera umida dello Stretto, il mondo sarebbe
stato ad attenderci voglioso, ebbro di peccato. Come una Maddalena
in calore della quale nessuna Bibbia avrebbe mai parlato. Non come si
dovrebbe. Né ora, né mai. Eccoli, i nuovi farisei suburbani. E quello che
stringevano tra i pugni era molto più pesante e duro di qualsiasi pietra.
...ubriachi, strafatti e rilasciati tranquillamente per un viaggio di 10 ore sull’autostrada con una cassa di birra nel retro e tanta voglia di acquistare vino negli autogrill. Non succedera’ mai piu’.
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e Calante si fecero avanti a testa bassa, come ciechi che conoscevano a
memoria la strada da fare. Come se non avesse bisogno di occhi Amod-
dio ci superò, mettendosi tra me e Needermayer, chiedendoci cosa aves-
simo ordinato. Aveva ancora quel terribile sorriso che gli tagliava la
bocca da parte a parte, mentre dell’acqua non potabile gli gocciolava giù
dalle tempie pallide, inzuppandogli il giubbotto di piume d’oca da quat-
tro soldi. Quando la porta tornò a chiudersi, rendendoci tutti maschere
tragiche dentro quella specie di teatro dell’assurdo dal menù fisso, il
diaframma di Needermayer disse:
«Caffè e Democrazia».
Il barista sembrava essere nel pieno di una violenta crisi di coscien-
za. Un birillo colpito da una palla da 5 chili che barcolla e viene giù. In
quel suo mondo diabetico al gusto di glucosio, fatto di piccole certezze
e poche, semplici regole da rispettare non più di 8 ore al giorno; tra un
caffè corretto e un cappuccino alla crema venuto male, una pizzetta di
gomma e un panino vegetariano appena scaldato, tutto poteva servire
tranne quello che ora, quattro figure scure e insidiose gli chiedevano da
non più di 5, lenti, lentissimi minuti: Democrazia.
Amoddio si avvicinò al bancone mentre con una mano si asciugava
le tempie bagnate. Adesso stava guardando la vetrinetta tiepida dei cor-
netti. Dagli aloni di vapore che si stendevano sul plexiglass si riusciva a
malapena a distinguere quello che c’era dentro. Poi rantolò qualcosa,
come: «Quelli sono cornetti?». Il barista annuì, sforzandosi di essere
l’ultimo a distogliere lo sguardo dagli occhi. «Va bene. Allora dammi
uno di quelli… alla democrazia!»
Furono parole violente e inaspettate. La prova concreta di un delirio di
massa che aveva distrutto gli argini e che ora minacciava di invadere
In cerca della democrazia(J. C.)
Cercammo la democrazia alle 2 del mattino dentro un umido Au-
togrill sperduto chissà dove, superato il confine con la Basilicata. Scen-
demmo dalla macchina inciampando su un tappeto di bottiglie morte
sparse qua e là sotto i sedili. L’olocausto del vuoto a rendere. Calante e
Amoddio si precipitarono fuori in cerca del cesso e poi avrebbero fatto
il pieno. Io e il professor Needermayer, invece, andammo dritti al sodo.
Con le luci anemiche dei neon appiccicate addosso, come fantasmi
ubriachi nel cuore di una notte indecente e senza senso, inalando ben-
zina e tabacco a pieni polmoni aprimmo la porta del bar e fummo im-
mediatamente travolti da una folata d’aria tiepida e dolciastra, tipica di
posti come quello. Respirammo a fondo un attimo di delicatezza. Un
istante gentile e accomodante. Poi la porta vibrò chiudendosi lentamente
alle nostre spalle e tornammo a essere degli estranei dalla meta miste-
riosa che strisciavano pesanti verso il bancone.
Ordinammo al barista “caffè e democrazia”. Nient’altro. Laconici
e decisi. Con gli occhi abbastanza lucidi e le facce sufficientemente rosse
da non lasciare nessun dubbio sul fatto che stessimo affrontando un
viaggio tendenzialmente mortale, non tenendo assolutamente conto
delle nuove disposizioni del codice stradale in fatto di guida in stato
d’ebbrezza. La porta dietro di noi tornò a vibrare, questa volta emet-
tendo una specie di squillo elettronico. Un Di-diiiing! atonale. Amoddio
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quel poco che restava ancora intatto dell’ordine sociale precostituito. Il
rombo minaccioso della tempesta quando il sole è ancora alto nel cielo.
Glielo ripetemmo, di nuovo, stavolta con calma risoluta:
«Quattro caffè, un cornetto e un po’ di democrazia, per favore».
Calante, con altrettanta gentilezza, aggiunse:
«E un paio di bicchieri d’acqua, grazie».
Il povero Cristo dall’altra parte del bancone si rifugiò nell’unico
posto dove sapeva sarebbe potuto sopravvivere: l’indifferenza. “Ignora
questo terribile incubo”, sembrava ripetere in cuor suo. Sul cartellino
che aveva attaccato al petto c’era scritto qualcosa, qualcosa che esibiva
con la stessa fierezza di certi cani da riporto che ciondolano felici la med-
aglietta del loro bel collare di cuoio. Di sicuro c’era il nome che gli aveva
dato la corporazione alimentare dopo l’assunzione. Si, probabilmente
quello, sotto la scritta “Autogrill”. Si fosse perso avrebbero saputo a
chi restituirlo. Sarà stato, che so, AutoMario? AutoFabio? AutoCarlo?
AutoUgo? Chi poteva dirlo? L’unica cosa certa in tutta quella faccenda
nervosa e incerta era la sua completa incapacità sul da farsi in un caso
come quello. Quando un branco di loschi bastardi calabresi fossero
entrati nel bel mezzo di una notte qualsiasi chiedendoti esplicitamente
“caffè, cornetti e democrazia”. Affrontare una rapina, forse, sarebbe
stato più facile. O almeno, più comprensibile. Ma quando c’è di mezzo
la democrazia, beh, non è proprio la stessa cosa.
Frustate di sguardi isterici tra noi e il barista richiedevano un in-
tervento immediato. Perché ci sono dei momenti nella vita, quando si
fanno certe domande, in cui è sempre meglio chiarire subito la tua po-
sizione, scegliendo con cura dal vocabolario le parole più appropriate da
dire prima che la situazione precipiti, lasciandoti alle corde.
«NON PREOCCUPARTI», gridai, «SIAMO SOLTANTO UBRIACHI.
NON C’E’ STATO VERSO DI TROVARE DELL’ERBA PASSABILE
A BUON PREZZO. ALTRIMENTI... CAPISCI, NO?». Cominciai
a lacrimare, soffocando la parola “cazzo” tra le risate. Risate amare.
Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo! Dove cazzo era la democrazia? Dove? Mi
contorcevo come un verme in cerca d’aria, piegato, abbattuto, vinto dal
silenzio e dall’indifferenza di quel maledetto Autogrill divora uomini.
Quando mi ripresi 4 tazzine fumanti attendevano immobili sul ban-
cone. A quanto sembrava, il barista aveva affrontato la cosa da bar-
ista. Ma niente democrazia. Bevemmo i caffè, poi rubai una barretta di
“cioccolato-al-latte-senza-nocciole”. Il barista si accorse di tutto e prese
a correre come un matto dall’altra parte del bancone per raggiungermi.
Allora buttai a terra la mia barretta di “cioccolato-al-latte-senza-noc-
ciole” e con un piede cominciai a calpestarla nel tentativo completa-
mente insano di nasconderla sotto un cestino dei rifiuti. Ma non feci in
tempo, perché il surrogato servilista a ore mi aveva raggiunto mentre
continuavo senza ritegno a prendere a calci quella maledetta tavoletta di
“cioccolato-al-latte-senza-nocciole” che non voleva saperne di infilarsi
sotto quel cazzo di cestino. Vidi un fascio di nervi agitato chinarsi dab-
basso. Poi un grembiule e un cappellino amaranto perfettamente into-
nati. Ci mancò poco che gli maciullassi la mano sotto gli anfibi. Calante
e gli altri presero le distanze. Troppo poco spazio per gestire in quattro
quella storia. Il barista si rialzò e mi porse la barretta con fare gentile.
Non aveva occhi. Era come fossero stati risucchiati dietro le orbite. Non
c’era più molto della dignità di un uomo in lui. Né c’era molto della
barretta di “cioccolato-al-latte-senza-nocciole” che volevo rubare. Ecco
Autori Appesi Frigo Tales
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il risultato di una vita privata della democrazia in tutta la sua materiale
violenza, o Signore! Mi ripresi la barretta, sorridendo. L’orgoglio dis-
trutto del barista disse:
«Questa però dovete pagarla…».
Le labbra gli tremavano. Non so se pagai io la barretta e i caffè o se fu
qualcun altro a farlo. A quel punto aveva poca importanza.
Quando la porta fece ancora Di-diiiing! e noi eravamo ormai in
macchina, sputati di nuovo come globuli rossi impazziti nelle arterie
buie di una penisola corrotta fino al midollo, della democrazia ancora
nessuna traccia.
Turbo Skunk e premorte sulla Salerno – Reggio Calabria
(J. C.)
Poche ore dopo ero la preda agonizzante di una piovra allucinata.
Senza speranza, prigionieri di una frastornante babele a benzina fatta
di accordi distorti e discorsi più o meno interessanti, eravamo sul palco
con un bel po’ di gente grossa quella sera. Aprimmo assieme ai Nirvana
e tornammo a sentirci sporchi di fango, proprio come un tempo. Poi
attaccarono i Mad Season e furono brividi gelidi a percorrerci le vene.
Quando Elio e le Storie Tese uscirono di scena devo essere svenuto, sen-
za più voce e, soprattutto, con un forte mal di stomaco.
Avevo mischiato di tutto: 2 arancini, 1 cornetto, 1 cappuccino,
molti caffè e una considerevole quantità di birre e alcolici della cui
provenienza stento a ricordare. E adesso stavano tuffandosi, a turno,
dal trampolino che oscillava minaccioso sulla bocca del mio esofago. Un
motivo in più per non rispondere al telefono. Si dice che parlare troppo
al cellulare faccia venire il cancro al cervello. Io sono del parere che non
importa se muori: basta aver vissuto senza la spiacevole sensazione di
essersi presi per il culo.
Completamente inghiottiti dall’atmosfera sulfurea di un ecosistema
ambulante che avevamo contribuito a creare, eravamo spettri deformi
e inconsistenti soffocati da una nebbia densa come sangue sporco. Ci
rivelavamo al mondo falciati dai lampi bluastri dei lampioni che ci si
schiantavano addosso dalla strada, senza pietà, uno dopo l’altro. In
Autori Appesi Frigo Tales
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quella coltre di prepotenza malcelata distinguevo chiaramente la barba
di Needermayer guidare. Quando si muoveva su e giù nella nebbia,
squarciandola come una lama organica fatta di peli, capivo che l’uomo
a cui stava avidamente aggrappata mi stava parlando. Parole che tocca-
vano i 130 chilometri all’ora in meno di 5 secondi. E dentro quel vortice
incontrollabile di nevrastenìa senza senso, l’unica speranza che avevo
di salvarmi veramente era nuotare più veloce che potessi verso l’occhio
dell’uragano.
Quando finalmente lo raggiunsi, bevuta l’ultima bottiglia carica,
trasmigrai pacificato fuori dal mio corpo. L’aria era torbida. I bastardi
c’erano ancora tutti. All’orizzonte il cappellaccio infeltrito di Calante
galleggiava solitario nel fumo, come una boa a mezz’acqua nel più di-
menticato degli oceani. Nient’altro intorno, se non lampi rossastri che si
riverberavano nella foschìa, disegnando nel cielo il sorriso di Amoddio
nella versione sovietica dello Stregatto. Ricordo che la cosa mi fece ri-
dere. Ero come una mosca impazzita che sbatteva violentemente contro
il confine di vetro del totale caos umano in cerca d’una via di fuga.
Nessuna stella polare da seguire, nessuna bussola. Perso nell’entropia
di un corpo svenuto sul lato passeggeri in posizione fetale. Non so per
quanto mi aggirai a quel modo dentro la macchina, nella versione eterea
di me stesso, a galleggiare sopra quel mare infestato di fumo, in balìa del
vento alcolico che soffiava peccaminoso dalle bocche dei miei compagni.
Situazioni come quella ridurrebbero qualsiasi orologio a un mucchio di
cera sciolta. Circostanze nelle quali il tempo è solo una scialuppa che
imbarca acqua da tutte le parti, lasciandoti da solo ad affogare nel buio,
senza salvagente né la pallida speranza di un tronco marcio a cui aggrap-
parti. Ero la metafora incorporea dell’impotenza. Dalì ci aveva avvisati
a riguardo, molti anni prima, ma eravamo stati tutti troppo distratti per
dargli retta. E avevamo sbagliato. A quel punto non mi restava altro da
fare che annegare. Lasciarmi annegare placidamente nella calma piatta
di quell’allucinazione rivelatrice, con qualche nozione in più sul Sur-
realismo.
Poi un lampo, uno squillo di tromba supersonico, ed eccomi risuc-
chiato di nuovo nel vortice. In un attimo mi disgregai, esplodendo in
miliardi di particelle sub atomiche, finché ogni brandello di me non fu
spinto via da una corrente invisibile e incanalato in un flusso d’aria dis-
continuo che portava dritto ai miei polmoni, accasciati insieme al mio
corpo in stato vegetativo sul sedile davanti. Attraversai innumerevoli
volte i labirinti pelosi del mio naso. Scivolai giù per la trachea come un
bambino sulla giostra. Vidi da vicino i satelliti bronchiali e poi i pianeti
polmonari, fin quando non precipitai sulla superficie di mercurio di un
globulo rosso appena rinato.
Riaprii gli occhi in quell’istante, con un rivolo di bava alla bocca
e le tempie schiacciate contro il vetro freddo di una Ford grigia lan-
ciata nel buio a poche ore dall’alba. Nelle mani di un dio col vizio del
gioco e poco propenso alla sconfitta, stavamo seguendo una piccola
luce verde che lampeggiava continuamente sopra la linea ormai grigia
dell’orizzonte laziale. E proprio come Jay Gatsby dall’altra parte della
baia, anche noi levavamo freneticamente le braccia al cielo, come se
questo ci avrebbe aiutati a raggiungerlo prima, saziando una volta per
tutte quel maledetto desiderio isterico di vita che ci consumava le ossa
da ormai 8 ore.
Autori Appesi Frigo Tales
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Prove di rivolta nel cesso dei gentiluomini
(J. C.)
L’ultima pisciata in autostrada fu intorno alle 8 del mattino. An-
cora un’area di sosta prima di calare l’ancora, almeno per le prossime
ventiquattr’ore. Il professor Needermayer parcheggiò nei pressi della
toilette per signori, dietro al bar. Io mi ritrovai ancora vivo, seduto di-
etro accanto Amoddio. Scendemmo dalla scatola affamati d’aria come
se avessimo trascorso l’intera notte dentro un polmone d’acciaio senza
corrente. Più simili alla versione malriuscita di un origami nelle mani
di un malato d’Alzheimer che a giovani spiriti poetici decisi a conquis-
tare il mondo. Accartocciati nelle pieghe sfatte dei nostri corpi, illumi-
nati dai raggi di un sole che era nuovo come tutto il paesaggio intorno.
Sembravamo le comparse semi nascoste di un quadro paesaggistico di
fine Rinascimento. Macchie scure miscelate male al verde e all’ocra
dell’ambiente intorno. Il colpo d’occhio della prossima uscita a destra,
prima di fare colazione, fermi davanti all’unico cesso utile occupato da
ormai quindici interminabili minuti dall’intestino crasso di Calante.
Respirai quell’aria gelida come se dovessi chiedere scusa all’umanità
prima di decidere di cambiare sesso, giusto il tempo di una pisciata e di
una lavata di denti. In fondo, con Needermayer e Amoddio fermi come
totem ad aspettare il loro turno, nessuna donna con un briciolo di buon
senso avrebbe corso il rischio di avvicinarsi a quei bagni.
Finito di restituire al mondo la sua materia prima affrontammo
gli ultimi chilometri prima di raggiungere la “Città di cioccolato”. Lo
stomaco mi faceva ancora male e non andò meglio quando Calante mi
informò che, durante la notte: avevo masticato il suo portasigarette di
latta fino a distruggerlo; mi ero lanciato fuori dalla macchina in corsa
per pisciare, sbattendo lo sportello contro un guardrail; cercato invano
e con una certa dose di irruenza la democrazia in buona parte degli
Autogrill in cui ci eravamo fermati, senza mai trovarla. Da parte mia
ricordavo quasi tutto, anche con una certa dose d’amarezza, tranne la
faccenda del portasigarette. Per quello mi scusai.
Ero tornato a sedere davanti. Needermayer aveva ripreso a guidare
dopo aver condotto la nave per più di dieci ore furenti prima di decidere
di cedere il timone a Calante per tentare di chiudere occhio. Amoddio,
dietro, stava scartando l’ennesimo pacchetto di Camel blu mentre io
facevo esercizi di respirazione per calmare i violenti attacchi peristaltici
di cui ero preda, sforzandomi di pensare ad altro. Cercai di mettere
a fuoco il nuovo mondo che scorreva fuori dal finestrino. Un mondo
diverso da quello “abusivo” da cui provenivamo. Un mondo ordinato e
tecnicamente perfetto, abbandonato nel silenzio dei suoi piccoli borghi
di pietra sparsi qua e là tra montagne ancora vergini, dentro boschi così
fitti da non tradire nulla di quel loro antico segreto. Qualcosa di così
bello da farti provare soltanto invidia.
Ci lasciammo alle spalle l’uscita per Perugia mentre un tipo alla
radio sputava merda contro un nano, un principe esiliato e la loro male-
detta filastrocca patriottica. Quell’inaspettata dose d’odio in FM ci res-
tituì la voglia di uscire fuori e combattere. Di andare a riprenderci quello
che ci avevano rubato con la forza quando eravamo stati troppo gio-
Autori Appesi Frigo Tales
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vani per comprendere. L’ultima traccia ancora visibile della democrazia
segnata sulla sabbia, prima che l’ultimo colpo di coda di una tempesta
iniziata vent’anni prima la cancellasse per sempre.
900 chilometri dopo, col sole alto nel cielo, chiudemmo la bocca
alla signorina del navigatore satellitare prima che qualcuno di noi bas-
tardi decidesse di farle veramente del male. Parcheggiammo la nave da
qualche parte, su una strada che sembrava uscita fuori da una di quelle
pubblicità bucoliche di automobili che includono nel prezzo anche
l’assicurazione furto e incendio. La lasciammo lì, a far da guardia al
diavolo, affacciata sul balcone del paradiso inviolato.
L’uomo nero, tortino di formaggio e stato d’incoscienza
ai piedi di Fontana Maggiore
(J. C.)
Ci arrampicammo su strade di pietra in cerca di un bar. Bere caffè
era ormai solo una scusa per fumare sigarette senza necessariamente
aprire le ultime bottiglie di vino scampate alla notte. I buoni propositi,
almeno da parte mia, c’erano tutti ma il professor Needermayer non la
pensava allo stesso modo. Era profondamente convinto che avremmo
dovuto cercare al più presto una taverna, per sederci e riprendere le
forze. In uno stato di veglia autoindotta da più di ventiquattr’ore, ar-
rivato a quel punto l’ipotesi di dare uno sguardo all’orologio non lo
sfiorava nemmeno. Io e gli altri evitavamo di rispondergli direttamente
perché, se lo avessimo fatto, ci saremmo ritrovati a vomitare bile e vino
nel cesso di una anonima osteria perugina alle nove di uno strano mat-
tino di fine febbraio.
Tenevamo lo sguardo fisso sui ciottoli della strada, io, Calante e
Amoddio. Provavamo a non dar fiato alle trombe, a concentrarci su cose
positive: il canto degli uccelli, l’eco di un cane che abbaiava chissà dove,
il panorama, cose così. Perché sapevamo bene che, su un’ipotetica scala
temporale, un alcolizzato precede un alcolista di almeno mezz’ora. O
“forti bevitori”, come precauzionalmente preferivamo definirci. Non ci
sarebbe dispiaciuto quindi, almeno per una volta, arrivare dove sarem-
mo comunque arrivati con un po’ di ritardo. Ci limitammo a ignorare
Autori Appesi Frigo Tales
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Needermayer perché, credo, non avevamo abbastanza palle da ignorare
la scimmia isterica che ci ballava sulle spalle. Quindi giocammo a fare
i turisti. Attraversammo un labirinto di stradine che si incrociavano
come tessuti nervosi, fino a ritrovarci a percorrere il corridoio di un
grande edificio che portava a un belvedere. Da lassù era come poter
stringere tra le dita il mondo intorno. Foligno, Assisi, Spoleto, punti
scuri su una distesa di terra verde senza fine. Dominavamo il Trasimeno
ruttandoci contro senza troppe implicazioni morali. Conquistavamo la
collina e, soprattutto, del nostro inferno nemmeno l’ombra. Assorbi-
vamo ossigeno e imprecavamo contro Amoddio e la sua stupida mac-
china fotografica. Sì perché, come ogni buon testimone di passaggio,
anche noi ci mettemmo in posa. Ghigni deformi impressi nella memoria
digitale di una fotocamera in mano a un collerico schizzato del cazzo che
non vedeva l’ora di poter gridare in pubblico la sua personale visione
dell’animalesco universo femminile e della cristianità in generale. Non
c’era poi molto di che fidarsi di uno che scambiava una donna per una
vacca con la stessa -e a tratti innocente- facilità con cui era capace di
scoparsela, magari sull’altare maggiore di una tranquilla chiesa di paese.
In senso letterario, ovviamente.
Concedemmo qualche scatto anche a Calante prima di rimetterci in
cammino. Calante era il più silenzioso tra noi. Con quel suo cappello
di lana nero tirato giù sulla faccia e l’impermeabile di finta pelle era la
variante gotica di un postumo di sbronza a base di vodka e Campari
preparato ad arte da una misteriosa quanto abile barista magrebina in
un sordido bar di Reggio Calabria. Perché le cose andarono così, la sera
prima di partire. Come quando strappi via un adesivo da un foglio di
carta, frammenti essenziali dell’umanità di Calante erano rimasti ap-
piccicati sul tavolo di quella bettola, 900 chilometri più a sud. In più, a
differenza di Amoddio, la macchina fotografica di Calante, con quello
schermo così piccolo, non era davvero all’altezza della situazione. Per
gente come noi, abituata a vedere Dio fin nei più piccoli dettagli della
vita, quella non era una cosa da poco.
Proseguimmo la nostra avanscoperta a piedi e arrivammo nei pressi
di una piazza. Tutt’intorno eravamo circondati da blocchi di pietre e
mattoni assemblati uno sull’altro che ospitavano una delle più antiche
università del Paese. Gente d’ogni età, razza e colore saltava fuori dal
nulla per poi sparire, completamente assorbita dai viottoli da cui erano
comparsi. Facevano questo senza alcuna fretta. Ci passavano accanto
con passo lento, sfiorandoci senza timore, incuranti dell’indecenza che
trasudavamo sotto quei vestiti male assemblati. La percezione che avevo
era quella di un posto dove la propaganda del terrore non aveva ancora
attecchito o, se lo aveva fatto, non era scesa poi così in profondità da
sfigurarlo del tutto. Non è un caso che negli ultimi 10 anni fossero stati
proprio un pugliese e un’americana del cazzo a importare violenza e ter-
rore in quella pacifica comunità umana.
Visitammo ancora un negozio di dischi jazz e un mercatino
dell’usato. Ci facemmo largo tre le strade antiche scansando clown in
cerca di denaro e una pittrice ambulante col culo grosso, fino a un pic-
colo market nascosto in un vicolo. Prima di entrare Needermayer disse
che la gita era finita. Che avevamo visto tutto quello che c’era da vedere.
E che era ora di bere. Tutta quella dose di novità cominciava ad annoi-
are. “Ci siamo”, pensai. Ancora poche ore e avremmo seminato panico
Autori Appesi Frigo Tales
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e blasfemìa in nome della buona letteratura. Non restava che aspettare e
godere ancora un po’ di quel sole e di quell’aria prima che marcissero,
come tutto il resto, nella nostra memoria breve.
Finimmo di mangiare panini e tortini al formaggio seduti sulle gra-
dinate di una vecchia cattedrale, o una cosa del genere. L’appuntamento
col nostro contatto era fissato per mezzogiorno. C’era ancora un’ora
buona da sopportare. Per ammazzare il tempo, la barba umida di birra
di Needermayer iniziò a chiedere ai passanti macabre indicazioni da tu-
rismo ossessivo:
«Scusi, per casa Guede?»
Nella sua mente distorta, suonò come il sanguinario equivalente senega-
lese di Casa Vianello. La battuta non era male, devo riconoscerlo, non
fosse stato per quella sfumatura pulp che la gente interrogata sembrava
non apprezzare. Fu in quel momento che iniziai a sentirmi veramente
osservato. Osservato male.
Alla fine mi sdraiai su quelle scale di pietra, col sole tiepido che mi
batteva in fronte. Guardai per un po’ il cielo, poi girai la testa verso la
piazza, e Calante e Amoddio andavano via chissà dove. Li vidi allontan-
arsi mentre le mie palpebre calavano il sipario sulla prossima mezz’ora.
L’aria sapeva di vomito fresco. Del vomito che qualcuno aveva lasciato
a seccare a pochi centimetri dal mio letto di pietra.
Odio sfiammanteda spegnere con una birra fresca
(F. G. N.)
Sfiorai qualcuno prima di immergermi nella magnificenza della
Cattedrale di San Lorenzo. Doveva averla fatta davvero grossa per
meritarsi quel ben dell’uomo interamente dedicata alla sua memoria.
In memory of Saint Laurent, ciralavano turisti giapponesi globalizzati
in quella intenzionale trasposizione terrena di un modo di fare contro
il quale il padre ci aveva perso un figlio. Profumi ed incensi, mi piacque
pensare che si trattasse proprio di incensi, non avevano nulla a che fare
con la carità cristiana tanto dibattuta. Trattenni a stento un rutto mentre
Amoddio faceva qualche scatto con la digitale senza usare il flash. Ci
sarebbe piaciuto fare una partita a calcio proprio al centro della navata.
C’erano un sacco di posti a disposizione e sarebbe stato qualcosa che di
certo la Clericus Cup avrebbe sponsorizzato. Una tranquilla domenica
in cui avremmo potuto unire in una succulenta e appetitosa polpetta
avvelenata, il mattino del signore con il pomeriggio del pallone. Di
fronte a una scultura, tendenzialmente peccaminosa, cambiai visione
delle cose. Al mio fianco c’erano adesso madre, padre e figlio con un
pallone dei Power Ranger. Applaudii ma fu solo per un attimo. Shhhhh!
Poco convinto dell’idea del divino politicamente corretto, decisi di
tornare lucertoloso a vivere sotto il sole di quella giornata, attendendo
paziente una telefonata indigena. Comprammo un paio di birre. Le
Autori Appesi Frigo Tales
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bevvi tutte io. Nulla può dissetarti come due belle birre fredde. Questo
era chiaro. O almeno era chiaro a noi, viste le facce di un paio di fedeli
colti alla sprovvista dal nostro modo di fare provviste. Poco di quel
tempo che sarebbe rimasto di lì al pranzo, o all’aperitivo, o all’insalatina
delle 13:15, lo avevano voluto passare all’aria aperta e il salutismo sta
alle birre di mezzogiorno come il diavolo all’acquasanta. Lucifero sarà
anche uno stronzo ma non possiamo negare che sia davvero un inten-
ditore.
Sotto braccio avevo la copia del giorno di Liberazione, che allegava
Frigidaire. Lo ingurgitai in un sol colpo e poi lo lasciai tra le mani calde
di Carnera, il cui umore rimaneva ancora ben nascosto dietro occhiali
neri. Avevo bisogno di una birra, ma qui non si fanno personalismi.
Continuo a pensare che il contatto ci stia prendendo per il culo perché
i venti minuti mancanti all’incontro li avevo contati almeno tre volte.
Faceva caldo, il caldo di fine febbraio che cerchi ed abbracci commosso
come nemmeno in una puntata dello show di Raffaella Carrambaar-
rivanoglisbirriequestasicheèunasorpresa!
Girano vite attorno a una telefonata. In passato avevo voluto bene
a Meucci, mi aveva fatto capire quanto la comunicazione potesse es-
sere rivoluzionaria. Ma oggi andava rivoluzionato il modo di utilizzare
quella comunicazione: perché dirmi che arrivi fra 20 minuti quando poi
sappiamo benissimo entrambi che fra 30 dovrò chiamarti ancora per
sapere dove sei? È questa la debolezza dell’homo vodafuns: corrotto,
miserabile, incapace di pensare e fottutamente attaccato a un filo invisi-
bile che, stando ad uno dei vagiti di un personaggio, detto spot, appart-
enente alla specie, avrebbe allungato la vita. Ricordai di un articolo letto
sul web che alludeva alle compartecipazioni azionarie delle cause farma-
ceutiche, prevalentemente quelle legate allo spaccio di ansiolitici, nelle
holding proprietarie dei pacchetti telefonici su scala mondiale. L’odio
sfiammante aveva ancora a che fare con quel mai sopito desiderio di una
birra. Ripensai al giro in libreria di un’ora prima, un lungo giro visto la
planimetria del sapere. Ripensai al giro dentro un negozio di dischi, una
specie di piccolo museo per nostalgici amanti del jazz e della fusion con
tanto di comodissime poltrone e finestrella veduta vicolo buio. Ripensai
a una vignetta, mai vista, di un millepiedipiatti ingiuriato da un bam-
bino mentre giocava a pallone dentro una Cattedrale che si dissetava
dall’acquasantiera. Mi addormentai sulle scale di pietra in onore di Yves
Saint Laurent, anche se puzzavano di piscio.
Non più di cinque minuti e avrei definitivamente intrapreso la stra-
da dell’odio in direzione Meucci:
«Finalmente è arrivato, raggiungiamolo!».
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Molto vino, troppe parole,e una chiesa sconsacrata
(J. C.)
Andy Zampata, il nostro contatto, ci aspettava sulla soglia di
una chiesa sconsacrata pochi minuti dopo mezzogiorno. Andy portava i
capelli sulle spalle, lisci, neri. Un cappello a tesa larga, una giacca di vel-
luto scadente, jeans scuri, roba da poco. Quell’aria che aveva, da fighet-
to radicale con lo stomaco pieno, non lasciava sperare niente di buono
per il prossimo futuro. Eppure, se è vero quello che si dice sulla natura
ingannevole delle apparenze, beh, Andy vuotò subito il sacco dicendo:
«Ci sarebbero 10 litri di vino da prendere giù ai parcheggi. Se la cosa
non vi stanca troppo, qualcuno potrebbe venire con me a darmi una
mano».
Inutile dire che facemmo a gara.
Alle 15 di quel pomeriggio troppo caldo per essere febbraio, la metà
di quei litri erano già a far festa nelle nostre vene. Dopo aver risalito
più volte la città su una giostra di latta senza pilota, con Andy, il nostro
contatto, e un grasso napoletano ridanciano, godevamo finalmente del
riposo dei guerrieri, seduti intorno a un tavolo di plastica bianco, a bere
del buon vino e fumare erba. M-A-R-I-J-U-A-N-A. Si dissero cose e se
ne fecero altrettante, ma non potete pretendere troppo da questo povero
testimone.
Ricordo Calante, che cercava di far venire fuori note da una chitarra
elettrica spenta. Amoddio, che andava e veniva da un negozio di dischi lì
di fronte, sperando di capirci quel tanto che bastava sull’hip hop da non
fare un regalo di merda al figlio adolescente. Il professor Needermayer,
che si tratteneva dallo stappare le ultime bocce di rosso di casa per far
piacere al nostro ospite, l’ispiratore del nostro viaggio, la meta ideale
delle nostre vite: Vincenzo Sparagna.
C’erano dei banchetti ordinati lungo le mura, sotto le volte affres-
cate della chiesa. Banchetti di plastica dura, bianca. Banchetti di Frigid-
aire. Sopra, gli sforzi intellettuali di una intera generazione che aveva
colpito più duro possibile negli anni ‘80. Qualcuno adesso era morto, e
quelli rimasti cercavano di capire di chi potevano fidarsi.
Ce n’era di che vagliare. Scrittori, disegnatori, cineasti, musicisti,
ognuno poteva dirsi parte di un “collettivo” di guerrieri. Certo anche
noi, non fosse stato per il terribile aspetto che aveva il nostro tavolo
di plastica, dura e bianca. Macchie di vino; peperoni fritti offerti dal
napoletano ridanciano sparsi ovunque; semi di canapa; cicche; e, natu-
ralmente, la nostra proposta culturale: il numero 00 della Pergamena
Appesa. Nient’altro che un resoconto accurato delle derive alcoliste di
un branco di uomini senza speranza. Appestammo di quella roba buona
parte dei banchetti intorno senza troppi problemi. Poi brindammo a
qualcosa. E poi a un’altra ancora. E un’altra ancora, e l’ultimo bottigli-
one da 5 era ormai bello che andato. Vino bianco di Napoli. Guardai
l’orologio. Mancavano pochi minuti alle 4.
Il sole si ostinava a bruciare su in cielo, mentre gente d’ogni specie
entrava e usciva dalla chiesa. Gente curiosa, gente che supportava, gente
che forse non aveva niente di meglio da fare. Uno dopo l’altro passa-
vano distrattamente davanti il nostro miserabile banchetto. Facevano
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Ebbene, eccoci! Fiato alle trombe! S’alzi il maledetto sipario! Ode al Re! Ode al Re!Il Re beveva esattamente come tutti gli altri e fiFinimmo nel cesso della Chiesa a fumare erba
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passerella mentre in testa mi andava senza sosta la 4a di Mahler. Una
coppia di hippie profumati, un giovane intellettuale in giacca di velluto,
qualcun’ altro che non ricordo, ma tutti bevevano del nostro vino. Si
fermavano giusto il tempo d’un bicchiere, ci squadravano con fare sac-
cente, lo sguardo di chi non ha niente da dire, e poi andavano così come
erano venuti. Ma noi offrivamo. Offrivamo a tutti. Poi, non so quando,
il sipario si aprì.
Tornai dal cesso con la patta ancora slacciata e dall’altra parte del
banchetto, del nostro sguaiato banchetto, c’era questo vecchio barbone
adorabile. Una giubba di piume d’oca malconcia, un pantalone di tuta
grigio e un cappello di lana rosso che a malapena stava in equilibrio sul-
la testa ricoperta di lunghi capelli bianchi. Needermayer stappò il vino
di casa. Ebbene, eccoci! Fiato alle trombe! S’alzi il maledetto sipario!
Ode al Re! Ode al Re! Il Re beveva esattamente come tutti gli altri e,
alla fine, ci ritrovammo insieme nel cesso della chiesa a fumare erba e a
maledire i cineasti di prima leva che avevano rubato il tempo alle letture
del professore. Fumammo M-A-R-I-J-U-A-N-A. Poi persi di vista i miei
compagni. Troppo fatto d’erba e vino per poter dare una descrizione ac-
curata di quello che avvenne da lì in avanti. C’era una ragazza, nel cesso,
con me e Calante. Una ragazza con i denti consumati dalla vita che
chiedeva cartine e sigarette come fossero aria. C’era Calante, di sicuro.
Needermayer non lo vidi. E poi ancora il barbone adorabile, che mi
passava da fumare. Fuori, fuori da quel ridicolo delirio d’onnipotenza
letteraria, altri continuavano a leggere sui troni consacrati all’innocuo.
Per noi, chiusi in quel cesso, la verità era lì dentro. Sporca e dritta al
cuore. Come si doveva.
«Sparagna, il nostro reading lo facciamo nel cesso!», dissi.
Sparagna rise. Ma insistetti: «Noi, il nostro cazzo di reading lo facciamo
qui in questo cesso!». Poi le urla di Amoddio si riverberarono sulle pi-
astrelle annerite del WC e tutti uscimmo ad ascoltare il nostro nuovo
profeta.
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Peste e cornutisiete i benvenuti
(F. G. N.)
Che cos’è la peste? È una virgola arrossata prima della conferma
“si sta morendo”. Era il XIV secolo dopo la crocifissione del figlio di
cotanto padre e la città era invasa dai batteri. La quarantena era un
modo di dire. La lotta alla cosiddetta peste nera era una battaglia persa
in partenza. Chi se non i soldati della confraternita potevano pensare ai
corpi e alle anime dei dannati in un momento come quello? Santa Maria
della Misericordia li avrebbe potuti abbracciare tutti con il suo amore
e ne avrebbe di certo rallegrato gli umori nel cammino terminale. Santa
Maria della Misericordia meritava di avere una casa tutta sua. Quando
costruirono i miei fianchi, quadrati ed alti a sufficienza per creare at-
torno un ambiente ospitale, cominciai davvero a sentirmi parte di qual-
cosa. Qualcosa di reale, non nel senso regale del termine perché la mia
confessione ne va fiera della propria indipendenza da ciò che è materiale.
Qualcosa di reale perché tangibile. Come il coccobacillo psicrofilo con-
osciuto come Yersina Pestis.
Lo scopo era quanto di più terreno si possa pensare per una figura
tanto mistica come la mia. La causa è l’effetto ma se poi è effettivamente
la causa a creare lo sproloquio cosa avrei dovuto pretendere dai miei
ospiti? Devozione? A volte. Compartecipazione del bene? Una volta
alla settimana. Proselitismo? C’era un incaricato, un amanuense, che
ne disegnava un grafico al giorno fino all’avvento del chip che avrebbe
rivoluzionato il mondo per come lo conoscevamo. La pioggia ha sol-
leticato i miei decenni. La neve mi ha coperto le spalle più di quanto non
possiate immaginare, leggera e bianchissima nelle notti più buie e fresca
ma acida dalle inquinanti fattezze progressiste. Ho baciato il sole e me
ne innamorai.
Ne ho sentite di stronzate in tutti questi anni ma che dire di quella
mattina di un ultimo sabato di Febbraio (sarà stato il 2010) in cui sento
bussare alla porta quattro stranieri?
«Ma… possibile che sia chiuso?»
(Certo, coglioni, è proprio chiuso, vi sembra aperto?)
«Ma… come fa una Chiesa ad essere chiusa? Se fossi un pellegrino in
cerca di carità devo pensare di aver sbagliato a bussare a questa porta?»
(Mi sa che siete davvero all’indirizzo sbagliato, sarò anche un Chiesa
ma sono sconsacrata: vedete crocifissi qui fuori? Vedete per caso l’orario
delle funzioni?)
«Ma che cazzo, Dio si riposerà di tanto in tanto in tanto, no?»
(No, Dio non riposa mai e comunque anche se si concedesse una pen-
nichella non lo farebbe dentro queste quattro mura)
«Andy!»
«Ehilà!»
«Andy, wow!»
«Cazzo, ce l’abbiamo fatta!»
(Se c’è una cosa che non ho mai capito è il rafforzare i concetti con os-
servazioni stupide: se siete qui, qualunque sia il motivo per il quale siete
qui, mi sa proprio che ce l’avete fatta.)
Le mie pareti erano trafitte da chiodi per una mostra che, stando a
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quel che mi era sembrato di capire, raccoglieva parte della sterminata
opera culturale di personaggi tanto improbabili da farli apparire male-
dettamente veri. Vignette e parole, quadri e sculture, rottami riadattati
all’occorrenza e forse anche una teca con dei serpenti, non ho capito
bene…
«10 litri di vino.»
«Minchia Andy, sei un amico.»
«Chi viene con me? Sono in macchina, ho bisogno di aiuto.»
«Eccomi Gennaro.»
«Arrivo.»
«Non c’è bisogno di tutti, sono solo 10 litri..»
«Appunto! Dobbiamo venire tutti.»
«Dai io sto qui. Ti fermi pure tu?»
Credetemi, non ho mai capito perché l’uomo debba per forza com-
plicarsi la vita. Io sto qui da quando ne ho memoria e sto bene: mai rotto
i coglioni a nessuno, io. Mai avuto a che ridire sulla quantità di zucchero
dentro una tazza di caffè perché il concetto di dieta non l’ho ancora
capito del tutto. Io non sono qui. Questo è il mio posto e ho imparato
a rispettarlo. Gli uomini sono gentaglia, per quanto mi abbiamo fatto
così grande e bella, per quanto possano aver adornato la mia pancia
con pitture che il tempo ha portato lentamente via, come polvere: gli
uomini sono gentaglia. E penso proprio che il concetto che ho sentito
mille volte, quello sì che l’ho veramente capito, del “Polvere sei e polvere
ritornerai”, sta tutto in questa breve intromissione nel mondo di carne.
“I poesii non su poesii...”
“Il diavolo telefonò alle tre e diciassette del mattino...”
“Marx non ha mai coltivato gelsomini...”
Ne ho sentite davvero tante di stronzate nel lungo trascorrere il mio
tempo al mio posto ma stasera qualcuno ha tutte le carte in regola per
cadere sotto i colpi del mio nefasto crollo. Nefasto e liberatorio. Un
pasto anche un po’ libertario. Un masso al tuo breve frasario. Collasso
al mio lungo inventario. Crollerò e sarà carne tra la carne. Crollerò
sulle frasi di carne di questi peccatori. Beoni. Bestemmiatori. Pragmatici.
Ossessivi. Compulsivi. Capelloni. Occhialuti. Stonati. Sbarbati. Negati.
Barbuti. Infiammati. Infettati. Dogmatici. Pervertiti. Devoti. Ammaliati.
Ingobbiti. Soggiogati. Cassintegrati. Approfittatori di sorta. Cornuti.
Crollerò. E tu, piccolo topolino crocifisso proprio di fronte al mio
enorme portone sulla volta centrale, non potrai fare nulla per salvarli.
Autori Appesi Frigo Tales
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Petri e Petriceji
(F. G. N.)
Nc’erunu risposti mbucciati
arretu ‘o buttuni ri cazi,
e non faciti finta
l’occhi si guardunu ndall’occhi.
Cu rispettu parrandu
si isa i n’terra nu sciat’i ventu
e du petriceji si smovunu
senza sconzu pe nuju.
Risciatamu puru nui,
e non ci faci nenti se dui
tri quattru
o cincu i sti petri
ndi trasunu nde scarpi.
Su granelli i sabbia
chi s’mbucciunu ammenz’e jirita
o chi s’imbrazzuni ‘a cazetta.
Su i petri chi non t’aju a cuntari.
I petri chi l’ha sapiri.
A discrezioni ‘ra sensibilità ‘ri to peri.
Resti
(J. C.)
Il diavolo telefonò alle tre e diciassette del mattino,
ma non avevo niente da dirgli,
così riattaccai.
Fuori pioveva, come da contratto.
Travestita di buio, nella camera da letto,
la mia ragazza urla “NO!”, nel sonno.
È spaventata, ma non si sveglia.
Fuori pioveva, come da contratto.
E nessun nano canterino a tenderci la mano,
né principi esiliati a farci compagnia.
Nessuno sguattero di stato,
scrivani abbronzati,
casalinghe appagate,
risparmiatori fidelizzati,
nessun cerchio tracciato nella polvere,
amorevolmente costruito intorno a noi,
a proteggerci dal terrore di una scelta previdenziale fatta male.
Autori Appesi Frigo Tales
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Niente batteri nascosti nel cesso,
né merendine tumorali energizzanti in offerta.
Nessuna frana e nessun collasso sistemico dell’economia mondiale.
Niente terremoti,
niente emergenze,
niente collette para statali a fin di male.
Niente scuola,
niente informazione,
niente lavoro. Niente soldi.
Niente musica.
Niente sigarette.
Niente vino.
Niente sorrisi felici macchiati di fluoro.
A parte tutto:
niente.
Fuori pioveva, come da contratto.
Così niente,
a parte la merda di cane sui marciapiedi,
le scuse da inventarsi,
le ascelle da lavare,
i peperoni muffiti da buttare,
le cicche da riutilizzare,
le parole da cercare,
il cesso da lavare,
il lavoro da cambiare,
i conti da pagare,
il gas da respirare,
la fortuna da grattare,
il pusher da chiamare,
la macchina da aggiustare,
e una intera vita da spiegare.
Il diavolo telefonò alle tre e diciassette del mattino,
ma non avevo niente da dirgli,
così riattaccai.
Ma adesso,
dopo un paio di litri di caffè arabico,
pochi grammi d’erba ben dosata,
e qualche boccia di nero d’Avola a temperatura ambiente,
adesso spero che il diavolo richiami.
E quando lo farà dirò semplicemente:
hai preso tu il mio accendino?
Perché è questo quello che resta alla mia generazione.
Autori Appesi Frigo Tales
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Un Mezzo(G. C.)
Forse
Nei tuoi occhi
C’è un’aria
Che sa di me
E come vorrei
Respirarla
E capire
Chi sono io
Più in là non c’è
Niente
Che ci possa
Contenere
Niente di più
Disperati
Niente di più
Ma non è più l’ora
Di parlare e rimediare
Ma non è più l’ora
Di me e di te
Niente
(P. A.)
Niente, assolutamente niente, ho ucciso per niente
ho amato per niente, ho sofferto per niente e tu chiedi.
Taci o chiedi il mio nome. Ma non rompermi i coglioni!
Le mie passioni?
Ah si, coltivare gelsomini.
Il tuo silenzio accarezza i coglioni
il tuo chiedere fa appassire i gelsomini.
Della rivoluzione ormai me ne fotto. Si me ne fotto.
Anche il mio cane se ne fotte, anche tua sorella
anche tua sorella me la fotto, è una vacca e gode.
Devo avere ritegno? Certo, certo,
sono io quello che deve avere ritegno,
porco di un dio.
Niente,
dovrete costruire una croce per me
nient’altro
e inchiodato dirò : “Padre, ma che cazzo di padre sei?”
Cristiani e democristiani, comunisti e neocomunisti
non dovete rompere i coglioni a chi cerca di amare
anche se poi non ci riesce e coltiva gelsomini.
Taci e non mi chiedere chi cazzo sono.
Autori Appesi Frigo Tales
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Volete che faccio i nomi?
San Pietro è stato semplicemente più furbo di Giuda
Cristo ha avuto un pessimo padre
Mao tse tung aveva una pessima madre
Marx non coltivava certo gelsomini
Della rivoluzione non vorrei fottermene
ma tua sorella gode come una vacca
ed io non ho più ritegno, porco di un dio.
E’ VERO HAI RAGIONE
HO UN NOME
DELLA RIVOLUZIONE NON ME NE FOTTO
MA TUA SORELLA ME LA FOTTO
E LEI GODE COME UNA VACCA
I COMUNISTI SONO NEI
I CRISTIANI SONO DEMO
GIUDA È STATO FESSO
MARX NON HA MAI COLTIVATO GELSOMINI
CrollerO’.E tu, piccolo topolino crociFisso, non potrai far nulla per salvarli.
Autori Appesi Frigo Tales
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Vuoti d’aria,smarrimento di massa
e vino “offerto”
(J. C.)
Amoddio barcollava ai piedi dell’altare maggiore. L’asta col mi-
crofono messa da parte, una bottiglia di bianco in una mano, qualche
foglio stampato nell’altra. Con le parole che gli schizzavano di bocca
come se non avessero altro tempo da perdere era il nostro personale
atto d’accusa a Dio. Il nostro punto di vista privilegiato sul mondo e
l’umanità in tutta la sua indecenza. Il nostro megafono generazionale. Il
sogno proibito di un bimbo che si avverava.
Con Calante e Needermayer salii anche io sull’altare a consumare il
sacrificio. Le persone andavano e venivano come le luci dei neon sul sof-
fitto. Se ne stavano tutti prudentemente acquattati alle pareti più esterne
della chiesa, vicino l’uscita. Intorno a noi un vuoto semisferico di timore
reverenziale. Dal mio angolino semibuio vedevo nitidamente la rabbia
del ventesimo secolo abbattersi contro madri, padri e sorelle di tutti,
senza distinzione di classe. Il verbo di Amoddio: la rivalsa di un povero
Cristo su Cristo in persona. Eppure, nonostante le urla, le invettive, gli
sputi, la canottiera sporca di vino, il “pubblico” sembrò comprendere
e applaudì. Finita una poesia sembrava che avessero bisogno di averne
ancora. Credo ci sia lo stesso principio dietro a questioni più complesse,
come la tossicodipendenza o l’alcolismo. Forse anche le religioni. Su-
perata la soglia della paura preventiva, alla fine comincia a piacerti e
allora non ne puoi più fare a meno. Fu questo l’effetto che le parole di
Amoddio fecero alla gente. Ne erano sconcertati. Profondamente scon-
certati. Ma ne avevano un bisogno disperato. Come assetati nel deserto.
Andò avanti a quel modo per quasi un’ora, poi qualcuno
dell’organizzazione disse che “bisognava lasciare spazio alla band”, la
band di Andy. La stessa proposta musicale in chiave acustica soprav-
vissuta a “Mi scopo la vacca di tua sorella!” e “Padre! Ma che cazzo di
padre sei?”. Andy attaccò a suonare. Era come assistere impotenti alla
performance canora di un uomo orrendamente sfigurato da una belva
infernale che tentava di non stonare sugli accordi di una chitarra acus-
tica. Decisamente troppo per le spese che avevo preventivato per quel
viaggio. Così andai a rubare del vino. Qualcuno dei ragazzi, degli altri
guerrieri, ne aveva lasciate delle bottiglie ancora pronte all’uso “nas-
coste” nei pressi del cesso. Dovevo bere. Bere e, soprattutto, procurarmi
da bere. Andy era, anzi è un ragazzo a posto, senza dubbio. Per lo meno,
più a posto di tanti altri con cui ho avuto la sfortuna di avere a che fare.
Ma per me, in quel momento, era davvero difficile da reggere. Sarà per
la prossima, amico mio.
Fu la volta del professor Needermayer sull’altare. Decise di leggere
della roba in dialetto calabrese. Roba che solo noi, stretti in cerchio in-
torno a lui, potevamo comprendere. Alla fine di ogni lettura io, Calante
e Amoddio sembravamo scimmie impazzite di fronte un casco di banane
mature. Grugnivamo partecipi e solidali, con la verità nelle nostre mani.
Un democratico esperimento di comunicazione tra specie che qualsiasi
uomo di buona volontà si sarebbe sforzato di capire, se solo lo avesse
voluto. Cose al di fuori dell’umana comprensione. Cose che mantennero
Autori Appesi Frigo Tales
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la gente a una dovuta distanza di sicurezza.
Needermayer lanciò i fogli per aria quando venne il mio turno. Lessi
qualcosa anch’io. Qualcosa che, come tutti, mi era costato un sacco di
vino e un sacco di tabacco. Cose che avevano a che fare col diavolo,
con le mie donne passate, con i miei fallimenti. Cose del genere. Cose di
tutti. Lessi quella roba guardando dritto negli occhi della gente. Gente
distante e partecipe. Urlai a Sparagna, il nostro ideale di vita ben vissuta,
che gli volevo bene nonostante tutto. Gli urlai di avvicinarsi, gli dedicai
qualche poesia e lui ci raggiunse sull’altare. Con coraggio aprì le gab-
bie dello zoo, e il patto tra l’uomo e la scimmia mi sembrò finalmente
completo. Non sembravamo poi così diversi adesso che mangiavamo
tutti dalla stessa ciotola.
Scesi dall’altare lasciando il dubbio delle “vagine vibranti” negli oc-
chi di qualche ragazza mischiata alla “gente”. La messa era finita. An-
davamo in pace. Calante scattava fotografie. Il napoletano ridanciano,
l’unico a seguire tutta la funzione dalla prima fila senza timore, ci aspet-
tava sorridente. Lo abbracciammo e andammo a rubare dell’altro da
bere, prima di issare l’ancora verso la prossima meta: Frigolandia.
Amoddio barcollava ai piedi dell’altare maggiore. Con le parole che gli schizzavano di bocca come se non avessero altro tempo da perdere, era il nostro personale atto d’accusa a Dio.
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Frigolandia,ovvero,
come suicidarsi con un filtro
(J.C.)
Lasciammo la chiesa e i suoi cessi occupati. Lasciammo Andy e
la sua band. Lasciammo il napoletano ridanciano. Lasciammo la ra-
gazza coi denti consumati dalla vita e penetrammo nel cuore freddo
dell’Umbria domenicale. Su, per le colline buie, qualcuno di noi riuscì
a leggere il cartello “FRIGOLANDIA” appena in tempo prima di rag-
giungere le Marche.
Parcheggiare non fu un problema. Non quanto lo fu invece trovare
la porta giusta da aprire. Fino a poche ore prima ci era stato detto che
avremmo passato la notte come esuli, al riparo dentro le mura della
chiesa. Poi, non so bene come, qualcuno convinse Sparagna ad aprirci i
cancelli del suo regno. Un regno abbastanza grande da confondere quat-
tro poveri ragazzi del sud. Un regno così grande e ben organizzato che
adesso, dopo anni di investimenti privati andati a buon fine, qualcuno di
veramente potente ne rivendicava la proprietà politica. Era stato quello
il motivo del nostro invito. Aiutare a ristabilire il concetto fondamentale
di democrazia in un Paese che, nonostante tutto, continuava a definirsi
democratico. Un Paese in cui il popolo è chiamato a eleggere chi dovrà
stringergli ancor di più le catene ai polsi. Un Paese in cui si vota a mag-
gioranza puttanieri, corruttori, delatori, ladri, collusi, pedofili, mafiosi,
‘ndranghetisti, camorristi. Un Paese diviso che ti manda a affanculo solo
perché esisti. Un Paese che ti odia perché non ha senso dell’umorismo.
Un Paese malvagio e impoverito. Un Paese che ancora non ha capito che
la “speranza” è una puttana al soldo dei padroni. Ma fintanto che c’è
Sparagna un posto per dormire non lo si nega a nessuno, nella “Repub-
blica Marinara di Montagna di Frigolandia”. Anche a chi, come noi, il
permesso di soggiorno non l’ha mai avuto.
Sparagna ci aspettava seduto su un trono di legno, alle 2 del matti-
no. C’era questa grande cucina, con un tavolo di massello lungo almeno
due metri. Il re mandava giù sorsi di rosso accompagnati da formaggio
fatto in casa. La sua casa. Ci sedemmo con lui alla mensa insieme a un
vecchio tipo con la barba grigia che fino a prima non avevo notato. Si
chiamava Pasquale e sedeva alla destra del re. Lasciammo il bottino al-
colico da qualche parte, sul tavolo. Cercai di non perderlo di vista, alme-
no fino alla quarta canna. Poi tutto divenne complicato. Il re e il suo vice
ne avevano di storie da raccontare. Storie bellissime e piene d’azione che
ci facevano rimpiangere d’avere solo trent’anni. Storie d’emigrazione, di
donne orrende che l’avevano messo in culo al Sogno Americano, storie
di riscatto. Ce ne stavamo lì ad ascoltare, a decifrare quello strano dial-
etto ibrido tra il campano e il laziale, mentre la testa girava, girava, gi-
rava, girava. Facevamo cerchi concentrici nell’aria cercando di seguire la
storia della comare Nina, del compare Giuseppe che adesso, in America,
si faceva chiamare Joseph, e cazzate del genere.
Poi mi alzai estenuato. Il vino ancora nel bicchiere, le bocce ru-
bate ancora sul tavolo, Sparagna e il suo vice ancora seduti. Dissi: “Ho
sonno. Dove dormiamo?”
Le spalle di Sparagna si appesantirono di 900 chilometri prima di darci
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finalmente la buona notte. Pasquale fece strada e uscimmo dal castello.
Fuori, tutto era congelato così come lo avevamo lasciato prima
d’entrare. Seguimmo il vecchio di corsa, bestemmiando per il troppo
freddo fino ai nostri alloggi. Una casetta azzurra con degli oblò diseg-
nati sui muri esterni. Dentro, l’ambiente non aveva nulla a che fare con
quello che ci saremmo aspettati. Letti rifatti, stufa a legna, bagni puliti.
Insomma, niente a che fare con una vecchia chiesa sconsacrata. Pasquale
ci indicò le camere: due doppie. Calante e Amoddio ne occuparono una
e si chiusero la porta alle spalle. Guerrieri stanchi ma non vinti. Con
Needermayer li mandammo a cagare mentre ci scaldavamo alla stufa a
legna. Avete presente, quelle vecchie stufe di ferro che bruciano tizzoni
roventi per tutto il tempo?
Restammo lì a scaldarci le palle, mentre il vecchio Pasquale ci rac-
contava di quando era stato in galera e i detenuti, per non stare in cella,
si tagliavano le vene con i filtri di sigaretta scaldati. Il fuoco brucia la
resina di vetro dei filtri, solidificandola, e poi, appiattendola come si
deve con le dita, riesci perfino a farti la barba. Cose del genere. Alcuni li
usavano sulle vene, per farla finita. Storie tristi. Pasquale parlava. Storie
interessanti e senza limiti. Storie noiose. Storie che prima o poi, qualsiasi
persona di buon senso vivrà sulla sua pelle. Ecco perché così noiose. Pas-
quale rollava e passava, rollava e passava, passava e rollava. E storie su
storie galleggiavano sul fumo grigio mio e di Needermayer, senza sosta.
Storie senza fine. Storie nostre. Storie di cui prendere appunti, fossimo
stati un po’ più furbi. Ma il sonno prevalse. Il sonno, prima di tutto. E
tutto finì a letto. Finì con un sogno. Il sogno, prima di tutto.
Chiudere gli occhi e ridere di Amoddio e Calante chiusi nella stessa
stanza, immaginandoli uniti nell’amore. Sognare lo stronzo a cui hai
chiesto un po’ di democrazia insieme al caffè e che non sa che fare. O la
gente che ha paura di aver torto e per questo ti evita. O il vino che non fi-
nisce mai. Sognare noi sul palco coi Nirvana a darci dentro. O sull’altare
maggiore di una chiesa, allo stesso livello di Dio. O col vecchio barbone
immortale che ti conduce in paradiso. O la frase dopo, migliore di tutto
quello che hai scritto in tutta una vita. O sognare. Sognare la libertà di
poterci leggere e ascoltare.
Sognare. Sognare. Sognare.
Sognare. Sognare. Sognare.
La rivoluzione.
Senza orrore.
Senza orrore.
Autori Appesi Frigo Tales
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Corpi morti, barbe dimenticatee caffè d’orzo nella tana del Re
(J. C.)
Una sveglia avrebbe dovuto suonare alle 10. Mi svegliai prima,
attorno alle 8. Sicuro, avevo gli occhi aperti ma il sogno, in qualche
modo, continuava ad andare avanti. Voglio dire, ero ancora vivo, appar-
entemente senza lividi e, soprattutto, non nel mio letto. L’Umbria c’era
davvero. Frigolandia c’era davvero e, a quanto sembrava, c’eravamo
ancora tutti dentro. Solo una cosa mancava: il sole. Quel sole troppo
caldo per essere febbraio che, fino a ieri, mi sbatteva il fuoco in corpo
mentre svenivo sulle scale di una piazza accanto una pozza di vomito
che seccava, anche lei, senza fretta. In stanza avevamo dei letti ma niente
coperte. Almeno, non nella camera dove dormivamo io e Needermayer.
Mi misi a sedere sul materasso, col culo più freddo di un cadavere,
coprendomi come potevo con ogni centimetro del mio sacco a pelo. Il
professore dava fiato alle adenoidi, con la testa rivolta verso il soffitto,
nella stessa posizione in cui lo avevo lasciato prima di addormentarmi.
Sembrava che non si fosse mosso di un centimetro. Eccolo, Needermay-
er, nel letto accanto al mio, che riprendeva le forze dopo un flusso di
interminabili ore peccaminose e turbolente, tagliate con anfetamine e
eccitanti di vario genere e sparate dritte in vena tutte d’un colpo. Una
balena che si spiaggiava non per morire, ma per rinascere.
Dalla cucina sentivo arrivare la voce di Amoddio, più cavernosa
del solito, come se provenisse dall’inferno dell’inferno. A meno che non
fosse impazzito del tutto, stava parlando con qualcuno. Qualcuno che
sembrava avere il suo stesso timbro vocale, roco e massiccio. Doveva es-
sere Pasquale. Parlavano a voce alta, fregandosene dei poveri guerrieri in
coma, piegati ma non spezzati dagli eventi delle ultime 48 ore. Nessuna
pietà per quei corpi annullati che giacevano inermi al freddo e al gelo di
stanze sconosciute. Mi dissi “Fanculo...” e trovai le forze per alzarmi e
scendere dal letto.
Feci un po’ di casino perché barcollavo vergognosamente, tirandomi
dietro tutto quello che mi capitava sotto tiro. Soprattutto scarpe e bot-
tiglie. A ogni modo nessun cambio di programma per Needermayer, se
è questo quello a cui state pensando. Il bastardo russava abbastanza
forte da non sentire nient’altro. Aveva quella specie di barriera sonora
che lo alienava completamente dal resto del mondo. Lo invidiai, poi
ripresi fiato appoggiandomi con una mano a una parete. Respirai. Mi
dissi “Fanculo...”, aprii la porta di camera e strisciai in cucina.
C’era odore di caffè nell’aria. C’erano anche Amoddio e Pasquale
che aprivano bocca. Non dirò cosa dissero perché è praticamente im-
possibile. La gola mi bruciava da morire. Deglutire era come mandar
giù piccole sorsate di spilli roventi, come grattarsi con la sabbia una
ferita aperta. Dimenticai l’ultima volta che avevo bevuto dell’acqua da
quando avevamo iniziato quella selvaggia esperienza letteraria. La cuci-
na era grande abbastanza da contenere un lungo tavolo di legno, dove
ci si potevano sedere almeno 6 persone. C’era anche un piccolo piano
cottura vecchio stile, un frigo (ovviamente, visto il nome del posto che ci
ospitava) e una credenza di marmo bianco. Sopra, c’erano delle bottiglie
di minerale su cui mi avventai come una specie di zombie. Poi mi dissi
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“Fanculo...” e guardai finalmente in faccia gli uomini lì dentro.
Amoddio non aveva subito modifiche rilevanti durante la notte. Era
tornato a sorridere come all’inizio del nostro viaggio. C’era qualcosa da
temere, ormai era chiaro. Ma non era il caso di pensarci proprio in quel
momento. Semmai, il vero problema da risolvere era ottenere un po’ di
caffè. Mi accorsi che Pasquale aveva la barba. Ci avevo parlato per tutta
la notte e non me ne ero mai accorto. Fu allora che mi ripromisi che, un
giorno, anche io avrei comprato un pezzo di terra nascosto da qualche
parte nel mondo, avrei coltivato le mie verdure e, più di tutto: la mia
erba. A parte la barba, di diverso in lui c’era che parlava molto meno di
quanto avesse fatto poche ore prima. Aveva detto tutto quello che c’era
da sapere, e questo è quanto. Raccolsi un po’ di fiato e dissi “Caffè...”. Il
vecchio mi fece scegliere: “D’orzo o normale?”. “Caffè...”. Ne mandai
giù quattro tazze prima di riuscire ad aprire completamente gli occhi.
Diedi uno sguardo fuori dalla finestra. Non mi sbagliavo sul sole.
Semplicemente, quel giorno, non c’era. Tutto intorno c’erano soltanto
alberi e piante d’ogni genere. C’erano i cani bianchi del re che sonnec-
chiavano nelle loro cucce. C’era un gruppo di papere che sguazzavano in
uno stagno. E c’eravamo noi altre scimmie a bere caffè e fumare sigarette
alle 9 del mattino. Tutti al coperto, sotto l’ombra fredda dell’inverno
umbro. Nessun’altra tana umana nel giro di chilometri. Decisamente,
il paradiso.
La barba del professore ci raggiunse poco dopo. Dove non era
riuscito il fracasso era riuscito l’odore del caffè caldo. Anche a lui fu
chiesto di scegliere: orzo o caffè. Scelta difficile da prendere. Si limitò
a svuotare entrambe le caraffe dandoci un’altra dimostrazione del suo
consueto “pragmatismo applicato”. Ci attardammo in cucina cercando
di comportarci dignitosamente, come persone che, volendo, potevano
sembrare gradevoli da lucide. Come una banda di bimbi iperattivi, che
se presi uno per uno, non erano poi così irrequieti. Guardai l’orologio.
Mi dissi “Fanculo....”. Era il caso di riportare in vita Calante.
Lo ritrovammo senza occhi, senza volto, senza corpo. Il cappellac-
cio tirato giù fino alla bocca, spalancata come quella di certe bambole
peccaminose. Quando aprì gli occhi, il suo risveglio fu quanto di più
lontano ci potesse essere da concetti come: dolcezza, serenità, calma
pacifica. Non ci furono domande del tipo: “Dormito bene?”, “Hai fatto
sogni d’oro?” ma ruggiti sgraziati che gli imponevano soltanto di “muo-
vere il culo, ché era tardi e non c’era tempo da perdere!”. Raccattammo
alla bell’è meglio la roba, poi lasciammo la foresteria e uscimmo a fare
un giro del parco, fuori.
I cani ci scortarono tutto il tempo. Salimmo a turno su un piccolo
palco di legno dove chiunque poteva improvvisarsi protagonista di una
piccola tragedia teatrale estemporanea. Bastava salire le scale. In mezzo
al palco c’era un grande trono scolpito in quello che era stato il tronco
di un albero. Scattammo qualche foto, seduti a turno lì in mezzo. Poi la
finimmo con quelle stronzate e ci incamminammo verso il palazzo reale.
Il Re ci aspettava da un pezzo. Aveva appena messo a bollire del
pollo, a giudicare dall’odore che proveniva da una pentolaccia che fu-
mava in un angolo della cucina. Mi guardai attorno e ricordai che lì
dentro ci avevamo passato qualche ora la notte prima. Poi ebbi i flash
delle bottiglie di vino che ci eravamo portati dalla chiesa e le rividi, pog-
giate sul tavolo di fronte. Erano rimaste così come le avevamo lasciate.
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L’imperativo categorico a quel punto era: ricordare di prendere quella
roba prima di levare l’ancora. Seguimmo il Re per il Palazzo e insieme
visitammo il suo museo dove sculture d’ogni genere ricavate da vecchi
mobili rimessi a nuovo riempivano l’equivalente di due enormi stanze.
Invidiammo la biblioteca. Desiderammo poter giocare anche noi nella
stanza dei giullari, dove da anni si metteva in ridicolo il sistema. Il giro
finì nello studio del re, l”a redazione immaginaria “ di Frigidaire. Ci
mettemmo comodi e ascoltammo il sovrano raccontarci altre storie. Le
sue battaglie, quelle vinte e quelle perse; gli eroi che combatterono in
nome della Repubblica di Frigolandia; quelli che per strada ci lasciarono
la pelle. Storie, storie, storie che assorbivamo come poppanti al seno
prima di addormentarsi nella culla. Ci rischiarammo alla luce del nostro
Re fatto d’erba e del suo Primo Cavaliere: Pasquale. Esperienze passate
che demolivamo per farne nostri i mattoni e, chissà, forse un giorno
li avremmo consegnati ad altri proprio come loro in quel momento
facevano con noi. La spada d’argento del sovrano sulle nostre spalle ci
indicava la via da seguire da lì in poi. Una strada dura, impervia, fitta di
pericoli insidiosi. Nemici nascosti ovunque e di pochi uomini avremmo
potuto fidarci veramente. Ma la ricompensa sarebbe arrivata. Qualcosa
di così grande e inaspettato che non avremmo più avuto bisogno di
nient’altro. Una vita non sprecata sarebbe stato il nostro premio. Una
vita vera.
Spensi l’ultima cicca, poi mi dissi “Fanculo...”. Abbracciammo Re
Sparagna e il fido Pasquale. Non ci furono lacrime, né sguardi tristi. Ave-
vamo un piano. Un piano che ci avrebbe portati a incontrarci ancora.
Bastava aspettare senza far finta di nulla. Salimmo in macchina e lev-
ammo l’ancora. Pochi chilometri più avanti mi venne sete. Mi guardai ai
piedi. Mi dissi “Fanculo! Il vino!”.
Calante VS Perugia:ultimo giro
(G. C.)
Per tutto il tragitto cercammo democrazia. Dove cazzo poteva es-
sere? Cercammo e cercammo. In un caffè slavato. In 10 tazze di caffè
d’orzo. In un mattino con un freddo cane. In un bicchiere d’acqua. In un
arancino senza piselli e ragù scivolato dalle mani insensibili di Carnera
e calpestato con sdegno. In un panino con la cotoletta di pollo. Nelle
bestemmie senza apparente motivo. In una piazzola di ristoro. Nella pis-
ciata di compagnia nella piazzola di ristoro. Nelle centinaia di sigarette
fumate e scroccate a vicenda, soprattutto nelle piazzole di ristoro. Nelle
lattine vuote che rotolavano dentro la macchina di Needermayer. Nel
compendio sul comunismo-fancazzismo-pagnottismo-‘ndranghetismo
realizzato da me e Amoddio sotto un tappeto di “vaffanculo stronzi,
voi e i vostri discorsi del cazzo”. Nel realizzare che siamo tutti democ-
ristiani. Nel Kit-Kat disciolto, lanciato e incollato sulla porta automa-
tizzata di un Autogrill. Nelle risate intervallate da perdite di sinapsi.
Nei kebab sbavati addosso. Nella scalinata del duomo di Perugia. Nel
mercato delle pulci domenicale. Nei mal di testa. Nelle cagate negli Au-
togrill. Nei “radio maghi” partenopei con doti paragonabili a quelle di
un Dio superiore.
Nel sole che se ti arriva in faccia ti ustioni ma se ti metti all’ombra
congeli. Nelle vie di una cittadina con troppe salite e nessuna fottutis-
Autori Appesi Frigo Tales
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sima cazzo di discesa. Nei cioccolatini artigianali che costano un occhio
della testa ma che vuoi portare a casa dalla tua ragazza altrimenti sei il
solito stronzo e allora ne compri solo 5 pensando di fare comunque bella
figura. In una chiesa sconsacrata. In parole dette troppo velocemente per
capirne il senso. In un eco che ti rimbomba troppo forte in testa. In un
tentativo andato a puttane di realizzare un reading alternativo nel cesso
della chiesa sconsacrata. Nel silenzio di terrore creato da Amoddio e le
sue preghiere rivolte al Signore, aspre, crude e nel contempo così can-
dide da sembrare recitate da un bambino in cerca di conoscenza da suo
padre, ma lasciate lì, senza alcuna risposta. Nelle liriche di Carnera, acri
e pungenti come il freddo tagliente di Gerace a Gennaio, smaliziate ma
tremendamente consapevoli e quindi, per forza di cose, intrise di sdegno
e rassegnazione come quella che avrebbe un ominide se si trovasse im-
provvisamente in un era post-industriale: non c’è un cazzo da capire. C’è
solo da trovare del cibo. Nel dialetto bagnarese di Needermayer, nelle
sue poche parole che come un pugno sferrato a sangue freddo ti arrivano
dritte nello stomaco e ti fanno mancare il fiato per lunghi interminabili
secondi della tua miserabile vita del cazzo passata a farti le pugnette
mentali senza capire neanche un pelo di quanta cazzo di bellezza cir-
condi il tuo insulso corpicino e soprattutto perché, porco di un Dio, tu
sei lì in mezzo e non guardi oltre il tuo naso.
In una proiezione di videoclip di dubbia qualità ma che qualcuno
riteneva intellettualmente fighi e, per questo, copiosamente fischiati da
noi 4 dell’oca selvaggia. Nei 10 litri di vino che i ragazzi di Frigidaire
poggiarono sul nostro banchetto, sbagliando grossolanamente. Nella
chitarra che mi prestò il Pezzente per l’occasione, che non suonai per
nulla, ma per scelta. Nella voglia di gustarsi il tutto stando dietro, senza
esporsi, ma partecipando da dentro, viverla come faceva George Har-
rison durante i concerti con i Beatles: lo spettacolo di Wembley o Man-
chester visto dal palco, contemporaneamente spettatore ed autore di
qualcosa che sarebbe rimasto nella storia, almeno nella nostra.
Perché è più giusto fare così in certi casi. Non esporsi ma osservare
ed ascoltare con entusiasmo. Perché cercare la democrazia è già di per
sé sbagliato, ma uno che cazzo, ci prova. E forse la trova nella torta al
formaggio dell’unico posto di Perugia che avesse una qualche similitu-
dine con le usanze calabresi: una bottega di generi alimentari. La nostra
identità: forse eravamo solo in cerca di questo.
Non so se qualcuno di noi l’abbia mai trovata, ma so in cuor mio
che oggi, ognuno di noi ha messo un tassello in più nella sua vita, e ora
ci sentiamo un po’ più grandi, un po’ più adulti e democratici, quel tanto
che basta per non incazzarti troppo se improvvisamente ti scoppia una
bomba dritta nel culo, perché alla fine hai capito. Ci sei arrivato. Avevi
solo bisogno di abituarti.
Autori Appesi Frigo Tales
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Amoddio, l’uomo nella botte in cerca di veritA’All’incontro ricordo che improvviso’un balletto a 2 con Carnera.
L’ultimo pieno democratico
(J. C.)
L’ago puntava a sud. Inesorabile. Needermayer guidava, io farnet-
icavo, Calante e Amoddio ci passavano da bere, seduti dietro. Mangi-
ammo qualcosa in un Autogrill sputato da qualche parte sull’autostrada.
In un altro comprammo del vino. 4 bocce di rosso e della birra. La mis-
sione era compiuta a metà. L’altra metà riguardava le nostre vite dalle
prossime ore in avanti. In ogni caso, niente da prendere sottogamba.
Nei pressi di Napoli ci sintonizzammo sulla frequenza di un santone
che guariva “puttane e guajoni” per meno di un euro al minuto senza
scatto alla risposta. Amoddio e il suo sorriso aspiravano Camel blu.
Calante e il suo cappellaccio di lana ancora in testa, una testa rasata per
caso. Needermayer e la sua barba priva di dubbi.
Era ormai buio quando trovammo la democrazia nascosta in una
stazione di servizio nei pressi di Villa San Giovanni, travestita da benzi-
naio. Ci disse qualcosa come:
«Su’ tutti i stessi. Cu ‘nchiana ‘nchiana pensa sulu mi si faci i cazzi soi.
Mi si faci fari nu pompinu».
«E di Callipo che ne pensi?»
«Se mi rava na scatoletta i tunnu ‘o jornu… u votava!»
Era molto più di quanto avessimo potuto preventivare, in
quell’ultima fermata prima di rientrare ognuno dentro i propri loculi.
Pagammo l’ingiusto per del diesel che non subiva i cali nonostante le
basse quotazioni del petrolio e il motore della nave fece il resto.
Frigo Tales
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Quattro animali feriti per le vie di una cittA’dal sorriso bizantinoe la voce Fioca di un impero sepolto dalle vecchie pietre.
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Superato da un bel pezzo il fatidico anno 000 non crediamo esista più
l’esigenza di smarrirsi tra i meandri semiconosciuti di un industria che
impacchetta la cultura, la veste da scolaretta, la pettina e dopo averla
lasciata all’ingrasso, la ritrova smunta e in balìa di pellicciose teste di
pazzo. Credendo invece che sia una ragazza di sana e robusta costituzi-
one vestiamo la cultura di una tenuta che induce ad una attenta oc-
chiata... Attenzione: affrontando i suoi occhi furbi correte il rischio di
innamorarvi!
CATALOGO PROPOSTE AUTOPRODUZIONI APPESE
00 NON UNA BUONA IDEA
La raccolta delle esperienze dei Reading “Parole A Peso” è anche la prima pubblicazione di Autoproduzioni Appese. Non una raccolta tematica e nemmeno una summa letteraria che possa far rabbrividire i costruttori di domani che ieri sembrano intenti a dimenticarlo. Piuttosto una diga capace di tenere a bada una totalità di fattori che potrebbero scoppiarvi alle spalle e che potrebbe far annegare le sparute speranze di sprovveduti pericolanti… Poesie e racconti di Autori (la A maiuscola non è un difetto del programma) tra i quali Francesco Villari, Pino Am-addeo, Hasael, Aldo La Serpe, Sergio Branca, Giacomo Giacomazzi, Kaar, Nando Primerano, Antonio Cardia… e molti altri.
01 ALDO LA SERPE – PREGHIERA DEL SUD
Cosa può succedere se lo sguardo da attento sul mare diventa vittima delle invasioni visionarie del demone Is? Ricalcitranti profezie di un macrocosmo racchiuse nelle pagine sofferte di un autore capace di toc-care senza paura le maledizioni che oscurano il cuore e l’ anima per condividere a colpi di mannaia la personale interpretazione di una realtà in declino. La prima parte della trilogia che in effetti ne è la parte cen-trale… In attesa di capire cosa l’abbia portato fin qui e dove effettiva-mente voglia guidarlo.
02 DARIO TIONE – 2003
Ad Ogre la vita trascorre nella certezza di una vita immortale. Gio-vani praticanti dell’impossibile felicità a comando e tasselli di futuro
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che incrociano i destini di una presa di coscienza che non può mai dirsi tarda ad arrivare. Lo scontro tra le menti superiori di Rege e Nàdir. La fine programmata al cospetto del Consiglio capace soltanto di formulare domande incoerenti attraverso la voce del Saggio Kaihlon, colonizzatore di concetti ai quali egli stesso fatica a dar credito.
03 PEPPE NOVELLO – CARACOL (Breve viaggio di una lumaca)
I tempi scanditi da passi lenti, coscienti e capaci di lasciare una traccia del proprio passaggio. Le dinamiche dell’assurdità di una vita vissuta freneticamente smontate in maniera serena e riconciliante dalla visione lucida della lumaca, simbolo di una sensibilità che gli altri animali sem-brano aver smarrito: “L’unica cosa che la rende triste sarebbe morire nell’indifferenza di un gesto incauto”.
04 PARCO SCENICO – ALICE NEL PAESE DELLA MONDEZZA (Commedia completamente riciclata)
Libera rilettura del classico di Lewis Carrol, del quale conserva la struttura fiabesca per riproporre il tema attualissimo della gestione dei rifiuti. In questo testo teatrale, frutto dell’esperienza di Parco Scenico (che vede coinvolti Autoproduzioni Appese ed il C.S.O.A. ”A. Car-tella”, già promotore di iniziative di sensibilizzazione in materia) le parti restano inevitabilmente assegnate i padroni intenti a restar pa-droni mentre tutti gli altri fanno la loro comparsata in un imperante di-mostrazione di forza gerarchica. Alice si perde tra le spirali capitalizzate da una Regina di Cuori signora della spazzatura e di un inceneritore che: “valorizza quanto un bikini valorizzerebbe mia nonna!”. I testi sono a cura del C.S.O.A. ”A. Cartella” in collaborazione con la Compagnia dei Folli. Le illustrazioni sono di Davide Casile.
05 EMILIO STRATI – LE FABBRICHE DEI SOGNI
Limpidi come provenienti da un risveglio eppure indotti alle consider-azioni che nel sonno hanno celato le essenze dell’essere uomo a contatto
con l’espressione dell’essere macchina. Senso di disgusto e appetiti che la sala mensa della Dreamco non potrà certo saziare. Faccia a faccia con il non-uomo che ci aspetta appena fuori il cancello dell’Industria-Stato.
06 LUCA “ZIO SKANF” SCANFERLATO – PENSIERI, PAROLE, OPERE E OMISSIONI
Stante che le quadrature non sono affare contemplato dal nostro tempo e che sarebbe preferibile approdare in un porto abbandonato ecco le pagine delle omissioni. Pensieri e parole ed opere sono indaffarate tra un vuoto esistenziale ed un peccato veniale. Cuscini tentatori, vite da mosca spezzate e ronzii fragorosi fanno da corollario alla prima raccolta di poesie dello Zio.
07 LO SBRONZO DI RIACE (In Vino Veritas… In Acqua Paritas)
“Pensa ad un mondo dove l’utilizzo di beni, comuni quanto vitali, come l’acqua sia soggetto alla catalogazione “Bene di Lusso”. Non ci sei an-dato lontano: alcune politiche mondiali ne stanno concentrando il con-trollo nelle mani di poche multinazionali. Questo mentre oltre un mil-iardo di persone non hanno accesso all’acqua potabile e, nel pianeta, si combattono una cinquantina di guerre legate al suo controllo. Di questa follia privatistica è afflitta anche l’Italia.” Ecco il perché del fumetto “Lo sbronzo di Riace”: una piccola storia di fantasia (ma con tanta, tanta, realtà) che nasce e si sviluppa a Reggio Calabria ma che potrebbe rappresentare ognuna di quelle centinaia di realtà locali che si sono unite nel “Forum dei movimenti per l’acqua”, per la difesa di questo diritto umano universale. Un linguaggio semplice e diretto affinché si possa condividere i termini di un problema che è di tutti: adulti e bambini. Un piccolo contributo a questa battaglia, per evitare che l’acqua arrivi a costare più del vino...
07 AUTORI APPESI - PECCATO PER LE ASSUEFAZIONI
Frigo Tales
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Per quale motivo pensare alla distrazione e non distrarsi definitiva-mente? Il pensiero di una quotidiana assuefazione è la linfa che scorre arborea in sostituzione del sangue. Vene iniettate dal pensiero e non più dal cuore. Vene nelle quali scorrono i tratti caratterizzanti di ognuno dei sette vizi capitali. Quattordici episodi scritti dagli Autori Appesi, espres-sione del Laboratorio letterario Parole a Peso, per InScena Magazine e qui raccolti tutti insieme.
08 AUTORI APPESI - ANCHE TU AMI CIRIACO?
L’idea era quella di parlare d’amore: ”Ah, l’Amore!”. Ma cosa accade quando le sfaccettature del sentimento ti costringono a rivedere le pri-orità? Cosa accade nella mente di uno stalker impazzito per la passione non corrisposta o in magari in una storia in cui qualcuno (tu?) faccia come oggetto del suo amore un fantasma, un cane, un iguana, un male-detto feticcio che mi porto in tasca come mio nonno fece per tutta la sua vita prima di lasciarmelo in eredità. Ecco una raccolta di storie d’amore, dell’amore che è fissazione e guida verso il baratro del Para-diso: l’amore chiamato Ciriaco! Anche tu ami Ciriaco?
Più s imi l i a l l a ve rs ione ma l r iusc i t a d i un o r igami ne l l e man i d i un ma la to
d ’A l zhe imer, che a g iovan i sp i r i t i poe t i c i dec is i a conqu is ta re i l mondo.
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