FORUM di BIOETICA NEWSLETTER n. 104 · che la riduzione della coscienza alla certezza soggettiva...

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1 Gli scopi del Forum sono: suscitare un interesse culturale sui principi fondanti della bioetica e aprire il dibattito sui dilemmi etici dell’epoca moderna P P r r i i n n c c i i p p i i e e D D i i l l e e m m m m i i d d i i B B i i o o e e t t i i c c a a INDICE: Il Discorso Interiore e il frutto della speranza , di Paolo Rossi • L’opzione fondamentale e la coscienza morale • Se il discorso interiore è carente per relazionarsi con le altre persone: nell’autismo, nell’individuo in rivolta, nell’egoista, nell’uomo dei desideri • Il discorso interiore nelle relazioni di amicizia: amerai il prossimo tuo come te stesso» (Gal 5,14), psicologia e psicoanalisi sulle relazioni umane, il significato della relazione integrale, l’amore scambievole dell’amicizia • Il discorso interiore è ineludibile: come il discorso interiore può condurre verso Dio • Non spegnere nel discorso interiore la luce della speranza: le virtù umane, la speranza cristiana Comitato di redazione Dott. Cleto Antonini, (C.A.), Aiuto anestesista del Dipartimento di Rianimazione Ospedale Maggiore di Novara; Don Pier Davide Guenzi, (P.D.G.), docente di teologia morale presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Sezione parallela di Torino; e di Introduzione alla teologia presso l’Università Cattolica del S. Cuore di Milano e vice-presidente del Comitato Etico dell’Azienda Ospedaliera “Maggiore della Carità” di Novara. Don Michele Valsesia, parroco dell'Ospedale di Novara, docente di Bioetica alla Facoltà Teologica dell'Italia Sett. sez. di Torino Prof. Paolo Rossi, (P.R.) Primario cardiologo di Novara Master di Bioetica Università Cattolica di Roma FORUM di BIOETICA NEWSLETTER n. 104 -maggio – 2013 - -

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Gli scopi del Forum sono: suscitare un interesse culturale sui principi fondanti della bioetica e

aprire il dibattito sui dilemmi etici dell’epoca moderna

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Il Discorso Interiore e il frutto della speranza , di Paolo Rossi • L’opzione fondamentale e la coscienza morale • Se il discorso interiore è carente per relazionarsi con le altre persone: nell’autismo, nell’individuo in rivolta, nell’egoista, nell’uomo dei desideri • Il discorso interiore nelle relazioni di amicizia: amerai il prossimo tuo come te stesso» (Gal 5,14), psicologia e psicoanalisi sulle relazioni umane, il significato della relazione integrale, l’amore scambievole dell’amicizia • Il discorso interiore è ineludibile: come il discorso interiore può condurre verso Dio • Non spegnere nel discorso interiore la luce della speranza: le virtù umane, la speranza cristiana

Comitato di redazione

Dott. Cleto Antonini, (C.A.), Aiuto anestesista del Dipartimento di Rianimazione Ospedale Maggiore di Novara;

Don Pier Davide Guenzi, (P.D.G.), docente di teologia morale presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Sezione parallela di Torino; e di Introduzione alla teologia presso l’Università Cattolica del S. Cuore di

Milano e vice-presidente del Comitato Etico dell’Azienda Ospedaliera “Maggiore della Carità” di Novara.

Don Michele Valsesia, parroco dell'Ospedale di Novara, docente di Bioetica alla Facoltà Teologica dell'Italia Sett. sez. di Torino

Prof. Paolo Rossi, (P.R.) Primario cardiologo di Novara Master di Bioetica Università Cattolica di Roma

FORU M di B I OE T IC A

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-maggio – 2013 ---

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I l D i s co rs o I n te ri o re e il frutto della speranza

di Paolo Rossi Ma tu chi sei che avanzando nel buio della notte inciampi nei miei più segreti pensieri? W.Shakespeare, Giulietta e Romeo

Non appena l’uomo cessa d’occuparsi di cose esterne, di parlare coi suoi simili, quando si trova solo - sia pure in mezzo al frastuono delle vie d’una grande città - incomincia a intrattenersi con se stesso. Inizia un monologo a gradini progressivi che riflette le diverse sfere della persona, dall’intelligenza alla volontà, alla memoria, alla fantasia, ai desideri, alle intenzioni, e giunge alle intime profondità della coscienza. Ogni gradino può essere vissuto più o meno dolorosamente o gioiosamente in relazione alle così dette opzioni fondamentali che la persona è tenuta a compiere seguendo la voce della coscienza.

L’opzione fondamentale L’opzione fondamentale è una categoria dello schema personalista che sta ad indicare il comportamento umano responsabile. E’ una categoria decisiva per la riflessione morale. Certamente la morale non è riducibile all’opzione fondamentale, come fanno alcuni cultori di essa, ma nemmeno può essere sottovalutata detta struttura antropologica. L’opzione fondamentale non si riferisce alle decisioni dell’io periferico (opzioni categoriali), ma è una decisione che ha origine nel centro stesso della persona, dal suo cuore in senso biblico, colto come nucleo della sua personalità. Si tratta di una decisione fondamentale che condiziona tutte le altre decisioni fondamentali come intenzione di base. Essa si riferisce all’intera esistenza umana. E’ una decisione di tale densità che abbraccia tutto l’uomo e dà senso e orientamento a tutta la sua vita. Si tratta di una "consegna" radicale e totale: il sì o il no della persona. E’ la decisione che riassume tutta la vita morale di un soggetto. Essa consiste in una decisione fondamentale di consegna (accettare l’altro = avere fede, fidarsi) o di chiusura (costruirsi la propria storia = orgoglio, egoismo, superbia). L’opzione fondamentale è il fondamento basilare della moralità. Tutto va compreso a partire da essa. Agostino (354-430) e Tommaso (1225-1274) definivano tutto ciò «fine ultimo» che deve estendersi a tutto l’agire morale.

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Analizzando "il mondo delle decisioni umane", la psicologia del profondo ha messo in evidenza l’importanza che hanno nella struttura della personalità le cosiddette «scelte fondamentali» o «progetti generali di vita», attraverso i quali gli atti umani acquistano significato. Le decisioni umane dipendono spesso da altre decisioni più radicali. E’ possibile ricostruire catene di deliberazioni che sboccano, alla fine, in una scelta originaria. Questo dinamismo operativo è quello che veramente fa l’uomo e determina la sua personalità. Si comprende, dunque, perché non è possibile affermare che un uomo è buono o cattivo, stabilendo una specie di contabilità delle sue azioni buone e cattive, per offrire poi il saldo di quelle che prevalgono. Solo la scoperta delle catene delle sue motivazioni, sino a giungere al motivo fondamentale del suo agire, può servire per qualificare la persona umana. Ne consegue che si può considerare il significato antropologico dell’opzione fondamentale asserendo che «rappresenta l’orientamento, la direzione di tutta la vita verso il fine», guidato dalla voce della coscienza.

La coscienza morale

* La coscienza morale, presente nell’intimo della persona, è: “un giudizio della ragione, mediante il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto che sta per porre, sta compiendo o ha compiuto” (CCC, 1778). Senza l’uso della ragione non esiste coscienza; * Essa tuttavia non è:

un sentire immediato, che invece tante volte è frutto o di uno stato d’animo particolare o di una pressione dall’esterno, ad esempio dei mezzi di comunicazione sociale o dell’opinione della maggioranza;

legata all’istinto e neppure al soggettivismo relativista, che porta ad affermare che al di sopra della coscienza non ci può essere nessuna istanza superiore;

la sorgente stessa di verità e di valori, che precedono la coscienza; un assoluto, posto al di sopra della verità e dell’errore, del bene e del male; un agire secondo la propria personale interpretazione o umore e senza

risponderne a chicchessia. * La coscienza ha un triplice compito: • deduttivo: conosce, riconosce e applica le norme morali alle varie situazioni e scelte; • imperativo: decide il comportamento morale della persona, alla luce della legge morale, della voce interiore dello Spirito; • creativo: adotta strategie, progetta soluzioni, individua tonalità e modalità nel fare il bene. Il discorso interiore è indispensabile per percepire la voce della coscienza. “L’importante per ciascuno è di essere sufficientemente presente a se stesso al fine di sentire e seguire la voce della propria coscienza. Tale ricerca di interiorità è quanto mai necessaria per il fatto che la vita spesso ci mette in condizione di sottrarci ad ogni riflessione, esame o introspezione” (CCC, 1779): «Ritorna alla tua coscienza, interrogala. [...] Fratelli, rientrate in voi stessi e in tutto ciò che fate fissate lo sguardo sul Testimone, Dio» (s Agostino, In epistulam Ioannis ad Parthos tractatus, 8, 9: PL 35, 2041). Come deve essere la coscienza. Deve essere: • vera • certa • retta • libera • formata.

Una coscienza è vera, quando è fondata sulla verità. Infatti la coscienza è atto della ragione mirante alla verità delle cose. “La coscienza morale, per essere in grado di guidare rettamente la condotta umana, deve anzitutto basarsi sul solido fondamento della verità, deve cioè essere illuminata per riconoscere il vero valore delle azioni e la consistenza dei criteri di valutazione, così da

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sapere distinguere il bene dal male, anche laddove l’ambiente sociale, il pluralismo culturale e gli interessi sovrapposti non aiutino a ciò” (BENEDETTO XVI, Discorso, 24-2-07). * Occorre pertanto annunciare, difendere e promuovere la possibilità per la ragione di: •→ conoscere la verità: oggi addirittura si diffida anche della capacità della ragione di percepire la verità. Come pure avviene che la riduzione della coscienza alla certezza soggettiva porta nello stesso tempo alla rinuncia alla verità; •→ non interpretare tale verità come pare e piace a ognuno: la coscienza è un antidoto anziché una scusa per il soggettivismo (secondo cui ciò che uno pensa è criterio e fonte di verità) e il relativismo (secondo cui non esiste la verità, ma ci sono tante verità.

È importante che la coscienza sia certa, perché la persona deve sempre agire, in campo morale, in tutta certezza e sicurezza, al fine di essere sempre pienamente responsabile delle sue azioni e non essere nel dubbio, e cioè nel non sapere cosa sia giusto fare. In tal caso, ella deve prima informarsi da persone di fiducia e competenti, al fine di sciogliere ogni dubbio e agire nella certezza acquisita.

La coscienza deve essere retta, significa che la coscienza deve “essere in accordo con ciò che è giusto e buono secondo la ragione e la Legge divina” (Compendio, 373). La coscienza non sempre ha ragione, non è infallibile: se così fosse, non ci sarebbe nessuna unica verità, poiché molte volte i giudizi di coscienza si contraddicono, fra persone diverse e anche in una medesima persona. * La coscienza può emettere un giudizio erroneo, il che avviene quando il suo giudizio si discosta dalla ragione e dalla Legge divina. L’ignoranza è colpevole: «Quando l’uomo non si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca inseguito all’abitudine del peccato» (GS 16). In tali casi la persona è colpevole del male che commette. * La coscienza erronea non può essere giustificata se il suo essere in errore è dovuto a ignoranza colpevole oppure a un ottenebramento della sua coscienza. “Il non vedere più le colpe, l’ammutolirsi della voce della coscienza in così numerosi ambiti della vita è una malattia spirituale molto più pericolosa della colpa, che uno è ancora in grado di riconoscere come tale. Chi non è più in grado di riconoscere che uccidere è peccato, è caduto più profondamente di chi può ancora riconoscere la malizia del proprio comportamento, poiché si è allontanato maggiormente dalla verità e dalla conversione” (Card. JOSEPH RATZINGER, Elogio della Coscienza, Conferenza del 16 marzo 1991).

La coscienza è libera* L’uomo ha il diritto di agire in piena libertà secondo la sua coscienza: ◊ non può essere costretto ad agire contro la sua coscienza (cfr. Rm 14, 23): “In tutto quello che dice e fa,l’uomo ha il dovere di seguire ciò che sa essere giusto e retto” (CCC, 1778); ◊ ma non può neppure essere impedito di agire secondo la propria coscienza, soprattutto in campo religioso. * Esiste tuttavia un limite a tale libertà. Si deve seguire la propria coscienza: • senza andare contro il bene comune, • nel rispetto di quei valori che non sono negoziabili, proprio perché corrispondono a verità obiettive, universali ed uguali per tutti. Le norme che la coscienza deve sempre seguire: 1) non è mai consentito fare il male perché ne derivi un bene; 2) la cosiddetta Regola d’oro: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt7,12); 3) la carità passa sempre attraverso il rispetto del prossimo e della sua coscienza, anche se questo non significa accettare come un bene ciò che è oggettivamente un male” (Compendio, 375).

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Una coscienza è ben formata, e cioè “formula i suoi giudizi seguendo la ragione, in conformità al vero bene voluto dalla sapienza del Creatore” (CCC, 1783). * Quanto più la coscienza è informata e formata, e tanto più è libera. * La coscienza, come una sorgente di acqua, può anche essere inquinata, deviata, adulterata. Ma in tal caso può essere anche aiutata a purificarsi, a ritrovare la giusta strada, mediante un’adeguata informazione e formazione, sempre tuttavia nel rispetto della sua libertà e dignità.

Se il discorso interiore è carente per relazionarsi con le altre persone

Nell’autismo. La mancanza o l’insufficienza del discorso interiore appare essere tipico del soggetto affetto da autismo; una condizione di handicap che deriva da un disturbo nello sviluppo con tre aree di menomazioni che riguardano la relazione sociale reciproca, la comunicazione verbale e non verbale, e un repertorio ristretto e ripetitivo di interessi e attività. I suoi sintomi si manifestano come un ritiro autistico (nel senso di comportamenti notevolmente anomali e non sempre comprensibili, a causa dei quali la persona si trova esposta a un alto rischio di isolamento sociale), dovuto a gravi alterazioni nelle aree funzionali cerebrali superiori. I soggetti che sono in grado di utilizzare il linguaggio si esprimono in molte occasioni in modo bizzarro; spesso ripetono parole, suoni o frasi sentite pronunciare (ecolalia). L'ecolalia può essere immediata (ripetizione di parole o frasi subito dopo l'ascolto), oppure ecolalia differita (ripetizione a distanza di tempo di frasi o parole sentite in precedenza). Alcune persone autistiche possiedono una straordinaria capacità di calcolo matematico, sensibilità musicale, eccezionale memoria audio-visiva o altri talenti in misura del tutto fuori dell'ordinario, come ad esempio la capacità di realizzare ritratti o paesaggi molto fedeli su tela senza possedere nozioni tecniche di disegno o pittura. La gravità e la sintomatologia dell'autismo variano molto da individuo a individuo e tendono nella maggior parte dei casi a migliorare con l'età, in particolare se il ritardo mentale è lieve o assente, se è presente il linguaggio verbale, e se un trattamento terapeutico valido viene intrapreso in età precoce. Imparare a parlare e a ordinare i propri pensieri nella mente, e quindi suscitare un discorso interiore, può aiutare i bambini con autismo a migliorare lo svolgimento di attività più complesse e aumentare l'indipendenza, secondo un nuovo studio condotto dalla Durham University in Inghilterra, (pubblicata su Development and Psychopathology il 24 gennaio 2012). Il meccanismo per l'utilizzo del 'discorso interiore' è intatto nei bambini con autismo, ma non sempre è utilizzato allo stesso modo dei bambini a sviluppo tipico. Gli psicologi hanno dimostrato come l'uso e l'assenza di discorso interiore appaiano fortemente legati al grado di disabilità di comunicazione nella prima infanzia. Fondamentali quindi, secondo la ricerca, l'insegnamento e le strategie di intervento destinati a favorire il discorso interiore e a incoraggiare i bimbi a descrivere le proprie azioni ad alta voce. Tra i suggerimenti pratici, ad esempio, spronare i bambini autistici ad apprendere verbalmente il programma scolastico quotidiano piuttosto che lasciargli utilizzare gli orari visivi. Nell’individuo in rivolta. La ‘rivolta’ 1

1 La rivoluzione invece è atto cosciente, direzionale, preciso, organizzato e non necessariamente violento. Quanto meno nel suo concetto più esteso e moderno. Nonostante gli equivoci e le sovrapposizioni fra i

è quel moto di ribellione che nasce quasi con spontaneità, che ha obiettivi precisi, spesso non perseguiti, poiché, essendo generata dalla rabbia, non porta mai

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ad alcuna conclusione. È un moto reattivo più o meno spontaneo che in genere si incanala ora su questo obbiettivo ora su quello, a volte invece su nessuno, girando intorno a sé stessa infuriata e feroce come un cane che cerca la propria coda; senza una connotazione precisa, è legato ad un rabbia non meglio identificata che arde di fuoco vivissimo, pericoloso e violento, ma breve e tutto sommato privo di molto costrutto. Vi è un modo di dire “no” che ha, apparentemente, qualcosa di irrazionale. Richiama l’atteggiamento del bambino che non può esibire le ragioni del suo rifiuto e ritiene che persistere nel suo atteggiamento dimostri, all’adulto, la sua forza. Specie quando questo “no” si esprime con un linguaggio verbalmente violento, intollerante, ricorrendo magari a epiteti di cui spesso s’ignora il significato. Che si tratti di comportamenti additati come ricorrenti nei bambini, proprio perché bambini, è cosa nota a tutta la psicologia dell’età evolutiva. E ciò non desta grave preoccupazione. Al contrario, desta preoccupazione il ripetersi di tali atteggiamenti se descrivono modalità comunicative di soggetti adulti: è come se il discorso interiore fosse bloccato o peggio distorto dalla rabbia, che rappresenta la tipica reazione alla frustrazione e alla costrizione, sia fisica che psicologica 2

Lo tsunami verbale di Grillo e Casaleggio che a tratti sembra sradicare le fondamenta del tessuto civile e di tutti gli assetti che lo esprimono e lo garantiscono, lascia trasparire un fondamento inquietante. A ben vedere vi è al fondo una traslazione di categorie che bene ha identificato Albert Camus

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Alla fine del primo capitolo egli scrive: “In quella che è la nostra prova quotidiana, la rivolta svolge la stessa funzione del “cogito” nell’ordine del pensiero: è la prima evidenza. Ma questa evidenza trae l’individuo dalla sua solitudine. (...) Mi rivolto, dunque siamo”.. Se nel cogito cartesiano l’uomo riconosce il fondamento della propria esistenza, è all’atto del rivoltarsi che si deve quello che siamo. È un atto di volontà pura che fonda il nostro esserci storico. Più che di “volontà di potenza”, si tratta di “volontarismo tragico” il cui approdo nichilista sembra giustificare le forme e i linguaggi irrazionali che esprimono la protesta nei molteplici aspetti degli Indignados di oggi.

in uno dei suoi testi più “filosofici” che è L’uomo in rivolta, tr. it. 1972, p. 30-31 scritto nel 1951.

Nell’egoista. «Se l’uomo è di animo egoista, la sua conversazione intima con se stesso sarà ispirata alla sensibilità o all’orgoglio; allora egli s’intrattiene dell’oggetto della sua cupidigia, della sua invidia, e poiché in tal modo non trova in se stesso che tristezza e morte, egli cerca di sfuggirsi, vuole esteriorizzarsi e divertirsi per dimenticare il vuoto e il nulla della propria vita. In questa conversazione intima dell’egoista con se stesso vi è una certa conoscenza d’infima qualità, di se medesimo, come pure un amore non meno basso della propria persona.

due termini siano moltissime ed anche se le esperienze sino ad oggi in qualche modo ci dicono che le rivoluzioni pacifiche sono rare. 2 Insieme alla gioia e al dolore, la rabbia è una tra le emozioni più precoci. Essendo l'emozione la cui manifestazione viene maggiormente inibita dalla cultura e dalle società attuali, molto interessanti risultano gli studi evolutivi, in grado di analizzare le pure espressioni della rabbia, prima cioè che vengano apprese quelle regole che ne controllano l'esibizione. Inoltre, la rabbia fa parte della triade dell'ostilità insieme al disgusto e al disprezzo, e ne rappresenta il fulcro e l'emozione di base. Tali sentimenti si presentano spesso in combinazione e pur avendo origini, vissuti e conseguenze diverse risulta difficile identificare l'emozione che predomina sulle altre. 3 Albert Camus (1913 –1960) è stato un filosofo, saggista, scrittore e drammaturgo francese nobel per la letteratura 1957.

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Conosce soprattutto la parte sensitiva della propria anima, quella che è comune all’uomo e all’animale; per tal modo ha gioie e tristezze sensibili secondo che il tempo è buono o cattivo, secondo che guadagna o perde denaro. Dello stesso ordine sono i suoi desideri e le sue avversioni e, quando è contrariato, ha impazienze e scatti di collera, ispirati dall’amore disordinato che porta a se stesso. Ma l’egoista conosce ben poco la parte spirituale dell’anima sua, quella che è comune all’angelo e all’uomo. Anche se crede alla spiritualità dell’anima e delle facoltà superiori - intelletto e volontà -, non vive in quest’ordine spirituale. Egli non conosce, per così dire, sperimentalmente questa parte superiore di se stesso, e pertanto non l’ama abbastanza.» 4

Nell’uomo dei desideri

Se non ami te stesso, odierai tutto ciò che esiste al mondo, prime fra tutte le altre persone. L’egoista invece ama solo se stesso è perciò incapace di vivere la vera amicizia. La conversazione intima dell’egoista con se stesso si avvia alla morte e pertanto non può dirsi vita interiore. L’amore di se steso lo induce a farsi il centro di tutto, a far convergere tutto – persone e cose - verso di sé; ma essendo ciò impossibile, si trova spesso disilluso e disgustato, diviene insopportabile a se stesso ed agli altri; e per aver voluto amarsi troppo finisce coll’odiarsi, e talvolta finisce coll’odiare la vita per aver troppo desiderato quanto in essa vi è d’inferiore (S. th. IIa, IIa e q. 25, a. 7).

L'esperienza ci fa constatare dice san Tommaso, che tutti gli uomini tendono alla felicità, e se questo desiderio è così universale, evidentemente è naturale (QDM (Questioni disputate sul male), q. 13, a. 3; q. 14, a. 4). Ciò si verifica anche negli uomini che seguono i vizi; infatti l'oggetto di un vizio, specie se capitale, è desiderabile «soprattutto in quanto ha una sorta di somiglianza con la felicità, che tutti naturalmente desideriamo» (QDM, q. 14, a. 4). La felicità, dice Aristotele, ha tre condizioni: che sia un bene perfetto, per sé sufficiente (sia perché voluto per se stesso e non come mezzo per qualcosa d'altro, sia perché è ciò che da solo rende la vita umana non bisognosa di nulla) e che sia accompagnato dal godimento (QDM, q. 13, a. 3). Ora, tanto è vero che la felicità ha una priorità tra i fini perseguiti dagli uomini, che questo primato si estende anche a qualsiasi realtà che partecipi «veramente o apparentemente» di una delle suddette sue condizioni. E ciò si verifica anche nei vizi capitali. Nel superbo la conversazione intima con se stesso sarà ispirata alla vanagloria e al desiderio di felicità: «l'eccellenza (o superiorità) sembra essere qualcosa di principalmente desiderabile»; d'altra parte c'è chi segue il vizio della gola o quello della lussuria, perché «nelle cose sensibili il massimo godimento si trova nel senso del tatto, nei cibi e nei piaceri venerei»; inoltre c'è chi si affida all'avarizia, perché «soprattutto le ricchezze promettono la sufficienza dei beni temporali» (ibid.). Ma l'analisi tommasiana fa vedere che anche nei rimanenti vizi capitali ciò che muove a un certo comportamento è l'affezione e la tensione (non priva di una deliberazione della volontà) del soggetto a un proprio bene, considerato talmente appagante e supremo - per sé sufficiente - da condurre a misconoscere e avversare altri beni, contro l'ordine della giustizia e della ragione. Così nell'invidia ci si rattrista per il bene altrui, perché è ritenuto un ostacolo alla propria superiorità; nell'accidia ci si rattrista del bene spirituale divino, perché è visto come un impedimento al bene e alla quiete del proprio corpo; nell'ira, in quanto

4 Garrigou-Lagrange o.p. Le tre età della vita interiore. vol I cap II pag. 63-64. Edizioni Vivrein, 2011

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viziosa, uno si scaglia contro il prossimo per punirlo, anche al di là del giusto, a causa di qualche offesa subita, cioè per riparare un danno arrecato a un proprio bene. Ma l'uomo contemporaneo è sconcertato, smarrito, perché, pur obbedendo, nell'inseguire questi obiettivi, alla tensione del proprio desiderio, è condotto a bere l'amaro calice della delusione. E non riesce a capirne il perché. Ma per rinvenire una risposta, bisogna mettere in discussione e valutare criticamente almeno due dei presupposti più comunemente dati per scontati da parte di diversi filoni di pensiero del nostro tempo. Si tratta, per così dire, di due dogmi su cui vige una sorta di divieto tacito di far domande: quello che vuole che la libertà dell'uomo, per essere tale, debba essere una libertà assoluta, senza vincoli o limiti da rispettare; e l'altro, per il quale la verità è vista con sospetto, perché considerata o come fonte dì intolleranza e di imposizione verso gli altri o come repressiva della spontaneità e dell'arbitrio della soggettività. Come si vede i due dogmi si implicano reciprocamente tra di loro, contribuendo a costruire artificiosamente l'ambiguo piacere del dubbio come difesa dalla verità come se la fame non ci fosse per essere saziata e se addirittura saziarla fosse nocivo - e il fascino sinistro di itinerari trasgressivi, saputi come potenzialmente e rischiosamente esiziali, come se le rotte senza bussola verso il naufragio fossero preferibili ai cammini, ordinati e faticosi, ma gratificanti, della crescita e dell'adempimento.

Il discorso interiore nelle relazioni di amicizia C’è una frase, come dice san Paolo, che è anche la sintesi di ogni comandamento: «Tutta la legge trova la sua pienezza in un solo precetto:

amerai il prossimo tuo come te stesso» (Gal 5,14) e che troviamo alle radici dell’amicizia.

Il precetto: ama i prossimi come te stesso; dice un filosofo: «non è da intendere che alcuni ami il prossimo parimenti a sé ma similmente a sé: che non l’ami per il proprio utile o piacere, ma per ragione, e voglia al prossimo quel bene che a sé» (Summa teologica, II, 2, 9, XLIX). «Ma del resto l’uomo non può non amar sé più che altri e deve e se stesso in altrui, e in altrui pensare se stesso» (S. th, XXVI, 4). Si tratta di una frase per certi versi misteriosa. Ma anche un sibillina, perché sembra addirittura in contrasto con l'esempio di Gesù che ha amato gli uomini fino a sacrificare per loro la sua stessa vita. Una espressione che sembra persino giustificare un certo egoismo, essendo da essa invitati a porre l'attenzione a noi stessi prima che agli altri. Una apparente sollecitazione a non promuovere slanci di generosità così grandi da anteporre quel prossimo, che il Signore pur ci chiede ripetutamente di amare, al sentimento verso se stessi. Ma la contraddizione è, solo apparente. In realtà questo precetto, che tutti li riassume, esprime al meglio la giusta dinamica che riguarda il nostro rapporto al contempo con Dio e con i fratelli. Psicologia e psicoanalisi sulle relazioni umane. Dell'importanza di partire da questo atteggiamento di amore e di rispetto verso noi stessi per giungere a quello verso gli altri ci danno conferma anche le scienze dell'uomo come la psicologia e la psicanalisi. Le quali, pur nella differenza dei metodi e dei presupposti, hanno come scopo di aiutare coloro che esse curano ad imparare a vivere relazioni corrette e soddisfacenti. Un uomo, infatti, si sente felice e realizzato solo quando avverte di saper suscitare amore attorno a se dando e ricevendo stima e affetto. Ma, al di là della buona volontà e della retta intenzione, di fatto molti sono gli ostacoli che impediscono rapporti di questo tipo, le scienze umane cercano di aiutare le persone anzitutto a fare un percorso interiore di conoscenza di se stessi. Un percorso che faccia emergere poco a

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poco i blocchi e i complessi inconsci rimossi e sepolti nel profondo, il vissuto di sofferenze e di disagi accumulatisi negli anni, in modo tale che la persona possa prendere coscienza dei nodi che la tengono legata e in questo modo scioglierli. Solo allora, avendo fatto pace con se stessa, avendo raggiunto un atteggiamento di giusta stima, di rispetto, di amore corretto verso di sé, possa ritrovare anche un giusto rapporto con gli altri. Un rapporto vero, autentico, in cui non ci siano aggressività esasperate ma neanche generosità esagerate e pericolose, perché fondate non su un sincero amore per gli altri quanto, piuttosto, su un bisogno del loro affetto e della loro riconoscenza che sostituisca l'amore verso se stessi che non si è capaci di darsi. Se non abbiamo verso noi stessi la stima e il rispetto che ci dobbiamo, finiremo per provocare danni al nostro prossimo anche quando ci presentassimo, pur con il massimo di buona fede, come degli altruisti convinti. Le scienze però annaspano quando, elevandosi dal piano empirico della osservazione a quello del significato, cercano di spiegare la causa, l’origine di queste esigenze e cercano di rispondere all'interrogativo: «Perché l'uomo è fatto così, che senso ha tutto questo suo bisogno di relazione e di amore all'interno della propria persona e con gli altri che lo circondano?». Il significato della relazione integrale. La Rivelazione ci insegna ciò che da soli difficilmente saremmo in grado di capire del tutto, e ci aiuta ad allargare il nostro sguardo e il nostro orizzonte fino alla dimensione soprannaturale. Essa, infatti, non si limita a dirci di amare il prossimo come noi stessi, ma fa precedere questo precetto da un altro: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente», aggiungendo subito dopo: «Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo. Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22, 37-40). Il Signore, dunque, ci insegna che il rapporto tra noi e gli altri è un rapporto allargato, non è un binomio ma un trinomio. Non riguarda più soltanto quello dell'uomo con se stesso e con gli altri, ma ne presuppone un altro, quello con Dio. Rapporto, quest'ultimo, che appare fondante e decisivo. L'uomo da solo brancola nella nebbia e la luce della ragione, pur aiutandolo molto, non gli rischiara del tutto il cammino. Perciò, senza Dio, egli non sa bene chi sia, e neanche quale senso abbiano la sua vita e il suo destino. Da qui la necessità vitale per ogni uomo di vivere il rapporto con Dio con la maggiore pienezza possibile, cioè con tutto se stesso, ragione, psiche, spirito. E tutto questo non solo per conoscere Dio, fonte delta sua esistenza, ma anche per conoscere davvero se stesso. Per scoprire, vivendo in un rapporto vivo e vitale con lui, facendo esperienza del suo amore, di essere stato messo al mondo non per un caso fortuito, ma di essere stato pensato e voluto per un preciso disegno che va poco a poco dipanandosi nella vita di ciascuno. Un disegno che abbraccia tutti con lo stesso amore, ricchi e poveri belli e brutti, sani e malati, intelligenti e mediocri, giovani e vecchi. Un disegno che, al di là delle apparenze mondane,nel segreto del cuore valorizza tutti e ciascuno con la medesima intensità. Così, è solo scoprendo l'amore di Dio per noi, assaporandolo sempre più giorno dopo giorno nel tentativo di ricambiarlo con tutti noi stessi che noi apprendiamo di essere degni di amore nonostante tutti i nostri limiti. È questo Dio che ci ama per primo e in modo assoluto, perfetto, totale che noi a nostra volta impariamo a stimarci e ad amarci nel modo davvero giusto. L’amore scambievole dell’amicizia. Secondo San Tommaso l’amicizia consiste essenzialmente in un amore scambievole tra simili: è un rapportarsi ad altri come a se stessi. "L’amore col quale uno ama se stesso è forma e radice dell’amicizia: abbiamo infatti amicizia per gli altri in quanto ci comportiamo con loro come verso noi stessi"

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(S. th. II-II, q. 24, a. 4). Ma l’amicizia si distingue sia dall’amore sia dalla carità; non qualsiasi amore si può chiamare amicizia: "Non un amore qualsiasi ma soltanto quello accompagnato dalla benevolenza ha natura (rationem) di amicizia: quando cioè amiamo uno così da volergli del bene. Se invece non vogliamo del bene alle cose amate, ma il loro stesso bene lo vogliamo a noi, come quando amiamo il vino o altre cose del genere, non si ha un amore di un amore di amicizia ma di concupiscenza. Infatti è ridicolo dire che uno ha amicizia per il vino o per il cavallo. Anzi, per l'amicizia non basta neppure la benevolenza ma si richiede l’amore scambievole; poiché un amico è amico per l’amico. E tale mutua benevolenza è fondata su qualche comunanza" (S. th. II-II, q. 23, a. 1). Ma c’è distinzione anche tra amicizia e carità. Infatti l’ambito dell’amicizia è più grande di quello della carità, tanto che si può dire che la carità è una sottospecie dell’amicizia: "La carità è l’amicizia dell’uomo con Dio principalmente e quindi con gli esseri che a Lui appartengono" (S. th. II-II. q. 25, a. 4), e tra gli esseri che appartengono a Dio anzitutto con gli uomini. ma poi anche con gli angeli (S. th. II-II, q. 25. a. 10). Però solo l’uomo buono può avere amicizia con Dio (S. th. I-II. q. 99, a. 2). e questa amicizia esige l’obbedienza (S. th. II-II, q. 24, a. 12).

Il discorso interiore è ineludibile

L’anima ha bisogno d’intrattenersi con un altro che non sia se stessa E perché mai?

Per la semplice ragione che essa non è fine a se stessa. Il suo ultimo fine è il Dio vivente, e l’anima non può trovar riposo che in Lui, come dice Sant’Agostino: Confessioni, I, 1: «Il nostro cuore, o Signore, è sempre inquieto e insoddisfatto, finché non si riposi in te». È la prova dell’esistenza di Dio col desiderio naturale di felicità, felicità vera e duratura che non può trovarsi fuori del Sommo Bene, conosciuto almeno imperfettamente, ma amato al disopra di tutto, più che noi stessi. Nelle ore d’isolamento, la conversazione intima riprende il suo corso, come per mostrare all’uomo che niente può arrestarla, cui non si può sfuggire perché inevitabile. Vorrebbe interromperla, ma non vi riesce. Vi è infondo all’anima un bisogno incoercibile che domanda di essere soddisfatto. In realtà, solo Dio può farlo, e l’unica via da seguire sarebbe quella che conduce a Lui. Ricordiamoci sempre che un non credente, comunque nostro fratello, può rimanere tale per colpa della nostra tiepidezza. Il nostro silenzio o la rassegnazione di fronte a coloro che respingono la nostra fede o si meravigliano del vigore che essa esprime, pesano negativamente sulla nostra salvezza e su quella degli altri. Di solito, per chi ci sta di fronte, noi siamo collocati in un quadro sociale inamovibile, che non ammette per nessuno un qualsiasi tipo di cambiamento, specie se rivoluziona il normale modo di essere. Dà molto fastidio, a coloro che fuggono di solito dal mettersi in discussione, la trasformazione sociale e spirituale di chi è in grado di rompere i falsi equilibri che ci circondano. Si preferisce, con ipocrisia, una vita scontata e assunta ad un relativismo strisciante. L’uomo pertanto rischia di consumarsi, senza mai conoscere la sua relazione con Dio, privandosi di varcare il suo recinto finito. Un “morto vivente”, magari tecnologico, privo però di vita vera. Noi cristiani dinnanzi a chi ci impedisce di mostrare la nostra fede dobbiamo essere come il cieco di Gerico: "…molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: 'Figlio di Davide, abbi pietà di me'". Il cieco non si interessa di quanti lo ammoniscono, lui grida più forte, tanto forte da essere ascoltato da Gesù Signore. La sua voce supera per intensità tutte le altre voci inutili, sceme, infruttuose, vane, che risuonano attorno a

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Cristo. Spesso si vuole far morire la fede nel nostro cuore, ma noi non possiamo svigorirci. “La gioia di credere è la responsabilità del cristiano: in questa ora della nostra storia dovremmo farla nostra con animo nuovo” Dice Benedetto XVI. La cristianità non ammette “un tavolo di mediazione istituzionale”!: “Il nostro tempo richiede cristiani che siano stati afferrati da Cristo, che crescano nella fede grazie alla familiarità con la Sacra Scrittura e i Sacramenti. Persone che siano quasi un libro aperto che narra l’esperienza della vita nuova nello Spirito, la presenza di quel Dio che ci sorregge nel cammino e ci apre alla vita che non avrà mai fine” 5

Come il discorso interiore può condurre verso Dio

. Solo così, anche chi ora respinge la fede altrui, potrà, domani, farla sua!

“Se l’uomo incominciasse a cercare il bene la sua conversazione intima con se stesso apparirebbe del tutto diversa. S’intratterrà, per esempio, su quanto è necessario per vivere onestamente e per provvedere alla famiglia. Ciò gli procura, talvolta, grandi preoccupazioni; sente la propria debolezza e il bisogno di porre la sua fiducia, non solo in se stesso,ma in Dio. Quest’uomo, anche se in peccato mortale, dato che non abbia peccato mortalmente per incredulità, disperazione, e presunzione può avere la fede cristiana e la speranza, che sussistono in noi anche dopo la perdita della carità. Allora a volte la conversazione che questo individuo ha con se stesso è rischiarata dal lume soprannaturale della fede; pensa ogni tanto alla vita eterna e la desidera, benché il desiderio rimanga languido; anzi talvolta si sente persino spinto da una ispirazione particolare a entrare in chiesa per pregare. Se, finalmente, quest’uomo ha per lo meno l’attrizione 6 delle sue colpe e ne riceve l’assoluzione, ricupera lo stato di grazia e la carità, l’amor di Dio e del prossimo. Da quel momento, quando si trova solo, la conversazione con se stesso cambia di tono. Incomincia ad amarsi santamente, non per se medesimo, ma per Iddio, e ad amare i suoi per Lui; a comprendere che deve perdonare ed amare i nemici, a volere per essi, come per se stesso, la vita eterna. Spesso, però, la conversazione intima dell’uomo in stato di grazia rimane ancora contaminata da egoismo, amor proprio, sensualità, orgoglio. In lui tali colpe non sono più mortali ma veniali; però se sono troppo frequenti lo inducono a ricadere nel peccato grave, vale a dire, ad andare nuovamente incontro alla morte spirituale. Allora l’uomo tende nuovamente a fuggire se stesso, poiché non trova più nel suo intimo la vita, ma la morte; e quindi invece di riflettere salutarmente su tale stato, si getta sempre più in braccio alla morte ingolfandosi nel piacere, nelle soddisfazioni della sensualità e dell’orgoglio”. 7

5 Benedetto XVI: La gioia della fede. San Paolo Edizioni, aprile 2012.

6 Attrizione (dal lat. attĕro "pesto, schiaccio"). - È, nel linguaggio teologico, il dolore e la detestazione dei peccati per i motivi indicati dal concilio di Trento (Sess. XIV, cap. 4), cioè per il timore dei castighi eterni e delle altre pene e per la bruttezza del peccato. Si dice anche contrizione imperfetta, perché, a differenza della contrizione perfetta che nasce dalla carità cioè il dolore vero per l’offesa a Dio, l’attrizione non deriva dal puro amore verso Dio, ma si fonda sopra motivi d'ordine inferiore, i quali però si riferiscono sempre a Dio. Questa relazione a Dio è un elemento essenziale e costitutivo dell'attrizione nel senso teologico. L'attrizione nel sacramento della penitenza basta per ottenere il perdono dei peccati, purché abbia le doti necessarie, cioè sia vera o interna, soprannaturale, somma ed universale rispetto ai peccati mortali. Fuori del sacramento della penitenza, è sufficiente ad ottenere il perdono delle colpe veniali. Il concetto di attrizione contiene, esplicitamente o almeno implicitamente espresso, anche il proposito di non più commettere il peccato. 7 Garrigou-Lagrange o.p. Le tre età della vita interiore. vol I cap II pag. 65. Edizioni Vivrein, 2011

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Non spegnere nel discorso interiore la luce della speranza Nel 1979 girava per tutta l’Italia un libro di Giovanni Testori8

“Il Creatore dell’Universo si è fatto schiavo degli uomini, attraverso il grembo di una donna. Dio stesso ha posto al centro di tutta la propria azione salvifica il corpo di una donna. La donna rappresenta questo legame di ciascuno con un destino che non si è scelto, che non ha prodotto lui. La donna ci lega alla terra, ai doveri quotidiani, anche quelli piccoli (che spesso sono i più duri) all’accettazione e all’amore per i figli. Ci ricorda, con il suo stesso corpo, con la sua stessa presenza, che noi (noi tutti) siamo creature dipendenti e perciò noi (noi uomini, noi maschietti) non possiamo illuderci di realizzare noi stessi volando per il mondo senza legami.”

: “Interrogatorio a Maria”. Ed è proprio la figura di Maria a stagliarsi nel cuore delle sue parole, in questo articolo: Maria, la donna grazie alla quale Dio, l’Infinito, si è incatenato alla miseria dell’uomo, alla storia, alle nascite e alle morti, ai letti, al dolore, alle piccole speranze (guarire da una malattia, ritrovare la moneta perduta, tornare a casa dopo aver dissipato un patrimonio) di tutti gli uomini. Senza mezzi termini, Testori individua infatti nella violenza contro le donne la radice, il seme stesso di ogni altra violenza, di ogni sopraffazione.

Le virtù umane. La fiducia negli altri ci permette di costruire le relazioni con gli altri indispensabili per la crescita come persone: da quella che il bambino instaura con suoi genitori a quella che nel corso della vita ci è necessaria per tessere la tela dei rapporti umani. Se non avessimo questa fiducia, da una lato ci sarebbe impossibile sviluppare le nostre doti personali, dall’altra saremmo presi in un vortice di solitudine così dolorosa da desiderare la morte. L’altra virtù umana, quella della speranza sostiene l’individuo umano in tutte le sue azioni: è quella del bambino che si arrampica su una sedia perché tenta di raggiungere il dolce proibito, è quella del contadino che semina, del marinaio che compie una traversata, del commerciante che intraprende un affare. Si vuole conseguire un bene, un fine umano: ottenere un buon raccolto, approdare nel porto per il quale si è salpati, realizzare ricchi guadagni. Ed esiste la speranza cristiana. Essa è essenzialmente soprannaturale, e, pertanto, supera di gran lunga il desiderio umano di essere felici e la fiducia naturale in Dio. Con la speranza aspiriamo alla vita eterna, a una felicità soprannaturale che è possesso di Dio: a vedere Dio come Egli stesso si vede, ad amarlo come Egli si ama. Il motivo fondamentale per il quale speriamo di conseguire questo bene infinito è che Dio ci porge la sua mano, con infinita misericordia e amore, e noi corrisponderemo con la nostra volontà, accettando con amore la mano che Egli ci tende. 9

«La speranza cristiana deve avere due qualità o proprietà: deve essere laboriosa per evitare la presunzione che aspetta senza faticare la ricompensa divina, e deve essere fermissima, invincibile per evitare lo scoraggiamento»

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C'è presunzione quando si confida più nelle proprie forze che nell’aiuto di Dio e si dimentica la necessità dell’aiuto della grazia per le buone opere che realizziamo; oppure quando dalla misericordia divina si spera ciò che Dio non può darci per nostra cattiva disposizione: per esempio il perdono senza un vero pentimento, o la vita eterna senza nostro minimo sforzo per meritarla. Non capita di rado che dalla

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8 Giovanni Testori (Novate Milanese, 12 maggio 1923 – Milano, 16 marzo 1993) è stato uno scrittore, drammaturgo, storico dell'arte e critico letterario italiano. 9 Garrigou-Lagrange, Le tre età della vita interiore, III, 18. (già citato) 10 ibidem

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presunzione si passi in breve allo scoraggiamento, davanti a prove e difficoltà, come se questo bene arduo, che è l’oggetto della nostra speranza, fosse irraggiungibile. Lo sconforto porta prima al pessimismo e poi alla tiepidezza 11

La causa dello sconforto non sono le difficoltà, ma la mancanza di desideri sinceri di santità e di giungere al cielo. Chi ama Dio, e vuole amarlo ancora di più, approfitta proprio delle difficoltà per dimostrargli il suo amore e per accrescere le virtù. Si perde la speranza quando si cade nell’imborghesimento, nell’attaccamento ai beni della terra, gli unici che si reputano veri.

, per la quale si considera troppo difficile il compito della santificazione personale e si rinuncia a ogni sforzo.

Nella vita dobbiamo muoverci con obiettivi ben determinati, con lo sguardo posto in Dio, e ciò ci porta a svolgere con speranza le nostre attività temporali, ci costino o no. Allora comprendiamo che tutti i beni terreni (essendo beni) sono relativi e debbono rimanere sempre subordinati alla vita eterna e a quanto vi si riferisce. L’obiettivo della speranza cristiana trascende, in maniera assoluta, tutto ciò che è temporale. Questo atteggiamento davanti alla vita, che fa conservare la speranza, prevede una lotta quotidiana e allegra, perché la tendenza di ogni uomo e di ogni donna è a fare di questa vita una “città permanènte”, quando invece siamo di passaggio. La lotta ascetica, l’esame generale quotidiano, il ricominciare una volta dopo l’altra, con umiltà, senza lasciare spazio allo sconforto, sono la migliore garanzia per mantenerci saldi nella speranza.

Prof. Paolo Rossi, primario cardiologo Novara [email protected]

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