Fratelli di Gesù. LE BEATITUDINI IL VANGELO DELLA FELICITA.

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LE BEATITUDINI IL VANGELO DELLA FELICITA’

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BEATI GLI AFFLITTIPERCHE’

SARANNO CONSOLATI

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Nell’introduzione del Vangelo secondo Matteo al capitolo 5 leggiamo: «Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo: «Beati i poveri in spirito, (...)». Questa introduzione è molto solenne ed ha un’importanza notevole come significato. Innanzitutto, viene detto che Gesù «sale sulla montagna»: la montagna ha un significato simbolico, è la terra che si protende verso il cielo, è la salita, è quasi il punto d’incontro fra la terra e il cielo, fra il basso e l’alto.

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La montagna è sempre stata il luogo simbolico dell’incontro con il divino: pensate alla grande simbologia del Sinai, il monte su cui il Signore si rivela. Gesù sale sul monte, non come Mosè per ricevere la legge da Dio - certe volte viene detto questo, ma non è corretto - Gesù non sale sul monte come Mosè, ma per assumere il ruolo di Dio, perché lui, dalla montagna, darà la legge, che ha la caratteristica di non essere una legge, ma una «buona notizia». Proprio partendo da questo particolare, si sottolinea che si tratta di un «discorso della montagna» ed è diventato noto con questa espressione.

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I primi tre capitoli di questo testo, i capitoli 5 - 6 - 7, sono infatti noti come «il discorso della montagna»: è il fondamento della nuova legge, è la proclamazione della nuova legge, che si differenzia notevolmente dalla legge di Mosè, proprio per il fatto di non essere una legge ma un dono di grazia, è Vangelo, è la «buona notizia».

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La raccolta delle beatitudini, abbiamo detto, è una raccolta redazionale, cioè è opera della comunità primitiva: Gesù deve avere ripetuto con insistenza queste formule in molte occasioni differenti e anche con diverse sfumature. Ogni formula di beatitudine riprende le altre e, in sostanza, tutte trasmettono lo stesso messaggio.

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L’elemento importante su cui cade l’attenzione dell’annuncio è proprio il motivo, la causa della beatitudine. Abbiamo visto la volta scorsa la prima: «Beati i poveri in spirito (...)», ma la beatitudine non sta nell’essere poveri, bensì nel fatto che loro è il regno dei cieli. La causa è l’elemento determinante: l’appartenenza al regno dei cieli determina la felicità, la beatitudine. I «poveri in spirito», dicevamo, sono coloro che hanno coscienza della propria povertà, ma non è questa l’origine della felicità: possono riconoscere di essere poveri per il fatto che appartiene a loro il regno dei cieli, hanno un’altra ricchezza, un appoggio che garantisce la loro vita.

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Gli afflitti

Queste considerazioni devono essere fatte ancora di più a proposito della seconda beatitudine: «Beati gli afflitti, perché saranno consolati».

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La beatitudine non sta sicuramente nell’afflizione, non è nell’essere afflitti che si trova la radice della beatitudine o della felicità, sarebbe un controsenso: la felicità è annunciata nel fatto che saranno consolati. Noi sappiamo che la formula è un «passivo divino», si dice così, cioè è un modo per evitare il nome di Dio: corrisponde all’altra affermazione: «Dio li consolerà, Dio sarà il loro consolatore». La felicità, la fortuna, la beatitudine sono dovute proprio a questo intervento consolatore di Dio.

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Ma, prima di sviluppare l’idea della consolazione, dobbiamo chiarire il concetto di «afflizione», cioè che cosa si intende per «afflizione», chi sono gli «afflitti».

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Non possiamo generalizzare parlando dei sofferenti in genere, per cause fisiche. Si tratta di un tipo speciale di afflizione e, per poterlo comprendere, dobbiamo, come al solito, fare una ricerca di approfondimento biblico; dobbiamo cioè andare a vedere dove, nella Bibbia, si trova la stessa espressione per potere avere dei chiarimenti. Si tratta infatti di una frase che, in se stessa, è indifesa, non si spiega.

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Occorre allora partire dal testo originale, quello greco, dove si trova un verbo che è abbastanza raro e, in genere, viene tradotto con «fare lutto»: è il verbo che indica una situazione di dolore morale, di lutto, di sofferenza, di angoscia.Nel Nuovo Testamento questo verbo ricorre in tutto dieci volte; purtroppo non si tratta di lavoro che si possa fare sul testo in italiano perché il termine non viene tradotto, spesso, con «afflitti», per cui si perde il riferimento. Si tratta quindi di cosa da addetti ai lavori, per cui è necessario che vi fidiate.

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In queste poche ricorrenze del termine nel Nuovo Testamento, parecchie volte è relativo alla morte ed ha proprio il significato dell’essere in lutto. Ad esempio, nel Vangelo di Marco, lo si dice dei discepoli che sono afflitti per la morte di Gesù: il mattino di Pasqua vengono trovati in una situazione di afflizione.

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Proviamo allora ad immaginarci lo stato d’animo dei discepoli il giorno di Pasqua, prima dell’incontro con il risorto: sono nello stato d’animo degli afflitti perché hanno perso una persona cara, perché il loro attaccamento a Gesù li ha portati ad una delusione, all’amarezza, al dolore della perdita, al sentimento di fallimento.

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In un altro passo del Vangelo di Matteo si dice che i farisei rimproverano Gesù perché i suoi discepoli non fanno digiuno e Gesù risponde: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto mentre lo sposo è con loro?» - quel verbo «essere in lutto», in greco, è lo stesso con cui qui traduciamo «gli afflitti» - «Verranno però i giorni quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno» (Mt 9, 15). Il termine ricorre spesso nell’Apocalisse, proprio per indicare il fallimento di Babilonia, la città simbolica del male: la caduta di Babilonia produce una reazione di afflizione perché è finito un certo mondo (Ap 18, 7.8.11.15.19).

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Soprattutto però il termine ricorre a proposito del peccato; ad esempio nella lettera di Giacomo si invita a riconoscere i peccati e a piangere su di essi, ad affliggersi per i propri peccati (Gc 4, 8-10).C’è un’altra espressione interessante nella prima lettera ai Corinzi, quando Paolo si rivolge a quella comunità dicendo: «Si sente dovunque parlare di immoralità tra voi, e di una immoralità tale che non si riscontra neanche tra i pagani, al punto che uno convive con la moglie di suo padre. E voi vi gonfiate di orgoglio, piuttosto che esserne afflitti, in modo che si tolga di mezzo a voi chi ha compiuto una tale azione» (1Cor 5, 1-2).

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È una situazione di grave immoralità vissuta da un personaggio della comunità cristiana di Corinto, che pure ha degli impegni, delle responsabilità ecclesiali, ma vive male, vive nel peccato, e Paolo dice ai Corinzi che dovrebbero essere afflitti per la sua situazione.

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Sono sufficienti queste esemplificazioni per richiamare queste due grandi idee: l’afflizione, nel Nuovo Testamento, viene collegata alla perdita di una persona cara, oppure alla situazione di peccato; è l’afflizione per una situazione negativa, di male, è il dolore che si prova nel vedere un comportamento negativo o nel riconoscere il proprio comportamento negativo.

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Credo che convenga concentrare la nostra attenzione proprio su questo fatto: l’afflizione è legata al peccato, è il dolore che si prova per il peccato. Ci è stato insegnato a dirlo, nell’atto di dolore nella formula comune: «Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati (..)»; è una forma strana quel «dolgo», ma è legata al verbo dolere, cioè sentire dolore.

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Nel linguaggio corrente, «provare dolore» equivale in pratica a «mi dispiace», un’espressione che si usa quando si provoca un danno a qualcuno ed ha un significato proporzionale all’entità del danno che abbiamo provocato. Il pentimento è strettamente legato al dolore - non si può essere pentiti di qualcosa senza provarne dolore - è strettamente legato al dispiacere per un’azione, per un comportamento, per una parola di troppo.

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L’espressione «mi dispiace» è un modo con cui chiediamo scusa e, se non è formale, corrisponde ad uno stato d’animo reale, c’è un dolore: questa è l’afflizione di cui si parla. Di fatto, però, può capitare che, di fronte a certe situazioni di male, non ci sia il dispiacere; è possibile che non si provi dolore o che lo si rifiuti, negando questa realtà di male, non riconoscendola, ancorché se ne sia stati la causa.

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Questo è un discorso legato al peccato, al mio peccato, ma può essere legato anche al peccato di altri. Pensate a qualche situazione in cui provate dolore per il peccato commesso da altri; non si tratta di cosa comune, in genere si può essere indignati dall’atteggiamento altrui. Ad esempio, si conosce una persona che ha un ruolo sociale importante e sapete che è disonesto, che fa male il suo lavoro: è più facile provare indignazione o disprezzo, piuttosto che dolore.

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Il dolore per il male commesso dagli altri è fortemente legato all’affetto che voi avete per quelle persone: se quella persona che si comporta male è legata a voi per parentela vi dispiace di più, diminuisce l’aspetto del disprezzo, della critica, dell’indignazione e aumenta il dispiacere, cioè un atteggiamento di sofferenza. Più la persona è legata a me, più le voglio bene e più mi dispiace se si comporta male.

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Pensate, come genitori, alla differenza fra ciò che sentite dentro vedendo due ragazzi che si comportano male, uno che conoscete solo di vista e uno che è vostro figlio: c’è un abisso di differenza nella reazione. La stessa azione compiuta da un ragazzo produce in voi un effetto molto diverso se quel ragazzo è uno sconosciuto oppure se è vostro figlio; l’azione è la stessa, l’età è la stessa e quindi dovreste reagire ugualmente, ma non è affatto così: se si tratta di vostro figlio, prima di tutto ne siete afflitti, sentite dentro un dolore perché si comporta male, e questo dolore è legato all’affetto.

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Ugualmente, pensate al problema del lutto, dell’afflizione per la morte di una persona; anche se si tratta di cosa ovvia, vale la pena di sottolinearla perché è importante. Alla notizia della morte di una persona che non è legata a voi reagite in un modo sereno ed esprimete un dispiacere che può anche essere formale. Pensate invece al tipo di reazione che si prova a mano a mano che quella persona si avvicina alla nostra vita ed è legata a noi: la differenza di reazione di fronte alla morte dipende dal nostro legame con quella persona. È il grado di affetto che c’è tra noi e quella persona che determina il dolore, per cui si soffre di più se la persona è più cara: più è cara più la sua morte fa soffrire, più il suo peccato fa soffrire.

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In questo senso noi dobbiamo parlare di «afflizione evangelica». Gesù dunque dice «Beati gli afflitti» facendo riferimento alla partecipazione al dolore altrui come forma di partecipazione alla sofferenza; è una partecipazione alla situazione negativa: si soffre per la malattia dell’altro, si soffre per la morte dell’altro, si soffre per il peccato dell’altro, proprio come partecipazione.

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E si soffre per il peccato proprio perché lo si intende come una malattia o una morte. Questa sofferenza legata al peccato richiede un legame affettivo con Dio: non c’è esperienza di afflizione, di dolore per il peccato se non c’è un rapporto di amore con Dio. Ancora nell’atto di dolore diciamo che «mi dispiace soprattutto perché ho offeso te, infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa»; mi dispiace proprio perché ti voglio bene, perché c’è una relazione affettuosa che mi lega fortemente a te e quindi mi dispiace di aver fatto il male proprio perché ti voglio bene.

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Allora, tirando le conseguenze di ciò che abbiamo detto prima, il dolore per il peccato è strettamente legato alla relazione di affetto che esiste con Dio. La morte di una persona che non ci interessa, che conosciamo superficialmente, ma che non entra nella nostra vita, è semplicemente un dato di cronaca, che non ci turba, non ci tocca, lo registriamo come un fatto normale. Succede a tante persone di vivere il peccato, magari il peccato grave, come un fatto normale, senza implicazioni, senza un rilievo: lo si fa e non se ne sente niente. E questo avviene perché manca una relazione affettuosa con Dio, manca un rapporto stretto, manca una parentela, manca un’amicizia.

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Allora quando si sente dire, e succede spesso, che «oggi non c’è più il senso del peccato», credo che la diagnosi non sia del tutto corretta; sarebbe meglio dire che non c’è più il senso di Dio. La strada da compiere non è far venire il senso del peccato, cioè non è spiegando ciò che è bene e ciò che è male che si fa recuperare il senso del peccato; e non è neppure ciò che interessa primariamente recuperare il senso del peccato. In altre parole, non è dicendo a qualcuno che una certa azione è peccato mortale che questi prova dolore facendola.

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L’unica strada possibile è quella di recuperare il senso di Dio, senso anche come relazione, sentimento, affettuoso legame. Nel momento in cui si è veramente affezionati a lui, gli si è legati, si sente il peccato.

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Qualcuno potrebbe allora dire che è meglio non sentirlo, è meglio essere più distaccati; ed è vero, può capitare, questa è proprio la situazione abituale in cui ci si viene a trovare spesso. Partendo da questa idea che il legame affettivo stretto produce dolore, quale soluzione potreste indicare per evitare il dolore? Raffreddando le relazioni, stringendo meno relazioni affettuose, essendo un po’ più freddi e distaccati, si soffre meno.

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Capita, ad esempio, nella relazione infantile che un bambino senta la mamma come una traditrice perché, o per motivi di lavoro o per ragioni di salute, ha dovuto lasciarlo a casa con qualcun altro e si è assentata per qualche giorno; il bambino piccolo sente questa mancanza, non serve spiegargli perché la mamma ha dovuto allontanarsi da casa, non capisce e nella sua mente sta vivendo un tradimento, un abbandono. Probabilmente la mamma al rientro a casa ha una grande voglia di riabbracciare il bambino e sperimenta una strana reazione: il bambino si volta dall’altra parte e fa l’offeso.

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Questo atteggiamento ha breve durata, in genere si dice che dura in proporzione alla sofferenza che ha nutrito, sta rilasciando questo segno di vendetta, di punizione del tradimento che ha ricevuto. In qualche modo sta dicendo: «Io mi sono impegnato con te, io mi sono dato, e tu mi hai trattato in questo modo! Te la faccio pagare!». È una mentalità talmente radicata che si riscontra nel bambino, proprio nelle prime fasi della sua vita; ma questa mentalità cresce con lui e diventa una situazione, forse non risolta, che segna un limite della sua persona.

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Vi è certamente capitato, dopo aver fatto una determinata cosa, di essere intenzionati a non ripeterla più: è una situazione in cui uno si è compromesso ed ha provato fatica senza ottenere soddisfacenti risultati, si è stancato e non vuole più rivivere tale situazione. Oppure, a qualcuno è capitato di provare una delusione affettiva e di decidere, conseguentemente, di non allacciare più alcun tipo di legame. Si tratta di esperienze negative, che hanno fatto soffrire perché si era sviluppato un forte legame e che producono, come tentativo di soluzione, il distacco.

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Visto che innamorarsi può portare alla sofferenza, è meglio non innamorarsi; essere molto amico di una persona, essere generoso e trattarla bene ha portato poi all’ingratitudine, ha fatto soffrire, per cui è meglio non legarsi più. C’è un salmo in cui si dice che il tradimento di una qualsiasi persona potrebbe anche essere sopportabile, ma non il tradimento di un amico, di un confidente, di una persona con cui si camminava insieme: in questo caso si soffre molto di più, perché il tradimento è venuto da un amico.

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La Consolazione

Le beatitudini non sono degli imperativi morali e questo è un caso chiarissimo: voi potete tranquillamente tradurre in imperativi le altre - ad esempio, si potrebbe dire «siate misericordiosi», «dovete essere operatori di pace» - ma non si potrà mai affermare «dovete essere afflitti»; con il verbo «dovere» non funziona assolutamente.

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Non è pensabile che Gesù affermi «dovete essere afflitti!», non è pensabile, non è Vangelo. Allora qui, meglio che in ogni altra beatitudine, emerge con forza il senso di «potere», di disponibilità.

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Gesù non dice «dovete essere afflitti», ma dice «potete essere afflitti». Cerchiamo allora di capire che cosa intende Gesù con questa espressione, recuperando tutto quanto abbiamo detto finora: «Potete stringere relazioni umane autentiche, potete davvero darvi con generosità, potete legarvi alle persone senza paura della delusione, dell’amarezza, del rifiuto. Non abbiate paura di soffrire perché amate. Potete lasciarvi raggiungere da questa sofferenza perché la vostra consolazione è Dio».

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Ecco l’elemento importante, è la seconda parte: «saranno consolati», cioè Dio li consolerà.Il verbo greco «consolare» è il verbo del Paraclito, è il verbo dello Spirito Santo, il Consolatore; e la consolazione è la presenza di Dio che riempie la vita, è quell’elemento affettivo forte che offre la capacità di resistere, di sopportare anche il male, è quella relazione affettuosa che non delude, che non viene meno. È lui il fondamento!

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Allora, la «buona notizia» risiede nel fatto che il fondamento della tua persona, nelle sue dimensioni sentimentali e affettive è il Signore, è lui il fondamento del tuo amore, è lui la garanzia che il tuo amore non è semplicemente egoismo: è la sua presenza la consolazione. Lo si trova nell’Antico Testamento molte volte: «Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio» (Is 40, 1), «Il Signore mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai poveri, (...) a consolare tutti gli afflitti» (Is 61, 1-2). È la missione di Gesù essere il consolatore degli afflitti, essere quella presenza potente di Dio che dà senso, che dà il coraggio di affrontare anche la perdita, anche il peccato; che crea quel rapporto forte di amore: «Come una madre consola un figlio, così io vi darò consolazione» (Is 66, 13). Qui emerge l’immagine materna di Dio: è tipico della madre consolare, si cerca il rifugio nella mamma.

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È l’immagine, che avete negli occhi, del bambino che ha paura, che ha sofferenza, che ha qualche problema, e che corre ad aggrapparsi alla mamma o al papà: cerca rifugio, cerca consolazione, si attacca lì; se ci sono i vestiti che lo permettono, si infila dentro perché ha bisogno di questa copertura, di questo avvolgimento.

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E noi siamo bambini in questo modo nei confronti di Dio, è lui il nostro consolatore, è il porto di rifugio sicuro, è la garanzia; è questo che annuncia Gesù: «Dio Signore onnipotente è dalla vostra parte, Dio è il vostro consolatore, Dio come papà, Dio come mamma è dalla vostra parte, è il vostro coraggio, è la vostra difesa; potete avere il coraggio di stringere relazioni forti, autentiche. Rischiate tranquillamente, compromettetevi, donate la vita, abbiate questo coraggio.

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Abbiate proprio questo legame affettuoso con lui e allora rischierete di soffrire per il peccato; certamente, più volete bene a Dio e più soffrite per il vostro peccato, per la vostra solitudine, per il peccato delle persone care. Ma la soluzione non è l’indifferenza, anzi, questa è la beatitudine. E noi crediamo che Gesù ha ragione, crediamo che fonte della beatitudine è proprio questa capacità di essere legati a lui affettuosamente uniti, col rischio di soffrire di più!

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Potete, beati voi, perché Dio è il vostro consolatore. Ma il consolatore divino ha come caratteristica fondamentale proprio quella di essere creatore: in quanto tale può cambiare la situazione, crea in noi un cuore nuovo, uno spirito nuovo ed è lui stesso che entra in questa nostra storia.

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C’è un bellissimo brano di Osea in cui Dio parla come un padre deluso: «Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li amavo, più si allontanavano da me; (...). Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, (...), ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Os 11 1-2a.3a.4b) - sono tutte immagini di tenerezza tipica del genitore con il bambino piccolo - «ma essi non compresero che avevo cura di loro. (...) Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto nessuno sa sollevare lo sguardo. Come potrei abbandonarti Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? (...) Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Os 11, 3b.7-8).

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Dio è un essere affettuoso che si lega profondamente, e si lega ad Israele con questo affetto talmente grande che sente le proprie viscere muoversi, sente il cuore battere più forte solo all’idea di intervenire contro. Il popolo non se ne accorge, è ingrato; Dio è deluso, sente questa sofferenza perché, avendo dato tanto affetto, sente di più il rifiuto, in proporzione all’affetto che ha dato sente di più l’ingratitudine del rifiuto. Ma nonostante tutto questo non abbandona e non punisce il suo popolo, ma si compromette fino in fondo: più lo rifiutano e più si dona, fino all’incarnazione, fino a condividere la sorte umana in tutto.

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E nel momento in cui Dio entra proprio in questa passione totale dell’uomo, l’uomo lo schiaccia fino in fondo e lo ammazza. È lui il primo ad avere il coraggio di essere afflitto, è Gesù che ha il coraggio di relazioni forti, di solidarietà tale che gli può costare la pelle; ma proprio perché Dio è il suo consolatore trova questo coraggio e allora, in questo Dio che è il Padre di Gesù, noi troviamo la rivelazione dell’autentica paternità, comprendiamo che cosa voglia dire amare davvero, donare la propria vita.

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«Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri» (Rm 12, 15-16a). È quella capacità che suggerisce San Paolo di riuscire a legarsi alle persone sapendo condividere la loro esperienza, col rischio di soffrire. Abbiate il coraggio di soffrire per amore; beati voi! Dio è il vostro consolatore, su di lui contate sempre e poi amate sul serio anche se ciò vi farà soffrire: in questo sarete beati.

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