Fra Langhe e Città

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Giovanni Scavino Fra Langhe e Città

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Questo lavoro è composto da una raccolta di racconti − corredati da alcune immagini − e da una piccola collezione di fotografie a tema: luoghi caratteristici della città di Torino. L’autore tiene a precisare di non essere uno scrittore professionista, e di non essere neanche un fotografo di mestiere. La sua professione era quella di insegnante di Informatica nelle scuole medie superiori (oggi è in pensione). L’hobby della fotografia, la voglia di scrivere e la speranza di trasmettere emozioni, anche con la scrittura, lo hanno spinto a realizzare questo piccolo libro. La raccolta dei racconti comprende in particolare: − La festa è la storia di una gita in bicicletta: due bambini si recano ad una festa di paese, nelle Langhe degli anni 60. La partita di “pallone a pugno” è l’attrazione principale della festa.− La bicicletta ha come protagonista “Guido”, un corridore professionista degli anni a cavallo fra la prima e la seconda guerra mondiale (Guerra, Bartali e Olmo sono tre corridori, ben più famosi di lui, citati nel racconto).− Milio e la sua moto racconta la storia di Milio, un meccanico di motociclette un po’ speciale.− Una corsa in salita è il breve racconto di una delle tante “Sassi-Superga” di diversi anni fa.− Un giorno a Monza è il racconto di una giornata passata ad assistere alle prove del Gran Premio di Formula Uno a Monza (inizio anni 70). E’ un racconto che ha un epilogo drammatico: Jochen Rind è il pilota austriaco che perse la vita durante le prove di quel Gran Premio.− Motori è un racconto che presenta un po’ il mondo dei rally. Non è la storia di una corsa, ma i luoghi che sono stati lo scenario d’importanti rally e un’auto da competizione sono i protagonisti di una bellissima giornata.− Ci sono poi altri tre racconti: Il negozio, Pietre e La corriera in cui sono presentate vicende di parecchi anni fa. Il periodo a cui ci si riferisce è quello della seconda guerra mondiale e degli anni che l'hanno preceduta. L’ambientazione è nelle Langhe: Cossano Belbo, in particolare, paese d’origine dell’autore.− Altri due racconti, La piazza e Il cortile sono ambientati rispettivamente nelle Langhe e nella Torino degli anni 60.− Lilli e Berta è un breve racconto che narra la storia di due animali: un cagnolino e una gazza, che sono vissuti, parecchi anni fa, nella casa dei nonni dell’autore.− Un Pittore di Langa ha come scenario il Santuario della Madonna della Rovere, luogo di culto dove sono raccolti i quadri ex voto di Cichinin, un pittore vissuto a Cossano Belbo, nelle Langhe. − Infine, L'epilogo e L'inganno sono racconti che narrano episodi del periodo resistenziale. In particolare si riferiscono allo scontro di Valdivilla e a quello in cui furono coinvolti i fratelli Negro durante la Resistenza nelle Langhe.

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Giovanni Scavino

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Fra Langhe e Città Racconti e foto

Copyright © Giovanni Scavino, 2010 Questo libro è stato creato da Giovanni Scavino ed è rilasciato nei termini della licenza Creative Commons Attribuzione-NonCommerciale-Non opere derivate 2.5 Italia, per cui non sono consentiti gli usi commerciali dello stesso così co-me la modifica senza previa autorizzazione dell’autore. E’ consentita la riproduzione totale dell’opera senza variazioni di alcun genere. E’ consentita la diffusione tramite web, carta stampata o altro mezzo purché si citi il nome dell’autore. Il testo integrale della licenza è disponibile alla pagina Web http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/2.5/it/legalcode

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In copertina: Superga da Mongreno Giovanni Scavino è nato nel 1951 a Cossano Belbo (CN), piccolo paese delle Langhe. Nel 1962 si trasferisce con i suoi genitori a Torino, città dove attual-mente risiede. Prosegue i suoi studi fino alla laurea in Scienze dell’Informazione che consegue, a pieni voti, nel 1976. Studente lavoratore fin da quando frequentava l’Istituto Tecnico, ha lavorato per un lungo periodo co-me tecnico informatico e per vent’anni è stato insegnante di Informatica nelle scuole medie superiori. Giovanni Scavino Email: [email protected] Sito web http://gbgb.altervista.org

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Presentazione L’incontro con Giovanni Scavino è nato dalla nostra comune passione per la corsa. Una domenica mattina, infatti, mi ha affiancato mentre correvo al Va-lentino e abbiamo percorso alcuni chilometri insieme. Poi, altre domeni-che e altri tratti di strada assieme. Correndo mi ha parlato del suo libro, di cui me ne ha regalato una co-pia. L’ho letto con piacere perché attraverso i suoi racconti e le foto dei luoghi più suggestivi di Torino e delle Langhe, Scavino ci porta al tempo stesso nel calore del suo mondo e nella storia di un territorio a cui è (e in molti lo siamo) profondamente legato. Queste terre sono oggi giustamente meta di turisti che ne apprezzano tanto la bellezza quanto la ricchezza di sapori e tradizioni enogastrono-miche, ma non bisogna dimenticare che sono anche luoghi intrisi di valo-ri, da quelli della resistenza a quelli del lavoro e della natura. Valori che ritroviamo sublimi nelle pagine toccanti ed aspre di Pavese e Fenoglio. Per non disperdere questo patrimonio è importante mantenere viva la memoria e la storia di un territorio. Questo è uno dei meriti del libro, che offre in modo piacevole la possibilità di ripercorrere un’epoca e di risco-prire fra le righe anche altri importanti valori, forse oggi un po’ trascurati, quali l’appartenenza alla propria terra e alle proprie tradizioni.

Sergio Chiamparino

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Premessa Questo lavoro è composto da una raccolta di racconti − corredati da alcu-ne immagini − e da una piccola collezione di fotografie a tema: luoghi caratteristici della città di Torino. L’autore tiene a precisare di non essere uno scrittore professionista, e di non essere neanche un fotografo di me-stiere. La sua professione era quella di insegnante di Informatica nelle scuole medie superiori (oggi è in pensione). L’hobby della fotografia, la voglia di scrivere e la speranza di trasmettere emozioni, anche con la scrittura, lo hanno spinto a realizzare questo piccolo libro. La raccolta dei racconti comprende in particolare: − La festa è la storia di una gita in bicicletta: due bambini si recano ad una festa di paese, nelle Langhe degli anni 60. La partita di “pallone a pugno” è l’attrazione principale della festa. − La bicicletta ha come protagonista “Guido”, un corridore professionista degli anni a cavallo fra la prima e la seconda guerra mondiale (Guerra, Bartali e Olmo sono tre corridori, ben più famosi di lui, citati nel raccon-to). − Milio e la sua moto racconta la storia di Milio, un meccanico di moto-ciclette un po’ speciale. − Una corsa in salita è il breve racconto di una delle tante “Sassi-Superga” di diversi anni fa. − Un giorno a Monza è il racconto di una giornata passata ad assistere al-le prove del Gran Premio di Formula Uno a Monza (inizio anni 70). E’ un racconto che ha un epilogo drammatico: Jochen Rind è il pilota au-striaco che perse la vita durante le prove di quel Gran Premio. − Motori è un racconto che presenta un po’ il mondo dei rally. Non è la storia di una corsa, ma i luoghi che sono stati lo scenario d’importanti rally e un’auto da competizione sono i protagonisti di una bellissima giornata. − Ci sono poi altri tre racconti: Il negozio, Pietre e La corriera in cui so-no presentate vicende di parecchi anni fa. Il periodo a cui ci si riferisce è

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quello della seconda guerra mondiale e degli anni che l'hanno preceduta. L’ambientazione è nelle Langhe: Cossano Belbo, in particolare, paese d’origine dell’autore. − Altri due racconti, La piazza e Il cortile sono ambientati rispettivamen-te nelle Langhe e nella Torino degli anni 60. − Lilli e Berta è un breve racconto che narra la storia di due animali: un cagnolino e una gazza, che sono vissuti, parecchi anni fa, nella casa dei nonni dell’autore. − Un Pittore di Langa ha come scenario il Santuario della Madonna della Rovere, luogo di culto dove sono raccolti i quadri ex voto di Cichinin, un pittore vissuto a Cossano Belbo, nelle Langhe. − Infine, L'epilogo e L'inganno sono racconti che narrano episodi del pe-riodo resistenziale. In particolare si riferiscono allo scontro di Valdivilla e a quello in cui furono coinvolti i fratelli Negro durante la Resistenza nelle Langhe.

G. S.

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Il negozio

Quella mattina, mio padre, che non era ancora mio padre, stava aprendo il suo nuovo negozio. Il mestiere di calzolaio l’aveva imparato a Torino al collegio dei Salesiani, e poi, per molti anni, come garzone dal piú impor-tante artigiano del paese. Da lui viveva, vitto e alloggio, un po’ di salario e tanto lavoro. Finalmente, messo da parte qualche risparmio, aveva pre-so in affitto una stanza e un piccolo negozio nella casa vicino alla pompa, sullo stradone. Al collegio dei Salesiani era arrivato pochi anni dopo la morte di suo padre, quando aveva poco piú di dieci anni. La mamma l’aveva persa molto prima, e lui stesso, quasi, non ricordava la sua figura. Dopo la mor-te del padre, sua sorella maggiore aveva continuato a fare da mamma; ma poi non fu piú possibile rimanere tutti insieme e lui e i suoi fratelli dovet-tero, ognuno, pensare per sé. Per mio padre il collegio di Don Bosco fu la soluzione migliore. Lí imparò a far di conto, un po’ di latino, ma soprat-tutto, dopo il ginnasio, il mestiere che il Santo stesso aveva insegnato ai suoi allievi. Cominciò cosí con i primi lavori, per i suoi compagni o per i preti del collegio. Ritornato a Cossano Belbo, vicino al paese da cui era partito, trovò il lavoro presso l’artigiano che aveva il grande negozio e che vendeva i suoi prodotti alle fiere. Arrivò garzone, portando il mestie-re e tanta voglia di lavorare… Quella mattina, la postina del paese non osava, o meglio, non avrebbe mai voluto consegnargli quella cartolina, di quel colore, recapitata, forse, già troppe volte. Proprio adesso, dopo tanti sforzi, bisognava lasciare tut-to per recarsi a Cuneo a fare il soldato. A malincuore, chiedendo scusa, la postina fece il suo dovere e mio padre indossò quella divisa che era stata di mio nonno e di tanti altri. Fortunatamente, per gli alpini le calza-ture erano importanti, e il suo richiesto mestiere lo trattenne. Lui non se-guí i suoi compagni in Grecia, in Albania o in Russia, ma fra Borgo San Dalmazzo e Cuneo continuò a fare il calzolaio. Venne l’8 settembre e lo sbandamento nelle caserme, e per i soldati, senza ordini, il ritorno a casa fu l'unico obiettivo da raggiungere. Saltare giú dal treno, prima che ad una stazione fosse perquisito dai soldati tede-

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schi, fu per mio padre e per i suoi compagni la salvezza; poi il ritorno a piedi, quando le colline erano ormai vicine. A Cossano Belbo, di nuovo garzone, dallo stesso artigiano, la sua tàbja con gli attrezzi era vicino alla portafinestra prospiciente l'edificio delle scuole elementari che mi hanno visto bambino, allievo con i miei compagni… Sembrò, per un momento, che la guerra potesse non esistere piú, ma nelle Langhe, come in altri luoghi, qualcuno pensò che non era stato suf-ficiente mandare a morire tanti ragazzi in paesi lontani e che, adesso, era venuto il momento di morire anche nel proprio paese, fra le proprie case. Molti ragazzi salirono in collina. Anche per mio padre poteva essere la cosa da fare, la camicia nera non gli era mai piaciuta, ma lui aveva solo sempre lavorato. Continuò cosí ad aggiustare scarpe e scarponi e, in momenti diversi, anche qualche soldato tedesco o qualche repubblichino si recò nel grande negozio per farsi riparare una fondina o una cinghia di mitra, e mio padre, a malincuore, lavorò anche per chi non avrebbe mai voluto. Poi, un mattino, fu svegliato da un rumore violento. Tre o quattro Par-tigiani cercavano salvezza ed erano arrivati alla sua stanza. Gli occhi di Dante, che brillavano nel buio come quelli di un gatto, lo fecero trasalire. – Su da quella porta, verso il tetto! – a saltare sulla casa vicina, a dieci metri da terra, con un salto da non sbagliare. Dante e i suoi compagni si salvarono, e le colline furono, di nuovo, il loro rifugio. Per mio padre un mitra puntato nello stomaco, qualche ceffone, nella convinzione di avere, da lui, i nomi di quei ragazzi. Il ricordo di un elenco di ricercati e l'inter-vento del Sindaco del paese servirono a salvargli nuovamente la vita. Dante, molto tempo dopo, mi chiese scusa per lo spavento arrecato. “Tu sei il figlio di Guido, quella volta ce la siamo vista brutta ... mi spia-ce che tuo padre non ci sia piú...” Poi, un giorno, arrivarono molti camion con lugubri marchi uncinati. Fu rastrellamento. Nella grande piazza, contro il muro di tufo che tante volte era stato sponda del pallone, erano tutti in fila davanti alle mitragliatrici pronte a

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vomitare i caricatori, uomini e ragazzi. Qualcuno riuscí a non farsi pren-dere e, salito sulle colline, dove altre mitragliatrici erano appostate, ad impedire la strage e la fine del paese. Dante sapeva tutto questo e anche se mio padre non lo aveva seguito, quel giorno, lo riconosceva suo compagno. Un uomo è Partigiano, se mo-rire contro un muro, per altri Partigiani, è ciò che può essere.

Una giornata felice: il mio papà, sullo sfondo mio nonno.

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Pietre

In quei giorni c'era la festa del paese e tutti, abitanti del concentrico e gente delle campagne, avrebbero interrotto per qualche giorno il loro la-voro, almeno quello che si poteva interrompere, e si sarebbero dedicati all’avvenimento che, per il paese, è il piú importante dell’anno. La festa si celebra in occasione della ricorrenza del Santo Patrono, la Madonna del Carmine per quei luoghi, e di gran lunga supera, per partecipazione e numero di giorni in cui si consuma, tutte le altre. Anche la gente dei paesi vicini, come oggi, vi avrebbe partecipato; ai tempi, però, lo stradone che segue la valle e porta al paese, sarebbe stato percorso a piedi, magari in bicicletta o su un biroccino trainato da un cavallo, e non sarebbero state le automobili, il cui raro passaggio destava quasi stupore, il mezzo di tra-sporto piú comunemente utilizzato. Le strade, da quelle parti, non erano ancora asfaltate ed erano percorse nei giorni di lavoro dai carrettieri, che con i loro carri trainati da grossi cavalli da tiro, facevano la spola fra la bassa e l’alta valle, per trasportare il legname e tanti altri prodotti. Per la festa qualcuno sarebbe anche venuto in paese dalle vallate vici-ne, risalendo e scendendo le colline. Le fiere erano allora un valido moti-vo per percorrere tanta strada e, a volte, per arrivare in tempo, si partiva anche la notte, al chiaro della luna e delle stelle. Dalle campagne, su in collina, tutti sarebbero certamente venuti a piedi, con l’abito della festa ma con le solite scarpe pesanti, di tutti i giorni, percorrendo strade e sen-tieri pieni di polvere e di pietre, di fango in caso di pioggia. Polvere e fango particolari: il tufo di cui sono fatte quelle colline, si sfalda facil-mente e la polvere è polvere di tufo, bianca e sottile, e il fango che si crea con la pioggia, è quasi come colla. Nessuno avrebbe indossato le scarpe della festa per il tragitto: si sarebbero distrutte anche in un solo viaggio. Appena arrivati in paese, uomini e donne avrebbero lasciato le loro scar-pe pesanti in un luogo appartato, per poi riprenderle per il ritorno a casa, e, solo allora, avrebbero indossato le scarpe migliori. Su per le colline, l’unico mezzo di trasporto era il carro trainato dai buoi, ma serviva per trasportare l’uva, il fieno, il legname e non le perso-ne. I cavalli, in campagna, quasi nessuno li aveva: si sarebbero dovuti

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mantenere e non sarebbero serviti per i lavori nelle vigne e nei campi. So-lo il medico condotto, in paese, ne possedeva uno e lo montava a sella, o ci attaccava il calessino quando la strada che doveva percorrere per le sue visite lo permetteva, ed era solo giú nella valle. Come in tutti i giorni di festa, durante la bella stagione, dopo aver par-tecipato alla messa, che per l'occasione sarebbe stata particolarmente so-lenne, gli uomini si sarebbero fermati in piazza a discorrere fra loro; le ragazze da marito avrebbero percorso piú volte lo stradone in piccoli gruppi, per mettersi in mostra e per far vedere, con un po' di civetteria, il loro abito piú bello. Il gelataio, poi, avrebbe fatto buoni affari e avrebbe venduto tutto il gelato preparato. Anche le osterie avrebbero aumentato il loro numero d’avventori; ce n'erano diverse in paese, e gli uomini le fre-quentavano, specialmente la domenica e nelle occasioni come questa, per ritrovarsi fra loro, giocare a carte o bere in compagnia qualche bicchiere di vino. Il ballo pubblico a palchetto, dove con un'orchestrina che suonava si sarebbe ballato la sera, non poteva certo mancare e per l’occasione era stato collocato nel cortile delle scuole elementari, per non ingombrare la piazza principale, allora ancora da ampliare, che sarebbe servita per la partita al pallone elastico, per la fiera del bestiame e per i banchi del mer-cato. Alla fine dei festeggiamenti, come sempre, ci sarebbe stato lo spet-tacolo pirotecnico dei fuochi d’artificio, con la figura finale dedicata alla “Madonna del Carmine” a rimandare tutti al prossimo anno, per una nuo-va festa. Il periodo a cui ci si riferisce è quello antecedente, di qualche anno, lo scoppio della seconda guerra mondiale. Ai tempi, come per molti anni in avvenire, le condizioni di vita erano particolarmente dure. Il lavoro nei campi e nelle vigne veniva fatto senza l'ausilio di macchine agricole a motore, non ancora diffuse all’epoca, ed era molto piú gravoso di oggi. Erano utilizzati i buoi per arare, trasportare l’uva. La vendita dei prodotti della campagna, la cui produzione non era certamente intensiva come ai giorni nostri, offriva scarsi redditi e non era certamente agevolata dalle difficoltà di trasporto e forse anche dalla miseria che c’era. Anche per i piccoli artigiani del paese le difficoltà non mancavano; la difficile situa-zione economica dei loro clienti limitava le loro possibilità di guadagno e

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li costringeva spesso a concedere crediti che erano saldati con notevoli sforzi e solo in tempi molto lunghi. Come oggi, comunque, la gente non avrebbe pensato troppo ai pro-blemi quotidiani e, per tre giorni, avrebbe partecipato alla festa. Allora era al potere il regime fascista e nel programma dei festeggiamenti c'era anche un raduno-comizio, che alcune «camicie nere», venute da fuori, a-vrebbero dovuto tenere sul ballo a palchetto, la domenica pomeriggio. Al momento dell'evento, dopo aver constatato che nel luogo prescelto non c'era quasi nessuno, alcuni fascisti entrarono nell'osteria, il cui pro-prietario era una specie di gerarca del paese, per sollecitare gli uomini presenti a fare il loro dovere, e loro, costretti, si recarono nel luogo del raduno. Il comizio iniziò con un rimprovero a tutti i presenti, per la poco senti-ta partecipazione, e proseguí con le solite frasi di repertorio. Ad un certo punto, uno degli uomini, vicino a Gioanin, non riuscí piú a trattenere la propria insofferenza e, approfittando di un momento di pausa, gridò <<Viva il Socialismo!>>. La tensione aumentò e il peggio fu per poco evitato, anche perché in-tervennero subito i carabinieri, venuti dal paese vicino per garantire l’ordine pubblico, i quali, sollecitati dalle «camicie nere», si apprestarono ad arrestare il "provocatore". Un carabiniere, a forza, spingendo violentemente, arrivò vicino al suo obiettivo. Davanti a lui c'era solo piú Gioanin che, quasi travolto e in un tentativo istintivo di difesa, gli sferrò un pugno. Immediatamente si mos-sero anche gli altri carabinieri e l'arresto, esteso anche a chi aveva colpito il loro collega, fu attuato. Poco dopo, il raduno fu sciolto e i due arrestati furono portati nel paese vicino, a cinque chilometri di distanza, nell’attesa del procedimento che ci sarebbe stato a loro carico. La moglie di Gioanin, avvisata del fatto, il giorno dopo si recò a Santo Stefano, a piedi, portando con sé un cestino con un po' di polenta per il marito rinchiuso e senz'altro a digiuno. Arrivata alla caserma, chiese di poter vedere il marito e, dopo il controllo del cesto da parte del carabinie-re che aveva ricevuto il pugno e che per questo aveva la mascella gonfia, ottenne il permesso.

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Dalla porta socchiusa dietro di sé, ebbe anche modo di sentire ciò che il carabiniere diceva ad un suo compagno: “Guarda questi contadini, mangiano solo polenta, ma danno dei pugni che stordiscono!” Gioanin era un mastro-muratore, ex combattente della prima guerra mondiale, e aveva quattro figli, di cui due in tenera età. Due dei suoi fra-telli, il fratello maggiore e la sorella, erano emigrati, qualche anno prima, in Uruguay. Anche lui era stato sul punto di seguire la stessa sorte: aveva già il biglietto per il lungo viaggio, lo aveva comprato con i soldi che gli avevano inviato i suoi fratelli dall'America, ma poi lo restituí, avendo de-ciso di non partire e di sposarsi con la ragazza a cui era promesso. Allora era molto giovane e particolarmente agile e forte. Faceva il mu-ratore, e nel tempo libero andava a giocare al “pallone con il bracciale” nella piazza che aveva a lato l’antico muro del castello medioevale, i cui ruderi sono ancora visibili in paese. Spesso andava anche a pescare in Belbo, e lo faceva collocando la nassa sul fondo del lago, poco distante da casa, dove il torrente aveva scavato contro le rocce una profonda buca di quattro o cinque metri di profondità. La lontra, che allora era presente nel torrente, gli contendeva i pesci, e lui, spesso, non poteva far altro che recuperare quello che restava della nassa. Un giorno d’estate, tanti anni fa, era andato al torrente per pescare, accompagnato dalla sua futura mo-glie; si era tuffato, ma poi aveva avuto difficoltà a recuperare il suo at-trezzo di pesca. Non vedendolo riemergere, dopo diversi minuti, e non immaginando che si potesse stare tanto sott’acqua, la sua fidanzata si spaventò e corse per chiedere aiuto. Lui, riemerso, non la vide piú sulla riva, la chiamò, ma non ebbe risposta. Lei tornò poco dopo, accompagna-ta da gente che aveva trovato nei campi vicini, ormai già quasi convinta di non rivederlo piú vivo. Lui, invece, era sulla riva, tranquillo ad armeg-giare con la sua nassa… Dopo sposato ebbe il problema di trovare, per sé e per la sua famiglia, una casa piú grande in cui vivere. Sulla strada per il paese, poco sopra la bialera e a pochi passi dal paese stesso, c'era una casa in vendita che fa-ceva al caso suo. I soldi non bastavano, ma il proprietario, che lo cono-sceva e sapeva di potersi fidare, gli concesse un'ampia dilazione nei pa-gamenti. Lui tagliò tutti gli olmi che erano nel piccolo appezzamento di

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terra unito alla casa che aveva comprato, e la loro vendita gli permise di pagare una buona parte del debito; avrebbe poi saldato quello che restava lavorando intensamente, anche per il vecchio proprietario, negli anni a venire. Aveva per pochi anni evitato la guerra di Libia, ma poi, a quasi tren-t'anni, era stato richiamato per la Grande Guerra. Era partito per il fronte che aveva già due figli piccoli (poi morti qualche anno dopo per una polmonite e un'otite). Era stato impiegato in prima linea, dove gli scontri erano stati molto cruenti e spesso ancora all'arma bianca. Aveva visto molte volte gli arditi italiani andare all'attacco con la baionetta, e si era anche difeso da assalti nemici in cui si usavano gli stessi "sistemi". Aveva partecipato a conqui-stare posizioni che poco dopo erano perse … poi riprese, in un tragico gioco al massacro. Fortunatamente non era mai stato ferito seriamente ed aveva potuto continuare a combattere una guerra terribile, dove la vita dei soldati era sempre legata ad un filo fragilissimo. Molti suoi compagni non erano riusciti a sopportarne i momenti piú duri e si erano feriti volontariamente, o avevano trovato degli espedienti, con lo scopo di essere mandati nelle retrovie. Spesso però, dopo essere stati scoperti, per questo erano stati pesantemente puniti, e a volte anche fucilati. Anche lui, una volta, si era messo in una situazione del genere. Aveva saputo da un compagno che il suo plotone avrebbe dovuto partecipare ad uno dei tanti assalti che parevano senza alcuna possibilità di successo. La montagna da conquistare aveva già fatto registrare, nei precedenti com-battimenti, un gran numero di vittime e tutti gli attaccanti erano stati ir-rimediabilmente falciati dalle mitragliatrici austriache. Ogni giorno si procrastinava un nuovo attacco e un nuovo fallimento. Sapeva che non avrebbe potuto salvarsi: troppe volte aveva già avuto fortuna, ma quella volta neanche piú la fortuna avrebbe potuto salvarlo. L'unico modo per conservare la pelle era quello di procurarsi una ferita, perlomeno per sal-tare un turno d’attacco. Conseguentemente, durante la marcia di trasferimento per raggiungere la base della montagna, si era colpito di nascosto piú volte al ginocchio

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con il calcio del fucile. Il risultato fu verosimile e saltò il turno. Quegli attacchi poi, fortunatamente, non furono piú ripetuti... Altre volte aveva potuto constatare che molte delle azioni che erano state ordinate si dimostravano dei veri e propri disastri e che, spesso, era solo il prestigio militare di qualche alto ufficiale, l’obiettivo da salva-guardare. Nell'ultimo anno di guerra, poi, aveva visto tutti quei ragazzi, di appe-na diciotto anni, arrivati al fronte e subito coinvolti in scontri durissimi e con perdite gravissime... La guerra, nonostante tutto, non gli aveva procurato danni fisici, e lui era potuto tornare a casa, dalla sua famiglia, per riprendere la vita civile. Come molti altri soldati, che avevano vissuto una cosí tremenda espe-rienza, possedeva un carattere duro, ma sentiva anche particolare solida-rietà per chi si trovava in difficoltà. Pensava, come molti altri suoi com-pagni, che il “Socialismo”, almeno per il concetto che ne aveva, sarebbe dovuta essere la politica giusta per la gente, e vedeva nel “Fascismo” solo il proseguimento della violenza e dei soprusi vissuti in guerra. Il lavoro che svolgeva era molto pesante e i luoghi in cui prestava la propria opera, su per le colline o anche nei paesi vicini, erano spesso di-stanti e da raggiungere sempre a piedi. Tutti gli attrezzi del lavoro dove-vano essere trasportati a mano, in diversi viaggi, e anche l'alimentazione non era sempre adeguata agli sforzi che doveva sostenere. Quando pote-va, sua moglie gli portava da casa un po' di minestra o di polenta, magari con un paio d’uova sode o una frittata, ma il piú delle volte doveva ac-contentarsi di quello che si portava, il mattino, da casa. Diversi erano i lavori che gli venivano commissionati: la riparazione dei tetti o la costruzione delle volte sostenute da travi di ferro, che servi-vano a sostituire le travi di legno, ancora utilizzate nelle vecchie case di campagna, erano fra questi. A volte, il lavoro commissionato poteva es-sere addirittura l'edificazione di un’intera casa. In queste e in altre occa-sioni, aveva bisogno di alcuni aiutanti, e per questo c’era sempre qualche ragazzo di campagna o del paese, che era disponibile e che lavorava con lui. Spesso costruiva muri a secco, per il sostegno di strade o di terreni. Lastricare strade e costruire muri in pietra erano anche stati i lavori che

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aveva fatto suo padre, che era venuto da Bergamo per costruire lo strado-ne, e che poi, dopo aver conosciuto e sposato una ragazza del luogo, la sua futura mamma, si era stabilito in paese. Gioanin spesso definiva le proprie questioni di lavoro la domenica, prima o dopo la messa, con i suoi giovani aiutanti ad aspettare un paga-mento per poter essere poi pagati loro stessi. (“Dante” del racconto pre-cedente, era stato uno di quei giovani aiutanti.)

La sua famiglia era composta da sua moglie, dalla sua mamma, dalla granda – mamma di sua mamma – e da quattro dei sei figli che aveva avuto. Allora il rapporto genitori-figli non era certo quello dei giorni no-stri e in alcune famiglie, nei confronti del capofamiglia, c'era quasi sog-gezione. Erano forse la vita dura, l’educazione, i tempi, ma l’esistenza non era certo serena; inoltre, nei giorni di riposo lo svago era spesso co-stituito da qualche bicchiere in osteria, e questo non aiutava certo i rap-porti famigliari...

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Gioanin, quella volta, dopo un breve dibattimento di fronte al Pretore, fu rimandato a casa. Avevano preso informazioni su di lui e avevano ri-tenuto che quel gesto fosse stato solo istintivo. Qualcosa, però, nelle carte gli era rimasto, e uno dei suoi figli, al momento della leva militare, si vi-de rifiutare la richiesta di poter effettuare il servizio come ausiliario pres-so l’Arma dei Carabinieri.

Cossano Belbo (Langhe)

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La corriera

La corriera, oggi quasi sempre vuota, continua a percorrere la stessa stra-da di un tempo. Da Canelli fin su a Niella, piú volte al giorno, a risalire e ridiscendere la valle. La osservo, fermarsi e ripartire, adesso che sono ormai adulto e molto tempo è passato da quando, bambino, la vedevo av-viarsi per il mercato, carica di uomini e donne, e con sul tetto ogni genere di animali da cortile, uova e prodotti della terra. Tornava riportando gli stessi uomini e donne, ma con altre mercanzie, ottenute in cambio di quelle vendute. Oggi per lo stradone principale non è piú la regina: troppi e diversi so-no i mezzi di trasporto. Anche dalle campagne, su in collina, percorrendo le strade di un tempo, che però adesso sono asfaltate e senza polvere, pie-tre e fango, è l’automobile, che ormai tutti posseggono, il mezzo utilizza-to dai contadini per recarsi al mercato. Loro non scendono piú in paese, a piedi, ad aspettare il suo passaggio, e neppure piú nessuno la utilizza per trasportare gli animali da cortile. Un ruolo particolare la corriera l’ha però ancora conservato: come un tempo, il suo passaggio indica l’ora, come un orologio o come il suono delle campane del campanile della chiesa del paese. Certo, forse occorre avere una certa età, per ricordare quando le automobili erano rare e il suo passaggio non poteva non essere notato. C’è poi un racconto, una storia di tanti anni fa, in cui la corriera ha do-vuto compiere un servizio particolare: Quella mattina tanti ragazzi di vent'anni, raccolti su per la valle, ave-vano già occupato tutti i posti. Altri dovevano ancora salire e trovarono sistemazione sul tetto. Anche Maurizio era fra loro. Quando la corriera partí incrociò mia madre, davanti alla grande casa sullo stradone, di fronte alla chiesa. Maurizio dal tetto la salutò, agitando le braccia per farsi meglio vedere; lei rispose al suo saluto, poi un greve presagio la pervase.

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Quei ragazzi sul tetto della corriera erano cosí festosi; eppure quei vo-lantini, che aerei inglesi avevano lanciato qualche giorno prima e che tutti avevano raccolto, in cui s’invocavano le loro madri <<Non dovete la-sciarli partire, non torneranno piú!>>, dicevano un’altra cosa rispetto a chi voleva far credere che quella guerra sarebbe stata rapida e sopportabi-le. Per Maurizio mia madre nutriva un profondo affetto. Bambini avevano giocato, spensierati, con gli altri compagni nella piana, a pochi passi da casa: ogni gioco era semplice e inventato con l'ingenuità di quell'età. Maurizio era venuto padrino con lei, quel giorno, quando fu battezzato suo fratello piú piccolo, e questo era servito a rendere piú forte il suo sen-timento nei suoi confronti… Quel presagio si trasformò in angoscia, e la corriera sparí con il suo carico, oltre la curva. Alla stazione del paese vicino, un treno sbuffante, nell’attesa di sosti-tuirsi al mezzo gommato, era pronto a partire verso la grande caserma di raccolta. Poi un altro treno. Quei ragazzi si sarebbero avviati verso un paese molto lontano e per loro ci sarebbe stato un tremendo destino. Qualcuno, a quei tempi, aveva deciso che seguire la follia omicida di un uomo, e dei suoi seguaci, doveva essere la cosa da fare. Quei ragazzi, e tanti altri, furono le vittime di quella tragica scelta. Dove andarono non c'erano le colline con i filari; i fiumi erano cosí grandi da far sembrare il Belbo un insignificante rivolo. C’era la steppa, il fango, la neve, il freddo tremendo. Altri soldati, in altri tempi, avevano già percorso quei luoghi, fino a Mosca; ma poi, anche per loro, la tragica ritirata. La corriera non li riportò piú, tutti insieme, a casa. Forse, in tempi diversi, qualcuno tornò; anche uno per tutti in una pic-cola bara di zinco. Maurizio e gli altri riposano in cimiteri chissà dove; oppure le loro ossa saranno disperse … Quanti ragazzi di vent'anni avranno condiviso la loro stessa sorte. “Ti ha portato la corriera delle sette”, mi disse la mia mamma quando le chiesi, da bambino, come fossi venuto al mondo.

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Sono nato proprio mentre transitava, sotto casa nostra, la corriera, al suo passaggio delle sette della sera. Pensare alla corriera, come al mezzo che porta qualcosa di caro, è forse un modo per rimuovere il ricordo di quel giorno, quando Maurizio e i suoi compagni partirono, per non tornare piú.

La corriera a Cossano Belbo (anni 50)

La lapide posta sulla facciata della chiesa di San Lorenzo. Ricorda i caduti e i dispersi sul Fronte russo 1941-1943.

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L’epilogo

Questo racconto non è una storia inventata. I fatti e i personaggi fanno ri-ferimento alla realtà e sono parte della storia della Resistenza nelle Lan-ghe. Con altri cinque partigiani, il 24 febbraio 1945, Pinin – Balbo Giovan-ni cl. 1888, Cossano Belbo – aveva seguito una colonna di repubblichini che, a piedi, stavano percorrendo lo stradone sul crinale delle colline so-pra la valle del Belbo. Lui e il suo gruppo erano nascosti in una cascina, qualche chilometro dopo il paese di Mango, ed erano state le vedette par-tigiane ad avvistare quegli uomini, circa un centinaio di unità, diretti a Santo Stefano, dove avrebbero poi proseguito con dei camion fino a Ca-nelli, sede del loro presidio. Tutti quei militi erano saliti fin lassú soprattutto con lo scopo di impos-sessarsi del materiale che gli aerei alleati avevano lanciato ai partigiani in quei giorni, ma ora mestamente stavano tornando alla loro base, non es-sendo riusciti nel loro intento, poiché il materiale era già stato occultato dai partigiani, che si erano anche ben sparpagliati e nascosti. La loro lun-ga colonna era chiusa da alcuni camion che trasportavano le armi pesanti, mitragliatrici e mortai, e che avrebbero anche dovuto trasportare il botti-no conquistato. Dopo l’avvistamento della colonna, Pinin aveva deciso di propria ini-ziativa di uscire dal suo rifugio e di seguirla a distanza. Per muoversi piú rapidamente, lui e i suoi uomini avevano utilizzato delle biciclette, do-vendo percorrere lo stradone che a quei tempi non era ancora asfaltato, ma era percorribile con quei mezzi. Era inverno e faceva certamente freddo; non c’era troppo fango e la neve non era molta. Non ce n’era sulla strada, ma tra i filari, sui piccoli prati scoscesi, specialmente nelle zone piú in ombra, i resti dell’ultima nevicata erano ancora ben visibili. Appena passate le case del paese di Valdivilla, i partigiani lasciarono le biciclette, di cui si erano serviti, sotto una tettoia di fronte ad una chie-setta, per proseguire a piedi, sempre sullo stradone, forse per il timore di

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essersi troppo avvicinati ai loro nemici. Il loro intento non era quello di attaccare l’intera colonna: ovviamente in sei non avrebbero potuto farlo; l’evenienza, però, che una parte dei fascisti si potesse fermare, o attardar-si, si poteva sempre verificare, e allora, in quel caso, un attacco sarebbe anche stato possibile. Loro non avevano certamente in animo di lasciar rientrare indisturbati tutti quegli uomini senza far nulla. In effetti, le circostanze vollero che la retroguardia della colonna, una ventina di unità, si fosse fermata nell’osteria di Valdivilla, forse per man-giare qualcosa. Dopo una curva cieca, quindi, i partigiani si trovarono davanti al gruppo dei ritardatari, e lo scontro, repentino e violento, fu i-nevitabile. (E' anche possibile che la retroguardia della colonna si fosse fermata in quel luogo, molto adatto ad una contro-imboscata, proprio per fare una sorpresa a eventuali partigiani inseguitori.) A distanza ravvicina-ta furono subito esplosi innumerevoli colpi di mitra e di fucile. Pinin e un altro partigiano di Canelli – Angelo Destefanis (Oscar) cl. 1921 – cadde-ro quasi subito, colpiti a morte sullo stradone: nonostante fosse stato pro-prio Pinin ad aver avuto la reazione piú pronta. Anche i repubblichini su-birono diverse perdite; ma poi la sparatoria continuò senza che ci fosse la possibilità, per i partigiani o per i repubblichini, di avere il sopravvento. I militi si erano asserragliati nelle case a fianco dello stradone e tene-vano sotto tiro tutto lo spazio antistante, fino alla curva, e per i partigiani ancora vivi, riuscire a togliersi da quella posizione era l’unica cosa da fa-re. Cordara e Sandri – Giulio Cordara cl. 1925, Canelli; Riccardo Sandri cl. 1924 (Emiliano) di Rocchetta Belbo – ci riuscirono solo dopo un po', quando altri partigiani provenienti dal paese vicino, sentiti gli spari, ven-nero in loro aiuto aprendo il fuoco da una certa distanza con un paio di mitragliatrici. Per Set – Settimo Borello cl. 1925, Neive – che era ferito ad una gam-ba, non ci sarebbe stata, invece, nessuna possibilità di muoversi dal luogo in cui era, se non l’avesse aiutato Tarzan, Dario Scaglione, giovane parti-giano di Valdivilla, il quale, ancor prima che Cordara e Sandri riuscissero a sganciarsi, lo aveva trascinato fin oltre la curva, nella cunetta a lato del-lo stradone, fuori del tiro nemico. Lo aveva quindi trasportato caricando-selo sulle spalle, e poi utilizzando un carretto che probabilmente aveva individuato in una piccola grotta scavata nel tufo, proprio di fianco allo

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stradone, dove i contadini depositavano gli attrezzi del loro lavoro, per ripararli dalla pioggia e per averli piú comodamente a disposizione. I due partigiani si rifugiarono poi in una casa poco distante da Valdi-villa, paese che Tarzan ben conosceva; e lí qualcuno pulí e fasciò la ferita di Set. Avrebbero cercato di raggiungere gli altri compagni a Mango, ma la donna che li aveva ospitati li convinse che era il caso di aspettare. Loro avrebbero badato al suo figlioletto e lei sarebbe andata in paese a vedere se la strada era libera. Nel frattempo, gli altri uomini della colonna, sentiti gli spari, ritorna-rono indietro per aiutare i propri compagni. Arrivati sul luogo dello scon-tro aprirono a loro volta il fuoco: e fu proprio il riaccendersi della spara-toria, – simultanea al fuoco dei soccorritori dei partigiani, – che permise, nella gran confusione che si era creata, il fortunoso sganciamento di Cor-dara e Sandri. Successivamente, il combattimento proseguí ancora per un po', ma le forze in campo erano troppo impari. I partigiani, alcuni feriti, si ritirarono; uno di loro, Praiuso Pasquale, fu fatto prigioniero e a Canelli, dove fu poi portato, nei giorni seguenti fu fucilato. A mezzogiorno, non piú di un’ora dopo l’inizio dello scontro, tutto era finito e i fascisti, dopo aver caricato, prima su un carro trainato da un bue e poi su dei camion, i loro morti e i due partigiani, Pinin e Oscar, caduti sullo stradone, iniziarono un rastrellamento nella zona circostante. Ave-vano individuato le tracce del sangue di Set: le seguirono e sorpresero Tarzan e Set nella casa dove si erano rifugiati. Tarzan in quella circostanza rinunciò a sparare, proprio perché in casa c’era la donna, con il suo bambino, che li aveva ospitati, e una sparatoria avrebbe causato inevitabilmente il loro ferimento o la loro morte. Lei era appena tornata e aveva comunicato ai due partigiani che i militi non era-no in paese e che la strada, al momento, era ancora libera. Dal piano su-periore, pur avendo a tiro i repubblichini, Tarzan gettò il mitra e si arrese. Catturato con Set, fu portato sul luogo dello scontro, e sullo stradone, fra le case e un muro di pietre, fu fucilato. In quel luogo, sul muro, c’era una piccola nicchia contenente un’immagine sacra; oggi c’è anche una lapide con una sua fotografia, per ricordarne il sacrificio.

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Set, invece, fu portato a Canelli e lí il giorno dopo fu fucilato anche lui. Lo portarono vicino al cimitero e gli spararono dopo averlo adagiato per terra; in piedi non poteva stare a causa della ferita alla gamba. Tarzan, fino alla fine, dimostrò gran forza d’animo; e persino alcuni repubblichini, parlando fra di loro, qualche giorno dopo a Canelli di lui ebbero a dire: “Un ragazzo cosí in gamba meritava una medaglia per quello che ha fatto, non di morire”. Dario Scaglione aveva solo dicianno-ve anni e fu forse anche per questo che, prima di ucciderlo, i repubblichi-ni gli concessero il conforto di un prete e gli permisero di scrivere un bi-gliettino ai suoi famigliari. (Quella breve lettera è stata pubblicata, per in-teressamento di Beppe Fenoglio e di Italo Calvino, fra “Le lettere dei condannati a morte della Resistenza Italiana” p. 289, struggente docu-mento della lotta di liberazione). Finita la guerra, Pinin, dal cimitero di Canelli dove era stato sepolto, fu portato nel cimitero di Cossano Belbo e un drappello di partigiani seguí il suo feretro che fu avvolto in una bandiera tricolore. Prima della tumula-zione, quel gruppo d’onore sparò due salve di fucile. Pinin era il papà di Poli (Piero Balbo – Nord nel Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio), il comandante della Formazione di Partigiani «Auto-nomi», la 2ª Divisione «Langhe», che aveva in Pinin stesso una delle fi-gure più autorevoli e attive. Poli, nei giorni dello scontro, non avrebbe dato l’ordine di attaccare i fascisti, poiché quell’azione sarebbe stata troppo pericolosa. Suo padre aveva agito di propria iniziativa, ed era stato il destino a provocare quel combattimento. Un paio di mesi dopo, Poli, con un buon numero di suoi uomini, era a Torino per contribuire a liberare la città. ________________________________ Ho utilizzato il libro Dove liberi volarono i falchi di Renzo Amedeo, come spunto per il racconto. In particolare riporto testualmente la parte introduttiva ai fatti di Valdivilla, in cui si parla di Dario Scaglione:

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Dario Scaglione, nato il 2 marzo 1926 a S. Stefano Belbo, frazione Valdivilla, ma residente in Alba con la famiglia, dove, giovanissimo, appena lasciata la scuo-la, si era dedicato al lavoro come magazziniere, entrò giovanissimo nel movimen-to partigiano il 1° maggio 1944 presso la 16ª Brigata Garibaldi, dimostrando subi-to particolare ascendente sui compagni. Infatti, già dal 1° luglio fu nominato ca-posquadra, qualifica che mantenne anche quando il 17 settembre ’44 passò a far parte della 2ª Divisione «Langhe» – Brigata Belbo –, operante nella zona albese di Mango e con la quale resterà fino al 24.02.1945, quando, in Valdivilla, venne fucilato dai fascisti a conclusione degli aspri combattimenti di quella giornata.

Il parroco di Valdivilla, don Marcello Torchio, che fu chiamato ad as-sisterlo nei brevi momenti che precedettero la fucilazione, ha scritto in merito a tale fatto la seguente dichiarazione:

«Essendo stato io chiamato il 24 Febbraio 1945 ad assistere Scaglione Dario negli ultimi momenti precedenti la fucilazione decretatagli dai repubblichini, mi sento in dovere di dichiarare che l’ottimo giovane, che dimostrò fino alla fine for-za d’animo non comune, aveva compiuto in quella giornata di combattimento una fra le piú nobili azioni che si possano compiere sul campo di battaglia, quale fu quella di portare, sotto il grandinare di pallottole nemiche e per sentieri impervi, un povero compagno gravemente ferito in luogo piú sicuro. Azione doppiamente encomiabile in quanto che, essendo stati scoperti e potendo egli salvare la vita con la fuga, preferí affrontare una morte certa anziché abbandonare il povero ferito. Esempio piú che raro di cameratismo militare e di carità cristiana. »

Infine riporto il testo della lettera che Dario Scaglione ha scritto ai suoi famigliari prima di essere fucilato:

« Carissimi Genitori, vi mando l’ultimo saluto prima di essere fucilato. Un grosso bacio a tutti: papà, mamma, Marco, Adelina e al mio nipotino Franco. Ciao Dario »

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Dario Scaglione

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L’inganno

Questo racconto, oltre a narrare la vicenda di un gruppo di partigiani du-rante la Resistenza nelle Langhe, è anche il ricordo di momenti legati alla mia infanzia (che ho trascorso nel paese dove sono nati, e dove hanno vissuto la loro breve esistenza, i due protagonisti dell’episodio). Sono nato, appunto, in un paese delle Langhe e vi ho trascorso alcuni anni della mia vita. Casa nostra era nel concentrico, fra lo stradone e la strada che portava alla casa dei miei nonni, al mulino e quindi, dopo il ponte sul torrente Belbo, alla Madonna della Rovere o a San Pietro, le due frazioni poste sulle colline oltre il torrente. In paese ho frequentato le scuole elementari, per le medie sarei dovuto andare con la corriera a Santo Stefano Belbo, il paese vicino, ma la mia famiglia si era trasferita a Torino, e lí avevo proseguito i miei studi. Cos-sano Belbo era ed è un piccolo paese di quasi millecinquecento abitanti, prettamente agricolo, con la coltivazione della vite come maggiore attivi-tà, e ai tempi della mia infanzia era ancora immerso in un mondo dove c’erano i ritmi e i sapori di tanti anni fa. Si utilizzavano i buoi e i vecchi attrezzi per i lavori in campagna, i trattori per lavorare nei campi erano rari e le macchine agricole non erano certo efficienti come quelle dei no-stri giorni. Sullo stradone passavano ancora poche macchine; e noi bam-bini, a volte, ci divertivamo persino a contarle. A scuola, poi, si usavano ancora le penne e i pennini, il calamaio con l’inchiostro, e i banchi erano di legno con la panca su cui sedersi. In quel periodo avevo tanti compagni, del paese e della campagna, e con loro si giocava, e i nostri giochi erano quelli che si facevano allora. Giocavamo agli indiani e ai cowboy, ai personaggi di cappa e spada, o a quelli legati alle vicende dei cavalieri medioevali, di Robin Hood, di Lan-cillotto. Costruivamo archi, frecce e spade di legno; e con quelle c’inventavamo scontri nella foresta (la ripa in fondo alla piazza) o in an-tichi castelli (quello che restava effettivamente del castello medioevale). La televisione ci affascinava e poiché nessuno l’aveva in casa propria, noi del paese ci organizzavamo per andarla a vedere in una delle osterie dove ce n’era una. Era la TV dei ragazzi quello che piú c’interessava – i

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telefilm di Rin Tin Tin non li perdevamo –, e per vederla impegnavamo i soldi della merenda nella piccola consumazione da prendere. Si andava a scuola a piedi, e molti miei compagni della campagna do-vevano percorrere diversi chilometri per arrivare in paese; le strade, ad eccezione dello stradone, non erano ancora asfaltate. Nessuno però si la-mentava del tragitto, e i piú grandicelli aiutavano i piú piccoli; qualche famigliare, poi, li accompagnava, quando il tempo era brutto. D’inverno, inoltre, quando c’era la neve e non l’avevano ancora tolta dalle carreggia-te, solo noi del concentrico potevamo raggiungere la scuola, e allora la maestra ci lasciava liberi di leggere un libro o di disegnare. I nostri nonni, tutti reduci della prima guerra mondiale, erano ancora quasi tutti vivi, e lo erano anche i nostri genitori. I nostri papà erano stati tutti soldati durante la seconda guerra mondiale, e qualcuno era stato an-che partigiano. C’era una lapide in paese, sulla facciata del municipio, che conteneva l’elenco di tutti i caduti della prima guerra mondiale, e molti di questi a-vevano i cognomi dei miei compagni. La via principale, inoltre, era inti-tolata ai “Fratelli Negro”, due partigiani caduti durante la Resistenza. La nostra maestra, non appena siamo stati un po’ piú grandicelli, ci aveva spiegato che erano caduti in uno scontro con i repubblicani e che le loro spoglie erano raccolte nel cimitero del paese; ma questo lo sapevamo tut-ti: c’erano le loro fotografie di fianco alla chiesetta, con i loro nomi, le date della nascita e della morte, e la scritta sopra i due loculi “Caduti per la Libertà”. La guerra era finita da non molti anni e aveva coinvolto profondamen-te le famiglie del paese. Vicino alla nostra scuola c’era ancora quello che rimaneva del palazzo dell’avvocato, che era stato incendiato e distrutto dai tedeschi (il palazzo era stato utilizzato come base dai partigiani, dopo che era stato abbandonato dalla famiglia che da sempre, in paese, si era dichiarata fascista). Noi ci giocavamo e la chiamavamo la cà ruta – la ca-sa rotta –, e quei ruderi stavano a ricordarci che anche di guerra civile si era trattato. Italiani contro italiani: si era arrivati a tanto, ma i fascisti a-vevano deciso che bisognava ancora combattere a fianco dei tedeschi, e cosí molti ragazzi, come i fratelli Negro, avevano deciso non solo di non farlo, ma anche di combattere contro di loro. Tutto questo ci toccava mol-

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to, quei ragazzi li sentivamo particolarmente vicini: loro avevano fre-quentato la scuola che frequentavamo noi, e magari erano stati seduti nel nostro stesso banco. Allora le vicende della lotta partigiana si sapevano per lo piú per senti-to dire. Anche i nostri genitori quelle storie spesso non le conoscevano nei particolari, e salvo che non vi fossero stati coinvolti direttamente, an-che loro non potevano chiarire fino in fondo la nostra curiosità. Dei fra-telli Negro si sapeva che uno, Carlo, era caduto a S. Marzano Oliveto il 29-8-44 (come riportava il suo ricordino funebre e la data di morte sul suo loculo) e l’altro, Cesare, era caduto, con suo cugino, Negro Carlo, e altri partigiani a Moasca, un piccolo paese vicino a Canelli; era stato nel febbraio del ‘45, un paio di giorni prima dei fatti di Valdivilla, in cui era caduto Pinin, un altro Cossanese, il papà di Poli, il capo dei partigiani. (Un terzo fratello Negro, inoltre, era disperso in Russia.) La vicenda di Cesare, di suo cugino Carlo e dei loro compagni è qui riportata – ho tratto spunto per il racconto dai libri Dove liberi volarono i falchi di Renzo Amedeo, e Quando inglesi arrivare noi tutti morti di A-driano Balbo. Il 21 febbraio 1945 «la volante di Giorgio» partiva da Cossano Belbo (su iniziativa di Orsi, comandante della volante), di sera, e si dirigeva verso San Marzano, evitando di attraversare i paesi, Canelli in particola-re, per il pericolo di incontrare delle pattuglie repubblichine. Verso le ot-to, vicino ad un gruppo di case (come riporta la relazione di Binda, uno dei partigiani coinvolti nel fatto e scampato fortunosamente alla strage), i partigiani scorgono un gruppo di una decina di uomini non conosciuti, che erano armati e vestiti con materiali dei lanci. Non gli sparano quindi subito addosso, ma inviano una staffetta (probabilmente un civile) per chiedere chi fossero. La risposta non tardò: “Erano partigiani di Mauri, sbandati da Incisa, in cerca del loro comando”. Orsi – Bona Carlo cl. 1922, Santo Stefano Belbo – di persona si dirige subito con Forte – Ne-gro Cesare cl. 1923, Cossano Belbo – per appurare ciò che la staffetta a-veva riportato, e quelli riescono a convincerlo della veridicità della loro identità. Senza tradirsi e probabilmente adducendo particolari molto ve-

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rosimili, sono creduti e quindi invitati a proseguire a piedi verso il co-mando di compagnia di Poli. Loro accettano e s’incamminano frammisti agli uomini della volante. Arrivati in regione Annunziata, un gruppo di case di Moasca poste at-torno allo stradone che porta da Canelli ad Agliano, in cima alla salita, proprio sull’incrocio la cui strada a sinistra porta a Calosso e quella a de-stra al concentrico del paese stesso, l’intero gruppo si ferma in una casa privata a destra dello stradone, per bere qualcosa. Chi abitava in quella casa aveva del vino da vendere e “dava anche un po’ da mangiare”, e poi-ché la strada da fare era ancora molta, quella sosta sarebbe servita per af-frontarla con qualche forza in piú. Binda – Capetta Angelo – e Lice – Bravo Felice – vanno a bloccare lo stradone proveniente da Canelli e piazzano il Bren verso la discesa, men-tre due degli sconosciuti si mettono sull’incrocio, di fianco alla casa. Tut-ti gli altri entrano nella casa e dopo un po’, Orsi e uno degli aggregati e-scono per invitare Binda e Lice ad entrare anche loro; ma questi rifiutano e allora Orsi rientra a prendere del vino e con Anziano – Garassino Atti-lio – glielo porta. Nel frattempo qualche dubbio di troppo sull’identità degli sconosciuti doveva essere sorto: non che quelli si fossero traditi, ma l’aria si era fatta alquanto pesante e qualcosa lasciava intuire che era stata un’ingenuità portarsi dietro tutti quegli uomini senza averli prima disar-mati. Binda e Lice, in particolar modo, decidono di fare qualcosa per ri-mediare. Manca però il tempo, poiché dalla casa si scatena il putiferio. (Cosa sia effettivamente successo nella casa, in realtà non si sa. Quella narrata, in base ai caduti, può essere una delle ipotesi.) Quei dieci uomini sono repubblichini travestiti da partigiani e repentinamente aprono il fuo-co uccidendo Volpe – Negro Carlo cl. 1926, Cossano Belbo –, Fuoco – Bosca Giovanni Pietro cl. 1925, Bra – e Mariolino – Bona Mario cl. 1927, Santo Stefano Belbo –, il fratello di Orsi. Dall’incrocio sparano an-che una raffica di sputafuoco, ferendo Lice ad una gamba e Orsi ad un piede. Lice e Anziano riescono comunque a fuggire, mentre Orsi non può far altro che trascinarsi nella cunetta, fin dove Binda è riuscito a met-tersi al coperto. Binda lo aiuterà poi a portarsi fuori tiro, fino ad una ca-scina lí vicina. Arriverà però poco dopo una colonna di repubblichini da Canelli, e Binda, sollecitato da Orsi, riuscirà a fuggire, aiutando anche

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Lice, che troverà nelle vicinanze, a mettersi in salvo. Orsi, invece, cattu-rato, sarà torturato e poi fucilato. All’inizio della sparatoria, nella casa fra i morti non c’era ancora Forte, che era andato in cucina a pagare il vino al proprietario della casa e nel frattempo forse era stato avvertito da quest’ultimo che quei dieci uomini erano repubblichini. Cosí si era avventato con il mitra spianato nella stanza dove erano i suoi compagni; ma era tardi: suo cugino, Fuoco e Mariolino erano già caduti. Li vede per terra, ed è il momento in cui parte la raffica di sputafuoco, lui raffica a sua volta e uccide tre repubblichini e ne ferisce altri due (feriti gravemente, moriranno nei giorni successivi), poi esce dalla porta per cambiare il caricatore. Ma non fa in tempo: viene ucciso anche lui da una raffica nella schiena.

I Fratelli Negro, Carlo e Cesare.

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Da «Lo scontro di Moasca. Rapporto di Capetta» pag.327, Quando in-glesi arrivare noi tutti morti di Adriano Balbo – Blu Edizioni, 2005.

«[…] La notte del 21 febbraio avevamo lasciato la casa del Grigio. Detto quella sera non era venuto. Siamo partiti in nove. Orsi aveva detto che ci dirigevamo verso San Marzano, dove c’erano due spie da prelevare. […] Siamo andati di not-te. Faceva giorno quando attraversammo San Marzano. Poi, verso Nizza, siamo arrivati in una borgata dove abitava Pinutin di Macario, che qualcuno di noi cono-sceva. Pinutin ci ha offerto la colazione. Mentre stavamo mangiando arriva un vecchio e dice che in un gruppo di case sulla collina c’è una squadra di uomini armati che lui non sa chi siano. Allora ci siamo andati ad appostare intorno alle case. Pinutin è andato avanti a vedere. […] Lice è stato più malizioso di me. Mi dice: ‘Guarda un po’ tutta sta gente. A me non garbano: hanno gli scarponcini nuovi, belli’. ‘Possono averli presi in qualche deposito’, dico io. ‘Tengono le ar-mi senza sicura’, dice ancora Lice. Allora Orsi, che ha parlato con il capo, dà l’ordine di unirci a loro: li vuole portare da Poli. Ci uniamo a due a due, uno di noi e uno di loro, e andiamo avanti con l’intenzione di portarli al nostro comando. Delle spie che dovevamo andare a prelvare, il caposquadra non ne ha più parlato. E noi neppure. […] »

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La piazza

Oggi al fondo della piazza, dopo la chiesa, c'è un complesso per i giochi dei bimbi e per lo sport, con campo da tennis, campi da bocce e un cam-po per la pallavolo, il basket e il pattinaggio. Davanti al complesso, dove una volta esisteva un muraglione di sostegno a chiudere la piazza sul sot-tostante ritano, è stato collocato il monumento ai caduti delle due guerre, con una scultura raffigurante un'ala e con due elenchi di nomi. Su due lapidi sono presenti, in pratica, tutti i cognomi delle famiglie del paese, a indicare quanto fu pesante il contributo di sangue versato. Alla destra del-lo stradone, andando dalla chiesa verso il centro del paese, c'è sempre sta-to il ritano che scende dalle colline e si versa nel torrente Belbo, proprio dopo la chiesa. Il suo letto era stato nel Medio Evo il canale di difesa da-vanti alla fortificazione-castello, presente in questo luogo, di cui, da mol-to tempo, esistono solo alcuni ruderi. Dopo la seconda guerra mondiale, il ritano, già in parte coperto da un tunnel in muratura, fu con l’estensione del tunnel stesso, ricoperto da tanta terra, a formare una nuova piazza per il paese, fra lo stradone e il castello. Lo spiazzo creato serviva spesso anche come campetto di calcio per i bambini e i ragazzi; il Curato stesso custodiva il pallone di gomma nera, quello di cuoio era per le occasioni importanti, e i bambini, dopo averne fatto richiesta, potevano ottenerlo per giocare liberamente. Se i giocatori erano pochi, si utilizzava una sola porta, con il portiere a cercare di non far segnare gol a nessuna delle due squadre in campo. Anche il Curato, seppur ostacolato nei movimenti dalla sua lunga veste nera, partecipava spesso al gioco, correndo e cercando di trattenere il suo forte tiro. A volte organizzava, in accordo con i colleghi dei paesi vicini, che ri-cambiavano, sfide calcistiche fra i ragazzi delle rispettive parrocchie. Lui stesso si accollava l'onere di trasportare, in diversi viaggi con la sua Sei-cento, tutta la squadra con i rispettivi indumenti sportivi. Le magliette utilizzate erano quelle del Grande Torino, della Juventus o del Genoa, e anche quelle Verdi con la sigla del paese cucita sopra. Non sempre le maglie erano della giusta misura per chi le indossava, ma questo non im-pediva ai ragazzi di sentirsi veri giocatori. (Per il trasporto, qualche vol-

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ta, il Curato utilizzava la sua Moto Guzzi Lodola, in sostituzione della Seicento, magari non disponibile in quell'occasione, e in questo caso si limitava a portare qualche ragazzo, ovviamente in piú viaggi; gli altri si servivano della corriera o di qualche altro mezzo). Il mese di maggio era il piú favorevole all'utilizzo della piazza, spe-cialmente nell'ora, dopo cena, precedente il Rosario. Bambini e ragazzi si sfidavano, e poi, tutti insieme, si andava a recitare le preghiere del Rosa-rio. Si usciva dalla chiesa che era ormai buio, e si tornava alle proprie ca-se, o ci si recava in una delle osterie del paese a vedere la televisione. Al-lora, quest’elettrodomestico non era ancora diffuso come oggi, e le oste-rie avevano una saletta in cui i clienti – uomini, donne e intere famiglie – andavano a vedere i programmi che venivano trasmessi. Fu proprio in una di quelle sere di maggio, durante il Rosario, che il muro di sostegno, ancora in costruzione e con tutti i ponteggi, crollò. La gente presente nella chiesa, sentito l’enorme frastuono, simile ad un terremoto, uscí e fu subito avvolta dal gran polverone che si era alzato. Qualcuno gridava: << Sandro! Sandro! >> Era Pierino che, con Aldo vicino, aspettava di poter vedere qualcosa, per scendere a soccorrere l'a-mico travolto dalle impalcature e dalle pietre del muraglione. Tutti e tre non erano entrati in chiesa e, attratti dall'avvistamento di un grosso topo, erano saliti sulle impalcature per cercare di colpirlo con del-le pietre. Piú precisamente, Sandro era avanti, Pierino un po' piú indietro, ma sempre sulle impalcature, mentre Aldo, il piú vecchio dei tre, era ri-masto sugli scalini della chiesa. Sandro era il piú giovane ed allora aveva meno di vent'anni. Era un ra-gazzo con un fisico atletico, buon nuotatore e spesso, d'estate, andava a nuotare in Belbo, nei laghi sotto le rocce. Suo padre aveva una buona at-tività in paese ed era molto conosciuto. Pierino aveva da poco finito di fare il soldato: era un ragazzo agile e forte, il gioco del pallone a pugni era quello che preferiva e, se fosse stato un po' piú alto, avrebbe anche potuto giocare a buoni livelli. Prima di al-lora aveva già avuto qualche avventura "rischiosa". Una volta, in Belbo, cercando di pescare con le mani all'uscita della bialera, fra i sacchi di pietre, a qualche metro sott'acqua, era rimasto incastrato con il braccio fra le pietre e il ferro di contenimento. I suoi amici erano riusciti a tirarlo

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fuori, ormai quasi cianotico, in extremis. Qualche anno dopo, da carpen-tiere, avrebbe di nuovo dovuto saltare, a quindici metri d’altezza, da u-n'impalcatura all'altra, a causa di un carico mal manovrato da un suo compagno di lavoro, che lo avrebbe travolto. Aldo era il figlio di uno dei calzolai del paese, ed anche lui era calzo-laio, e dei tre era il meno sportivo. Non appena il gran polverone diminuí un po', Pierino si precipitò verso gli esili lamenti che si sentivano fra le pietre e le travi di legno. Senza ve-dere quasi niente, a totale rischio della propria vita, per possibili nuovi crolli, cominciò a togliere pietre e travi, fino a raggiungere Sandro che sotto, sfracellato, si lamentava. Anche altri scesero, e tutti insieme finiro-no di dissotterrarlo. Lo portarono su in condizioni disperate, e poi, con un'improvvisata barella, fino a casa, nella saletta della televisione. Depo-stolo su alcuni tavoli, con un catino sotto a raccogliere il sangue, cercaro-no di lavargli le ferite, nell’attesa della macchina che lo avrebbe portato in ospedale. In paese c'era il finimondo. Arrivarono i carabinieri da S. Stefano per gli accertamenti. Qualcuno avvisò la mamma di Pierino per informarla che lui stava bene, nonostante fosse stato coinvolto in quella brutta av-ventura. La mamma, dalla casa appena fuori l’abitato, si recò subito nel concentrico per accertarsi dello stato del figlio. I carabinieri interrogarono Pierino, ancora coperto di polvere e del sangue di Sandro, e lui spiegò com’erano andati i fatti. Sandro fu portato in ospedale. Nei giorni successivi, tutti s’informavano sul suo stato; le notizie erano d’agonia con nessuna possibilità di sopravvivenza. Sandro invece si salvò, e dopo aver subito diversi dolorosi interventi chirurgici, ritornò ad una vita normale. Qualche tempo dopo, la sua famiglia offrí a Pierino una bella catena d'oro, con un'immagine sacra, in modo che la portasse a ricordo della ri-conoscenza che loro avevano per lui. Certo è che se nel paese fosse stato ancora vivo quel vecchio pittore che dipingeva gli ex voto da mettere nelle chiesette di collina, allora an-che per Sandro ne avrebbe dipinto uno da collocare alla Madonna della Rovere.

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Sono trascorsi oramai circa cinquant’anni da quando Aldo, Pierino e Sandro hanno vissuto la drammatica esperienza narrata nel racconto. Pierino e Aldo, prematuramente, hanno già lasciato questo mondo, mentre Sandro (Sandro è un nome di fantasia) vive e lavora in paese con la sua famiglia. (Per la stesura del racconto, l’autore si è basato sui suoi ricordi di bambi-no fra i bambini che giocavano allora in quella piazza).

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La festa

Quel sabato pomeriggio, i due amici, com-pagni di classe in quarta elementare (appena terminata), avevano ottenuto dai loro genito-ri il permesso per recarsi alla festa dello Scorrone, la frazione piú grande del paese. Insieme, utilizzando le loro piccole biciclet-te, avrebbero percorso il tragitto: sei chilo-metri di salita non ripida, su da quella strada che avevano già salito altre volte – anche se non sempre erano arrivati fino allo Scorrone –. Questa volta, però, la salita non sarebbe stata affrontata per il solo gusto di sentirsi un po' corridori, come quelli che si vedevano in TV, ma per uno scopo diverso: recarsi da so-

li ad una festa, proprio come facevano i grandi. A quei tempi non c’era certamente il traffico di oggi e molte strade dovevano ancora essere asfal-tate; in particolare, quella che dovevano percorrere era ricoperta da uno strato di ghiaia sottile e presentava in parecchi punti, specialmente in al-cune curve, dei solchi abbastanza accentuati, dovuti principalmente al passaggio dei carri ancora trainati dai buoi. Nonostante questo, non si po-teva dire una strada di campagna, quelle in bicicletta non era possibile percorrerle: era piú che altro uno stradone, simile a quello di fondo valle, un chilometro dopo il paese, dove cessava di essere asfaltato. Si era nei primissimi anni Sessanta e le automobili, da quelle parti, e-rano ancora rare: le biciclette e le motociclette erano i mezzi piú comu-nemente usati per spostarsi, e in loro mancanza, spesso la gente utilizzava “l’auto pubblica”. Il servizio era presente in quasi tutti i paesi, e in occa-sione delle feste patronali, piú persone insieme, per dividere la spesa, si facevano portare e poi venire a prendere. Anche la corriera, a volte, ser-viva per lo scopo, ma non sempre arrivava fino al luogo da raggiungere (allo Scorrone, in particolare, la corriera non è mai passata); e poi, di soli-to era utilizzata solo per il viaggio di andata, al ritorno era difficile far

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combinare il suo orario con le esigenze della festa. Quando la strada da percorrere non era molta, oppure erano le strade di campagna quelle che dovevano essere percorse, spesso ci si muoveva ancora a piedi, e la gen-te, a piccoli gruppi, sfruttando tutte le scorciatoie possibili, raggiungeva il luogo dove si svolgeva la festa, magari per restarci l’intera giornata, e poi tornava, anche a notte inoltrata, al chiarore delle stelle e della luna. In particolare, dal paese allo Scorrone si poteva anche salire a piedi per una vecchia strada, quasi un sentiero, che passava fra un antico gruppo di case, allora ancora abitate, e proseguiva sul ciglio del grande bosco, dove nella giusta stagione tutti andavano per funghi e per castagne, per con-giungersi poi allo stradone, quasi in cima alla salita. Chi percorreva quel-la strada, dal paese, poteva risparmiare un paio di chilometri rispetto a quelli che si sarebbero dovuti percorrere, in bicicletta o su un altro mez-zo, sulla strada carrozzabile. Allora, come d'altronde anche oggi, la gente andava molto volentieri alle feste e quella, anche se era la festa di una frazione, era ogni anno molto frequentata, e lo era anche dalla gente dei paesi vicini, quasi come se si trattasse della ricorrenza patronale di un qualsiasi paese. Lo Scorro-ne, in effetti, è solo un gruppo di case su un pianoro sopra la costa delle colline della valle del Belbo, ma in quel luogo confluiscono (quasi come se si trattasse di una grande raggiera), passando tra le vigne, i boschi e i campi, molte stradine di campagna, a unire tutte le cascine lí attorno: quelle vicine e finanche quelle meno vicine. C’era poi la buonissima ac-qua della fontana (persino Cesare Pavese la nomina in un suo racconto), [Passava allora allo Scorrone, a mezza costa per Castino – qualche casa, niente di piú, ma allo Scorrone c’è la fontana d’acqua igienica – Masin non seppe mai perché – e venivano fino da Alba o da Asti in comitive per bere. Quel che stupisce è che nes-sun albergatore abbia mai pensato di farci l’Hotel, nella penombra di quegli alberi e-normi che sovrastano lo spiazzo. C’è una cannella nella pietra, una vasca ben grezza sotto, un canaletto melmoso di scarico e, chi vuole, beve e paga niente]

proprio fra quel gruppo di case, a giustificare il motivo di arrivare fin lí. Qualcuno nel venirci, spesso si portava anche un po' di merenda, per il gusto di consumarla accompagnandola proprio con quell’acqua.

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A quella festa, come in tutte le altre feste del circondario, di quei tem-pi, era sempre presente il gelataio del paese, con il suo veicolo per i gela-ti: una vecchia Indian a cui era stata adattata una motocarrozzetta per il trasporto del gelato; e piú di una volta, venduto tutto il gelato, lui ritorna-va nel suo negozio per prelevarne dell’altro da vendere. In uno dei prati, lí vicino, c’era sempre un piccolo ballo a palchetto, che sarebbe servito per le due sere, quella del sabato e della domenica, con l’orchestrina che avrebbe suonato e con i giovani che avrebbero bal-lato. In realtà era la partita alla «pantalera» fra i due fratelli di Santo Stefa-no, cosí forti a quel gioco, e i due fratelli dello Scorrone, loro degni av-versari, l’attrazione per quel magnifico pomeriggio d’estate. La partita al pallone elastico, eventualmente giocata con la variante della pantalera, quando il campo di gioco era piú corto di quello regolamentare e non permetteva la battuta normale, era la sfida sportiva che non poteva man-care in una festa di paese o di frazione, a quei tempi. Allo Scorrone, per questo, il campo di gioco sarebbe stato ricavato uti-lizzando lo stradone, che in quel luogo faceva una curva molto larga, e il piccolo slargo a pochi passi dalla fontana. La pantalera, una tavola di le-gno di circa un metro e cinquanta per un metro, sarebbe stata piazzata, come al solito, quasi perpendicolarmente sulla facciata di una delle case a fianco dello stradone, dove proprio sotto c’era l’ingresso della panetteria, osteria, tabaccheria, emporio in genere della frazione. Le finestre delle case lí attorno sarebbero state protette in qualche modo, con le ante, qual-che finestra le aveva, oppure con alcune tavole di legno, per impedire che il pallone, sfuggito dal campo di gioco, potesse provocarne la rottura dei vetri. Le linee di demarcazione sarebbero state tracciate con la calce, ma sarebbero stati gli spettatori, a bordo campo, il miglior riferimento per i giocatori. I due amici arrivarono allo Scorrone che la partita era già cominciata e già molta gente la stava seguendo. I giocatori indossavano i pantaloni lunghi, bianchi, proprio come quelli che allora usavano i professionisti negli sferisteri. Il tifo sportivo, anche se non paragonabile a quello calci-stico, era in ogni caso abbastanza acceso e, anche se i tifosi non manca-

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vano ai fratelli di Santo Stefano, buona parte degli spettatori era per i fra-telli dello Scorrone. Il pallone era lanciato, per aprire il gioco, sulla pantalera dal lanciatore di una delle squadre, e il ricacciatore dell’altra squadra lo ricacciava con lo scopo di conquistare il punto o, se si era nel turno di definizione delle “cacce”, per ottenere una caccia il piú lontano possibile. Il ricaccio del pallone, grazie all’abilità dei giocatori in campo, si ripeteva piú volte, e ogni volta era una nuova emozione. Quel gioco, che non viene facilmente compreso dai forestieri, è invece per gli abitanti di quei luoghi semplice e naturale, forse proprio perché è nato da quelle parti e fin da bambini tutti ne sentono parlare. Si tratta di conquistare una posizione nel campo avversario, il piú lontano possibile, in modo che col cambio di campo delle squadre sia piú agevole difender-la. Due sono, in effetti, le posizioni da conquistare ad ogni turno: sono le cosí dette “cacce” (oggi negli sferisteri ogni turno è su quattro cacce, per non perdere troppo tempo nei cambi di campo). Il pallone (viene chiama-to cosí, anche se è di dimensioni ridotte) è una sfera di gomma del diame-tro di circa dieci centimetri e un peso di 190 grammi, e va colpito con il pugno chiuso, proprio all’attaccatura del pollice. I giocatori, per evitare danni alla mano sottoposta al pesante impatto, utilizzano una fasciatura formata da lunghe strisce di tessuto pesante, di circa due centimetri di larghezza (la cosí detta “fascia”), e un pezzo di cuoio che sistemano fra le strisce di tessuto, proprio sul punto dove si colpisce il pallone. Il tutto viene spesso ancora irrobustito e tenuto ben saldo da diversi metri di cor-dino avvolto sopra, a coprire le strisce di tessuto. Il pallone può essere colpito al volo o al primo salto, e non è piú in gioco se esce lateralmente dal campo senza toccare per terra (chi lo ha mandato fuori in questo modo perde il punto). Tutto il meccanismo di gioco è poi incentrato sulla definizione e sulla conquista delle cacce. Nel turno di definizione, quando il pallone non è piú in gioco, proprio perché ha già fatto almeno due salti, deve essere fermato e non è piú ricacciabile (il pallone è colpito a turno come nel tennis). Il luogo in cui questo av-viene determina la linea di demarcazione della caccia. (La caccia viene anche definita se il pallone esce lateralmente dal campo, ovviamente in

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modo non falloso, e il punto d’uscita ne costituisce la linea di demarca-zione). La “caccia” è quindi, in pratica, una linea di demarcazione imma-ginaria, parallela ai lati piú corti del campo, che serve a definire la parte di campo che dovrà essere difesa. Cambiando campo, dopo il turno di definizione, la squadra che avrà la caccia dalla propria parte potrà piú facilmente difenderla e conquistare il punto (si dice “prendere la cac-cia”). Nel turno di definizione, per ogni caccia viene posto sul lato lungo del campo, su segnalazione dell’arbitro, un paletto con una bandierina di colore diverso, a indicare la linea di definizione (l’arbitro segna per terra, con un bastone da passeggio con la punta di ferro, il punto in cui posizio-nare il paletto e questo verrà subito dopo collocato da un suo aiutante). Terminato il turno di definizione, le squadre cambiano campo e chi era alla battuta andrà al ricaccio. L'arbitro mette in gioco la prima caccia e poi la seconda. Appena la prima caccia viene conquistata da una delle due squadre, l’arbitro fa togliere il paletto relativo e mette in gioco la successiva. ll punto è conquistato dalla squadra che riesce a far rimbalza-re almeno due volte il pallone (o a mandarlo lateralmente fuori del campo con almeno un salto nel campo) oltre la linea di demarcazione della cac-cia (rispetto, ovviamente, alla propria posizione in campo). Il gioco inizia sempre con il lancio del pallone sulla pantalera da parte della squadra che occupa la parte di campo per la battuta. (Il pallone deve rimbalzare regolarmente sulla pantalera, altrimenti l’apertura del gioco non è valida e la squadra che ha lanciato il pallone perde il punto). Nella battuta del gioco normale, il pallone non viene lanciato sulla pantalera, che non esiste, ma il battitore lo colpisce con una spettacolare battuta di pugno, che a volte supera anche gli ottanta metri. (La battuta in questo caso deve superare la linea mediana del campo per essere valida). Con-quistate le cacce, si prosegue con una nuova definizione e poi si cambia nuovamente il campo, fino a raggiungere la conquista del set (il gioco). Il punteggio è in successione: 15, 30, 40, eventuale vantaggio, gioco: pro-prio come nel tennis. Nella variante della pantalera, le due parti di campo non sono della stessa dimensione, come nel gioco alla lunga, ed è in pratica la posizione della pantalera, a 10-15 metri da una delle linee di fondo, che le defini-sce.

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Nel gioco normale, quello che viene praticato negli sferisteri, la squa-dra che riesce a mandare il pallone oltre il fondo del campo avversario conquista il punto, annullando anche l’eventuale caccia in gioco. Questo è il punto piú spettacolare, specialmente quando è ottenuto al volo, e in gergo viene chiamato ”intra”. Alla pantalera, l’intra è valida solo se è ot-tenuta con almeno un rimbalzo del pallone nel campo di gioco (quando il campo è ridotto, il gioco non deve essere troppo di potenza, si rischiereb-be di ridurlo alla sola ricerca del fuori campo “di volo”, piú facilmente ottenibile in questo caso). Il campo regolamentare ha su uno dei lati lunghi un muro molto alto, oppure anche una rete metallica sostenuta da altissimi pali di ferro. (Nello sferisterio di Torino, il piú importante a quei tempi, il muro d’appoggio era costituito dal retro di piú palazzi allineati, di cinque piani). Sul muro il pallone può essere appoggiato durante la battuta o il ricaccio, e rimane in gioco come se non avesse toccato (il muro “porta volo”). Questo per-mette ai giocatori di colpire il pallone con la massima potenza e di tener-lo piú facilmente in campo (piú si colpisce forte e piú è difficile control-larne la direzione). Il campo normale di gioco è costituito da un rettango-lo di circa cento metri per venti. Le squadre, infine, sono composte di quattro giocatori: il battitore, la spalla e, piú avanti, i due terzini. Allo Scorrone si giocava «alla pantalera», ma il campo, sufficiente-mente lungo, consentiva un ricaccio abbastanza potente. I giocatori, però, non avevano a disposizione il muro laterale d’appoggio, come negli sferi-steri; e per questo il fallo laterale non era certamente facile da evitare. Per agevolare un po' il gioco, il tetto di una delle case sullo stradone “porta-va volo”, ma il rimbalzo sulle tegole era abbastanza imprevedibile e non sempre il pallone poi tornava regolarmente in campo. La partita l’avrebbe certamente vinta la squadra con maggior forza fi-sica, ma contava anche l’esperienza, la furbizia, l’agilità, o meglio, come si diceva, chi aveva tutte queste qualità insieme, nella giusta misura. La fortuna tutti sapevano che non sarebbe stata determinante: sarebbe inter-venuta a turno per entrambe le squadre e sarebbe solo eventualmente ser-vita come scusa. Per i due amici, appena arrivati, la prima necessità fu quella di par-cheggiare le loro biciclette in un luogo sicuro.

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Vicino alla fontana, un vecchietto, che un po' appartato assisteva alla partita, li invitò a portarle sotto la tettoia di casa sua, di fianco alla stalla dove c’erano i conigli e le galline, quel giorno rinchiuse. In stretto dialet-to langarolo, di quei paesi (il dialetto è molto diverso, anche a pochi chi-lometri di distanza, specialmente quando si cambia di valle o il paese è luogo di passaggio per altre zone), invitò i ragazzi ad usufruire della sua tettoia, <<che lí nessuno avrebbe toccato le loro biciclette>>. Il vecchiet-to sapeva che i due ragazzi erano del paese e che erano i figli dei due ar-tigiani da cui si serviva per le scarpe e per i vestiti. I ragazzi ringraziaro-no e fecero come il vecchietto aveva detto. Ritornarono poi subito a ve-dere la partita. Il gioco era avviato e gli animi di tutti erano eccitati alla conquista e al-la difesa dei vari punti. I fratelli di Santo Stefano avevano forse miglior tecnica: il piú giovane di loro aveva un fisico atletico, da vero giocatore, e al ricaccio era veramente forte. I fratelli dello Scorrone si difendevano utilizzando la loro agilità e anche la loro bravura. Loro conoscevano tutti i trucchi e le malizie per mettere in difficoltà, su quel terreno, gli avversa-ri. Il gioco proseguiva con un certo equilibrio e il risultato finale non sa-rebbe stato raggiunto rapidamente. Solo negli ultimi giochi sarebbe stato a favore di chi avesse avuto i nervi piú saldi e soprattutto, ancora, le ne-cessarie forze per primeggiare. I due amici guardavano e non tifavano in particolare per nessuno. Era-no interessati solo dal colpo migliore. Essi erano piú portati per il gioco diretto (magari con un pallone meno pesante e piú adatto a loro) e da spettatori si divertivano, ma non come quando giocavano. Visto poi che era anche l’ora della merenda, e i ragazzi di allora non ci rinunciavano facilmente, in un momento di pausa del gioco, insieme entrarono nell’emporio, vicino al cui ingresso, in quel momento, i fratelli dello Scorrone stavano bevendo un po' d’acqua nell’attesa di riprendere il gio-co. Il gestore dell’emporio era Giulio che dal paese, dove con i suoi geni-tori e i suoi fratelli “aveva lavorato” la cascina del Parroco, proprio a me-tà strada per lo Scorrone, era venuto nella frazione per occuparsi di quell’attività: e cosí faceva il pane nel forno a legna, serviva in negozio, vendeva i tabacchi e tutto il resto.

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I due ragazzi salutarono Giulio e lui ricambiò con la sua consueta alle-gria. Giulio aveva il doppio degli anni dei due ragazzi, ma non faceva pe-sare la differenza d’età. In paese, qualche tempo prima, era anche stato il macchinista del piccolo locale cinematografico dove i ragazzi del concen-trico non perdevano nessuna proiezione. Già il sabato pomeriggio s’infilavano nel cinematografo dove lui provava le pellicole per la dome-nica sera, e lui non li mandava via: anzi, si divertiva con loro, come se fosse stato tutto un gioco. A Carnevale di quell’anno aveva guidato il trattore, uno dei pochi e-semplari presenti a quei tempi in paese, con il grande tamagnone su cui erano saliti molti ragazzi e bambini, per l’occasione tutti mascherati, per percorrere lo stradone fino quasi al paese successivo. Insieme avevano poi visto bruciare l’enorme falò che i ragazzi piú grandi avevano prepara-to in piazza, spensierati e divertiti, per festeggiare insieme quella festa. Lui era anche un corridore ciclista dilettante e con la sua vespa, con la bi-ci da corsa sistemata dietro, si recava nei paesi dove c’era una corsa, per gareggiare in quella che era la sua passione sportiva. Sempre, anche quando non poteva vincere, dava tutto se stesso, per lottare e per ben fi-gurare. Giulio chiese ai due ragazzi come fossero arrivati allo Scorrone e ap-pena seppe che erano venuti in bicicletta, si congratulò con loro, poi disse che <<oggi era festa e quello che ci voleva, al momento, era una bella merenda, da consumarsi magari vicino alla fontana dell’acqua dello Scor-rone>>. I due amici gli risposero che erano entrati nel suo emporio pro-prio per questo: e cosí lui preparò due enormi panini con il salame, al co-sto di una merenda molto meno speciale. I ragazzi lasciarono Giulio al suo lavoro, lo salutarono ricambiati e uscirono per consumare, vicino alla fontana, i loro panini. La partita era in corso e i due amici avrebbero voluto vedere come an-dava a finire. La raccomandazione dei loro genitori era però quella di non attardarsi troppo e di ritornare a casa sicuramente prima di cena. Per non rischiare, sapendo anche che una foratura o un guasto imprevisto alle lo-ro biciclette avrebbe causato un notevole ritardo, rimasero ancora un po' a godersi la partita e poi, dopo aver salutato il vecchietto, il quale li invitò a

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ritornare allo Scorrone, ripresero le loro biciclette e tornarono a casa, fe-lici di aver trascorso una cosí entusiasmante giornata.

Lo Scorrone (anni 50)

Augsto Manzo, il piú grande giocatore di pallone elastico di tutti i tempi.

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Il cortile

All'inizio degli anni Sessanta, nelle Langhe ed anche in altri posti, le pos-sibilità di lavoro per i calzolai erano molto scarse, anche se, fino a pochi anni prima, in paese c'erano piú di quattro o cinque artigiani di questo ti-po per una popolazione di circa millecinquecento anime, e tutti lavorava-no e avevano anche dei giovani garzoni. Poi, soprattutto a causa dell'in-troduzione di nuovi materiali e per il nuovo modo di costruire le calzatu-re, il lavoro per loro diminuí. Molti, dopo una vita passata ad esercitare quel mestiere, furono costretti a cercare altre cose da fare per far quadrare il bilancio famigliare. Mio padre, a cinquant'anni, s'improvvisò imbian-chino, lavorò come aiutante muratore di mio nonno e, d'inverno, andò al cosí detto “Cantiere Scuola”, dove, per cinquecento lire di allora al gior-no, gli uomini, dalle campagne e dal paese, lavoravano per allargare o co-struire nuove strade, su in collina. Le prospettive per il futuro non erano certo buone, e cosí la mia fami-glia decise di trasferirsi in un altro paese o in una città con maggiori pos-sibilità di lavoro. Lasciare una casa comprata con sacrificio, cambiare mestiere, ma soprattutto adattarsi ad un nuovo tipo di vita era un altro sa-crificio grande, che avrebbe però offerto una contropartita. La città pote-va essere una buona soluzione, ma occorreva trovare un lavoro e un al-loggio in cui vivere. Da Torino, attraverso l'interessamento della sorella di mia mamma, si ebbe la notizia che si poteva ottenere una portineria nel quartiere di Van-chiglia, vicino a piazza Vittorio. Ci si doveva presentare al colloquio con i proprietari dello stabile, per ottenere il lavoro: per questo, mio padre e mia madre si recarono a Torino, il giorno e all'indirizzo indicato. L'alloggio era stato trovato e per di piú non occorreva neanche pagare l'affitto; il lavoro per mio padre non c'era ancora, ma lui, momentanea-mente, avrebbe potuto aiutare la mia mamma nella portineria. Conferma-ta la decisione, il giorno stabilito si traslocò. Allora dovevo ancora sostenere l'esame della quinta elementare, e per questo i miei genitori mi lasciarono dai nonni, che abitavano in una casa poco fuori il paese. Occupando la stanza che era stata della mia mamma,

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terminai la scuola e poi, per le vacanze, ebbi ancora modo di trascorrere l'estate nel paese natío, con mia nonna e mio nonno. A settembre mio pa-dre venne a prendermi e anch'io mi trasferii a Torino con i miei genitori. Alla stazione, il treno che stava arrivando mi avrebbe portato in un mondo diverso, che però un po' già conoscevo, diverso da quello che mi apprestavo a lasciare. Ero già stato in città altre volte, per le visite ai pa-renti che vi abitavano. Di Torino ricordavo la stazione di Porta Nuova, la zona attorno a piazza Vittorio, i portici con i negozi, il carnevale con i carri e con le giostre nella grande piazza circondata da antichi palazzi. La nostalgia per l'abbandono delle colline fu presto superata dalla nuo-va avventura che mi si prospettava... La portineria a Torino era in un vecchio palazzo di tre piani, e il suo al-loggio era composto da un grande locale al piano terreno, nel cortile, e da una stanza, al primo piano, raggiungibile dall'interno con una scala a chiocciola di ferro. I servizi nel palazzo erano quasi tutti esterni, e ognu-no veniva usato da piú famiglie: ce n'erano in cortile e su ogni piano, e solo pochissimi alloggi ne avevano uno privato. La stufa, portata dal paese, era stata collocata dai miei genitori nel grande locale al piano terreno, nel quale era presente una tramezza per dividere la zona privata da quella pubblica di servizio. La posta per gli inquilini era collocata in una specie di rastrelliera con vari scomparti, e doveva poi essere consegnata agli interessati che, spesso, passavano an-che a ritirarla. Mia madre mi chiese di aiutarla a distribuirla: cosí imparai i cognomi degli inquilini e feci anche la loro conoscenza. Gli alloggi nel palazzo erano, in genere, formati da una o due stanze; solo alcuni, con ingresso nei due scaloni dell'edificio, ne avevano tre o quattro. Molti avevano l'ingresso sui ballatoi e quelli interni, sul cortile, erano ad una sola aria. Molte erano le persone anziane, sole, che occupavano spesso un'unica stanza dall'affitto molto contenuto, sostenibile anche da chi disponeva di una piccola pensione, come loro. In quel palazzo si viveva tutti a stretto contatto e si aveva quasi l'im-pressione di stare in un grande paese.

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Mio padre, nel frattempo, mi aveva iscritto alla scuola media presso l'allora “Goffredo Mameli”, in via S. Ottavio, a pochi passi da via Po. Iniziai la scuola con un nuovo compagno, i cui genitori erano nostri compaesani. Lo incontrammo nell'atrio dell’edificio scolastico, il primo giorno di scuola, e la sua mamma, riconosciuta dalla mia, si augurò che suo figlio ed io fossimo inseriti nella medesima classe. Il caso, in realtà, cosí volle, e questo mi permise di non sentirmi troppo spaesato. Qualche mese dopo, mio padre trovò lavoro come aiutante presso il mastro-muratore che aveva il suo magazzino in due locali nel cortile del palazzo dove abitavamo. Dopo un paio d’anni avrebbe cambiato per un altro lavoro, da operaio, in una fabbrica di materie plastiche, non molto distante da casa. La mia mamma, invece, lavorava in portineria per ri-scuotere gli affitti, per le pulizie, la posta e le informazioni... Allora, a Torino, si viveva un po' diversamente da come si vive oggi. Le macchine in circolazione erano molte meno e le vie, quasi tutte per-corse nei due sensi di marcia, non erano utilizzate, specialmente la notte, per il parcheggio fisso, come oggi. I portoni delle vecchie case erano, di giorno, sempre aperti e non esistevano i citofoni. Quasi tutti i palazzi a-vevano una portineria. Per le informazioni e la posta ci si rivolgeva al portiere, che provvedeva per le necessità. Molti erano i piccoli negozi e i supermercati non erano ancora cosí dif-fusi. C'erano le latterie, i negozi di frutta e verdura, e molte osterie con il déhors, e in cui la gente andava anche a vedere la televisione. Per strada e nei cortili passavano continuamente persone a recuperare il ferro vecchio, i feramiù, o ad aggiustare gli ombrelli. Passavano gli spazzacamini: il ri-scaldamento non era centralizzato in tutte le case e la stufa, alimentata da legna o da carbone, era ancora molto spesso utilizzata. Nel cortile, dove abitavamo, c'era una continua processione; a volte passava persino qual-cuno con un organetto o una fisarmonica e, dopo che aveva cantato un paio di canzoni, gli inquilini, dai balconi, gli lanciavano qualche moneti-na avvolta in un pezzo di carta di giornale, come ricompensa per la sua esibizione. Sul Po, nella zona dei Murazzi, erano presenti molti imbarcaderi con le barche di legno che avevano generalmente dei nomi di donna, e che pote-vano essere affittate dalla gente, per una suggestiva gita sul fiume.

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Molte erano le sale cinematografiche, anche di seconda o terza visione, fino a quelle degli oratori dove i bambini, la domenica pomeriggio, pote-vano vedere un film con una piccola spesa. Tutte erano di solito molto af-follate: allora erano in voga i film di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, all'apice del loro successo, c'erano i primi western all'Italiana, con Per un pugno di dollari di Sergio Leone ad iniziare la serie. Una gita fuori porta non era sempre possibile farla e il cinematografo era uno degli sva-ghi piú diffusi. Ancora molti erano i palazzi in costruzione, a sostituire quelli bombar-dati durante l'ultima guerra. La ricostruzione, in realtà, era già stata quasi completata e ci si avviava all’edificazione di interi nuovi quartieri in luo-ghi dove, fino a poco tempo prima, c’erano stati solo i prati. Il fabbisogno di nuove case era molto forte: l’aumento della popolazione per l’immigrazione, specialmente dal sud d’Italia, stava raggiungendo il suo massimo in quel periodo e alcuni vecchi palazzi erano interamente abitati da immigrati che, spesso, ne affollavano le stanze in condizioni alquanto precarie. Vicino alla mia scuola – dove oggi esiste il grande parcheggio dell’Università – c’era il cosí detto “Casermone”, dove ne erano am-massati moltissimi. Ricordo di esserci andato, con mio padre, ad acquistare del legname da ardere, in un magazzino collocato nell'ultimo dei suoi tre cortili, e di ave-re avuto l'impressione di entrare in un mondo completamente diverso da quello che esisteva a poche centinaia di metri da quel luogo. Lí vicino, al posto del palazzo dell'Università, c'era il sito di un'altra caserma, che era stata bombardata durante la guerra, e al suo interno molti ragazzi, a for-mare vere bande, sostavano e passavano la giornata anche senza andare a scuola, per poi tornare, la notte, in quell'enorme caseggiato. Allora era ancora presente nel quartiere (in via Napione) lo sferisterio per il gioco del “pallone elastico”, che io ben conoscevo. Nelle Langhe era molto praticato e proprio Santo Stefano Belbo, paese vicino a quello da cui provenivo, aveva dato i natali ad Augusto Manzo, il piú grande giocatore di tutti i tempi. (Lui, però, in quegli anni, si era già ritirato dallo sport attivo e non calcava piú, da giocatore, gli sferisteri; c'era ancora Ba-lestra, il suo rivale piú forte, che disputava, anche se ormai a fine carriera, il campionato di serie A.)

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Una domenica, con mio padre, c’eravamo andati per assistere al finale di una partita e poiché i ragazzi potevano entrare senza pagare il bigliet-to, ebbi modo di ritornarci per vedere all'opera tutti i giocatori di quei tempi, da Alemanni a Defilippis, a Feliciano e tanti altri. Allora giocava-no ancora con i pantaloni lunghi, e lo sferisterio di Torino era il piú im-portante di tutti. Via Napione era vicino alla nostra abitazione e cosí, do-po aver fatto la conoscenza di altri ragazzi, prima delle partite ufficiali, che si disputavano anche il pomeriggio dei giorni feriali, ci andavo per palleggiare un po' con loro: occorreva solo avere le scarpe adatte ed una fascia per proteggere il pugno… Mio padre, per aiutarmi a conoscere la città e per farmi meglio ambien-tare, la domenica mattina mi portava a visitare i vari musei, il cui ingres-so era gratuito il giorno di festa; oppure mi portava a messa in varie chie-se: al Monte dei Cappuccini, alla Consolata o a Maria Ausiliatrice dai Sa-lesiani, dove lui, da ragazzo, era stato in collegio. Le camerette di Don Bosco e la grande chiesa, dov'è collocata la salma del Santo, furono spes-so la nostra meta domenicale. Una volta mi portò a Superga: prendemmo il tram per Sassi e quindi la vecchia “Dentiera” per salire fino alla basili-ca. La gita fu talmente bella che, poco tempo dopo, con la mia mamma la ripetemmo; allora non si poteva lasciare la portineria incustodita e uscire tutti insieme, neanche la domenica. Iniziata la scuola, feci la conoscenza dei miei nuovi compagni, ragazzi e ragazze, quasi tutti nati a Torino. Uno era il figlio di un preside di un I-stituto Tecnico Parificato; gli altri, in genere, erano figli d’impiegati o d’operai. Il livello scolastico era buono e la scuola mi piaceva, anche se in alcune materie, come il latino e il francese, avevo qualche difficoltà. Aspettavo con desiderio le lezioni di educazione fisica che, però, spesso si consumavano in allineamenti e in qualche giro di marcia o di leggera corsa in palestra. Ci facevano disegnare con i pastelli o con le tempere, e, alla fine dell’anno, c'era l'esposizione dei disegni piú belli. Un mio com-pagno era particolarmente bravo e un giorno portò a scuola quattro picco-le sculture in creta che rappresentavano le teste dei quattro Beatles. Le aveva realizzate con molta cura ed erano molto somiglianti ai quattro musicisti di Liverpool, allora agli inizi della loro sfolgorante carriera.

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Ricordo che, al di fuori dell’orario scolastico, alcune volte andavamo negli studi della Rai, che erano nei pressi della nostra scuola, per vedere in diretta “Chissà chi lo sa”, una trasmissione a quiz per la TV dei Ra-gazzi. Una volta ci fornirono anche dei biglietti per la partita di calcio della domenica successiva, in cui giocava la Juventus. L'appuntamento con il professore era davanti alla Torre di Maratona, allo stadio, un'ora prima dell'inizio della partita. Fino a quel momento avevo visto le partite solo in televisione e Sivori era il mio idolo calcistico. Felice, la domenica mi recai con il tram all'appuntamento per quella “Juventus-Fiorentina” che fu la mia prima partita allo stadio. Terminata la scuola media, seguendo anche un po' la scelta del mio compagno del primo giorno, mi apprestai a frequentare l'Istituto Tecnico Industriale. Il diploma era allora la mia massima aspirazione e l'Istituto “A. Avogadro”, situato vicino alla nostra abitazione: era, con il “Peano”, uno dei pochi istituti di questo tipo presenti in città, in cui era possibile iscriversi. (Alcuni nuovi istituti sarebbero stati poi creati negli anni suc-cessivi, per coprire il crescente fabbisogno, e già da quell'anno sarebbe entrato in funzione il “Pininfarina”). Con il mio amico e i rispettivi papà, ci recammo quindi nei vari uffici per i documenti necessari all'iscrizione. All'Istituto “A. Avogadro”, dove molti anni dopo, per dieci anni, avrei insegnato come professore di Informatica, mi dirottarono in un altro isti-tuto di nuova formazione: il “Pininfarina” appunto, la cui sede iniziale era stata collocata nell'edificio delle “Figlie dei Militari”, nella via omo-nima, oltre corso Casale, quasi in collina. Il caso o la scelta volle che un altro mio compagno delle medie fosse inserito nella mia stessa classe. C'era anche un mio amico, originario del-le valli attorno a Dronero, che abitava nella via vicina, nell'isolato di fronte a dove abitavo io, con cui spesso andavo all’oratorio o a spasso per la città. Lui aveva anche la passione per la pesca e, qualche volta, anda-vamo a pescare in Po con la canna. La regolare licenza di pesca che pos-sedeva, gli serviva anche per pescare le trote nei torrenti di montagna, quando d'estate si recava in vacanza dai nonni... Le classi erano molto numerose: fino a trenta ragazzi, e nella scuola, all'inizio dell'anno, non erano ancora stati attrezzati tutti i laboratori per le varie attività pratiche. Anche la palestra non c’era, se ne utilizzava una

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privata a circa un chilometro di distanza, e con il professore che veniva a prenderci, occorreva percorrere tutta via Asti per poterci andare. Il profitto scolastico complessivo, per tanti motivi, purtroppo non era buono: e pochi ragazzi riuscivano ad ottenere voti decenti in tutte le ma-terie. Il mio amico di Dronero, in particolare, non studiava, e per lui si prospettava la bocciatura certa; io cercavo di fare qualcosa di piú, certa-mente non abbastanza, e fui rimandato a settembre in tre materie. Dei trenta ragazzi della mia classe cinque, quasi tutti già ripetenti, erano stati promossi a giugno, dieci rimandati a settembre, e tutti gli altri subito boc-ciati. Quell'anno era morto mio nonno, e la mia mamma, che aveva patito molto la sua perdita, cercava di seguirmi come meglio poteva. D'estate, il figlio di una sua collega che lavorava in una portineria nella via vicina, e che era già diplomato all'”Avogadro”, mi diede alcune buone ripetizioni ed io riuscii, impegnandomi, a recuperare diverse lacune. Alle sue lezioni partecipava anche un altro mio compagno, che era sta-to rimandato nelle stesse mie materie. Lui era originario di Rovereto; e con la sua famiglia si era trasferito come me a Torino. Eravamo amici ed entrambi avevamo la passione, forse come molti altri ragazzi, per le due ruote, biciclette o moto che fossero, e spesso, dopo la scuola, veniva a ca-sa mia e insieme andavamo all'oratorio dei Salesiani in via Ormea, oltre corso Vittorio. Durante l’esame riuscii a passargli il compito scritto di matematica, quello di fisica era riuscito a farselo da solo, ma poi, all'orale, pur rispon-dendo alle domande, fui congedato dalla professoressa di matematica che, sorseggiando un caffè, aveva, forse, già deciso di bocciarmi. Il mio compagno, invece, fu piú fortunato di me e venne promosso, mentre io, con altri cinque ragazzi dei dieci rimandati, dovetti ripetere l'anno. L’anno successivo, però, le cose, dal punto di vista scolastico, andarono meglio e riuscii a finire con una buona media, tanto da meritare, con altri ragazzi, un premio costituito da un piccolo assegno e da un regolo calco-latore. Il regalo ci fu consegnato da un componente della famiglia Pinin-farina, che nel discorso di rito, prima della premiazione, affermò che se i figli hanno dei meriti è perché li hanno i padri, e questo riempí di soddi-

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sfazione i genitori presenti, mio padre compreso... Il mio amico di Mon-calieri questa volta fu invece bocciato: la promozione alla classe succes-siva non gli aveva permesso di recuperare le lacune che ancora aveva. Per l'estate, grazie ad una signora anziana che abitava nel palazzo e che aveva dei parenti che gestivano una pensione ad Andora Marina, la mia mamma, anche per premiarmi, mi mandò quindici giorni da loro. Mio papà mi accompagnò al treno a Porta Nuova, ed io mi avviai, forse, verso una delle piú belle vacanze al mare della mia vita. Arrivato ad Andora trovai la pensione che non era molto vicina al mare, e lí mi fu assegnata una cameretta tutta per me. Per due o tre giorni andai in spiaggia da solo, o con un ragazzo di Milano che era in vacanza con la sua mamma; poi, il figlio della proprietaria, mio coetaneo, che lavorava nella pensione come cameriere, m’invitò ad andarci con lui. Al mare c'era già un gruppo di suoi amici, ragazzi e ragazze, e tutti insieme si nuotava, si andava sul moscone e ci si divertiva un mondo. Al mattino io aspettavo che lui finis-se il suo servizio e poi, insieme, ci recavamo in spiaggia; iI pomeriggio era la stessa cosa. Mio padre e mia madre vennero ad Andora anche loro un paio di giorni, ovviamente dopo aver affidato l'incarico di custodire la portineria ad un signore anziano che abitava nel palazzo, e, constatato che mi stavo divertendo un mondo, chiesero alla proprietaria se era possibile prolungare il mio soggiorno. Cosí, lasciata la mia cameretta per una grande stanza, dove dormivano due dei suoi quattro figli, e dove c'era un letto libero, i giorni di vacanza si prolungarono e divennero trenta. Ad ottobre, ripresi gli studi nella stessa classe, ma in seconda e le cose, dal punto di vista del profitto, andarono abbastanza bene; purtroppo non c'era piú il mio compagno di Dronero che, nuovamente bocciato, si era iscritto ad un Istituto Professionale. Allora, per recarmi a scuola, usavo spesso il tram: via Figlie dei Milita-ri era abbastanza distante da dove abitavo. Molti miei compagni utilizza-vano il motorino o la bicicletta, e anch’io, da un po', desideravo fare co-me loro. Cosí, con il permesso dei miei genitori e con i soldi risparmiati, in parte paga di alcuni lavori che avevo fatto, mi recai con il mio amico di Moncalieri in un grande negozio di biciclette a Porta Palazzo, per ac-quistarne una. Tutto contento, tornai a casa con la mia nuova bicicletta

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che avrei usato per andare a scuola e per scoprire, in città e fuori città, luoghi che ancora non conoscevo… Di quel periodo ricordo particolarmente che ormai, da qualche anno, imperversava la guerra nel Viet-Nam, e questo costituiva una terribile angoscia per tutti. Tutte le sere il telegiornale ne riportava le tragiche no-tizie e sembrava che non ci potesse essere una soluzione a riguardo. Ri-cordo anche che a Torino, proprio allora, agiva la banda Cavallero, che aveva già compiuto diverse rapine cruente, non solo nella nostra città. Cavallero era persino arrivato al punto di minacciare la polizia e i carabi-nieri: e fino a quando lui e i suoi complici non furono catturati, nessuno viveva tranquillo. I ragazzi, comunque, cercavano di fare i ragazzi, e allo-ra il sabato pomeriggio, o la domenica, si sceglieva se andare al cinema, oppure a ballare in uno dei tanti locali dove suonava sempre un comples-so e i ragazzi invitavano le ragazze, ovviamente anche per fare la loro conoscenza. Terminato il biennio fu necessario scegliere l'indirizzo di studio suc-cessivo. Al “Pininfarina” erano disponibili le Telecomunicazioni e l'E-nergia Nucleare, mentre all'”Avogadro”, dove questa volta era possibile iscriversi senza difficoltà, esistevano la Meccanica, i Costruttori Aero-nautici e l'Elettrotecnica. Nella scelta, il mio compagno delle medie optò per le Telecomunicazioni, quello di Moncalieri per la Meccanica, mentre un altro mio compagno ed io decidemmo per i Costruttori Areonautici al-l'”Avogadro”. Ci iscrivemmo quindi nella nuova scuola e iniziammo nel-la stessa classe l’anno scolastico. A differenza del “Pininfarina”, l'Istituto “Avogadro” era dotato di labo-ratori professionali molto attrezzati. C’erano il reparto di torneria, la fu-cina, il reparto di saldatura, la falegnameria, le grandi sale con i tecnigrafi per il disegno tecnico, e molte altre attrezzature. La classe in cui eravamo stati inseriti anche qui era molto numerosa e per questo venivano utilizza-te grandi aule, qualcuna ancora provvista di banchi disposti per diverse file a salire, con la cattedra in basso, come all'università. L’orario era molto impegnativo e per tre giorni la settimana si andava a scuola quattro ore il mattino e quattro ore il pomeriggio: non c’era di conseguenza mol-

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to tempo per studiare, specialmente quando le interrogazioni o i compiti in classe erano effettuati il giorno successivo a quello con l'impegno di otto ore. Fortunatamente, nella nostra classe non c'erano professori difficili, e il rapporto umano con loro era abbastanza buono. Il professore di meccani-ca, ricordo, aveva un cognome prettamente piemontese (era il prof. Pau-tasso): era severo ma a volte scherzava e mi aveva anche preso in simpa-tia. Io copiavo in bella copia gli appunti delle sue lezioni teoriche e lui, dopo avermi visionato il quaderno al banco, se n’era accorto, e questo aveva certamente contribuito ad aumentare la sua considerazione nei miei confronti. La professoressa di matematica, dal canto suo, era molto esi-gente. Il suo primo compito in classe non era andato troppo bene, e le sufficienze erano rarissime, ma ci sarebbe stata comunque la possibilità di rimediare. Impegnative erano anche le lezioni pratiche e in laboratorio si indossava la tuta da lavoro, che ognuno di noi custodiva in un arma-dietto personale. Durante le lezioni di fucina, in particolare, lavoravamo a gruppi di due per ogni forgia, e, con l'incudine, il martello e gli attrezzi per tenere il ferro rovente, un professore tecnico, in una grande officina dove c’erano anche svariati tipi di macchine per lavorare il ferro, cercava di insegnarci i primi segreti di quel mestiere. Noi eravamo incuriositi dall’ambiente, da quello che ci insegnava, e poi la materia era suggestiva e aveva anche qualcosa di antico. In assonanza con l’ambiente, perciò, quel professore veniva da noi identificato con il nome di un personaggio mitologico: Vulcano, Dio del fuoco, era per l’appunto il soprannome che gli studenti gli avevano assegnato... Tutti erano informati, in special modo dalla televisione, della contesta-zione giovanile in atto in diversi paesi europei, ma, fino ad allora, in Isti-tuto non si erano ancora verificati movimenti "strani". Una mattina, però, passò la voce che il giorno successivo ci sarebbe stata, anche da noi, la mobilitazione. Forse nella speranza di poter contare un po' di piú nelle vicende scolastiche, o forse solo per puro spirito di contestazione, ci ap-prestammo ad effettuare la nostra prima occupazione. La mattina del giorno successivo i professori furono quindi invitati a non far lezione, in vero qualcuno anche in modo un po' pesante per quei tempi, e poco dopo tutto l’Istituto fu in mano agli studenti (la contestazione, in effetti, era an-

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che stata preparata all'esterno, poiché in quasi tutti gli altri Istituti supe-riori di Torino ci fu mobilitazione). Il Preside dell’”Avogadro”, ovvia-mente, aveva dovuto informare le autorità del nostro operato, e cosí da-vanti alla scuola fu subito dislocato un intero plotone di polizia in assetto antisommossa, con uomini armati di tutto punto; c’erano anche diversi ufficiali e persino il trombettiere per segnalare la carica. Poco dopo, cir-ca cinquemila studenti dalle altre scuole superiori di Torino confluirono verso l'”Avogadro”, creando ovviamente una situazione a forte rischio. Tutta quella polizia schierata fu inevitabilmente fatta oggetto di fischi, e anche di qualche insulto, da parte degli studenti in strada, con noi dalle finestre a osservavare la scena. Poi alcuni miei compagni pensarono an-che di svuotare qualche secchio d'acqua sulle teste dei poliziotti, e cosí un ufficiale ordinò la carica, il trombettiere suonò, e noi capimmo subito ciò che sarebbe potuto succedere. Fortunatamente, pochi secondi dopo fu impartito l'ordine inverso, e tutto si fermò. Quell'azione era stata solo un avvertimento. Nel frattempo, però, nel quartiere si era sparsa la voce del-la sommossa studentesca e cosí, presto, parecchie persone, fra le quali la mia mamma, si avvicinarono all'edificio della scuola, per capire che cosa effettivamente stesse accadendo. Il mio compagno di Moncalieri ebbe modo di uscire dall’edificio scolastico e, visto dalla mia mamma, che gli chiese mie notizie, le disse che all'interno della scuola – dove io ero – non c'era nessun pericolo. Sulla strada non si aveva certamente quest’impressione. Alcuni ragazzi, dopo aver subito l'impatto con le forze dell'ordine, erano trascinati di peso con il volto coperto di sangue: la cari-ca della polizia sarà anche stata dimostrativa, ma le manganellate erano vere! Gli studenti fermi in corso S. Maurizio, poco dopo si dispersero, e anche noi, dopo un po', uscimmo dall'Istituto. Qualcuno in realtà era ri-masto, per governare i laboratori e per continuare l'occupazione…. Cosí era iniziato il sessantotto, anche per noi. Nei giorni successivi, diverse furono le assemblee nell'aula magna del-l'Istituto, e lí, con mio stupore, constatai che quel ragazzo, di un anno piú vecchio di me, con il quale spesso tornavo a casa da scuola, quando fre-quentavo le medie, era, adesso, il leader degli studenti dell'”Avogadro”. Sapevo che suo padre era un esponente sindacale, ma non immaginavo che lui fosse in grado di sostenere il ruolo che aveva assunto. Avrebbe

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dovuto frequentare la quinta, ma era stato bocciato in quarta, qualcuno diceva per motivi politici. Lo conoscevo come un ragazzo tranquillo, e la sua corporatura era abbastanza minuta, ma si trasformava e dimostrava grande grinta e padronanza di sé quando parlava e incitava gli studenti. Alcuni suoi compagni, per lo piú del quinto anno, lo aiutavano nella ge-stione dell'occupazione, e spesso le nostre assemblee erano programmate a Palazzo Nuovo, sede delle Facoltà umanistiche, appena costruito nel si-to della caserma bombardata in via S. Ottavio. Un giorno, ci fu di nuovo la mobilitazione generale di tutte le scuole, e tutti gli studenti di Torino, in corteo, percorsero tutta la città; c'era anche la polizia a seguire, in as-setto antisommossa e con i fucili. Non ci furono scontri e noi studenti, cantando e gridando slogan, ci sentimmo i grandi protagonisti di quella giornata. In seguito, inevitabilmente, non mancarono le idee bislacche. La pen-sata che gli studenti potessero, da soli, gestire la didattica, fu senz'altro una di queste. Al Politecnico qualcuno si era reso disponibile per offrire supporto per le materie tecniche, ma poi finí, come si sarebbe potuto fa-cilmente prevedere, in un colossale fiasco. Furono proprio gli studenti del quinto anno i primi a intuire che l'interruzione delle lezioni avrebbe cau-sato un grave danno, specialmente per loro che dovevano sostenere l’esame finale su tutte le materie. Io stesso ebbi modo di ascoltare una di-scussione fra il mio compagno leader e alcuni studenti che si lamentava-no e gli prospettavano i loro timori. Le lezioni normali, cosí, ricomincia-rono, ma ormai la contestazione era iniziata e avrebbe, in futuro, avuto ancora molte altre occasioni ... In quel periodo, purtroppo, ci fu un altro grave lutto nella mia famiglia. Mia nonna aveva subito un incidente mentre tornava a casa ad Alba. Lei viveva presso mio zio ed era andata al paese, con la corriera, per degli af-fari. Al ritorno, attraversando la strada, era stata investita da un’auto e aveva subito la frattura di un femore. Trasportata in ospedale ad Alba, fu poi trasferita a Torino per l'operazione, ma non sopportò l'anestesia, e quella che doveva essere un'operazione senza grossi rischi provocò, ina-spettatamente, il suo decesso. (La mia mamma ebbe anche modo di appu-rare che l'intervento non era stato neanche cominciato, poiché sul corpo

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di mia nonna non c'era nessun segno d’incisione chirurgica). L'ultima volta che vidi mia nonna fu il giorno prima dell'operazione: lei mi aveva detto, forse col presentimento di non farcela, di impegnarmi e di farmi onore nella vita. Io, lí per lí, non avevo dato troppo peso alle sue parole e le avevo risposto di stare tranquilla; ma poi, quando la mia mamma mi disse, piangendo, che era morta, le sue parole mi toccarono ancora di piú. Mia nonna fu sepolta vicino a mio nonno nel cimitero del paese ed io e la mia mamma partecipammo al suo funerale. Nella serata tornammo a To-rino, appena in tempo ad evitare la fase terribile dell'alluvione che si veri-ficò proprio il giorno dopo. La valle Belbo diventò inagibile per diversi giorni, e avremmo avuto gravi difficoltà. La morte di mia nonna e forse anche i giorni di contestazione studente-sca, mi fecero crescere piú in fretta e provocarono in me il desiderio di non essere piú a totale carico dei miei genitori. Sentivo di dover contri-buire all'economia della mia famiglia, e per questo avrei voluto comincia-re a lavorare, senza ovviamente tralasciare la scuola. Di conseguenza, m’informai presso l'Istituto parificato in cui era preside il papà di uno dei miei compagni delle medie, e lí mi dissero che era possibile effettuare il trasferimento da loro, se avessi cambiato la specializzazione a favore del-la Meccanica. Era ovviamente il corso serale, quello di cui si parlava. Al-l'”Avogadro” esistevano i corsi serali ma, a quei tempi, gli anni necessari per conseguire il diploma erano sei. Nella scuola parificata gli anni erano invece cinque. Bisognava però pagare una retta di circa venticinquemila lire al mese, e non era poco giacché lo stipendio di un operaio era di set-tanta-ottantamila lire mensili. Esposi quindi il mio desiderio alla mia mamma e a mio padre, e lui mi disse di pensarci bene e che non c'erano problemi affinché continuassi la scuola che già frequentavo. Tuttavia, viste le mie insistenze, mio padre chiese, nella fabbrica dove lavorava, se c'era un posto di lavoro anche per me e gli fu risposto di sí. Potevo essere assunto come aiutante nell'ufficio collaudi (la fabbrica produceva volanti e oggetti di plastica da montare sulle automobili). Fu quindi possibile realizzare il mio desiderio, ed io entrai nel mondo del lavoro e in quello degli studenti lavoratori. Il lavoro che avevo iniziato non era assolutamente pesante: dovevo so-lo aiutare il responsabile dell'ufficio a fare le verifiche sui materiali che

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erano prodotti e che sarebbero poi stati inviati alla Fiat. Spesso mi man-davano anche all'ufficio tecnico, per prelevare i disegni che contenevano le specifiche di collaudo. Dopo le otto ore di lavoro tornavo a casa con mio padre e, dopo aver mangiato qualcosa, mi recavo a scuola per altre quattro ore. La mia pre-parazione di base era buona, e quindi non ebbi nessun problema a com-pletare l'anno positivamente, vivendo quasi di rendita. I miei nuovi com-pagni erano tutti lavoratori ed io ero fra i piú giovani, se non il piú giova-ne. Quasi tutti lavoravano in ufficio o come operai specializzati e aveva-no già frequentato l'Istituto Professionale; si erano poi iscritti alla scuola serale per conseguire il diploma di perito che sarebbe servito per miglio-rare la loro posizione professionale. I professori della scuola serale erano quasi tutti della scuola pubblica e insegnavano anche al diurno in altri i-stituti della città. La sera, continuavano la loro attività, per le ore consen-tite e con lo scopo di incrementare le proprie entrate. A scuola mi trovavo bene, ma il lavoro non mi soddisfaceva pienamen-te. Mi sarebbe piaciuto imparare un mestiere: il disegnatore o il tornitore, ad esempio. Nella fabbrica dove lavoravo non c'erano, fortunatamente, queste possibilità: mi sarei reso conto piú tardi che quei lavori non erano adatti a me. Il meccanico motorista era un altro mestiere che m’interessava e, un giorno, passando davanti ad un'officina di autoripara-zioni del mio quartiere, chiesi al proprietario se aveva bisogno di un ap-prendista. Lui mi rispose di no, ma mi disse che la concessionaria Fiat di corso Belgio stava assumendo personale, e che avrei potuto provare da loro. Cosí, all'uscita dal lavoro del giorno successivo, mi recai nella con-cessionaria e lí mi dissero di rivolgermi presso il loro ufficio di rappre-sentanza in via Viotti, dove c'era anche un’esposizione di macchine in vendita. Mi recai quindi in via Viotti, dove mi fecero parlare direttamente con il proprietario. Lui mi chiese se avevo già qualche esperienza in quel lavoro ed io, con una piccola bugia, risposi che qualcosa sapevo già fare. Non andò oltre e, dopo aver saputo che andavo anche alla scuola serale, da "Perito Meccanico", mi disse che, se volevo, potevo lavorare da loro con una paga di trecento lire l'ora, com'era per gli apprendisti. Avevo tro-vato da solo un lavoro e, tutto felice, tornai a casa per dirlo al mio papà. Lui si fece spiegare bene di cosa si trattava e poi, ovviamente a malincuo-

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re, perché era contento che lavorassi nella fabbrica dove lavorava lui e perché il lavoro che avevo non era male, mi disse che, se ero convinto di quel che facevo, avrei potuto iniziare con il mio nuovo mestiere. Mio pa-dre era stato artigiano, e poi sapeva che mi piacevano i motori. Il motori-no che mi ero comprato con il denaro guadagnato in lavori occasionali, e che tenevo con particolare cura, ne era la prova.

La stazione di S. Stefano Belbo. (Questa è la stazione ferroviaria da cui sono partiti, alla scoperta del mondo, molti personaggi pavesiani. Anche la mia fa-miglia l’ha utilizzata nel 1962, quando da Cossano Belbo si è trasferita a Tori-no.)

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La bicicletta

Guido e il suo compagno erano riusciti ad imboccare la salita che porta a Cavoretto davanti a Bartali. Sí, proprio il grande campione toscano, quel giorno si poteva battere. A quel Giro del Piemonte, arrivati sull'erta finale che avrebbe deciso la corsa, magari chiudendolo un po' all'imbocco della curva per non fargli prendere la testa, i due compagni si preparavano a salire la ripida salita, quasi in apnea. Ancora in testa a Cavoretto, si lanciarono nella discesa provata cento volte, con nella testa e negli occhi le curve da prendere, e come degli automi arrivarono in fondo. Bartali era dietro di un centinaio di metri, e in quella circostanza forse potevano bastare, ma arrivati al Va-lentino, a non molta distanza dal traguardo, la beffa. Il suo compagno sbagliò strada, pensando di dover girare lungo il fiume; Bartali e il grup-po li superarono, e per loro la vittoria sfumò. L'occasione di una vita se n’era andata irrimediabilmente, non ce ne sarebbe stata un'altra cosí. Qualcuno, nel calcio, sbaglia un rigore e si perde un campionato del mon-do: quel giorno Guido vide sfumare il suo sogno. Lui era arrivato in Piemonte dal Veneto, alcuni anni prima. Era stato, si può dire, un emigrante in cerca di corse con premi piú consistenti. In Veneto si era già ben comportato, vincendo diverse gare. La salita era il suo forte, tanto che poteva spesso rinunciare a girare la ruota con il dop-pio pignone, per non perdere tempo. Riusciva a spingere con agilità e forza la bicicletta, e questo gli era già servito per primeggiare nella sua regione. In una corsa, un brutto giorno, cadde in discesa, ma riuscí a ri-partire, anche se con un forte dolore all'anca che aveva sbattuto per terra. Arrivato al traguardo, tornò a casa, come sempre in bicicletta, percorren-do ancora quaranta chilometri: allora non c'erano i mezzi di adesso. Poi, a freddo, si accorse che non poteva piú muovere la gamba destra: aveva il femore rotto. Quaranta giorni in un letto, con l'arto in trazione, e poi di nuovo a pedalare. All’inizio della sua carriera da professionista, spesso aveva anche cor-so in Lombardia, e la pianura lombarda, le strade tra Verona – la sua città d’origine – e Mantova, le aveva percorse piú volte, anche per allenarsi a

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spingere il lungo rapporto. Su quelle strade, poi, aveva anche conosciuto Guerra, quando non era ancora un corridore famoso. Con lui aveva ga-reggiato, e rammentava, quando parlava del suo passato sportivo, che la rivalità era molta, fra i corridori veneti e quelli lombardi. Gli brillavano persino gli occhi quando riviveva quei tempi. In una di quelle occasioni ero presente anch'io quando gli chiesero un parere sul famoso corridore mantovano, e ricordo ancora la sua risposta: “Io l’ho conosciuto Guerra, e vi posso assicurare che era molto difficile stargli davanti, se lui non vo-leva. In pianura andava come un treno e in salita si difendeva, anche se non era il corridore più forte, ma se la salita non era dura: una salita come la Rezza, tanto per intenderci, riusciva a superarla, quasi come fosse stata senza pendenza”. Guido raccontava volentieri episodi del suo passato sportivo, un po’ per riviverli, un po’ perché si sa, tutti gli ex corridori ci tengono a far co-noscere e a far rivivere anche agli altri le proprie glorie sportive. Fre-quentandolo si aveva cosí occasione di sentir nominare Guerra, Bartali, ma anche tanti altri corridori famosi. Con loro Guido aveva realmente ga-reggiato, e le vicende che raccontava non erano storie inventate. Certo, qualche volta forse si faceva prendere un po’ la mano, ma era per stupire, per rendere ancora piú avvincenti quelle storie. Una di quelle vicende, in particolare, faceva riferimento ad un altro gran-de campione del passato, Giuseppe Olmo da Celle Ligure. L’episodio si riferiva ad una corsa che si disputò in Piemonte, tanti anni fa. Si trattava di una gara in circuito che, oltre alla pianura, prevedeva anche un tratto di salita abbastanza impegnativa. Guido vi partecipava con buone possibili-tà di vittoria, perché la sua forma era molto buona, in quel periodo, e per-ché il percorso era adatto alle sue caratteristiche. Fra i tanti avversari c’era però Olmo, uno dei più forti corridori di quegli anni, che nella sua carriera avrebbe poi vinto la Milano - San Remo, il Giro d'Italia e tantis-sime altre corse. Olmo era un fantastico finisseur, molto forte su tutti i percorsi, e con lui in corsa vincere era quasi un sogno. Guido, in ogni ca-so, cercò lo stesso di giocare la propria carta e, dopo alcuni giri, scattò in salita, con l’intenzione di andare da solo al traguardo. Dopo la discesa, sul piano, Olmo però lo raggiunse. Conosceva le caratteristiche di Guido e per questo era andato personalmente a riprenderlo. Fecero cosí alcuni

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giri assieme e Guido non tentò subito di scattare nuovamente, anche se i suoi sostenitori lo esortavano dal bordo della strada, con grandi urla, a farlo. Non poteva certo portarsi dietro un corridore come Olmo, ma non scattò perché voleva prima cercare di stancarlo in salita e poi scattare di nuovo, solo quando le possibilità di essere ripreso fossero un po’ dimi-nuite. In pianura Olmo, che gli dava regolarmente i cambi, nell’affiancarlo in uno di quei cambi gli disse che era andato a riprender-lo perché ci teneva a fare bella figura in quella corsa. Gli disse anche che in quel momento non era al massimo della condizione e che per questo in salita doveva difendersi. Chiedeva però a Guido di andare al traguardo con lui, con la promessa che in volata non gli avrebbe portato via la vitto-ria. Guido si fidò, ben contento di accettare, e non scattò nuovamente. All’arrivo Olmo mantenne la promessa: tirò la volata e Guido vinse la corsa. Cosí la gente pensò che Olmo avesse speso troppe energie sulla sa-lita per contrastare Guido, e che per questo non avesse più avuto, in vola-ta, lo smalto necessario per vincere. Olmo, in ogni caso, quella corsa l’aveva onorata, e Guido aveva avuto il suo momento di gloria. L’episodio l’ho sentito raccontare da Guido, e rammento che un gior-no, nel suo negozio di biciclette, un signore distinto recava i saluti di suo zio. Erano i saluti di Giuseppe Olmo al collega corridore che aveva corso con lui. Guido aveva mantenuto, e mai interrotto, la sua passione per la bici-cletta. Ovviamente, a piú di settant'anni, non aveva piú la forza e l'agilità di un tempo, ma la voglia di stare in gruppo a pedalare era rimasta quella di sempre. Insieme, la domenica mattina, con altri amici ci si trovava davanti al suo negozio, e da lí si percorrevano un po' di chilometri in compagnia. Qualche battuta, si faticava in salita, a volte qualcuno provava anche a spingere un po’. Qualche volta si organizzavano gite, portando noi e le bici fuori città, per avvicinarci al mare, oppure al fondo di qualche salita di montagna da provare a scalare. Chi non si sentiva di affrontare l'impe-gno poteva, in quelle occasioni, percorrere un po' di strada in bicicletta, e poi farsi trasportare dal mezzo che ci aveva portati fin lí. Guido avrebbe voluto, con lo spirito di un tempo, non scendere mai, ma le montagne, anche se affrontate ad andatura ridotta, non fanno nessuno sconto all'età,

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e cosí, anche per l'imposizione del figlio, che temeva che il suo papà si impegnasse in sforzi ormai non piú adatti ai suoi anni, qualche volta si doveva solo accontentare di incitare i compagni che riuscivano a salire. Una domenica mattina, all’appuntamento, eravamo il solito gruppo d’amici. Insieme, ci avviammo verso i paesi vicini a Torino, a ridosso delle prime alte colline che precedono le montagne. La strada percorsa non era ancora molta, ma Guido ci fece segno di fermare. Vicino a noi c'era uno spiazzo con una grande vasca in cui versava acqua una cannula di ferro. Scendemmo dalle bici, comprendendo che era ora di riempire le borracce e dissetarci. Di fronte allo spiazzo, dalla casa vicina, un Vecchio che appena si reggeva, quasi trascinandosi, venne verso di noi. Il Vecchio salutò Guido, e lui ricambiò il saluto: mi accorsi che ci guardava con una profonda commozione. Poi, parlando in piemontese, c’invitò a usufruire di quell'acqua che lui e tutti gli altri avevano sempre bevuto. I suoi occhi erano sulle nostre bici. Quanto diverse erano da quelle dei suoi tempi! Tutti quei rapporti, la sella non piú di cuoio pesante. Il Vecchio rimase quasi estasiato e nella sua mente fu come se passassero innumerevoli ri-cordi. Mi venne quindi vicino e mi toccò il braccio, come a voler stabilire un contatto diretto. In quel momento, capii che la tristezza e l'espressione del suo volto non erano solo dovute all'età, ma anche al forte desiderio di sentirsi uno di noi. Aveva rivisto dei vecchi compagni e si era trascinato fin qui per continuare, con noi, la corsa. Guido si accorse dello stato del Vecchio e, avvicinandosi a lui, gli sus-surrò qualche parola. Poi lo prese a braccetto e lo accompagnò verso ca-sa. Il Vecchio lo seguí. Quando Guido tornò, qualcuno di noi, incuriosito, gli chiese se lo conoscesse. Rispose di sí. Era stato suo compagno in tante corse, con lui aveva condiviso tanta fatica e tanti chilometri. Ci disse anche che era un grande campione professionista degli anni Trenta, zio di un altro famoso corrido-re piemontese, vincitore di due giri d'Italia. Oggi Guido non c'è piú, io continuo ad andare in bicicletta, quando posso, e spesso ricordo quegli anziani.

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Il Valentino.

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Un giorno a Monza

Fino ad allora non avevo ancora visto una corsa d’automobili dal vivo, anche se, fin da bambino, tutto ciò che riguardava i motori mi aveva sempre affascinato: e le macchine da corsa rientravano in questa mia pas-sione. Le foto sui giornali, le gare trasmesse in televisione avevano con-tribuito ad aumentare la mia immaginazione rispetto a che cosa potevano essere le corse automobilistiche: ora avrei potuto vederne una dal vivo e sarebbe stata un'emozione diretta, da molto tempo desiderata e quindi an-cora piú bella. A dire il vero, ciò che mi apprestavo a seguire non era la corsa vera e propria, ma le prove del sabato, ultimo e piú importante giorno delle qualifiche ufficiali. Nonostante questo, quella giornata sa-rebbe stata altrettanto interessante: ciò che desideravo era assaporare l'ambiente delle corse e vederne all’opera macchine e protagonisti. Allora lavoravo come meccanico presso una concessionaria Alfa Ro-meo di Torino dove, oltre l'officina meccanica tradizionale, c'era anche il reparto corse. Lí, in un piccolo locale, e in pratica anche quasi vicino a noi che lavoravamo sulle macchine normali, i meccanici della squadra corse preparavano, per le corse in pista e per quelle in salita, le macchine da competizione, quasi tutte Alfa Romeo Turismo, di proprietà della con-cessionaria. Fu proprio la possibilità di assistere alle prove di qualificazione della gara di contorno della Formula Uno, a cui la concessionaria aveva iscritto due GTA 1600 cc, oltre ovviamente alle prove della Formula Uno stessa, l'occasione per la quale il mio compagno di lavoro, di cui per quasi un anno ero stato l’aiutante, m’invitò ad andare con lui e con altri due nostri colleghi a Monza. A quell’importante evento motoristico il mio compagno partecipava ogni anno, se poteva, e lo faceva di solito in compagnia di altri colleghi. Quell’anno aveva però ricevuto dai meccanici della squadra corse l’invito ad assistere con loro, ai box, alle prove di qualificazione delle Turismo, e cosí aveva rinunciato alla corsa vera e propria per le prove del sabato. Aveva organizzato tutto e ci saremmo andati con la sua macchina, in

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compagnia di un altro meccanico, che aveva ricevuto lo stesso suo invito, e del giovane apprendista che mi aveva sostituito nel mio vecchio ruolo. A quei tempi avevo da poco finito il mio periodo di tirocinio, ed era stata per me un’esperienza molto positiva, che avrei voluto ancora pro-lungare. Avevo però avuto la responsabilità di portare a termine da solo i lavori che mi sarebbero stati assegnati, e il mio posto di aiutante lo aveva preso, in quei giorni, un altro giovane meccanico. Lui in realtà era un ap-prendista della squadra corse, ma per il suo primo periodo di lavoro era stato assegnato al mio compagno, in modo che potesse ambientarsi e im-parare qualcosa da chi maggiormente, nella nostra concessionaria, cono-sceva quel mestiere. Il mio compagno era, per l’appunto, uno dei tecnici piú esperti e capaci, e per questo gli affidavano anche gli interventi sulle macchine di lusso: Ferrari, Lamborghini, Maserati, che a volte l’officina aveva in riparazione, e non ci sarebbe stata miglior scuola per un nuovo futuro meccanico. A dire il vero, poi, c’era anche qualcosa in piú. Tempo prima aveva ricevuto la proposta di far parte della squadra corse, ma lui, a malincuore, quell’incarico non l’aveva potuto accettare, poiché, a causa di suoi motivi di famiglia, non era disponibile alle troppo frequenti tra-sferte e per la vita, un po' vagabonda, che i meccanici delle auto da corsa dovevano sopportare. Nonostante quella rinuncia, comunque, seguiva molto da vicino la preparazione delle GTA e i meccanici della squadra corse lo consideravano un po’ un loro collega. Noi due, quindi, eravamo gli invitati per quella gita, io per l’amicizia che era derivata dal periodo di lavoro in cui ero stato il suo aiutante, l’altro ragazzo anche per il fatto di essere uno dei nuovi acquisti della squadra corse; il terzo, poi, che sareb-be venuto con noi, era un tecnico, già abbastanza anziano, che spesso col-laborava con il mio compagno nei lavori piú impegnativi e a cui noi, gio-vani meccanici, davamo del «lei». Lui era stato, fino a qualche anno prima, il capofficina di Conrero, un importate preparatore e costruttore di macchine da competizione di quei tempi, e aveva addirittura lavorato con le Formula Uno del passato quando, a Torino, si disputava ancora il Gran Premio del Valentino. Adesso però, a fine carriera, nella nostra officina era addetto a vari lavori particolari. Si occupava della costruzione e ma-nutenzione delle attrezzature speciali e qualche volta interveniva per la revisione dei motori delle macchine di lusso, specialmente quando queste

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erano di una certa epoca. Collaborava anche con la squadra corse per gli esperimenti e le innovazioni, ma, nonostante il ruolo che aveva ricoperto in passato, non seguiva piú direttamente le corse. Anche lui, evidente-mente, aveva scelto di vivere una vita meno movimentata di quella dei meccanici delle auto da corsa, e lo aveva fatto un po’ per l’età, un po’ per avere piú tempo per sé e per la sua famiglia. La nostalgia per il mondo delle competizioni gli era comunque rimasta, anche se la nascondeva die-tro un carattere assai burbero, ma naturale per i vecchi artigiani e per chi aveva occupato per anni un ruolo di comando. A quei tempi, nella nostra officina si lavorava anche il sabato mattina, ma ottenemmo facilmente il permesso di fare festa, visto che andavamo a Monza per quell’ occasione cosí importante per la concessionaria. Era-vamo agli inizi degli anni Settanta e a quell’importante competizione a-vrebbero partecipato le GTA, le Fulvia HF, le Alpine, le Fulvia Zagato e le piú potenti Porsche. Tutte avrebbero lottato per la qualifica e poi, il giorno dopo, si sarebbero disputata la vittoria nelle varie categorie di ci-lindrata. Le macchine della nostra concessionaria, che adesso avremmo potuto finalmente vedere all’opera, erano quelle che vedevamo preparare in officina e che si erano già ben comportate, e spesso avevano anche vinto, in tante altre gare. Anche a Monza avrebbero potuto primeggiare, ma non sarebbe stata una vittoria facile, poiché contro di loro avrebbero gareggiato le auto migliori allora in circolazione. In particolare, la loro avversaria piú forte sarebbe stata una GTA ufficiale della squadra corse Alfa Romeo, l'Autodelta, ma anche le macchine di Conrero, e di tanti al-tri preparatori provenienti da tutta Italia, avrebbero certamente fatto la loro parte. Le emozioni per noi non si sarebbero poi esaurite con le prove delle Turismo. Il pomeriggio, a chiusura del programma di quella giornata, ci sarebbero state le prove del Gran Premio delle Formula Uno, e in quell’occasione avremo potuto ammirare le FERRARI, le BRM, le MARCH, le LOTUS e i tanti grandi campioni in corsa, da Graham Hill a Clay Regazzoni (che quell’anno vinse il Gran Premio), a Jackie Ickx, a Jackie Stewart, a Jochen Rind, il forte campione austriaco che era in testa al campionato del mondo.

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Con la Lancia Fulvia del mio collega, il mattino delle prove partimmo da Torino molto presto, poiché volevamo essere all'autodromo almeno un'ora prima del loro inizio. Arrivati a Monza, lasciammo la macchina appena fuori del magnifico parco che ospita il cosí detto “Tempio dei motori” e, a piedi, ci avviammo nei viali verso il suo ingresso principa-le. Nel percorso già molta gente affluiva con noi, e alcune macchine da corsa, che avrebbero partecipato alla sessione delle prove delle Turismo, ci superarono in marcia normale o al traino di altri veicoli, su degli appo-siti carrelli. (Le squadre delle Turismo non avevano, a quei tempi, come le squadre della Formula Uno, i camion dell'assistenza parcheggiati dietro i box, ma utilizzavano, per la preparazione e la custodia delle auto da cor-sa, le officine private vicino all'autodromo). Fra queste, però, non vedemmo le GTA della nostra concessionaria che, a quell'ora, come la maggior parte delle altre auto da corsa, doveva-no già aver raggiunto la pista. Arrivati all'ingresso dell'autodromo comprammo i biglietti ed entram-mo. Avevamo appuntamento con uno dei meccanici della squadra corse al cancello di ingresso della zona dei box e per raggiungere quel luogo u-tilizzammo il sottopassaggio di servizio che permetteva di passare oltre la pista, proprio davanti alle tribune centrali. Quel sottopasso non era, a causa delle sue ridotte dimensioni, adatto al passaggio di molta gente, e perciò veniva aperto alternativamente per il transito in un senso e poi nel-l'altro. Quando fu il nostro turno, nel percorrerlo per la prima volta provai una strana sensazione: sopra di noi sarebbero sfrecciate le macchine da corsa ad oltre trecento chilometri orari, ed era forse proprio questo che rendeva l'atmosfera di quel luogo cosí particolare. Di nuovo all'aria aper-ta, percorremmo ancora alcuni metri e, prima dell'ingresso dei box, i miei due colleghi piú anziani indossarono le tute da meccanico che si erano portate da casa. Si presentarono poi al cancello dove, in perfetto orario, il meccanico della squadra corse venne a prelevarli. Insieme a lui entrarono come componenti del servizio di assistenza alle macchine, senza che i guardiani dell'ingresso sollevassero alcuna obiezione. Era stato senz'altro lo stemma dell'Alfa Romeo, ben visibile sulle loro tute, cosí come la compagnia del meccanico della squadra corse il lascia passare per i miei due colleghi. Loro avrebbero potuto godersi le prove da un luogo privile-

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giato, ma, se ce ne fosse stata la necessità, avrebbero anche potuto aiutare i tecnici della squadra corse nel loro lavoro. Non c'era, per il mio collega piú giovane e per me, ovviamente, la pos-sibilità di entrare nei box e cosí, dopo aver stabilito di ritrovarci, appena finite le prove delle Turismo, nel luogo in cui eravamo, noi due deci-demmo di recarci verso la parabolica, per vedere le macchine all'uscita da quella curva. Raggiunto quel luogo, ci sedemmo sulle gradinate di legno che erano a disposizione del pubblico. Lí gli spettatori erano ancora po-chi, anzi dov’eravamo, attorno a noi, non c'era proprio nessuno: cosí ne approfittammo, nell’attesa delle macchine, per consumare i panini che c’eravamo portati da casa per la colazione. Nel frattempo iniziavano a scaldare i motori. Chiaramente si sentí partire la prima macchina per il giro di lancio. Poco dopo la vedemmo uscire dalla parabolica ad alta ve-locità e poi, via via, seguirono tutte le altre macchine. C'erano anche le GTA della concessionaria: erano facilmente distinguibili per i due scac-chi marrone disegnati sul tetto e per il colore giallo vivace della carrozze-ria. Le macchine, di varie cilindrate e di diversa potenza, si alternavano al-la ricerca della migliore prestazione sul giro. In ogni categoria, solo cin-que di loro si sarebbero qualificate per la gara del giorno dopo. Le GTA della concessionaria fecero alcuni giri quasi appaiate, e l'impressione che se ne aveva era che andassero veramente forte. Solo le Porsche, di cilin-drata superiore, erano piú veloci, ma i giri di qualifica erano ancora pa-recchi e altre macchine avrebbero potuto insidiare la posizione. La prima parte delle prove finí e ci fu un intervallo di alcuni minuti, per consentire qualche piccolo intervento di messa a punto. Il mio collega ed io lasciammo le gradinate dov'eravamo, per ritornare verso le tribune centrali. Da quel punto avremmo visto le auto alla massima velocità e ci saremmo resi conto piú facilmente delle differenze di prestazioni che c'e-rano. Allora, nel circuito di Monza, che era forse il piú veloce al mondo, non esistevano ancora le chicanes e il rettilineo delle tribune veniva per-corso tutto alla ricerca della massima velocità possibile. Proprio prima delle tribune, i piloti attivavano l’ultimo rapporto del cambio e poi, senza decelerare, proseguivano per affrontare quasi in pieno anche il curvone in fondo al rettilineo. Le GTA avrebbero toccato davanti a noi i duecento-

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trenta chilometri orari, ed erano parecchi per quella cilindrata e per delle macchine che, in fondo, derivavano da quelle di serie. Le prove ripresero, con noi due appostati a metà delle tribune, dalle quali potevamo persino intravedere i nostri compagni ai box. Vicino a lo-ro vedevamo lo spettacolo della preparazione delle partenze, del riforni-mento di carburante, della sostituzione delle gomme, del lavoro dei mec-canici. C'era chi esponeva i cartelli con i tempi e con le indicazioni per i piloti, e si vedeva chiaramente che l’eccitazione dei meccanici aumenta-va, quando un pilota delle loro auto riusciva a migliorare il proprio tem-po. Quando le prove delle Turismo stavano volgendo al termine, e pochi erano ancora i giri disponibili, una delle macchine, per qualificarsi, si mi-se a girare in scia di una piú potente Porsche, evidentemente già qualifi-cata nella sua categoria. La cosa non doveva essere del tutto regolare, perché l'auto che seguiva la Porsche fu poi esclusa dalla classifica finale. Alla fine, le due GTA della concessionaria si qualificarono con il primo e con il quinto tempo, (risultato che venne poi confermato, il giorno dopo, alla gara vera e propria); e questo, per noi che facevamo il tifo per loro, fu motivo di gran soddisfazione: erano i colori della nostra concessiona-ria che si erano ben comportati, e quindi anche noi ci sentimmo partecipi di quel successo. Le macchine, ormai, erano state portate fuori dei box, e cosí ci av-viammo per riunirci con i nostri compagni. Arrivati al cancello, li tro-vammo che ci stavano aspettando con ancora le tute addosso. Ci dissero che sarebbero rimasti dov’erano anche per le prove delle Formula Uno. Si sarebbero recati sul lungo terrazzo (allora situato proprio sopra i box) dove prendevano posto gli spettatori particolari che avevano l’invito per quel luogo (giornalisti, accompagnatori dei piloti o delle squadre dei meccanici,…). Non potendo entrare con i nostri compagni, stabilimmo dove ritrovarci per il ritorno a casa, e, dopo esserci nuovamente separati da loro, decidemmo di assistere alle prove del Gran Premio dalle tribune centrali, dove già eravamo. Prima di sistemarci in quel luogo, però, visto che mancavano un paio d'ore all'inizio delle prove di qualifica, ci recam-mo negli stand che erano stati allestiti lí vicino, dove erano in esposizione alcune macchine da corsa del passato e persino la macchina che aveva

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vinto, quell'anno, la corsa ad Indianapolis. Mangiammo anche un panino per il pranzo, e poi ci avviammo verso le tribune, prima che chiudessero il sottopassaggio per l’eccessivo afflusso di gente. Prendemmo posto in alto e aspettammo che iniziasse nuovamente lo spettacolo. Intanto, le gradinate si popolavano sempre di piú, e anche nei box si ri-svegliava parecchio movimento: adesso c’erano i meccanici delle squadre delle Formula Uno ad occupare gli stessi posti che erano stati utilizzati, al mattino, dalle squadre delle Turismo. A quei tempi, i piloti della massima categoria, prima dell'inizio delle prove e della corsa, si presentavano tutti insieme davanti alle tribune, per un saluto alla folla presente. Cosí potemmo vederli già vestiti con le tute, allora tutte bianche. Fra loro si distingueva in particolare Jackie Stewart, per il berrettino scozzese che portava sempre quando non indossava il ca-sco, e Graham Hill, il dominatore di Montecarlo, dalla camminata claudi-cante, provocata dai tanti incidenti subiti in corsa. I piloti salutavano e la gente li applaudiva; poi, le formalità finirono e tutto il loro gruppo si avviò verso le macchine per dare inizio alle prove ufficiali. I motori furono messi in moto e il frastuono fu assordante, mol-to di piú di quello del mattino: ora c'erano gli otto e i dodici cilindri delle auto piú potenti al mondo. La prima macchina uscí per il giro di lancio e la sua velocità, inizialmente, non era elevata; ma poi si sentí che le marce venivano richiamate in successione dal pilota e che il motore prendeva già tutti i giri disponibili. Eravamo, si può dire, sintonizzati sui tempi sul giro delle Turismo. Quella misura però venne demolita da quella prima Formula Uno che si presentò, come un siluro, sul rettifilo delle tribune. La velocità adesso era elevatissima, fino a rasentare l'irreale, per noi che non avevamo mai visto nulla di simile. Altre macchine uscirono e il caro-sello iniziò. Si aspettavano ovviamente le Ferrari, e le Ferrari uscirono a loro volta, con la gente che le applaudiva e faceva il tifo per loro. Dopo un po' uscí anche la Lotus rossa di Jochen Rind. Era il favorito per il Gran Premio. La sua macchina era velocissima e lui aveva già dimostrato di essere un ottimo pilota: non per niente era in testa al campionato del mondo. Dopo alcuni giri, inaspettatamente, le prove furono interrotte e le mac-chine rientrarono ai box. Dalle tribune, all’inizio non si capiva bene

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cos’era accaduto. Il gran fumo che si stava alzando all'imbocco della pa-rabolica, però, lasciò presto intuire che doveva essere successo qualcosa di molto grave. Un'ambulanza entrò in pista e, in senso contrario alla per-correnza del circuito, si diresse verso la parabolica. Dopo un po' tornò e davanti ai box, appena fuori della pista, fu attorniata da innumerevoli persone che volevano vedere. C'era un'agitazione incredibile. L'ambulan-za non si fermò e con il suo carico si avviò verso l'ospedale di Monza. Nel frattempo, un carro attrezzi riportò i resti della macchina del povero Rind. C'era solo la parte posteriore! Dal volante in avanti, la sua macchi-na si era distrutta contro le protezioni laterali della pista, proprio all'im-bocco della parabolica. Alla staccata, prima di quella curva, qualche parte meccanica forse si era rotta (o non aveva funzionato correttamente) e cosí c'era stato l'impatto. La macchina era uscita di strada una volta e poi, do-po il primo urto contro le barriere laterali, era tornata in pista per uscire nuovamente contro le barriere. Era infine finita, ormai distrutta, nella sabbia all'esterno della curva; e per il povero Rind, rimasto all'interno del suo bolide, non c'era stato scampo. Dalle tribune non avevamo visto la dinamica dell'incidente, ma i resti che penzolavano dalla gru del carro at-trezzi che era appena tornato, ne lasciavano intuire le tragiche conse-guenze. Gli incidenti e finanche la morte sono però da mettere in conto, nelle corse automobilistiche. Cosí, dopo qualche minuto, le prove furono ria-perte. Non si sapeva della morte di Rind, e la gente ricominciò ad appas-sionarsi, ad applaudire. Tuttavia, dopo quel fatto, era rimasto qualcosa nell'aria, e quella giornata che avrebbe dovuto essere bellissima, lo era stata solo fino a quando si era alzato quel fumo.

Jochen Rind

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Motori

Quella mattina l'avrei dedicata a godermi il panorama delle colline, appe-na sopra il paese delle Langhe dove sono nato e dove ho trascorso la mia infanzia. Avevo già percorso alcuni chilometri a piedi e avevo raggiunto la costa che divide la valle Belbo dalla valle Bormida. Mi ero fermato per raccogliere more selvatiche e già ne avevo riempito il sacchetto di tela che mi ero portato da casa. Le strade di quelle colline le conoscevo bene, le avevo percorse piú volte, anche quando, anni prima, non erano ancora asfaltate e non erano certamente agevoli da transitare. In particolare, con la mia prima auto-mobile, una vecchia Cinquecento, ero sceso in paese proprio dalla strada dove mi trovavo, quando con mio zio e mio cugino eravamo andati a ve-dere una gara d’autocross nel crossodromo che, a quei tempi, era in fun-zione proprio a pochi chilometri da quel luogo. A quella corsa aveva partecipato, con una Cinquecento che lui stesso aveva elaborato e preparato, Luigi, un mio compagno d'infanzia. Lui era il figlio del meccanico del paese e la passione per le corse, forse, l'aveva sempre avuta; sicuramente, la sua voglia di gareggiare si era consolidata quando, all'inizio degli anni Settanta, da quelle parti si erano disputati molti dei rally piú importanti di allora e Munari, Balestrieri, Verini, Cambiaghi, Stirling Moss e tanti altri campioni, con le loro mitiche auto, dalle Lancia HF alle Stratos alle Alpine, vi avevano partecipato. Quello era stato, senza ombra di dubbio, un periodo irripetibile e quei luoghi, a quei tempi, ne erano stati il degno scenario. Le auto da corsa, in verità, erano sempre piaciute anche a me e proprio agli inizi degli anni Settanta anch'io avevo lavorato come meccanico nel-la grande officina di una concessionaria Alfa Romeo di Torino, dove c'e-ra anche il reparto corse. Come tutti i miei compagni di lavoro, mi soffermavo ad ascoltare esta-siato quando i meccanici della squadra corse mettevano in moto il motore di qualche GTA (Alfa Romeo GTA 1300 o 1600 cc, utilizzate, a quei tempi, per il campionato Turismo e per le corse in salita) e quasi mi veni-vano i brividi a sentire quel rombo.

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Anch'io, almeno per un paio d'ore, ero stato un "meccanico di auto da corsa". A riguardo, ancora oggi, ricordo con nostalgia quel periodo e quella breve esperienza. – La squadra corse della concessionaria in cui lavoravo era a Monza per partecipare ad una gara importante. Una delle macchine aveva subito un incidente, il primo giorno delle prove, ed era già stata riportata a Tori-no. Il giorno dopo, il motore di una delle altre due macchine in gara non rendeva, come avrebbe dovuto, e cosí il proprietario della concessionaria decise di riportare indietro il motore dell'auto incidentata. Io ed un mio compagno di lavoro fummo comandati dal capofficina ad effettuarne lo smontaggio dall'auto. Sotto la supervisione del proprietario della conces-sionaria, portammo a termine quell'operazione. Caricato il motore su un furgone, fummo poi congedati e ritornammo al nostro normale lavoro. Il motore, riportato a Monza, fu poi montato sulla macchina che vinse la corsa ed io e il mio compagno ci sentimmo, anche noi, un po' gli artefici di quella vittoria. In seguito, anche se a malincuore, non avevo poi proseguito con quel mestiere: era troppo impegnativo e pesante e non mi permetteva di con-cludere con profitto la scuola che avevo iniziato. Luigi, invece, aveva scelto di lavorare con il suo papà nella propria officina, in paese, e anche se non aveva raggiunto alti livelli come pilota, era però riuscito a diventa-re un eccellente preparatore d’auto da rally. Il suo reparto corse è molto moderno ed è attrezzato con tutto quello che serve per fare al meglio il suo lavoro. Luigi lo avevo già visto passare altre volte, su quelle strade, alla guida delle sue auto, con la targa in prova, intento a collaudare o a rodare un nuovo motore, e anche quella mattina… Il rumore di un'auto, simile a quello che mi faceva trasalire in officina tanti anni fa, si stava facendo sempre piú vicino. Una macchina con un assetto speciale si ferma a pochi passi da me. Riconosco Luigi e lui m’invita a salire – se non avevo niente di meglio da fare –: mi avrebbe riportato a casa dopo avermi fatto fare "il giro" di quelle colline, da una parte all'altra della vallata. Non sarebbe stata, però, una “prova speciale”: la strada era aperta al traffico e Luigi stava facendo il suo lavoro di pre-paratore, non una corsa. Qualche emozione, comunque, in qualche curva

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con buona visuale e senza pericolo per nessuno, sarebbe sicuramente sta-ta assicurata, specialmente per me. Quelle auto non raggiungono velocità elevatissime, le strade tortuose dei rally non le permettono, ma hanno tanti cavalli e possono raggiungere la velocità massima in tempi molto rapidi. Non ci sarebbe stato comunque alcun rischio. Luigi è un profes-sionista e conosce a palmo a palmo quelle strade e sa dove si possono presentare eventuali pericoli. Quelle macchine, poi, costano un sacco di soldi e non è certo nello spirito di Luigi il rischio inutile. Allacciate le cinture di sicurezza e legato il sacchetto con le more al rool-bar si parte. I freni sono freddi e cigolano. Sono al carbonio e lavo-rano bene solo quando sono ben caldi – bisognerà scaldarli un po' –. L'as-setto è fantastico: la macchina è incollata per terra e l'autobloccante ne assicura la guida, anche in condizioni estreme. In un tornante stretto, nel bosco, l'auto gira come se fosse un paio di sci, aiutata dai suoi cavalli e dall'azione del freno a mano, e poi via con le marce. Subito si decelera: c'è una curva di cui non si vede l'uscita, e le ruote a toccare l'erba della cunetta, senza scomporsi neanche un po'. Que-sta macchina, certo, in gara può correre molto di piú, ma qui non si può. In discesa, Luigi m’illustra le caratteristiche dell'auto, m’invita a cambia-re una marcia e mi fa vedere che non c'è bisogno della frizione. Il cambio sequenziale, come quello delle motociclette, è rapidissimo e gli innesti frontali agiscono immediatamente. Mi spiega anche qual è il lavoro che sta facendo. Sono le fasce elastiche dei pistoni, che devono adattarsi ai cilindri dove devono scorrere. Il motore, appena revisionato, ha già effet-tuato parecchi giri al banco di prova, ma ora deve completare il suo “ro-daggio” in marcia normale. Bisognerà anche tirarlo un po'. Siamo già in fondo alla valle e risaliamo sulla collina di fronte. – Appena qui sopra c'è un punto in cui la strada non presenta curve cieche e neanche alcun pericolo. Il codice non verrà infranto, ma i tempi in cui la velocità massima consentita sarà raggiunta saranno molto rapidi: te ne accorgerai. L'emozione arriva e in rapida successione le marce si susseguono e al-trettanto rapidamente la decelerazione con la staccata. Occorre provare, per rendersi conto: si fa fin difficile tenere la testa eretta, l'accelerazione

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la spinge indietro e la decelerazione in avanti con tutto il corpo, ma quel-lo è saldamente legato con le doppie cinture di sicurezza. La marcia ritorna normale e ridiscendiamo la collina. Il giro è finito: siamo ormai sotto casa mia. Riprendo le more, le avevo ben sistemate e non hanno patito un gran che; saluto e ringrazio Luigi per la magnifica emozione, e lui a ringraziare me, per avergli tenuto compagnia.

Una GTA Alfa Romeo a Monza, in un’evoluzione senza conseguenze per il pi-lota (Squadra Corse Monzeglio – 1970).

Un’auto della Squadra Corse del mio amico Luigi alla partenza di uno dei rally “Città di Torino” di qualche anno fa.

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Milio e la sua moto

Milio era un signore che ho conosciuto parecchi anni fa, quando ero poco piú che ventenne, mentre lui, invece, di primavere passate ne aveva già piú di sessanta ed era quindi già avanti negli anni. Quando lo conobbi, lavorava ancora, come aveva sempre fatto, e come avrebbe ancora conti-nuato a fare, fino agli ultimi giorni della sua vita: il mestiere che faceva era il meccanico di motociclette, un meccanico, però, un po' speciale. Quello era il mestiere che aveva imparato fin da ragazzo, quando era di-pendente presso l'importatore di motociclette americane di allora, e lo fa-ceva un po' per passione, un po' per necessità, ma soprattutto perché non sapeva fare altro, e perché quella era sempre stata la sua vita. Allora ero uno studente universitario, e, per guadagnare qualche sol-do, giacché i corsi che frequentavo all’università erano di pomeriggio, al mattino lavoravo in un magazzino di materiale edile, di moquette in par-ticolare, che aveva alcuni dei suoi locali proprio nel cortile della vecchia casa dove c'era l’officina di Milio. In quel periodo, quindi, avevo spesso occasione di recarmi in quel luogo con un mio compagno di lavoro, per eseguire dei tagli di moquette dai grandi rotoli che erano lí immagazzina-ti; e cosí, poiché tempo prima anch'io avevo lavorato come meccanico, ebbi modo di avvicinarmi a lui, di parlargli e di conoscerlo un po'. In verità, lo avevo già visto prima di allora, anche perché nel quartiere dove abitavo, nessuno aveva potuto fare a meno di notarlo. Milio possedeva una vecchia Indian rossa a cui aveva adattato un side-car, e d'estate e d'inverno la pilotava, indossando il casco di pelle, gli oc-chialoni e il giubbotto nero da motociclista. Neppure la neve lo intimori-va, e ricordo persino di averlo visto una volta quando nessuno, o quasi, circolava per strada su un mezzo. Forse lo faceva anche per divertimento, ma sta di fatto che non avrebbe rinunciato per nulla al mondo, e in nessu-na circostanza, alla sua motocicletta: sul sidecar ci trasportava persino la vecchia mamma, come passeggera, anche lei con il casco e con il giacco-ne di pelle nera. Il locale dove lavorava non era piú di venti metri quadri, e di quella sua piccola officina ricordo in particolare l’esagerato disordine. Tutto era

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ammassato: chiavi da meccanico, innumerevoli parti di vecchie moto, tutto alla rinfusa. Solo lui, probabilmente, ricordava ciò che aveva, e in caso di necessità, forse, avrebbe trovato il pezzo di ricambio necessario per riparare una vecchia moto, magari adattando ciò che piú si avvicinava all’originale. A dire il vero, io che ero stato abituato in quel lavoro ad un certo ra-ziocinio e al dovuto ordine, avevo di Milio piú l'impressione dell'artista, forse anche un po' dello scultore che mette insieme parti meccaniche d’ogni tipo per creare un'opera d'arte, piuttosto che del meccanico. Certo, oggi quelle moto, o meglio le repliche aggiornate di quelle moto, costano un sacco di soldi. Molti le hanno acquistate e le usano perché sono torna-te di moda e perché rappresentano il mito del selvaggio, di easy rider: co-sí, con un po' di denaro, ci si può sentire Marlon Brando oppure Peter Fonda. Le officine che le riparano sono razionali, proprio come quella in cui avevo lavorato o aveva lavorato Milio in gioventù, quando era dipen-dente dell'importatore. Ai tempi in cui lo conobbi, però, non c'erano mol-tissime persone che si potevano permettere una vecchia moto di quel ge-nere. Un giorno mi aveva raccontato che quella che possedeva era stata la motocicletta di un facoltoso giovanotto, che l'aveva acquistata dove lui lavorava. Costui, però, non aveva avuto modo di adoperarla un gran che, poiché, entusiasta, al primo giro, dopo averla ritirata nuova fiammante, era caduto e aveva trovato la morte in un terribile incidente. La sua moto, poi, come mi aveva detto, era stata riportata in officina, e lí era rimasta, dato che nessuno l'aveva voluta ricomprare, fino a quando non la ricom-prò lui. Allora un mezzo del genere non poteva certo essere acquistato da un operaio, ma in quella circostanza il prezzo era accessibile a causa di quel-la disgrazia. Lui non era superstizioso e poi d’incidenti ne aveva già subi-ti diversi: era persino zoppo ad una gamba per una terribile scivolata con una motocicletta. In quella circostanza aveva persino rischiato di morire, e lo aveva provvidenzialmente salvato un ammasso di fascine su cui era caduto, dopo un terribile volo oltre una scarpata. Sapeva, per questo, che con le moto non si poteva troppo scherzare, ma le motociclette erano ciò

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che piú desiderava, e quindi, l’occasione di acquistare quella moto non se l’era certo lasciata sfuggire. Milio era rimasto uno dei pochi meccanici di Torino a conoscere tutte le caratteristiche di quelle vecchie motociclette e, pur non avendo a di-sposizione attrezzature particolari, come un artista era in grado di metter-le a punto, e anche di ricostruirle. Di questo ebbi la conferma quando con lui vidi l'acrobata che si esibiva nel “Cilindro della Morte” con una In-dian speciale, però dello stesso tipo della sua, in piazza Vittorio a Carne-vale. Era l'acrobata piú in gamba e temerario della troupe dei “Niňos”, e l'avevo visto con Milio nella sua officina, dopo che lui era intervenuto sul suo strumento di lavoro. Quell'acrobata aveva la vita legata al buon funzionamento della sua motocicletta, e non l'avrebbe certamente lasciata, per nessun motivo, nel-le mani di un “non artista”.

Il “Ponte di pietra” (Torino). Sullo sfondo piazza Vittorio Veneto.

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Una corsa in salita

Walter Villa era un campione di motociclismo delle corse in pista ed io l’avevo già visto in televisione, nei telegiornali sportivi che venivano tra-smessi, allora in bianco e nero: ed era uno dei grandi campioni italiani di quei tempi sulla scena. Erano Agostini, Pasolini, Bergamonti, Villa e tan-ti altri, quei campioni. Allora li seguivo in televisione e su quella che era la rivista specializzata delle moto, e non avrei mai immaginato, quel sa-bato pomeriggio, di vedere uno di loro, cosí da vicino, al fondo della sali-ta che da Sassi porta a Superga, intento a provare il percorso della corsa che si sarebbe disputata il giorno dopo. (Lo rividi poi un’altra volta di persona, qualche anno dopo, quando era venuto nella concessionaria, in cui lavoravo, a ritirare alcune delle prime motociclette giapponesi di cui uno dei proprietari della concessionaria era l’importatore.) Quel giorno era proprio Villa che provava con una motocicletta, una 60 cc due tempi a disco rotante, la Classica “Sassi-Superga”, corsa che a Torino si disputava ogni anno e che faceva parte delle gare del campiona-to italiano di corse motociclistiche in salita. Lui era venuto da Modena, dove risiedeva, per partecipare a quella particolare corsa, con lo scopo di collaudare in gara una sua motocicletta. Infatti, con suo fratello, produce-va moto da competizione, e quella che pilotava, probabilmente era uno dei loro prototipi da sviluppare. In quell’occasione lo riconobbi anche perché c’era un brusio <È Villa, È Villa> fra gli spettatori, quando tornava o quando ripartiva, e tutti lo additavano ed erano meravigliati di vederlo. Era il sabato delle prove li-bere e i piloti salivano con qualche minuto d’intervallo uno dall’altro e poi ridiscendevano tutti insieme, per risalire e riprovare il percorso. Villa saliva e scendeva con gli altri e faceva anche un po’ da maestro ad un ra-gazzo, pilota di un Guazzoni 60 cc, che cercava di seguirlo, entusiasta di imparare da lui tutto ciò che poteva. Io mi divertivo moltissimo ad assistere ai preparativi, alla messa a pun-to delle motociclette, e mi sembrava persino di essere uno dei protagoni-sti. La domenica mattina, per nulla al mondo avrei rinunciato a vedere le prove ufficiali e poi, la domenica pomeriggio, la corsa vera e propria.

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Cosí, il giorno dopo, già dal mattino ero alla partenza, pronto a gustarmi tutta la giornata. La domenica, esaurite le prove ufficiali, la corsa iniziò e per primi, dopo un paio di apripista, partirono, come sempre, i concorrenti della ci-lindrata piú piccola, la 60 cc. Partí anche il ragazzo che avevo visto con Villa, ma dopo la sua partenza, poco prima che partisse il successivo concorrente, le gara fu interrotta e si mosse l’autoambulanza. Erano stati i commissari di percorso e il pubblico che, con una sorta di passa-parola e con lo sventolio di alcune bandierine rosse, avevano bloccato la corsa e allertato il soccorso. Quel giovane pilota era caduto poche curve dopo la partenza, proprio dove c’erano diversi muretti a fianco della strada. Fortunatamente non si era fatto molto male, ma le conseguenze di quell’incidente potevano an-che essere molto piú gravi del piede rotto e delle escoriazioni che aveva riportato. L’ambulanza poco dopo tornò e si fermò proprio vicino a dov’ero io, per dare modo al papà di quel ragazzo di salire; quindi, a sirene spiegate, si diresse verso l’ospedale. La corsa riprese e dopo alcuni concorrenti, partí anche Villa, che però non mi sembrò volesse tirare al massimo. Quella era stata comunque solo la mia impressione alla partenza, perché il tempo che fece fu straordina-rio. Andò a più di 82 chilometri di media, polverizzando tutti i record precedenti in quella categoria. Partirono poi anche tutti gli altri concorrenti e per ultimo Tenconi, piú volte campione italiano della salita. Lui pilotava una 250 cc, Aermacchi-Harley-Davinson e salí a piú di novanta chilometri orari di media. Il suo tempo, il mattino, era stato di qualche secondo oltre i tre minuti: ed era il preambolo del pomeriggio, quando avrebbe avvicinato, di nove decimi di secodo, il fantastico record che Amilcare Balestrieri aveveva stabilto quattro anni prima (2’ 59’’ 7). Villa vinse la categoria 60 cc, ma la vitto-ria morale andò al secondo, Gazzola, il pilota che, in quella categoria, più si era avvicinato alla sua prestazione. Villa era un senior del circuito na-zionale delle corse in pista (in quel momento era campione italiano delle 125 cc e sarebbe poi anche diventato campione del mondo delle 250 e

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delle 350) e la Sassi-Superga apparteneva ad un genere inferiore. Era co-sí, ma su quella salita avevano corso tantissimi campioni: Varzi, Lancia, Agostini, Bergamonti e tanti, tanti altri. – Oggi quella corsa non si disputa piú per diverse ragioni, e forse an-che perché il percorso è alquanto pericoloso, a causa dei troppi muri e muretti delle ville e delle case che fiancheggiano la strada. È stata quindi anche l’alta spesa richiesta per migliorarne un po’ la sicurezza, che ha contribuito a far sí che quella, che era una fra le piú antiche corse in sali-ta, fosse messa nel dimenticatoio. L’incolumità dei piloti, adesso, è tenuta molto piú in considerazione e quindi, anche se molte corse sono certa-mente affascinanti, è giusto che non vengano piú disputate se i piloti de-vono rischiare oltremisura.Rimane comunque il ricordo di quando un semplice meccanico, o un dilettante, potevano anche avere l’occasione di gareggiare con un futuro campione del mondo.

Angelo Tenconi e Walter Villa alla Sassi-Superga del 1968

(Foto Ghidoni-Gazzetta del Popolo)

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Una special artigianale di 230 cc realizzata dalla Officina Colognese di Torino

(anni 60)

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Motocross

Quella era una delle tante domeniche d’estate di parecchi anni fa. In città c’erano ancora i bar con i déhors dove gruppi di persone, fino all’una di notte, sostavano, bevendo birra con la gazzosa, limonate gelate, o qualche altra bibita che potesse ridurre un po’ la calura. Io ero un ragazzo attorno ai vent’anni e frequentavo uno di quei bar. Ci andavo anche perché era frequentato da molti altri ragazzi della mia età, e in particolare perché alcuni di quei ragazzi li conoscevo da parecchio tempo, ed erano miei amici. Con loro, di solito, andavo al cinema, in piz-zeria, a vedere la partita allo stadio. Erano ragazzi provenienti da varie regioni d’Italia: solo uno era piemontese come me, ma si andava d’accordo e non c’erano mai discussioni fra di noi. Il mio era un quartiere dove c’erano molti immigrati, anch’io in realtà ero uno di loro, e la maggior parte proveniva dal sud d’Italia o dal Vene-to. Vanchiglia è sempre stato un quartiere molto popolare e ha sempre raccolto la gente da ogni luogo. Quelli erano tempi in cui l’automobile la possedevano ancora in pochi. A vent’anni, d’altronde, quasi nessuno l’aveva: in particolare, dei miei amici, solo uno la possedeva. A dire il vero, lui faceva spesso parte della nostra compagnia, ma non era propriamente un mio amico. Questo so-prattutto perché aveva una decina d’anni piú di me e quella differenza d’età non permetteva la confidenza dell’amicizia. Pio, questo era il suo nome, era lo zio di uno dei miei amici; lui non era sposato, ed era un o-mone dal carattere buono e mansueto, ma non cosí tranquillo e buono se aveva un po’ bevuto, cosa che ogni tanto purtroppo gli capitava. In quelle circostanze, nessuno di noi lo avvicinava, e lui stesso non si avvicinava a noi. Certamente, nei suoi confronti eravamo dei ragazzini, ma lui ci asse-condava e faceva di tutto per non farci pesare la differenza d’età. Di lavo-ro faceva il camionista ed era sempre in giro durante i giorni feriali. La domenica, però, a volte gli piaceva stare in nostra compagnia, per svagar-si e forse anche per sentirsi ancora un po’ un ragazzo. Quando era con noi, la sua auto, una vecchia Seicento, era a nostra disposizione, e cosí

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potevamo raggiungere piú facilmente i luoghi che normalmente frequen-tavamo. – Ricordo, in particolare, un sabato sera, quando eravamo andati con lui al cinema in una sala del centro; al ritorno, in via Rossini, vicino all’Auditorium della Rai, notammo che proprio di fronte all’Auditorium stesso stavano girando un film. Pio posteggiò la sua Seicento, e poi ci av-vicinammo per vedere meglio. Era Dario Argento che stava girando una delle scene iniziali di “Quattro Mosche di Velluto Grigio”. Allora era uno dei registi piú giovani in Italia, ma era già molto noto e aveva già girato a Torino altri due film. Noi li avevamo visti e quell’esperienza fu per me, e penso anche per i miei amici, indimenticabile. Quella sera avevamo in programma una sosta in pizzeria, ma rimanemmo a vedere ciò che non avevamo mai visto e che ci affascinò. Proprio in questi giorni, e sono passati ormai piú di trent’anni da allo-ra, ho ancora rivisto Dario Argento, con una sua troupe cinematografica, girare una scena del suo ultimo film, sempre a Torino, e ancora nel mio quartiere.

Ritornando alla domenica pomeriggio di quel giorno d’estate di tanti anni fa, io avevo letto sul giornale che a Lombardore, il paese vicino a Torino che ospitava l’impianto sportivo per il motocross, era in pro-

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gramma il “Motocross Internazionale” che si disputava ogni anno. C’ero già andato qualche anno prima con alcuni miei compagni di scuola, in motorino, e mi ero molto divertito. D’altronde, come avrei potuto non di-vertirmi, vista la mia passione per i motori e per le motociclette? Cosí proposi a Pio e ad altri ragazzi di andarci e loro, anche se non erano ap-passionati come me, accettarono. Non avevano mai visto una gara di mo-tocross, ma il mio entusiasmo li convinse che sarebbe stato uno spettaco-lo bellissimo. Ci avviammo quindi con la macchina di Pio e arrivammo a Lombardo-re in tempo per l’inizio della gara. Posteggiammo la macchina in un grande prato adibito a parcheggio, comprammo i biglietti ed entrammo nel campo da cross. Naturalmente i miei amici si aspettavano da me che io facessi un po’ da guida: di conseguenza feci strada e ci dirigemmo ver-so il luogo che ci permetteva di vedere bene la partenza della prima manche. L’autoparlante chiamò a uno ad uno i piloti al cancello di partenza, in-dicando il loro nome e la loro nazionalità. Venne poi dato il via e in un rumore assordante, quasi un boato, la corsa iniziò. Vedemmo passare le moto per un paio di giri, poi io proposi di spostarci e di andare dove la pista proponeva una ripidissima discesa che terminava con una curva a gomito. La successiva repentina ripida salita, che finiva con un salto da affrontare in modo acrobatico, faceva di quel luogo un punto molto spet-tacolare. Avremmo potuto cosí constatare le differenti abilità dei piloti, e in quel luogo, in particolare, avremmo anche potuto vedere le differenti prestazioni delle motociclette. Il gruppo dei piloti si allungò moltissimo, come al solito, e a lottare per i primi posti non erano rimasti piú di cinque o sei piloti che si erano av-vantaggiati nettamente sugli altri. Fra loro non poteva non esserci Roger De Coster, che allora era il piú forte pilota di motocross in circolazione. La prima manche della classe 500 terminò, poi ci furono due manche di contorno, la classe 125 e la 250, e quindi sarebbe partita la seconda manche della 500. I miei compagni vollero tornare in prossimità del retti-lineo della partenza, per rivedere, appunto, la partenza e per poter seguire meglio la gara. Il rituale della chiamata dei piloti si ripeté e il carosello ricominciò. Noi, per vedere meglio, eravamo entrati in una zona dove

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c’erano delle tribune di ferro e legno, che però erano riservate. Lí c’erano gli accompagnatori dei piloti e altre persone che avevano l’invito. Per en-trare, avevamo approfittato di un momento in cui l’ingresso era rimasto incustodito, ma fummo presto individuati e mandati via. Ci rimase solo Pio, forse, per la sua stazza, l’avevano scambiato per uno dell’ambiente, e cosí ci rimase per un po’, ma poi uscí e venne dove c’eravamo piazzati noi. La corsa, già subito dai primi giri, fu dominata da Roger De Coster che staccò tutti e vinse. De Coster era un pilota eccezionale, e questo si capi-va perché nessuno faceva quello che faceva lui. Proprio vicino a noi, sul rettilineo della partenza, per evitare le buche che si erano formate alla frenata prima del curvone, passava a cinque centimetri dalla griglia che delimitava il percorso. In quel tratto la velocità era notevole e quello che faceva richiedeva un gran coraggio e un’elevatissima precisione di guida. Tornammo quindi a casa, tutti contenti di aver trascorso una domenica indimenticabile.

Roger De Coster

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Lilli e Berta

Lilli e Berta erano due animali, rispettivamente un cagnolino dal sangue misto e una gazza, che sono vissuti nella nostra famiglia, nella casa dei miei nonni materni, su in collina, nelle Langhe. Berta visse qualche anno prima di Lilli, alla fine degli anni Trenta, poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Lilli, invece, visse negli anni Cinquanta, fino quasi alla fine di quel decennio. Entrambi entrarono nella nostra famiglia e occuparono un ruolo congeniale piú agli esseri umani che agli animali. Loro rimasero con noi fino alla fine, avvenuta peraltro, per un tragico gioco del destino, a causa di una fucilata dello stesso fucile. Berta e Lilli erano stati portati a casa dal fratello piú piccolo della mia mamma, che ai tempi di Berta era appena un bambino. Lui, come tutti i bambini che vivevano da quelle parti, andava per nidi, a pescare con le mani in Belbo, e con gli animali, che allora erano adoperati per lavorare o per sfamarsi, e di solito non si allevavano per compagnia, aveva un rap-porto di distacco. Il suo spirito di solidarietà, tuttavia, lo aveva spinto ad avere compassione di Berta e di Lilli, e cosí loro erano entrati nella nostra famiglia. Berta l'aveva trovata che era quasi implume. Lei era la superstite di una nidiata che era stata assalita da altri bambini, suoi coetanei, ed era destinata a morire, se non l'avesse raccolta. L'aveva portata a casa e poi l'aveva nutrita con briciole di polenta e con del latte, il pane allora man-cava. Berta cosí si era salvata, e non appena fu in grado di volare, volò ma non si allontanò mai troppo da casa. Non era mai stata in gabbia e il suo nido era il luogo dov’era stata allevata. Era domestica e aveva anche imparato a rispondere, quando la si chiamava con quel suo strano nome. La mia mamma, allora, era una signorina quasi ventenne, e in casa la-vorava come sartina, mestiere che aveva imparato in tre anni e tre mesi, come si usava allora, da apprendista presso un’anziana sarta del paese. Quando cuciva, spesso Berta le volava sulla spalla e poi cercava di rubar-le il ditale, che, ai suoi occhi, doveva apparire come un irresistibile gioiello da sottrarre.

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Berta era cosí diventata quasi una componente della nostra famiglia. Certo, per un animale questo può apparire strano, ma Berta, che non ave-va mai approfittato della sua libertà, era riconosciuta cosí. Lei, peraltro, riconosceva nella casa dei miei nonni tutto il suo mondo. Un brutto giorno però, in uno dei suoi voli lí attorno, fin oltre la biale-ra, giú nei prati che arrivano al Belbo, fu avvistata da un cacciatore che le sparò e l’uccise. Era stato Angelo, ad abbattere Berta. Lui abitava lí vici-no, nella casa situata di fianco al torrente, poco prima del grande ponte, e andava a caccia per divertimento, come si faceva allora, nei brevi mo-menti di pausa dal lavoro, non allontanandosi mai troppo da casa. In quell’occasione, dopo aver avvistato la sua preda, aveva sparato pensando si trattasse di un animale selvatico. Quel suo trofeo cosí bello, a ogni buon conto, gli procurò un amaro rincrescimento. Dopo lo sparo, la mia mamma, intuendo ciò che era successo, era uscita da casa gridando: <<Berta! Berta! >>. Angelo, con Berta nelle mani, capendo ciò che aveva fatto, si sentí sprofondare. Lui era un uomo dal carattere duro, di quelli di una volta, ma al pianto della mia mamma si commosse e disse solo che non sapeva e che gli rincresceva. Berta morí cosí; e mio zio non portò piú a casa altri uccelli. La vicenda di Lilli, per qualche verso è simile a quella di Berta. Lilli, però, è vissuto quando ero bambino, e di lui, anche se sono passati tanti anni, ho ancora un ricordo indelebile. Ai tempi di Lilli, mio zio era un giovanotto e con la sua Lambretta an-dava alle feste dei paesi vicini. Era un ottimo giocatore di pallone elasti-co, e di sfide sportive ne aveva già sostenute parecchie. Un giorno, al ritorno da una festa, era tornato a casa con Lilli. Lo ave-va trovato, sperduto e ancora cucciolo piccolissimo, vicino al campo do-ve aveva giocato una partita. Lilli, poi, era cresciuto e cosí, si può dire, aveva occupato il posto di Berta. Io allora ero piccolo e spesso, con i miei genitori, andavo dai miei nonni, per trascorrere qualche ora con loro. La nostra abitazione era nel concentrico del paese, mentre la loro casa era poco fuori del paese stesso, su una strada appena sotto lo stradone principale. Lilli ci vedeva arrivare

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e cosí non perdeva mai occasione di venirci incontro, scodinzolando e fa-cendo tutte le feste di cui era capace. A volte mio papà mi accompagnava sullo stradone – le macchine erano allora praticamente inesistenti – ed io giocavo con il mio triciclo. Lilli mi sentiva e percorrendo una scalinata ci raggiungeva per giocare con noi. Mia nonna, in quelle occasioni, dal suo comportamento capiva quando io ero nei paraggi, proprio perché non c'era modo di trattenerlo. Lilli viveva in casa dei miei nonni: ma aveva un istinto libero e perio-dicamente si assentava per qualche tempo. Era stato proprio mio zio ad averlo visto, in occasione di una delle sue assenze, con una cagnetta della sua taglia, nel paese vicino. Lo aveva chiamato, lui aveva obbedito ma poi, scodinzolando, era tornato dalla sua compagna. Tutti i componenti della nostra famiglia erano a conoscenza del suo i-stinto e delle sue abitudini, e quindi, quando non c'era, nessuno si preoc-cupava per lui. Sarebbe tornato e avrebbe riportato il suo affetto e la sua giocosità. Passarono alcuni anni felici; ma poi, come spesso accade, le cose cam-biarono. Lilli era tornato, ma quest'ultima volta con un brutto male. Mia nonna aveva cercato di curarlo, ma il veterinario, che lo aveva visto, le aveva detto che non c'era piú niente da fare. Sarebbe morto, e purtroppo di un male che lo avrebbe fatto molto soffrire. Mia nonna aveva preparato un giaciglio in uno dei locali dove mio nonno depositava gli attrezzi del suo lavoro da muratore, e lí Lilli trascor-reva le sue giornate. Io andavo spesso dai miei nonni, chiedevo sue noti-zie e la risposta era sempre la stessa: “Non era ancora tornato. Questa volta aveva fatto il birichino”. Lui senz'altro sentiva la mia presenza, ma rimaneva immobile, solo con il suo dolore. Un giorno mia nonna non riuscí piú a nascondermi la verità. Mi fece vedere Lilli. Prima, però, mi preparò, dicendomi che la sua malattia era tremenda, e che non avrei dovuto troppo spaventarmi nel vedere com’era ridotto. Lilli ci guardava e non c'è niente di piú triste che vedere un essere vivente soffrire a quel modo. La malattia aveva ormai corrotto la carne, e la piaga del tumore era terribilmente visibile. Mia nonna portò da bere a Lilli, io non sapevo che cosa fare, e poi lo lasciammo. A quel punto mia

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nonna mi spiegò che Lilli non aveva la possibilità di guarire, e che il ve-terinario le aveva detto che sarebbe stato meglio, per pietà, sopprimerlo. Mia nonna non era riuscita ad evitarmi quel dolore. È vero, io ero un bambino, ma sarei cresciuto, e Lilli ci aveva dato tanto affetto, e non era giusto nascondere la verità. Mi disse anche che lo avrebbe portato da An-gelo, e che lui, senza farlo soffrire, avrebbe chiuso la sua esistenza e le sue sofferenze. Il giorno dopo tornai da mia nonna, e lei mi chiese di aiutarla. Andò a prendere Lilli, che riuscí a seguirci, quasi cosciente del suo destino. Per-corremmo il tragitto fermandoci piú volte per dargli modo di riprendere un po' di forza. Arrivati, Angelo ci guardò, forse avrebbe potuto rimedia-re un po' alla morte di Berta. Legò Lilli e lo portò dove aveva il fucile. Io e mia nonna ci allontanammo; e uno sparo mise termine al suo male.

La mia mamma ai tempi di Berta

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Un pittore di Langa

La Madonna della Rovere è un piccolo Santuario ubicato sulle colline del comune di Cossano Belbo, nelle Langhe, ed è anche il simbolo, un po' il vanto, della frazione omonima, il cui territorio si estende su tutta la colli-na, oltre il ponte sul torrente Belbo. Alla chiesetta ci si arriva percorrendo una ripida stradina, che, come tutte le strade di campagna di quei luoghi, fino a non molti anni fa era particolarmente disagevole. Nonostante que-sto, l’erta non è mai stata di grave impedimento, e, ogni anno, con una novena nel mese d’agosto, tutti hanno sempre manifestato la propria de-vozione alla Madonna, a cui il Santuario è dedicato. Dal paese e anche dalle altre frazioni, la gente ci si è sempre recata – in passato unicamente a piedi –, e la Madonna della Rovere è sempre stata colei a cui i cossane-si, e non solo, si sono rivolti per ottenere una grazia. In quella chiesetta, poi, sono anche raccolti la maggior parte dei quadri ex voto che France-sco Bo – Cichinin – ha dipinto durante la sua vita. Lui era un artigiano decoratore, un artista pittore, e anche nella pittura esprimeva uno stile raffinato e personale, frutto in maggior parte della sua esperienza e del suo mestiere di decoratore. Dipingeva secondo la propria ispirazione; ed erano le nature morte, la frutta, i fiori, i soggetti che normalmente raffigurava. A volte però, e questo lo faceva su com-missione della gente del posto, dipingeva ex voto, quasi tutti con la Ma-donna con il Bambino, da collocare nelle varie chiesette del paese, su in collina. La gente glieli richiedeva e lui, fin da quando era giovane, all'ini-zio del secolo scorso, ne aveva dipinti parecchi. Era stato addirittura un reduce delle guerre combattute in Africa, il committente dei primi lavori. Aveva dipinto scene di battaglie con i mori, naufragi in mari tempestosi, poi c'erano state le vicende della prima guerra mondiale, d’altre guerre in Africa, la seconda guerra mondiale, e infine le tante storie di vita paesana e contadina, tutto a ringraziamento per grazia ricevuta. Cosí, molte storie sono state rappresentate, e oggi tutti quei quadri costituiscono un po' il racconto di piú di mezzo secolo di vita della gente dei nostri posti. Cichinin non ho avuto modo di conoscerlo in vita, perché quando lui è morto io ero piccolo. Di lui, però, ho sentito spesso parlare, ho visto al-

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cuni dei suoi quadri, i suoi ex voto e poi i miei genitori e i miei nonni lo hanno conosciuto. Di lui so che era un uomo dal fisico robusto e che vi-veva del suo lavoro di decoratore. Era scapolo e abitava in una casa – che oggi non c'è piú – vicino alle scuole elementari, ospite di due sorelle be-nestanti. Loro gli avevano concesso un alloggio nella loro casa, e lui vi aveva decorato i muri interni con vedute lacustri, con una vista del paese com'era allora. – Quella veduta è ancora visibile ed è rimasta, perché il muro su cui l'ha dipinta era anche un muro della casa vicino alla sua. Era un uomo dal buon carattere, apprezzato per il suo mestiere, per la sua arte, per la sua umanità. Mio nonno, che era artigiano muratore, aveva spesso lavorato con lui, ovviamente per lavori di muratura che erano necessari prima della sua opera e per lui Cichinin aveva anche dipinto un ex voto. Era stato nel pe-riodo della seconda guerra mondiale, quando mio nonno era caduto da un vecchio albero di pere, sul quale era salito per raccogliere i frutti. In quel-l'occasione i rami, non piú vigorosi, lo avevano tradito e lui era caduto da una notevole altezza. Si era salvato, forse anche perché il terreno sotto-stante era in forte pendenza e l'impatto era stato, per questo, un po' attuti-to. Dopo la caduta, privo di sensi, era rimasto impigliato in un folto ce-spuglio di rovi sulla sponda della bialera che scorreva nelle vicinanze, e la mia mamma, che era presente al fatto, era riuscita, con la forza della disperazione, a districarlo. Poi l'acqua della bialera lo aveva rianimato e lui era tornato a casa con le proprie gambe. Quel fatto, privo di conse-guenze per mio nonno, era senz'altro da attribuirsi ad una grazia ricevuta. Cosí la mia mamma, pochi giorni dopo, aveva richiesto a Cichinin l'ex voto che sarebbe stato collocato nella chiesetta della Madonna della Ro-vere, assieme a tutti gli altri. Quell’ex voto è stato sistemato vicino alla piccola finestra, a fianco dell’ingresso del Santuario, e tutte le volte che ho occasione di entrare in quel luogo, ho sempre una strana sensazione. Sono proprio i quadri di Ci-chinin, che mi ricordano le mie radici, a suscitarla.

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Il Santuario Madonna della Rovere

[Adesso che il tempo è passato e quelle estati le ricordo, so che cosa volevo dalla Madonna della Rovere. Una siepe di prugnole mi chiudeva l'orizzonte, e l'orizzonte sono nuvole, cose lontane, strade, che basta sapere che esistono. La Madonna della Rovere è sempre esistita, è dappertutto, sulle coste, sulle creste dei paesi, ci sono chiese e masse d'alberi impiccolite nella distanza. Dentro, la luce è colorata, il cielo tace; e donne come la Sandiana ci stanno in ginocchio e si segnano, qualcuna c'è sempre. Se una vetrata della volta è schiusa, si sente un soffio di cielo piú caldo, qualcosa di vivo, che sono le piante, i sapori, le nuvole. Queste chiese di cresta sono tutte cosí. Ce n'è sempre qualcuna piú lontana, mai vi-sta. Nel porticato di ciascuna è tutto il cielo e vi si sentono le prugnole e i canneti che il cammino non basta a raggiungere. Tanto vale fermarsi a due passi e sapere che tutta la terra è un gran bosco che non potremo mai fare nostro davvero come un frutto. An-zi, le cose che ci crescono a due passi hanno il loro sapore da quelle selvatiche, e se il campo e la vigna ci nutrono è perché affiora alle radici una forza nascosta. Mio padre direbbe che al mondo tutto viene dal basso. Io non so né sapevo di questo, ma la Ma-donna della Rovere era come il santuario delle cose nascoste e lontane che devono e-sistere.]

Cesare Pavese, Feria d'agosto, Torino, Einaudi, 1946

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Ex voto di Cichinin (Santuario Madonna della Rovere)

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Francesco Bo

− Cichinin −

Bo Pietro Francesco – Cichinin – nacque a Cossano Belbo il 29 agosto 1875 da Carlo, fabbro ferraio, e da Balbo Giovannina, casalinga. A Cossano visse quasi tutta la vita, abitando nella casa di proprietà delle sorelle Barbero. (La sua abitazione, oggi non è piú esistente, era ubicata proprio di fronte alle scuo-le elementari, lato cortile). Cichinin aveva perso prematuramente i genitori ed era stato, in pratica, adot-tato dalle sorelle Barbero, Carolina e Ginetta, che non erano sposate e non a-vevano figli. La loro casa fu la sua casa e in questa lui visse, anche dopo la lo-ro morte. (La casa passò poi in eredità all’Ente Comunale di Assistenza «E-CA», perché la adibisse ad abitazione per i poveri del paese). Le sorelle Barbe-ro furono la famiglia di Cichinin: in particolare Ginetta, la seconda delle due, fu per lui una mamma, una sorella, ma anche la signora Pisano ebbe un ruolo molto importante nella sua vita. Lei, vedova di un ufficiale della marina, abita-va a Genova e d’estate passava alcuni mesi a Cossano Belbo, ospite delle Bar-bero, per potersi anche meglio occupare della cascina che possedeva in una frazione del paese (e presso di lei Ginetta aveva anche lavorato da giovane, come persona di servizio). La signora Pisano, consapevole dell'intelligenza e della naturale predisposizione alla pittura di Cichinin, lo portò con sé a Geno-va, gli impartí le prime lezioni di cultura generale e lo avviò al disegno e alla lettura dei testi classici. Inoltre, Cichinin ebbe modo di accompagnarla, nei viaggi che era solita fare a Firenze e a Roma, e cosí poté ammirare i monu-menti e i musei delle due bellissime città. Francesco Bo ebbe quindi l’opportunità, grazie alla signora Pisano, di studiare e di sviluppare le proprie capacità. Per questo a lei riservò sempre riconoscenza, gran rispetto, e quasi una forma di venerazione. (Ne derivò anche l’amore per i classici, che lo portò,

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in seguito, ad imparare a memoria e a recitare intere cantiche della Divina Commedia e della Gerusalemme Liberata). Dopo il periodo trascorso a Genova, Cichinin intraprese, per vivere, il me-stiere di decoratore, non disdegnando anche semplici lavori d’imbianchino. Operò in tutta la Valle Belbo e in alcune zone dell'Albese (Mango, Castagnole Lanze, Neive). La sua vocazione era, però, quella del pittore e, nella sua lunga attività artistica, notevole parte ebbero i molti ex voto realizzati per la gente di Cossano, opere che egli eseguí curando di rappresentare al meglio, ovviamente secondo la propria ispirazione, le varie storie. Erano lavori che gli commissio-navano e che lui si faceva pagare, proprio come se fossero stati dei comuni la-vori di decorazione. Per piú di mezzo secolo ha cosí rappresentato vicende del-la gente di Langa, e i suoi ex voto sono ancora, per la maggior parte, nel san-tuario della Madonna della Rovere a Cossano Belbo, dov’erano stati collocati a ringraziamento per grazia ricevuta. Cichinin, i cui amici sono stati i pittori Rizzola e Olindo di Canelli, durante la sua vita ha anche dipinto molti quadri: i fiori e la frutta, l’uva in particolare, sono stati fra i suoi soggetti preferiti. Nel dipingerli egli ha usato uno stile per-sonale, dimostrando tutta la sua maestria nel colore, nello studio della luce, e nella realizzazione decorativa dei singoli particolari. Innumerevoli sono anche state le sue decorazioni in chiese, cappelle votive e in molte case private. A-desso, purtroppo, a parte i quadri, molti dei quali sono ancora reperibili presso privati in buono stato di conservazione, della sua opera di decorazione rimane ben poco. Fa eccezione l'affresco raffigurante la Cossano d'anteguerra, databile verso il 1938, che si trova sulla parete esterna del fabbricato adiacente a quella che era stata la sua abitazione. Cichinin fu anche un apprezzato autore e dicito-re di poesie d'occasione. Ne compose parecchie, per anniversari, in occasione d’eventi politici come le elezioni comunali, per nozze, compleanni di persone a lui vicine,... Memorabile fu la poesia che compose in occasione del compimen-to dei cento anni del cossanese Vincenzo Tosa. I versi delle sue poesie, a diffe-renza delle opere di pittura, Bo li componeva normalmente di notte. Nei giorni seguenti, dopo averli composti, si recava sempre dall’insegnante Romana Drel-lo, maestra di tante generazioni di bambini di Cossano, per sottoporglieli e ave-re da lei un parere sulla loro validità. Evidentemente, le sue capacità si manife-stavano anche nella poesia, ma questa arte lui non la governava pienamente, a differenza del suo “mestiere”, la pittura. La maestra Drello lo ha in ogni caso sempre seguito e confortato riconoscendo in lui il vero artista. Bo visse tutta la vita in modo molto riservato, rispettoso sempre del prossi-mo, di tutti, anche di chi d’arte non capiva proprio niente. S’impegnò anche nel

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sociale e fu socio direttivo della Società di Mutuo Soccorso. Negli ultimi anni di vita, purtroppo, soffrí di diverse depressioni: viveva troppo intensamente la sua vita artistica e a volte, come altri artisti, rimaneva come allucinato da un soggetto, da un panorama, non riuscendo a mantenere la propria lucidità. Non commise mai atti sconsiderati, ma ebbe anche bisogno di cure presso il noso-comio di Racconigi, dove si fece ricoverare definitivamente dal 16 marzo 1956. Prese la residenza in quella città e fece ancora alcune brevi apparizioni a Cossano Belbo. Vi tornò ancora una volta e infine vi morí, il 13 gennaio del 1957.

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IN ONORE DI VINCENZO TOSA CHE COMPIE CENTO ANNI

Al nòstr car Amis - Centenari Tosa - Cento

Cossan Belb - 27 Gené 1953 _____________________________

A costa schiera tuta quanta e a Cento nòstr amis

Senti sì Cichin a-j canta la Canson dël nòstr pais

––––––––––

A questo gruppo tutto quanto

e a Centu nostro amico

Sentite qui Cichin gli canta

la canzone del nostro paese

Salve ò Cento Centenari cost bel di o r’é rivà

o r’é ‘n di straordinari ch’a sarà mai dësmentià

––––––––––

Salve o Centu Centenario

questo bel giorno è arrivato

è un giorno straordinario

che non sarà mai dimenticato

a dì sent ani o r’é na paròla ma a riveje a-i và da fé

Ti che t’ej nen ëd pasta fròla t’ej rivaje volontè –––––––––

a dire cento anni è una parola

ma ad arrivarci ci vuol da fare

Tu che non sei di pasta frolla

ci sei arrivato volentieri

attornià da toa Famija da j’amis e dai parent

festeggioma ant l’alegria cost grandios avveniment

––––––––––

attorniato dalla tua Famiglia

dagli amici e dai parenti

festeggiamo in allegria

questo grandioso avvenimento

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Ant toa Vita faticosa dal travaj e dai pensé la toa fibra prosperosa

a l’ha mai lassate andrè ––––––––––

Nella tua vita faticosa

pel lavoro e i pensieri

la tua fibra prosperosa

non ti ha mai lasciato indietro

Come la Quercia resistenta ch’a patiss ni ël càud ni ël frèid

anche an mes a la tormenta Ti t’aj sempre tnù ben rèid

–––––––––––––

Come la Quercia resistente

che non soffre né il caldo né il freddo

anche in mezzo alla tormenta

Tu hai sempre tenuto ben dritto

Come ’l Soldà sul camp ëd bataja con corage e con onor

Chiel a sfida la mitraja combatend con gran Valor

–––––––––––––

Come il Soldato sul campo di battaglia

con coraggio e con onore

Lui sfida la mitraglia

combattendo con gran Valore

e Ti come j’alpinista dle montagne scalator

an sla Vëtta dla conquista t’aj piantà ‘l bel Tricolor

–––––––––––––

e Tu come gli alpinisti

delle montagne scalatori

sulla Vetta della conquista

hai piantato il bel Tricolore

e dacant a la Bandiera ch’a l’é basà dal Sol e dal Vent

it peuli aussè la testa fiera con ël tò cheur pròpi content

––––––––––––

e vicino alla Bandiera

che è baciata dal Sole e dal Vento

puoi alzar la testa fiera

con il tuo cuore proprio contento

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e ant la gara dl’esistensa fra ij tanti corridor

con la toa gran resistensa T’ej Ti sol ël Vincitor

––––––––––––

e nella gara dell’esistenza

fra i tanti corridori

con la tua gran resistenza

Sei tu solo il Vincitore

Ò! Cossan esulta pura përchè ancheuj Ti t’aj rason ëd costa glòria bela e pura dël Tò fòrt e bon Campion

––––––––––––

O! Cossano esulta pure

perché oggi Tu hai ragione

di questa gloria bella e pura

del Tuo forte e buon Campione

Con la fede e con la siensa ringrassioma con tut ël cheur

la Divin-a Providensa ëd cost bel e gran boneur

–––––––––––

Con la fede e con la scienza

ringraziam con tutto il cuor

la Divina Provvidenza

di questa bella e grande fortuna

e nojàutri che ‘l di vedoma così fresch e così bel

dal Signor për Ti invocoma ij pi bei favor del Cel ––––––––––––

e noialtri che il dí vediamo

cosí fresco e cosí bello

dal Signor per tè invochiamo

i piú bei favori del Cielo

Evviva Cento noi crijoma ch’a compiss sent ani ancheuj

tuti ansema noi brindoma prima a Chiel peui aj Sò Fieuj

––––––––––––

Evviva Centu noi gridiamo

che compie cento anni oggi

tutti insieme noi brindiamo

prima a Lui, poi ai Suoi Figli

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Për calmé ij fum a la testa ch’a l’à fame vnì ‘l Vin bon

dòp ëd costa bela Festa foma dcò un pò ‘d riflession

–––––––––––

Per calmare i fumi alla testa

che mi ha fatto venire il Vino buono

dopo questa bella Festa

facciamo anche un po’ di riflessione

Ch’a sia la fede e la costansa ch’an sosten nojàutri ancheuj con ant ël cheur na speransa

quand che i dovroma saré j’euj –––––––––––

Che sia la fede e la costanza

ciò che sostiene noialtri oggi

con nel cuore una speranza

quando dovremo chiudere gli occhi

Stoma an pas e ant la concordia confidand ant ël Signor

e ant la Soa misericòrdia për noi pòvri pecador ––––––––––––

Stiamo in pace e in concordia

confidando nel Signore

e nella Sua misericordia

per noi poveri peccatori

La speransa a l’é cola còsa che i përdoma con ël fià sarà certò na bela còsa se i saroma rassegnà ––––––––––––

La speranza è quella cosa

che perdiamo con il fiato

sarà certo una bella cosa

se saremo rassegnati

Ma San Pé ch’a l’é Sant brav për giuten-e ant col ambreuj

Chiel ch’a l’ha an man le Ciav a farà finta ‘d saré n’euj

–––––––––––

Ma San Pietro che è Santo bravo

per aiutarci in quell’imbroglio

Lui che ha in mano le Chiavi

farà finta di chiudere un occhio

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Pen-a intrà che noi saroma ant la glòria dël Paradis

quanta giòja che i provroma con ij parent e con j’amis

––––––––––––

Appena entrati (che) noi saremo

nella gloria del Paradiso

quanta gioia (che) proveremo

con i parenti e con gli amici

E na vita bela e Santa për nojàutri ancomenserà përchè a dura tuta quanta për l’immensa Eternità

–––––––––––

E una vita bella e Santa

per noialtri incomincerà

perché duri tutta quanta

per l’immensa Eternità

Cichinin ël Pitor - Cossan Bel - 27 Gené 1953

Proprietà riservà dl’autor ____________________

(Da un manoscritto originale di Cichinin)

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UN LAVORO PARTICOLARE Sono figlio di artigiani, la mia mamma era sarta, il mio papà calzolaio, il mio nonno materno muratore. Anch’io mi sono sempre sentito un po’ ar-tigiano, non per aver esercitato un mestiere per la maggior parte della vi-ta, come loro, ma perché le mie origini, la mia mentalità mi hanno sem-pre portato a ragionare da artigiano: per questo ho sempre sentito la ne-cessità di imparare, di aggiornarmi. La manualità, il necessario ragiona-mento, sono sempre state le cose che mi hanno appassionato nel portare a termine un lavoro: anche Bo Cichinin era artigiano, un decoratore di grande qualità, ma anche un vero artista, un vero pittore. Cichinin è vis-suto nel secolo scorso, a Cossano Belbo, il paese in cui sono nato e dove ho trascorso la mia infanzia; vi è poi morto nel 1957, quando io avevo sei anni. Personalmente non ho il ricordo della sua figura, perché in quel pe-riodo era già molto anziano, essendo nato nel 1875, e da qualche anno ra-ramente si vedeva in giro. La mia mamma lo ha conosciuto e a lei ho chiesto alcuni aneddoti e ricordi su di lui. Cichinin era, per la gente del paese, il decoratore, l’imbianchino, il pit-tore, e la sua opera era spesso richiesta anche dalla gente dei paesi vicini. Viveva per e con il suo mestiere, e nei suoi lavori lasciava sempre qual-cosa della sua arte, anche in quelli piú umili: uno zoccolo particolare, un piccolo fregio, una greca (nel 1950, un anno prima della mia nascita, a-veva anche imbiancato la cucina della casa dei miei genitori, dove poi ho vissuto da bambino). In tutte le occasioni la sua opera era sempre espres-sione della sua sensibilità artistica, del suo stile personale, della sua gran-de esperienza. Nella sua lunga vita, quindi, la sua arte si è concretizzata sui muri delle case di diversi paesi delle Langhe, negli ex voto che ha realizzato per la gente, e nei tanti quadri dipinti, normalmente non su commissione di qualcuno, ma per se stesso, perché lui era e si sentiva un pittore. Già fin da bambino ne avevo sentito parlare, e sono cresciuto a contat-to con la sua arte: gli ex voto della “Madonna della Rovere”; le decora-zioni che aveva fatto nell’asilo che frequentavo (Le magnifiche “Quattro Stagioni” che il mio amico e compagno d’infanzia, Renato Grimaldi, – proprio quello della gita allo Scorrone, – ha fotografato prima che l’asilo

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venisse abbattuto per far posto alla moderna costruzione, sede del nuovo municipio del paese); le decorazioni in altre case, che oggi forse non ci sono piú; alcuni dei suoi quadri che ho potuto ammirare in varie abitazio-ni private. Dalla mia mamma ho poi avuto modo di ascoltare una storia i cui protagonisti erano stati Cichinin e mio nonno. Erano i giorni in cui c’era la guerra e, in quel periodo, la mia mamma era ancora signorina e lavorava nella casa dei suoi genitori, come sartina. Il fatto era avvenuto proprio vicino alla casa dei miei nonni: cosí tutta la scena si sarebbe anche potuta osservare da lí, ma la mia mamma era usci-ta da casa e si era avvicinata, perché qualcuno le aveva detto che Cichinin era salito sul tetto della chiesetta del cimitero del paese. (La chiesetta poggia, posteriormente, su un muraglione, che una volta lambiva l’antica strada della valle, poi sostituita dal moderno stradone asfaltato che passa in paese). Cichinin era ad una decina di metri d’altezza. La vecchia strada passava proprio davanti alla casa dei miei nonni, a qualche centinaio di metri dal cimitero. Chissà, forse era salito fin lassú per avere una visione particolare della vallata sottostante, con le colline su cui campeggiano il santuario della Madonna della Rovere e la chiesetta di San Pietro. Sta di fatto, però, che qualcosa in lui si era inceppato ed era rimasto come allu-cinato nella pericolosa posizione raggiunta. La gente che passava nei pa-raggi si preoccupava per la sua incolumità, ma nessuno sapeva come aiu-tarlo, come intervenire, anche perché lui era un omone di una notevole stazza e il pericolo effettivamente era elevato. Non si poteva certo andar-lo a prendere e costringerlo con la forza a scendere: anche un solo movi-mento falso sarebbe bastato a causare una disgrazia. La mia mamma, ora, non si ricorda bene se mio nonno fosse a casa o se stesse lavorando in paese, ma fu proprio lui che intervenne e che aiutò Cichinin. Mio nonno era muratore ed era abituato all’altezza, al pericolo. Qualcuno lo chiamò e lui salí sulla chiesetta del cimitero per cercare di soccorrerlo. Ovvia-mente, prima di tutto cercò di capire in che stato si trovasse e subito intuí che poteva essere molto pericoloso andargli vicino. Cichinin era come in trance e un suo risveglio improvviso poteva far perdere l’equilibrio a en-trambi. Cercò quindi di attuare la strategia migliore: si mise con molta cautela a smuovere alcune tegole del tetto, come a volerlo ripassare, e Ci-chinin, dopo un po’, appena superato lo stato d’incoscienza, vide mio

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nonno, che ben conosceva, e non si spaventò: anzi, si mise anche lui a smuovere le tegole. Mio nonno gli parlò e pian piano lo convinse a scen-dere, perché era l’ora del pranzo e sarebbero poi tornati, dopo aver man-giato qualcosa, a finire il lavoro. Pian piano scesero e Cichinin fu riac-compagnato a casa. Era stato l’attaccamento al lavoro che lo aveva salva-to. L’umiltà, il sentirsi un artigiano come i suoi compagni, il rispetto per il lavoro, anche se non propriamente il suo lavoro, erano qualità che ave-va dentro, e questo mio nonno lo sapeva. – Qui sotto ho riportato alcuni particolari delle decorazioni che Cichinin aveva realizzato nel salone dell’asilo infantile di Cossano Belbo. Faceva-no parte delle “Quattro Stagioni”. Van Gogh forse non c’entra niente, ma ho voluto mettere vicino al lavoro di Cichinin uno dei suoi quadri piú famosi, come auspicio, e nella speranza che un domani anche Cichinin possa essere conosciuto da tutti.

Il primo dipinto è uno dei piú noti quadri di Van Gogh. Gli altri sono opera di Cichinin.

(“L’Estate” e “La Primavera” di Cichinin da Le Quattro Stagioni di Cichinin di Renato Grimaldi)

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COSSANO BELBO AI TEMPI DI CICHININ

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La slitta

La neve aveva ammantato tutte le colline e sullo stradone, di fronte a casa nostra, c'era uno strato di neve pressata dallo spazzaneve che era appena passato. Non nevicava piú e l'aria era tersa, pulita e fredda. Per me la ne-ve era una cosa fantastica. Le colline, il paese, tutto era proprio come nel-le cartoline; e poi, la scuola elementare che frequentavo l'avremmo potuta raggiungere solo noi del concentrico, il giorno dopo, e la possibile vacan-za, o quasi, era inaspettata. La maestra ci avrebbe lasciati liberi di legge-re, di disegnare. Avremmo cominciato a costruire il presepe, o perlomeno a preparare ciò che serviva per farlo. Il mio papà lavorava nella sua piccola bottega di calzolaio, e la mia mamma ed io stavamo con lui, per tenergli compagnia e anche per scal-darci vicino alla piccola stufa attiva in quel locale. La mia mamma si era portata del lavoro di cucito, lei era sarta e d'inverno il suo lavoro non era certo come d'estate, ma se non di qualche cliente, c'era sempre qualcosa di nostro da rammendare o da aggiustare. Io guardavo lavorare il mio pa-pà, parlavo con lui ed ero assorto dai suoi gesti, dai suoi movimenti, an-che se lo avevo già visto tante altre volte. Per strada non passava quasi nessuno: quel giorno non sarebbe passata neanche la corriera. La neve sa-rebbe rimasta per un po' e avrebbe senz'altro provocato dei disagi alla vita del paese. Noi bambini, però, ne vedevamo solo gli aspetti positivi e ci saremmo divertiti con tutti i giochi che si sarebbero potuti fare. A dire il vero, le attrezzature per sciare erano rare e in tutto il paese non c'erano piú di due o tre paia di sci; in ogni caso nessuno di noi sapeva andarci, e poi non c'era neppure un luogo adatto per farlo. Qualche slittino, un asse da lavare, si sarebbe però trovato, e poi si potevano fare battaglie a palle di neve, scivolate sul ghiaccio che si sarebbe formato un po' dappertutto, oppure semplicemente si sarebbe potuto vivere in quel mondo ovattato e bianco, un po' tutto da scoprire. Il pomeriggio del giorno successivo, dopo la scuola, andai a trovare Peino. Lui frequentava un'altra classe e aveva un anno piú di me. Abitava in una cascina molto vicina al paese, raggiungibile con una scalinata pro-prio dal centro del paese stesso, ma che da casa mia si poteva anche rag-

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giungere percorrendo il primissimo tratto della vecchia strada che saliva su in collina, e quindi da un sentiero che portava proprio nell'aia. Peino era un ragazzo di campagna, i suoi erano contadini e allevavano anche del bestiame, ma la sua abitazione, cosí vicina, aveva permesso ai ragazzi del concentrico di avere un compagno di campagna che in pratica abitava in paese. Tutti i ragazzi di campagna aiutavano i propri famigliari nei lo-ro lavori, e inoltre dovevano venire a scuola, svolgere i compiti. Tempo per giocare Peino ne aveva certamente poco; ma d'inverno i lavori da fare erano di meno, e cosí avrei potuto giocare un po' con lui. Avevo raggiunto la sua cascina e nell'aia, sulla neve, c'era un paio di vecchi sci di frassino. Dall'interno della stalla si sentiva il rumore delle martellate che Peino stava assestando per inchiodare le assi che aveva tagliato per costruirsi una slitta. Entrai con un po' di timore e Peino, ap-pena mi vide, mi disse di non avere paura delle bestie, che lí c'era lui e che non c'era nessun pericolo. Nella stalla c'erano diversi buoi, delle mucche e dei vitelli, e c'era un bel tepore, piú ancora di quello di un locale riscaldato. Peino, tutto contento, affermò che aveva quasi finito la sua costruzione e che saremmo andati a provarla nel prato lí vicino. Quando terminò quel suo lavoro, mi disse che doveva dar da mangiare alle bestie; e cosí, aggiunse, avrei dovuto aspettare ancora un po'. Salí quindi sul fienile, servendosi di una scala a pioli, poi cominciò a far scendere del fieno attraverso una botola, e quando fu abbastanza, scese, però non piú dalla scala ma saltando giú sul mucchio che aveva fatto. Appena mi fu vicino disse che, se volevo, avrei potuto farlo anch'io; ma io non ero troppo entusiasta del gioco che mi proponeva, e poi non ero neanche a mio agio in quell’ambiente, cosí non ripeté l'invito e cominciò a portare il fieno nelle mangiatoie. Uscimmo quindi dalla stalla con la slitta e ci avviammo per provarla. Passando vicino ai vecchi sci di frassino, Peino disse che avrebbe avuto bisogno di un paio di pattini come quelli, ma che comunque sperava che la sua costruzione sarebbe scivolata ugualmente. Nel prato, però, la slitta non superò l'esame. Lí la neve non era battuta, e la slitta s’impuntava e non c'era modo di farla andare. Ritornammo nell'aia e Peino, un po' ama-reggiato, affermò che se la volevo, la potevo prendere, perché lui me la regalava. Poi m’invitò in casa, a scaldarci dove c'era la stufa. Entrammo

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in una grande stanza al pian terreno, che serviva alla sua famiglia come cucina e come sala da pranzo. Al tepore della stufa, in quel locale c'erano dei vecchi, fra cui anche i suoi nonni, e con loro rimanemmo un po' a par-lare. Peino mi promise che in primavera mi avrebbe fatto vedere dove il pettirosso costruiva il suo nido. I suoi nonni mi chiesero di chi ero figlio e mi dissero che conoscevano specialmente mio nonno, che era muratore e che aveva lavorato per loro. Mi offrirono qualche noce, delle nocciole e anche una bevanda. Poi Peino mi accompagnò per un po' verso casa. Era già quasi buio e con il mio regalo raggiunsi la bottega dove il mio papà e la mia mamma mi stavano aspettando. Ovviamente, la prima do-manda che mi fecero fu dove avessi preso la slitta. Io raccontai l'espe-rienza con Peino, del suo regalo, che, comunque, sarebbe servito solo come legna da ardere se non si trovava un paio di pattini da applicare sul-le assi sagomate. La mia mamma, allora, si ricordò di una slitta, con la quale avevano giocato i suoi fratelli parecchi anni prima. Era simile a quella che avevo portato a casa, ma aveva i pattini e scivolava benissimo. Cosí il giorno dopo mi recai da mia nonna, nella casa poco fuori il pae-se, per cercare ciò che rimaneva della slitta dei miei zii. L'intera slitta senz'altro non esisteva piú, perché se no l'avrei vista, ma forse almeno i pattini da qualche parte c'erano ancora. Aiutato da mia nonna, ne tro-vammo ancora uno fra gli attrezzi di lavoro di mio nonno. L’altro, mia nonna mi disse che si era rotto e che non esisteva piú. Mi disse anche che la slitta che aveva quel pattino l'avevano costruita i fanciòt – lei li chia-mava cosí –, quando uno di loro, doveva essere senz'altro Giovanni, ave-va lavorato un po' come garzone dal saruné (il fabbro di campagna di quelle parti) alla Vassa, la frazione giú nella valle dove lei era nata e dove aveva trascorso la sua infanzia. Io sapevo benissimo di chi parlava, per-ché il figlio di quel saruné era proprio il mio compagno di banco e da lui andavo spesso a giocare d'estate. In quelle occasioni avevo visto il suo papà lavorare nella sua officina per preparare attrezzi di lavoro per la campagna, applicare i cerchi di ferro alle ruote dei carri e poi temprare quei cerchi nell'acqua della bialera che scorreva sotto la sua casa, proprio per averla comodamente a disposizione per quelle operazioni. Quel pattino, bisognava farlo bastare, e l'unica soluzione era di tagliar-lo in due. L’operazione, però, richiedeva l’impiego di una sega a nastro,

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come quella che aveva il papà del mio compagno; ma per questo si pote-va anche chiedere al falegname in paese se poteva fare lui quel lavoro. Cosí mi recai nel suo laboratorio e lui, esaminando il pattino, mi disse che non avrebbe voluto nessun compenso, perché non era sicuro che il pattino avrebbe sopportato, senza rompersi, il taglio. Era già stato inchio-dato e c’era la possibilità che si rompesse. Io gli risposi che avrei accetta-to il rischio e che d’altronde di un pattino solo non avrei saputo cosa farmene. Il falegname, allora era un giovanotto di poco piú di vent'anni e da poco aveva sostituito il vecchio artigiano che per tanti anni aveva la-vorato in paese. Egli iniziò la delicata operazione, che andò a buon fine e per questo era piú contento lui di me. Con l'aiuto del mio papà, applicai i due pattini alle assi che Peino ave-va sagomato, e la sua costruzione fu pronta per il nuovo collaudo. Adesso scivolava benissimo e con essa ci divertimmo, io e i miei compagni, sulla neve di quei giorni e di altri inverni.

Le colline di Langa (sulla destra la “Madonna della Rovere”).

– Archivio Fondazione Cesare Pavese.

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Due passi fino al Monte dei Cappuccini

Due passi fino alla chiesa dei Cappuccini sono sempre stati, per me, una delle piú belle passeggiate che si possano fare a Torino. Arrivare al piaz-zale della chiesa, ammirare il magnifico panorama, entrare in chiesa, rac-cogliersi un po’ in quel luogo cosí carico di storia e di religiosità, servono per comprendere meglio i veri valori della vita. Forse per il sottoscritto questo è ancora piú vero, proprio perché “I Cappuccini” è stata piú volte la meta domenicale per il mio papà e per me, quando io ero un ragazzo. Noi abitavamo in via Santa Giulia, a poche centinaia di metri da dove a-bito oggi, e quindi quando ci torno mi sembra di rivivere quei giorni, con il mio papà. Il percorso per arrivarci è lo stesso. Si passa nella grande piazza – piazza Vittorio Veneto – contornata da antichi palazzi, dai porti-ci tutto intorno, e poi, dopo aver attraversato il ponte napoleonico – il vecchio “Ponte di pietra” –, si affronta la salita per arrivare sul piazzale della chiesa. Fino a qualche giorno fa, passando in piazza Vittorio Veneto, non si poteva fare a meno di notare il grande cantiere operoso per costruire il posteggio sotterraneo che dovrà servire per contenere le auto che veniva-no posteggiate in superficie, sulla piazza, ma che ai tempi delle gite con il mio papà non esistevano. Quelle macchine erano diventate un vero pro-blema e il parcheggio, speriamo lo possa in parte risolvere, anche perché la piazza è bellissima e non merita certo di essere un enorme contenitore a vista d’auto in sosta. Il “Ponte di pietra”, poi, è il piú antico ponte sul Po. Fu costruito per volere di Napoleone Bonaparte e sostituì il vecchio e “traballante” ponte di legno e pietra, allora unico ingresso esistente in cit-tà oltre il fiume. Napoleone l’aveva fatto costruire per dotare la città di un degno ingresso e sarebbe in seguito anche servito per unire meglio la Vi-gna del Cardinal Maurizio, la cosí detta “Villa della Regina”, residenza estiva della regina, a piazza Castello, sede del Palazzo Reale. Il “Ponte di pietra” ha resistito a molteplici alluvioni, ai bombardamenti dell’ultima guerra, e per Torino è uno dei simboli piú importanti e belli. Attraversato il ponte si ha di fronte la grande chiesa della Gran Madre di Dio, che è stata costruita sul modello del Pantheon di Roma.

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Anch’essa è un altro importante simbolo di Torino, ed è addirittura legata alle vicende del Sagro Graal − si pensa che il misterioso luogo in cui il Sacro Graal è conservato possa essere svelato proprio da “qualcosa” di questo luogo. Tutto questo, però, forse è leggenda, ciò che invece è realtà è che sotto la grande chiesa è situato l’Ossario che conserva la memoria dei 4000 soldati torinesi caduti nella prima guerra mondiale. Tornando alla passeggiata, all’ultima arcata del ponte, a monte del fiume, non si può far a meno di notare le tante anatre selvatiche e, se si è fortunati, anche i grossi cavedani che “pasturano”, e cioè si cibano ove l’acqua è bassa, oppure rimanendo immobili controcorrente. Per me, poi, questo luogo, oltre al fascino del fiume e della sua vita, fa sempre venire in mente una storia di partigiani che ho avuto modo di ascoltare proprio dal protagonista.

Quel giorno, al ristorante Cucco di corso Casale, il capo dei parti-giani delle Langhe, Piero Balbo, alias Poli, alias Nord del Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, era invitato, per il pranzo, con un gruppo di suoi uomini. Loro erano arrivati dalle Langhe per liberare Torino e Poli, in quell'occasione, doveva concordare con gli altri capi l'azione da compiere. Fra i partigiani presenti c'era anche Pasqualin che, con altri suoi compagni, avrebbe pochi giorni dopo accompagnato al cimi-tero il comandante Pinin, padre di Poli, caduto a Valdivilla nell'ultimo scontro di febbraio. Dopo che ebbero ben mangiato, gli uomini di Poli, momentanea-mente congedati dal loro comandante, si recarono verso piazza Vitto-rio. Sul “Ponte di pietra” fatto costruire da Napoleone, alcuni partigia-ni di un altro gruppo, rivolgendosi a Pasqualin, si lamentarono del fat-to che loro erano a digiuno, mentre c'era chi aveva pranzato in un buon ristorante di Torino. Pasqualin, a disagio per essere stato uno dei privilegiati, volle ristabilire in qualche modo le cose. Visto che nelle acque del Po, sotto le arcate del ponte, erano fermi alcuni grossi cavedani ad alimentarsi controcorrente, come fanno spesso, sganciò dalla sua cinghia una delle bombe a mano che aveva con sé, e rispose che si poteva rimediare. Quel gruppo di cavedani, anche se non cuci-nati come al Cucco, poteva costituire un buon pranzetto per chi era a

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digiuno. Detto fatto: la bomba esplose nell'acqua e i pesci, a pancia in su, furono recuperati dai partigiani. In piazza Vittorio molti erano gli uomini presenti, ma su per via Po nessuno si era ancora avventurato. Sotto i portici, con circospezione, qualcuno cominciò ad avviarsi verso piazza Castello. All'altezza di via Rossini, ecco uno sparo, poi un altro. Pasqualin in un attimo realizzò: “Vuoi vedere che dopo essere scampato a tanti pericoli in guerra e da partigiano, vado a rimetterci proprio adesso la pelle, steso da qualche cecchino, che dalle mille fi-nestre di questa città può sparare anche senza essere visto!” Questa considerazione non aveva ancora finito di passargli per il cervello, che un forte colpo sulla cinghia, dove c'era il moschettone che era servito per sostenere la bomba appena fatta esplodere, lo scos-se. Subito si rese conto che una pallottola lo aveva colpito e che il mo-schettone l'aveva per sua fortuna deviata, forse salvandogli la vita. In-dividuata la soffitta di via Rossini da cui sparava il cecchino, dopo a-verlo catturato, qualcuno si occupò di chiudere il conto con lui. Pa-squalin e i suoi compagni finirono la loro opera a Torino e poi, tutti insieme, tornarono a casa. La guerra era veramente finita. Oggi Pasqualin è qui con me, a discutere del piú e del meno, seduto vicino alla pompa di benzina del paese. Ecco una macchina a far ben-zina. Scende un uomo alto e dal portamento elegante, anche se l'età ha lasciato il suo segno. Con sua figlia, è venuto dal paese vicino fin qui, con una scusa, per rivedere i luoghi della sua gioventù. È Poli che, ri-conosciuto Pasqualin, lo saluta con un cenno, viene a scambiare qual-che parola e poi riparte. Pasqualin questa storia me l’ha raccontata qualche anno fa, durante le vacanze estive a Cossano Belbo, il mio paese natale, su nelle Lan-ghe. Pasqualin è un signore coetaneo della mia mamma, classe 1920, e con lui ci si trovava per trascorrere in amicizia e in serenità qualche ora. – Pasqualin, in realtà, mi ha raccontato episodi dell’Aprile ‘45 a Torino, a cui ha partecipato: io, liberamente, li ho messi insieme ed ho costruito il racconto. – Lui è una persona che ha tanti valori da tra-smettere e con cui fa piacere discorrere. Oggi è un pensionato, ma ne-

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gli anni passati è stato un viticultore ed anche un vinificatore. Il mo-scato e il dolcetto erano le uve che coltivava e che vinificava. Nel lon-tano 1962, quando la mia famiglia si era trasferita a Torino, alcune bottiglie del suo dolcetto erano state portate dal mio papà con le mas-serizie del trasloco, e quel vino era servito a farci sentire ancora un po’ nelle Langhe.

Attraversato il ponte, le strade per raggiungere “I Cappuccini” sono due: una diretta ma piú ripida, e un’altra che sale con minor pendenza, costeggiando il piccolo colle. Tutte e due s’incontrano a qualche centi-naio di metri dalla chiesa, e da lí inizia l’ultimo tratto di ripida salita. Sa-lendo dalla via meno ripida si può intravedere, fra gli alberi, alla destra della strada, il Po nella zona dei Murazzi, con i due battelli, Valentina e Valentino, che hanno sostituito le tante barche di legno che fino a qual-che anno fa erano presenti al loro posto negli imbarcaderi che oggi, pur-troppo, non esistono piú − anche Cesare Pavese li ricorda in qualche suo racconto −. Sulla sinistra, invece, si può ammirare la bellissima “Villa Cappuccina”, una splendida costruzione che campeggiava già nelle vec-chie foto del colle ad inizio Novecento, quando la zona lí attorno non era ancora stata edificata. Raggiunto il piccolo piazzale della chiesa ci si trova al cospetto di una grande statua della Madonna, vicino alla quale è stata collocata la cancel-lata che per tanti anni è stata davanti alla grotta di Lourdes, dono agli o-perai torinesi. La Madonna è rivolta in atteggiamento di preghiera verso la città, e sullo sfondo si vede il simbolo piú noto di Torino: la Mole An-tonelliana. La Sua è un’immagine molto suggestiva, e di una profonda re-ligiosità. Dal piazzale, poi, si può ammirare uno dei piú bei panorami di Torino, con le Alpi a fare da corona. La chiesa è molto antica, è del diciassettesimo secolo, e ha subito pro-prio ultimamente un accurato restauro. Entrando, si rimane subito avvolti in un’atmosfera particolare e raccogliersi in preghiera è ovviamente il gesto piú naturale che si possa fare. La storia, poi, ha fatto anch’essa la sua parte, in questo luogo. La sommità del colle è stata, in occasione degli assedi subiti dalla città – 1640, 1706 e 1799 –, il punto dove gli assedianti avevano collocato delle

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postazioni per cannoneggiarla. I difensori, dall’interno delle mura (nel 1799 in particolare dalla Cittadella), avevano cercato di rispondere, e sul-la facciata della chiesa e del convento, a fianco della chiesa medesima, sono visibili le palle di cannone che vi si conficcarono durante gli scontri. Durante la guerra civile in Piemonte – 1640, 1642 – inoltre, un gruppo di soldati francesi (si disse degli Ugonotti al soldo dei francesi) si era intro-dotto nella chiesa dove si erano rifugiati, con i frati del convento, diversi fedeli, e come belve inferocite avevano compiuto un terribile eccidio. Uccisero senza pietà, uomini, donne, bambini, chi capitava. Arrivarono probabilmente persino ad uccidersi fra loro, per impossessarsi di quanto piú prezioso c’era nella chiesa, l’ostensorio nel tabernacolo. I segni di quel massacro sono ancora ben visibili su una porta a destra dell’altare entrando in chiesa. Anche il tabernacolo presenta i segni dello scasso, e l’eccidio fu talmente brutale che si arrivò persino a pensare che la stessa immagine di Gesú avesse folgorato il soldato che la stava profanando. Lasciati “I Cappuccini”, con un pensiero ai frati del convento che da sempre praticano la regola di povertà e di servizio verso i bisognosi, ridi-scendo l’erta e questa volta, dopo l’incrocio, prendo l’altra strada, quella non percorsa durante la salita. Alla mia destra ho di nuovo la Gran Madre di Dio: se ne scorge la cupola e poi la sagoma laterale. Attraverso il grande corso e mi riporto sul “Ponte di pietra”. Vorrei ritornare a casa, ma, dopo il ponte, nella grande piazza, ho il desiderio di ripercorrere luo-ghi che sono legati alla mia infanzia. Da bambino ero venuto alcune volte a Torino, in visita ai parenti che vi abitavano. Via Giolitti, via Della Roc-ca, piazza Maria Teresa erano i luoghi, vicini a piazza Vittorio, ma dalla parte opposta rispetto alla mia attuale abitazione, dove loro abitavano. Si sa, l’immagine di un posto che si acquisisce da bambino è quella che poi rimane nella mente per tutta la vita. Cosí è successo a me. Mi è rimasta, quindi, sempre una certa nostalgia e tutte le volte che posso, passo sem-pre da quei luoghi. Ci sono antichi palazzi, uno è dell’Antonelli ed è pro-prio uno di quelli dove abitavano i miei parenti. L’ultimo piano di quel palazzo, come molti altri di Torino, era allora adibito all’affitto, anche di gente umile: operai o piccoli artigiani con le loro famiglie. Gli altri piani, invece, erano l’abitazione dei proprietari o erano riservati ad un ceto piú

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elevato: medici, professionisti, avvocati ecc. I miei parenti erano operai e abitavano all’ultimo piano. Oggi quei piccoli alloggi sono stati ristruttu-rati e riqualificati e sono diventati dei costosi attici. Quando venivo a To-rino con i miei genitori, salivo quegli interminabili scalini, – erano cinque piani, allora non c’era l’ascensore, – passando davanti, a ogni piano, ad ingressi lussuosi, non certo come quelli a cui ero abituato. Ma poi, arriva-ti all’ultimo piano, mi ritrovavo in un mondo diverso: c’era un unico ser-vizio che era utilizzato da tutte le famiglie, la gente era umile e l’atmosfera un po’ quella del paese. L’alloggio dei miei parenti era costi-tuito, come tutti gli altri, da un’unica lunga stanza che era stata tramezza-ta per ottenere una zona giorno e una zona notte. Erano i cosiddetti mez-zanini: di peggio c’erano solo le soffitte, che peraltro esistevano nel pa-lazzo ed erano raggiungibili al fondo del lungo corridoio dove c’era un cancello di ferro a chiudere la parte comune dei mezzanini. Erano abita-zioni modeste, ma dal piccolo balconcino c’era una vista stupenda: si ve-devano la collina e “I Cappuccini”. A questo punto, la passeggiata ai Cappuccini sarebbe terminata, ma due passi in piú si possono ancora fare, perché siamo in uno dei piú bei luoghi di Torino. Lí vicino ci sono i Giardini Cavour, che sono splendidi. Negli anni Settanta ricordo che ci girarono alcune scene del film Amore e Ginnastica, con Lino Capolicchio e Senta Berger. Quel film era ambien-tato nella Torino di fine Ottocento ed era stato girato nei luoghi piú carat-teristici della città. Fra via Giolitti e via San Massimo, la via che poi diventa via Monte-bello e che costeggia la Mole Antonelliana, c’è un antico palazzo. Oggi è la sede del museo di Scienze Naturali, ma fino a qualche anno fa era la residenza della Facoltà di mineralogia – dal lato su via San Massimo – e del grande Ospedale Maggiore San Giovanni. Questo era il piú antico o-spedale della città, ed io lo ricordo bene, perché il mio papà e la mia mamma, in periodi diversi, vi sono stati ricoverati. Al suo interno c’erano delle grandissime camerate, disposte a croce, e al centro, per l'appunto, una grande Croce ed un piccolo altare. C’era un’atmosfera particolare, tanto che una sua descrizione difficilmente potrebbe dare un’idea della realtà. I malati erano come in una grande comunità, e questo serviva senz’altro a creare i presupposti per una futura guarigione. Ricordo, in

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particolare, un episodio di cui sono stato testimone in quelle grandi came-rate. Ero accanto alla mia mamma durante l’ora di visita e, ad un tratto, si sentirono alcune urla. Era un chirurgo, vestito con gli stivaloni e il cami-ce verde, proprio come in sala operatoria, che ordinava in modo perento-rio, agli infermieri presenti, che cosa avrebbero dovuto fare. Lui era il Primario di Chirurgia, il prof. Gugliemini, e l’avevano chiamato perché una paziente aveva un’emorragia e stava morendo. Quella paziente non si poteva piú trasportare e quindi misero un paravento, arrivarono gli assi-stenti del Professore con tutto l’occorrente in grandi carrelli d’acciaio, e il Professore la operò direttamente in corsia. Aveva sconfitto la morte anco-ra una volta. Quell’episodio non lo potrò mai piú dimenticare, anche perché mi ave-va in particolar modo colpito la notizia, qualche anno dopo, del decesso del figlio del Professore, a seguito di un incidente stradale. Lo avevano portato, in fin di vita, al suo papà. Lui lo aveva operato, ma non lo aveva potuto strappare all’inevitabile morte, che quella volta ebbe la sua rivin-cita. Io non so bene, ma il prof. Gugliemini, dopo di allora, mi pare che non abbia più operato. Visto che siamo un po’ ai ricordi e già all’inizio, con il racconto di Pa-squalin, ho parlato di Partigiani, da via Giolitti a via Maria Vittoria ci so-no pochi passi, e in quest’ultima via c’è il palazzo che fu l’abitazione di Erich Giachino. Lui faceva parte del Comitato militare del Clnrp ed è sta-to uno dei Martiri fucilati al Martinetto durante la Resistenza. Erich Giachino è stato, peraltro, studente all'Istituto “Sommeiller”, do-ve io ho insegnato per dieci anni, ovviamente quando l’Istituto aveva u-n'altra sede e quando i tempi erano molto diversi da quelli attuali. Con la sua famiglia egli abitava in via Maria Vittoria 32, non molto distante dal Po e da quella che i torinesi abitualmente chiamano piazza “Carlina” (piazza Carlo Emanuele II). Lui è uno degli otto Martiri fucilati dai fa-scisti al Martinetto, nel 1944, e per il suo impegno nelle fila della Resi-stenza, è stato insignito di un'altissima onorificenza al Valor militare.

Giachino fu il primo degli otto Martiri a cadere in mano alla polizia fascista. Fu arrestato il 14 marzo 1944: aveva ventotto anni, era geo-

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metra e laureando in scienze commerciali, ufficiale dell'esercito. Il suo destino, che doveva prima portarlo, insieme ad altri quattordici uomi-ni, sul banco degli imputati di fronte al Tribunale speciale, e poi con sette di loro davanti al plotone d'esecuzione, era segnato da molti anni. Era nato in una famiglia socialista: il padre faceva il parrucchiere tea-trale, la madre era una cittadina tedesca – la signora Caterina Wild – che aveva con tutto il cuore abbracciato la nazionalità italiana. Dopo l'8 settembre Errico era tornato a casa e si era dato all'attività clande-stína; durante l'inverno era entrato a far parte del gruppo socialista di Bonfantini in seno al Cln, e dallo stesso Bonfantini – succeduto a Re-nato Martorelli come rappresentante nel Comitato Militare – era stato delegato a prendere il suo posto quando egli, ferito, aveva dovuto re-stare qualche tempo nell'ombra. Giachino aveva un temperamento fiero, ereditato dalla madre. Quando fu arrestato, gli offrirono la vita in cambio della sua collabo-razione all'esercito della Repubblica di Salò. Egli rispose: «Preferisco la morte piuttosto che piegarmi al volere dei vili». Era stato abituato in famiglia a non aver paura delle gravi responsabilità. Suo padre e sua madre avevano dato per settimane ospitalità ad un ebreo, un alto funzionario delle ferrovie della Croazia, per aiutarlo a sfuggire alla caccia dei nazisti. Egli aveva voluto che l'israelita dormisse nel suo letto. Era un giovane robusto, fiero, di carattere allegro. Da ragazzo era stato anche un ottimo sportivo, al punto da essere selezionato per la squadra nazionale d’atletica leggera: era campione dei cento e dei duecento metri. Tornato a casa, dopo l'armistizio, aveva trovato suo padre che, oltre ad ospitare ebrei, fabbricava parrucche, barbe e baffi finti per gli anti-fascisti che dovevano compiere qualche missione pericolosa e voleva-no passare inosservati. I fascisti forse capirono qualcosa. Dopo la tra-gica fine di Errico, andarono da suo padre a chiedergli di lavorare per loro: desideravano trucchi di scena per certi travestimenti. Papà Gia-chino disse che era malato, e che aveva troppo sofferto per la morte del figlio. Arrestarono lui e la moglie, ma in seguito li rilasciarono.

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Il papà e la mamma di Giachino avevano un desiderio del figlio da esaudire: mettere tutti i giorni un mazzo di rose rosse sul suo pianofor-te, nella camera che lui aveva occupato fin da ragazzo. «Mio figlio amava la musica – dirà il papà di Giachino che viveva nel culto del figlio morto –; il cappellano che lo ha assistito nelle ul-time ore mi ha detto che Errico voleva comporre in carcere, la notte prima della fucilazione, un'«Ave Maria». Non aveva carta penta-grammata, e non poté realizzare quel desiderio». Di lui, oltre ai ricordi, e oltre alla medaglia d'oro al Valor militare, è rimasta ai suoi vecchi una lettera in cui è scritto, fra l'altro: «Sarò sempre presente fra voi e vi dovete figurare solo che io sia partito per un lungo viaggio dal quale un giorno ritornerò».

(Queste poche righe – che sono a cura di Carla Gobetti – sono tratte dal libro Camminarono sulla linea dell'onore, di G. Pansa, edito dalla Provincia di Torino – 5 Aprile 1964)

Per i ragazzi della mia scuola, qualche tempo fa, ho costruito una pagina web con qualche fotografia che potesse ricordare Giachino, in particolare i luoghi in cui è vissuto. Mi sono per questo recato in via Maria Vittoria con l'intento di fotografare almeno l'edificio o il porto-ne di quella che era stata la sua abitazione. Avrei cercato anche qual-che lapide che lo ricordasse. In città ce ne sono parecchie, nei luoghi dove sono avvenute le fucilazioni, oppure per indicare l'abitazione o il quartiere del Patriota. Nella zona dove abito ce ne sono un paio che ri-cordano Quinto Bevilacqua, un altro degli otto Martiri del Martinetto, ma di Giachino non avevo mai notato, in via Maria Vittoria, o nei pressi, alcuna lapide. Arrivato sul posto, sconsolato, ho inquadrato il portone del n.32 e ho scattato una fotografia. Un signore mi ha notato e molto gentilmente mi ha chiesto quale fosse il mio interesse. Gli ho spiegato ciò che cercavo e lui mi ha invitato ad aspettare un attimo. Mi avrebbe aperto il portone passando dal suo negozio, e nell'androne avrei potuto fotografare la lapide posta a ricordo di Giachino. Avevo trovato quel che cercavo: ma che ragione c'era stata di collocare quella lapide in un luogo dove solo i condomini del palazzo potevano veder-

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la? Non mi diedi subito una risposta e, un po' al buio, scattai altre due fotografie, una alla lapide e l'altra all'androne. Ringraziai il signore per la sua gentilezza e, parlando con lui, scoprii che aveva del Martinetto dei ricordi simili ai miei, essendo piú o meno della mia età e avendo vissuto da ragazzo in via Pianezza, proprio nei pressi del vecchio po-ligono. Tornando a casa, ripensai a quella lapide. Era molto bella, di un bel marmo verde, con le scritte incise e dorate. Ma certo, fino a qualche tempo fa, i portoni delle vecchie case di Torino erano sempre aperti, di giorno. Tutti potevano vederla nel dignitoso androne del pa-lazzo che era stato l'abitazione di Giachino. Oggi, con i citofoni e sen-za piú le portinerie, i portoni sono tutti chiusi, e anche la città ha cam-biato un po' la sua fisionomia.

Da via Maria Vittoria mi dirigo in piazza Carlina. Lí c’è il palazzo in cui abitò Gramsci. Una lapide di fianco al portone lo ricorda. Nell’Ottocento la piazza era una delle piú importanti della città. C’era il mercato del vino e, fino all’inizio di quel secolo, era anche stata adibita alle esecuzioni capitali. La ghigliottina e la forca vi avevano fatto il loro lavoro, prima che il patibolo fosse spostato al noto “Rondò della Forca”. Nella piazza c’è anche un bellissimo palazzo la cui facciata è stata dise-gnata da Filippo Juvarra, l’architetto siciliano che ha legato il suo nome a tante belle opere in Torino e nei dintorni di Torino Camminando arrivo in via Po e lungo i portici mi avvio verso piazza Vittorio. Qui hanno passeggiato Carlo Alberto, Vittorio Emanuele II e penso proprio tutti i Torinesi. Passo davanti a quello che era il vecchio cinema Po. Ci andavo da ragazzo a vedere i film di Gianni Morandi o i western all’Italiana di allora. Era un cinematografo molto piccolo, quasi un lungo e stretto stanzone. Oggi, peraltro, è stato rimesso nuovamente in funzione, dopo una piú moderna ristrutturazione. In questo locale Cesare Pavese andava a vedere i film americani che ai suoi tempi vi venivano proiettati, e sarebbe stato un vero peccato se fosse sparito. Dall’altra parte della via, sempre sotto i portici, c’è lo storico Caffè Fiorio. È uno dei piú antichi e il suo interno è ancora proprio com’era nell’Ottocento. Questo locale è stato frequentato da tutti i torinesi che contavano e fra questi Massimo d’Azeglio – il suo palazzo è a pochi passi dal caffè –, Rattazzi,

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Lamarmora e, in qualche breve apparizione, lo stesso Cavour. Si dice persino che il Re Carlo Alberto tenesse molto a sapere ciò che si diceva all’interno delle sue mura, proprio perché vi si ritrovavano le più impor-tanti personalità della città. Continuo a camminare e poco prima di piazza Vittorio passo davanti alla grande chiesa dell’Annunziata. Nei giorni della Liberazione, in que-sta parrocchia si trovò a prestare il suo servizio don Viale, “Il Prete Giu-sto”. Nuto Revelli ha scritto la sua storia e tutti la dovrebbero conoscere. Don Viale, fra l’altro, con i suoi parrocchiani di Borgo S. Dalmazzo, du-rante la guerra aiutò e salvò tantissimi ebrei in fuga, e per questo è stato insignito di un’altissima onorificenza israelita: don Viale è un “Giusto in Israele”. Giunto in piazza Vittorio, passo davanti al portone del palazzo che fu l’abitazione del povero Lucentini, lo scrittore che con Fruttero ha scritto tanti bei libri e che purtroppo, come altri scrittori torinesi, ha lasciato questo mondo in un modo tragico. Giro in Via Giulia di Barolo – la via è intitolata alla Marchesa che, con gli altri benefattori del suo tempo, tanto fece per Torino e per la gente di Torino – e mi avvio verso casa. Passo sotto la “Fetta di Polenta”, lo stra-no edificio che Antonelli aveva fatto costruire, forse per scommessa o per ripicca. È un palazzo di cinque piani, con il lato verso corso San Mauri-zio di circa quattro metri, ma, dall’altra parte, con dimensioni di non piú di un metro. C’è chi afferma che l’Antonelli l’abbia costruito per dimo-strare che era in grado di progettare ciò che nessuno, ai suoi tempi, era in grado di fare. – Se fosse rimasta in piedi la “Fetta di Polenta”, che è in muratura, an-che della Mole non ci si sarebbe dovuti preoccupare.

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Erich Giachino

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Il Monte dei Cappuccini

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Incontri importanti

Durante l'anno scolastico 2003-2004, all’Istituto “Germano Sommeiller” di Torino, dove ho insegnato per dieci anni informatica, sono stati orga-nizzati alcuni incontri-studio per commemorare il 25 Aprile e la Resi-stenza. In particolare, durante gli incontri è stato possibile ottenere il con-tributo di alcuni Testimoni e Protagonisti illustri di quei tempi. Sono il dott. Pedussia e il dott. Pistoi – due ex allievi dell’Istituto, il primo Fon-datore del Movimento universitario antifascista, il secondo Comandante Partigiano e protagonista di diverse imprese eroiche – che ci hanno rac-contato un po' della loro vita e ci hanno permesso di capire e di rivivere momenti importanti del periodo resistenziale. Alcuni studenti hanno poi assistito, presso il carcere “Le Nuove” di Torino, ad una commemorazione dei “Martiri del Martinetto”, nel 60° anniversario dai fatti del 1944. Un'altra manifestazione è stata quindi organizzata presso la nostra scuola – anche questa dedicata ai Martiri del Martinetto – e ha potuto annoverare gli interventi di Gisella Giambone, Carla Gobetti, Aldo Pe-dussia, Ennio Pistoi e la presenza di Giovanni Perotti. In quest’occasione è stata ricordata, in particolare, la figura di Errico Giachino, ex Allievo dell’Istituto – uno degli otto caduti al Martinetto.

..... Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. Guai se i giovani d’oggi dovessero crescere nell'ignoranza, com’eravamo cresciuti noi della “generazione del Littorio”. Oggi la libertà li aiuta, li protegge… La libertà è un bene immenso, senza libertà non si vive, si vegeta..... Nuto Revelli

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«Sono pienamente cosciente della sorte che mi sarà riservata qualora fossi cattura-to» diceva il giuramento dei patrioti piemontesi. I combattenti della Resistenza erano consapevoli di quale potesse essere il prezzo della libertà: tutti i partigiani che cadde-ro nella lotta di liberazione affrontarono la morte con lo stesso coraggio degli otto membri del Comitato Militare. – Franco Balbis. – Quinto Bevilacqua. – Giulio Bi-glieri. – Paolo Braccini. – Errico Giachino. – Eusebio Giambone. – Massimo Mon-tano. – Giuseppe Perotti.

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Sono passati molti anni, ormai sessanta, da quando nel 1944, al Marti-netto è avvenuta la fucilazione degli otto patrioti della Resistenza, che ogni anno la città di Torino commemora nell’anniversario del loro sacri-ficio. Quel pezzo del vecchio poligono di tiro, sacrario simbolo della Re-sistenza, luogo dove sono state eseguite le fucilazioni di tanti patrioti, è ancora lí per ricordarci che la libertà di cui oggi godiamo la dobbiamo soprattutto a quei caduti, accomunati a molti altri che hanno subito la stessa sorte in tanti altri posti. È proprio per non dimenticare che, sabato 3 aprile 2004, al carcere “Le Nuove” di corso Vittorio, ormai dismesso dalla sua funzione di penitenziario, è stata organizzata una loro comme-morazione, a cui l’Istituto “Sommeiller” ha partecipato con la presenza di due classi accompagnate dalla prof.ssa Buzzi e dalla prof.ssa Scalabrino. Nella cappella ancora consacrata del vecchio carcere di Torino, si sono ritrovati studenti, testimoni e protagonisti della Resistenza. Fra gli altri: il dott. Pistoi, ex allievo del nostro Istituto e comandante partigiano, Gino Baracco, il comandante del C.L.N. che ebbe un ruolo molto importante durante la liberazione di Torino, il figlio del generale Perotti, uno degli otto uomini fucilati al Martinetto. La manifestazione è stata toccante e carica di significato, e il luogo stesso in cui è stata realizzata ha contribuito ad aumentare la suggestione ed il coinvolgimento dei partecipanti. Il carcere “Le Nuove”, luogo dove tante persone hanno scontato la lo-ro pena, è anche stato il carcere dove sono stati rinchiusi molti antifasci-sti, fino ai giorni della liberazione di Torino. In particolare, proprio in questo luogo molti condannati a morte, poi fucilati al Martinetto, hanno trascorso gli ultimi giorni della loro vita. Accomunati con i martiri della Resistenza non bisogna poi neanche dimenticare tutti i perseguitati che sono stati qui rinchiusi, e molto spesso deportati nei campi di sterminio nazisti, in conseguenza delle leggi razziali emanate durante il regime fa-scista e poi inasprite dalla Repubblica Sociale. Il Martinetto, le carceri “Nuove”, la tristemente nota caserma di via Asti, le carceri di via Ormea, l’albergo Nazionale, sono i luoghi in cui la Resistenza, a Torino, ha paga-to il piú alto prezzo, con la vita e la sofferenza di tante persone.

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Il Martinetto

Manifestazione alle Nuove

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Il Duomo di Torino è il luogo dove fu arrestata la maggior parte dei membri del Clnrp poi processati e condannati a morte nel ‘44.

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Vent'anni fa, nel freddo mattino del 5 aprile 1944, un carrozzone cellulare uscí dalle "Nuove", le carceri di Torino. Nel furgone v'erano otto condannati a morte, un sacerdote missionario della Consolata e due militi fascisti della Guardia nazio-nale repubblicana. Preceduto e seguito da due camion di poliziotti, il veicolo per-corse un breve tratto di corso Vittorio, svoltò in corso Ferrucci, proseguí lungo corso Tassoni e dopo pochi minuti si fermò dinanzi al poligono di tiro del Marti-netto. I condannati furono fatti scendere e vennero condotti contro il basso muro sbrecciato che chiudeva l'area del tiro a segno: qui era stata disposta una fila di sedie, e ad esse furono legati a uno ad uno. Quando giunse il momento della fine, tutti e otto gridarono: "Viva l'Italia libera!" Dal plotone d'esecuzione uno dei mili-ti repubblichini li scherní urlando: "Adesso ve la diamo noi l'Italia... ". Un istante dopo – erano le 7,10 – partí la scarica. Quegli otto fucilati erano i componenti del primo Comitato militare del Cln piemontese, arrestati l'ultimo giorno di marzo e sommariamente processati il 2 e il 3 aprile, dinanzi al Tribunale speciale fascista per la difesa dello Stato. Fra i con-dannati alla pena capitale v'erano antifascisti di tutti i ceti sociali e delle piú diver-se opinioni politiche, i quali – com'era avvenuto dappertutto in Italia – s'erano trovati a fianco a fianco nella lotta di liberazione, uniti dalla certezza comune di combattere per una giusta causa. Il piú anziano era Giuseppe Perotti, di 48 anni, padre di tre figli, generale di brigata del Genio, già ispettore delle unità ferrovieri mobilitate. Assieme a lui i fascisti avevano ucciso Franco Balbis, di 32 anni, capitano d’artiglieria in servizio permanente effettivo, il socialista Quinto Bevilacqua, di 27 anni, operaio mosaici-sta, Giulio Biglieri, di 32 anni, bibliotecario alla Nazionale di Torino, il professor Paolo Braccini, di 36 anni, del Partito d'azione, incaricato di zootecnia generale e speciale all'Università di Torino, il socialista Errico Giachino, di 28 anni, impie-gato e laureando in economia e commercio, il comunista Eusebio Giambone, di 40 anni, tornitore e Massimo Montano, di 24 anni, impiegato. (Questa pagina è a cura di Carla Gobetti ed è tratta dal libro Cammi-

narono sulla linea dell'onore, di G. Panza, edito dalla Provincia di Torino – 5 Aprile 1964.)

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Un incontro alla Rai

Eravamo nel 1994, e in quei giorni si era verificata l’ultima tremenda al-luvione in Piemonte. C’erano stati gravi danni nella valle del Belbo, della Bormida; il Tanaro aveva esondato in piú zone, e anche il Po, se ricordo bene, poco fuori Torino aveva creato notevoli problemi. Tutti i fiumi e i torrenti avevano provocato danni: notevoli erano stati quelli che si erano verificati nel territorio del paese delle Langhe da cui provengo. Quel pae-se è nella valle del Belbo, dove però da molto tempo non risiedo piú, fin da quando, nel lontano 1962, la mia famiglia si è trasferita a Torino. Non ho quindi vissuto di persona le alluvioni del 1968, del 1950, del 1994 a Cossano Belbo, dove sono nato. Non ho visto di persona che cosa il pic-colo torrente Belbo riesca a fare quando è in piena. Il paesaggio, quasi lunare, che la valle presentava l’estate successiva a quel novembre del 1994, quando, come in altri anni, mi sono recato a Cossano per trascor-rervi alcuni giorni di vacanza, non lasciava però dubbi sulla forza distrut-tiva che il torrente aveva prodotto. Delle altre alluvioni ho il racconto della gente del posto, dei miei famigliari, e sono racconti che rimangono impressi, quasi come se si fossero vissuti. Le vicende dell’ultima alluvio-ne, quella del 1994, le ho seguite attraverso le immagini che la televisio-ne trasmetteva – in quel periodo avevo comunque vicino a casa il Po, e il suo aspetto era veramente impressionante –. Quelle trasmissioni si susse-guivano e anch’io ebbi modo di assistervi in diretta, negli studi della Rai. La scuola in cui insegnavo, l’Istituto “A. Avogadro”, aveva ricevuto l’invito a parteciparvi, ed io, come insegnante, vi avevo accompagnato alcuni ragazzi. Ricordo, era anche intervenuto Nuto Revelli, lo scrittore di Cuneo, per mettere a disposizione la sua esperienza, la conoscenza dei posti, della gente dei luoghi dove si stava manifestando quel tragico e-vento. La valle Belbo, la valle Bormida, le Langhe, lui le conosceva be-ne, proprio come le zone attorno a Cuneo, dove aveva vissuto la sua vita. Revelli era molto conosciuto ed io lo avevo già visto altre volte in televi-sione. Una volta lo vidi di persona a Mango, quando era intervenuto ad un convegno sul mondo contadino. A Cossano Belbo, poi, aveva intervi-stato diverse persone per i suoi racconti, per le testimonianze. Era un o-

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mone con molta energia e di una gran gentilezza. Era stato ufficiale du-rante la seconda guerra mondiale, reduce della campagna di Russia, quindi Comandante Partigiano durante la Resistenza: una figura fonda-mentale. Ci sono persone di cui si è orgogliosi che siano della tua gente: Nuto Revelli è per me proprio una di quelle persone. Finita la trasmissio-ne, mi ero avvicinato a lui. Volevo salutarlo, scambiare qualche parola, mostrargli la mia ammirazione. Fui solo capace di stringergli la mano. Lui me la strinse: era una grande mano, paterna e sincera. Di lui avevo letto con particolare interesse Il Mondo dei Vinti, dove aveva raccolto le testimonianze di vita contadina, della montagna, della pianura e della col-lina del Piemonte. Le Langhe erano state le colline che lui aveva percorso (negli anni 70 possedeva una berlina “Giulia Alfa Romeo 1600”, e con questa andava ai convegni e in giro per il suo lavoro) per raccogliere te-stimonianze e storie per il suo lavoro di scrittore. Avevo rivisto in quel libro figure che avevo incontrato da bambino, quando con i miei genitori abitavo ancora nelle Langhe. Mi sentivo, per questo, quasi in debito con lui, proprio perché aveva saputo fissare, per sempre e con sincerità, le storie dei vecchi dei miei posti. Chi è nato in un piccolo paese e poi si è trasferito in altre zone, è maggiormente legato alle proprie tradizioni e al-la propria terra. Cosí gli scrittori come Nuto Revelli, Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, sono per noi “langheroli” dei punti di riferimento, dei testimoni indispensabili. Di Revelli, quando avevo avuto modo di strin-gergli la mano, non avevo ancora letto Il Prete Giusto, peraltro lui non lo aveva neanche ancora scritto (la prima edizione del Prete Giusto è del 1998). In questo piccolo libro Revelli ha raccolto la testimonianza di vita di don Raimondo Viale: “Il Prete Giusto” appunto. È una testimonianza molto importante, che dovrebbe essere conosciuta da tutti, specialmente dai giovani che in don Viale possono trovare l’esempio di un uomo che ha lottato per tutti, solo contro eventi tremendi come la seconda guerra mondiale, il fascismo, l’incompren-sione e la non riconoscenza da parte della Chiesa a cui apparteneva. Revelli era andato ad intervistarlo, quan-do ormai era già molto avanti negli anni ed era prossimo agli ultimi gior-ni di vita. Si era fatto accompagnare da un amico comune, come si legge nel libro Il Prete Giusto, nella parte introduttiva del capitolo “Dentro la storia: il mio dialogo con don Viale”.

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Ascoltiamo il suo racconto: « Era l’estate del 1982 quando don Raimondo Viale, il prete ribelle di Borgo San Dalmazzo, manifestò all’amico Mario Cestella il desiderio d’incontrarmi il piú presto possibile. Quale il motivo di tale urgenza? Aveva appreso che intendevo dedicarmi ad un’indagine sul clero della campagna povera, e voleva inserirsi nel discorso, ma subi-to, come se temesse di perdere l’ultima occasione di « consegnarmi » la sua storia di vita. […] Raggiunsi la « Casa di cura di Monserrato » nel pomeriggio del 27 agosto, in com-pagnia di Mario, l’amico generoso e fedele di don Viale. […] Incontrai don Viale in una piccola camera all’ultimo piano, poco piú grande del po-sto-letto. Solo la finestra che si affacciava sullo scenario delle colline offriva un po’ di respiro e rallegrava l’ambiente. Era mal ridotto don Viale, malato da tempo, ma mi accolse con un sorriso radioso che trasformò l’incontro in un momento di festa. Sistemai alla meglio il registratore perché non volevo perdere una sola delle sue parole, poi gli rivolsi questa domanda: « Che cosa ne pensi di una mia indagine sul clero della campagna povera? ». Ed ecco la sua risposta immediata, istintiva: « Anche i preti della Curia e i preti cittadini avrebbero delle cose importanti da dire. Ma non le dicono ». Mi osservò a lungo, come se attendesse una parola di consenso. E dal suo sguardo apparentemente sereno trasparivano una volontà di sfida e una carica polemica che preannunciavano la tempesta. Infine, con l’impeto di un fiume in piena, diede libero sfogo alla sua passione repressa: […] ».

Mi sembra anche interessante, a questo punto, riportare la sintesi sul retro di copertina del libro Il Prete Giusto di Nuto Revelli: « Il Prete Giusto è un libro amaro e appassionato. Ma è anche un appello grave perché venga fatta un'azione di verità e giustizia ». Corrado Stajano. II Prete Giusto è la storia di un uomo libero, don Raimondo Viale (1907-1984), costretto ad una sfida impari e solitaria con gli eventi piú aspri del Novecento. Ab-bandonato dalla Chiesa e malato, ha affidato a Nuto Revelli la memoria della sua vita. Sullo sfondo della campagna povera del Cuneese si snodano gli anni duri dell'infan-zia, della prima guerra mondiale, l'impegno nella parrocchia di Borgo San Dalmazzo fino allo scontro con i fascisti, le prediche coraggiose contro la guerra, l'imbarazzo della Chiesa, il confino. Poi, in un crescendo, i grandi drammi collettivi: l'8 settem-

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bre, le stragi naziste e fasciste, la persecuzione degli ebrei. E la scelta istintiva di schierarsi dalla parte giusta, con l’impegno prioritario, lui prete cattolico, di soccorre-re le centinaia di ebrei in fuga dalla Francia (che gli varrà il riconoscimento di «Giu-sto» in Israele). […] Nuto Revelli (Cuneo, 1919-2004), ufficiale degli alpini in Russia e protagonista della Resistenza nel Cuneese, si è battuto per anni per dare voce ai dimenticati di sempre: i soldati, i reduci, i contadini. I suoi libri sono tutti editi da Einaudi: La guer-ra dei poveri, La strada del davai, Mai tardi, L'ultimo fronte, Il mondo dei vinti, L'a-nello forte, Il disperso di Marburg, Le due guerre.

La valle del Belbo da Castino

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Nei dintorni del monumento a Fausto Coppi

La città di Torino è attraversata da un grande fiume, le cui sponde sono per la maggior parte naturali e bordate da alberi, con grandi sentieri su ambo i lati, spesso delle vere e proprie strade, per la gioia dei numerosi podisti e di chi vuole passeggiare, anche in bicicletta, al fine di trascorre-re qualche momento di relax, in un ambiente naturale e bellissimo. Una cosa che mi viene da dire a riguardo, è che già Don Bosco utilizzava le sponde del Po per le gite con i suoi ragazzi (la chiesa della Madonna del Pilone, situata proprio in riva al Po, ne era stata piú volte la meta). In re-altà, oggi si può facilmente, e senza il pericolo del traffico, costeggiare il fiume da Moncalieri fino a San Mauro, i due grandi abitati che sono ai la-ti della città. Per farlo si attraverseranno i bellissimi parchi delle Vallere e del Valentino, quindi si percorrerà il tratto dei Murazzi, l’unica parte del fiume che ha su uno dei lati non degli alberi ma un grande muraglione. In questo tratto c’è una larga strada asfaltata – dove, però, non passano le macchine – fra l’acqua e il muraglione stesso (qualche anno fa c’erano anche diversi imbarcaderi, dove si potevano affittare le barche per un’emozionante gita sul fiume). Superati i Murazzi, si percorreranno i “Lungo Po”, fino al ponte di Sassi, e dopo aver lasciato momentanea-mente il grande fiume, si entrerà nel parco della Colletta attraversando una passerella sulla Dora Riparia. Poche centinaia di metri ancora e s’incontrerà nuovamente il Po, alla confluenza con la Dora. Infine, oltre il ponte Barca e dopo alcuni chilometri, si giungerà al vecchio ponte di San Mauro. Tutta la passeggiata offre bellissimi scorci di panorama e permet-te di vivere in contatto con il fiume, con le sue sponde, tanto che sarà proprio il fiume, con la sua vita, a renderla ogni volta sempre nuova e af-fascinante. Ultimamente è stata anche inaugurata sul percorso, fra il pon-te di corso Regina e il ponte di Sassi, una bella passerella, proprio dove, qualche anno fa, è stato collocato il monumento a Fausto Coppi, l’indimenticato Campionissimo del nostro ciclismo. Siamo nei pressi del-la chiesa della Madonna del Pilone, che evoca ricordi, un po’ come quella dei Cappuccini. – Le due chiese sono quasi della stessa epoca, e anche la chiesa della Madonna del Pilone è legata ad un evento miracoloso. Fu in-

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fatti costruita in ringraziamento alla Madonna per aver fatto ritrovare una bambina che era caduta in acqua e che si pensava fosse ormai annegata. Si era nel diciassettesimo secolo e in quel luogo c’erano alcuni mulini che lavoravano anche per macinare piccoli quantitativi di grano. La gente li utilizzava e la bambina era venuta con la sua mamma dalla città, pro-prio per far macinare il poco grano di cui disponevano. Era solamente un piccolo sacchetto che richiedeva di essere trasformato in farina. Allora, in quel luogo, non c’era ancora la chiesa ma un pilone votivo con un’immagine della Madonna, come se ne trovano tanti in campagna, e la mamma della bambina, disperata, dopo che la piccola era caduta in acqua e non si trovava piú, s’inginocchiò di fronte a quel pilone e chiese grazia. Proprio in quel momento la bambina venne ritrovata, viva, e fu riportata da lei. Era stata una luce miracolosa a indicare il luogo del ritrovamento, e cosí, per ringraziamento, l’altare principale della chiesa che venne in seguito costruita (la chiesa fu costruita anche grazie all’interessamento di Madama Reale, Maria Cristina di Francia), fu collocato proprio nel punto dove c’era l’Immagine sacra. A pochi metri dalla chiesa c’è il vecchio Motovelodromo che è stato uno dei piú importanti e storici impianti ciclistici italiani. L’impianto è legato ai nomi di Girardengo, Brunero, Binda, Bartali e di tanti altri cam-pioni che vi hanno corso e che sarebbe lunghissimo elencare. Il nome piú prestigioso è, comunque, quello di Fausto Coppi, e proprio fra la chiesa e l’impianto c’è il suo bellissimo monumento. Prima però di parlare di Fausto Coppi, e in particolare di suo fratello Serse, che proprio poco pri-ma di arrivare al Motovelodromo, durante uno dei tanti Giri del Piemon-te, cadde e a causa di quella caduta perse la vita, vorrei ricordare Emilio Salgàri. Lo scrittore con il ciclismo non ebbe forse mai a che fare, ma abitò, nell’ultimo periodo della sua vita, in una vecchia casa a non piú di un centinaio di metri dalla chiesa. Una lapide lo ricorda proprio sotto la fine-stra che è stata del suo alloggio. Lui era arrivato a Torino con la sua fa-miglia quasi da emigrante, poiché la sua situazione economica non era buona. In quel periodo aveva già scritto buona parte delle sue opere, ma non si era di certo arricchito, nonostante il buon successo e la qualità dei suoi fantastici racconti. Cosí, pressato dai problemi economici, oppresso dalla pazzia della moglie, avvilito dal dover forzatamente trovare nuove

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pazzia della moglie, avvilito dal dover forzatamente trovare nuove ispira-zioni e dall’ossessione di diventare cieco, aveva deciso di chiudere in modo tragico la propria esistenza. Sono rimaste le sue opere: Sandokan, il Ciclo dei Corsari, le Avventure della Giungla,… e rimane il ricordo di un grande scrittore il cui nome è legato anche alla nostra città.

Ed ora, come da premessa, cercherò di raccontare di Fausto Coppi e di suo fratello Serse. Fausto Coppi, il Campionissimo, ebbe il primo succes-so importante della sua fantastica carriera proprio al Motovelodromo. Lui non aveva vinto quella corsa, che peraltro era una delle sue prime corse da professionista, ma, pur arrivando terzo dietro Del Cancia e Bartali, a-veva rischiato di vincerla. Il cambio che allora aveva – il vecchio cambio a bacchetta – in quell’occasione, a causa di un guasto, si era però blocca-to sul rapporto da pianura, e questo, sulla salita di Moriondo e sulla Rez-za, gli aveva impedito di rimanere con i primi, dopo che era anche riusci-to a conquistarsi un piccolo vantaggio con la sua prima fuga solitaria da professionista. A Pavesi, il direttore sportivo di Bartali, tutto ciò non era sfuggito e Coppi, grazie anche a quella prestazione, fu poi ingaggiato,

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con il beneplacito di Bartali, come gregario nella squadra del campione toscano. Da allora, fece e fu la Storia del nostro ciclismo. Il Motovelo-dromo lo vide altre volte protagonista, specialmente nelle tante riunioni in pista – dove una volta ebbe anche un grave incidente –, e fu anche il luogo dove purtroppo terminò la corsa piú triste della sua vita. Era di nuovo il Giro del Piemonte, e questa volta lui non aveva lottato per vin-cerlo, ma a qualche centinaio di metri dall’arrivo, poco prima della chie-sa, fra i corridori che non avevano partecipato al successo, aveva visto suo fratello Serse, seduto sul marciapiede a lato della strada, evidente-mente dolorante dopo che era stato coinvolto in una brutta caduta. Erano state le rotaie del tram, che in quel punto facevano una curva ed erano particolarmente pericolose per i corridori, a provocarla. Serse gli aveva fatto segno che andava tutto bene e che non aveva niente di rotto. Coppi per questo non si era fermato e aveva raggiunto il traguardo. Dopo un po’ anche Serse raggiunse il Motovelodromo e insieme andarono a congratu-larsi con Bartali che aveva nuovamente vinto quella corsa. Serse, nella notte, fu portato in ospedale. In albergo si era sentito male, e quella cadu-ta che era sembrata senza conseguenze, si era poi rivelata molto piú grave di quanto le sue precedenti condizioni lasciassero pensare. Il colpo subito gli aveva forse provocato un trauma interno, e non ci fu modo di strap-parlo alla morte. Il decesso dell’amato fratello tolse a Coppi la voglia di correre, anche se era la cosa per cui viveva; e furono proprio i suoi com-pagni corridori e in particolare Bartali, il suo amico e rivale di sempre, che aveva anche lui perso in corsa un fratello, ad aiutarlo a riprendere le competizioni. La lapide che ricorda Serse era stata posta, negli anni suc-cessivi la disgrazia, nei pressi del luogo della caduta, proprio all’incrocio con la vecchia via che porta a Pino Torinese, e lí era rimasta, fino alla co-struzione del monumento a Fausto. Erano stati i corridori compagni di Serse, di Fausto e di Gino Bartali a volerla. Nino Defilippis, il corridore torinese piú volte compagno di Coppi, che tanto fece per il monumento, chiese che quella lapide fosse spostata vicino al monumento stesso, e cosí oggi la si può vedere proprio in quel luogo. Fausto Coppi e Serse Coppi erano inseparabili da vivi, ed è molto bello che siano ancora insieme, al-meno nel ricordo.

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Una sera d’inverno

Santo Stefano Belbo è il paese dov’è nato Cesare Pavese ed è vicino al paese dove sono nato io e dove hanno vissuto i miei genitori, i miei non-ni. Santo Stefano è, dopo Canelli, il paese più grande della valle e a Fer-ragosto vi si celebra la ricorrenza del Santo Patrono, San Rocco per l’appunto. Tutta la gente della valle da sempre vi partecipa e quella è la più lunga e bella festa di quei luoghi. Nella grande piazza vengono sem-pre installate le giostre, i baracconi per il tiro a segno, i banchetti del tor-rone, la specialità che è anche delle Langhe, con la «tonda gentile», la nocciola pregiata di quelle terre. Ogni anno, per le attività dei festeggiamenti, viene sempre organizzato il circuito ciclistico, la corsa amatoriale che ultimamente ha cambiato un po’ il suo percorso, forse anche per i tanti problemi legati al traffico, or-mai troppo intenso e se si vuole anche alquanto pericoloso. Fino a qual-che anno fa il percorso del circuito era quello classico, che da sempre si era corso. Si percorreva il centro del paese e poi, girando a sinistra dopo la «strettoia» del vecchio municipio, si passava davanti al cimitero, fino alla casa natale di Cesare Pavese. Si girava quindi, dopo il ponte di ferro, da parecchi anni ormai sostituito da un moderno viadotto in cemento, verso la stazione ferroviaria, e poi, dopo un lungo rettilineo, si tornava al punto di partenza. Cinque chilometri circa, da ripetersi più volte in un ca-rosello che normalmente terminava sempre con un gruppetto di corridori che si contendevano la vittoria in volata, magari con lo scatto di qualcu-no, favorito dai compagni agli ultimi cinquecento metri. I corridori pas-savano in paese in un punto che era molto spettacolare, poiché l’edificio delle vecchie scuole elementari che ospitava anche il municipio, sul lato verso lo stradone, arrivava allora fino al ciglio dello stradone stesso, sen-za lasciare lo spazio nemmeno per un piccolo marciapiede, tant'è che la gente normalmente passava sempre dalla parte opposta, dove c’era il marciapiede, per evitare di dover passare direttamente in mezzo alla stra-da. Dopo la «strettoia» i corridori giravano a sinistra e quindi dovevano affrontare una piccola rampa per poi scendere in leggera discesa verso il cimitero.

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Nella «strettoia», sul muro delle scuole, c’era una vecchia lapide che ricordava i due partigiani che il 7 gennaio ’45 furono in quel luogo fuci-lati. Oggi il vecchio edificio delle scuole è stato abbattuto e al suo posto è sorto un nuovo edificio che, però, è un po’ più indietro rispetto a quello precedente. La lapide è stata ovviamente spostata di qualche metro, sem-pre nello stesso punto, ma sul muro del nuovo edificio appena dopo il viale alberato che è stato creato in quel luogo. I due partigiani fucilati erano: Focà Giovanni (Fuoco, cl. 1923) e Tre-bisacce Battista (Mare, cl. 1918). Era l’inverno del ’45, nei primi giorni di quell’anno. La mia mamma in quei giorni era ospite, con una sua amica del paese (Giuseppina ‘d Valetu), di una sorella di quest’ultima a Santo Stefano. Erano andate a trovarla per trascorrere qualche giorno con lei. Era appena stato “festeggiato” il Capodanno e si era arrivati all’Epifania «che tutte le feste porta via». Certo, parlare di feste in quel periodo non è come pos-siamo intenderle oggi. C’era la guerra, ma i giovani: la mia mamma lo era a quei tempi, qualcosa cercavano di fare, anche per non essere an-nientati dall’oppressione della guerra. La mia mamma e la sua amica la sera del 7 gennaio erano andate al cinema nel vecchio locale che aveva nel suo grande ingresso una saletta che fungeva da ritrovo, oggi si direb-be un piccolo “bar”, dove la gente spesso si fermava, specialmente dopo la proiezione del film, per consumare una bevanda e per trascorrervi an-cora un po’ di tempo. Quella sera, dopo il film, alcune persone, fra cui la mia mamma e la sua amica, erano rimaste per l’appunto in quel locale, anche con l’intenzione di chiudere, prima di tornare a casa, quelle che erano le fe-stività di quell’anno. Arrivò, però, poco dopo, una pattuglia di repubbli-chini da Canelli, il grande paese vicino dove c’era il presidio della San Marco, e i militi, entrati nel locale con le armi in pugno, si avventarono su di un uomo che evidentemente già conoscevano. L’uomo non fece re-sistenza. Lo perquisirono e gli trovarono una pistola. Quell’uomo, Focà Giovanni – Fuoco – era evidentemente un partigiano che non aveva mes-so in conto la possibilità di essere catturato in quel modo così stupido. Forse però i repubblichini erano stati informati che lui era in quel luogo, e per questo la cattura fu inevitabile.

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Ovviamente tutti gli avventori del locale furono minacciati, ma nessu-no fu perquisito. Tutti furono poi “invitati” a spostarsi nei locali del mu-nicipio per essere interrogati. Prima però i militi si rivolsero a Fuoco e gli comunicarono che per lui c’era la pena di morte, da eseguirsi sul posto senza processo e senza indugio. Fuoco, che peraltro era stato un repub-blichino prima di passare nelle file dei partigiani, si rivolse agli ex com-pagni e disse loro di ricordarsi che lui aveva moglie e figli. Loro gli ri-sposero che avrebbe dovuto pensarci prima e lo condussero via. Un altro partigiano, Trebisacce Battista (Mare, cl. 1918), era stato cat-turato a Santo Stefano quella sera ed entrambi sarebbero stati fucilati contro il muro del municipio, nella «strettoia» dove sarebbero poi passati i ciclisti del «circuito di San Rocco». La mia mamma fu portata con la sua amica e gli altri avventori nei lo-cali del municipio. Alcuni di loro furono poi anche portati a Canelli per ulteriori interrogatori. La mia mamma e la sua amica, probabilmente per-ché non erano di Santo Stefano, furono rilasciate e ritornarono a casa. Dal municipio si recarono, dopo essere salite da una piccola scalinata, nelle prime case del paese vecchio ad un centinaio di metri dalla «strettoia». La serata era molto fredda e c’era la neve, anche sullo stradone. Appe-na salite in casa, sentirono la raffica che aveva chiuso la vita di Fuoco e Mare. Ovviamente non uscirono e l’indomani, all’alba, la prima cosa che fecero fu di sbirciare verso il luogo da dove era arrivata l’eco della scari-ca. Per terra, sulla neve, c’erano ancora i corpi di Fuoco e di Mare.

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La «strettoia» del vecchio Municipio di Santo Stefano Belbo.

– Archivio Fondazione Cesare Pavese.

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Estate nelle Langhe

Le foto inserite in queste pagine sono state scattate durante le vacanze e-stive di qualche anno fa, a Cossano Belbo, paese dove sono nato e dove ho trascorso la mia infanzia. Riprendono scorci di panorama, la chiesetta Santuario della “Madonna della Rovere”, le vigne, la valle Belbo. I luoghi sono quelli in cui Beppe Fenoglio e Cesare Pavese hanno spesso ambientato i loro racconti (La luna e i falò, Il partigiano Johnny, i racconti presenti nella raccolta “I 23 giorni della città di Alba”,…). Esse ricordano gli stessi posti com'erano, molti anni fa, quando le stra-de non erano ancora asfaltate, i vigneti meno estesi e i campi, forse, non cosí ben coltivati. Oggi ci sono le macchine agricole, non ci sono piú i buoi per arare e trasportare l'uva, ci sono tante automobili anche qui. Aspettarsi di trovare quello che c'era è impensabile, il progresso ha cambiato tante cose. La suggestione dei posti è però rimasta, specialmen-te per chi ha in questi luoghi le sue radici.

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Gite in collina

Durante uno degli anni scolastici di qualche anno fa, quando il prof. Choc mi ha proposto di accompagnare con lui gli allievi di una delle nostre classi in un paio di uscite alla scoperta di percorsi sulla Collina torinese, ho aderito subito, con piacere. Per noi cittadini, muoversi a piedi in luo-ghi naturali e privi di traffico, è un’attività che si dovrebbe fare piú spes-so. Le gite in collina, poi, a me ricordano anche le camminate che da bambino facevo con i miei compagni di scuola; ma allora le colline erano altre e i tempi assai diversi da quelli attuali. Queste poche righe riportano il breve racconto di quelle due uscite sul-le colline di Torino. La prima uscita aveva come meta la Basilica di Superga, partendo dal-la base del colle, su per un sentiero segnato, completamente immerso nei boschi. La salita, a volte impervia, è stata un valido banco di prova per la nostra forma fisica. Ciò nonostante tutti, compresi i professori, hanno su-perato le difficoltà. Nei pressi della Basilica, uno spuntino e qualche in-coraggiamento sono serviti a smaltire la fatica, poi abbiamo trascorso qualche minuto nei luoghi che, nell'ormai lontano 1949, purtroppo hanno visto attuarsi la tragedia del Grande Torino. La visita della zona attigua e l’osservazione del panorama, da Torino fino alle Alpi, sono quindi state le nostre successive attività. A Superga molta gente arriva anche soltanto per godere della splendida vista; e noi, dopo la bella camminata, ne ave-vamo certamente il diritto. Il ritorno si presentava piú agevole della sali-ta, e quasi come in una storia d’altri tempi, ecco il vecchio trenino a cre-magliera – La Dentiera di Superga –, restaurato e rimesso in perfetta effi-cienza, a costituire il mezzo di trasporto per tutti noi. La seconda uscita aveva una meta meno nobile e un percorso, almeno sulla carta, un po’ piú facile della prima, ma comunque altrettanto valido. Partiti, sempre a piedi, dalla “Madonna del Pilone”, utilizzando una strada asfaltata – l’antica via per Pino Torinese –, in una splendida matti-nata primaverile, in fila indiana, abbiamo di nuovo affrontato la salita.

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Camminando siamo giunti a Reaglie, e poi su, con Mongreno e Superga alla nostra sinistra, verso la "vetta". Ecco però l'avventura. Un signore ci dice che non possiamo proseguire oltre poiché la strada, benché segnata sulle carte, sarebbe per un tratto privata e il proprietario l’avrebbe anche sbarrata. La gita sembrava cosí conclusa, ma abbiamo chiesto dove in al-ternativa fosse possibile passare, e come quando con i miei compagni, su nelle Langhe, ci divertivamo a risalire i rittani, abbiamo aggirato l'ostaco-lo. Raggiunta la meta – le prime case di Pino Torinese –, dopo il solito meritato spuntino, ci siamo recati alla fermata del bus per tornare a Tori-no. Delle due belle mattinate ci rimarrà il ricordo dei luoghi suggestivi che abbiamo visitato, della natura rigogliosa che abbiamo potuto ammirare, e saremo anche piú consapevoli del gran privilegio di avere una vasta area collinare nel territorio della nostra città. – È anche significativo, a questo punto, ricordare che Emilio Salgàri e Cesare Pavese erano assidui frequentatori della Collina torinese. Pavese, in particolare, vi ha anche ambientato la prima parte di La Casa in Colli-na, forse uno dei libri in cui più ha rappresentato se stesso.

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Un po’ di Torino

Piazza Castello

Piazza Castello, a Torino, è la piazza piú antica e importante della città. È la sede del vecchio castello degli Acaja, del Palazzo Reale, della chiesa di San Lorenzo, del teatro Regio. Questi monumenti hanno una lunga sto-ria, su ognuno cercherò di dire qualcosa, anche se, ovviamente, tutti me-riterebbero una ben piú ampia trattazione. Cominciamo con il castello degli Acaja. L’antico maniero, posto al centro di una delle piú grandi e belle piazze di Torino, fu fatto edificare (sulla base di una fortificazione già esistente) nel tardo Medio Evo dalla casata che a quei tempi aveva il controllo della città: gli Acaja per l’appunto. Le sue fondamenta furono poste in corrispondenza di una delle quattro porte romane, la porta Praetoria (porta Fibellona, nel Medio Evo), le cui due torri, simili a quelle della porta Principalis Sinistra (la porta Pa-latina, ancora visibile a non piú di un chilometro dal castello), furono in-globate nel suo lato posteriore. Questa parte dell’edificio fu poi riedifica-ta in epoca piú recente (periodo tardo Barocco), e la sua facciata risulta oggi di una compostezza quasi classica. Fu lo Juvarra, l’architetto sicilia-no che progettò alcune fra le piú mirabili opere a Torino, a disegnarne il progetto (fine del XVII secolo, inizio XVIII). Di questa parte dell’edificio, notevole è anche il grande scalone monumentale che porta al piano superiore. – Filippo Juvarra fu un valentissimo progettista di sca-loni e quello “Delle Forbici” che lui stesso progettò, e che è a Palazzo Reale, è considerato uno dei cinque scaloni piú belli al mondo. Inoltre lo scalone piú bello della Germania, ha scritto il Brinckmann, non sarebbe sorto nel 1725 per il castello di Wurzburg, senza il magnifico scalone ju-varriano di Palazzo Madama. – Il Palazzo Madama deve la sua denomi-nazione a Maria Cristina di Francia, la prima Madama Reale, la quale scelse il castello come dimora specialmente nei momenti difficili, anche per meglio difendersi da eventuali sicari. In seguito, anche la seconda Madama Reale, Maria Giovanna Battista, abitò nel palazzo e, come Ma-

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ria Cristina, lo fece abbellire (Juvarra) rendendolo degno del suo rango. Il palazzo fu anche sede del Senato sabaudo: il salone che per l’appunto ne conteneva l’assemblea, è stato proprio in questi giorni oggetto degli ulti-mi restauri che hanno riportato tutto l’edificio agli antichi splendori. Per chiudere questa breve trattazione sul castello, si può affermare che fu proprio grazie alla sensibilità artistica di Napoleone Bonaparte, che ne impedì la demolizione della parte barocca – inopinatamente voluta da uno dei suoi generali –, se oggi noi possiamo ancora ammirare questo bellissimo monumento nella sua interezza.

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La chiesa di San Lorenzo è uno degli esempi piú importanti dello sti-le Barocco piemontese. In particolare, l’arditissima cupola del Guarini che la sovrasta, ne costituisce uno degli elementi piú belli. La chiesa ha il suo ingresso sulla piazza, e, dall’esterno, non ha l’aspetto di una chiesa: la sua facciata ha lo stile dei palazzi vicini e cosí l’edificio sembra un pa-lazzo come tutti gli altri. In realtà, l’ardita cupola, che è ben visibile non appena ci si allontana di qualche passo, la rivela. La sua edificazione fu voluta da Emanuele Filiberto per ricordare la vittoria riportata a San Quintino, il 10 agosto, giorno dedicato a San Lorenzo, e poiché la chiesa si trova nella piazza piú centrale, vicino al Palazzo Reale, è sempre stata, forse alla stregua del Duomo, una delle chiese piú utilizzate per le ceri-monie ufficiali della casa reale. Il cardinal Carlo Borromeo, giunto da Milano, nel 1578 vi aveva celebrato il Mistero eucaristico, – come ripor-ta la lapide posta a fianco dell’ingresso, – in occasione della prima O-stensione a Torino della Sacra Sindone. L’interno della chiesa è compo-sto di due parti: una piú antica, l’altra, raggiungibile attraverso una can-cellata di ferro, ne costituisce la parte barocca. Per Torino, la campana della chiesa di San Lorenzo, che si vede vicino alla grande cupola, ha un importante significato: ricorda i caduti di tutte le guerre e in particolare, come recita la grande lapide posta a monito e a ricordo sulla facciata del-la chiesa stessa, gli 86.000 ragazzi caduti o dispersi durante la terribile campagna di Russia.

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Il teatro Regio è il grande teatro lirico di Torino. Il suo edificio era stato distrutto da un terribile incendio la notte del 9 febbraio 1936, e la sua riedificazione, nonostante fosse stata subito predisposta, fu rimandata a causa dell’imminente scoppio della seconda guerra mondiale. I lavori di ricostruzione iniziarono negli anni Sessanta e il nuovo teatro venne inau-gurato la sera del 10 aprile 1973 con i Vespri siciliani di Verdi (la regia fu di Maria Callas e di Di Stefano). La facciata dell’edificio è rimasta quella che era, ma l’interno del teatro è completamente diverso da quello in cui Toscanini aveva diretto diverse volte e Puccini aveva rappresentato alcune sue opere. Il teatro Regio si trova proprio all’angolo dove inizia via Verdi, l’antica via della Zecca, che era una delle vie piú importanti della città. Oltre alla Zecca, per l’appunto, annoverava il palazzo dell’Accademia militare (distrutto in gran parte dai bombardamenti della seconda guerra mondiale) e dell’Università.

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Il Palazzo Reale è stato la sede della Monarchia sabauda, fino allo spostamento della Capitale da Torino a Firenze: evento storico avvenuto nel 1865. Di Torino è uno dei monumenti piú importanti, se non il piú importante, ed una visita è d’obbligo per ogni visitatore della città. Al primo piano del palazzo ci sono i locali che erano di rappresentanza e che fanno parte di ciò che normalmente il pubblico può visitare. Al secondo e al terzo piano ci sono invece i locali privati della reggia, e quest’area non sempre è stata accessibile; tempo fa vi erano in corso restauri e sistema-zioni, ma al momento il piano è nuovamente visitabile. La visita al palaz-zo inizia dal grande scalone con le volte affrescate, che immette nella grandissima prima sala denominata “Il Salone degli Svizzeri” – Nel suo ampio spazio c’erano le Guardie Svizzere di servizio –, e poi si prosegue lungo altri saloni, fra i quali, ovviamente, il piú maestoso è quello del trono. Personalmente ho visitato piú volte Palazzo Reale e ogni volta è sempre stata una grande emozione; i suoi arredi sono rimasti com’erano nell’Ottocento e si ha proprio la sensazione di rivivere la passata epoca storica. Due visite, in particolare, mi hanno suscitato le emozioni piú for-ti. La prima quando, in occasione di una gita scolastica a cui partecipai tanti anni fa, ci fecero vedere ciò che non sempre fa parte del percorso usuale di visita: si tratta del piccolissimo salottino in stile rococò, che era stato adibito per il servizio alla persona della regina. I suoi arredi sono delicatissimi, di una bellezza indimenticabile. La seconda visita che ri-cordo particolarmente è quella in cui ebbi modo di ammirare il secondo piano dell’edificio. Durante quella visita, dal “Salone degli Svizzeri” a-vevamo percorso “Lo Scalone delle Forbici” che, sfruttando uno spazio ridotto, si sviluppa in una struttura architettonica elegantissima, frutto del grande genio dello Juvarra. L’Architetto siciliano l’aveva intitolato “Del-le Forbici” e fu proprio un paio di forbici, raffigurate in uno stemma, ciò che egli fece collocare proprio all’ingresso dello scalone, intendendo con questo voler metaforicamente tagliare la lingua alle “malelingue” che lo avevano denigrato, accusandolo di non essere in grado di costruire, in quello spazio ridotto, qualcosa di valido. Lui non solo lo aveva fatto, ma vi aveva creato una vera e propria opera d’arte. Oltre che per l’aspetto ar-chitettonico, lo scalone è notevole anche per la struttura fisica portante. Infatti ne ha una che, a sbalzo, poggia sui muri laterali, e questa geniale

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intuizione del suo ideatore ha fatto sí che la stabilità dello scalone stesso sia elevatissima, si è calcolato che lo sia piú dell’enorme scalone princi-pale che poggia direttamente sulle fondamenta del palazzo. Dopo la me-raviglia dello scalone juvarriano, in quella visita si erano susseguite le va-rie sale, addobbate con diversi servizi di porcellana e con bicchieri di cri-stallo – manufatti appartenuti alla casa Savoia – di notevole bellezza e valore. I lampadari di cristallo, i mobili antichi, i pavimenti intarsiati, i tanti quadri, – tra cui alcuni bellissimi di Massimo d’Azeglio, – lasciano al visitatore ricordi indimenticabili. Il Palazzo Reale è veramente un gran patrimonio artisticoculturale di cui la città dispone. Del palazzo, poi, si può anche ammirare il magnifico giardino interno. È una vasta area con tantissimi grandi alberi, la bellissima fontana delle Nereidi e dei Tritoni, i bastioni settecenteschi. I giardini Reali, posti al centro di Torino, colpi-scono il visitatore per la loro bellezza e ci si sente in una città dove arte, natura e storia sono unite e fruibili da tutti.

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Piazza Castello – Il Palazzo Reale.

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Piazza Carignano

Piazza Carignano è molto vicina a piazza Castello, non è molto grande come dimensione, ma è circondata da edifici di notevole importanza e bellezza. È considerata uno dei “salotti” di Torino (l’altra importante piazza “salotto” è piazza San Carlo). In particolare, la storia dell’Italia unita, del Risorgimento, è stata fatta in buona parte proprio nell’edificio – uno dei piú imponenti e belli in stile Barocco piemontese – che vi cam-peggia e che prende il nome di Palazzo Carignano. Questo palazzo è stato la sede del Parlamento, prima che la capitale fosse trasferita a Firenze, e Cavour, D’Azeglio, Lamarmora, Gioberti, Balbo e moltissimi altri nomi illustri del Risorgimento lo hanno frequentato. Vi nacque Vittorio Ema-nuele II – come recita l’enorme cartiglio bronzeo posto sulla sua facciata – e, per le vicende che all’interno delle sue mura si succedettero, con Pa-lazzo Madama e Palazzo Reale costituisce la triade dei piú importanti pa-lazzi storici di Torino. Attualmente Palazzo Carignano è la sede del Mu-seo del Risorgimento che fu rimodernato e reso splendido nel 1961, in occasione delle grandi celebrazioni per il primo centenario dell’Unità d’Italia. Il teatro Carignano e il palazzo dell’Accademia delle Scienze sono gli altri due edifici che si affacciano sulla piazza. Il teatro Carignano ha una notevole storia e moltissimi sono gli artisti che hanno lasciato il loro ri-cordo sul suo palcoscenico. Fra loro è d’obbligo citare Carlotta Mar-chionni, Eleonora Duse, Paganini, Toscanini e, fra gli autori, Vittorio Al-fieri, Silvio Pellico, Goldoni. Moltissime forme di spettacolo, fra cui la prosa, il balletto, il melodramma, vi hanno trovato spazio nel corso degli anni; e il suo interno è rimasto com’era nell’Ottocento, con i palchi, i log-gioni, gli arredi. In particolare, nel periodo del Risorgimento, il teatro è stato lo specchio fedele del clima patriottico che si respirava a Torino (ancora oggi, entrandoci, si respira un’aria che ricorda la passata epoca storica). A fianco del suo edificio c’è poi l’antico ristorante del Cambio, che annoverava fra i suoi clienti illustri anche Cavour. – Il Conte era soli-to pranzarvi ad un tavolo riservato, e da quel tavolo teneva d’occhio, a

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poche decine di metri, la finestra del suo studio a Palazzo Carignano, da dove, in caso di necessità, poteva essere richiamato mediante lo sventolio di un fazzoletto bianco. Il Palazzo dell’Accademia delle Scienze, che si affaccia sulla piazza da uno dei suoi lati piú corti, è un palazzo molto antico e al suo interno han-no sede il Museo Egizio e la Galleria Sabauda, due musei molto impor-tanti e belli. Molti turisti ogni anno li visitano, e la città di Torino può dirsi, a ragione, fiera di potersene vantare. Il Museo Egizio è secondo so-lo a quello del Cairo, e con quello di Londra può competere per l’interesse dei suoi reperti. La Galleria Sabauda, dal canto suo, è molto fornita e molte sono le opere di gran qualità in essa esposte. È stata isti-tuita per volontà di Carlo Alberto nel lontano 1832, ed inizialmente, con la denominazione di Reale Galleria, la sua sede era a Palazzo Madama. La Galleria Sabauda, oggi, accoglie collezioni provenienti dal Palazzo Reale, dal Palazzo Carignano, dal Palazzo Durazzo di Genova e da varie residenze sabaude. Custodisce, inoltre, la bellisima collezione che Ric-cardo Gualino ha voluto donarle.

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Piazza San Carlo

Piazza San Carlo, – non molto distante da piazza Castello, – si trova a metà della via Roma, la strada piú elegante della città. È considerata il “gran salotto” di Torino ed è una delle piú belle piazze d’Italia. Circonda-ta interamente da portici, ha al centro una delle piú belle statue equestri dell’Ottocento e, su uno dei lati corti, due chiese affiancate, le cui faccia-te sono state disegnate da Filippo Juvarra. Le chiese sono dedicate a San Carlo e a Santa Cristina. La chiesa dedicata a San Carlo, quella con il campanile, fu edificata in ossequio a San Carlo Borromeo, cardinale di Milano, e la sua prima pietra fu posta da Carlo Emanuele I nel 1619. – Anche la chiesa di Santa Cristina è particolarmente legata ai Savoia: in essa vengono ancora celebrate funzioni in suffragio dei defunti di stirpe reale. Il monumento equestre nel centro della piazza raffigura Emanuele Filiberto alla battaglia di San Quintino, nell’atto di ringuainare la spada. Opera di Carlo Marocchetti, fu modellato e fuso a Parigi, dove fu esposto nel cortile del Louvre, ammirato da centinaia di persone. La piazza fu colpita duramente dalle bombe durante la seconda guerra mondiale, ma presto ritrovò l’antico splendore. In tal modo furono riaperti i suoi celebri ritrovi, il Caffè San Carlo, il Caffè Torino e, dalla parte opposta della piazza, “’l Caval ëd Brons”. È tradizione, per i torinesi ma anche per chi giunge a Torino da altre città, toccare con il piede il bronzeo toro, im-presso nel pavimento, proprio sotto i portici davanti all’ingresso del Caf-fè Torino (gesto che sembra portare fortuna e scacciare il malocchio). La piazza, purtroppo, ebbe fra i suoi momenti piú tragici anche una tremen-da strage. Il fatto avvenne a seguito delle manifestazioni di protesta che si verificarono a causa dell’allora imminente trasferimento della capitale da Torino a Firenze (1864). Marco Minghetti, allora capo del governo, ave-va tramato con Napoleone III, per decidere la nuova sede, forse all’insaputa persino di Vittorio Emanuele II, che protestò, ma poi accettò il fatto compiuto. Il 21 e il 22 settembre di quell’anno la gente scese in piazza per protestare (l’economia di Torino era basata in gran parte sul fatto che la città fosse la capitale). La forza pubblica ebbe la mano pesan-tissima contro i dimostranti e sul terreno rimasero quasi duecento perso-ne, fra morti e feriti. A caricare con le baionette e a sparare sulla folla i-

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nerme, non erano stati soltanto i reparti di stanza in città, ma anche alcuni battaglioni fatti venire di rinforzo dal Sud e da altre regioni d’Italia. Que-sta circostanza concorse ad aggravare la sciagura e scavò un solco pro-fondo fra Torino e il resto d’Italia, che richiese diversi decenni per essere colmato. Torino pianse e seppellí i suoi morti con il commento: «Se ci fosse stato ancora Cavour, tutto ciò non sarebbe successo. Che il Re, al-meno, cacci Minghetti. Non vogliamo vederlo mai piú». Nel secondo do-poguerra, la piazza è stata prescelta come spazio ideale per i discorsi elet-torali dei maggiori leader politici e per le manifestazioni sindacali. Il 9 maggio 1961, in una splendida giornata di sole, i torinesi vi accolsero la regina Elisabetta d’Inghilterra e il principe d’Edimburgo che, al termine del loro viaggio ufficiale in Italia, rendevano omaggio a Torino, la prima capitale d’Italia, allora in festa per le celebrazioni dell’unità nazionale. Lo spettacolo della folla festante si ripeté il 13 aprile 1980 per la visita di Giovanni Paolo II e poi in occasioni delle altre visite del Pontefice a To-rino.

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Piazza Vittorio Veneto

Piazza Vittorio Veneto è una delle più grandi piazze d’Italia intera-mente contornate da portici. La piazza è in pratica costituita di due parti. Dove inizia via Po, nel luogo dove anticamente esisteva la Porta di Po, è situata la prima parte. La seconda, invece, si trova dove anticamente esi-steva un grandissimo spiazzo alberato (fuori le mura), ed è stata edificata nella prima metà del 1800. La prima parte è circondata da edifici del 1700 e il suo stile è abbastanza diverso da quello della seconda, anche se tutte e due le parti sono contornate da portici molto simili. Una particola-rità molto interessante della piazza è dovuta al fatto che il suo livello di-grada verso il Po e il suo dislivello sull’intera lunghezza è di circa sette metri. Per questo, la seconda parte della piazza ha i piani degli edifici sfasati, in modo da tenere in conto questo digradare, e la soluzione archi-tettonica adottata è molto originale e permette di mascherare, in un certo qual senso, questa caratteristica. Piazza Vittorio è forse la piazza più “scenografica” della città: la pecu-liarità di affacciarsi sulla Collina torinese, con la monumentale chiesa della Gran Madre di Dio di fronte e quello che è il passaggio più antico sul Po, passaggio costituito dal vecchio “Ponte di pietra” (ponte Vittorio Emanuele I) fatto costruire da Napoleone Bonaparte, ne costituiscono una scenografia unica e veramente notevole. La piazza è stata utilizzata in passato anche come «piazza d’armi» e ancora ai nostri giorni è utilizzata per ospitare feste, manifestazioni e ri-correnze. Le sue notevoli dimensioni e la sua centralità ne hanno aumen-tato la sua grande notorietà. I torinesi non più giovani ricordano certa-mente i molti carnevali con le giostre che si sono susseguiti di anno in anno, fino al 1985, ultimo anno in cui la piazza ha ospitato il grande Luna Park prima che questo fosse traslocato alla Pellerinna, forse per i troppi problemi che erano arrecati, per colpa sua, alla viabilità del luogo. Questa peculiarità di essere la piazza che per antonomasia ha ospitato da sempre le feste per le ricorrenze, le adunanze, i comizi, gli spettacoli all’aperto in genere, ha fatto sì che piazza Vittorio sia la piazza più nota ai torinesi, ovviamente anche a quelli che non vi abitano nelle vicinanze, come me.

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Oggi la piazza è stata riattata molto bene: in particolare è stato posato il selciato in porfido sull’intera sua superficie. È stato, inoltre, costruito un grande parcheggio nel suo sottosuolo, in modo da poter ospitare le macchine che prima erano posteggiate in superficie e che ne “deturpava-no” l’apetto ottocentesco, caratteristico della piazza stessa. Ogni anno, la notte di Capodanno, la piazza si riempie all’inverosimile di torinesi, e non solo, per assistere al grandioso spettacolo pirotecnico (come quello della notte di San Giovanni, patrono della città), che si rap-presenta, proprio di fronte, con i mortai piazzati sul ponte e su chiatte predisposte sul Po. In futuro, chissà, è auspicabile che anche il carnevale possa ritornare un po’ di più nella piazza: per riportarla a quella che è sta-ta una delle sue funzioni più caratteristiche.

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La Mole Antonelliana

Ogni città ha un simbolo che la identifica e la Mole Antonelliana è proprio il simbolo di Torino. La sua costruzione, realizzata nel dicianno-vesimo secolo su progetto dell’architetto torinese Antonelli, è stata il piú alto edificio in muratura del nostro Paese; primato che oggi non può piú esserle attribuito, poiché la sua guglia, caduta negli anni Cinquanta, è sta-ta ricostruita rispettando il disegno precedente, ma utilizzando una strut-tura interna d’acciaio. Inoltre, già dagli anni Trenta, anche la sua cupola era stata rinforzata, per motivi di sicurezza, con campate di ferro e ce-mento. − La sera del 23 maggio 1953, la guglia cadde in occasione di un tornado, il piú forte mai registrato nella Pianura Padana, fortunatamente senza provocare vittime, e quel cedimento era avvenuto certamente a causa del-la gravità degli eventi atmosferici, ma forse anche perché favorito dal ca-vo-antenna della Rai che aveva provocato, teso dal fortissimo vento, una sorta d’effetto taglio sulla guglia stessa (il cavo, non a caso, era ancorato nel giardino dove la guglia cadde). Inizialmente la Mole era stata ideata per essere un tempio israelita, ma poi, anche a causa degli alti costi che si erano dovuti sostenere per la sua costruzione, era stata ceduta al Comune perché si potesse completarla ol-tre la cupola già edificata. Fu un’impresa importante, specialmente per quei tempi, ma alla fine si riuscí a collocare alla sua sommità la grande statua di un angelo (rappresentava il “Genio Alato”). Da allora i suoi cen-tosessanta metri e la sua sagoma l’hanno sempre elevata su tutti gli altri edifici, rendendola visibile anche da notevole distanza. Per ammirarla, uno dei punti migliori è forse la piazzetta del Monte dei Cappuccini, poi-ché da quel luogo si è come su una balconata sulla città e la Mole è pro-prio lí, di fronte. In questi ultimi anni la sua struttura ha subito parecchi lavori di restauro, sia interni sia esterni, ed è stata dotata di un moderno ascensore panoramico che, sospeso nel vuoto, permette di salire per piú d’ottanta metri all’interno della cupola, fino ad arrivare al primo terrazzo, dal quale è possibile ammirare un panorama completo della città. La Mo-

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le è anche la sede attuale del Museo del Cinema, la cui precedente collo-cazione era all’interno del Palazzo Chiablese, nelle vicinanze di Palazzo Reale. Il museo è molto bello ed è uno dei piú forniti al mondo, ovvia-mente nel suo genere. La Mole è stata costruita per stupire, e in questo riesce benissimo. Per-sonalmente, la ricordo ancora quando era priva della guglia e al suo posto c’era una specie di moncone provvisorio colorato di rosso. A quei tempi non risiedevo ancora a Torino, ma vi venivo a volte per le visite ai paren-ti che vi abitavano. La Mole era il monumento che attirava maggiormente la mia curiosità, e nonostante le mancassero parecchi metri, nel guardarla mi comunicava sempre un’impressione d’imponenza e di bellezza. Quando mi trasferii a Torino con la mia famiglia, nel 1962, la guglia era stata da poco ricostruita, e poiché io allora andavo a scuola proprio in via S. Ottavio, a pochi passi dalla Mole stessa, la sua presenza, che avevo prima solo ammirato in occasione delle visite ai parenti, era diventata, anche per me, abituale. In seguito, per diversi anni, l’avevo vista avvolta dalle impalcature che servirono per completarne i restauri e, dopo che questi furono ultimati, potei ammirarla, come tutti, nella sua interezza. Oggi, sulla sua cima, una nuova grande stella ha sostituito la vecchia stel-la, che a suo tempo aveva rimpiazzato l’angelo, inizialmente presente. Nelle vicinanze della Mole ci sono alcuni edifici della Rai; un piccolo giardino separa la sua base dal palazzo della radio, dal quale, negli anni Cinquanta, Nunzio Filogamo e i suoi colleghi artisti erano i protagonisti delle trasmissioni radiofoniche. Quelle trasmissioni hanno fatto la storia della radio, ed è proprio a Nunzio Filogamo – anche uno dei primi pre-sentatori televisivi – a cui è stato intitolato quel piccolo giardino. In via Montebello c’è poi quello che rimane del vecchio “Teatro di To-rino”, che fu voluto dal magnate torinese Riccardo Gualino. Il teatro da molto tempo non è piú in funzione, ma è stato, fra il 1925 e il 1930, un vero fiore all’occhiello per Torino. Gualino lo aveva persino dotato di un’orchestra sinfonica stabile e anche Eleonora Duse vi aveva recitato. Durante la guerra, parte del suo edificio subí danni irreparabili, a causa dei bombardamenti, e nella parte colpita la Rai aveva poi allestito i primi studi, adibiti alla produzione televisiva (studi che erano in pratica costi-

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tuiti da alcuni locali situati in un gran capannone cui si accedeva dal por-tone di ferro, ancora visibile in via Montebello). In quegli studi ricordo di esserci andato, alcune volte, come spettatore della trasmissione “Chissà chi lo sa”, il cui presentatore era Febo Conti. Era una trasmissione a quiz per la TV dei Ragazzi e alcuni miei compagni vi avevano anche parteci-pato come concorrenti. La mia scuola era vicina agli studi della Rai e noi ragazzi eravamo spesso utilizzati per le trasmissioni, proprio perché, in fondo, eravamo di casa.

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Superga

Superga, oltre ad essere il nome di una basilica e di un colle, è anche un simbolo che evoca ricordi diversi: qualche volta felici, a volte molto tristi. L’imponente «basilica» (cosí la identificano i torinesi, in realtà è nata come chiesa votiva) fu edificata per volere di Vittorio Amedeo II, il Duca sabaudo che nel 1706 era stato impegnato nella guerra contro i Francesi che assediavano Torino. (Vittorio Amedeo II sarebbe poi diven-tato re, nel 1713, ad Utrecht, con il consenso dei potentati d’Europa. No-minato re di Sicilia, divenne poi primo re di Sardegna).

Secondo la tradizione popolare, Vittorio Amedeo, salito al colle di Su-perga col principe Eugenio, – finalmente giunto in Piemonte in suo soc-corso, – per osservare dall’alto i movimenti e le posizioni dei nemici, a-veva fatto voto alla Madonna, promettendo davanti alla Sua immagine di far costruire una grande chiesa, se il suo esercito fosse riuscito a rompere l’assedio e a vincere la difficile guerra che si stava combattendo. Gli av-

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venimenti ebbero lo sviluppo auspicato e cosí Vittorio Amedeo II, per mantenere il suo impegno, – sia pure con qualche anno di ritardo, – con-ferì l’incarico al grande architetto siciliano Juvarra, di disegnare l’aspetto e di curare le varie attività per la costruzione dell’opera promessa. I lavo-ri, iniziati nel 1717, durarono diversi anni e si dovettero superare molte difficoltà per portarli a termine. La sommità del colle fu abbassata di una decina di metri, utilizzando pale e picconi, e sul vasto piazzale creato si lavorò con i materiali che erano stati portati a dorso di mulo o su dei carri trainati da buoi, da cavalli da tiro, su per la ripida strada che era stata ap-prontata per l’occasione. La Monarchia sabauda decise poi che in quel luogo dovevano essere sepolti i membri della famiglia reale, cosí Superga fu utilizzata come sepolcreto della real casa (l’ultimo re sepolto a Super-ga fu Carlo Alberto), e si aggiunse all’abbazia di Altacomba, alla Sacra di San Michele, alla cappella della Sindone e ai vari altri luoghi che prima di allora erano stati utilizzati per questo scopo. Superga, in ogni caso, oltre alla dinastia sabauda, è anche legata alla Torino popolare, di tutti noi. Il colle è stato per molti anni lo scenario di una corsa motoristica e, purtroppo, anche della tragedia aerea che ha visto perire tutti i giocatori della squadra di calcio del Grande Torino. Ma la-sciamo per ultimo il ricordo della tragedia. La strada costruita all’inizio dell’Ottocento, che s’inerpica da Sassi, è quella che oggi normalmente è utilizzata per raggiungere la basilica e, fin dall’inizio del secolo scorso (1902), è anche servita per una delle piú an-tiche corse motoristiche in salita. Ci corsero con le auto, con le moto: ne-gli ultimi anni soprattutto con queste ultime, forse a causa delle caratteri-stiche del tracciato. Molti piloti illustri vi gareggiarono: per fare alcuni nomi, si possono citare Taruffi, Varzi e Vincenzo Lancia, che vi corsero anche con le auto, mentre con le moto è d’obbligo citare Biagio Nazzaro, come ricorda la lapide posta all’inizio del percorso, antesignano della corsa e anche uno dei primi piloti in assoluto. In anni piú recenti, si ricor-dano Bergamonti e Agostini, che vi corsero ovviamente all’inizio della loro carriera, e poi, ancora, Walter Villa. Ma anche i piemontesi Ollearo e Merlo, quest’ultimo campione dei sidecars con la Gilera, e il comasco Tenconi, piú volte campione italiano della salita, che vinse la gara diver-

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se volte alla fine degli anni Sessanta e che (al pari di Balestrieri) è forse il pilota che la seppe meglio interpretare, hanno saputo legare il loro nome all’albo d’oro di questa competizione. Oggi la corsa non si disputa piú per diverse ragioni e forse anche perché il percorso è alquanto pericoloso, specialmente a causa dei tanti muri delle case e delle ville che costeggia-no la strada. Occorre anche dire che nelle tante edizioni, soprattutto a causa della pericolosità del tracciato, si verificarono alcuni incidenti e fra questi, in particolare, due furono purtroppo mortali. Entrambi avvennero nell’edizione del 1947 e sul percorso sono visibili le lapidi che ricordano i piloti che vi persero la vita. La prima è stata posta alla seconda curva dall’inizio della salita e ricorda Vittorio Guarise, il pilota che cadde poco dopo la partenza andando a sbattere contro il muro, proprio in quel luogo; la seconda, invece, è a circa cinquanta metri dal piazzale della basilica e ricorda Giovanni Franchino, il forte pilota della Moto Guzzi che aveva fatto registrare il tempo migliore nella sua categoria, la 250 cc, ma che al-la frenata, dopo l’arrivo, “per un fatale incidente motociclistico” (come riportò il suo necrologio), era caduto e aveva riportato ferite che lo a-vrebbero poi condotto alla morte, alcuni giorni dopo.

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La tragedia del Grande Torino avvenne il quattro maggio del 1949. La squadra del Torino, i dirigenti, gli accompagnatori, l’equipaggio, insom-ma tutti i passeggeri di quel tragico volo perirono a seguito dello schianto che si verificò sul colle, proprio sotto la basilica. L’aereo, un trimotore di quei tempi, era in linea con la pista d’atterraggio del vecchio aeroporto di corso Francia e il pilota doveva fa-re il punto proprio sopra Superga; su quell’aereo però, forse l’altimetro non funzionava come avrebbe dovuto e nessuno se n’era accorto. C’era, inoltre, un tremendo temporale e la visibilità era nulla. Non si sarebbe neanche dovuto volare, ma i piloti di allora erano abituati alle situazioni difficili e si volò lo stesso: la squadra del Torino era andata a giocare una partita amichevole in Portogallo e desiderava tornare a casa. Si bruciaro-no cosí tante vite e la squadra, che era già nella leggenda del calcio, entrò nel mito.

Quel terribile giorno tutta l’Italia pianse e quell’episodio ha lasciato per sempre, nel cuore di tutti, un po’ di tristezza. Ogni anno, da allora, in occasione della ricorrenza del tragico evento, giocatori, tifosi, gente co-mune si ritrovano a Superga, nel luogo dov’è stata posta una lapide con i

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nomi di Valentino Mazzola, dei suoi compagni e delle altre vittime, per pregare e per ricordare. Di Superga, ovviamente, non si può fare a meno di ricordare che è me-ta di molti turisti e che nessuna gita a Torino può fare a meno d’includerla fra i luoghi da visitare. Oltre alla basilica, si potrà ammirare un magnifico panorama della città, con le Alpi sullo sfondo. Volendo, è anche possibile salire al colle con la splendida “Dentiera” che è stata ul-timamente restaurata e rimessa in servizio. Con il vecchio trenino a cre-magliera sembrerà di rivivere tempi antichi, e ci sarà anche piú tempo per gustare emozionanti scorci panoramici.

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Il Valentino Il Valentino, oltre ad essere il piú noto parco della città, è anche uno dei parchi cittadini piú belli in assoluto. Questo suo splendore è senz’altro dovuto al fatto che è collocato sulle sponde del Po, e che la collina torinese ne costituisce lo sfondo. Il parco offre una bellissima area naturalistica dove si possono ammirare, disposti anche attorno ad alcune vaste radure, innumerevoli alberi d’alto fusto, la maggior parte dei quali sono stati messi a dimora tanti anni fa, alcuni anche in concomitanza con il rimboschimento del Parco Leopardi, l’area situata proprio di fronte al Valentino stesso, oltre il Po, sulle prime pendici della collina, dove il rimboschimento ha anche previsto alberi di paesi molto lontani. Il succedersi delle stagioni rende il Valentino uno spettacolo che non ha nulla da invidiare ad altre aree non cittadine. Per questo, il parco è un patrimonio per i torinesi, che, pur vivendo in una grande metropoli, han-no a disposizione una vasta area verde in cui ammirare e vivere piace-volmente la natura. Inoltre sul suo territorio sono inclusi due castelli. Uno è autentico e la sua riedificazione (1630 – 1660, architetti Carlo e Ame-deo di Castellamonte) fu voluta da Maria Cristina di Francia, la prima Madama Reale. L’altro, invece, è stato costruito per l’Esposizione Inter-nazionale del 1884 e contiene vari elementi architettonici presenti in al-cuni castelli medioevali della Valle d’Aosta e del Piemonte. – La grande Esposizione del 1884 fu la risposta di Torino alla «spoliazione» di vent’anni prima, quando si era tolto alla città il rango di capitale –. Il ca-stello del Valentino “autentico” è oggi la sede della Facoltà di architettu-ra e vicino al suo edificio è situata una vasta area dedicata all’Orto Bota-nico della Facoltà di biologia. Il castello, per cosí dire “non autentico”, fa parte, invece, di quello che è chiamato “Il Borgo Medioevale” ed è posto proprio in riva al fiume. Questo borgo, com’è già stato detto, non è realmente d’epoca medioe-vale, ma le persone che lo visitano hanno lo stesso la sensazione di tro-varsi di fronte ad un vero borgo antico. Oltre all’Orto Botanico, al Valen-tino è presente anche un altro notevole “Punto Verde”: si tratta del Giar-dino Roccioso, una vasta area dedicata all’esposizione di mostre interna-zionali di fiori. Questo magnifico complesso è stato creato a seguito di

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una geniale intuizione di Giovanni Ratti, l’industriale torinese legato al mondo degli occhiali – fra l’altro il sig. Ratti fu uno degli organizzatori d’Italia ’61 –, e ha visto il susseguirsi nel tempo di mostre ad altissimo livello, che hanno sempre richiamato folle di visitatori. Il Valentino è anche stato, da sempre, la sede di numerose manifesta-zioni sportive. Famosissimo era il Gran Premio d’automobilismo che si disputò, in sette edizioni, dal 1935 al 1955, sulle strade che attraversano il parco. In questa corsa moltissimi corridori si cimentarono e, fra loro: Nuvolari, che nel 1935 vinse la prima edizione – In un’altra edizione, si ricorda, terminò la corsa in modo alquanto rocambolesco: guidò per di-versi giri con la razza del volante, a causa di un incidente che gli aveva danneggiato l’auto –; Varzi che vinse nel 1946; Ascari, che primeggiò nell’edizione del 1955 (nella foto in basso) – Davanti al castello, dove c’era la partenza, c’è ancora il luogo da cui prese il via in prima fila, con l’indicazione del numero di gara, il 6, e la data di quel Gran Premio, il 1955 appunto. Il luogo da cui partí è stato evidenziato utilizzando del marmo, proprio là dove in occasione della gara c’era la vernice bianca –; Castellotti, amico fraterno di Ascari, e Musso che parteciparono al Gran Premio del ’55. Naturalmente, oltre a quelli già citati, molti altri piloti di fama hanno gareggiato al Valentino. Non possiamo dimenticare Farina, De Portago, Trintignant, Taruffi, Villoresi,…

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Anche il ciclismo ha trovato molto spazio al Valentino: molto impor-tante era il “Criterium degli Assi”, che si disputava tanti anni fa e che a-veva visto piú volte anche l’illustre partecipazione di Fausto Coppi. Al Valentino sono anche terminati parecchi “Giri del Piemonte” e alcune “Milano-Torino”. Personalmente ho potuto assistere a diversi arrivi, e in particolare, ricordo Chiappucci, che vinse il Giro del Piemonte, Cassani che primeggiò ad una Milano-Torino battendo in volata il grande cam-pione svizzero Rominger, Bugno, con la maglia di Campione del Mondo, che vinse la Milano-Torino, Pollentier, infine, che vinse un circuito che comprendeva le strade del Valentino e la salita dell’ospedale di San Vito, proprio sopra il Parco Leopardi (Pollentier aveva vinto la corsa che quell’anno era valida come Giro del Piemonte, e, in quell’occasione, Mo-ser, Dancelli, Bitossi avevano lottato invano per contrastarlo). Per com-pletare i ricordi sull’utilizzo sportivo del parco, si può citare il campiona-to mondiale di corsa campestre che vi si disputò qualche anno fa. Era al-lora stato deposto, sulle strade asfaltate dove si correva, uno strato di ter-ra con un manto erboso, simile a quello che è utilizzato per i campi di calcio, e in quell’occasione era stato il grande Paul Tergat ad imporsi nel-la gara maschile dei seniores. Il Valentino è anche il parco che tutti, anche i non torinesi, conoscono come luogo ideale per le passeggiate in compagnia della propria fidanza-ta. Una famosa canzone di tanti anni fa diceva infatti: “Ricordi quelle se-re, passate al Valentino, col biondo studentino, che ti stringeva sul cuor”. Oggi i tempi sono molto piú frenetici e alle passeggiate amorose forse si preferiscono le discoteche. Il Valentino, comunque, resta sempre un luo-go alquanto romantico e chi vuol far colpo sulla sua bella può senz’altro portarla a passeggiare nei suoi incantevoli viali. Come sempre, il Valen-tino farà certamente la sua parte.

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Una rievocazione del Gran Premio del Valentino (nell’ultima foto Ollearo, vincitore della Sassi-Superga del 1947 e del 1951).

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Foto di Torino

Piazza Castello

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Palazzo Madama

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Piazza M. Teresa, Giardini Cavour

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Davanti al Valentino dal Po

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Monte dei Cappuccini

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La Mole

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Il Duomo

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Chiesa Filippo Neri, Chiesa S. Agostino

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Piazza Solferino

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Centro antico

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Corso Cairoli, ‘Ponte di pietra’

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Piazza Bodoni, Piazza S. Carlo

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Chiesa Madonna del Pilone

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. Superga

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Superga

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Il Po

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La neve, Giardini Reali e i Murazzi dai Cappuccini

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La Fetta di Polenta, Superga dai Cappuccini

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Il Po d’inverno

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Il Valentino, la chiesa di S. Giulia

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Riconoscimenti e riferimenti fotografici

Si ringraziano:

• Il Sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, per la bella presentazione. • La sig.ra Carla Gobetti, per avermi incoraggiato • ll prof. Renato Grimaldi , per avermi fornito le fotografie degli ex voto di Cichinin [Da Renato Grimaldi Sui sentieri della religiosità popolare – Gli ex voto di Cichinin edito da Fabiano Editore – Canelli]), e per avermi aiutato. • Il sig. Giuseppe Brandone, per aver pubblicato – in un suo precedente la-voro – la poesia in piemontese di Cichinin “In onore di Vincenzo Tosa” . Molte notizie sul Pittore e la sua fotografia sono state tratte dalla medesima pubblicazione (Francesco Bo – Cichinin realizzata dal Comune di Cossano Belbo. • La prof.ssa Marina Buzzi, e altri Colleghi, per avermi aiutato a corregge-re il testo.

Per il racconto “La Bicicletta”

Si precisa che nel racconto Guido era nella realtà “Guido Perina”, il vecchio compagno di Guido “Ettore Balmamion”. Per gli episodi narrati, in particolare per quello in cui si cita Bartali, si fa rife-rimento al Gran Premio Frejus del 1934 vinto da Valle. Bartali non vi aveva partecipato, ma era per Guido “il corridore famoso che si poteva battere”. (In fondo si riporta l’articolo della Stampa del 1934 che ha ispirato la parte intro-duttiva del racconto.)

Per la poesia di Cichinin

Si precisa che Cichinin nel manoscritto originale ha presentato la sua poesia in una forma particolare. Non si è servito delle vocali ë, ò della lingua Piemonte-se (per la ò, che si legge come la o in italiano, ha usato la o; per la o, che si legge come la u, ha usato ou). Inoltre, per n- , al posto del trattino ha usato un accento. Ha poi anche utilizzato alcuni termini della parlata “langarola” (Ti t’aj -> Tu hai, t’ej -> sei, e altri). Nel presentare il testo si è ritenuto di adottare la forma grammaticale conven-zionale, pur mantenendo la sostanza e i termini della poesia (È stata utilizzata, come riferimento, la “Grammatica della Lingua Piemontese” Nòstre Rèis-Libreria Piemontese Editrice, con il supporto tecnico del sig. Paolo Sirotto).

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La Stampa – Lunedì 5 marzo 1934 -