Francesco Fausto Nitti, l’uomo che beffò Mussolini ed ... · ritengo doveroso tracciarne una...

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18 Francesco Fausto Nitti, l’uomo che beffò Mussolini ed Hitler nella sua “battaglia” in Europa NEL TRENTESIMO DELLA MORTE Le nostre storie Ricorrono trent’anni dalla morte di Francesco Fausto Nitti, uno dei più attivi antifascisti italiani che forse non ha avuto quel riconoscimento che un’esistenza spesa per la causa della libertà meritava. Per colmare questa lacuna ritengo doveroso tracciarne una biografia. multuosi; aveva quindici an- ni quando scoppiò la prima guerra mondiale. Il 12 marzo 1917, a dicias- sette anni compiuti, si ar- ruolò come volontario ordi- nario senza visita per la du- rata della ferma nel 13° Reggimento artiglieria da campagna. Il 18 agosto, no- minato caporale, raggiunse il reparto, schierato a difesa delle valli del Cadore. Partecipò dapprima ad azio- ni volte a contenere l’avan- zata austro-tedesca dopo la rotta di Caporetto, ed infi- ne alla vittoriosa controf- fensiva del novembre 1918. Per il suo esemplare com- portamento fu promosso al grado di sergente ed insi- gnito della Croce al merito di guerra. Ritornato civile, conseguì il diploma di ma- turità classica e, dopo es- sersi iscritto alla facoltà di Giurisprudenza presso l’U- niversità di Roma, s’impiegò presso la Banca commer- ciale triestina nella filiale di via del Corso. Francesco Fausto Nitti nac- que il 2 settembre1899 a Pisa. Il padre Vincenzo era un pastore evangelico della Chiesa metodista episcopa- le Italiana, anche la madre proveniva da una delle prime famiglie protestanti della Toscana, dalla loro fede re- ligiosa egli riconoscerà de- rivargli quel rigore morale che lo caratterizzerà per tut- ta la vita. Dal protestantesi- mo imparò soprattutto il ri- spetto e l’amore per la li- bertà dell’individuo, come primo fondamento di pro- gresso umano e di civiltà e l’avversione per ogni forma di violenza. La famiglia se- guì il padre nei trasferimen- ti nelle varie città dove era chiamato a svolgere la sua missione pastorale, prima a Torino, quindi a Livorno ed infine a Roma, dove Fran- cesco Fausto frequentò il li- ceo classico. L’adolescenza e la gioventù trascorsero in quest’ambiente severo e se- reno allo stesso tempo, ma l’Europa viveva momenti tu- di Pietro Ramella

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Francesco Fausto Nitti, l’uomoche beffò Mussolini ed Hitlernella sua “battaglia” in Europa

NEL TRENTESIMO DELLA MORTE

Le nostrestorie

Ricorrono trent’anni dalla morte di Francesco FaustoNitti, uno dei più attivi antifascisti italiani che forse nonha avuto quel riconoscimento che un’esistenza spesa perla causa della libertà meritava. Per colmare questa lacunaritengo doveroso tracciarne una biografia.

multuosi; aveva quindici an-ni quando scoppiò la primaguerra mondiale. Il 12 marzo 1917, a dicias-sette anni compiuti, si ar-ruolò come volontario ordi-nario senza visita per la du-rata della ferma nel 13°Reggimento artiglieria dacampagna. Il 18 agosto, no-minato caporale, raggiunse ilreparto, schierato a difesadelle valli del Cadore.Partecipò dapprima ad azio-ni volte a contenere l’avan-zata austro-tedesca dopo larotta di Caporetto, ed infi-ne alla vittoriosa controf-fensiva del novembre 1918.Per il suo esemplare com-portamento fu promosso algrado di sergente ed insi-gnito della Croce al meritodi guerra. Ritornato civile,conseguì il diploma di ma-turità classica e, dopo es-sersi iscritto alla facoltà diGiurisprudenza presso l’U-niversità di Roma, s’impiegòpresso la Banca commer-ciale triestina nella filiale divia del Corso.

Francesco Fausto Nitti nac-que il 2 settembre1899 aPisa. Il padre Vincenzo eraun pastore evangelico dellaChiesa metodista episcopa-le Italiana, anche la madreproveniva da una delle primefamiglie protestanti dellaToscana, dalla loro fede re-ligiosa egli riconoscerà de-rivargli quel rigore moraleche lo caratterizzerà per tut-ta la vita. Dal protestantesi-mo imparò soprattutto il ri-spetto e l’amore per la li-bertà dell’individuo, comeprimo fondamento di pro-gresso umano e di civiltà el’avversione per ogni formadi violenza. La famiglia se-guì il padre nei trasferimen-ti nelle varie città dove erachiamato a svolgere la suamissione pastorale, prima aTorino, quindi a Livorno edinfine a Roma, dove Fran-cesco Fausto frequentò il li-ceo classico. L’adolescenzae la gioventù trascorsero inquest’ambiente severo e se-reno allo stesso tempo, mal’Europa viveva momenti tu-

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fuori Roma, dove era statoritrovato il cadavere, atti-rando l’attenzione della po-lizia politica. Il 1° dicembre1926 fu tratto in arresto econdannato – senza proces-so – a cinque anni di confi-no; dapprima venne inviatoall’isola di Lampedusa ed inseguito a quella di Lipari.Visse la difficile vita dei con-finati, in un contesto che nonoffriva molte alternative,sempre sottoposti alle an-gherie dei guardiani.

Un mazzo di fiori alla Garbatelladove fu trovato cadavere Matteotti

La sua situazione miglioròquando arrivarono nell’i-sola, alla fine del 1927,Carlo Rosselli ed EmilioLussu, con i quali strinseuna grande amicizia.Insofferenti della carcera-zione i tre, grazie ad im-portanti contatti in Italia edall’estero, progettarono l’e-vasione dal confino. Dopo un primo tentativo fal-lito, l’impresa riuscì il 27luglio 1929. Un motoscafoproveniente dalla Tunisia,guidato da Nino Oxilia, cheaveva già partecipato al riu-scito espatrio di FilippoTurati, s’avvicinò notte-tempo a Lipari e, presi a bor-do i tre fuggiaschi, partì atutta velocità verso l’Africa.Di qui i tre raggiunseroParigi, dove furono al cen-tro dell’attenzione dell’o-pinione pubblica mondia-

le, per essere riusciti farsibeffe di Mussolini e del suoapparato poliziesco.Ognuno di loro pubblicò unracconto dell’avventurosafuga; Nitti pubblicò una suaautobiografia che, stampa-ta in inglese, francese, te-desco e svedese, ottenne unbuon successo di vendite.Grazie alla sua adesione al-la Massoneria fu accoltonell’ambiente dei libero-muratori, tenendo numero-se conferenze in logge d’ol-tralpe. Fu uno dei fondatori del mo-vimento Giustizia e Libertà,divenendone uno dei re-sponsabili. Nel frattempoaveva sposato AmerigaD’Angelo, una maestra ele-mentare, che aveva cono-sciuto in Italia e che, dopola sua evasione, era riusci-ta ad espatriare clandesti-namente. Ebbe inizio la dura esisten-za dell’esiliato, in cui co-niugò l’impegno politicocon le diuturne difficoltàdella vita – nacquero nelfrattempo due figli – cam-biando diversi lavori e la-sciando infine Parigi per unimpiego a Périgueux.

Il burrascoso periodo del do-poguerra lo vide semplicetestimone finché l’uccisio-ne di Giacomo Matteotti lospinse a prendere decisa-mente posizione contro il fa-scismo e ad esporsi in pri-ma persona costituendo unasocietà segreta che divulga-va volantini antifascisti. Resevisita alla vedova del depu-tato socialista e si recò, nel-l’anniversario della sua mor-te, a portare un mazzo di fio-ri alla Garbatella, la località

L’evasione dal confinocon Carlo Rosselli ed Emilio Lussu

Il lasciapassare di FrancescoNitti, rilasciato dal ministerospagnolo della Difesanazionale, che attestava il grado di comandante dibattaglione, autorizzandoloalla detenzione di un’armacorta anche in abiti civili.

Il pellegrinaggio sul luogo del delitto Matteotti. Nitti si recò, nell’anniversariodella morte, a portare unmazzo di fiori alla Garbatelladove era stato ritrovato il cadavere, attirandol’attenzione della polizia.

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Francesco Fausto Nitti, l’uomo che beffò Mussolini ed Hitler

Nel marzo 1937 raggiunsela Spagna repubblicana, cheda sei mesi era in lotta con-tro i generali ribelli, dovegli venne assegnato il co-mando di un battaglione dianarchici che nelle prece-denti azioni aveva subito pe-santi rovesci. Riorganizzata,con molta difficoltà, l’unitàpartecipò al fallito tentati-vo della conquista di Huescanel giugno 1937, nel setto-re di Alerre e Chimillas, afianco alla XII Brigata inter-nazionale Garibaldi; feritonel corso dello scontro fu ri-coverato in ospedale per cir-ca tre mesi. Prese successi-vamente parte all’offensivain Aragona dell’agosto, par-tecipando prima alla con-quista della città di Codo epoi a quella di Belchite, unadelle più dure e sanguinosebattaglie della guerra diSpagna. Trasferito alla 140ªBrigata mista fu coinvoltonella grande ritirata (mar-zo-giugno 1938), che portòalla divisione tra le provin-ce centrali e la Catalogna,combattendo dapprima nelsettore di Caspe poi proteg-gendo il ritiro delle truppe

repubblicane attraverso ilponte di Fraga. Trasferito adun’unità di artiglieria, preseparte, nel luglio, alla batta-glia dell’Ebro, comandan-do una batteria di cannonidislocata di fronte aGandesa. Nel settembre 1938 per ef-fetto del ritiro dei volontaridalle unità repubblicane, futrasferito al campo di rac-colta di Car de Deu. Coin-volto nella Retirada entròin Francia, ma non poté riu-nirsi alla sua famiglia ve-nendo internato al campo diArgelés-sur-Mer dove ebbeil comando del settore deireduci delle Brigate inter-nazionali. Per aver protestato con le au-torità francesi per l’inuma-no trattamento riservato aicombattenti di Spagna, fuclassificato homme extrémi-ste et dangereux ed incarce-rato per punizione nel ca-stello di Collioure. In pri-gione fu promotore di unosciopero della fame dei de-tenuti, ma per la pressionedella pubblica opinione fuliberato e poté riunirsi allafamiglia.

seignements et d’action del-la Francia libera.L’arresto nel dicembre 1941di uno dei componenti delreseau Bertaux portò al fer-mo dell’intero gruppo tracui anche Nitti. Processatocon gli altri nel luglio 1942venne condannato ad un an-no di carcere. Detenzioneche scontò nelle prigioni diLodéve, Mauzac e Saint-Suplice-la-Pointe. Alla finedella pena non fu liberato,ma quale étranger dange-reux fu inviato al campod’internamento di Vernetd’Ariège. Rimase nel campo fino al30 giugno 1944 quando i te-deschi prelevarono tutti gliinternati rimasti, in gran par-te inabili ad ogni lavoro, perdeportarli in Germania, conquello che passerà alla sto-ria come le Train Fantôme.Il convoglio partito da Tolosail 2 luglio impiegò cin-quantotto giorni per rag-giungere il campo di ster-

minio di Dachau. Nel cor-so del viaggio un centinaiodei circa settecento deportatiriuscì in modi diversi a fug-gire. Nitti scappò dopo avertolto alcune tavole dal pa-vimento del vagone si calòtra le rotaie mentre il con-voglio viaggiava nell’HauteMarne. Raggiunta la Resistenza, siarruolò nel maquis deVarenne-sur-Amance fino aquando fu smobilitato il 29agosto. Per il suo contribu-to alla causa della libera-zione della Francia fu insi-gnito della Médaille de laRésistance e della Croix deGuerre. Raggiunta la fami-glia a Tolosa, nel 1946 rien-trò in Italia. Ricoprì diverse cariche inAssociazioni antifasciste,fu direttore della rivistaPatria Indipendente e con-sigliere comunale di Roma. Morì il 28 maggio 1974,giorno della strage fascistadi Brescia.

Nel 1941, mentre stava pro-gettando di andare inMessico, aderì ad un movi-mento di dissidenza al go-verno filonazista di Pétain,

divenendo responsabile delServizio materiali e distru-zioni di una rete d’infor-mazione clandestina, lega-ta al Bureau central de ren-

Dopo Parigi la Spagna, al comandodi un battaglione di anarchici

La lotta clandestina in Franciacontro il governo collaborazionista

Il lasciapassare di Nittirilasciato, sotto falso nomedal Bureau central derenseignements et d’actiondella Francia libera.

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La vita di Ines Gerosa.Tre carceri e quattro lager,poi il ricordo con i ragazzi

È SCOMPARSA RECENTEMENTE A CINISELLO (MILANO)

Le nostrestorie

In una calda sera d’estate Ines Gerosa ci ha lasciati.Se n’è andata in silenzio come in silenzio ha vissutogli ultimi anni della sua vita, ormai sopraffatta dallamalattia. I patimenti subiti durante la deportazione ave-vano minato da tempo la sua salute. Lei, che era sem-pre stata attiva, piena di entusiasmo.Nel 1992, alla presenza di Nilde Iotti, allora presiden-te della Camera, i democratici di sinistra di CiniselloBalsamo le avevano conferito un riconoscimento perl’impegno profuso in oltre 40 anni a sostegno dei valo-ri di pace, democrazia e giustizia sociale. Lo scorsomarzo, nonostante le precarie condizioni di salute, vol-le partecipare a Sesto San Giovanni alla celebrazionedel 60°anniversario degli scioperi del marzo 1944 perriaffermare, davanti al Presidente della RepubblicaCiampi, il ruolo di “testimone vivente” di quegli avve-nimenti che diedero luogo a massicce deportazioni.

Da lì inizierà, a soli 19 an-ni, il triste calvario di Ines edi altri sventurati da un car-cere ad un altro, da un cam-po di concentramento ad unaltro. Una colpa: aver parte-cipato allo sciopero di ottogiorni indetto dal 1° all’8marzo 1944 nelle fabbrichedi Milano, Torino e Genova.Anche i lavoratori del seste-se scioperarono; e Ines chelavorava alla V sezione del-la Breda, aderisce. Un milione e 200.000 lavo-ratori incrociano le bracciaper l’aumento delle paghe,per le scarse razioni ali-mentari ma anche control’occupazione.

La reazione nazifascista èdurissima: scattano per mol-ti le deportazioni nei campidi concentramento. Dal car-cere di San Fedele, Ines verràportata a San Vittore, e suc-cessivamente alla casermaUmberto I di Bergamo. Dalì un lugubre corteo sfila fi-no alla stazione; i parenti chehanno saputo seguono suimarciapiedi, ma i tedeschiimpediscono qualsiasi con-tatto. Così Ines lascia i fa-miliari senza poterli abbrac-ciare. Seguono tre giorni diviaggio su vagoni piombaticon destinazione Mauthau-sen. Lì rimane pochi giorni:meta successiva il carcere diVienna, dove venne liberata

dai sovietici l’8 marzo 1945.Nei campi il lavoro era du-rissimo: costruire baracchetrasportando pesanti secchie spingendo cemento; rac-cogliere verdure, zappare,costruire canali, minare i ter-reni, trasportare i cadaveri.Tutto questo al freddo, sot-to la pioggia, immersi nellanebbia. Il lavoro nelle fab-briche sotto i bombardamentie poi fuori a raccogliere imorti. Le marce da un cam-po all’altro, chilometri a pie-di senza cibo e con poca ac-qua. Ed infine le selezioni: senon ce la facevi più ti elimi-navano, oppure seleziona-vano un numero a caso, mailo stesso, era la fine.

Era nata a Muggiò l’8 mar-zo del 1925. Nella sua casadi Cinisello, la notte del 14marzo del’44 tutta la famigliaGerosa stava dormendo.Quel giorno c’era stata la fe-sta del paese alla quale ave-va partecipato, con le sorel-le e la nipotina. I militi del-la Muti bussano alla porta,il fratello Ulderico teme checerchino lui e invece chie-dono di Ines: “Deve venirecon noi per informazioni”.Ines si veste, esce e inizia undoloroso pellegrinaggio dicasa in casa durante il qualesono arrestati altri sfortuna-ti che vengono portati al car-cere di San Fedele a Milano.

di Patrizia Rulli

E non mancò di testimonia-re agli altri, in modo parti-colare ai giovani, nelle scuo-le, la storia della deporta-zione, senza avere mai pa-role di odio nei confronti deisuoi oppressori.Un ex studente, Luca Bion-di, durante il funerale, havoluto dedicarle una poesiascritta dopo un pellegri-naggio a Mauthausen:“Laggiù, riflessioni per-correndo la scala della mor-

te”. Ma dov’eri Dio quandomorivo quando dovevi es-sere tu a pregare per medov’era Uomo il tuo cuorequando non piangevo più…

Voglio ricordare, con Ines iquaranta cittadini di Ci-nisello Balsamo deportati aseguito degli scioperi e perattività antifascista: quattrodonne e trentasei uomini,sedici dei quali non torna-rono.

Raccontando, senza odio per nessuno, l’odissea di deportata

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Un’esistenza di doloroso riserboper William Pierdicchisu quell’immane tragedia

È SCOMPARSO A VICENZA L’UNICO SOPRAVVISSUTO DEGLI

Le nostrestorie

Il 20 luglio scorso è scomparso a Vicenza WilliamPierdicchi, l’unico sopravvissuto degli antifascisti de-portati da Schio (Vicenza) nei lager nazisti al termine del-la retata effettuata nel novembre 1944.

Ebbi l’onore ed il piacere di ottenere un incontro conlui nell’aprile 2001 dopo che, con notevole titubanza,glielo aveva richiesto telefonicamente. Non ebbe alcunaesitazione a concedermelo; anzi, sembrava desiderosodi raccontare la sua vicenda della quale, nel corso del-la vita, fu molto ritroso a parlare.

Andai così a trovarlo nella sua abitazione, in piazzaAracoeli a Vicenza, un piovoso sabato pomeriggio diaprile.

Dopo il comprensibile imbarazzo iniziale, e precisandoil mio interesse del tutto personale, cominciammo a par-lare di quel triste periodo, la voce a tratti incerta a cau-sa di un ictus che lo aveva recentemente colpito.

sostegno delle formazioniarmate dislocate sui monticircostanti, mantenendo irapporti tra il Cln venezia-no e quello scledense conil trasporto di volantini, inparticolare in occasione de-gli scioperi del marzo 1944contro la precettazione peril lavoro coatto in Germa-nia.Tra la fine di novembre egli inizi di dicembre 1944ebbe luogo a Schio una va-sta retata di partigiani ter-ritoriali, inquadrati nel

Battaglione “Fratelli Ban-diera”, ad opera di forzecongiunte nazifasciste. Laretata fu possibile grazieall’elenco dei sospetti an-tifascisti redatto dall’Uf-ficio politico investigativodella Gnr. scledense ed al-la poderosa e capillare re-te di informatori che la di-rezione del fascio repub-blicano aveva intessuto incittà.Dopo la Liberazione, inmunicipio fu rinvenuto unelenco di persone “da in-viare in Germania” firma-to, per sua stessa ammis-sione (vedi lettera alla mo-glie del 1° luglio 1945 pub-blicata da G. MarenghiL’Eccidio di Schio), dalcommissario prefettizioGiulio Vescovi, in quanto“richiestone dal Prefetto”.Molti elementi di spiccoriuscirono a dileguarsi intempo, grazie ad una con-fessione udita attraverso imuri dalla moglie del capocarceriere Pezzin. Una quindicina di partigianinon fecero in tempo a na-scondersi e vennero arre-stati dalle Brigate nere, chinel proprio domicilio o luo-go di lavoro, chi nel dispe-rato tentativo di fuga;Pierdicchi fu arrestato nel-le colline circostanti Pie-vebelvicino.

Nell’elenco diligentemen-te approntato dalle autoritàrepubblichine e trasmessoal comando tedesco, ac-canto ai nomi era appostala dicitura “elemento peri-coloso”, che per la buro-crazia nazista significavatout court l’eliminazionefisica.Dopo l’arresto furono con-dotti per un primo, pesan-te interrogatorio alle scuo-le “Marconi”, per esserepoi tradotti alle carcerimandamentali di via Ba-ratto. Ci fu un momento in cui sisperò in un possibile rila-scio, comunicato ai fami-liari da alcuni detenuti me-no compromessi scarcera-ti nei giorni seguenti (cir-costanza confermata dallasignora Gianna Zanon, fi-glia di Andrea).A seguito del clamore su-scitato dalla liberazione diAntonio Canova “Tuoni”comandante del batta-glione, degente in ospeda-le in attesa di riprenderegli interrogatori, avvenu-ta il 6 dicembre medianteun’azione ardita ed in-cruenta alla quale parteci-parono i migliori quadridella Resistenza locale, fu-rono invece trasferiti allecarceri di San Biagio aVicenza.

di Ugo de Grandis

Originario di Jesi (Ancona),dove nacque il 21 agosto1921, si trasferì in teneraetà a Schio con la famiglia.Durante la guerra prestòservizio in Marina comemarconista sulla torpedi-niera Impetuosa.Studente alla facoltà diEconomia e commercioall’Università Cà Foscari,si legò all’ambiente delPartito d’azione, che aVenezia possedeva unastamperia clandestina.Operò nella nostra città a

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ANTIFASCISTI DEPORTATI DA SCHIO NEL NOVEMBRE 1944

Lì subirono altri interroga-tori, al termine dei qualiscattò la decisione di de-portarli nell’universo con-centrazionario del TerzoReich in data 21 dicembre1944, assieme ad altri anti-fascisti vicentini.Furono 14 gli antifascistiscledensi deportati in quel-l’operazione, ed è doverosoricordarne i nomi: AndreaAzzolini, Giovanni Borto-loso, Andrea Bozzo, Livio

Cracco, Italo Galvan, Pier-franco Pozzer, AntonioRampon, Anselmo Thiella,Vittorio Tradigo, GiuseppeVidale, Andrea Zanon,Bruno Zordan, AntonioZucchi, oltre a WilliamPierdicchi. L’automezzo che da Vicenzali trasportò ebbe una primasosta per panne all’altezzadel Villaggio Pasubio diSchio. I prigionieri furonofatti scendere ed allineati

contro il muro di cinta sot-to la minaccia delle armi,mentre il camion veniva ri-parato. Alcuni familiari, for-tuitamente avvisati del-l’accaduto, si precipitaro-no sul luogo nella speran-za di poterli riabbracciaree di consegnare loro alcunigeneri di conforto, ma fu-rono tenuti a debita distan-za dai militi fascisti con laminaccia di “fare la stessa fi-ne”. Nei pressi del luogoove sostò l’automezzo, lapietà degli abitanti delVillaggio Pasubio eresseuna lapide a loro ricordo,tuttora ben mantenuta, nel-la quale tuttavia è omessoil nome di Antonio Rampon,commesso fruttivendolopresso il negozio Bettio.Una volta ripartito, l’auto-mezzo ebbe un secondo, de-finitivo guasto in prossimitàdella Tagliata, a Sant’An-tonio del Pasubio; i dete-nuti furono perciò fatti scen-dere nuovamente ed avvia-ti a piedi fino al Pian delleFugazze, dove i militi discorta poterono recuperareun altro camion con cui pro-seguire.Grande fu la delusione, inentrambe le soste, perché sisperava in un attacco parti-giano che ponesse fine alloro calvario! Ma allora lecomunicazioni non corre-

vano veloci come ai giorninostri, e purtroppo il viag-gio proseguì.Sostarono circa due setti-mane nel Durchgangslagerdi via Resia a Bolzano, do-ve furono assegnati al“Blocco E”, riservato ai pe-ricolosi; appena arrivati, al-la vigilia di Natale, fu sco-perto e duramente repressoun tentativo di fuga.Ai primi di gennaio i fami-liari di Italo Galvan si re-carono in bicicletta a Bo-lzano nel tentativo di averesue notizie, ma fecero ap-pena a tempo a scorgere lacolonna di prigionieri av-viata verso la stazione perla deportazione. Anche quila minaccia delle armi im-pedì loro di avvicinarsi.Furono in totale 501 i de-portati avviati a Mauthausencon il trasporto n.115, par-tito da Bolzano l’8 gennaioed arrivato a destinazioneil giorno 11 seguente; fu ilterz’ultimo convoglio a par-tire dal campo di Bolzano,prima che la linea ferrovia-ria venisse irreparabilmen-te danneggiata dai bombar-dieri americani.Prima di essere deportatoAndrea Zanon riuscì a farpervenire un messaggio al-la famiglia, con il quale co-municava la sua prossimadestinazione.

In quattordici su un camion:prima destinazione Bolzano

I piani dell’aereo a reazione tedesco che la Germaniapreparava nel segreto delle gallerie di Gusen con il lavoro deideportati.

Come si presentava l’ingresso nel campo di Gusen. Qui, tra inenarrabili stenti e vessazioni, William Pierdicchi fu destinatoalla manutenzione degli aeroplani dellaLuftwaffe in officine alloggiate in gallerie scavate nella collina.

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La maggior parte dei nostriconcittadini rimase a Mau-thausen o al suo sottocam-po Gusen; Antonio Ramponfu tradotto a Dachau, men-tre Antonio Zucchi finì aSaal Donau, tristi luoghiche una folta corrente distorici revisionisti o nega-zionisti oggi vorrebbe in-terpretare come una catenadi luna park costruiti dopola liberazione dai sovieticio addirittura dall’establi-shment sionista per scopituristici e propagandistici!A Gusen, tra inenarrabilistenti William Pierdicchifu destinato alla manuten-zione degli aeroplani dellaLuftwaffe in officine al-loggiate entro gallerie sca-vate nella collina.Un giorno di marzo 1945un kapò un po’ più “uma-no” degli altri, conoscen-do la sua provenienza, loinformò che un suo con-cittadino stava spirando al-l’esterno delle baracche. Si

precipitò così a raccoglie-re gli ultimi attimi di vita diAndrea Zanon, la cui offi-cina di calderaio in viaCastello al 10 a Schio erastata un importante centrodi collegamento per l’in-vio di generi di sussisten-za, armi, informazioni e vo-lontari alle pattuglie inmontagna.Dopo la liberazione diMauthausen e Gusen, av-venute tra il 5 e 6 maggio1945 ad opera dell’esercitostatunitense, Pierdicchi furimesso in forze nell’im-provvisato ospedale ivi al-lestito, fino ad affrontare iltrasferimento verso il cam-po di raccolta di Bolzanogestito dagli americani.Durante la sosta per la ne-cessaria convalescenza pri-ma del definitivo rimpatrio,ebbe modo di apprendere lasorte degli altri 13 compa-gni di sventura, che mai piùavrebbero fatto ritorno alleloro famiglie.

Piva “Romero” (ex coman-dante del Btg. “Apolloni”ed all’epoca capo della po-lizia investigativa), che loconosceva sin da bambino inquanto uno zio di Pierdicchiaveva una bottega di bar-biere in via Toaldi, vicinoalla casa della famiglia Piva. “Romero”, recentementerientrato dalla missione inVal d’Ossola e dalla libera-zione di Milano, volle es-sere informato sui partico-lari del suo arresto, sullesuccessive traversie e sullasorte toccata agli altri com-pagni.Dopo qualche settimanapassata in famiglia, WilliamPierdicchi si trasferì dai pa-renti a Jesi per completarela convalescenza; ripresepoi gli studi, al termine deiquali fu assunto al lanificioRossi.Mi confidò che durante ilsuo soggiorno a Schio per-cepì una sorta di sorda in-vidia da parte dei familiaridelle altre vittime dei lager,quasi un rimprovero per es-sere stato lui il solo ad essereritornato.Ma i familiari da me inter-vistati negano ciò: non pro-varono alcun rancore, avreb-bero solamente desideratoche avesse raccontato di piùsu quanto aveva patito e vi-sto, qualche particolare suipropri cari… ma in lui era

Una volta recuperate le for-ze, affrontò il viaggio di ri-torno con vari mezzi di for-tuna, l’ultimo dei quali de-positò i suoi 38 kg di pelleed ossa davanti alla chiesadelle Canossiane, nel tardopomeriggio del 27 giugno.Percorse a piedi via delFerro ed il centinaio di me-tri che lo separavano dallasua abitazione in via Cavour,per riabbracciare finalmentei genitori.Non si recò dall’arciprete,come riportato nei resocontifinora pubblicati: furono isuoi familiari a comunica-re a quest’ultimo la sortetoccata agli altri scleden-si.Maggiori dettagli sullecircostanze dei decessi (sfi-nimento, fucilazione, gas-sificazione) furono inoltrecomunicati da MichelePeroni e Luigi Massignangiunti a Schio quasi con-temporaneamente e direttia Montecchio Maggiore(Vicenza).Date, luoghi dei decessi,nonché i numeri di matri-cola furono infine resi notiqualche tempo dopo, tra-mite la Croce Rossa Interna-zionale. Dopo ciò Pierdicchisi rinchiuse in un grande ri-serbo, nel desiderio di di-menticare la terribile espe-rienza e di ristabilirsi nel fi-sico e nell’animo.Ricevette una visita di Igino

Nelle gallerie di Gusenad aggiustare aerei tedeschi

Il ritorno a casadi trentotto chili di pelle e ossa

Il doloroso riserbo di William Pierdicchi su quell’immane tragediaDopo laliberazione delcampo ad operadelle truppeamericane i civili austriaci furono costretti a raccogliere i cadaveri deiprigionieri morti(a sinistra) e seppellirli in fosse comuni(a destra).

L’ingresso dellegallerie.

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prevalso il desiderio di di-menticare.La mattina successiva alrientro di Pierdicchi, mons.Tagliaferro ed alcuni mem-bri della Giunta comunalefecero le partecipazioni al-le famiglie degli scom-parsi. La notizia si diffuseimmediatamente in città enelle fabbriche, provo-cando dolore e rabbia, edun’imponente manifesta-zione. I 13 antifascisti de-portati a seguito della reta-ta del novembre 1944 nonfurono i soli scledensi a pe-rire nei campi di concen-tramento nazisti; a quantoci consta almeno altri quat-tro nostri concittadini su-birono la stessa sorte:Giovanni Costalunga (Har-zungen 25.01.04), GregorioFacci (Buchenwald31.01.45), Giovanni Santa-caterina (Mauthausen16.12.44) e Gino Zanella(Gusen, 25.04.45).Le notizie dei loro decessigiunsero tuttavia isolata-mente ed il dolore si man-tenne nell’ambito familiare.Recenti ricerche hanno per-messo di chiarire la sorte diun altro scledense, GirolamoLompo, erroneamente ri-portata in taluni registri co-me avvenuta nei campi diconcentramento. Fu sì de-portato a Dachau, ma riu-scì a ritornare. La drammatica esperienzalo segnò tuttavia per sem-pre nella psiche e cadde vit-tima di un forte esaurimen-

to nervoso. Ricoveratoall’ospedale di Schio dopoaver ingerito una potentedose di barbiturici, pose fi-ne alle sue sofferenze get-tandosi dal 5° piano la do-menica 15 novembre 1959,morendo sul colpo.Di questo ed altro parlam-mo quel giorno WilliamPierdicchi ed io; fu un po-meriggio intenso, reso an-cora più commovente dal-la fitta pioggia primaveri-le. Mi colpì soprattutto ilsuo sguardo: sereno e altempo stesso vivace, mal-grado l’età e la recente ma-lattia. Mentre parlava, con tonopacato e senza tradire emo-zioni, guardava lontano, dilà delle Alpi, rivedeva vol-ti, paesaggi, situazioni, mi-serie risalenti a quasi ses-sant’anni prima, che diffi-cilmente sono immagina-bili a noi, per dirla conPrimo Levi, che “…vivia-mo sicuri nelle nostre tie-pide case, noi che troviamotornando a sera il cibo cal-do e visi amici…”.Caro William, grazie per lalezione di vita che mi haidato quel giorno! Dovunquetu sia, riposa finalmente inpace: le sofferenze tue e de-gli altri che non riuscironoa ritornare non saranno di-menticate, non verranno di-sperse nel vento come av-venne per le loro ceneri. LaStoria non si può negare o ri-scrivere.Noi non dimentichiamo!

I superstiti del lager di Nuterluss si sono ritrovati a Romasessant’anni dopo. Sono stati due giorni straordinari perVittorio Bellini, Stefano Santoro, Vito De Vita, MarioDe Benedettis, Natale Ferrara, Mario Forcella, UmbertoFeltrami, Gianfranco Cucco e Michele Montagno, l’or-ganizzatore dell’incontro. La foto li vede riuniti per la posa di una corona d’alloropresso la Sinagoga, in memoria delle deportate ebree diun campo confinante con il loro e che vennero sterminatedai nazisti prima della ritirata.

Sessant’anni dopo

Riproduciamo la cartolina (ma potrebbe essere anche unmanifesto od una locandina) a cura della “FederazioneNazionale francese dei deportati e internati, resistentie patrioti”.“Voi sapete come è cominciata, Voi sapete come è fini-ta” sono le scritte in alto e in basso, che ne commenta-no un’altra: “Se li lasci dire, si lascerà fare….”, mentre

le immagini sicommentano dasé: un esultanteraduno nazifa-scista, il ragaz-zo ebreo cattu-rato nel ghetto diVarsavia, ungruppo di de-portati oltre i re-ticolati di uncampo di ster-minio.Scritte e fotorappresentano,con semplice eimmediata effi-cacia, l’immen-sa tragedia del-la deportazione.

Era cominciata così...

Militari americaniinterrogano i civilitrovati nel campo primadi ispezionare le gallerie.

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Eugenio Maggi, il “Tebba”.Un partigiano genovesescampato al lager di Dachau

PARTECIPÒ ANCHE ALLA RIVOLTA DI GENOVA DEL 14 LUGLIO 1948 E AI MO

Le nostrestorie

di Ettore Maggi

Eugenio Maggi nasce a Genova, in via Filippo Casoni,il 17 luglio 1919. È il quarto dei sei figli di Ettore eGiuseppina Cosmelli.

Il padre Ettore, ex-operaio specializzato dei cantierinavali di Riva Trigoso, dopo aver perso il lavoro nel1926 per essersi rifiutato di iscriversi al partito fasci-sta, apre un’officina nel quartiere di Coronata, cheviene ripetutamente assalita dai fascisti e bruciata, elo stesso Ettore Maggi è spesso bastonato e arrestato.

La famiglia Maggi si trasferisce nel quartiere di SestriPonente nel 1929, dove Eugenio inizia a lavorare aquattordici anni in una torrefazione di caffè, per poidiventare operaio alla San Giorgio di Sestri Ponente.

Il giovane Eugenio, dettoTebba, cresce con senti-menti antifascisti (gli stes-si che porteranno i fratelliAldo e Rita a parteciparealla Resistenza, il primo nel-la Pinan-Cichero, e la se-conda nella Brigata Bu-ranello), e dopo aver cono-sciuto Antonio Dettori, an-tifascista anarchico, Euge-nio frequenta la Federa-zione comunista libertaria,che svolge attività clande-stina. Dopo l’8 settembre 1943 aSestri Ponente, da semprepercorsa da forti sentimen-ti antifascisti (tanto da gua-dagnare il titolo di “Sestrila Rossa”), si iniziano a re-cuperare le armi abbando-

nate dai militari sbandati, el’11 settembre nasce il pri-mo atto di resistenza. Unreparto di soldati tedeschiviene informato della pre-senza di armi in un magaz-zino di via Andrea Costa, esi reca sul posto con un ca-mion per prelevarle. La no-tizia si sparge e numerosisestresi accorrono e cir-condano i tedeschi. Tra lo-ro Eugenio Maggi, insiemeai suoi amici Vittorio Zeccae Giacomo Pittaluga. Si scatena la prima batta-glia genovese, tra i giovanisestresi e i soldati tedeschi,meglio armati ma inferioridi numero, che nella spara-toria uccidono una donnaaffacciata alla finestra. Il

camion viene fatto saltarein aria, e i giovani sestresi sidanno alla fuga. EugenioMaggi riesce a sfuggire aitedeschi nascondendosi al-l’interno del chiosco-edi-cola dell’attuale vialeCanepa. In seguito Eugenio entra afar parte di una squadra d’a-zione della Brigata Sap“Malatesta”, organizzata daAntonio Dettori e dalla Fcl,mentre Vittorio Zecca en-

tra nella Brigata autonomaLanghe e Giacomo Pittalugain una brigata della Divi-sione garibaldina Coduri,formazione operante nelTigullio. Nel luglio 1944 EugenioMaggi viene arrestato inpiazza Baracca, insieme aFrancesco Fusaro, GinoFioresi e Gino Rossi.L’arresto è causato da unaspia fascista infiltrata nel-la brigata Malatesta.

L’arresto causato da una spia,un fascista infiltrato nella brigata

Trasferito alla questura diGenova, Eugenio è interro-gato dal famoso (e famige-rato) commissario GiustoVeneziani, capo della squa-dra politica della questuradi Genova. Nel recente li-bro di Giampaolo Pansa, Ilsangue dei vinti, questo tri-ste personaggio viene cita-to come esempio di vittimadelle vendette subite dai fa-scisti dopo la Liberazione.Sicuramente Giusto Vene-ziani il ruolo di vittima loconosceva bene, dato che loaveva imposto a molta gen-te, prima della Liberazione.Nel mese successivo Eu-genio Maggi viene trasfe-

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TI ANTIFASCISTI GENOVESI DEL 1960

rito ancora: la destinazioneè il campo di concentra-mento di Bolzano, dove vie-ne consegnato alle SS te-desche. Il compito dei ra-gazzi di Salò è terminato.Complessivamente, furonocirca 45.000 (un quintoebrei, il resto soprattutto an-tifascisti, partigiani, lavo-ratori) gli italiani consegnatiai tedeschi per essere de-portati nei lager nazisti.Oltre il 90% dei deportati

non farà ritorno a casa, men-tre Eugenio Maggi riusciràa sopravvivere. Dopo il la-ger di Flossembürg, è de-stinato al campo di Dachau,tristemente famoso per es-sere il primo lager nazista(fu aperto nel marzo 1933,subito dopo la salita al po-tere di Hitler, per ospitaregli oppositori politici delnazismo), e per gli esperi-menti scientifici che avve-nivano sui prigionieri.

L’ultima battaglia del nostro consigliereGiuseppe Marafante

Il 25 ottobre ci ha lasciati improvvisamente l’ex depor-tato politico Giuseppe Marafante. Nato il 28.12.1924 aAdria (Ro) e residente a Cinisello Balsamo. Lavoravacome elettricista alla Ercole Marelli di Sesto San Giovanni,ha partecipato alla battaglia di San Martino (Va) il 13/15novembre 1943 rimanendo ferito.Arrestato per delazione nel novembre 1943 a Milano, aPorta Venezia veniva incarcerato a San Vittore. È giun-to a Mauthausen il 21.2.1945. Ha avuto la matricola53419. È stato trasferito il 26.3.1944 a Wien Schwechat.Il 17.8.1944 viene di nuovo trasferito a Wien Florisdorf.Partecipa alla “marcia della morte” Wien – Mauthausendei primi di aprile del 1945, ma viene fermato nella cit-tadina di Stayr. Il 30.4.1945 lo troviamo a Gusen. Qui èliberato dagli americani il 5 maggio 1945. È citato inEzio Meroni Antifascismo e Resistenza a CiniselloBalsamo, pp. 168-169. Il fratello Giovanni, partigiano inValdossola, è stato fucilato dai nazifascisti. Marafante èstato per anni attivo nell’Aned e a lungo consigliere na-zionale dell’Associazione. Ha partecipato all’ultimoCongresso dell’Aned dove è stato nuovamente eletto nelConsiglio nazionale.Il presidente Gianfranco Maris, l’Aned nazionale, la se-zione di Sesto San Giovanni e la Fondazione Memoriadella Deportazione partecipano con commozione al do-lore per la scomparsa del nostro compagno Marafante eporgono le più sentite condoglianze ai familiari.

Aprile ’45, la libertà: è poco più di uno scheletro ma è ancora vivo

Eugenio Maggi sopravvivesino alla liberazione del la-ger da parte dell’esercitoamericano, avvenuta il 29aprile 1945. La fame, i mal-trattamenti, le malattie, ilduro lavoro coatto, lo han-no ridotto a uno scheletrodi poco più di trenta chili,ma è ancora vivo. Ricoverato per circa un me-se presso un ospedale dellaCroce rossa internazionale,rientra in Italia nel maggio1945, e appena arrivato aGenova rientra nei ranghidella brigata garibaldina“Alpron”, come commissa-rio di distaccamento. Neldopoguerra lavora come

operaio in varie fabbrichegenovesi, e anche al di fuo-ri della Liguria e dell’Italia.Vive per alcuni periodi inFrancia, a Trieste, a Siracusa,a Cagliari (dove abita peroltre dieci anni), sempre par-tecipando alle lotte politi-che e sindacali. Partecipainoltre alla forte protesta po-polare di Genova del 14 lu-glio 1948 e ai moti antifa-scisti genovesi del 30 giu-gno 1960. Eugenio Maggi muore aSestri Ponente il 5 dicem-bre 2003, a pochi metri dal-l’edicola dove si era rifu-giato sessant’anni prima persfuggire ai soldati tedeschi.

Eugenio Maggi poco prima della scomparsa: i baffi sonodiventati bianchi ma sono stati sempre un suo segno distintivo,come quando da giovane faceva il fresatore (foto della pagina accanto).

Giuseppe Marafante premiato dalla Provincia di Varese per il suo contributo alla battaglia partigiana di San Martino.

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“Una botta in testa per finirmi.Poi mi buttarono vivo tra i cadaveri dei deportati”

I DRAMMATICI RICORDI DI GIOVANNI GULIC, DEPORTATO

Le nostrestorie

Anche le date e le commemorazioni fanno il doppio gio-co della memoria e dei sentimenti! Ancora oggi, a più disessant’anni di distanza, non posso fare a meno di chie-dermi: che cosa rimane?Quel che talvolta chiedo, e mi chiedo, è semplicementese quella precedente possa essere ancora chiamata vita.Io che nel sonno urlo piango soffro e prego, risveglian-domi, tormentato dai ricordi. E mi trovo costretto a ri-vivere all’infinito quelle immagini raccapriccianti, de-solanti, disumane.Mi ricordo ad esempio di quando, nel dicembre del 1943,finii catturato dalla Gestapo e tradotto nelle carceritriestine del Coroneo. Partigiano. Picchiato e tortura-to. Costretto ad estenuanti, interminabili interrogato-ri. Ma non parlai: in fondo significava anche questo es-sere partigiani. Non tradire mai i compagni.

che Giovanni Gulic, inter-nato a Dachau e identifica-to con il numero 141451,aveva contratto il tifo. Anchese i tedeschi non perdevanotempo a curare gli ammala-ti gravi nei loro campi disterminio – iscrivendoli di-rettamente nelle liste da in-viare ai funzionari addettiai forni – la mia presuntamorte era da ricercare in unaviolenta percossa che avreiricevuto da un sorveglian-te, mentre giacevo riarso aterra, agonizzante.Povera madre mia. Non rie-sco ad immaginare il suosbigottimento momentaneo.Il dolore simile ad una fit-

ta, ripetuta e costantementelacerante.Quella povera don-na piangeva un figlio assen-te, morto, di cui ricordava amalapena i tratti. Lontano.Sul cui cadavere non le sa-rebbe stato permesso di ad-dolorarsi e fremere.Alcuni anni dopo quella vi-sita, ad un migliaio di chi-lometri di distanza, senzache i rispettivi protagonistidi quella esistenza paralle-la potessero darsene contoesatto, il campo di concen-tramento sito a Dachau ve-

niva occupato prima, e poiliberato, da una armata ame-ricana.Quei giovani soldati ameri-cani videro coi loro occhiciò che il mondo, sbigotti-to, intravide parzialmentesulle pagine di giornali e ri-viste nei mesi e negli annisuccessivi.Corpi straziati. Dilaniati.Senza speranza. Senza la-crime. Corpi vaganti in at-tesa della morte. (In quellacircostanza, in effetti, era lavita a far paura!)

di Giovanni Gulic

Fui deportato in Germania.Mia madre Maria, per bendue anni, dal 1943 al 1945,non poté far altro se non pre-gare e sperare. Sperare e pre-gare.La sua indole semplice e ca-ritatevole, per fortuna le ven-ne in aiuto: nel maggio del1945 ricevette la visita di untale che affermava aver as-sistito alla mia morte. Il suoracconto – questo lo seppisoltanto più tardi – si basa-va su alcuni elementi dellarealtà, mescolati alla fervi-da immaginazione che intempi di guerra sostiene eravviva i soldati e civili.In breve, quel tale sosteneva

Io, Giovanni Gulic, prigio-niero n. 141451 fui ritrova-to, ancora in vita, accatastatosu uno dei mucchi, giacen-te, come corpo morto. Ma inrealtà ancora respiravo.Ripresi conoscenza dopo unnumero inqualificabile digiorni. Giorni passati senzache io serbassi il benché mi-nimo ricordo. Giorni nonmiei. Altro tempo rubato al-la mia giovane vita.Mi risvegliai nella baraccache i nazisti avevano desti-nato ai sorveglianti del cam-po. Ancora a Dachau.Circondato da corpi schele-trici assiepati sulle brande.

Scheletri viventi – ridotti an-che peggio di me. L’unico suono che ricordo èil rimbombo che in me pro-vocarono le urla disperatedei feriti. Gemiti orrendi cheancora oggi, a volte, mi av-volgono in una spirale di do-lore e di morte.Desolazione e angoscia.Smarrito, mi chiesi che co-sa ci facessi in quel posto.Non capivo. Non riuscivo acapire.Per quel che ne sapevo lascena che mi si era presen-tata corrispondeva alla vitao anche alla morte, indiffe-rentemente. Nel vano tenta-

Montagne di carcasse umane,in mucchi sparpagliati

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NUMERO 141451 A DACHAU

tivo di alzarmi mi resi con-to che non potevo muovermi.E mentre mi sentivo di nuo-vo inghiottito dal vortice del-la solitudine e della pauraecco apparire ai piedi delmio letto un gruppo di me-dici. Parlavano e scherzava-no tra di loro in una lingua in-comprensibile. Li osserva-vo implorandoli, sperandoin una traduzione, o almenoin una spiegazione. In quelmentre uno di loro, in un ita-liano piuttosto stentato si av-vicinò a me, e accarezzan-

domi mi raccontò dell’av-venuta liberazione. Il mio ri-torno a casa sembrava esse-re imminente. Quel giovane soldato italo-americano, il suo gesto co-sì umano, provocò in me unareazione del tutto inaspetta-ta: non riuscivo a credere chedopo tutto quel massacro esi-stesse una gestualità capa-ce di fare incontrare gli in-dividui, abituato com’ero alterrore, a rapporti interper-sonali governati da un’insa-nabile violenza.

Per fortuna negli ultimi giorni primadella liberazione i forni crematori non funzionavano. Furono i soldati americani ad accorgersi di lui. L’infinito incubo di un lentissimo e doloroso recupero. Infine il ritorno. A Bolzano un tedesco malato di tbc lo portò sulle spalle fino a un treno per Trieste. Caricato sul tram per Opicina,eccolo finalmente accolto dalla madre che lo aveva a lungo pianto come morto.

Credevo di sognare! E nonavevo nessuna voglia di ri-svegliarmi e ripiombare inquella lugubre quotidianarealtà. Ma dopo qualche mo-mento di esitazione ripensaialle parole del medico, e fi-nalmente capii che la guer-ra era veramente finita. Dopoalcuni giorni furono allesti-te delle ambulanze per il tra-sporto dei feriti.Pur non conoscendone la de-stinazione, l’essenziale ri-sultava essere il tanto so-spirato abbandono di quelluogo odorante di morte.Dopo un lungo viaggio,giungemmo a Bolzano, do-ve la colonna si sciolse e gliammalati furono smistati.Non so, ma poco importa-va, con quale criterio. Io ca-pitai in un luogo simile adun convento: qui fui amore-volmente assistito da duedonne di mezza età, vestitedi bianco-Suore?Infermiere? Crocerossine?-che fecero di tutto per ri-mettermi in piedi. Avevo finalmente raggiun-to uno stato d’animo similealla felicità, o almeno al ri-cordo che di essa ancora con-

servavo. Prima o poi avreisicuramente ripreso a cam-minare. Fu un periodo di grandi pro-gressi psico-motori, sug-gellato da una passeggiatache le mie due salvatrici mipermisero di condurre a ter-mine, facendomi finalmen-te risentire vivo tra i vivi.Un ricordo vivido: l’im-mersione in quel bagno diumori e sensazioni di velo-cità. In quella estate tuttosembrava correre intorno ame. I rumori dei passanti, leloro voci gaie e vivaci sem-bravano fondersi e confon-dersi in un unico, sensazio-nale canto di pace, frizzan-te e contagioso.In quella schiera si concre-tizzò la voce di un tale chedopo avermi individuato ericonosciuto, mi chiese no-tizie sul mio paese natale.Perplesso, attonito, incre-dulo, non riuscivo a darmiconto esatto di quel che sta-va accadendo; dunque queltale mi conosceva. E anzi,stando a quanto mi disse inquel primo incontro, anch’iolo conoscevo, dacché en-trambi provenivamo da

Capii che la guerra era finitadalle amorevoli parole del medico

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Dovevo soltanto pazienta-re. Aspettare. Ci avevo fat-to l’abitudine, ormai.Poco dopo passò un altroconoscente, che invece siaccorse di me e che, avvi-cinatosi, mi sollevò senzafatica - con tutti gli abitiaddosso, infatti, non rag-giungevo i 40 chili - e mifece salire sul tram.Concettualmente il mioviaggio poteva dirsi finito,ed il mio ritorno a casa as-sicurato, anche perché suquella linea tranviaria la-vorava mio cognato, cheincredulo di vedermi an-cora vivo, organizzò il miorientro a Zolla Monrupinosu un carretto.Quando entrai nella cortedi casa mia, ad attendermic’era mia madre, che dopoaver versato tante lacrimeper la mia morte presunta,ne aveva versate altrettan-te nel vedermi arrivare. A raccontarlo ora, non pos-so fare a meno di pensare atutte quelle povere madriche invece non hanno avu-to mai la fortuna di rivede-re e riabbracciare i propri fi-gli.Nell’autunno del 1945 in-contrai quel tale Ladi, chealcuni mesi prima raccontòa mia madre di avermi vi-sto morire. Insieme cer-cammo di ricostruire la miapresunta morte.

Dunque nell’aprile del1945 mi ammalai di tifo, efui condotto nella baraccadove lui lavorava come in-fermiere agli ordini del co-mando SS. Poiché mancavano i medi-cinali, gli ammalati veni-vano immediatamenteiscritti nelle liste delle per-sone da inviare al forno cre-matorio; però negli ultimigiorni della guerra, prece-denti alla liberazione delcampo, i forni non eranoattivi, e per questo motivoi morti venivano accatastatinei mucchi. Io ormai ero in coma, equell’infermiere mi adagiòsotto la finestra della ba-racca, vicino ad una mar-mitta. A quel punto un sorve-gliante, accortosi che an-cora respiravo, decise dicolpirmi in testa con un me-stolo di ferro: mi diede uncolpo così forte che avreb-be ammazzato chiunque,tanto più un malato senzaforze, quale ero io. Poi fui trascinato di pesofino a quel mucchio di ca-daveri, in uno stato di in-coscienza. Fu lì che gli americani miritrovarono, prigioniero141451; e capirono che die-tro a quel numero era pos-sibile rintracciare una per-sona umana. Viva.

Il ritorno alla vita di un corpo massacrato

Il rientro a casa su un carretto.Le lacrime di mia madre

Rupingrande…In quel momento ebbi dav-vero la sensazione di esseremolto vicino casa. E capiiche presto avrei potuto arri-varci pure io.“Domani parto per Trieste.Hai notizie dei tuoi? Senti,sai che ti dico: appena arri-vo, vado da loro e raccontodi averti incontrato, saran-no preoccupati per te…”In effetti egli si recò da miamadre, che non aveva anco-ra superato il dolore provo-

catole dalla prima notizia dimorte, per informarla che in-vece ero ancora vivo. E cheera vero: cercò di convincer-la. Povera madre mia: qualialtre beffe avrebbe riserva-to il destino! In cuor suo,probabilmente, non sapevase credere o meno a quel-l’uomo comparso dal nulla.Ma è anche vero che spessosi preferisce dar credito aquelle che sembrano le no-tizie migliori, le più belle, avolte le meno credibili.

I giorni passavano, e lascia-vano depositato sul volto ilsegno di una nuova speran-za, di una nuova umanità ve-stita a festa. Come il soffiolieve di una brezza marina,fresca, tonificante, così ilmio corpo si impossessavaancora una volta delle anti-che forze perdute. Comin-ciavo a pensare a come or-ganizzare il mio ritorno a ca-sa: potevo finalmente farlo.Come sarebbe stato? In quei giorni conobbi un te-desco malato di tisi che mirivelò di avere parenti aTrieste, e mi confidò la suaintenzione di fuggire da quelluogo di cura. Organiz-zammo insieme la fuga. Luimi caricò letteralmente inspalla, e arrivammo lenta-mente alla stazione ferro-viaria, dove salimmo su unvagone per il bestiame. In

pochi istanti il treno partì, ea quel movimento ne corri-spose un altro, uguale e con-trario si potrebbe dire, chemi portava a pormi un nu-mero elevatissimo di inter-rogativi.Una volta arrivati a Trieste,il mio salvatore mi caricòancora una volta in spalla, emi portò al capolinea deltram di Opicina, dove miadagiai in un angolino.Quella fu l’ultima volta chelo vidi. Poi non seppi piùnulla di lui.Ormai mi trovavo a un pas-so da casa. Mi mancavanoperò le forze per potermimuovere e salire autonoma-mente su uno di quei mezziche continuavano ad anda-re e venire davanti a me. Vidipure un mio compaesano,che però non mi riconobbe-e se ne duole tutt’oggi.

“Una botta in testa per finirmi. Poi mi buttarono vivo tra i cadaveri”

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Festeggiare cento anniper ricordarne duemila

Già 160 anni prima dell’i-nizio dell’era volgare esi-steva a Roma una comunitàebraica con le sue sinago-ghe. Con la cristianizzazio-ne dell’impero romano, epoi sotto il potere del papa,la vita degli ebrei romaniconoscerà momenti di fio-ritura, altri di una certa cal-ma e altri ancora di dram-ma sotto le persecuzioni ele offese anche fisiche delpotere politico dominante.Nel 1555 sarà papa PaoloIV a istituire il ghetto. Inuna zona particolarmentemalsana lungo il Tevere,sempre facile a strariparee dalle acque non certo sa-lubri, davanti all’isola Ti-berina. Rinserrato in murae con porte aperte solo almattino e rigorosamenteserrate all’inizio della se-ra. Nel ristrettissimo spa-zio le case andavano am-mucchiandosi l’una sul-l’altra. Misere case per unpopolo cui anche l’aria nonera sufficiente. Tutto ciò non impedì tutta-via il fiorire degli studi, unentusiasmante approfondirsidelle scuole rabbiniche, ilsorgere di ben cinque sina-goghe, dette Scole. Ancoraoggi una piazza di quelloche fu il ghetto si chiama“delle cinque Scole”. Soloil 20 settembre 1870, conl’entrata dei piemontesi dal-la breccia di Porta Pia, mu-ra e cancelli vennero ab-battuti definitivamente. Fu allora che gli ebrei ro-

mano sentirono la necessitàdi dotarsi di un TempioMaggiore degno della loropiù che millenaria storia.Venne bandito un concorsocui parteciparono ventiseigruppi di architetti e di in-gegneri.Venne scelto il pro-getto di Vincenzo Costa eOsvaldo Armani, affron-tando per la sua realizza-zione un costo di 900.000lire dell’epoca. Una cifraveramente ragguardevole.La prima pietra venne col-locata il 20 giugno 1901 etre anni dopo il nuovo

Tempio era terminato. Venneallora murata una lapide alsuo esterno che, visibile an-cora oggi, recita: “Nel dì 2luglio 1904 Re VittorioEmanuele III con luminosamanifestazione di civileuguaglianza visitò questoTempio eretto a Dio nellostesso rione dove gli israe-liti di Roma, già confinatiin spregiato ghetto, dive-nuti cittadini d’Italia ac-clamarono l’alba del 20 set-tembre 1870 “.Il 27 luglio entrarono so-lennemente nel Tempio i ro-

toli della Legge, rinchiusiin teche d’argento e ilTempio venne consacrato.E fu proprio sotto le sue sa-cre mura che i nazisti il 16ottobre 1943 recarono l’a-troce offesa della razzia de-gli ebrei romani, inviati al-lo sterminio a Birkenau.Oggi a Roma esistono altresinagoghe, ma è nel TempioMaggiore, retto per oltrecinquanta anni dal prof.Toaff, che si svolge la vitadegli ebrei di Roma. Il 23maggio scorso si è celebra-to il centenario del Tempio.Alla presenza del presiden-te delle Comunità, AmosLuzzatto, del prof. Toaff edel suo successore RiccardoDi Segni, del sindaco WalterVeltroni, del cardinal Ruini,di molti ambasciatori, il rab-bino capo askenazita diIsraele si è idealmente ri-volto all’imperatore roma-no che nel 70 d.C. distrusseil Tempio di Gerusalemmecon questa parole: “Tito!Tu hai distrutto l’edificiodel nostro Santuario ed ec-co, nella tua città, si innal-za da cento anni un piccoloSantuario! La continuità delnostro futuro”. Un futuroche non è solo degli ebreima, al contrario, di tutti noi.Finché nessuna offesa verràportata al Tempio Maggioredi Roma e a nessuna altrasinagoga, allora potremoessere sicuri di vivere in unPaese civile e democratico.In vera libertà.

A.P.

Pagine di storia del Tempio Maggiore di Roma

“Un futuro che non è solo degli ebrei ma,

al contrario, di tutti noi”

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L’8 settembre 1943 a Rodi, “isola delle rose” vierano tra 30 e 36 mila soldati italiani e tra 8 e 10mila militari tedeschi.

Circa 2.000 gli ebrei che, atterriti al pari di tutta la po-polazione, assistevano agli scontri a fuoco tra gli exalleati. Il generale nazista Ulrick Kliemann, comandantela divisione Rhodos, preceduto da una bandiera bianca,propose una tregua al governatore italiano, ammiraglioCampioni, in attesa di ricevere dalla Germania l’ordine diabbandonare l’isola. Non fu così. Aerei tedeschi gettarono sulla popolazionevolantini terrorizzanti, che annunciavano la distruzionetotale della città qualora si fosse verificata una qualsiasiopposizione alle truppe naziste. Anche per evitare questatragica eventualità gli italiani cedettero, lasciando l’isolanelle mani dei tedeschi. Subito iniziarono le esecuzionisommarie, le vendette, le deportazioni.

Reo di avere resistito ai nazisti, anche l’ammiraglioInigo Campioni venne deportato in Germania, poinel 1944 consegnato alla repubblica di Salò. Che

lo fece fucilare a Parma, reo appunto di non aver imme-diatamente consegnato le armi ai nazisti. La sua sortesarà la stessa del contrammiraglio Luigi Mascherpa chesi permise di guidare la resistenza, per 45 giorni, nell’i-sola di Lero. Pur in presenza di questi fatti tragici, purisolata e priva di notizie – le loro radio erano state sigil-late già in precedenza dagli italiani – la comunità ebrai-ca di Rodi continuò a sperare. Mentre in tutta Europa gliebrei venivano sterminati, a Rodi i nazisti sembravanodisinteressarsi di loro. Ha raccontato Clara MenascéGabriel: “gli ebrei non avevano motivo di preoccuparsi:vivevamo come in un paese libero. Non erano tedeschi quel-li che erano in Rodi, ma austriaci. Ci raccontavano di es-sere stati arruolati con la forza. Erano della Wehrmacht.Non erano SS”. Molti giovani fuggirono, riparando nel-la vicina Turchia.

La maggior parte della Comunità rimase unita. D’altro can-to si trattava di famiglie numerose con molti bambini,con molte persone anziane. E poi perché non sperare se…all’avvicinarsi di Pesach i nazisti li invitavano persino apreparare per tempo le azzime! L’unico pericolo fino a quelmomento era rappresentato dai bombardamenti. Il quar-tiere ebraico era proprio vicino al porto, principale obiet-tivo dell’aviazione inglese. Due erano stati i morti il 2 febbraio ’44 e ventisei in apri-le, proprio nel primo giorno della Pasqua ebraica. Questaingannevole calma finì intorno ai primi di luglio. Giunseroa Rodi alcune SS, qualcuno parlò di due, altri di quattro.Si è detto anche di sei persone in borghese.

Il fatto è che costoro subito incontrarono all’Albergodelle Rose il generale Kliemann, cui fu immediata-mente chiarito che la loro missione consisteva nel

deportare e sterminare la comunità ebraica locale. Con unaordinanza del 3 luglio Kliemann proibiva agli ebrei disfollare oltre i 12 chilometri dalla città. E comunque so-lo nei villaggio di Trianda, Kremastò e Villanova. Nonse ne accorsero, pensarono fosse per proteggerli dai guaidella guerra. Non capirono che la rete era gettata. Pochigiorni dopo, il 18 luglio, un ufficiale tedesco si presentòa Bension R. Menascé, scambiandolo per il presidente del-la Comunità, per presentargli un ordine del comando te-desco. Scriverà Menascé: “un ufficiale del comando te-desco si presentò, alle 3 del pomeriggio, […] per farmi unacomunicazione. […] Gli ho detto che ero disposto ad an-dare con lui da M. Jacob Chalet Franco, il presidente.Giunti da lui, l’ufficiale ci ha detto che per ordine del co-mando tedesco, tutti gli ebrei dovevano, l’indomani mat-tina, presentarsi presso il comando dell’aeronautica, inTchemelik. La nostra preoccupazione da grande diven-ne grave: fu quel giorno che il fatale destino della popo-lazione ebraica del Dodecaneso venne deciso e fu a par-tire da quel momento che ebbe inizio la nostra tragedia”.La loro condanna allo sterminio venne firmata il 18 luglio1944. Vennero concentrati dapprima presso la sede delcomando aeronautico italiano, nella località di Tchemenlik,

Dall’isola delle rose all’inferno del Lager

di Aldo Pavia

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a ovest della città, ove risiedeva la Kommandantur. Tra il18 e il 24 luglio i nazisti emisero una serie di ordinanzecui gli ebrei erano tenuti all’osservanza, pena la fucila-zione in caso contrario. Prima ancora, il giorno stessodell’incontro con il presidente della Comunità, specialibanditori in bicicletta, gridarono per le strade dei villag-gi in cui gli ebrei erano sfollati, che: “ tutti gli ebrei, uo-mini dai tredici anni in poi, hanno l’ordine di presentar-si domattina alle 7 al Comando dell’aviazione coi loropermessi di lavoro e muniti delle carte d’identità”.Credettero di venire convocati per essere destinati a qual-che lavoro. D’altro cantol’ordinanza ove venneesposta, era scritta in te-desco, lingua ben poco co-nosciuta e comunque fa-ceva anche pensare ad uncontrollo urgente dei do-cumenti. La realtà fu chedocumenti e permessi dilavoro vennero ritirati ed i loro possessori privati cosìdell’identità.

Ridotti da quel momento a “pezzi”. Subito dopo i na-zisti si impadronirono dei loro beni. E nella stessagiornata impartirono l’ordine a tutte le donne ebree

di raggiungere, entro dodici ore, i loro congiunti con bam-bini, malati e soprattutto con denaro, gioielli, oro, tuttociò che avesse valore, effetti personali e provviste. Facendocredere – ed i nazisti erano maestri di menzogne – che lacollettività ebraica sarebbe stata trasferita in un’altra iso-la dell’Egeo e che quanto veniva richiesto era per farefronte al nuovo insediamento. Il presidente della Comunitàvenne costretto, accompagnato da un ufficiale della Gestapoe da un interprete, a recarsi di casa in casa esortando ledonne ad accorrere sollecitamente al luogo di concentra-mento. Poi con minacce, bugie, violenze, i nazisti si im-padronirono di tutto. Ricorda Violette Fintz che solo coni gioielli furono riempiti quattro sacchi. Una ragazzinache cercò di opporsi al furto della sua stella di Davide

venne presa a calci da una SS e la collanina le venne strap-pata violentemente dal collo. Lasciati senza cibo e acqua,mentre i nazisti, non ancora sazi, svaligiavano le loro ca-se. Per giorni a digiuno, insultati da alcune persone delluogo che mostravano loro delle cibarie, pronte a cederleloro solo a prezzi iperbolici. Un bicchiere d’acqua fu ven-duto a diecimila lire! Intanto i nazisti, il 20 luglio, emise-ro una nuova ordinanza ai non ebrei rendendoli consapevoliche la immediata fucilazione sarebbe stata la pena per chinascondesse un ebreo. Il 22 dichiararono il sequestro di tut-ti i beni ebraici ed il 23 venne ordinata l’immediata con-

segna all’autorità tede-sca di denaro, merci equanto altro apparte-nente ad ebrei. Al sac-cheggio nazista si af-fiancarono, purtroppo,anche non pochi greci.L’ordine di deportazio-ne giunse la domenica

23 a mezzogiorno. I nazisti fecero suonare le sirene degliallarmi per far sì che la popolazione scendesse nei rifugie nulla potesse essere visto. La lunga colonna degli ebreisi incamminò verso il porto, scortata su entrambi i lati daisoldati tedeschi armati e dai cani lupo, feroci ed ululanti.Percossi ad ogni incertezza, ingombrati dai bagagli, ledonne stringendo i loro piccoli tra le braccia. Una testimoneitaliana ha raccontato: “vedemmo ad un tratto una vec-chia, che dopo aver trascinato per un po’ la sua valigia,cadde a terra sfinita. Presa a calci dai soldati […] si alzòma dopo pochi passi si accasciò nuovamente al suolo: al-lora fu presa per i capelli e trascinata così e il suo corpospazzava la strada”.

Durante il tragitto per il porto fu loro comandato dicamminare sempre con la testa bassa, senza guar-dare alcuna persona, pena la morte. I circa due-

mila ebrei rodioti vennero imbarcati su tre carrette per iltrasporto del carbone. Così iniziò il loro viaggio versol’efferato ignoto. Dopo una sosta a Lero, ove si aggiun-

Una sinagoga senza piùla sua antica comunità

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LA TRAGEDIA DEGLI EBREI DI RODI

se una quarta motozattera con un centinaio di ebrei diCoo, arrivarono al Pireo tra il 31 luglio ed il 1° agosto. Iprimi morti si ebbero durante il viaggio in mare. Pare sia-no stati sette, gettati ai pesci. All’arrivo al Pireo quindi-ci salme furono lasciate sul molo. Altre vennero buttatesu un camion e trasportate ad Haidari, il tristemente fa-moso campo di concentramento nei pressi di Atene, un ve-ro e proprio deposito di condannati all’assassinio. Da quipartirono anche gli ebrei di Salonicco e tra loro ShlomoVenezia, cui noi dobbiamo molto sulla conoscenza deiSonderkommando di Birkenau.

Qui vennero divise le famiglie, tra urla e percosse.Una vecchia fu assassinata con un colpo di rivol-tella. Molti altri fustigati, donne e bambini colpi-

ti da scudisciate sul volto. Per una intera giornata gli uo-mini vennero tenuti inpiedi sotto il sole ro-vente. Le donne obbli-gate a denudarsi e per-quisite dalle SS che cer-cavano nelle loro partiintime gioielli nascosti.Picchiate e frustate alminimo cenno di reazione per pudore. I bagagli sequestrati,i denti d’oro strappati. Privati persino degli occhiali. E,dopo un viaggio a dir poco allucinante, lasciati senza ci-bo ed acqua per tre giorni! Ad un uomo ormai in fin di vi-ta per la sete fu fatta bere dell’urina. Il 3 agosto, caricatisu carri bestiame alla stazione di Atene, gli ebrei di Rodi,e quelli di Coo, partirono per Auschwitz. Con poche emisere vettovaglie procurate dalla Croce Rossa.Attraversarono Grecia, Iugoslavia, Ungheria, Ce-coslovacchia. Poi la Polonia e il 16 si trovarono sulla ram-pa in Auschwitz. Durante il viaggio molti furono i de-cessi, stimati in un centinaio circa. Salomon Galante ri-cordava che ogni due giorni le SS aprivano i portelloni egridavano: “Raus mit den Toten”. Le ricerche di Liliana Fargion, pubblicate nel suo inso-stituibile e prezioso Libro della Memoria, ci fanno sa-

pere che 346 uomini e 254 donne superarono la sele-zione. Il 27 ottobre 93 di loro – uomini e donne – ven-nero inviati a Dachau, mentre il 25 gennaio del ’45 unpiccolo gruppo di 20 uomini giunse a Mauthausen.Dell’arrivo a Birkenau un superstite ci ha raccontato:“appena discesi dai vagoni… ciò che si offrì ai nostriocchi fu la vista di alte volute di fumo e l’odore di stof-fa e di carne umana bruciata. […] I bambini, che face-vano pena a vedersi, si tenevano avvinghiati alle gam-be delle loro madri in uno stato di profonda dispera-zione. Le SS cominciarono a percuotere gli uomini e ledonne più anziane, altrettanto fecero con i bambini piùpiccoli che fissavano i loro occhi in quelli delle madri,invocando aiuto…le SS strappavano i bambini dallebraccia delle loro madri, senza permettere loro di ab-bracciarli per l’ultima volta. Dopo di ciò il camion par-

tiva trasportando questepovere donne che getta-vano il loro ultimi sguar-di sulle loro creature egridavano: que el Diò estécon vosotros”. Al loro ar-rivo gli ebrei rodioti sisentirono dire strane co-

se. A Laura Hasson che aveva in braccio un bambinoqualcuno disse di darlo ad un'altra donna, purché non gio-vane.

Un ebreo di Roma consigliò ad alcune di non darsimai malate, anche se avessero avuto 40 di febbre.E quando, cantando durante il lavoro, speravano

di rivedere le loro madri, le più anziane prigioniere indi-cavano loro le fiamme del crematorio. D’altro canto larealtà di Birkenau era tale che normali menti umane nonpotevano neanche lontanamente concepirla. Ma dovet-tero capirla e conoscerla. E viverla per quanto possibile.Sulle giovani donne di Rodi furono eseguiti esperimen-ti sulla sterilizzazione. In questo senso hanno rilasciatotestimonianze Laura Hasson, Sara Benatar, Anna Cohene Giovanna Hasson raccolte da Giovanni Melodia, alla

Il novanta per centoassassinati nei lager

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Un libro,un ricordo

Chi volesse conoscere meglio, più a fondo la storia diquesta affascinante comunità si legga il prezioso libro diEsther Fintz Menascé Gli Ebrei a Rodi, cui chi scrivedeve molte delle notizie che vengono riportate in questoarticolo. Nell’isola delle rose della “piccola Gerusalemme”pochi si ricordano e ancor meno sanno. Ma in tutti i ro-dioti quella memoria è ben presente. La juderia è nellaloro essenza. Come ha fatto Esther Finz, in chiusura delsuo libro, in memoria delle vittime della barbarie nazi-sta, crediamo essere la cosa migliore fare conoscere la poe-sia di Nora Menascé:

La Juderìa(23 luglio 1944)

Era come se una gravissima epidemiaavesse spopolato di colpo tutta la juderìa.Le case abbandonate si chiedevano stupite

di qual natura potesse essere quello strano maleche aveva ucciso vecchi, giovani, bambini,

causando un tragico collettivo funerale.Per esse le finestre chiuse eran come ferite;

e già pensavano con tristezza al nuovo padrone,perché spesso le cose soffrono più delle persone.

Intanto una molto straordinaria carovanadella Grecia si avviava a varcare i confini

dirigendosi verso una meta d’assurda mortetra lamenti, gemiti e altre grida di dolore

per aggiungere alla grigia Europa inceneritaceneri fatte d’innocenza e di distrutta vita.Degli ebrei di Rodi questa è stata la sorte

ma a dispetto della follia nazista disumanaè rimasto in noi rodioti qualcosa che non muore:

composta di ricordi, di rimpianti e nostalgiavive ancora nel mondo l’anima della juderìa.

Nora Menascé

liberazione di Dachau, ove erano giunte da Auschwitz.E da Melodia pubblicate nel n° 25 bis de Gli Italiani inDachau – edizione speciale del 2 giugno 1945.Il novanta per cento degli ebrei di Rodi venne assassina-to nei Lager. Tra i pochi superstiti, per la maggior partedonne, le quattro giovani conosciute da Melodia a Dachaue con loro Rahamin Coen, Violette Maio, Rachele LinaAlhadeff, Rachele Almeleh a Bergen-Belsen, a MauthuasenAscer Varon, Giuseppe Varon, Sidney Fahn, ebreo cecocapitato a Rodi e da lì deportato, Rachele Cugno a Terezin,e ancora Rosa Hanan, Fortunata Menascé, SamueleModiano, Lucia Sciaron, Salomon Galante. Non venne-ro deportati, salvandosi quindi, quaranta ebrei di Rodiche il console turco riuscì a strappare ai nazisti perché dinazionalità turca o sposati con donne turche o di nazio-nalità straniera, cioè non italiana. I superstiti non volle-ro più tornare a Rodi e preferirono raggiungere parenti oaltri rodioti in America, in Africa, in Palestina, in Australia.

Nel 1946 si tenne a Rodi una “assemblea generale”cui partecipò una cinquantina di ebrei. Venne elet-to un Consiglio e nominato presidente Elia Soriano.

Tra le prime decisioni quella di erigere una stele, un mo-numento a ricordo degli ebrei di Rodi e di Coo sterminatidai nazisti. Inaugurata il 4 maggio 1949, oggi la si può ve-dere nel locale cimitero ebraico. L’elenco dei nomi del-le famiglie annientate, nel 1969, è stato affisso nella re-staurata sinagoga della Pace, Keillà Shalom. L’Aned diRoma conserva con commozione ed orgoglio una lette-ra con il timbro della Comunità di Rodi, datata 29 agosto1986,con la quale il presidente Maurice Soriano invia co-pia della lista completa dei deportati da Rodi. Ma, nono-stante gli sforzi, tutta la buona volontà, l’impegno piùentusiasta, il Consiglio non ha potuto che prendere attoche la Comunità ebraica di Rodi non esiste più. Così ab-biamo perduto, assassinata dai criminali nazisti, una del-le più antiche, prestigiose comunità ebraiche. Oggi a Rodiesiste Keillà Shalom, una stupenda sinagoga, completa deisuoi arredi sacri, dei suoi rimonin. Ma non esiste una con-gregazione, non cercatevi un rabbino.

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Il mio primoincontrocon EugenioCuriel nella Milano della Resistenza

La prima volta che ho co-nosciuto Curiel, in un po-meriggio del febbraio 1944,non è stata una cosa propriopiacevole per me: Curiel nonera un tipo dolce, esterior-mente; era ruvido e preoc-cupato di “educarci”. E cer-to c’era molto da educare al-lora nella gioventù italiana ecosì particolarmente in me:poco più che ventenne, po-liticamente ingenuo, piùanarchico ancora che co-munista.

Curiel allora e dopo di al-lora, per lunghi mesi, svol-se una funzione decisivaverso di noi: ci insegnò la fi-ducia.Fiducia nel popolo italia-no, contro chi tendeva a li-mitare il suo moto di resi-stenza alla cerchia ristret-ta di una minoranza di an-tifascisti, come se si do-vessero ricordare dell’I-talia del “ventennio” solole adunate “oceaniche” ele parate in divisa. A meche concepivo la lotta nel-

la forma infantile di suc-cessivi colpi di sorpresa,Curiel insegnò quel giornola fiducia nella classe ope-raia, nel suo peso orga-nizzativo e politico, nellasua azione continua e du-ratura; insegnò lo scarsovalore politico di un’azio-ne di avanguardia sia purbrillante ma - se non sor-retta dal consenso e dallamobilitazione di tutto unpopolo - fatalmente desti-nata a ripiegare su se stes-sa, ad inaridirsi in brevetempo. Curiel ci insegnò la fiducianella gioventù italiana,contro chi la voleva instu-pidita dal fascismo, soloignorante, disorientata emagari anche disonesta evile.Ci insegnò quanto fosse

antistorico e antiumano unsimile giudizio; ci insegnòa vivere tra gli altri giova-ni, ad amarli quali erano,a formare con essi unacompagine sempre più lar-ga: ad essere insomma igiovani della nuova Italia:uomini e non automi.

Il 24 febbraio del 1945 a Milano venne ucciso dai fascisti Eugenio Curiel, fondatore del Fronte della Gioventù, partigiano, una delle figure più rappresentative del Partito comunista italiano. Nel sessantesimo della morte pubblichiamo un articolo di Quinto Bonazzola, dirigente del Fronte della Gioventù, compagno e amico di Curiel, pubblicato in apertura della terza pagina dell’Unità il 21 febbraio del 1951 col titolo “L’insegnamento di Eugenio Curiel”

Il ritratto riprodotto quisopra è una delle opereesposte al museo dellaShoah di Seattle,negli Stati Uniti. È intitolato “L’ebreo eroedella Resistenza italianaEugenio Curiel di CastelSant’Angelo” ed è opera diJerry Brozowski, un artistadi Tacoma, nello stato diWashington.A sinistra, la lapide posta aMilano nel luogo dove Curielfu assassinato dai nazifascisti.Nella pagina accanto,partigiani e cittadinifesteggiano la Liberazionedi Milano.

A SESSANT’ANNI DALLA MORTE DI UNA DELLE FIGURE PIÙ RAPPRESE

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Ogni volta che anche dopodi allora mi sono accorto diavere poca fiducia nellapossibilità, nella necessitàdelle lotte di massa (unmomento di scoraggia-mento è facile in noi piùgiovani compagni, quan-do vediamo che la realtànon si adatta ai nostri tan-to belli e tanto facili sche-mi teorici) ogni volta misono ricordato di Curiel,di quell’insegnamento po-litico cui egli mi richiamòquel giorno, la prima vol-ta che lo vidi.

Dopo di allora più di unavolta ancora Curiel si mo-strò severo con me: era que-sto il suo modo per fare ca-pire l’importanza delle que-stioni su cui discutevamo.Ricordo per esempio unaventosa giornata di prima-vera, poco dopo che nelMezzogiorno, sotto la pre-sidenza del marescialloBadoglio e con la parteci-pazione dei partiti antifa-scisti, si era formato il pri-

mo governo democraticoitaliano. Curiel, cammi-nando a grandi passi - co-me sempre faceva - lungo iviali della circonvallazioneda Porta Nuova a PortaVittoria, mi fece un lungoe brusco discorso per ri-spondere ad una mia os-servazione circa la poca uti-lità pratica di una presa diposizione del Fronte dellaGioventù nei confronti diquel nuovo governo: delprimo nostro governo dopoventidue anni di ditttura.Curiel mi fece capire allo-ra, parlando in fretta, a lun-go, stringendo le parole trale labbra per non farsi sen-tire dai passanti, quanto sta-tica e limitata fosse la con-cezione della democraziache potevo avere allora io,ventenne, coevo alla co-siddetta era fascista da cuitragicamente tutti stavamouscendo.

Mi parlò dell’importanzadi un contributo continuoe diretto della popolazio-

ne alla vita democraticadel Paese: dell’importan-za dell’intervento, dell’ini-ziativa popolare, quale po-teva esprimersi attraversole prese di posizione di quel-le organizzazioni democra-tiche che le esigenze stes-se della lotta venivano al-lora creando.Questa democrazia direttacontinua e progressiva, cheallora Curiel ci insegnava aformare e a comprendere,dirigendo il sorgere delFronte della Gioventù, que-sta sola poteva corrispon-dere ai bisogni ed alla vitastessa del popolo italiano.

Curiel poi era molto se-vero anche con chi non ri-spettava le norme della vi-gilanza della “cospira-zione”: definiva irrespon-sabile individualismo,pseudo-eroismo istericol’atteggiaento di chi ac-campava di “avere corag-gio” per non comportarsicome la serietà del mili-tante gli imponeva.

Il suo animo buono, fra-terno, si mostrava invecenelle piccole cose, per lequali continuamente cer-cava di poterci aiutare. Edera allora anche disposto ascherzare sulle difficoltàorganizzative, sui contrat-tempi nel lavoro, suoi pro-pri e sui nostri difetti.

Nei confronti dei soldati diGraziani, che noi disprez-zavamo, Curiel insistevasempre al fine di spingercia compiere un’azione dipropaganda; a non consi-derarli in nessun caso “per-duti” per sempre. Ci spiega-va in quali condizioni essiprobabilmente avevano do-vuto piegarsi ai bandi e alleminacce poste in atto per ar-ruolarli. Ci invitava ad un la-voro serio per organizzare ladisgregazione tra essi. Vedevainsomma anche in loro delleforze viventi in sviluppo enon solo delle divise. Ed an-che in ciò era profondamen-te umano, cioè politico.

Quinto Bonazzola

ENTATIVE DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO

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L’olandese Helga Deensorellina ideale di Anna e Dawid

Questo disperato messaggiovenne inviato da Helga dalcampo di raccolta di Vughtal proprio fidanzato, Keesvan den Berg, in una matti-na del mese di luglio del1943. Il messaggio è contenuto inun diario di una ventina dipagine tenuto segreto fino ainostri giorni e fatto cono-scere soltanto ora dal figliodell’allora ragazzo di Helga,che l’ha fatto avere all’Istitutoreale olandese di ricerchesulla guerra, che lo renderàpubblico il prossimo mag-gio, in occasione del ses-santesimo anniversario del-la liberazione del lager.

Helga come Anna Frank,come Dawid Rubinowicz,come un altro milione emezzo di adolescenti ebreiassassinati dai nazisti. Tre storie diverse, eppuretanto eguali, di queste tre vit-time di cui conosciamo i pre-cedenti del loro martirio. Ledue ragazze erano olandesi,il piccolo David polacco.

Di famiglia borghese le ra-gazze, figlio di un contadi-no il fanciullo. Ma avrebbe-ro potuto essere ancheEinstein o Freud, per i nazi-sti contava soltanto che fos-sero ebrei e tanto bastava perdargli una caccia spietata eper ucciderli. Celebre la ri-sposta di Goebbels a Furt-wangler che sosteneva la cau-sa di Bruno Walter: “Sarà an-che un ebreo, ma è soprat-tutto un grande musicista”. E la replica di Goebbels:“Sarà anche un grande mu-sicista come dice lei, ma èsoprattutto un ebreo”. Da eli-minare, evidentemente, o perstrada o in un carcere oppu-re in una camera a gas. Perfortuna Walter riuscì a sfug-gire ai nazisti e poté, negliStati Uniti, dirigere i mag-giori complessi orchestrali.Ma una tale fortuna non toccòalle due ragazze olandesi nétoccò al ragazzino polacco. Mai dimenticare le loro sto-rie. Trovandomi a Varsaviacome giornalista, ho avutoil privilegio di far conosce-re agli italiani il Diario diDawid Rubinowicz, che fu

RITROVATO IL SUO DIARIO A SESSANT’ANNI DALLA MORTE NEL CAM

Le ultime parole che conosciamo di Helga Deen,una ragazza olandese di 18 anni,assassinata dai nazisti, assieme a tutti gli altricomponenti della sua famiglia,nel campo di sterminio di Sobibor, sono queste:“Ho visto stamattina un bambino morire,sono sconvolta. Ma tutto è meno importante di un’altra cosa: si prepara un nuovo trasporto e questa volta faremo parte del viaggio”. Un viaggio che lei sapeva perfettamente che sarebbe stato senza ritorno

Le copertine dei libridell’Einaudi con i diari di Anna Frank e Dawid Rubinowicz,Sopra e nella pagina accantoil diario originale trovatonella borsa di Helga

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trovato, per puro caso, dauna insegnante, nel casso-netto della spazzatura. Scritto su quaderni scolasti-ci e trovandosi, per fortuna,alla sommità dell’immondi-zia, attirò l’attenzione, di-ciamo così, professionale,dell’insegnante, che, lette leprime righe, non tardò a ren-dersi conto dell’ecceziona-lità di quella scoperta.

I quaderni erano finiti lìperché un muratore li ave-va trovati in un anfratto diuna parete che stava ripa-rando, dove erano stati na-scosti, e li aveva gettati nelcassonetto, senza rendersiconto del loro valore.Pubblicato in Polonia alla fi-ne degli anni Cinquanta ven-ne tradotto in molte linguee, in Italia, venne fatto co-noscere prima dal giornalein cui scrivevo, l’Unità, esuccessivamente dall’edito-re Einaudi. Le ultime parole di Dawid,nel diario sono terribili:“Questa mattina due ebree

erano andate in un villaggio,erano madre e figlia: Per sfor-tuna, dei tedeschi venivanoda Rudki a Bodzentyn per lepatate, e hanno incontratoqueste due ebree. Quando lo-ro hanno visto i tedeschi han-no cominciato a scappare, maquelli le hanno raggiunte eacchiappate. Le volevano fu-cilare subito nel villaggio,ma il sindaco non l’ha per-messo, allora le hanno por-tate al bosco e lì le hanno fu-cilate. La polizia ebraica èandata subito col carro perseppellirle nel cimitero.Quando sono tornati, il car-ro era tutto sporco di sangue”.Così la maestra ricordaDawid:

“Era un bimbo curioso. Unasola volta l’ho visto triste:piangeva. Fu quando gli dis-si che i tedeschi avevano proi-bito ai ragazzi ebrei di fre-quentare le scuole”. Le ultime parole di AnnaFrank sono del 1° agosto1944, tre giorni prima del-l’arresto e sono, come sem-pre, indirizzate alla “caraKitty”: «Non sopporto, quan-do si occupano tanto di me,allora sì che divento primasfacciata, poi triste e alla fi-ne torno a rovesciare il cuo-re, giro in fuori la parte brut-ta e in dentro la parte buonae cerco un modo per diven-tare come vorrei tanto esse-re e come potrei essere se...nel mondo non ci fosse nes-

sun altro».

Sfortunatamente in quelmondo c’erano “altri”.C’erano i delatori che indi-carono ai tedeschi l’indiriz-zo dell’alloggio segreto do-ve per due anni erano so-pravvissuti Anna e gli altri ec’erano gli aguzzini nazistiche davano una caccia spie-tata agli ebrei per poi assas-sinarli nelle camere a gas.Nel maggio del ’44 Annaaveva scritto: “Il mio più ca-ro desiderio è di diventareun giorno giornalista e poiscrittice”. A giudicare dal suo DiarioAnna sarebbe diventata unagrande scrittrice. Helga, chis-sà; Dawid, in ogni caso, unonesto cittadino polacco.Tante vite stroncate. Mai di-menticare. Nel Dizionariodell’Olocausto pubblicatoda Einaudi c’è scritto: “Deisei milioni di ebrei che mo-rirono nell’Olocausto, un mi-lione e mezzo erano bambi-ni, in gran parte al di sottodei quindici anni”.

I.P.

PO DI STERMINIO DI SOBIBOR

Helga Anna Dawid

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L’importanza degli archivi del partigianoGiorgio Gimelli

Come fece Giorgio Gi-melli, il partigiano ligure,che, dimesse le armi dallaguerra di Liberazione, ini-ziò a studiare il fenomenodella sua partecipazione aiventi mesi di quella rivol-ta che “si chiamava ora esempre Resistenza”.

Gimelli si sarebbe rico-nosciuto perfettamente inquesta legge, nelle due ve-sti di partigiano e di sto-rico. La sua storia è la stes-sa di altre decine di mi-gliaia di uomini, con il va-lore aggiunto di aver lavo-rato a ricostruire, a ricer-care, a ricomporre le ra-gioni per le quali tante sin-gole volontà hanno decisodi partecipare a una guer-ra, a intraprendere un per-corso incerto e rischioso,in fondo al quale, però, c’e-rano libertà e democrazia.

“…un uomo di tutt’altraprofessione – si scrive sulDizionario della Resisten-za – che appartenendo al-la schiera dei Mattioli, do-po la Resistenza, deposele armi, divenne non soloun uomo politico assu-mendo incarichi pubblici,ma affrontò gli studi su-gli ultimi anni della guer-ra approfondendo con l’a-nalisi e la verifica, il si-gnificato della sua sceltapolitica, sociale e cultu-rale”. Ne nacque una sto-ria della Resistenza inLiguria che già negli anniSessanta vide luce in duevolumi, poi replicata nel1985 in tre volumi editidalla Cassa di risparmiodi Genova e Imperia, no-tevolmente arricchita didocumenti, testimonian-za dell’ininterrotto lavo-ro di aggiornamento e ri-cerca, ma forse con un ti-tolo troppo umile: Cro-

SONO DEPOSITATI A GENOVA E A MILANO PRESSO LA FONDAZIONE ME

Nei primi giorni dell’aprile scorso, la Regione Liguria,governata da una giunta di centrodestra, ha appro-vato una legge per ribadire che l’antifascismo è unvalore fondante di questo nostro paese. E la resisten-za è un valore che va continuamente riaffermato co-me base – ha scritto un quotidiano che dava conto diquesta iniziativa della Regione Liguria – dei principidi pace, di libertà, di giustizia e di solidarietà conte-nuti nella Costituzione italiana. Alleanza nazionale,che in più occasioni mostra il suo volto genuino, nonha votato questa legge definita “inutile e faziosa”. Si comprende il tentativo di sbarramento: questo do-cumento coinvolge più il futuro che il passato perchéè implicito nelle parole del testo l’invito (e la neces-sità) a continuare il lavoro di rilettura, di ricerca, diconfronto storico e culturale su quegli anni della no-stra storia. Non deve e non può bastare il lavoro di scavo, di ri-costruzione, di studio condotto finora, per quantoscientificamente valido e documentato sui fatti, su-gli avvenimenti, sul materiale conservato negli ar-chivi di Stato e degli Istituti della Resistenza. Unastoriografica viva è quella che sente la necessità diessere continuamente aggiornata, ampliata, sottopo-sta verifiche

Ben catalogato il “Fondo Gimelli” è consultabile nella sededella nostra Fondazione. Nella pagina accanto, Gimelli (con la sigaretta) quando militava nelle formazioni partigianesull’Appennino ligure e al V Congresso dell’Anpi genovese.

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nache militari della Re-sistenza in Liguria.Quanto abbia cercato, tro-vato e raccolto, di certo unamesse ricchissima di do-cumenti, è testimoniato dalfondo che porta il suo no-me, conservato dall’archi-vio dell’Istituto ligure perla storia della Resistenzae dell’Età contemporanea.Sulle preziose carte di que-sto archivio ha scrittoElisabetta Arioti in un fa-scicolo della rivista Storiae memoria del 2002, cheparla dell’esistenza di due“Fondi Gimelli”. Anche seper cenni, si intuisce l’im-portanza di queste carte.

Non solo per la storia. Inuna relazione approntata dalConsiglio della Magistraturamilitare, Storia e memoria- Stragi naziste impunite,sta scritto “dettagliate indi-

cazioni in ordine alla com-posizione e all’organigram-ma dell’AK [Aussenkom-mando=Comando distacca-to] di Genova fornisceGiorgio Gimelli nelle suCronache militari dellaResistenza in Liguria”.Un pezzo, un altro pezzodi archivio Gimelli è statodonato dalla moglie e dalfiglio alla Fondazione Me-moria della Deportazionedi Milano. Forse, più chemateriale d’archivio, que-sti pezzi che ancora si con-servavano in casa dopo lascomparsa dello storico,questi pezzi potrebbero es-sere definiti dei cimeli aiquali, dato il loro caratte-re, è probabile fosse sen-timentalmente legato. Nonse ne fa certo qui una de-scrizione, ma solo un cen-no per dire che si tratta distampa clandestina, numerisparsi di giornali come IlFuorilegge, Il Patriota, Il

Risveglio, Voce garibaldina,Il Partigiano, alcuni nu-meri dell’Unità, quellastampata alla macchia.

Nel suo libro sono allega-te carte di operazioni mi-litari svoltesi in Liguria. Ilfatto che tra questi cimelivi siano grandi carte pla-stificate con le indicazionidelle direttrici operativedelle armate sovietiche inguerra contro l’esercito na-zista, indica una passioneanche per gli studi di tatti-ca militare.Tra queste carte che rite-niamo siano servite alle sue“Cronache”, vi sono anchealcuni raccoglitori conscritti, a mano e a macchi-na, su argomenti di varianatura, sempre collegati al-la seconda guerra mondia-le, che potrebbero essereserviti come base per arti-

coli o già articoli esse stes-si. Compare spesso, fraqueste pagine la firma diGiulio Monatti che Gimellicita spesso nel suo lavorocome una fonte documen-taria e raccoglitore di te-stimonianze e che nella ri-vista Resistenza bresciana(n.15, 1948) scrisse un ar-ticolo dal titolo Rettifichee complementi alla “Storiadella Resistenza italiana”di R. Battaglia.Giorgio Gimelli, oggi aSori, il paese presso Ge-nova in cui viveva, è ri-cordato anche da una pas-seggiata dedicata al co-mandante partigiano e sto-rico. A Milano c’è un pez-zo del suo archivio, aGenova il grosso delle suecarte. Ma il suo monu-mento resta quella storiadella sua regione degli an-ni tormentati che si apronosul futuro.

Adolfo Scalpelli

EMORIA DELLA DEPORTAZIONE

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Diecimila presenze in soli 23 mesi al Museo di Prato

La prevalenza di scolare-sche.Importante notare le rea-zioni alla visita: nella mag-gioranza dei casi i ragazzimostrano vivo interesse eprofondo coinvolgimento.Spesso le scolaresche arri-vano al Museo abbastanzaben preparate dai loro in-segnanti ma l’impatto emo-tivo con la realtà dei reper-ti autentici del lager e, quan-do possibile, della testimo-nianza di un superstite(Roberto Castellani, scom-parso di recente), aggiungela coscienza dell’infinitasofferenza dell’uomo difronte a guerra, persecu-zione, prigionia, maltratta-mento e morte, consapevo-lezza questa che è lo scopoultimo della didattica di ta-li tematiche.Spesso la visita guidata alMuseo è preceduta dalla

proiezione, nella sala videoal Centro di documenta-zione, del film-inchiesta diMassimo Sani con la con-sulenza storica di EnzoCollotti Un futuro per lamemoria - Viaggio da Pratoad Ebensee, città europeegemellate per non dimen-ticare in cui si ripercorronole vicende locali debita-mente inserite nel contestogenerale (l’antifascismo e laResistenza, l’organizza-zione dello sciopero gene-rale del marzo 1944, la de-portazione degli operai, illager, il ritorno dei super-stiti, la genesi e i risultatidel gemellaggio tra la cittàtoscana e quella austriaca)oppure del film Luci nelbuio di Gabriele Cecconisulla vita dell’ex-deportatoRoberto Castellani.Soprattutto nel fine setti-mana i visitatori sono in pre-valenza piccoli gruppi, fa-miglie e singoli provenien-

ti anche da altre città ita-liane ed estere, come testi-moniano le firme nel librodelle presenze: Bologna,Padova, Roma, Mantova,Napoli, Palermo, Bolzanoe dall’estero Francia, Ger-mania, Austria, RepubblicaCeca, Svezia, Inghilterra,Messico, Stati Uniti, Ca-nada, Australia.

Gli amici dell’Aned, gio-vani molto motivati: pre-sentazioni di libri, confe-renze, teatro.Il Centro è anche la sede diriunione degli Amici del-l’Aned, un gruppo di gio-vani molto motivati, guida-ti dall’architetto AlessandroPagliai, che intendono of-frire il loro impegno alla vi-ta associativa dell’Aned. Èinoltre luogo di confrontoe di crescita culturale sui te-mi della storia del No-

vecento, con presentazionidi volumi, in prevalenza distoria contemporanea, con-ferenze e piccoli eventi spet-tacolari.Nell’inverno 2002 si è avu-ta la presentazione, alla pre-senza degli autori, dei vo-lumi Kesselring e le straginazifasciste di Ivano To-gnarini, presidente dell’Isti-tuto storico della Resistenzain Toscana, e Villa Emma:ragazzi ebrei in fuga dellostorico berlinese KlausVoigt.Le varie iniziative organiz-zate al Centro in stretta col-laborazione con l’ufficio delsindaco intorno alla Gior-nata della Memoria 2003,hanno richiamato un vastopubblico. La Regione Toscana hascelto proprio il Museo del-la Deportazione di Pratoper la prima di molte sueiniziative in occasione del-la Giornata della Memoria

UN PRIMO BILANCIO A DUE ANNI DALL’INAUGURAZIONE – INCONTRI,

Il bilancio dell’affluenza dei visitatori a due annidall’inaugurazione del Museo e del Centro, avvenutail 10 aprile 2002 alla presenza del capo dello Stato edel presidente dell’Aned Gianfranco Maris, è più chesoddisfacente.Quasi 10.000 presenze in due anni e mezzo (totale di 23 mesi considerando le chiusure estive nel 2002,2003 e 2004) non sono poche, se si tiene conto che sitratta di una struttura nuova e anche del fatto che ilMuseo si trova in un luogo abbastanza decentratorispetto a Prato, in località Figline, dove si ricordaanche l’impiccagione di 29 partigiani per mano diun’unità della Wehrmacht in ritirata, il giorno stessodella Liberazione della città (6 settembre 1944).Se poi consideriamo che nei soli primi quattro mesidell’anno 2004 abbiamo già avuto quasi 2.000visitatori, in prevalenza studenti delle scuole medieinferiori e superiori, soprattutto da Prato e provincia e molte altre zone della Toscana ma anche da altreregioni d’Italia e dall’estero, il risultato non può che dirsi lusinghiero e comunque in crescita

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2003: circa 90 ragazzi pro-venienti da varie scuole me-die superiori della regionesono stati premiati nel no-stro Centro dall’assessoreregionale Benesperi per icomponimenti scritti (omultimediali) sul tema del-la Deportazione e dellaShoah e risultati i migliori.La Regione Toscana si èespressa inoltre favorevol-mente sull’ipotesi di faredel Museo pratese unMuseo di rilevanza regio-nale, punto utile di coordi-namento per tutte le ini-ziative sulla Giornata del-la Memoria.

Di respiro europeo il se-condo appuntamento delgennaio 2003: il confron-to sul lavoro svolto nei luo-ghi della memoria inGermania e in Italia avve-nuto grazie alla presenta-

zione delle realtà nei ri-spettivi paesi da parte deirelatori Thomas Lutz dellaFondazione “Topographiedes Terrors” di Berlino eTristano Matta dell’Istitutoregionale del Movimento diLiberazione di Trieste.La sala conferenze si è poitrasformata la sera del 25gennaio 2003 in un piccoloteatro pieno di un’atmosfe-ra di raccoglimento ed emo-zione in occasione del re-cital di parole e musica del-l’attrice Cecilia Gallia Uncuore pensante dal diariodi Etty Hillesum, giovaneebrea olandese assassinataad Auschwitz.Le iniziative per la Giornatadella Memoria 2003 si sonoconcluse con la presenta-zione del libro del ricerca-tore pratese Luca Bravi sulgenocidio dei Rom nelTerzo Reich.Nella primavera 2003 altridue appuntamenti: il 27

marzo, una conferenza-di-battito dal titolo “La me-moria per la pace – rifles-sione a più voci sulle guer-re di ieri e di oggi”, ha vi-sto la partecipazione dellostorico Giovanni Gozzini,direttore del GabinettoVieusseux di Firenze, delgiurista Danilo Zolo, idea-tore ed estensore della leg-ge di iniziativa popolareper l’attuazione dell’arti-colo 11 della Costituzione(“L’Italia ripudia la guer-ra...”) e Riccardo Toniolo,esponente di Emergency,l’Associazione italiana pergli aiuti umanitari alle vit-time delle guerre e dellemine antiuomo. Questa oc-casione è stata pensata percontribuire al dibattito con-temporaneo sulle nuoveguerre.Il secondo prestigioso ap-puntamento, l’11 aprile2003, nella scadenza del pri-mo anniversario del Museo

della Deportazione e delCentro di documentazione,ha condotto a Prato alcunitra i maggiori storici del no-stro paese: la presentazio-ne del nuovo Dizionario deifascismi della casa editriceBompiani (2002) che ha vi-sto la presenza dei due cu-ratori Brunello Mantelli eNicola Tranfaglia e di EnzoCollotti che ha introdottol’argomento.Quest’ultimo, massimoesperto della Germania na-zista in Italia, è anche mem-bro del comitato di consu-lenza del Museo insiemeagli storici Nicola Labanca,Brunello Mantelli e MarcoPalla, a Francesco Rossi,preside del famoso Istitutotecnico industriale “Buzzi”di Prato, allo storico localeMichele Di Sabato e aFranco Neri, direttore del-la biblioteca comunale“Lazzerini” di Prato che ge-stisce la struttura.

DIBATTITI, CONFERENZE, PROIEZIONI, RICERCHE E VIAGGI/STUDIO

Il capo dello Stato Ciampi e il presidente dell’Aned Gianfranco Marisall’inaugurazione del Museo il 10 aprile del 2002.

Tra i cimeli conservati a Prato ecco una “gamella di metallo smaltata deldeportato con gancio da attaccare agli abiti” e una “piastrina di latta conl'iscrizione del numero di matricola e filo di ferro per applicarle al polso”.Ad Auschwitz il numero veniva tatuato sul braccio.

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Diecimila presenze in soli 23 mesi al museo di Prato

Un’affluenza di pubblicostraordinaria per la festadella Liberazione.Per la festa della Libe-razione 2003 (iniziativa ri-petuta nel 2004) il Museo èrimasto aperto tutto il gior-no registrando l’ottima af-fluenza di un pubblico sti-molato al confronto con icrimini nazifascisti anchedalle polemiche sul valoredel 25 aprile come appun-tamento fondamentale e ir-rinunciabile della nostraRepubblica. Lo stesso gior-no al Centro di Documen-tazione si sono proiettatifilm d’autore e documenta-ri sulla Resistenza.Il 20 giugno 2003 è stato pre-sentato il volume pubblica-to dalla Regione Toscana Lestragi nazifasciste in To-scana 1943-45. Guida bi-bliografica alla memoria acura di Valeria Galimi eSimone Duranti. Introdu-cevano gli storici MarcoPalla ed Enzo Collotti.

La memoria dell’eccidiodi Figline di Prato: sco-vato il nome di un nazistaresponsabile.Il 2 settembre 2003, nel-l’ambito della settimana diiniziative dal titolo “Aspet-tando il 6 settembre” (datadell’eccidio di Figline diPrato), organizzate dalla cir-coscrizione Prato Nord, si èsvolto un incontro con lo stu-dioso Carlo Gentile che piùdi ogni altro ha avuto ac-cesso alle fonti tedesche e

statunitensi, prezioso con-sulente della magistraturatedesca e italiana per le va-rie indagini sui crimini diguerra commessi dai nazi-fascisti in Italia. Dai suoi documenti è emer-so il nome del responsabiledell’eccidio di Figline diPrato, il maggiore di com-plemento Karl Laqua, della334° divisione di fanteria,comandante del primo bat-taglione del reggimento gra-natieri n.755, quasi sicura-mente oggi già deceduto (eranato nel 1903) che figura co-me imputato di quella stra-ge anche in un fascicolo del-la Procura militare di Roma,occultato nell’ormai triste-mente famoso “armadio del-la vergogna”, scoperto nel1994 in occasione delle in-dagini per il processoPriebke.All’incontro, i cui risultatihanno suscitato vivo inte-resse tra il pubblico e, neigiorni successivi, nella stam-pa locale e regionale, eranopresenti anche il professorIvano Tognarini, presidentedell’Istituto storico dellaResistenza e lo storico lo-cale Michele di Sabato.

Le agevolazioni per il tra-sporto al museo e per iviaggi studio nei campi.Il 2 dicembre 2003, su ini-ziativa di Andrea Mazzoni,presidente dell’Associazioneper il gemellaggio Prato-Ebensee (oggi assessore al-la Cultura del Comune diPrato), la CAP-Autolinee(già promotrice su iniziativadi Massimo Logli della

Provincia di Prato di un bi-glietto autobus A/R di soloun euro per gli studenti checon le loro classi visitano ilnostro Museo) ha presenta-to agli insegnanti delle scuo-le della provincia di Pratoalcuni pacchetti di viaggi-studio ai campi di concen-tramento di Mauthausen/E-bensee, elaborati in strettacollaborazione con il Museodella Deportazione. Già ol-tre 400 studenti hanno visi-tati i campi con questa for-mula.Nell’ambito delle iniziativeorganizzate dal Comitatounitario di Prato e provinciaper le celebrazioni del 60°anniversario della Libera-zione e Resistenza, in occa-sione del Giorno della me-moria 2004, per valorizzareancor più il Museo dellaDeportazione, struttura uni-ca nel suo genere in Italiacon il suo allestimento diforte impatto emotivo, si èpensato di realizzare, in col-laborazione con il Teatro

Metastasio/Stabile dellaToscana con la regia diMassimo Luconi, un eventoall’interno del Museo stessodal titolo Il museo raccon-ta Letture di testimonianzedi superstiti dei lager nazisti(progetto e testi a cura diCamilla Brunelli, voci reci-tanti Valentina Banci eGiovanni Fochi e accompa-gnamento musicale (fisar-monica) di Patrizia Angeloni.La prima rappresentazionesi è svolta il 27 gennaio,quindi vi sono state tre re-pliche per le scolaresche diPrato per un totale di circa250 spettatori. Quest’esperienza sarà ripresanel gennaio/febbraio 2005e coinvolgerà scolaresche ditutta la regione.

Attività didattiche e cul-turali: il centro diventaun “polo” a livello regio-nale e nazionale.Domenica 8 febbraio 2004,

La morte di Roberto Castellani

È deceduto Roberto Castellani Presidente della se-zione Aned di Prato nato il 23 luglio 1926 e deportatonei campi di Mauthausen e Ebensee.

Il presidente nazionale dell’Aned Gianfranco Maris ha in-viato alla famiglia e ai compagni di Prato un messaggioin cui è detto tra l’altro: “ Non vi è giorno che io abbia pas-sato a Prato che non abbia lasciato in me un segno profon-do… e ne ho passati molti, compiendo praticamente, alfianco dei compagni pratesi ex deportati e dei loro fami-gliari, il lungo cammino che ha portato Prato a gemel-larsi con Ebensee e a costruire, per prima, il Museo del-la Deportazione oggi meta di tante e tante scolaresche. Fuun cammino lungo nel quale Prato ebbe sempre al fian-co tutte le sue istituzioni, comunali, popolari e religiose,sempre pronte ad intendersi quando si parlava di libertàe di pace. Un cammino coronato all’inaugurazione delMuseo della Deportazione, dalla presenza e dal consen-so solenne del Presidente della Repubblica Carlo AzeglioCiampi.Questo lungo cammino è stato aperto ed indicato co-stantemente dalla luce umile degli occhi chiari di RobertoCastellani, dalla sua voce buona che ha saputo dire paroledi pace anche nei tempi dell’odio.La luce dei suoi occhi e il calore della sua parola saran-no il nostro futuro”.

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ancora nell’ambito delle ce-lebrazioni per il Giorno del-la Memoria, al Centro diDocumentazione si è tenutoil ricordo del pittore prate-se Gino Signori, insignitodella medaglia dei Giusti peraver salvato una giovaneebrea da prigioniero milita-re in Germania. Questo ri-conoscimento è motivo digrande orgoglio per la cittàe, poiché gli eredi del Signorihanno deciso ora di donarela medaglia (ed altri ogget-ti e documenti relativi allavicenda) al nostro Museodella Deportazione, si è pen-sato di utilizzare l’occasio-ne per una riflessione sullatragedia della Shoah e suldestino dei militari italianiinternati in Germania dopol’8 settembre 1943. Eranopresenti l’esperto di storiamilitare, Nicola Labancadell’Università di Siena,Mario Fineschi della comu-nità ebraica di Firenze,Giampiero Nigro e don Giu-seppe Billi.L’11 marzo 2004 è stato pre-sentato il volume I campidel duce - l’internamentocivile nell’Italia fascista(1940-1943) di Carlo Spar-taco Capogreco. Il 3 set-tembre, promosso dal Co-mitato per le celebrazionidel 60° della Liberazione edella Resistenza di Prato eprovincia si è tenuto un in-contro pubblico dal tema“L’Armadio della Vergognae i processi agli autori dellestragi nazifasciste in To-scana”. Erano invitati ilProcuratore del Tribunalemilitare di La Spezia MarcoDe Paolis, il vicepresidentedel Consiglio regionale del-

la Toscana con delega al 60°della Liberazione e dellaResistenza Enrico Cecchetti,il sindaco di StazzemaMichele Silicani, il vice-presidente dell’associazio-ne “Martiri di Sant’AnnaEnnio Mancini.Il 9 ottobre, per dare spazioanche ad altri linguaggi ol-tre a quello dell’indaginestoriografica, è stata pre-sentata al pubblico un’i-stallazione multimediale del-l’artista e architetto IvanoCappelli dal titolo “Dov’èl’uomo”, che ha dato la pos-sibilità di riflettere sull’uo-mo contemporaneo e le sueresponsabilità di fronte anuove guerre e nuove tra-gedie. Erano presenti l’assessorealla Cultura del Comune diPrato Andrea Mazzoni, il di-rettore Franco Neri, il pre-sidente della circoscrizioneNord Alberto Manzan e ilcritico Savino Marseglia.

Per affluenza, attività didat-tiche e culturali il Museo del-la Deportazione con il suoCentro di Documentazionesi sta affermando nel terri-torio, a livello regionale enazionale, come luogo del-la memoria e centro cultu-rale di notevole importanza.Si spera che la futuraFondazione possa dare ul-teriore slancio e visibilità aquesta struttura di grandevalore etico-civile.

Camilla Brunelli (responsabile del Museo e

del Centro, membro delConsiglio nazionale

dell’Aned)

La scomparsa di “Momi”Girolamo Federici

politico ed educatore

“Ci sono compagni che incontri dopo mesi o dopo anniai quali ti puoi rivolgere come se l’ultima volta che vi sie-te visti fosse ieri, come se la cosa che devi dire sia già en-trata nel vivo della discussione, e l’approccio politico siapositivo. Questa prerogativa è una sorta di fede che nonabbandona mai certi compagni”. Sono le parole cheMassimo Cacciari ha pronunciato il 12 ottobre scorso aicompagni che hanno stipato l’androne di Ca’Farsetti perpartecipare ai funerali di Girolamo “Momi” Federici.Classe 1926, Federici arriva a Venezia nel ‘47 per stu-diare lingue, lui maestro elementare. Aveva frequentatogli ambienti della Resistenza e in quegli anni fece partedi quel gruppo che diede vita al convitto Rinascita inti-tolato al giovane partigiano Francesco Biancotto.I convitti, una decina, nati per permettere ai giovani cheavevano combattuto di completare gli studi, diedero poiospitalità, affetto e possibilità di andare a scuola a centi-naia di orfani di combattenti e deportati, spesso in dram-matiche condizioni di vita.Quello di Venezia si caratterizzò per una “creatività” di-dattica innovativa per quei tempi: la vocazione di Federici,maestro, affiancato dalla moglie Lia Finzi, produsse unmodello di insegnamento così efficace da essere poi esem-pio per la scuola che venne dopo, al punto che, spina nelfianco dei reazionari, venne chiuso brutalmente nel 1957.Federici diventò senatore del Pci nel ‘72: in quella veste,con la sua fede, intraprese la battaglia per il porto diVenezia che portò ad una decisiva legge di riforma.

Federici quando andò in Polesine a “prelevare”alcuni ragazzi per ospitarli al convitto di Venezia

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Foligno: grazieall’Aned e all’ impegno del Comuneè finito l’oblioper i rastrellatidella montagna

Per i folignati che hannoavuto i loro congiunti mor-ti a Gusen, la visita al for-no crematorio ha costituitouna dura prova da soppor-tare, e tutti siamo rimastidelusi dal fatto che esso co-stituisca la sola memoria diquel luogo di atroci soffe-renze..

Anche quello della depo-sizione della targa è statoun momento commoven-te: i deportati della monta-gna folignate erano ricor-dati sino ad oggi solo in unacappellina voluta da un pre-te deportato, don PietroArcangeli, in occasione del25 Aprile.La cerimonia, cui parteci-pano sempre i vescovo e ilsindaco della città, è tuttaviaun momento di commemo-razione più per i familiari,che vi partecipano sempre

numerosi, che per la città.La nascita della sezione um-bra dell’Aned ha fatto sì chei deportati dalla montagnafolignate cominciassero adessere finalmente comme-morati da una cittadinanza,

UNA TARGA LI RICORDA ORA ANCHE A MAUTHAUSEN DA DOVE LA

C’era anche la delegazione dell’Aned( tra le più “giovani” sezioni e che ha già all’ attivo una serie di iniziative),alla manifestazione internazionale di Mauthausen per ricordare la liberazione del campo. E proprio qui una targacon 19 nomi di deportati rastrellati sulle montagne si è aggiunta a tuttele altre nel Monumento italiano. Con lo stendardo dell’Aned, quello del Comune di Foligno, che avevadelegato a rappresentarloil consigliere Agostino Cetorelli

e non solo attraverso la de-dica al 3 febbraio ( il giornodel rastrellamento e delladeportazione) di una via cit-tadina.Ora la targa ricordo , lasciatanel luogo della sofferenza e

della morte, è come se aves-se risarcito un ricordo datanti anni di oblio.Per i familiari dei deporta-ti è stato un momento im-portante. I Salvati, figli, nuo-ra e nipoti, i giovani Stefano