Formazione esperienziale e processi riflessivi...Giovanni Reale, che presenta diversi contributi....

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D D D i i i a a a l l l o o o g g g h h h i i i R R i i v v i i s s t t a a d d i i s s t t u u d d i i s s u u l l l l a a f f o o r r m m a a z z i i o o n n e e e e s s u u l l l l o o s s v v i i l l u u p p p p o o o o r r g g a a n n i i z z z z a a t t i i v v o o A A n n n n o o V V I I I I , , n n u u m m e e r r o o 1 1 , , M Ma a r r z z o o 2 2 0 0 1 1 6 6

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Descrizione immagine di copertinaRembrandt van Rijn, Lezione di Anatomia del dottor Nicolaes Tulp, 1632, olio sutela, 169,5x216,5, Mauritshuis, L'Aia. Particolare.

Anche chi s'interessa poco alla storia dell'arte avrà forse individuato chi sono i cinqueseriosi signori con barba, baffi e gorgiera riprodotti in copertina, talmente famoso è ildipinto da cui proviene il dettaglio. Si tratta della Lezione di Anatomia del dottor NicolaesTulp che, ad Amsterdam, valse al ventiseienne Rembrandt fama immediata di granderitrattista. Si trattava infatti di una delle committenze più prestigiose che si potesseroavere, da parte dalla potente gilda dei medici chirurghi che già nel 1628 aveva insignito ildottor Tulp della carica "Praelector anatomiae". Oltre ad essere medico famoso, egli eraanche una delle persone più influenti della ricchissima città olandese, più volte nominatoborgomastro.I cinque volti che vediamo nel dettaglio del quadro raffigurano altrettanti chirurghi membridella gilda: la luce li colpisce frontalmente mettendone in risalto ogni minimo dettagliofisiognomico. La verità dei volti è sottolineata anche dal potente chiaroscuro che lascia inombra i vestiti e mette in risalto le candide gorgiere. Se si esclude il personaggio che stapiù in alto, che ha un'aria più distaccata, gli altri visi mostrano una straordinaria intensitànello sguardo, un'attenzione quasi ipnoticamente catturata dalla scena alla quale stannoassistendo e l'ansia di apprendere.L'osservazione dell'intero quadro ci consente di capire come il medico che nel dettagliosta sulla sinistra fissi, nell'avambraccio del cadavere che è stato dissezionato, il forcipecon il quale il dottor Tulp, con la mano sinistra, sta separando muscoli e tendini; altri duemedici guardano invece la sua mano destra che illustra quali sono i movimenti delle ditacomandati dai muscoli evidenziati; il quarto - quello con la gorgiera più suntuosa - volge losguardo verso la scena, dopo averlo distolto da un disegno che stava esaminando (trattoforse dal De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio), mostrandosi desideroso per cosìdire di mettere a confronto sapere codificato e sapere esperienziale.

Rembrandt van Rijn, Lezione di Anatomia del dottor Nicolaes Tulp, 1632, olio su tela, 169,5x216,5,Mauritshuis, L'Aia

La lezione di anatomia che il dottor Tulp sta tenendo a beneficio degli altri membri dellagilda non rappresenta un fatto eccezionale: tutti gli anni il Praelector anatomiae, erainvitato a tenere una pubblica dissezione di un cadavere, appartenente a un criminale cheera stato giustiziato. È in questo modo che - in una sorta di involontario rovesciamentodella damnatio memoriae - conserviamo il ricordo di tal Aris Kint, finito impiccato dopo unalunga carriera di ladro, essendo stato il suo corpo esangue immortalato da Rembrandt alcentro della scena.

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Quali suggestioni si possono ricavare dalla tela?

Chi si occupa di storia vi può leggere - come un po' in tutta la pittura olandese del '600 -l'orgoglio della ricca borghesia protestante vissuta nel "Secolo d'Oro" per il benessereraggiunto, ma anche il senso etico del lavoro come valore, che porta a considerare ilbenessere come segno della grazia divina, non disgiunto da un attaccamento alleistituzioni pubbliche e dalla responsabilità sociale della propria professione.Chi è interessato alla storia della medicina vi scorge senza dubbio la suggestione deigrandi progressi compiuti nel '600 dall'anatomia (che ebbe due "centri di eccellenza" nellecattedre di Padova e di Bologna); riconosce inoltre l'accuratezza della dissezionedell'avambraccio ove - dicono gli esperti - è posta in primo piano la funzione del "flessoresuperficiale delle dita". Troverà anche nella tela uno stimolo ad approfondire il ruolo, nondi secondo piano, che il dottor Tulp - chiamato il "Vesalio di Amsterdam" - ebbe nellosviluppo della anatomia e della farmacopea.

E il formatore?Sicuramente proverà ammirazione (e forse invidia) per un docente che riesce connaturalezza a gestire un'audience attenta e competente. Esistono, nel barocco olandese,altri quadri commissionati dalle gilde dei medici-chirurghi, che raffigurano anch'essil'evento della dissezione di un cadavere: nessuno raggiunge, neppure lontanamente, illivello artistico di questo dipinto.

Michiel van Miereveld, Lezione di anatomia del Dr. Willem van der Meer, 1617, oilio su tela,Museum Het Prinsenhof, Delft

Spesso si vedono i membri della gilda che guardano verso lo spettatore, dove farepresenza all'evento o coltivare relazioni sembra più importante che valersi di un'occasionedi apprendimento. Ciò che viene celebrato in quei teatri di anatomia - similmente a quantooggi avviene non di rado nelle aule - non è altro che un rituale; un rituale anche fastoso,che segue un copione ben definito, lasciando poco o nessun spazio ad aspettativecognitive.Lo scarto tra tali raffigurazioni e la tela di Rembrandt riesce a dirci, per così dire, cosasignifica "cultura della formazione".

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DialoghiRivista di studi sulla formazionee sullo sviluppo organizzativo

Comitato di Redazione: Giuseppe Andriolo, Lauro Mattalucci, GiovanniGaetano Reale, Elena Sarati, Tiziana Teruzzi, Antonio Zanardo

Referente Scientifico Direttore ResponsabileLauro Mattalucci Elena Sarati

La sezione dedicata all'apprendimento dagli errori nelle organizzazioni è curatada Giovanni Reale

Hanno contribuito a questo numero: Rossana Di Renzo, Virginia Lucchesi,Daria Marinangeli, Lauro Mattalucci, Lorenzo Mugnai, Cristiana Pauletti,Rosaeugenia Pesci, Roberto Pezzoni, Giovanni Gaetano Reale, MartaVagaggini.

Si ringrazia per la testimonianza: Francesca Pasinelli, Direttore Generale diTelethon.

Il dipinto di Rembrandt in copertina è introdotto da Lauro Mattalucci

Sito della rivista:www.dialoghi.org

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INDICE

EDITORIALE ................................................................................................................... 3

ESPERIENZE E RIFLESSIONI................................................................................... 6APPUNTI SULLA EVOLUZIONE DELLE RIFLESSIONI E DEI PROGETTI DIKNOWLEDGE MANAGEMENT di Lauro Mattalucci ..................................................... 7

SEZIONE DEDICATA ALL'APPRENDIMENTO DAGLI ERRORI NELLEORGANIZZAZIONI a cura di Giovanni Reale .............................................................. 31L'APPRENDIMENTO DALL'ERRORE, UN FATTORE DI SUCCESSO PER LEORGANIZZAZIONIdi Daria Marinangeli, Roberto Pezzoni, Giovanni Gaetano Reale ............................... 32LA CULTURA DELLA SICUREZZA NELLA FORMAZIONE INFERMIERISTICA:PREVENZIONE E APPRENDIMENTO DALL'ERRORE NELLA PRATICAASSISTENZIALE di Rosaeugenia Pesci...................................................................... 52PENSARE E AGIRE IN SICUREZZA NEL TIROCINIO DELLE PROFESSIONISANITARIE: OBBLIGO LEGISLATIVO E OPPORTUNITÀ CULTURALE ..........................di Rossana Di Renzo ....................................................................................................... 66INTERVISTA ALLA DOTTORESSA FRANCESCA PASINELLI, DIRETTOREGENERALE DI TELETHONa cura di Daria Marinangeli, Roberto Pezzoni e Giovanni Gaetano Reale .................. 91

RECENSIONI ................................................................................................................ 97RECENSIONE DI COUNSELING ORGANIZZATIVO – UN APPROCCIOINDIVIDUALE E DI GRUPPO, DI GRAZIELLA NUGNESa cura di Cristiana Pauletti.............................................................................................. 98

ANCORA SULLE DONNE NEL MONDO DEL LAVORO ................................ 104PROGETTO 50/50 di Virginia Lucchesi, Lorenzo Mugnai e Marta Vagaggini ........ 105

NOTIZIE SUGLI AUTORI ......................................................................................... 114

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EDITORIALE

Inauguriamo il settimo anno di attività di Dialoghi con questo numero di Marzo,l'undicesimo, cui vanno aggiunti i tre monografici.

Si apre con un contributo di Lauro Mattalucci ("Appunti sulla evoluzione delleriflessioni e dei progetti di knowledge management") che ritorna dopo più di dodici annisul tema del Knowledge Management1, avendo in mente di comprendere se, anche perquesta tematica manageriale, si stia esaurendo l'"effetto moda" dopo la grande popolaritàregistrata già negli anni Novanta del secolo scorso. A giudicare dalla mole che la letteraturasul tema ha assunto sembra vero il contrario. Tuttavia la rassegna di tale letteratura, quandosi cerchi di distinguere le disinvolte proposte consulenziali dalle oneste riflessioni sui progettidi KM intrapresi dalle aziende, porta a registrare il venir meno di facili entusiasmi relativi allesempre più sofisticate piattaforme di K.M., o relativi a fascinose meditazioni sul tacitknowledge o alla invocazione salvifica dell'arte di nutrire le Comunità di Pratica. Diventainvece centrale il tema dei fattori critici di successo a cominciare dalla capacità delmanagement di chiarire, senza retorica, quale modello di Knowledge Governance si intendeadottare, declinandolo in priorità di intervento ed in responsabilità da attribuire ai manager dilinea ed a knowledge worker. In tale più realistica prospettiva assume particolare rilievo lacapacità di attivare iniziative di Knowledge Audit viste come primo passo necessario perimbastire un realistico progetto di K.M.

A tale riguardo, l'articolo si chiude con la proposta di una metodologia di K-Audit messaa punto dall'autore e testata al termine di una attività formativa nel settore R&D di unaazienda di rilievo internazionale.

Si prosegue con una parte interamente dedicata all'apprendimento dagli errori, curata daGiovanni Reale, che presenta diversi contributi.

Daria Marinangeli, Roberto Pezzoni, Giovanni Gaetano Reale ("L’apprendimentodall’errore, un fattore di successo per le organizzazioni") propongono una riflessione sucome le organizzazioni possano favorire il miglioramento verso l’interno e verso l’esterno, siafacendo prevenzione sui potenziali errori, sia intervenendo successivamente quandoavvengono quelli che gli autori definiscono fattori indesiderati. L’attuale scenario richiede alleaziende di essere non solo efficaci, efficienti, sostenibili economicamente ma anche capacidi apprendere da ciò che si verifica nel loro perimetro d’azione (clienti, fornitori, strutturainterna, mercato, territorio, ecc.), per evolvere in modo continuo: gli “accadimenti”, che gliautori definiscono, più precisamente, effetti indesiderati, appunto, sono, per leorganizzazioni, l’occasione di favorire l’apprendimento a tutti i livelli (dall’individuale al inter-

1 Mattalucci L. (2003) "La pratica del Knowledge management: confronto tra approcci possibili",Studiorganizzativi, Vol.1, Novembre, pp.75-100.

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organizzativo). La blame culture che in molte organizzazioni condiziona l’analisi degli errori,etichetta le persone come colpevoli, limita l’apprendimento di cui le aziende necessitano emina la fiducia interna, aspetti, questi ultimi due, che sono invece fondamentali, in questianni, per il successo delle organizzazioni e la loro capacità di innovare. L’approccio,denominato PSC, che viene presentato, si ritiene possa aiutare le organizzazioni, diqualunque tipo, a lavorare per cambiare le condizioni all’interno delle quali le personeagiscono, evitando che le persone stesse diventino fattori attivi di errori che sonoprevalentemente organizzativi.

Sempre in questa sessione Rosaeugenia Pesci ("La cultura della sicurezza nellaformazione infermieristica: prevenzione e apprendimento dall’errore nella praticaassistenziale") si sofferma sulla cultura della sicurezza nel contesto specifico dei servizi dicura; contesto che coinvolge direttamente l’assistenza infermieristica e determina lanecessità di creare una coscienza professionale nei futuri professionisti infermieri. Questotema porta l'autrice anche a riflettere sull’errore, sulla sua prevenzione e gestione e, non daultimo, sullo sviluppo di un atteggiamento di apprendimento dagli eventi avversi ,importantenella formazione dei futuri professionisti del sistema sanitario. La formazione dello studentepropedeutica al tirocinio, ma soprattutto la funzione tutoriale da parte di infermieri cheaccolgono gli studenti in tirocinio, rappresentano il sistema che trasmette la culturaprofessionale e riduce la possibilità di errore. Gli studenti, si sottolinea nell'articolo, sentonomolto la preoccupazione di apprendere in sicurezza, di avere l'opportunità di essereaffiancati da infermieri esperti. Dal canto suo l’Azienda sede di tirocinio organizza, incollaborazione con il Corso, una formazione specifica per sviluppare le competenze tutoriali.

A seguire, Rossana Di Renzo ("Pensare e agire in sicurezza nel tirocinio delleprofessioni sanitarie: obbligo legislativo e opportunità culturale") sottolinea come inambito sanitario la prevenzione dell’errore sia un tema sentito e dibattuto. Una grandeconquista culturale, afferma l'autrice, è di accettare che in medicina, come in tutte le attivitàumane, si può sbagliare, che non è possibile pretendere la perfezione, ma è comunquegiusto impegnarsi per raggiungerla. L’Azienda USL di Bologna è sede di tirocinio per lediverse figure professionali sanitarie, tecniche, sociali ed educative. In questi anni è statoaffrontato il tema dell’applicazione del D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81 nell’ambito del tirocinio.Formare il tirocinante - così come ogni operatore della sanità - sulla tutela della salute e dellasicurezza nella pratica professionale è dovere previsto da un preciso obbligo legislativo. Maè anche e soprattutto un'opportunità di sviluppare la cultura della sicurezza e far sì chedivenga un valore costante per il futuro professionista che lavorerà in un’organizzazione e siprenderà cura dei cittadini. Nell’articolo sono illustrati alcuni dati riguardanti un’indagineconoscitiva che ha coinvolto i tirocinanti delle professioni sanitarie, i coordinatori didatticidelle sedi formative dei Corsi di Laurea e i tutor di tirocinio sul tema della percezione dirischio ed errore in tirocinio.

Conclude la parte una intervista al Direttore Generale di Telethon, DottoressaFrancesca Pasinelli incentrata sul tema della gestione degli effetti indesiderati (termine conil quale sono designati errori, eventi negativi, opportunità perse o risultati ritenutiinsoddisfacenti per le organizzazioni).

Sempre in questo numero viene proposta una riflessione - a partire da una recensione -del testo di Graziella Nugnes, "Counseling organizzativo - un approccio individuale e digruppo", a cura di Cristiana Pauletti che ne fa un'ampia introduzione econtestualizzazione.

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In conclusione, in collegamento anche con il precedente monografico, dedicatointeramente alle donne nel mondo del lavoro, una ricerca, "Progetto 50/50") di un gruppo distudenti del seminario di Psicologia dell'Empowerment Sociale - Virginia Lucchesi,Lorenzo Mugnai e Marta Vagaggini - laureati in Psicologia Clinica e della Salute pressol'Università degli Studi di Firenze, ora in tirocinio post lauream.

Nel loro contributo raccontano la genesi e nascita del gruppo 50/50 (interessato agliaspetti che riguardano la parità di genere, l'empowerment, il lavoro con i gruppi e laformazione), le difficoltà incontrate, i primi esiti. Il contributo si concentra ancora una voltasulle donne in elevata posizione di responsabilità, indagando quali siano le capacitàpersonali che hanno favorito alcune donne; la visione della donna su se stessa nel contestolavorativo e la visione dell'azienda da parte della donna (e come pensa di essere percepitada parte dell'azienda). Dopo una introduzione sui presupposti teorici che hanno guidatol'indagine, vengono proposte evidenze dalle interviste e indicati limiti e opportunità del lavoro.

Auguriamo ancora una volta buona lettura.

Milano, Marzo 2015

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ESPERIENZE E RIFLESSIONI

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APPUNTI SULLA EVOLUZIONE DELLE RIFLESSIONI E DEIPROGETTI DI KNOWLEDGE MANAGEMENT

di Lauro Mattalucci

1. Premessa

Associato spesso a una pluralità di termini quali Società della Conoscenza, Economiadella Conoscenza, Capitalismo Cognitivo, Capitalismo Informazionale e simili, nati già(Drucker 1969) alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso in un contesto di grandeeuforia per i cambiamenti economico-sociali prodotti dall'evoluzione dell'ICT (euforia che si èpoi andata quanto meno attenuando di fronte alle crisi economiche ed ai tanti problemisociali emersi con la esplosione delle "bolle finanziarie" e le derive negative dellaglobalizzazione dei mercati), il concetto di Knowledge Management (KM) sembra averattualmente perso gran parte del suo appeal iniziale. Oggi sono in molti a chiedersi se,anche per il KM, si debba parlare dell'esaurirsi di quell'effetto moda che segna l'evoluzione dimolte teorie manageriali1.

Eppure se, evitando espressioni più altisonanti, definiamo il KM semplicemente come«l'insieme delle prassi aziendali, dei progetti, e degli "strumenti" (regole organizzative,tecnologie, incentivi, ecc.) finalizzati a sviluppare e diffondere le competenze che servono acoloro che, nei loro diversi ruoli, operano in una data organizzazione per affrontare erisolvere i problemi incontrati» (Mattalucci 2003, p.75), occorre dire che una qualche forma diKM, per quanto poco resa esplicita, sistematica ed all'altezza delle aspettative, esiste in tuttele aziende.

Possiamo parlare anche, per il KM, di una situazione "as is", ciò che una data aziendaeffettivamente fa per garantire un valore d'uso alla conoscenza che in essa circola, aparagone di una ideale situazione "to be" più o meno chiaramente definita o anche solovagheggiata.

Ciò che interessa qui analizzare è quali iniziative si assumono nelle aziende per passareda una situazione "as is" ad una situazione "to be" nella quale vi sia una più esplicita,governata e produttiva modalità di gestione di almeno alcuni dei processi interrelati dicreazione, codificazione, organizzazione, diffusione e utilizzo della conoscenza, e capirequali obiettivi ci si pone di raggiungere al riguardo.

1 Il tema è trattato in Grant (2011). Va precisato che l'articolo, pur muovendo dai rilievi critici di chispiega il successo del KM alla luce della Management Fashion Theory, cerca in verità di dimostrare -attraverso bibliometric evidence - come non si tratti di una moda. Nell'ambito di questa tematica sidovrebbe anche far riferimento al venir meno delle attenzioni e del coro di elogi riservati negli anniOttanta alle lezioni manageriali provenienti dal Giappone per effetto della crisi che attraversa oggi talesistema paese, mentre ancora nel 1995 il testo di Nonaka e Takeuchi intitolato The knowledge-creating company: How Japanese companies create the dynamics of innovatio, aveva conosciuto unvero e proprio boom editoriale, diventando una sorta di "bibbia del KM".

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La domanda dalla quale conviene verosimilmente partire è la seguente: "Possiamoparlare di una evoluzione delle prassi aziendali di KM e, se sì, quali sono le riflessionisviluppate che risultano capaci di guidare tali prassi?"

Non è affatto semplice rispondere a tale domanda: le proposte consulenziali intorno alKM si sono moltiplicate in maniera impressionante - verosimilmente assai più delle onesteriflessioni sui progetti intrapresi - con il risultato che è difficile finanche dare un resocontosintetico delle diverse finalità e delle modalità di approccio al KM. I quadri concettuali chestanno alla base della letteratura sul KM sono moltissimi. Possono riguardare: a) letecnologie viste come fattori abilitanti di una più efficace gestione della conoscenza; b) i modidiversi di vedere l'organizzazione e il suo capitale di conoscenza, assieme alla gestione dellerisorse umane e ai processi di change management necessari per intervenire sulla cultura edi comportamenti; c) i modelli con i quali si concettualizzano i vari processi di generazione,condivisione e utilizzo della conoscenza e si individuano priorità di intervento. Non mancanoneppure diverse sottolineature del significato stesso della conoscenza che chiamano incausa differenti elaborazioni "filosofiche".

Fig. 1: Aspetti concettuali che attengono al discorso intorno al KM.

La figura 1 è tratta da una poderosa enciclopedia sul KM2: essa evidenzia la straordinariquantità di riferimenti concettuali, metodologici e tecnologici che sono stati chiamati in causa.

Offrire una sintesi ragionata della letteratura sull'argomento è impresa assai ardua.Tenterò comunque nel presente articolo di delineare quelle che - nel lavoro di preparazione

2 Schwartz (2006), p. xxvii

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di un seminario da me tenuto nel giugno 2015 - mi sono sembrate le riflessioni sul KMsviluppate negli ultimi 15 anni maggiormente meritevoli di essere prese in considerazione.

Pur avendo consultato, nell'ambito della letteratura sul KM, un discreto numero di libri earticoli, devo dire - per dichiarare subito i limiti del presente scritto - che esso ricopre solo unparte molto limitata dell'enorme letteratura esistente (della quale è anche arduo definire iconfini). Vi è sicuramente stata, inoltre, da parte mia una qualche arbitrarietà nella selezionedei testi e dei temi presi in esame, essendo tale selezione condizionata sicuramente dallemie precedenti esperienze e riflessioni sul KM ed ancor più dalle finalità del citato seminario3.Non vi è dunque in questo scritto nessuna pretesa di giustificazione statistica delleconsiderazioni svolte. Presenterò per punti alcune riflessioni sul tema del KM aventiessenzialmente natura impressionistica, senza preoccuparmi di specificare ogni voltacompiutamente tutti i testi di riferimento. Una classificazione dei documenti presi in esame èriportata nella biografia al termine del presente scritto.

2. L'esigenza di un approccio socio-tecnico

Ancora nei primi anni del 2000, in parallelo alla distinzione pervasivamente ripetuta traconoscenza esplicita e conoscenza tacita, si mettevano in contrapposizione tra loro dueapprocci al KM, uno incentrato sulla tecnologia e sull'information sharing, l'altro sullo sviluppodelle competenze e sul knowledge sharing4. Si tratta in effetti di una comoda distinzione perdelineare il diverso focus di due tipologie di progetti di KM, sintetizzabile attraverso laseguente tabella.

Information sharing: focus su… Knowledge sharing: focus su…

ICT come fattore abilitante Cultura gestionale5 come fattore abilitante

Implementazione e sviluppo di piattaforme di KM Sviluppo dei processi di apprendimento negliindividui e nei gruppi di lavoro. Rilievo delleComunità di Pratica (CdP)

Come sintetizzare e distribuire la conoscenza(conoscenza esplicita)

Come condividere le expertise e le lezioniapprese (conoscenza tacita)

Tabella 1

Il primo approccio, di tipo ingegneristico, si fonda sostanzialmente sulla idea delBusiness Process Reengineering (BPR ) applicata ai processi di gestione dati, informazioni econoscenze comunque codificate (o codificabli), promettendo una ben definita metodologiadi strutturazione dei progetti da intraprendere e risultati certi; esso si tiene alla larga daconsiderazioni (ritenute fumose o poco dominabili) attinenti al funzionamento delle

3 Il seminario intendeva offrire un quadro concettuale e metodologico per la strutturazione di unprogetto di KM nel settore R&D di una azienda di rilievo internazionale. È sembrato utile, in sede diprogettazione del seminario, prendere in considerazione un certo numero di manuali /enciclopedie sulKM prodotti nel mondo anglosassone, e successivamente testi di approfondimento di concetti eapprocci metodologici che mi sono sembrati idonei a sviluppare una riflessione sulla natura e sullefinalità del progetto aziendale che si intendeva impostare.4 Mattalucci (2003). Nell'articolo si mette in discussione una troppo manichea tra le due tipologie diprogetti.5 Il termine cultura gestionale, per come viene qui utilizzato, si riferisce alle modalità con cui è gestito ilpersonale (specie i knowledge worker) e con cui si responsabilizzano i manager nella gestione delcapitale di conoscenza.

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organizzazioni come sistemi sociali, segnati abitualmente da dinamiche complesse (etalvolta conflittuali) relative alla creazione, diffusione e utilizzo della conoscenza.

Il secondo approccio (senza sottovalutare il ruolo dell'ICT) vede il KM come sviluppo deiprocessi di apprendimento di individui e gruppi di lavoro da realizzare mediante una piùefficace people strategy e una migliore condivisione della conoscenza; esso muoveall'approccio ingegneristico, che confida essenzialmente sulla tecnologia, l'accusa di adottareun palese riduttivismo concettuale che finisce per essere penalizzante.

Nella letteratura relativamente più recente sembra attenuarsi tale contrapposizione. Pareesservi un sostanziale accordo sull'esigenza di adottare per i progetti di KM un "approcciosocio-tecnico" e, più specificamente, di mettere in valore il capitale di potenzialità e dicompetenze presenti nelle persone facendo leva anche sulle possibilità che le tecnologieoffrono nel rendere più efficienti ed efficaci i processi di generazione, codificazione,trasferimento, applicazione della conoscenza6.

La tecnologia, pur accentuando il suo ruolo di enabler dei sistemi di KM, cessa di essereconsiderata come il motore principale. L'approccio-socio tecnico invita a considerare enablerdel KM non solo la tecnologia, ma anche la cultura organizzativa e i modelli di leadership chesi fondano (e trovano legittimazione) su tale cultura. In una visione dinamica dei processi digestione della conoscenza, prevale l'idea di una coevoluzione tra la componente sociale equella tecnologica. I progetti di KM debbono confluire in una politica aziendale di KM,consapevole, ben supportata e che duri nel tempo.

Si registra una crescente rilevanza - in epoca di Web 2.0 - delle piattaforme di KM confunzioni di knowledge repository, di accesso a data base e specialmente di comunicazione elavoro cooperativo, come viene sottolineato dalla figura seguente7:

Fig. 2: Funzionalità di una piattaforma di KM.

6 Questa - della esigenza di un approccio socio-tecnico - sembra essere la "filosofia" editorialeadottata dalla rivista Knowledge and Process Management (presente dal 1993): I temi chiave su cui siincentra la rivista sono: knowledge management; organizational learning; core competences; processmanagement. Tra gli articoli pubblicati dalla rivista e presi qui in esame citiamo solamente Hlupic etal. (2002).Altre riviste che vanno citate nella prospettiva dell'approccio socio-tecnico sono:

- Interdisciplinary Journal of Information, Knowledge, and Management (presente dal 2006)- Information Technology & People (precedentemente pubblicata dal 1990 con il titolo Office

Technology and People)7 La figura è tratta da Dulany et al. (2008).

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La disponibilità di piattaforme open source incoraggia l'idea di poter promuovere unacoevoluzione tra sistema tecnico e sistema sociale. Molte riflessioni sono state dedicate inparticolare al tema del networking e dello sviluppo delle comunicazioni interattive8.

3. Comunità di Pratica e ruolo dei Knowledge Worker

Un punto focale di una qualsiasi politica di KM è di prestare grande attenzione ai luoghiin cui si produce conoscenza.

Com'è noto il termine "apprendimento situato" (in inglese situated learning) è statoproposto da J. Lave ed E. Wenger come modello di apprendimento che ha luogo in unaComunità di Pratica (CdP) (Lave, Wenger, 1991). Detto nel modo più semplice possibile, sitratta di un apprendimento che avviene nel contesto stesso in cui è applicato quantoappreso. Lave e Wenger sostengono (cosa per altro sottolineata anche in precedenza daaltri autori) che l'apprendimento non deve essere considerato semplicemente come latrasmissione di conoscenza astratta e decontestualizzata da un individuo all'altro, ma comeun processo sociale in cui la conoscenza è co-costruita, suggerendo che tale apprendimentodebba essere visto come situato in un contesto organizzativo specifico, e sviluppatonell'ambito di Comunità di Pratica (CdP), comunità che agiscono spesso fuori dagli schemiorganizzativi definiti dai vertici aziendali.

Ad opera dello stesso E. Wenger - in una prospettiva più attenta alla consulenzamanageriale - il concetto di CdP è progressivamente diventato uno dei pilastri della propostadi una politica di KM basata sull'idea di nutrire le CdP, favorendo lo sviluppo di gruppi semi-informali che operano scavalcando produttivamente i tradizionali schemi formali difunzionamento organizzativo. Si tratta di un approccio che, già verso la fine degli anniNovanta, aveva sollevato molti entusiasmi9.

Il concetto di CdP mantiene un suo valore come categoria per studiare la creazione dicompetenze viste come "sapere in azione", ma la sua rilevanza strategica per le politicheaziendali di KM appare in qualche misura ridimensionata, riassorbita in una prospettiva chepossiamo definire "multifattoriale"; anche se una siffatta prospettiva talvolta, per voler essereesaustiva, rischia di apparire poco traducibile in progetti finalizzati al miglioramento deiprocessi di creazione, organizzazione, condivisione, diffusione e utilizzo delle conoscenzeritenute vitali per l'azienda.

Una prospettiva multifattoriale è quella che possiamo leggere ad es. in Russ , Fineman,Jones (2010, p.18):

«These performances [related to the productive use of the knowledge] are created by:KM Processes, KM/IS Systems, and KM Levers. The Project Teams, Informal Networks,etc. There is no predefined list and each organization will dictate the processes that itdeems appropriate10»

8 Si può vedere al riguardo la raccolta di contributi contenuta in Camison et al (2009).9 Si tratta di una idea che - devo dichiararlo - era parsa a suo tempo anche a me molto promettente.Questo senza però banalizzare - come in talune proposte consulenziali - lo sforzo richiesto nelpromuove lo sviluppo delle CdP, non sottovalutando in particolare gli ostacoli derivanti da una culturamanageriale piuttosto diffusa, più attenta al controllo degli equilibri di potere che allo sviluppo deiprocessi di apprendimento (cfr. Mattalucci, 2003).Sulla evoluzione del concetto di CdP in E. Wenger vedasi Cox (2005).10 Mio corsivo.

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Le "KM Levers" che compaiono nel passo citato fanno riferimento a:«HR hiring practices, Reward Systems, Cross Functional Collaboration, CoreCompetencies, Top Management Support, External Relationships, Culture, and RiskTolerance» (ibidem).

Ciò che sembra comunque emergere in questa "prospettiva multifattoriale" è unaspecifica attenzione alla people strategy adottata: di qui il "recupero", nella letteratura sulKM, dell'ampio filone di studio riguardante i knowledge worker11. Esso risale ai contributipionieristici di Drucker (1969), prende in esame il processo di produzione di conoscenza daparte dei diversi tipi di knowledge worker e s'interroga su quali siano le politiche gestionali daadottare nei loro confronti.

In merito alla natura della conoscenza prodotta dai knowledge worker si osserva che:«[ essa] è una miscela fluida di esperienze situate, valori, informazioni contestualizzate, eintuizioni esperte che forniscono un quadro di riferimento per valutare e incorporare nuoveesperienze e informazioni. Proviene e viene applicata nella mente dei soggetti checonoscono (knower). Nelle organizzazioni essa si trova spesso incorporata (embedded)non solo in documenti o repository ma anche nelle routine organizzative, nei processi,nelle pratiche e nelle norme»12.

Si stabilisce in tal modo un collegamento stretto (anche se non esplicitato) con leconsiderazioni sviluppate da D. A. Schön (1983) intorno al così detto "apprendimentoriflessivo", vale a dire l'apprendimento che avviene affrontando situazioni lavorativecaratterizzate da unicità (ogni situazione ha caratteristiche sue proprie); ambiguità (ognisituazione si presta a diverse ed anche alternative interpretazioni); imprevedibilità; conflitto divalori ed interrogandosi sempre sulle lesson learned 13. Si tratta di una modalità di analizzarela conoscenza che nasce dalla prassi che fa compiere un notevole passo avanti rispetto alconcetto piuttosto sfuocato di "sapere tacito"14.

Il riferimento ai knowledge worker implica anche una specifica attenzione anche ainetwork professionali (interni ed esterni all'organizzazione aziendale) come luogo diproduzione di conoscenza15. La riflessione può essere estesa tout court alla rete vista comecontesto di apprendimento sempre più vasto e partecipato.

Se il riferimento ai knowledge worker vale ad arricchire le riflessioni sul processo dicreazione di conoscenza, la letteratura di matrice manageriale che parla della loro gestionenon sembra offrire prospettive particolarmente innovative. Partendo dalla ovvia premessache (Cohen, Birkinshaw, 2013): «You cannot manage your knowledge workers in thetraditional and intrusive way you might have done with manual workers», si arriva araccomandazioni finalizzate a migliorare la produttività e la disposizione alla collaborazionefacendo appello a considerazioni sulla motivazione e sugli stili di leadership che paiono trattedai tradizionali manuali di management. Sembrano - almeno da un'analisi affrettata deicontributi sul tema - poco presenti case study che partono da analisi etnografiche effettuate

11 Tra i testi più citati a questo riguardo troviamo Davenport, Prusak (1998). Il testo è stato ristampatonel 2013.12 Davenport, Prusak (1998), p.4.13 Nella cornice dell'apprendimento riflessivo si colloca ovviamente anche la tematicadell'apprendimento dall'errore alla quale sono dedicati alcuni articoli in questo numero di Dialoghi.14 Il concetto di "tacit knowledge" è diventato popolarissimo in seguito alla pubblicazione di Nonaka,Takeuchi (1995). In verità nel testo in questione il termine tacit knowledge compare in almeno duediverse accezioni, come sapere non codificabile ("tacit aspects of knowledge are those that cannot becodified") e come sapere non ancora codificato ("transforming tacit knowledge into explicit knowledgeis known as codification").15 Sui Knowledge Worker mi sia consentito di rinviare a Mattalucci (2014).

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sui specifiche tipologie di knowledge workers16 con l'obiettivo di meglio comprendere comedati valori di riferimento emergano tra essi, a livello individuale e di gruppo, e come tali valorivengano utilizzati dai soggetti per dar senso sia alle prassi lavorative svolte sia aimeccanismi gestionali adottati dall'azienda17 condizionando i comportamenti e leperformance.

4. Le reticulation come sollecitazione ulteriore per il KM

In molte pubblicazioni sul KM si parte da un'affermazione del seguente tipo (Akhavan etal. 2005):

«It is clear that the most important property of every organization is organizationalknowledge and correct management of it will cause core competencies for theorganization».

L'esigenza di politiche di KM e di provvista di core competence trova ulteriori motivazioninello sviluppo avutosi di strutture organizzative a rete e di business network, anchetemporanei, che coinvolgono una pluralità di aziende. In tal modo, come già accennato,assume rilievo il tema del trasferimento e della messa in comune di conoscenze tra i nodi delreticolo, e quello dell'attivazione di comunità virtuali in rete come nuovo contesto lavorativo.

Anche i confini tra creazione interna ed esterna di conoscenza tendono a farsi piùsfumati con il web 2.0. Possiamo citare al riguardo il tema della Technology Intelligence (TI).La TI è un'attività che permette alle aziende di identificare le opportunità e le minaccetecnologiche che potrebbero influenzare la futura crescita o la loro stessa sopravvivenza. Halo scopo di acquisire e diffondere le informazioni e le conoscenze tecnologiche necessarieper realizzare la pianificazione strategica ed effettuare i conseguenti processi decisionali. Dalmomento che i cicli di vita della tecnologia si accorciano e le imprese diventano sempre piùglobalizzate, possedere efficaci capacità di TI è diventato un fattore sempre più importanteper acquisire un vantaggio competitivo (come molte società di consulenza sottolineano ormaida decenni18). La realizzazione di attività di TI richiede abitualmente la costruzione di unnetwork di esperti per realizzare un processo di Technology Scouting.

In linea di continuità concettuale con tali iniziative, e su un versante connesso anche aesigenze operative di problem solving, si pone la prassi del crowdsourcing. Con tale terminesi indica, com'è noto, un processo attraverso il quale un'azienda o un'istituzione, a fronte diuno specifico problema, affida la ideazione ed eventualmente la realizzazione di unasoluzione ad un insieme indefinito di persone non organizzate in una comunità preesistente.

16 Il termine Knowledge Worker costituisce una categoria ombrello che raggruppa tipologie lavorativemolto differenti tra loro (ad es. non tutti i lavoratori della conoscenza sono descrivibili attraverso ilmodello del reflective practitioner esposto da D. A. Schön); deriva anche di qui la difficoltà asviluppare effettive proposte gestionali. Per cercare di circoscrivere l'ampiezza della categoria inquestione, qualcuno ha proposto di parlare di "learning worker", ponendo l'accento sulla capacità di"imparare a imparare".17 Tra i meccanismi gestionali si includono: i sistemi di valutazione, gli incentivi, le proposte formative,ecc.18 La esigenza di TI ha dato luogo a proposte metodologiche da parte di società di consulenza. Peruna proposta avanzata da Arthur D. Little vedasi Rudolph, et al. (1991).

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5. Case history: successi e fallimenti

Nella letteratura sul KM si assiste verso la metà degli anni 2000 ad un crescenteinteresse per l'analisi di case history dettata - a fronte dei molteplici quadri teorici prospettati -dal desiderio di avere riferimenti pratici in merito all'impostazione e gestione dei possibiliprogetti di KM e dal desiderio di avere best practice di riferimento. Si vuole poter fare unbilancio dei progetti avviati dalle aziende per uscire dal sospetto che si tratti dell'ennesimamoda manageriale, per capire meglio quali sono gli obiettivi realistici che possono essereperseguiti e quali i fattori critici di successo.

Attraverso l'esame delle storie di caso si prende, per prima cosa, atto della varietà degliscopi che le aziende si prefiggono di raggiungere quando decidono di attivare un progetto diKM. Nella prefazione di Jennex (2005) è indicata la seguente tipologia di finalità:

- Identify Critical Knowledge;- Acquire Critical Knowledge in a Knowledge Base or Organizational Memory;- Share the stored Knowledge;- Apply the Knowledge to appropriate situations;- Determine the effectiveness of using the applied knowledge;- Adjust Knowledge use to improve effectiveness.

Esistono molte differenti proposte di classificazione dei progetti di KM in rapporto allefinalità che essi perseguono. Ad esse corrispondono differenti criteri di valutazione delleknowledge performance19.

I casi presi in esame nei vari testi hanno ovviamente ricevuto, per la pubblicazione, ilconsenso delle aziende protagoniste e offrono un resoconto positivo di come sono andate lecose (particolarmente in fase di implementazione): non è pertanto agevole - situazione chespesso si riscontra nell'utilizzo a scopo didattico della case history - individuare quali siano lepossibilità di generalizzare ed assumere come riferimento quanto emerge dal racconto delleesperienze.

Un portato di maggior apprendimento deriva forse dagli articoli - ormai anch'essinumerosi - che trattano del fallimento di progetti di KM. Essi testimoniano come sia elevato ilnumero di casi nei quali non si riesce a gestire la fase di implementazione dei progetti,

19 Possiamo ad es. citare quanto previsto dal MAKE Award. Inaugurato nel 1998, il MAKE Award èstato condotto ogni anno da Teleos (una società di ricerca britannica indipendente specializzata nellagestione delle conoscenze e delle aree relative al capitale intellettuale) in associazione con la reteKNOW. Esso mira a riconoscere le organizzazioni che mostrano, rispetto a quelle omologhe,performance superiori nella creazione di valore per l'azienda, trasformando la conoscenza tacita edesplicita dell' impresa e il capitale intellettuale in prodotti / servizi / soluzioni di qualità superiore. Ivincitori del Global MAKE Award sono selezionati da un gruppo di esperti composto da dirigentiaziendali provenienti dalle 500 aziende di Fortune, che sono tra i principali practitioners nel campo delKM, nonché esperti di della materia.Le finalità ed i relativi risultati in termini di knowledge performance che il MAKE award considera sono:

- creare e sostenere una cultura d’impresa guidata dalla conoscenza;- sviluppare i knowledge worker attraverso la leadership del senior management;- creare e distribuire prodotti /servizi/ soluzioni basati sulla conoscenza (knowledge-based);- massimizzare il capitale intellettuale d’impresa;- creare e sostenere un contesto per il collaborative knowledge sharing;- creare e sostenere una learning organization;- creare valore sulla base delle conoscenze degli stakeholder;- trasformare la conoscenza d’impresa in valore per gli azionisti e gli stakeholder,

Informazioni sul MAKE Award si possono ricavare dal sito all'indirizzohttp://www.knowledgebusiness.com/knowledgebusiness/Templates/Home.aspx?siteId=1&menuItemId=25; consultato il 04-02-2016.

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perché non si sanno superare i diversi (spesso concomitanti) fattori ostativi (barricadingfactors). Tali fattori secondo Ajmal (2009) possono essere legati a:

- la tecnologia (insufficienza o inadeguatezza delle soluzioni IT);- la cultura organizzativa (fattori ostativi legate i comportamenti);- i contenuti di conoscenza che si vorrebbero gestire più efficacemente.20

Il resoconto dei casi di fallimento si connette - non sorprendentemente - ad altrettantesituazioni di incapacità di Project Management e di Change Management.

Su un piano più specifico alla tematica del KM si può far riferimento alle criticità emerseda una ricerca condotta da IBM già nel 200221; essa ha evidenziato:

- il mancato collegamento degli sforzi nel campo del KM con gli obiettivi strategicidell'azienda;

- la creazione di repository in termini tecnologici senza affrontare la necessità di gestirei contenuti;

- l'incapacità di comprendere e di connettere il KM con le attività lavorative quotidianedelle persone;

- un'enfasi eccessiva sugli sforzi di apprendimento formale come meccanismo per lacondivisione della conoscenza (eccessiva enfasi al collegamento con l'e-learning);

- il fatto di concentrare gli sforzi del KM solo entro i confini dell'organizzazione.

Un'ulteriore analisi delle ragioni di fallimento mette in evidenza come (Malhotra 2004):- i sistemi di KM siano spesso definiti in termini di input quali dati, informazioni,

procedure, best practices, ecc. che in se stessi possono essere inadeguati a darconto delle business performance: tra gli input e le performance intervengono variabiliintermedie trascurate quali attenzione, motivazione, committment, creatività einnovazione;

20 L'articolo citato, entrando in maggior dettaglio, menziona i seguenti barricading factors:

TechnologyConnectivity: The technical infrastructure cannot support the required number of concurrent accessdue to bandwidth limitation;Usability: The KM tool has a poor level of usability. KM users find the tool too cumbersome orcomplicated for use;Overreliance: An over-reliance of KM tools lead to the neglect of the tacit aspects of knowledge;Maintenance cost: The cost of maintaining the KM tool is prohibitively high. The managementintervenes and terminates the KM project.

CulturePolitics: KM initiative project is used as an object for political maneuvering such as gaining control andauthority within the organization;Knowledge sharing: Staff does not share knowledge within the organization due to reasons such asthe lack of trust and knowledge-hoarding mentality;Perceived image: Staff perceives accessing other’s knowledge as a sign of inadequacy;Management commitment: The management appears keen to commence the KM project. However,when problems emerged, commitment to the KM project is quickly withdrawn

Knowledge contentCoverage: The content is developed fragmentarily from different groups of KM users. Hence,crossfunctional content can not be captured;Structure: The content is not structured in a format that is meaningful to the task at hand;Relevance & currency: The content is either not contextualized or current to meet the needs of the KMusers. It can not help KM users achieve business results;Knowledge distillation: There is a lack of effective mechanism to distil knowledge from debriefs anddiscussions. Hence, valuable knowledge remains obscured.21 La ricerca è citata in Akhavan et al. (2005).

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- i sistemi di KM sono spesso disegnati guardando il presente o il passato (corporationmemory) piuttosto che essere attenti agli scenari di cambiamento provenienti dalcontesto esterno.

L'analisi delle ragioni di fallimento (analisi che può contare ormai su un numero ampio dicontributi provenienti dal mondo accademico) vale a mettere in guardia da facili entusiasmi eda disinvolte selling proposition da parte di venditori di soluzioni ICT e di società diconsulenza. Nasce di qui l'invito a una notevole cautela nell'attivazione di nuovi progetti. Dueconcetti sembrano, più di altri, voler contribuire sul piano metodologico a orientare le sceltein materia di KM, Si tratta dei concetti di:

- Knowledge Governace- Knowledge Audit.

Ad essi sono dedicati gli ultimi due paragrafi di questo scritto, cercando di interpretareliberamente le suggestioni che vengono dalla letteratura in merito.

6. Definire un modello di Knowledge Governance

Il termine di knowledge governance (KG) ha assunto rilievo per denotare le modalità concui di fatto vengono governati dati, informazioni, conoscenze e competenze, anche aprescindere da una esplicita politica e da progetti aziendali di KM. Il termine serve anche aevocare il ruolo del management aziendale nel dare impulso e sostenere (steering) lepolitiche ed i progetti di KM.

La KG può essere definita come la scelta delle strutture, dei supporti e dei meccanismigestionali che consentono di gestire o quanto meno di influenzare produttivamente lagestione dei processi di KM, vale a dire dei processi di:

- generazione,- codificazione,- trasferimento/applicazione della conoscenza22.

Si è detto all'inizio come in una qualsiasi organizzazione esista sempre, di fatto, unapolitica di KM: chiamiamola politica "as is". Ragionare di KG significa comprendere i punti

22 In una versione all'allargata la Knowledge Governance si riferisce anche ai processi dipianificazione e controllo dei processi suddetti (vedasi schema seguente):

Figura tratta da Prat (2006, p. 213)

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deboli di tale politica, definire quale potrebbe essere la situazione "to be", e tratteggiare ilpercorso per passare da "as is" a "to be".

La attenzione a meglio strutturare la KG comporta l'esigenza di:- articolare le priorità, ossia la scelta delle risorse di conoscenza sulle quali investire in

coerenza con strategie /piani e programmi; si tratta, in sintesi, di definire le coordinatedella politica di KM23;

- assicurare coerenza alle azioni riguardanti le diverse variabili strategiche cheintervengono nella gestione del capitale di conoscenza; in particolare coerenza con lepolitiche di gestione delle HR (valorizzazione e sviluppo del proprio "capitaleintellettuale");

- dare direzione e impulso alla politica di KM attraverso i progetti e le iniziative che sidecide di intraprendere ai fini di una migliore generazione, codificazione,trasferimento, applicazione delle conoscenze ritenute vitali per l'azienda;

- definire, nell'ambito delle varie strutture aziendali (funzioni tecniche, funzioni diprogrammazione, funzioni di gestione, ecc.) le responsabilità inerenti ai processi digenerazione, codificazione, trasferimento, applicazione delle conoscenze;

- formalizzare eventuali figure professionali ad hoc dedicate alla politica di KM (il ChiefKnowledge Officer, un Project Manager per ogni progetto di KM intrapreso, iKnowledge Champion, ecc.).

Vediamo brevemente quali questioni si pongono in rapporto ai diversi knowledgeprocess:

A) Generazione della conoscenza

La finalità di questo processo è quello di riconoscere quali sono le realtà nelle quali siacquisisce/produce conoscenza idonea ad affrontare determinate classi di attività e diproblemi; si tratta poi di consolidare /sostenere/ rafforzare tali modalità.

Le fonti di conoscenza di possono essere legate a specifici ruoli lavorativi, comunitàinterne alla nostra organizzazione (unità organizzative, CdP, team, gruppi di knowledgeworker, ecc.) ovvero network che collegano la nostra organizzazione all'esterno.

Parliamo di acquisizione/produzione per sottolineare il rapporto complesso traconoscenze acquisite all'esterno e conoscenze prodotte all'interno dell'azienda. Assistiamooggi, come già detto riguardo al fenomeno della reticulation, a una crescente rilevanza del

23 Con il termine "politica di KM" si denota ciò che l'azienda intende fare per una migliore gestione delproprio "capitale di conoscenza"; si traduce in un insieme di progetti finalizzati a rendere più efficientied efficaci i processi di generazione, codificazione, trasferimento, applicazione della conoscenza. Tuttigli autori che si sono occupati del tema sottolineano come essa debba essere sostenuta da un fortecommitment dei vertici aziendali.Si parla anche di Knowledge Management Strategy, sottolineando così il collegamento con la Vision ela strategia aziendale.Le variabili strategiche che intervengono nella gestione del capitale di conoscenza sono:

- strategia aziendale (Vision, Mission, piani e programmi, allocazione delle risorse, ecc.);- organizzazione (strutture, processi, ecc.);- cultura organizzativa e comportamenti;- leadership;- gestione delle Risorse Umane (assunzioni, formazione, promozioni, sistema delle

ricompense);- information Tecnology (Data Base, Workflow e Groupware, Document Management System,

Piattaforme di KM e di e-learning, Web portal, Intelligenza Artificiale, ecc.);- modalità di esplorazione e adattamento all' environment (punti forti e punti deboli del proprio

capitale di conoscenza).

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network con l'esterno (business network). Si pensi, per fare solo un esempio, allacostituzione di joint venture che richiedono la messa in comune di specifiche competenze.

B) Codificazione della conoscenza

Con il termine "codificazione" si intende il passaggio da un'espressione orale dellaconoscenza, tra persone che si conoscono e che condividono pratiche e linguaggi "situati", auna espressione scritta (o comunque registrata24) tra persone che non si conoscono e nonhanno vissuto le stesse esperienze. È il processo attraverso il quale la conoscenza prodottadiviene fluida e fruibile da altri soggetti. Si pongono a questo riguardo i noti problemi dicodificazione del "sapere pratico" su cui si era concentrato anche lo studio delle CdP.

Parlare di codificazione significa anche parlare di condivisione e di barriere che possonoemergere a questo riguardo (barriere cognitive e barriere sociali). Emerge in questaprospettiva lo spinoso tema di come creare quella "cultura della condivisione"25 alla cuimancanza vanno imputati spesso i principali barricading factor rispetto allo sviluppo di unapolitica di KM.

Al fine del superamento delle barriere sociali si può far affidamento su una piattaforma diKM e su regole (procedure) imposte dall'alto. Inoltre la "propensione alla condivisione" puòessere inserita tra i fattori presi in considerazione nel sistema di valutazione del personale.

Aspetti di questa natura adottati nel modello aziendale di KG, sono utili ma non bastanoquasi mai a creare una vera cultura della condivisione26. Occorre, in un percorso di ChangeManagement, puntare sulla autoregolazione e sullo sviluppo di comportamenti lavorativibasati su fiducia, affidabilità e reciprocità. Ciò che deve passare nei vari gruppi di lavoro èl'orientamento verso logiche win win, in cui la conoscenza sia riguardata come "benecomune"27. I modelli di leadership hanno, a questo riguardo, un ruolo di grande rilievo.

C) Trasferimento / applicazione della conoscenza

La sola codificazione (ed eventuale messa in rete o incorporazione in meccanismioperativi) della conoscenza non determina un effettivo trasferimento, specie se laconoscenza va interpretata alla luce della specificità delle situazioni organizzative,professionali e culturali della stazione di arrivo rispetto alla stazione di partenza. Iltrasferimento non può essere disgiunto dalla codificazione, ma richiede anche ilsuperamento di possibili disturbi semantici che possono intervenire nella interpretazione econtestualizzazione delle conoscenze che si trasferiscono. Esistono poi - al solito -

24 Ad es. attraverso relazioni, manuali tecnici, learning object, resoconto di casi, programmi disimulazione, sistemi esperti, ecc.25 È nota la riluttanza che le persone possono avere nello scambiare apertamente informazioni o nelcondividere le loro conoscenze, quando temano una diminuzione del proprio potere o del propriostatus all'interno dell'azienda.26 D'altra parte il concetto di governance si differenzia da quello di government proprio perché vale adenotare la capacità di governare senza troppe regole emanate dall'alto. Può essere ricordata aquesto riguardo la presenza tra i dieci principi - che secondo Davenport (1998) stanno alla base di unaefficace strategia di KM - l'affermazione che: «Il KM trae maggior beneficio da "mappe" che da"modelli", da logiche di scambio più che da logiche gerarchiche». Questo significa che, anzichéimpegnarsi per costruire complessi modelli gerarchici di strutturazione e registrazione delleconoscenze, vale la pena fornire mappe per comprendere dove si trovano le conoscenze stesse(knowledge mapping) e favorire gli scambi che ogni unità organizzativa può attivare con le altre,anche con il contesto esterno (solitamente si impara molto anche da clienti, fornitori e businesspartner).27 Considerare la conoscenza presente in un'organizzazione come bene comune porta a costruire unponte tra il KM e le riflessioni sui beni comuni che hanno preso il via dai lavori di Elinor Ostrom.Vedasi specialmente Hess, Ostrom (2009).

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barricading factor di natura sociale legati a conflitti valoriali, e barriere identitarie (come ades. la nota sindrome del "not invented here").

Si possono individuare casi di differente complessità nel processo di trasferimento diconoscenze che possono essere così esemplificati:

- trasferimento di lavorazioni all'estero;- trasferimento di buone pratiche all'interno di una organizzazione;- trasferimento di conoscenze all'interno dei business network (ove emergono delicati

problemi di messa in comune, ma anche di protezione delle proprie corecompetence).

Si può studiare quale ruolo possa assumere la formazione nel processo di trasferimentodi conoscenze. Ci si limita qui a osservare - riprendendo un tema più volte trattato in Dialoghi- che, se la conoscenza trasferita deve diventare "sapere in azione", è necessario far uso diuna impostazione metodologica che produca un qualche grado di condivisione dellepratiche28.

La usabilità della conoscenza codificata e trasferita comporta il riferimento a una serie distrumenti IT e chiama in causa - come già detto - l'impiego di una piattaforma di KM (oKnowledge Portal) con funzionalità che possono essere schematizzate attraverso una nuovafigura (Fig. 3 )

Fig. 3: Schema di una piattaforma di KM

Possiamo riferirci al Knowledge Repository (nonché alle Banche Dati ed ai sistemi diDocument Management a cui è possibile accedere attraverso la piattaforma) come alla "basedi conoscenza" (Knowledge Base) del sistema. Essa va articolata a partire da tassonomie edoperazioni di tagging che consentano possibilità di knowledge mapping; il tutto senzaseparare i documenti dagli autori e dai contesti di loro produzione.

Una piattaforma di KM deve facilitare tutti i processi di creazione, organizzazione,diffusione, utilizzo di conoscenza utile. A tal fine deve quanto meno consentire di:

- dare agli utenti la possibilità di collegarsi e di collaborare con i colleghi;- stimolare il flusso della conoscenza attraverso l'organizzazione;

28 Vedasi ad es. Mattalucci L. (2010).

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- strutturare e mappare la conoscenza in modo funzionale rispetto alle esigenze degliutenti;

- distribuire la conoscenza rendendola disponibile, dove e quando serve attraversodispositivi multipli di accesso (possono includere anche smartphone e tablet);

- attivare ambienti di apprendimento collaborativo.

Gli strumenti di communication (sincrona e asincrona) hanno un ruolo fondamentalenello strutturare comunità on line29. Il presidio della piattaforma, e dei progetti di KM chenecessariamente ne fanno uso, nelle forme adeguate di KG, debbono far riferimento a ruoli eresponsabilità ben definite. Possono ad es. essere definite figure di Knowledge Champion(detti anche - con varie sfumature di significato - KM Champion, Knowledge Activist,Knowledge Steward, Knowledge Coordinator) ai quali si attribuiscono compiti di advocacy(essere un punto di riferimento per le questioni di KM), di supporto e facilitazione nell'impiegodi strumenti o nell'attivazione di specifiche iniziative, compiti di knowledge brokering perl'attivazione di contatti con persone esperte e fonti di conoscenza (interne ed esterneall'azienda). Possono anche essere individuati e responsabilizzati in rapporto ad aree chiavedi know how esperti con funzione di peer mentoring raggiungibili attraverso la piattaforma diKM30.

Rientra tra le aree di analisi del grado di adeguatezza della KG la valutazione deicosti/benefici derivanti dallo sviluppo e mantenimento della piattaforma di KM e dei ruoli disupporto ai quali si è testé fatto cenno.

7. Attivare operazioni di Knowledge Audit

Il tema della strutturazione di un modello di Knowledge governance si collegastrettamente all'attivazione di operazioni di Knowledge Audit (K-Audit).

Il termine K-Audit si riferisce, secondo López-Nicolás, Meroño-Cerdán (2010, p. 117)all'insieme di

«[pratiche finalizzate] ad identificare quale conoscenza si renda necessaria persostenere gli obiettivi complessivi di una organizzazione e l'attività dei team o dellesingole persone; [Attraverso l'attività di K-Audit si deve raggiungere] un'apprezzabilechiarezza del modo in cui viene efficacemente gestita la conoscenza e dove sononecessari miglioramenti; [tutto questo] fornisce un resoconto della conoscenza cheesiste nella nostra organizzazione, di come essa circola e viene utilizzata […]»31.

Dunque le attività di K-Audit fanno riferimento a una qualche forma di indagine sistemicafinalizzata a comprendere e valutare l'attuale situazione di gestione della conoscenza, masoprattutto a individuare modalità per migliorare i processi in questione in modo da garantireper l'azienda la possibilità di disporre delle necessarie "competenze chiave".

Si argomenta che (Hylton, 2002, p.2):«Il K-Audit è indiscutibilmente il primo passo in un'iniziativa di KM32. Eppure esso non èstato sufficientemente riconosciuto come di fondamentale importanza in un qualsiasiprogetto di gestione della conoscenza […] Il K-Audit serve per aiutare chi lo effettua astabilire se egli davvero "sa quello che sa" e se "sa quello che non sa" circa lo stato della

29 Ampi contributi alla tematica Connectivity and Knowledge Management sono contenuti in Camisonet al. (2009).30 Per motivare il peer mentoring si è anche sperimentato l'impiego di forme di gamification.31 Mia traduzione.32 Mio corsivo.

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conoscenza esistente. Serve anche per portare alla luce ciò che si dovrebbe sapere permeglio far leva sulla conoscenza per migliorare il business e il vantaggio competitivo.Quanto emerge servirà a fissare l'agenda delle l'iniziative di KM, dei programmi e delleiniziative di implementazione»33.

La letteratura che riguarda il K-Audit propone numerose metodologie per condurreoperazioni di tale natura. Si tratta di proposte che, per voler essere ampie e approfondite,rischiano di diventare di difficile applicazione.

Viene presentata in allegato una proposta metodologica elaborata da chi scrive e(parzialmente) testata in un lavoro sul campo condotto al termine del seminario citato inpremessa.

33 Mia traduzione.

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Allegato: Proposta di una metodologia di K-Audit

In questo allegato viene proposta una metodologia per una attività (fatta anche solo atitolo esplorativo) di audit del "capitale di conoscenze" o meglio dei know how più rilevanti dicui si avvale e di cui ha bisogno una organizzazione o anche solo uno specifico sottosistemaorganizzativo (dipartimento, divisione, ecc).

Si tratta di una metodologia finalizzata a ottenere una mappa più chiara del know howche serve per gestire efficacemente i processi organizzativi e avere indicazioni su qualepotrebbe essere un effettivo progetto di K.M. Essa si articola in tre passi:

1) individuazione, dentro l'organizzazione sulla quale si opera, dell'"albero dei processilavorativi", dei Key Performance Indicator (KPI) e dei Know how (Kh) chiavenecessari per raggiungere e migliorare i KPI;

2) analisi delle modalità di generazione, formalizzazione e diffusione dei Kh chiaveindividuati al passo 1;

3) individuazione di iniziative che potrebbero migliorare, relativamente ai Kh chiave, iprocessi di creazione e gestione della conoscenza.

1) Primo passo

Il primo passo della metodologia in questione consiste nell'individuazione - nell'ambitodel perimetro organizzativo preso in considerazione dal nostro progetto - deiprocessi/sottoprocessi che interessano l'organizzazione considerata.

Partendo dalla mission della struttura organizzativa considerata, si procede con ilriconoscimento dell'insieme complessivo delle attività svolte classificate secondo una"struttura ad albero" a partire dai processi di più alto livello (Fig. A1). Solitamente èsufficiente arrivare a una classificazione su due o al massimo tre livelli(processi/sottoprocessi/attività più analitiche)

Figura A1: Albero dei Processi

In coerenza con la terminologia del modello European Foundation for QualityManagement (EFQM) i processi considerati possono essere:

- processi di servizio finalizzati alla erogazione di prodotti e servizi34;- processi di supporto per fornire al sistema organizzativo le risorse necessarie;

34 I processi di servizio che interessano l'organizzazione considerata possono essere parte (segmenti)di processi più ampi che attraversano più strutture organizzative.

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- processi di gestione per governare ed innovare l'organizzazione

Al fine di rendere snello l'approccio proposto si può puntare l'attenzione sui soli processi(o sottoprocessi) "chiave" vale a dire i processi maggiormente rilevanti rispetto al buonfunzionamento dell'organizzazione. Essi possono - all'interno di un team di lavoro nel qualesiano rappresentati diversi punti di vista - essere selezionati in base alla:

- rilevanza economica o quantità di "risorse assorbite";- rilevanza in termini di efficacia o qualità percepita (ponendosi nell'ottica dei diversi

stakeholder);- rilevanza in rapporto agli obiettivi strategici che si vogliono conseguire.

La scomposizione di un processo in sottoprocessi vale a rendere più puntuale l'analisidelle competenze richieste per il suo svolgimento. Parliamo da qui in avanti, per semplicità,solo di processi sottintendendo che, se del caso, vengono presi in esame anche gli opportunisottoprocessi

È utile - come avviene in molte metodologie di analisi delle organizzazioni - "incrociare" iprocessi con le funzioni (unità organizzative o ruoli lavorativi) che intervengono nellarealizzazione dei processi. Nelle caselle si inseriscono le attività svolte (ivi compresa laproduzione di relazioni e documenti che può essere utile vengano inserite nel KnowledgeRepository presente nella piattaforma di KM).

Processi /Funzioni

Funzione A Funzione B Funzione N

Processo 1

Processo 2

Processo N

Tabella A1: Incrocio tra processi e funzioni organizzative

Per mappare i Kh richiesti per lo svolgimento di ciascun processo possono essereutilizzati grafi come quello in figura (che a titolo meramente esemplificativo considera ilprocesso di "stesura di una tesi di laurea"). Il processo da analizzare viene posto al centrodel grafo e si individuano le conoscenze, capacità, padronanze, ecc. necessarie per losvolgimento del processo stesso (indipendentemente dai soggetti che possono esserecoinvolti).

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Figura A2: Esemplificazione di una mappatura delle conoscenze necessarie per lo svolgimento diun processo (l'esempio riguarda la stesura di una tesi di laurea).

A fronte di ogni processo considerato è opportuno sforzarsi di definire innanzi tutto qualisono i "criteri di giudizio" che (mettendosi nell'ottica dei diversi stakeholder) possono essereutilizzati per valutare lo svolgimento e i risultati ottenuti. A partire dai criteri di giudizio sipossono definire i Key Performance Indicators (KPI), vale a dire gli indicatori che valgono astabilire i livelli di efficacia ed efficienza che si raggiungono (o si vogliono raggiungere).

Possono essere:- indicatori di costo ( costo di svolgimento del processo, costo di recupero di errori,

ecc);- indicatori di qualità (tempo di risposta, frequenza reclami, qualità del servizio

percepita dall'utente, ecc.)35.

Ragionare sui KPI - indipendentemente dal fatto che si disponga attualmente del lorovalore numerico - aiuta a considerare qual è il "capitale di conoscenza" richiesto per ciascunprocesso. Si arriva in tal modo a costruire la matrice evidenziata nella tabella A2.

35 Continuando con l'esempio della stesura di una tesi di laurea i criteri di giudizio solitamente impiegati sono:Organizzazione e scrittura/Rilevanza dei risultati/Correttezza/Adeguatezza degli strumenti/Bibliografia/Sperimentazione /Autonomia del candidato. Per quanto non sia immediato, si possono indicare modalità pertradurre operativamente i criteri ad es. in standard minimi, che possiamo considerare essere i KPI. Ciò cheappare evidente è che ragionare sui criteri di giudizio (o meglio ancora sui KPI) porta a individuare conprecisione i Kh necessari.

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Processo/sottoprocesso

chiave

Criteri digiudizio/

KPI

Know how (Kh)richiesto

Specificazioni sulla natura delKh richiesto

Processo A KPIA1

KPIA2

Conoscenza di …Padronanza del …Capacità di…

[Note riguardanti il Kh richiesto]

Processo B KPIB1

KPIB2

KPIB3

Conoscenza di …Padronanza del …Capacità di…

[Note riguardanti il Kh richiesto]

………………

Tabella A2: Identificazione del Kh complessivamente richiesto per uno svolgimento efficiente edefficace dei processi lavorativi

La voce "Conoscenza di…" si riferisce ai domini tematici che sono alla base del Kh;"Padronanza di…" (o anche "Abilità di… ) si riferisce all'utilizzo di strumenti, applicazionisoftware, metodologie, ecc. Il termine "Capacità di …" può essere riservato a competenzeche consentono di affrontare attività di diagnostica, di indagine, di problem setting/ problemsolving, ecc. Si tratta di capacità che presuppongono, con una certa frequenza, il saperequali fonti di informazione possono essere consultate, a chi chiedere pareri, e altro ancora.

La tabella A1 fotografa la situazione organizzativa attuale (quella che nel linguaggio delBPR chiamiamo situazione as is). Possono tuttavia essere già allo studio - magari comeistanze provenienti dai Sistemi di Qualità o da iniziative di Benchmarking - progetti dimiglioramento organizzativo e ridisegno dei processi. In tal caso conviene pensare a unatabella A2 bis con la stessa struttura di quella precedente, riferita però alla configurazioneorganizzativa che si vuole raggiungere (situazione "to be").

Si arriva in ogni caso a stabilire una lista dei "Kh chiave" (vale a dire quelli che hanno unmaggior valore strategico o, comunque, un maggior rilievo nella gestione - efficiente edefficace - dei processi lavorativi), ognuno con un suo codice identificativo.

2) Secondo passo

Il secondo passo della metodologia di K-Audit consiste nel sottoporre ad analisi ciascun Khidentificato attraverso la tabella A2 avendo magari cura - per non appesantire troppo l'analisi- di porre l'attenzione solo sui Kh aventi maggior rilievo ai fini delle performanceorganizzative36.

Occorre chiedersi, per ciascuno dei Kh considerati:- da dove proviene e/o dove si genera;- dove trova eventuale formalizzazione;- come si diffonde (o meglio come la si rende disponibile per chi ne ha necessità)

36 La scelta dei Kh aventi maggiore rilievo può essere effettuata come panel discussion tra le personeche partecipano al K-Audit

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Codice del Kh chiave considerato e sua denominazione ….

Da dove proviene e/o dovesi genera

Dove trova eventualeformalizzazione Come si diffonde

Esperti /consulenti interni /esterni

Team (interni o interorganizzativi)supportati o meno dagroupware/workflow

Comunità di pratica

Forum di discussione (anche conil coinvolgimento degli utenti o deifornitori)

Videoconferenze periodiche

Attività di reporting svolte a valledi…

Attività di informazione/formazione

Iniziative di benchmarking / Casestudy

Crowdsourcing

Ecc.

Data Base ManagementSystems (DBMS);

Repository documentali/Document ManagementSystem (DMS);

Sistemi esperti;

Kh embedded in applicazionisoftware;

Learning platform (es. Moodle);

Ecc.

Possibilità di accesso on linea DBMS, DMS, Learningplatform, ecc.;

Team e Comunità di Pratica;

Gestione consulenze esterne

Mentoring / Mentoring on line;

Attività diinformazione/formazione;

Mappatura e possibilità diconsultazione di competencechampion interni ed esterni

Ecc.

Tabella A3: Analisi dei processi di creazione e gestione della conoscenza.

Si costruiscono tante tabelle quanti sono i Kh chiave considerati (scelti per la loroeffettiva rilevanza).

Dal punto di vista operativo l'individuazione delle tabelle sopra menzionate procede inmaniera analoga a quanto previsto dalle metodiche di analisi delle competenze, tenendopresente - come afferma G. Leboterf - che

«qualunque competenza è finalizzata e contestualizzata: essa non può dunque essereseparata dalle proprie condizioni di messa in opera. […] La competenza è un saper agire(o reagire) riconosciuto. Qualunque competenza, per esistere, necessita del giudizioaltrui».

L'analisi in questione non può dunque prescindere da metodi qualitativi di indagine,come interviste a knowledge worker, testimoni privilegiati e focus group.

2) Terzo passo

Sulla base delle tabelle A3 si possono - come terza fase della metodologia - avviare deiragionamenti sulle iniziative che potrebbero migliorare i processi di creazione e gestionedella conoscenza. Si tratta di una fase particolarmente delicata perché richiede una attentadiagnostica di quali sono le attuali criticità.

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In genere si tratta di criticità che possono derivare da uno o più elementi inclusi nellaseguente check-list:

- limiti presenti nelle attuali funzionalità e modalità d'uso delle applicazionitecnologiche;

- limiti presenti nelle possibilità di accesso alle informazioni utili o al più generalepatrimonio di conoscenze;

- carenze di Kh, nelle persone e nei team, che condizionano il raggiungimento delleperfomance desiderate (o il possibile miglioramento dei KPI); possiamo parlare aquesto riguardo di "knowledge gap";

- insufficiente utilizzo e diffusione delle competenze che si generano nei processi(mancanza di apprendimento organizzativo);

- scarsa capacità di utilizzo di potenziali fonti informative esterne (ad es. clienti, fornitorie business partner);

- presenza di "colli di bottiglia" nella circolazione delle conoscenze (eccesso didipendenza da specifici knowledge worker)";

- insufficiente "cultura della condivisione" di informazioni e conoscenze;- carenze nella definizione di responsabilità inerenti la gestione delle informazioni e

conoscenze, mancanza di ruoli di knowledge manager (carenze di knowledgegovernance).

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SEZIONE DEDICATA ALL'APPRENDIMENTO DAGLI ERRORI NELLEORGANIZZAZIONI

A cura di Giovanni Reale

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L'APPRENDIMENTO DALL'ERRORE, UN FATTORE DI SUCCESSOPER LE ORGANIZZAZIONI

di Daria Marinangeli, Roberto Pezzoni, Giovanni Gaetano Reale

1. Premessa

Vi sono due versanti da cui è possibile guardare la situazione generale delleorganizzazioni di oggi, quello delle sfide del mercato globale, della crisi economica e dellestrategie imprenditoriali e quello della loro struttura interna, dell'evoluzione organizzativa, deicambiamenti del modo di lavorare e produrre. Sono due versanti che si intrecciano tra loro,che si influenzano a vicenda. La crisi economica sta modificando di fatto la struttura delsistema produttivo italiano e gli sviluppi della trasformazione digitale, qualunque sia il "peso"del suo impatto, lancia una sfida nuova alle imprese che rimangono sul mercato. Come giàevidenziato dal CNEL (2010, pag. 9):

«il variegato assetto del nostro sistema produttivo ha determinato capacità di reazionealla crisi molto differenziate … con imprese che hanno investito in innovazione e ricercagià in grado di cogliere, sia pure nella durezza della situazione internazionale,significativi risultati; imprese che pure hanno seguito sentieri virtuosi, che invece sitrovano oggi punite da una situazione presente che non riescono a dominare; infine, unavasta area di imprese che invece, non avendo intrapreso alcuna azione di valenzastrategica, percepiscono che per loro si prospetta un futuro di grandi rischi e difficoltà».

Alla ripresa economica flebile che stiamo vivendo in questi anni, e che, si prevede,caratterizzerà anche gli anni a venire, le aziende italiane si sono presentate sostanzialmentecome prima descritto: quelle che hanno avviato e, magari, già compiuto percorsi diinnovazione e trasformazione per stare su un mercato più globale e interconnesso hanno piùpossibilità di navigare in un mare più ampio e sfidante; le altre o stanno salpando, avendoresistito alla crisi, oppure sono essenzialmente ancora ferme in porto. Il "rovescio dellamedaglia", che ci interessa particolarmente in questo testo, è che molto probabilmente leorganizzazioni che si sono trasformate hanno sviluppato anche gli "anticorpi" per il futuro.

E qui veniamo al secondo versante, quello interno alle organizzazioni: sono definiteormai da tutti, studiosi e consulenti (basta citare la presentazione di Cuneo all'edizioneitaliana di Ripensare il futuro, a cura di Gibson 1998), come organismi complessi per attivitàe tecnologie, per l'interazione tra questi elementi e le persone che vi lavorano. Nelleorganizzazioni di oggi si lavora in modo differente da quelle di soli 30 o 40 anni fa: vi è statoil passaggio epocale da aziende centrate sul prodotto, in cui tutto era legato ad esso, a

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imprese centrate sul processo (ossia ci si è focalizzati su tutto il "percorso" di realizzazionedel prodotto), passaggio favorito dall'automatizzazione del lavoro; transito che ha poi portatoalle imprese flessibili odierne, caratterizzate da una forte automazione, da un sistema dilavoro che integra le diverse parti dell'organizzazione per migliorare i risultati, e da unmercato di riferimento sempre più ampio e però sempre più variabile. E le persone cheoperano nelle organizzazioni flessibili, devono saper gestire l'incertezza, il molteplice, ladiversità di orientamenti.

Quali sono questi "anticorpi" che si indicavano in precedenza? Partiamo dall'indagineISFOL "Oltre la crisi" (2013) su un campione che possiamo definire "particolare", le piccole emedie imprese del sud Italia che hanno successo anche durante la crisi: a pagina 87dell'indagine, dopo il racconto e l'analisi delle aziende selezionate, si indicano gli elementidistintivi che contraddistinguono queste imprese che «operano in territori economicamentedecentrati rispetto ai sistemi produttivi più evoluti nazionali e internazionali. Una prima analisitrasversale ha consentito l'identificazione di tre aspetti che meritano uno specificoapprofondimento e che sono connessi tra loro:

- l'organizzazione del lavoro, che inerisce, in particolare, ma non esclusivamente, allemodalità di gestione delle risorse umane, del loro reclutamento e di processi diaggiornamento delle competenze;

- un approccio "meta-culturale" all'idea imprenditoriale;- la presenza di un comportamento di tipo "resiliente" che riguarda diversi aspetti, dalla

gestione interna dell'impresa ai rapporti con l'ambiente sociale, economico eistituzionale in cui si esplica il campo d'azione dell'impresa».

Nella disamina dei tre aspetti indicati, partendo dal primo, a pagina 88 dell'indagineISFOL, si dice che

«da un altro punto di vista dell'organizzazione, l'indagine ha inteso analizzare lecondizioni relative alle politiche delle risorse umane, che svolgono una funzionestrategica nella determinazione del valore aggiunto della produzione industriale.Orientate alla qualità, le imprese esaminate considerano la competenza e il benessere/lasoddisfazione dei dipendenti come variabili indipendenti dell'intero processo produttivo».

Per quanto riguarda il secondo aspetto, pur nelle differenze tra gli stili imprenditorialiraccolti e vision differenti, a pagina 91 dell'indagine ISFOL si indica che:

«i titolari e il management veicolano una forte impronta culturale e valoriale, talvolta conconnotazioni etiche (ed emotive), nella ricerca di fondamenta su cui costruireidentificazione, condivisione e focalizzazione rispetto agli obiettivi di performanceaziendale. Senza scomodare categorie di analisi che appartengono al filone tradizionalemanageriale, in alcune situazioni il titolare agisce come colui che è in grado di imprimerealcune delle cosiddette discipline (Senge, 1990) legate all'apprendimento in azienda, conparticolare riguardo alla costruzione della visione condivisa, al team learning e allapadronanza personale…».

Per quanto riguarda il terzo aspetto, quello della resilienza organizzativa, che vienedefinito come

«la generale capacità di saper lavorare in penuria (di risorse, materiali, strutture,finanziamenti…), di vivere condizioni di disagio e di difficoltà, ma riuscire comunque aottimizzare ciò di cui si dispone e alla fine apprendere ad affrontare in modo competentenuove situazioni di difficoltà. Questa capacità può aver dunque aumentato il grado diresilienza di queste imprese, ovvero la forza di superare le difficoltà e le crisi migliorandoaddirittura la propria posizione [...] La resilienza dunque non è la semplice capacità di

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resistere agli avvenimenti traumatici come può esserlo una crisi, ma è soprattuttol'insieme di abilità connesse al fronteggiamento delle difficoltà, correlata alla capacità diutilizzare l'esperienza acquisita per costruire il futuro in modo rafforzato … La resilienzasi traduce così, paradossalmente, nella capacità di riuscire ad essere produttivi nelledifficoltà, capitalizzando le esperienze, gli errori e le vittorie per costruire il futuro,mantenendo la fiducia in sé stessi e l'energia per raccogliere nuove sfide». (ISFOL, pp.92- 93)"

Questa ricerca, dunque, ci evidenzia alcuni elementi che paiono importanti per leaziende piccole e medie e che ritroviamo, con una terminologia differente, in uso nelleorganizzazioni di grandi dimensioni: il miglioramento continuo e l'apprendimentoorganizzativo. E il riferimento che viene fatto a Senge dagli autori della ricerca ci richiama ilconcetto di pensiero sistemico, che l'autore indica come la quinta disciplina, nel libroomonimo (Senge 1990). Una capacità che permette alle aziende di comprendere, secondol'autore, la complessità implicita nei sistemi organizzativi. Avere una visione sistemica delleorganizzazioni e delle attività che si svolgono, siano esse quelle produttive aziendali sianoesse quelle consulenziali che operano "per" le organizzazioni, permette di favorirel'apprendimento organizzativo.

«Ma, per realizzare il suo potenziale, il pensiero sistemico necessita anche dellediscipline utili a creare una visione condivisa, cioè dei modelli mentali,dell'apprendimento di gruppo e della padronanza personale. Costruire una visionestimola l'impegno a lungo termine. I modelli mentali si concentrano sull'aperturanecessaria a scoprire scorciatoie nel nostro modo attuale di vedere il mondo.L'apprendimento di gruppo sviluppa le capacità dei nuclei di persone di guardareall'immagine più grande al di là delle prospettive dei singoli. E la padronanza personalepromuove la motivazione personale a continuare ad apprendere come le nostre azioniinfluiscano sul nostro mondo». (Senge, trad. it, 1992, p. 14).

Proviamo a guardare le aziende anche da un altro punto di vista, quello dei sistemi chevengono attuati per migliorare l'efficienza interna e l'efficacia produttiva di prodotti o servizi,senza, ovviamente, dimenticare l'economicità del sistema organizzativo: per raggiungere gliobiettivi imprenditoriali le aziende hanno introdotto, come ci fa notare Tartari (2014),

«… molteplici metodi di gestione aziendale, di organizzazione della produzione e deiservizi connessi, e di miglioramento continuo; in particolare le tecniche Six Sigma, LeanSix Sigma e Quality by Design. Sono stati inoltre, sviluppati e introdotti diversi sistemiqualità e linee guida, ad esempio ISO 9001, ISO TS 16949, ISO 14971, ISO 13485, ICHQ8, ICH Q9, ICH Q10, solo per citarne alcune. Le norme e le linee guida citate hannotutte un comun denominatore: l'identificazione di attività e prodotti non conformi, la lorogestione e l'identificazione delle cause».

Da tutti gli aspetti citati, da consulenti che si muovono da anni in differenti realtàorganizzative, dalle grandi multinazionali di nascita italiana o straniera, fino alle piccoleaziende italiane, emergono due aspetti: la necessità per le imprese di innovare e fare ricerca,ma anche di migliorarsi continuamente, anche internamente, per stare sul mercato; perquesto, quanto prima indicato in diverse parti di questa premessa risulta significativo, perchéchi adotta certe strategie interne risulta avvantaggiato. Il secondo aspetto è che non bastaadottare metodologie più efficienti per essere più efficaci, in un mercato variabile e inorganizzazioni più flessibili, che magari lavorano just in time e che personalizzano i prodotti.

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«Nonostante ciò [i metodi di gestione aziendale, ndr] abbiamo una serie di mancatiobiettivi sia organizzativi che di qualità, i difetti e i disservizi raggiungono spesso ilmercato e l'insoddisfazione dei clienti aumenta», dichiara Tartari (2014, p.11).

Noi pensiamo che l'efficacia e l'efficienza possano essere ancora migliorate, (è difficileche un'organizzazione sia perfetta!), ma forse non è solo una questione di metodi, distrumenti (come ci pare di cogliere da autori come quello appena citato) ma, invece,principalmente una questione di cultura organizzativa, di una "piena", ossia pervasiva,cultura dell'apprendimento organizzativo, che includa non solo la visione sistemica di Senge,ma anche una cultura che incentivi il miglioramento e il superamento dell'errore, senza lacolpevolizzazione. Parliamo di errore perché ci pare sia la "cartina di tornasole" ottimale concui osservare in modo complessivo le organizzazioni in azione. E avremo modo diapprofondire il concetto lungo tutto questo scritto.

Spieghiamo però subito cosa intendiamo per errore: come ci indica uno dei maggioristudiosi dell'argomento, Reason (si veda 1990), esso può essere definito in molti modi, ma inquesto ambito di analisi un errore è ritenuto un fallimento di una o più azioni pianificate per ilraggiungimento di uno scopo. Questi errori che avvengono nelle organizzazioni e che nonpermettono di raggiungere gli obiettivi individuati, di mantenere gli standard definiti verso ilcliente esterno o interno, di essere efficaci nello svolgere le proprie attività, noi li chiamiamoeffetti indesiderati. Non ci riferiamo quindi al tema della salute e sicurezza sul lavoro e a temiinerenti lo stress lavoro correlato; allo stesso modo non ci connettiamo direttamente al temadella qualità nelle sue differenti "diramazioni" e metodiche. Intendiamo vedere il temadell'errore nelle organizzazioni come un tema a più ampio raggio, secondo una letturaorganizzativa sistemica ed è quello che facciamo nelle nostre attività consulenziali che sonoin progress.

2. Gli errori nelle organizzazioni

Il rischio per le aziende, che operano su mercati competitivi, di non raggiungere gliobiettivi di budget, di non guadagnare per remunerare il capitale investito, di non daredividendi agli investitori (che possono poi andare verso altre fonti di investimento piùredditizie), è caratterizzato da molti fattori esterni all'impresa (competitività, andamentoeconomico, ecc…), ma anche da quelli interni, legati alla produzione di prodotti e servizi diqualità, all'efficacia ed efficienza organizzativa. Diventa prioritario dunque eliminare difetti edisservizi che possono ricadere, in primis, sui clienti e generare insoddisfazione e cattivareputazione, così come verso i fornitori (che potrebbero trovarsi a voler scegliere diprivilegiare altre organizzazioni) o verso i clienti interni, i lavoratori, generando malcontento eun clima di lavoro poco sereno. Come ci segnala Maurizio Catino (2009, pag. 110)

«da quando le organizzazioni e le tecnologie sono diventate più complesse, sonodiventate anche più opache nel loro funzionamento e più esposte a errori e possibiliincidenti».

Comunemente gli errori vengono identificati con gli sbagli commessi dalle persone nelcorso dello svolgimento di una attività. Ma qual è, se vi è, la differenza tra errore e sbaglio?Tutti gli errori e/o sbagli sono uguali? Etimologicamente erróre deriva latino *error -oris,derivante da errare, ossia vagare e sbagliare e ha sia l'uso letterario dell'errare sia ilsignificato di sviarsi, l'uscire dalla via retta, l'atto e l'effetto di allontanarsi, col pensiero o conl'azione o, altrimenti, dal bene, dal vero, dal conveniente, in particolare con il senso di fallo,

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colpa e peccato (si veda vocabolario Treccani online,http://www.treccani.it/vocabolario/errore/).

Nel vocabolario della stessa Istituzione, troviamo la definizione di sbaglio come errore divalutazione o di giudizio, affermazione inesatta, modo di agire, di comportarsi, contrarioall'opportunità e alla convenienza, decisione poco felice, scelta non soddisfacente, un fare,commettere uno sbaglio; ed anche equivoco, scambio involontario; oppure errore commessonello svolgimento di un'attività o nell'esecuzione di un lavoro: In "senso morale, come colpa omancanza più o meno grave (con senso attenuato rispetto a errore)". (si veda vocabolarioTreccani online, http://www.treccani.it/vocabolario/sbaglio/).

Interessante notare come sbagliare abbia la stessa radice etimologica di abbagliare, conaltro prefisso, (s)bagliare e (ab)bagliare, derivando dal latino volgare *balium, cioè bagliore,che a sua volta deriverebbe dal greco baliós, ossia cangiante. Se i vocabolari ci indicano cheerrore è un errare, un vagare e invece sbaglio è un prendere un abbaglio, possiamo traslareil ragionamento a quanto ci indica Baldini nel suo libro Virtù dell'errore (2012), nelladifferenza tra i due termini: sbagliare ha una base soggettiva legata alla "difettosità" di alcunefunzioni (attenzione, memoria, pensiero) che presiedono allo svolgimento delle attività,l'errore ha una base oggettiva, legata alla non conoscenza di fatti essenziali per il procedere.Questa distinzione (che dal punto di vista linguistico in questo scritto andremo a perdere, peresigenze di chiarezza espositiva, infatti utilizzeremo, come si fa comunemente, i due terminicome sinonimi) ci indica che sono due gli aspetti che compongono la categoria errorerispetto al soggetto che sbaglia1: il fattore individuale, che agisce attraverso i processicognitivi, e il fattore "sociale" legato alla conoscenza, quale fattore esterno al soggetto e che,nelle organizzazioni, diventa un elemento di scambio e condivisione con gli altri, grazie alruolo interpretato e alla elaborazione di conoscenza.

Secondo Rasmussen (citato in Catino, 2006, pp.16-18) le forme di prestazioniorganizzative e quindi di comportamento che attuiamo sono di tre tipi, secondo i compitilavorativi che si eseguono: quelle basate sulle abilità (skill-based behaviour), legate a compitidi routine, quelle basate sulle regole (rule-based behaviour), relative a compiti conosciuti equelle basate sulle conoscenze (knowledge-based behaviour), che si attivano in situazioninuove ed impreviste, come si può vedere dalla tabella seguente:

Tipologie dicomportamenti

Tipo dicompito

Livello di impegnocognitivo

Cosa implica

skill-basedbehaviour

di routine basso Abilità apprese, procedureinteriorizzate, risposte quasiautomatiche

rule-basedbehaviour

nuovi basati suregole

medio Riconoscimento dellasituazione e applicazione dellaprocedura corretta

knowledge-basedbehaviour

situazioni nuovee impreviste

alto Approccio creativo eautonomo, basato suconoscenze e info disponibili

Tabella 1: comportamenti organizzativi

1 Tralasciamo in questo testo il tema dell’errore determinato da cause legate al “fallimento” dellatecnologia, inteso come fallacia diretta della macchina che determina uno sbaglio, un danno, unincidente; indirettamente la causa è sempre comunque l’azione del progettista, come ben indicato daNorman (nuova edizione, trad.it. 2015).

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Partendo da questa classificazione possiamo individuare2 gli errori rispetto al lorocollegamento ai nostri comportamenti e ai diversi livelli di esecuzione dei compiti,ricordandoci la definizione di Reason, ossia che ci riferiamo ad azioni in una sequenzapianificata di attività fisiche o mentali che non raggiungono i risultati voluti, senza chel'insuccesso possa essere attribuito al caso. Avremo dunque errori di esecuzione duranteuna singola azione o una sequenza di azioni pianificate oppure errori di pianificazionequando si sbaglierà a pianificare l'azione per raggiungere l'obiettivo definito.

Utilizziamo ora una delle più diffuse tipologie di errori, quella appunto di Reason (1990,trad. it. 1994), in cui troviamo la distinzione in:

- slip, ossia errore di esecuzione, per sbaglio involontario, ad esempio, di digitazionesulla tastiera;

- lapse, anch'esso errore di esecuzione relativo all'immagazzinamento e recuperodell'informazione, ad esempio il saltare un passaggio di una procedura o unasequenza di azioni;

- mistake, errore di pianificazione, quando si sceglie una via sbagliata per risolvere unproblema.

Per comprendere meglio le differenze tra queste tre tipologie di errori, presentiamo tresituazioni di vita che rappresentano altrettanti tipi di errore. La prima situazione può esserequella in cui facciamo un regalo, ma appena chi lo riceve lo apre, capiamo che non è affattogradito, anche se la persona cerca di non darlo a vedere. La seconda situazione, invece,può essere quella in cui compriamo due regali per due persone diverse, ma, quandovengono aperti, ci accorgiamo di avere scambiato i pacchetti, cosicché ognuna delle duepersone riceve il regalo che era stato scelto per l'altra. La terza situazione può essere, infine,quella in cui ci accorgiamo solo all'ultimo minuto di avere dimenticato un regalo cheavremmo voluto comperare per un compleanno o un'occasione importante e ci presentiamoa mani vuote. Come attribuiamo le differenti categorie di errore proposte da Reason a questiepisodi? Esaminandoli possiamo dire che nel primo caso abbiamo eseguito correttamentetutte le azioni previste nel nostro piano, che, però, era sbagliato in quanto era stato scelto ilregalo errato. Abbiamo perciò commesso un mistake. Nel secondo, il piano di azione eracorretto, ma una delle azioni condotte era sbagliata, avendo erroneamente scambiato i dueregali. Questo è un tipico errore slip. Nella terza situazione, il piano era corretto ma abbiamosaltato una delle azioni previste nel piano, dimenticando di andare ad acquistare il regalo cheavevamo in mente. L'errore commesso in questo caso è di tipo lapse.

Una ulteriore categoria di errori sono quelle le violazioni, ossia quelle azioni deliberatedelle persone che decidono di non seguire le normali prassi o le procedure definite (adesempio, infrangere un protocollo, prendere una scorciatoia rispetto ad una procedura),generalmente per inesperienza o per eccesso di fiducia nelle proprie capacità, fino ai veri epropri sabotaggi.

Se gli errori sono in-intenzionali e aumentano con i problemi informativi, le violazionisono invece deliberate e sono formate prevalentemente dalle attitudini personali, dallecredenze, da una cultura o sottocultura organizzativa che condiziona i comportamenti dellepersone, a scapito a volte della sicurezza (ad esempio, by-passare o manomettere idispositivi di sicurezza delle macchine per lavorare più facilmente o più in fretta): inquest'ultimo caso, sono violazioni di buone norme o regole, che le persone eludono perdifferenti motivi, come l'illusione del controllo (sono in grado di gestire la macchina o la

2 Non si intende riferirsi a nessuna tassonomia degli errori o produrne una in questo testo, seppur sicercherà di definire le possibili diverse tipologie per presentare al meglio le argomentazioni di questoscritto, in quanto questione molto controversa (si veda Catino, 2006, p.19).

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situazione), di invulnerabilità (a me non succede niente), o superiorità (sono moltocompetente), o conformismo (lo fanno tutti).

Se mettiamo in relazione i modelli di Reason e quello di Rasmussen, possiamo alloradifferenziare gli errori secondo la tabella seguente:

Tipologie dierrori

Sottotipologie

Azione Possibile causa

Lapse Piano corretto ma azionemancante.

Vuoto di memoria.

Slip Piano corretto ma azione sbagliata Dimenticanza o sbaglioinvolontario.

Mistake rule-based Applicazione di una regolainappropriata o scorrettaapplicazione della regola giusta.

knowledge-based

Azione corretta ma pianosbagliato.

Conoscenza inadeguata oscorretta applicazione dellaconoscenza.

Violazioni Ricerca di una scorciatoia Inesperienza o da eccessivafiducia nelle proprie capacità

Tabella 2: tipologie di errori

Merito degli studi di Reason è stato quello di voler superare i modelli comunemente usatiper analizzare gli errori, gli incidenti nelle organizzazioni: la spiegazione su quanto èavvenuto può essere visto infatti dal punto di vista "politico" (cause dovute a policyaziendali), oppure secondo il modello "tecnocentrico" (fallimento della tecnologia o della sua"conduzione" da parte di attori organizzativi, per colpa o negligenza), o secondo il "modellodel fattore umano", che si concentra sulle persone e sulla specifica situazione di lavoro.L'autore inglese reinterpreta la concezione dell'errore in una nuova prospettiva e insiste sullanecessità di studiare i comportamenti umani in relazione ai contesti organizzativi, tecnologicie culturali, in cui si riscontrano effettivamente. Approccio che anche Catino (2009, p.110)sposa come

«una prospettiva teorica e di ricerca empirica che supera le precedenti argomentazioni,sostenendo che gli incidenti sono sì prodotti, nella maggior parte dei casi, da erroriinintenzionali e da violazioni, ma questi errori e queste violazioni sono socialmenteorganizzati, prodotti e riprodotti da strutture sociali nelle organizzazioni e tra leorganizzazioni. Gli errori e gli incidenti sono costruiti organizzativamente e non soltantoda un errore umano o da un guasto tecnico. Questi eventi sono raramente determinati dauna singola causa (umana o tecnologica), ma piuttosto derivano da molteplici eventidiversi che, entrando in relazione tra loro, causano un incidente. Si tratta di erroriorganizzativi».

Questa linea interpretativa sposta il fuoco dell'analisi dal livello individuale a quelloorganizzativo e interorganizzativo.

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Reason allarga il campo di indagine di ciò che avviene e, in questo modo, amplia glielementi da tenere in considerazione in fase di progettazione di sistemi socio-organizzativiche minimizzino il rischio sugli effetti indesiderati. Inoltre fa una distinzione importante traerrori attivi e fattori che determinano un errore, i fattori latenti. Gli errori attivi sono atti insicuri(errori o violazioni delle procedure), commessi dagli operatori di prima linea, i cui effetti sonoimmediatamente percepiti e, dunque, facilmente individuabili. I fattori latenti sono invececondizioni più che cause, presenti in tutte le organizzazioni, come lacune e falle delle"difese", debolezze o mancanze create involontariamente da decisioni prese da manager,regolatori, progettisti ecc., del sistema: attività come quelle manageriali, normative eorganizzative che possono essere associate all'errore pur essendo attività distanti (sia intermini di spazio sia di tempo) da esso. Possono avere conseguenze più durevoli e piùdevastanti degli sbagli, rimanendo silenti anche per lungo tempo, diventando evidenti soloquando si combinano con altri fattori in grado di rompere le difese del sistema stesso.Reason ha elaborato un modello che è detto "Swiss cheese model", che spiega anchegraficamente che i fattori indesiderati nelle organizzazioni possono avere spiegazioni causemultiple: alcune fette di gruyére sono allineate in sequenza tra loro a indicare le barriereorganizzative a difesa dagli errori (grandi e piccoli che siano); se i buchi di ogni fetta sonoallineati tra loro, allora diviene più facile che si verifichi un fatto indesiderato, in quantopasserà indisturbato tra le fette. Le azioni allora da svolgere saranno quelle di considerarenon una fetta sola, ma vedere il sistema nel suo complesso (tutte le fette assieme),intervenire per evitare il più possibile perché i sistemi di controllo e difesa siano collegati traloro (per evitare che verifichino eventi che si "infilano" tra i buchi delle fette) econtestualmente ridurre i "buchi" di ogni fetta, ossia ridimensionare il rischio di occasioni dierrori, guasti, ecc.

La lettura degli errori nelle organizzazioni deve dunque essere una lettura ampia esistemica, che comprenda diversi livelli di analisi (intra - organizzativo, organizzativo e inter –organizzativo), intesi come "centri" potenziali di generazione dell'effetto indesiderato, oltre aquello individuale. Un errore è commesso soltanto dall'operatore che lo agisce o, inalternativa, l'errore è un fattore organizzativo, determinato da problemi a livello di pratiche eprocessi complessi, di interfacce tecnologiche o da un clima interno non facilitante il lavoro?Secondo l'approccio qui presentato gli effetti indesiderati (che sono, ricordiamo, di vario tipo,dal danno economico a quello di reputazione, al danno fisico e ambientale) inun'organizzazione non sono dovuti soltanto ad un errore isolato di una persona, ma sono,spesso, determinati dall' accumularsi di difetti e lacune dei sistemi tecnologici e umani edanche dalla scarsa attenzione al miglioramento da parte di chi gestisce l'organizzazione.Riguardo in particolare agli incidenti, Catino (2009, p. 113) afferma che

«nelle organizzazioni tanto più è ampio il numero di criticità organizzative, di difetti diprogettazione e di mancanze di controllo, tanto più è probabile che un'azione-decisioneumana errata attivi un incidente».

Considerare dunque gli effetti indesiderati come errori organizzativi ha delle implicazioniin termini di disegno organizzativo, in particolare per quanto riguarda il funzionamento deiprocessi di lavoro, nei sistemi di controllo e in quelli tecnologici. Ha anche conseguenze sulmanagement e sullo "stile" di gestione aziendale, ad esempio nell'adottare una logicapreventiva di individuazione dei possibili fallimenti potenziali. Vuol dire spostare l'attenzionedall'efficienza (senza negarla, ovviamente) all'affidabilità: analizzare gli errori a qualunquelivello, senza minimizzarli, evitare interpretazioni che semplificano la situazione, ascoltare chiha esperienza (per la loro parte), impegnarsi a sviluppare la resilienza organizzativa. E comeci indicano Weick e Sutcliffe (2007, trad .it 2010), avere come riferimento i principi delleorganizzazioni ad alta affidabilità (HRO).

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Tutto ciò ha come base un'adeguata cultura organizzativa che faciliti l'apprendimentoorganizzativo dagli errori, che non inneschi la caccia al colpevole, la blame culture, comeviene chiamata, alla ricerca del capro espiatorio, come avviene sovente nelle aziende. Leorganizzazioni ad alta affidabilità non sanzionano le persone quando sbagliano, ma studianoquello che è successo e, a volte, premiano chi esce allo scoperto per ammettere un errore,un mancato controllo o perché hanno considerato poco rilevante un piccolo segnale(minimizzandone la portata). Approfondiamo ora l'aspetto della cultura relativa agli errori, inparticolare nell'ambito delle organizzazioni.

3. La cultura della "colpa degli errori" nelle organizzazioni

Ma come vengono gestiti gli effetti indesiderati nelle organizzazioni ? Che ruolo gioca lacultura organizzativa nei comportamenti attivati a fronte di un errore? Sappiamo dagli studi diReason (1990, trad.it 1994) che il tema è analizzato nelle organizzazioni secondo la "lente diingrandimento" scelta da chi ha responsabilità: quella "politica", quella "tecnocentrica"oppure il "fattore umano". In particolare quest'ultimo è molto spesso utilizzato, comescopriamo attraverso i mezzi di informazione, ad esempio, nei casi eclatanti (incidenti,disgrazie, ecc…).

«L'idea che gli errori e gli incidenti siano generati da un errore umano e/o da un guastotecnico si basa su un dualismo newtoniano-cartesiano, inadeguato a render conto dieventi complessi che accadono all'interno delle organizzazioni. In base a questainadeguata concezione dualistica il mondo mentale è separato dal mondo materiale(Cartesio) e per ogni evento vi deve essere una causa e una soltanto (Newton). Come laricerca empirica ha ampiamente dimostrato nel corso di questi ultimi vent'anni, unaconcezione basata soltanto sull'errore umano non è all'altezza della complessità deglieventi che intende spiegare e, se l'analisi non è adeguata, ne consegue che non losaranno le soluzioni di rimedio individuate»

afferma Catino (2009, p.112) e le molte evidenze derivanti dalla ricerca, dallo studio deglieventi accaduti, dall'analisi delle contro-deduzioni sulle conclusioni delle commissioni diinchiesta, nei casi di incidenti gravi, hanno fatto dichiarare a molti studiosi a livellointernazionale che gli errori sono generati da un sistema più ampio di cause e di fattori direttied indiretti che facilitano, eventualmente, l'attore "finale" a commettere uno sbaglio.

Abbiamo già indicato nel paragrafo precedente questo aspetto, che riprenderemocomunque anche oltre. Il modello di esame degli errori adottato dalle persone nelleorganizzazioni, in particolare da chi ha ruoli decisionali e/o tecnici relativi ai fatti, nedetermina la lettura: chi usa un modello di causalità lineare, come nei casi delle spiegazionipolitiche, tecno-centriche o del fattore umano, non considera l'organizzazione e non adottauna visione sistemica non lineare. In particolare, la visione tecno-centrica o trova il dannoprodotto da un sistema/una macchina oppure scarica la colpa sulla negligenza di chi quelletecnologie doveva usare, ossia le persone. Così come l'errore è sempre umano nel caso silegga il tutto come una disattenzione o la troppa confidenza dell'essere umano. Anche nelcaso della "lettura" politica, che propone spiegazioni come il risparmio dei costi, la penuria dipersone, ecc. ci si focalizza sugli errori e sulle mancanze degli individui, con la conseguenzache si ricerca a chi attribuire la colpa, spostando all'eventuale processo giudiziario il compitodi "certificare" la colpevolezza di una o più persone. L'esito è sempre, nei diversi casi condifferenti gradi di applicazione, che, se la persona è colpevole, va rimossa o sanzionata, inquanto "mela marcia". Un approccio che non cambia lo stato delle cose: il rischio di un erroreulteriore rimane sempre in agguato! Si isolano gli errori dal loro effettivo contesto e si

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accendono i riflettori su una o più persone e si giudica (e spesso si condanna sedutastante!). Non migliora l'organizzazione, non si modificano le procedure e non apprendono lepersone, in quanto non si eliminano le condizioni di rischio e non si esclude la possibilità cheuno stesso evento possa ripetersi con altri attori. Inoltre, si genera un senso di paura per lesanzioni (materiali o immateriali) e le controversie legali, "appesantendo" il clima aziendale.

«Chi ha sbagliato? Chi non ha rispettato la scadenza? Chi sta remando contro? Quandoci poniamo domande come queste, di fatto cerchiamo un capro espiatorio, qualcuno cuiattribuire la colpa».

Così scrive Miller (2004, trad. it 2005, pag. 49), in un agile e operativo libro sull'agireresponsabile, proponendo che una delle principali attività delle persone nelle organizzazioni(americane, nei suoi riferimenti, ma crediamo sia un elemento esportabile) sia ilblamestorming, ossia il lamentarsi continuamente. E, come osserva Iacci (2015, pag.1),

«in un momento di difficoltà e precarietà come quello che stiamo vivendo, i casi di caproespiatorio nelle imprese si stanno moltiplicando. Non sto parlando di mobbing, né disoprusi da parte delle gerarchie, fenomeni che purtroppo esistono, ma sono altra cosa.Sto parlando di un fenomeno purtroppo normale, all'interno dei gruppi di lavoro, anchese talvolta violento e comunque sempre disdicevole».

La cultura della colpa attribuita a qualcuno è la realtà che ci troviamo come consulenti ascoprire in molte organizzazioni, anche se non in tutte. Non svilupperemo il tema del caproespiatorio, che ha molti versanti interpretativi3, perché sarebbe necessario uno specificospazio per l'approfondimento che non abbiamo: cercheremo solo di definire i confini del temadal punto di vista culturale, per far cogliere il quadro complessivo in cui si inseriscono lepersone e le organizzazioni.

L'antropologa sociale Mary Douglas in Rischio e colpa (1992) evidenzia come ilprocesso di attribuzione della colpa, in particolare per eventi disastrosi, getta luce sul pattosociale che regge una comunità e sulle strategie messe in atto per difenderla dai nemiciinterni ed esterni. L'autrice, che nelle sue opere ha posto in evidenza l'importanza delleistituzioni sociali nell'influenzare le elaborazioni mentali dei membri, mette in rilievo comequalunque società non può sussistere se i suoi membri non condividono pensieri e strutturedi riferimento, comprese la percezione del rischio e le categorie di colpa. La sua analisi deiprocessi sociali di attribuzione di colpa (blaming) dopo eventi catastrofici (disastri ambientali,calamità naturali, gravi malattie, epidemie, ecc.), sia in società primitive, sia nella nostrasocietà occidentale, mostra la relazione fra sistemi sociali, razionalità delle credenze rispettoai nessi causali e rappresentazioni simboliche dell'ambiente naturale. Dunque ogni societàelabora proprie soluzioni per la definizione dei pericoli e delle responsabilità attribuendo lacolpa a:

- i soggetti socialmente più "deboli", se sono società individualistiche, come le aziende4

che hanno come riferimento culturale il mercato e premiano le persone di successoper le loro qualità personali, in particolare per la leadership, e che ci si aspetta chesomministrino punizioni anche morali ai soggetti che minacciano la loro autorità;

3 Per approfondire il tema si possono, ad esempio, consultare un classico sul tema, quellodell’antropologo e filosofo francese René Girard (1982), la lettura della psicologa analitica SylviaBrinton Perera (1986) e, in ambito organizzativo, lo studio di Giuseppe Bonazzi (1983) e il saggio diChiara Sebastiani (1995); si veda la bibliografia di questo testo.4 Il modello di analisi presentato, tratto dagli studi della Douglas, correla, solo a scopo esemplificativo,tipologie di società con categorie di organizzazioni; sono due specie di organismi in cui avvengonofenomeni culturali, sociali ed organizzativi complessi, per cui non è possibile essere deterministicinelle correlazioni e non è detto comunque che ogni organizzazione sviluppi meccanismi di attribuzionedella colpa.

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- ai "devianti", se sono società gerarchiche, come le organizzazioni burocratiche,legate alle procedure, alla routine, alla fedeltà e al sostegno del gruppo rispetto alsingolo, che hanno una cultura della punizione morale basata sulla tradizione (ossiaregole basate su valori gerarchici), attraverso la minaccia di isolare la persona;

- agli estranei, se sono società chiuse, come ad esempio le organizzazioni volontarie,basate sulla partecipazione dei membri, società che hanno come obiettivo psicologicolatente quello della sopravvivenza del gruppo e che spostano la colpa sul "mondoesterno" o sulle eventuali fazioni interne, accusando di slealtà le persone.

Parlando di organizzazioni che sono maggiormente rappresentabili dal primo modello dianalisi, possiamo riprendere quanto raccontato da Dattner (2001, pag. 116):

«Secondo la mia esperienza, quando un'azienda è pervasa dall'ossessione di scovare eredarguire i colpevoli, in genere questa tendenza si diffonde dall'alto, dal topmanagement, oppure si consolida in un lungo periodo di tempo … In verità, l'ossessionedella colpa può impedire di identificare le vere cause dei problemi, che possono esserestrutturali, ad esempio un difetto dei sistemi informatici o una serie di fattorimacroeconomici o di mercato che esulano dal controllo di chiunque».

Soprattutto quando il periodo storico è simile a quello che stiamo vivendo negli ultimianni, un periodo di forte crisi socio-economica, sarebbe necessario, come abbiamo già vistonei paragrafi precedenti, che il clima interno alle aziende fosse imperniato sulla fiducia, lacollaborazione, per affrontare al meglio il periodo e migliorare la situazione dell'azienda. Ilprocesso "fiduciario" nelle organizzazioni deve essere visto come un processo dinamico edevolutivo, anche determinato da come si trasformano i presupposti di base, passando dallacondivisione cognitiva a quella emotiva e affettiva.

«La fiducia può evolvere rafforzandosi, passando cioè da una base cognitiva a unacondivisione emotiva e affettiva con l'altro; tuttavia questo processo potrebbe anche fardeclinare la fiducia in senso negativo». (Farnese, Barbieri, (2010, p. 25)

E, come richiamato dalle autrici, la fiducia nelle organizzazioni ha quindi tra le suefunzioni fondamentali quella del controllo delle regolazioni delle interazioni sociali, per cui gli

«stili di leadership che tendono ad attribuire fiducia e responsabilità ai propri membriforniscono, a differenza di sistemi basati sull'attribuzione di punizioni e ricompense,diverse e più ampie modalità di accertamento, non limitate alla verifica dell'adempienza aquanto concordato». (ibid., pag.62)

A conferma dell'importanza del ruolo della fiducia e del rapporto che ne ha chi sta alvertice, Davenport e Prusak (1998, trad.it. 2000) individuano la prima come uno dei fattoribasilari per creare lo sviluppo del knowledge interno alle organizzazioni. Per favorire lafiducia bisogna, secondo gli autori, accrescerla in tre modi: il primo, renderla visibile,operativamente, favorendo e premiando lo scambio di conoscenza; il secondo, diffonderla, inmodo che non sia asimmetrica; il terzo, appunto, il ruolo della credibilità dell'impegno delvertice:

«nelle organizzazioni, la fiducia tende a essere trasferita verso il basso. L'esempiofornito dai livelli superiori di management definisce le norme e i valori dell'intera azienda.Se il vertice è credibile e affidabile, la fiducia si diffonde fino a conquistare tuttal'organizzazione … I valori del vertice vengono espressi attraverso segnali, segni esimboli». (p. 43)

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Ci sembra ora necessario richiamare il concetto di cultura organizzativa, finora sempreaccennato in questo testo, prendendo a riferimento quanto elaborato da Schein (si veda inparticolare 1985, trad.it. 1990), per cui la si può intendere come l'insieme degli assunti dibase (credenze, assunti impliciti), valori e artefatti che regolano i modelli di comportamentidelle persone, ossia indicano come percepire, pensare, sentire e intervenire sulla realtà,insieme che si è rivelato funzionale all'andamento dell'azienda. La funzione della leadershipin questo quadro è per l'autore americano quella di gestione della cultura organizzativa, peraltri autori (si veda Avallone, Farnese, 2005) di orientamento delle interpretazioni che sigenerano nell'azienda in termini simbolici. In ogni caso, appare chiaro come una modalità digestione degli errori organizzativi che sfoci in una ricerca e attribuzione della colpa risulti nonsolo un segnale, ma anche un segno in quanto significante e soprattutto come significato efattore simbolico che permea la cultura organizzativa. Solo chi ha la possibilità di orientare leinterpretazioni può trasformare, a livello organizzativo, la percezione dell'errore come colpaattribuendogli invece la valenza di opportunità.

4. L'opportunità di apprendimento dagli errori

Gestire l'errore come opportunità vuol dire avere una cultura organizzativa (e unaleadership) che premia i comportamenti non orientati a nascondere gli errori o ad autotutelarsi, magari accusando altri, ma che facilita la fiducia, la condivisione e la circolaritàdella conoscenza anche riguardo agli effetti indesiderati che si presentano in azienda:comportamenti evolutivi per le persone e quindi per l'organizzazione, quali presupposti per lagenerazione di valore in tutti i sensi. Nelle realtà lavorative la focalizzazione della tematicadell'errore richiede, come già indicato, una visione d'insieme ed un approccio sistemico.Identificando e analizzando le correlazioni e interazioni tra individuo e contesto è possibilenon solo gestire l'errore ma anche utilizzarlo proficuamente come fattore di apprendimento edi miglioramento. La ricerca del colpevole dell'errore induce non solo nelle personecomportamenti di pura autotutela, ma anche, come conseguenza, dis-apprendimento einerzia organizzativa.

Molte ricerche e analisi di studiosi, come riportato nei paragrafi precedenti, hannoevidenziato come il meccanismo di ricerca sistematica dell'errore per individuareprontamente gli scostamenti, come proposto dalla cultura della sicurezza e del riskmanagement, non è di per sé sufficiente a promuovere la consapevolezza organizzativa ditutti gli attori. Le ricerche condotte anche in Italia hanno infatti messo in evidenza lanecessità di costruire modelli organizzativi e sistemi di gestione che pongano in primo pianole persone, per promuovere il superamento della blame culture ed arrivare ad una culturadell'apprendimento, in cui si considerino gli errori come occasioni di crescita organizzativa.Un errore impatta, in genere, su due diversi ambiti, la sicurezza e i risultati: nel primo ambito,l'errore viene affrontato più tipicamente attraverso le esigenze di compliance alla normativa,primariamente al fine di garantire le condizioni di sicurezza dei lavoratori, secondariamenteper non incorrere in esiti sanzionatori. Nel secondo ambito, l'errore può essere affrontato conun approccio orientato al mantenimento/miglioramento di efficacia ed efficienza. In entrambi icasi, si agisce operativamente e in termini di segnali, segni e simboli con messaggi cheincrementano, consolidano o favoriscono comunque la blame culture e la ricerca delcolpevole dell'errore. Si guarda spesso al passato, si isolano gli errori dal loro contesto, siscompongono i fattori diretti ed indiretti, non si crea un senso di quanto accaduto, e questonon favorisce i ritorni d'esperienza e quindi, non si favorisce l'apprendimento organizzativo eil miglioramento dell'organizzazione. Ogni effetto indesiderato che si verifica inun'organizzazione dovrebbe essere analizzato e discusso, incoraggiando momenti di

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apprendimento, che le persone possano percepire come spazi d'azione e non di"amministrazione della giustizia". E i confini sono labili: è facile trasformare una pratica cheaveva buone intenzioni in una che rappresenti simbolicamente il suo opposto (e nei corridoisi potrebbero sentire frasi del tipo sei andato a giudizio?): se non si lavora sulla culturaorganizzativa con attenzione, con azioni visibili a tutti e che arrivano dai veri "opinion leader"aziendali, si confermano le percezioni di partenza, invece di modificarle.

Ma quali sono i presupposti che fanno virare un'organizzazione verso una cultura che,come ci indica Catino (2009, pag.116), è stata, ad esempio, definita dall'ICAO (InternationalCivil Aviation Organisation) come la Just Culture,

«… ovvero una cultura in cui gli operatori di front-line non vengano puniti per le azioni, leomissioni o per le decisioni commisurate alla loro esperienza, ma esclusivamente per gliatti di negligenza, le violazioni e le azioni distruttive considerate non tollerabili».

Oppure si può guardare alle HRO, le organizzazioni "ad alta affidabilità", di cui si è giàaccennato, che riescono ad operare in modo ottimale anche in condizioni di grandecomplessità, con un livello di errori molto basso - si pensi a centrali o portaerei nucleari, manon solo -, e che riescono a "governare l'inatteso", come recita il titolo del libro di Weick eSutcliffe (2007, trad.it 2010). A pagina 3 gli autori scrivono

«se proponiamo di prendere tali organizzazioni come punto di riferimento, non è perchéesse possiedano la soluzione, ma perché lottano continuamente per trovarla».

E, a pagina 25,«in ogni organizzazione si fanno cose che ci si aspetta di continuare a fare in modoaffidabile, e per le quali l'interruzione imprevista può diventare disastrosa se la gestionedell'inatteso è mediocre. Questa possibilità nelle HRO è al centro dell'attenzione più chenelle altre organizzazioni. Ma è una possibilità che incombe comunque su tutti i sistemiorganizzativi. Ogni organizzazione, non solo le HRO, sviluppa convinzioni culturalmenteaccettate rispetto alla realtà e ai suoi pericoli, insieme ad una serie di normeprecauzionali, precetti, linee guida, descrizioni di mansioni e materiali per la formazione,nonché voci informali di corridoio. E tutte le organizzazioni accumulano eventi chepassano inosservati e sono in contrasto con le convinzioni diffuse… le HRO sviluppanocredenze complesse riguardo alla realtà, ma le correggono più spesso di quantofacciano le altre organizzazioni. Ugualmente, le HRO sviluppano norme precauzionalicome ogni altra organizzazione, ma a differenza delle altre utilizzano sia i piccoli eventicritici sia i punti deboli che sono la conseguenza del successo come elementi persviluppare tali precauzioni. E, come ogni altra organizzazione, anche le HROaccumulano eventi inosservati che sono in contrasto con ciò che è atteso. Tuttaviatendono ad accorgersi prima di questo processo di accumulo, quando le proporzionisono ancora modeste».

L'approccio agli effetti indesiderati differenzia dunque le organizzazioni tra quelle che liusano per fare apprendimento organizzativo5 e quelle che non lo fanno, quelle chedefiniscono e affrontano errori intesi come problemi organizzativi e quelle che inveceprendono in considerazione solo sbagli personali e, caso mai, tecnologici. Noi crediamo chesi possa transitare verso organizzazioni che apprendono dagli errori: i diversi effettiindesiderati che avvengono nelle aziende sono opportunità di migliorare processi, sistemi ecompetenze delle persone. Prendiamo ad esempio il racconto di Dattner (2011, pag. XXV):

5 Usiamo il termine apprendimento organizzativo in senso generale, senza voler entrare nel dibattitosulla sua natura e caratterizzazione; si vedano, tra gli altri, Vino (2001) e Fabbri (2003).

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«Una società immobiliare mi incaricò di condurre alcune sessioni per creare un climacollaborativo fra architetti, ingegneri e manager che stavano per avviare la costruzione diun innovativo edificio ecologicamente sostenibile. Il proprietario della società, che avevamaturato molti anni di esperienza seguendo progetti edilizi di ogni genere, avevascoperto che rinsaldare i rapporti tra il gruppo dei dipendenti all'inizio di un progetto è unottimo modo per prevenire il gioco della colpa, poiché è praticamente inevitabile che conl'andar del tempo si sia tentati di puntare il dito gli uni contro gli altri… Voleva creare unambiente di fiducia in cui le persone risolvessero i problemi invece di colpevolizzarsi traloro. Gettando le opportune fondamenta per la collaborazione avrebbe così reso assaipiù probabile il successo finale. In seguito, quando infatti sorsero alcune difficoltà, idiversi team di lavoro riconobbero i propri errori e si aiutarono reciprocamente a risolverei problemi con uno spirito costruttivo».

Un caso di "prevenzione" attuato lavorando sulle competenze delle persone. Ma si puòanche lavorare sui processi, le procedure e le prassi, così come sui sistemi e gli strumentiche vengono utilizzati. Per esemplificare relativamente alle procedure, riportiamo quantoscrive Norman (nuova ed. 2013, trad. it. 2015, pag.188-9):

«Una volta ho esaminato una serie di incidenti in cui operai superspecializzati diun'azienda elettrica erano rimasti fulminati dall'alta tensione durante lavori dimanutenzione. Tutte le commissioni di inchiesta avevano incolpato degli incidenti glioperai, conclusione che neppure le vittime sopravvissute contestavano… Lecommissioni d'inchiesta non si era spinte fino a trovare le cause profonde degli incidenti,né avevano mai considerato la possibilità di riprogettare i sistemi e le procedure, in mododa rendere impossibili o molto meno probabili gli infortuni … Non mi fu difficile suggerireall'azienda elettrica semplici cambiamenti delle procedure che avrebbero prevenuto lamaggior parte degli incidenti».

E, come scrive qualche riga più avanti, «Se il sistema ci lascia sbagliare, è malprogettato. Se poi ci induce a sbagliare, è progettato malissimo».

Se parliamo di strumenti, prendendone in considerazione uno che conoscono tutti, ilbancomat è progettato per evitare che si dimentichi la tessera, obbligandoci a prenderlaprima di ritirare i soldi: si previene la possibilità di dimenticanze, progettando lo strumentopensando alla sua funzionalità complessiva non solo dal punto di vista tecnologico. E gliincidenti, gli errori di vario tipo sono segnali che ci permettono di migliorare l'organizzazione:vanno quindi analizzati come occasioni "incrementali", ossia come opportunità di rivedereprocessi, procedure, prassi, così come sistemi, strumenti e segnaletica, ma anche icomportamenti e competenze.

5. L'approccio PSC

Gli effetti indesiderati nelle organizzazioni molto raramente sono determinati da unasingola causa (tecnologica o umana) ma derivano da fattori diversi e dalle loro interrelazioni,provocati da atti prodotti e riprodotti nelle organizzazioni e tra le organizzazioni incollegamento tra loro (le aziende coinvolte nella catena fornitori/ clienti). Riprendendo quantopresentato nei paragrafi precedenti, si può dire che:

- le situazioni predisponenti agli effetti indesiderati, indipendentemente dalle personeche commettono errori o violazioni, vanno considerati fattori latenti a livelloorganizzativo;

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- maggiori sono le criticità a livello inter-organizzativo, organizzativo e intra-organizzativo, più è probabile che un errore individuale attivi un effetto indesiderato;

- l'errore umano frequentemente rappresenta solo il fattore scatenante, e non lagenesi, dell'effetto indesiderato;

- i cambiamenti limitati al solo livello individuale non modificano le condizioni di rischiopresenti negli altri livelli e quindi mantengono immutate le possibilità che l'effettoindesiderato si ripeta.

Per questo gli autori agiscono come équipe che interviene nelle organizzazioni clientisecondo la logica che i provvedimenti di "rimedio" devono necessariamente coinvolgere ilivelli intra - organizzativo, organizzativo e inter - organizzativo, intesi come ‘centri generatori'dell'effetto indesiderato, secondo un approccio che si è denominato PSC. L'acronimo indicale tre direzioni su cui si concentra il lavoro di analisi, diagnosi e consulenza: l'aspetto dellastruttura organizzativa (processi, procedure e prassi adottate), quello dei sistemi (sistemiinformativi e strumenti utilizzati) e la parte "soft" (clima interno, competenze e comportamentidegli attori). Il perimetro di intervento è di volta in volta definito con la committenza, ma losguardo è quello di chi guarda con un'ottica sistemica all'organizzazione, non solo al suointerno ma anche alle interazioni con le altre aziende coinvolte nella filiera produttiva e divendita. Riprendendo le riflessioni di studio e di applicazione a livello internazionale, cheabbiamo cercato di riassumere nei paragrafi precedenti, l'approccio PSC li rielabora in unintervento operativo sui fattori "latenti" e i fattori "attivi": si analizzano le "potenzialità" deifattori indesiderati e si interviene su di essi, partendo da una lettura sistemicadell'organizzazione e del suo ambiente di riferimento, utilizzando preliminarmente unquestionario che permette agli attori aziendali coinvolti di esaminare la situazione della loroorganizzazione. Si analizzano poi i fattori a vari livelli.

- A livello inter-organizzativo: livello in cui si possono determinare situazioni chepossono fare insorgere criticità tra le organizzazioni con cui un'azienda interagisce(fornitori, concorrenti, enti di controllo, ecc.), in relazione alle differenziazioni(specialistiche, strategiche, culturali) ed al grado di integrazione. Il focus è sulla reteorganizzativa, sulle connessioni e sulle modalità di differenziazione e integrazione deidiversi attori coinvolti nel funzionamento del sistema.

- A livello organizzativo: i processi organizzativi, i sistemi, le strategie, nonché lacultura presente costituiscono i fattori determinanti per la garanzia del funzionamentosicuro e coerente di tutte le attività. Dimensioni particolarmente critiche sonorappresentate dalle azioni e decisioni manageriali, il sistema di coordinamento econtrollo, il sistema di gestione e sviluppo delle RU.

- A livello intra-organizzativo: nei contesti specifici in cui agiscono le persone lafocalizzazione è sulle interazioni uomo-macchina, uomo-strumento e uomo-sistema,sulla cooperazione, sulla comunicazione e sul coordinamento. Il controllo è unaspetto particolarmente importante: le situazioni più critiche sono le "interfacce" tra leattività, dove non sempre sono chiaramente definiti limiti e responsabilità d'interventodelle persone.

A livello trasversale si analizzano i fattori attivi, le persone, individuando la tipologia dierrore, potenziale o in essere, per poi intervenire con azioni mirate e/o preventive. Il focus èsulle relazioni tra le intenzioni delle persone, le loro aspettative e le situazioni con cuiinteragiscono, che sono, alcune volte, "ambigue": informazioni incomplete, sistemi non benprogettati, clima interno non favorevole, possono "ingannare" le capacità cognitive dell'attoreorganizzativo.

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Nelle analisi svolte nelle organizzazioni clienti e in quelle in cui abbiamo avuto lapossibilità di testare i nostri strumenti, abbiamo raccolto alcuni esempi emblematici di fattoriattivi:

- in un'azienda italiana facente parte un gruppo industriale straniero, ci è statopresentato il caso di un errore attenzionale (slip) relativo all'inserimento scorretto delvalore di un'offerta in una gara, che ha causato un danno economico di una certaentità all'azienda. Errore umano, si, ma quanto reso possibile dal sistemainformativo? Sicuramente un sistema progettato secondo una logica non antropo-centrica, per dirla con Norman, ed anche un "sistema" di controllo, non solo"meccanico", ma organizzativo non adeguato;

- in una delle sedi italiane di una multinazionale logistica per il trasporto merci su aereoe nave, è capitato che in magazzino venisse scambiata l'etichettatura di duespedizioni per lo stesso destinatario, verso due diverse città della stessa nazione inOriente. Bisogna guardare oltre all'errore attenzionale (slip), che ne è solo il fattoreattivo, per prevedere contromisure, come ha previsto l'azienda, che aumentino leinformazioni dagli uffici al magazzino e il coordinamento tra le partidell'organizzazioni;

- nella sede italiana di una multinazionale della preparazione alimentare, ci hannoesposto un rule-based mistake, legato allo smantellamento della pannellaturadell'atrio fatto in orario di pausa pranzo, ossia nell'ora di maggior passaggio, con unmaggior impatto sulla sicurezza delle persone; un fattore indesiderato che si attivanon solo nella fase di esecuzione ma anche di pianificazione dell'intervento, chesupera regole e procedure interne, interrogando l'azienda sulle competenze attivatedagli operatori ma anche sui sistemi di coordinamento e controllo interno.

Abbiamo escluso dagli esempi esposti i casi raccolti riguardanti le violazioni, ossia i"fattori volontari" che hanno fatto si che le persone intenzionalmente violassero le regoleaziendali o le procedure certificate, per, ad esempio, ottimizzare il proprio lavoro.

Analogamente sono diverse le situazioni raccolte, trasversalmente a diverse realtàorganizzative, che hanno determinato effetti indesiderati, senza che vi siano stati fattori attivi(almeno come li abbiamo qui definiti), con la presenza invece di fattori che comunquedeterminano "inconvenienti" nelle aziende:

- l'uso dei sistemi informativi talvolta rallenta e complica lo svolgimento dei processilavorativi: non sono infrequenti le testimonianze che abbiamo raccolto nelle aziendesul loro "sottoutilizzo" e/o sul ricorso a prassi alternative (come, ad esempio, inseriredati fittizi per andare avanti nelle schermate proposte dal sistema), nel caso in cui isistemi prevedono logiche e vincoli che rendono le persone poco confidenti con essi;

- si producono scarti/difettosità/sprechi di materiali che potrebbero essere evitati:abbiamo potuto verificare che l'inadeguatezza dei controlli e i comportamentiabitudinari contribuiscono in modo significativo a mantenere relativamente elevatal'inefficienza;

- le persone non conoscono precisamente il flusso delle attività in cui sono coinvolti:abbiamo riscontrato spesso nelle organizzazioni che le persone sono focalizzate sulproprio compito e hanno difficoltà ad "alzare la testa" per acquisire visibilità econsapevolezza del processo in cui si collocano i loro contributi;

- gli strumenti che si utilizzano non sono calibrati per le attività da svolgere: abbiamoincontrano contesti lavorativi "tecnologicamente superdotati" a fronte di fabbisognireali molto più contenuti, con conseguenti negatività nell'ammortamento degliinvestimenti fatti e minor supporto per l'operatività.

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L'intervento presso una piccola impresa della produzione del settore carta/cartone,ancora in corso, permette di vedere, più facilmente, il funzionamento complessivo e quinditutti i fattori attivi e latenti "in gioco". Questa consulenza ha messo in evidenza che gli effettiindesiderati presenti sono differenti e legati sì a fattori attivi, relativi ai comportamenti dellepersone (ad esempio, imprecisione dell'assegnazione delle etichette dei colli da consegnareal corriere), ma soprattutto a fattori organizzativi che determinano la presenza costante di un"rischio" errore: l'organizzazione per processi e le responsabilità attribuite risultano nonadeguate per poter evitare problemi quali, ad esempio, ritardi, consegne non precise e noncontrollo del saldo delle fatture. Un caso particolare di mancato controllo interno delmateriale consegnato dal fornitore e poi lavorato, ha portato al rischio di perdere un clientestorico, avendogli causato un lungo intoppo alla linea di produzione. Un problema, quindi,che si è verificato in fase iniziale della filiera di approvvigionamento, produzione e consegna,prodotto dalla mancata "attivazione" del sistema di controllo interno, che non ha colto i"segnali deboli" legati alla qualità del materiale, determinando così un danno a un cliente,prolungato dal fatto che non è stato facile capire l'origine del problema e quindi rimediarvi abreve.

L'approccio PSC si basa su un'ottica in cui si guarda all'organizzazione in modo ampio eil più possibile sistemico e opera secondo la logica dell'apprendimento organizzativo: lavoraper cambiare le condizioni all'interno delle quali le persone agiscono. Le persone sono eredidelle imperfezioni del sistema complessivo, pertanto l'approccio PSC intende accrescere lecondizioni di affidabilità delle aziende clienti. Gli interventi tendono a eliminare i possibilifattori latenti e le criticità all'origine dei fattori indesiderati (dalla perdita di businessall'incidente), al fine di evitare che il futuro altri errori possano accadere. Come abbiamo vistoi danni in azienda sono la conseguenza di "eventi" anche singoli oppure di una catena di"mancanze", per la carenza di sistemi di difesa di tipo tecnologico o di controlli umani, maanche per flussi informativi di processo non adeguati, la scarsa "abitudine" a lavorare inmodo interfunzionale (indotta magari da una strutturazione organizzativa che porta allaparcellizzazione del lavoro), fino ad una competenza inadeguata degli attori organizzativi, diqualunque livello, rispetto alla gestione dell'inatteso e/o della complessità intra ed inter-organizzativa. La "piattaforma culturale" su cui si basano gli interventi è, come già indicato,quella della promozione dell'apprendimento organizzativo, per rendere l'azienda in grado diintervenire in futuro sull'adattamento alle nuove condizioni delle soluzioni organizzative inprecedenza individuate. Avendo attenzione al piano simbolico e alla dimensione culturale,negli interventi attuati si è scelto di denominare gli errori come fattori indesiderati perl'organizzazione, proprio al fine di ovviare a quella "naturale" ed etimologica (si veda ilparagrafo 2) etichettatura in senso negativo che la parola errore ci pone di fronte, nel suoversante di uscita dalla via retta con annesso senso di colpa. Non abbiamo la pretesa dipoter cambiare le condizioni culturali rispetto al tema della colpa e al senso di colpa in cuicome occidentali ci troviamo immersi - si veda Girard (1982) per questo - ma vogliamo dareun segno, soprattutto agli influenzatori aziendali, che si propone e progetta un interventoconsulenziale con un approccio che prende le distanze da meccanismi quasi automatici di"caccia al colpevole" e da soluzioni rapide, ma semplicistiche e poco efficaci, che nongenerano alcun apprendimento dell'organizzazione. Le domande-stimolo a volte sfidanti cheponiamo ai responsabili organizzativi sono legate alla loro capacità di organizzare la propriastruttura non solo in funzione dell'efficienza, ma anche in funzione dell'affidabilità, allacapacità di trasformare un'organizzazione in un'azienda che apprende effettivamente anchedagli effetti indesiderati verificatisi.

Supportare le aziende clienti affinché l'evoluzione organizzativa abbia anche come basel'apprendimento dagli effetti indesiderati è l'obiettivo dell'approccio consulenziale PSC, chevede l'"errore umano" come un punto di partenza per facilitare la crescita del sistema

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organizzativo (anziché come la conclusione di una "indagine") e che individua i punti "deboli"del sistema azienda come possibili fattori di sviluppo.

6. Conclusioni

Nell'attuale scenario produttivo e di mercato, profondamente modificato negli ultimi anni,si è verificato che le aziende più resilienti sono improntate a valori di apertura e fiduciainterna e caratterizzate dalla disponibilità a rimodularsi progressivamente apprendendodall'esperienza.

In questa logica, analizzare quelli che abbiamo definito gli effetti indesiderati, termine cheper noi connota in senso ampio tutti gli scostamenti dagli obiettivi auspicati, ci sembra piùfunzionale che individuare gli errori solo in occasione di conseguenze eclatanti, limitandosi aconsiderarne i fattori attivi, trascurando di riconoscere i fattori latenti che ne costituiscono ilsostrato. L'attribuzione dell'etichetta "errore umano", che viene attribuita quale causa alla finedi molte analisi interne alle organizzazioni (così come in quelle "pubbliche"), dà unaspiegazione che non risolve l'effetto indesiderato, che, dopo qualche tempo, generalmente siripresenta. Se si analizza in senso più ampio l'accaduto (a diversi livelli, organizzativi e/ointer-organizzativi), per cogliere le diverse "sfaccettature" del fatto accaduto, si possonoindividuare dei correttivi grazie ai quali difficilmente esso si ripresenterà. E, come si puòcapire, non basta rispondere preventivamente con sistemi informativi più pervasivi o consistemi di qualità sempre più ampi: si potrebbe parlare di "illusione normalizzatrice", ossia disperanza che le procedure in qualità e informatizzate riducano del tutto i rischi di errori o altriesiti negativi; la realtà organizzativa è dinamica e non può essere normalizzata, piuttostoorientata verso un apprendimento continuo dagli effetti indesiderati che si sono presentati.Inoltre l'etichetta "errore umano" porta con sé implicazioni colpevolizzanti, producendomeccanismi di ricerca del capro espiatorio, e reazioni difensive e di chiusura che bloccanol'apprendimento individuale e organizzativo. Di fatto viene alimentata una cultura aziendalebasata su preconcetti negativi e interazioni intrappolate nel circolo vizioso della colpa,improntata al timore e all'accusa invece che alla fiducia e alla risoluzione dei problemi.

Come ci racconta Bergami (2015), esistono realtà aziendali che riescono, partendo dallavoro sugli errori, a trasformarli in innovazione, grazie alla logica dell'apprendimentoorganizzativo. Vi sono organizzazioni impegnate nel loro percorso di miglioramento continuoe aziende che invece sono imprigionate nella caccia alla colpa. Pensiamo che la fiducia nelleorganizzazioni sia un patrimonio imprescindibile e l'apprendimento derivante degli effettiindesiderati un modo per tenerla viva o ri-attivarla, dando un senso aggiuntivo al lavoro chele persone svolgono, un senso migliorativo e non solo finalistico, grazie a leader cheinterpretano la cultura d'impresa e il clima interno quali chiavi per il successo aziendale.

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LA CULTURA DELLA SICUREZZA NELLA FORMAZIONEINFERMIERISTICA: PREVENZIONE E APPRENDIMENTO

DALL'ERRORE NELLA PRATICA ASSISTENZIALE

di Rosaeugenia Pesci

1. Premessa

La cultura della sicurezza, in specifico della sicurezza nelle cure, coinvolge direttamentel'assistenza infermieristica e determina la necessità di creare una coscienza professionale suquesto tema nei futuri professionisti infermieri.

Il tema della sicurezza ci porta anche a riflettere sull'errore, sulla sua prevenzione egestione e, non per ultimo, sull'effettivo atteggiamento di apprendere dagli eventi avversi,come sono definiti nella terminologia del governo del rischio clinico.

Per questo l'errore in sanità verrà trattato nelle pagine che seguono come un temaimportante nella formazione dei futuri professionisti del sistema sanitario ed in particolare ciriferiremo alla professione infermieristica, che tra le professioni sanitarie con laurea triennaleè la più consistente numericamente e che presenta elevati profili di rischio di errore per lefunzioni che svolge. E il verificarsi di errori nelle cure può coinvolgere anche lo studente checompie le sue prime esperienze assistenziali.

Il tirocinio in questo percorso di studi è presente dal primo al terzo anno di corso,richiede un numero molto consistente di ore, con obiettivi definiti nella normativadell'Ordinamento didattico. Per gli studenti infermieri si tratta sempre di un tirocinio guidatocon l'affiancamento e il sostegno dei tutor di tirocinio, che si impegnano nei loro riguardi asostenerli nell'apprendimento clinico e di conseguenza si assumono responsabilità non solodidattiche e formative, ma anche sulle azioni che essi effettuano.

In merito a questo, i Responsabili infermieristici della formazione universitaria, ruolo chericopre chi scrive, si preoccupano di creare una cultura della sicurezza delle cure agliassistiti, rivolta alla tutela dello stesso professionista.

Durante il Corso di Laurea ci si impegna affinché siano acquisite le conoscenze teoricheche a tutto tondo consentano un approccio al tirocinio consapevole e competente, non solocon la didattica frontale, ma anche attraverso momenti preparatori in piccoli gruppi.

Nonostante tutto ciò, anche se le competenze da acquisire si sviluppano gradatamente,resta il rischio di compiere errori di vario genere per inesperienza; un altro aspetto di cui ci sipreoccupa per favorire un apprendimento clinico efficace e sicuro sono le condizioniorganizzative, le disponibilità dei tutor di tirocinio e la qualità dei servizi in cui si collocano glistudenti durante il triennio di studi.

Quanto l'apprendimento dall'errore sia una vera pratica e un approccio condiviso daidiversi attori della formazione dei futuri professionisti andrebbe indagato, nel frattempo la

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diffusione di questa concezione ci aiuta a tenere in considerazione in maniera più razionalel'ineludibile quanto temuto errore umano.

2. Funzione tutoriale e tirocinio nelle organizzazioni sanitarie

L'organizzazione sanitaria nei confronti dei tirocinanti mette in campo funzioni tutoriali,che garantiscono l'apprendimento delle specifiche competenze sulla cura e nelle relazioni dicura. Questa specificità professionale influenza l'orientamento della tutorship anche nellarealtà in cui si collocano le riflessioni qui riportate1, dove la funzione tutoriale è svolta da moltiprofessionisti e da molti anni, con un elevata partecipazione, favorita anche da unaformazione specifica che si svolge a carico della stessa azienda.2

L'organizzazione in cui si realizzano queste esperienze sceglie, anche se non sempreconsapevolmente, di mettere in campo le concezioni di tutorship che appartengono alla suacultura organizzativa e all'approccio di cura e di servizio che rivolge ai cittadini. Questacultura professionale viene offerta alle Istituzioni formative quando, attraverso i loro studenti,accedono ai servizi dell' Azienda, attraverso le Convenzioni.

Ciò avviene sia che siano Università o Scuole, sia che si occupino di formazione dibase o post base. Tali Istituzioni formative partner delle Aziende sanitarie sono titolaridell'intero percorso di studi, ma i servizi sanitari avranno la possibilità di influenzare laformazione dei professionisti della salute attraverso l' esperienza sempre "forte" del tirocinio:un'occasione a fronte dell'impegno ed della disponibilità di chi accoglie.

Per questo motivo, pur in presenza di un percorso che ha obiettivi di apprendimento e ditirocinio definiti a livello ministeriale e nel Regolamento della singola Università, gli studentiche fanno esperienze nelle Aziende e nei loro Servizi apprendono non solo i contenutiprofessionali, ma impostazioni e orientamenti specifici. La cultura professionale che sitrasmette alle nuove generazioni risentirà in gran parte di queste esperienze anticipatorie dellavoro: siamo quindi in una condizione di corresponsabilità nella formazione, nel favorire ilraggiungimento delle competenze/esito dei futuri professionisti.

Nelle Lauree delle professioni sanitarie, un ruolo importante lo svolgono le Sediformative universitarie, cui la normativa attribuisce una funzione di collegamento forte traUniversità e Sistema sanitario, con responsabilità specifiche attribuite ai professionisti inseritiin questa struttura in riferimento alla progettazione, pianificazione, gestione emonitoraggio/verifica del tirocinio3.

1 Il contesto di tirocinio del Corso di Laurea in Infermieristica dell’Università di Bologna-SezioneBologna 2- è la Asl di Bologna.2 I Corsi di formazione ai dipendenti per lo sviluppo di competenze specifiche per le funzioni tutoriali sitengono dall’ anno 1997/98 a tutt'oggi e sono organizzati e gestiti dal Servizio Formazione della Asl.3 In queste strutture sono presenti figure professionali, dipendenti dalle aziende sanitarie inconvenzione selezionate con criteri specifici, dedicate a tempo pieno alle attività formativeprofessionalizzanti dei Corsi e al coordinamento e integrazione con la componente didatticauniversitaria, nonché con le strutture aziendali che accolgono tirocinanti.Le Sedi o Sezioni formative hanno la responsabilità e la gestione di un elevato numero di creditiformativi: dalla didattica frontale per gli insegnamenti della disciplina infermieristica (SSD MED45),delle attività integrative, dei laboratori e alcuni Seminari, alla progettazione realizzazione e verifica deitirocini.Gli organi ed i ruoli previsti nei Corsi di laurea delle professioni sanitarie sono delineate dallanormativa nazionale; il primo riferimento normativo è la Tabella XVII ter- (MIUR luglio 1996) di cuisono mantenuti i contenuti anche nei decreti successivi. Le Regioni recepiscono la norma nazionale e,attraverso appositi Protocolli di intesa tra le Università presenti in Regione e SSR, di seguito sipattuiscono le singole Convenzioni trai istituzioni universitarie e aziende sanitarie accreditate che

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Questa struttura organizzativa e didattica non si ritrova nel panorama universitario dialtre Scuole ( le precedenti Facoltà), e rappresenta una delle caratteristiche peculiari deiCorsi di Laurea delle professioni sanitarie del nostro Paese. Nelle Sezioni formative siconiugano la cultura di un corso universitario con la cultura specifica dell'Azienda in cui laSezione si colloca , attivando uno scambio continuo.

Nelle sedi di tirocinio troviamo quindi i tutor clinici, denominati nella Regione EmiliaRomagna "tutor di tirocinio", che rappresentano l'interfaccia più diretta dei servizi sanitari conla Sezione, dal momento della negoziazione degli obiettivi raggiungibili per gli studenti, oquali interlocutori per dare elementi e permettere di compiere scelte allocative nei tirocini piùformative o innovative onde integrare le esperienze con i saperi disciplinari. I tutor delle sedidi tirocinio nelle Aziende definiscono in proprio gli aspetti organizzativi per sostenere i tirocinie la funzione tutoriale; nel caso dell'Asl di Bologna la funzione tutoriale si basa su un modelloorganizzativo a rete che connette direttamente i tutor di tirocinio con la Sezione formativa delCorso di Laurea in Infermieristica.

Nel caso del Corso di Laurea in Infermieristica dell'Università di Bologna, per la sezioneBologna 2, il modello a rete ed il sistema delle responsabilità mette in relazione i tutordidattici presenti nella Sezione e le sedi di tirocinio con i diversi livelli di responsabilità suglistudenti.

Quello che si viene a delineare per il tirocinio è un'offerta formativa articolata, condivisa enegoziata per ogni studente che avrà un proprio progetto di tirocinio: da questa disponibilitàdel servizio si individua quindi un contratto di tirocinio personalizzato. Gli studenti accedonoalle attività in periodi pianificati dalla Sezione formativa, le sedi selezionate per le esperienzecliniche hanno caratteristiche tali da concorrere all'apprendimento di competenze di base checostituiscono le "core competence" da conseguire con la laurea, i tirocini sono collocatinell'intero anno accademico e vengono presi accordi in base alle esigenze dei servizi stessi:questo favorisce un tirocinio efficace e di qualità, nonché sostenibile in termini di tempo erisorse investite dalla sede di tirocinio.

Esiste un'altra funzione tutoriale, più didattica, che si sviluppa in aula, con un rapportopersonalizzato e con una componente organizzativa e gestionale molto consistente, quelladei tutor didattici che svolgono attività didattica universitaria4 e sono dedicati agli studentinella Sezione. Diversamente i tutor di tirocinio hanno come principale mandato l'assistenza el'attività diretta all'utenza. In entrambi i casi i tutor appartengono allo stesso profiloprofessionale dei tirocinanti, come previsto dalla norma, ed affiancano con finalità diverse glistudenti.

Tornando alle esperienze assistenziali in cui si mettono in atto atteggiamenti ecomportamenti sicuri, la presenza di tutor costituisce il valore ed il vantaggio di unaformazione guidata, dando garanzie ai cittadini che il neofita possa agire con supervisione edaffiancamento, senza creare danni. Nonostante queste modalità durante l'esperienza clinicapotrebbero presentarsi diversi tipi di rischio e questi, potenzialmente, possono essereconsiderati fonte di apprendimenti nelle diverse forme in cui si potrebbero presentare. Glistudenti potrebbero essere coinvolti in situazioni organizzative inattese che improvvisamentepresentino profili di rischio per le cure effettuate e per gli assistiti. Il tirocinio è infattiun’esperienza situata, molto efficace e molto partecipata, anche emotivamente, daglistudenti.

Quella dell'errore e della prevenzione dello stesso è una tematica "calda" moltoimportante per l' attività sanitaria a tutti i livelli e per tutte le professioni, necessita di

consentono l’effettiva realizzazione completa dei Corsi con convenzioni. Nelle convenzioni sidettagliano i requisiti minimi delle Sezioni formative e del tirocinio.4 I tutor didattici sono all’interno della Sezione formativa, hanno anche funzione di conduzione digruppi, attività integrative e in alcuni casi sono docenti a tutti gli effetti in convenzione con l’Università.

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consapevolezza, spirito critico, approfondimenti e riflessioni sia teoriche che connesse alleesperienze.

Nello specifico si riporteranno le riflessioni sulle esperienze della Sezione Formativaattiva da quasi venti anni nella formazione universitaria di base.

3. Apprendimenti e tutorship

Il tirocinio, che costituisce la più consistente componente professionalizzante del Corso,ha precisi obiettivi di apprendimento definiti ed articolati in base alla complessità e specificità:tali obiettivi si raggiungeranno in un periodo o in più periodi di tirocinio collocati lungo tutto ilpercorso. Questo impianto generale del triennio accomuna il percorso di tutte le laureetriennali della Scuola di Medicina e Chirurgia, in cui i tirocini sono obbligatori, prevedendo lafrequenza di tutte le ore previste per i crediti che sono di 30 ore per CFU5.

Gli obiettivi dell'intero corso hanno una logica curricolare e integrano in un unicumcontenuti teorici e di tirocinio (il core curriculum del corso) e consentiranno il raggiungimentodelle principali competenze attese per il futuro professionista al momento della laurea (corecompetence).6

L'apprendimento clinico è strettamente collegato anche alle altre attività didattiche, inparticolare alle cosiddette attività didattiche integrative, componente importante dellaformazione universitaria infermieristica; in gran parte vengono svolte prima dell'accesso adeterminate esperienze cliniche, in altri casi costituiscono momenti di rielaborazione deltirocinio o di collegamento tra teoria e pratica.

Cosa si impara quindi nei tirocini in sanità? Il tirocinio, come ribadiscono gli studenti7, èfondamentale per due motivi: il primo è legato all'applicazione nel reale contesto sanitariodelle attività previste dal profilo professionale, tra cui in particolare la relazione con l' assistitoed il cittadino che non si può sperimentare diversamente. A ciò si aggiunge che l'esperienzadi tirocinio permette di iniziare ad avere relazioni anche di tipo professionale dentro uncontesto di lavoro. Quest'ultima importante condizione rappresenta una situazione di"socializzazione anticipatoria nel mondo del lavoro"8.

Nell'esperienza clinica si creano le condizioni per riconoscere nei fatti, o conoscere daifatti che si presentano, ciò che si è studiato, si comprendono i rapporti assistenziali oeducativi con gli assistiti di cui si hanno riferimenti concettuali e scientifici. Si impara a tenereconto del contesto della persona e della sua famiglia o delle persone di riferimento e, se ilcontesto è multiprofessionale, si comprende come l'apporto di una professione siastrettamente collegato al lavoro degli altri.

Svolgere il tirocinio significa avere l'opportunità di vedere e trovare concretamente ciòche è stato spiegato in aula, di applicare che significa sperimentare, atto costitutivo della

5 I Decreti attuativi del DM 270/04 (Decreto interministeriale del 19/2/2009) definiscono per questipercorsi l’ obbligo a 60 Crediti Formativi Universitari di tirocinio da 30 ore ognuno. In precedenza icrediti di tirocinio erano 45.6 Le competenze esito definite per il laureato in Infermieristica, prevedono competenze avanzate especialistiche che si possono acquisire con i Master di primo e secondo livello, con la LaureaMagistrale e successivamente con il Dottorato di ricerca7 Si veda “Vivere il tirocinio”, Ausl di Bologna, Convegno 14 maggio 2010: in questa iniziativa sonostati presentati i dati di una ricerca qualitativa sulla percezione del tirocinio da parte degli studenti didifferenti profili professionali che hanno svolto le esperienze del’anno accademico 2008/9-2010. Laricerca è stata svolta da diversi soggetti tra cui l’autrice di questo articolo ed in coordinamento di M.Lichtner.8 Si veda Sarchielli, Castellucci (2000).

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didattica dei professionisti nei settori sanitari e sociali, adattando correttamente le scelte e leazioni alla realtà quotidiana.

Spesso ciò che si presenta praticando è diverso da come era stato prefigurato dallostudente: si incontrano i problemi per i quali le soluzioni non sono sempre già pronte, ma leconoscenze ed il metodo acquisiti in aula permettono di affrontarli. L'esperienza guidata daitutor aiuta a scegliere quali conoscenze, quali indicazioni o linee guida sono più efficaci opertinenti di fronte ad un assistito, a un gruppo o famiglia di cui farsi carico, quali e quantequestioni concomitanti si presentino di volta in volta e quali siano le loro influenze reciproche.Si mettono in campo adattamenti che sono profondamente influenzati dalle soggettività di chisi assiste.

Lo studente ha bisogno di individuare tutti gli elementi di una situazione, o che glivengano messi in risalto mentre l'esperto li coglie e contemporaneamente li seleziona outilizza il processo decisionale; il professionista in quanto esperto nota qualcosa diimpercettibile o di apparentemente secondario. Le esperienze dello studente devonoavvenire in condizioni di sicurezza.

Gli studenti infermieri in tirocinio in questa Ausl nelle loro narrazioni scrivono: «...miaspettavo magari che mi chiamassero quando c' era qualcosa da vedere..e poi ci sono tantepiccole sfumature che non è facile cogliere…».

Le logiche decisionali vengono affrontate durante gli studi secondo modalità razionali eformali, decontestualizzate, diventano lentamente abilità decisionali nella pratica di tirociniodove sono collocate nella realtà, legate ai vincoli dell'ambiente e alle esigenze delle personedi cui ci facciamo carico. Sono decisioni che, partendo da caratteristiche e conoscenzestandard o ideali divengono realistiche: questo induce ad apprendere come si possamodulare la risposta migliore tra quelle possibili.

Si agiscono le proprie capacità per dare il meglio senza perfezionismi, con i quali spessogli studenti devono fare i conti, soprattutto nelle prime esperienze di tirocinio. Si impara aesercitare la discrezionalità, fino a dove è corretto adottarla e domandandosi se siaeticamente giusto spingerla, si vedono valori messi in pratica o talvolta purtroppol'applicazione di disvalori che attivano capacità critiche e riflessioni, rielaborazioni, anche seamare, di queste esperienze.

L'approccio riflessivo ed il modello andragogico di apprendimento sono i riferimenti a cuici rifacciamo nella Sezione, ed è anche l' orientamento che si vuole dare alla funzionetutoriale nei tirocini9. In tirocinio si fanno esperienze di collaborazione e soprattutto diapproccio multidisciplinare ai problemi clinici e di gestione organizzativa, anche se tuttequeste esperienze non sono mai abbastanza; per questo è importante definire lecompetenze esito della formazione di base a cui si aggiungeranno l'esperienza del singolo ealtri momenti formativi, secondo la logica della long life learning.

Per esercitare al meglio la funzione tutoriale a sostegno e stimolo di questiapprendimenti esperienziali è necessaria una formazione specifica per i tutor di tirocinio edun rapporto stretto con le Sedi universitarie.

In questi anni l'ottica con cui si realizzano i tirocini è che il tutor non abbia un ruolostrutturato vero e proprio, ma sia un professionista esperto e motivato che svolga le funzionitutoriali, rendendo meno rigida questa attività e intendendola anche come una funzionediffusa tra molti professionisti. Questa funzione, per essere svolta con sicurezza, deve averedei riferimenti precisi nell'ambito della Sezione e avere chiari i livelli di responsabilità. Perquesto tra coloro che svolgono funzioni tutoriali vi sono dei tutor che hanno una formazione

9 Il Corso per tutor clinici delle professioni sanitarie che si tiene da anni nell’Asl di Bologna ha comeriferimenti l’approccio riflessivo di D. Schon, Il professionista riflessivo: per una nuova prospettiva dellaformazione e dell’apprendimento nelle professioni, Ed. Dedalo- Bari 1983.

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specifica acquisita con un Corso aziendale per tutor di tirocinio e sono il riferimento degli altritutor clinici e della Sezione.

La presenza di studenti di molti percorsi formativi universitari nell'Ausl è consolidata datempo; la presenza maggiormente rappresentata è quella degli studenti di Infermieristica chesvolgono il tirocinio per lunghi periodi. La presenza della Sezione formativa del Corso dilaurea ha permesso di aumentare la consapevolezza e la responsabilità diffusa nei riguardidegli studenti: questo rappresenta uno dei valori aggiunti per una azienda del SSR (Sistemasanitario Regionale), cioè lo sviluppo consapevole dei saperi e dell'esperienza, la necessitàdi ripensare e alzare qualitativamente il proprio lavoro, anche nell' ottica di offrire un buonesempio ai potenziali futuri colleghi.

I tutor di tirocinio sono tra loro facilmente sostituibili quando i tirocinanti sono nelle fasi diapplicazione delle diverse pratiche professionali, di supervisione delle funzioni assistenziali,ma il tutor clinico formato è il riferimento, orienta le possibilità che si presentano agli obiettivied è il responsabile del percorso di tirocinio e dell' apprendimento che si sviluppa nel servizioin cui lavora.

Gli effetti dell'approccio riflessivo ed intenzionale messo in atto dai tutor didattici dellaSezione10 contribuiscono all'acquisizione nello studente delle cosiddette competenze tacite,metacompetenze molto importanti nella formazione dei professionisti.

Le esperienze e i vissuti di tirocinio sono oggetto di attività in piccolo gruppo nella sedeformativa: un setting in cui è possibile ricondurre lo studente a riflettere sulle esperienze, incui vengono espressi timori ed esperienze, che talvolta si collegano anche con l' aspetto"sicurezza".

L'esperienza nelle realtà di cura riporta a una concezione sfaccettata, impregnata direlazione e di emozioni. Benner nel suo libro "L'eccellenza nella pratica clinica"11 riportaquesta interessante definizione di esperienza:

«Una conoscenza ottenuta non con le parole, ma con il tatto, la vista, l'udito, le vittorie,le sconfitte, l'insonnia, la devozione, l'amore, le esperienze e le emozioni umane diquesta terra, le proprie e quelle degli altri uomini». (Adlai Stevenson)12

In riferimento a quanto detto nei contesti sanitari, gli esperti che lo studente incontracorrispondono ai suoi tutor di riferimento.

I formatori e docenti nella formazione di base sono impegnati nel dare una impostazioneal modello professionale, a partire dall' approccio metodologico, con contenuti di base e"generalisti", ma è fondamentale in questo periodo di formazione rendere espliciti moltiaspetti dell' attività che viene svolta, richiamando agli studenti i contenuti e i principi diriferimento.

Nel tirocinio delle figure sanitarie è presente anche una attività di addestramento, checostituisce un aspetto essenziale per dare manualità e sicurezza al tirocinante e garantireagli utenti prestazioni efficaci e sicure. Anche per questo motivo la presenza di studenti dellelauree triennali assorbe tempo, talvolta rallenta il ritmo di lavoro nei servizi, riducendo ledisponibilità ad accoglierli e affiancarli.

Nell'attività tutoriale dei percorsi di formazione più avanzati o post base prevalel'approfondimento, attraverso la capacità, da parte del tutor, di fare sviluppare un avanzatolivello di giudizio, prevedendo per il tirocinante l'assunzione di maggiori responsabilità e livellidi decisione/discrezionalità: lo sviluppo dell'expertise richiede tempo ed applicazione.

Gli studenti delle lauree sanitarie triennali nelle loro narrazioni scrivono:

10 I tutor della Sezione hanno come riferimento teorico e pedagogico l’approccio andragogico eriflessivo e la prospettiva dell’esperienza nella fenomenologia di E. Husserl.11 Benner, 2003.12 A.E. Stevenson, politico statunitense (1900-1965).

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«Anche i colleghi hanno un po' paura perché hanno delle responsabilità anche grosse,nei nostri confronti… loro hanno tanta tecnica, tante cose da insegnarci, nel senso chemolte cose loro non è che se le sono scordate, ma la routine ti porta a saltare deipassaggi….»

«Quello che più mi ha colpito è il rapporto che si riesce ad instaurare con gli assistiti, tiporti a casa delle esperienze forti».«…bisogna proprio trovare un codice tra me e gli assistiti...»

Altre narrazioni di studenti ci riportano l'occasione del tirocinio come l'opportunità perconoscere direttamente aspetti quali la responsabilità "agita" che hanno le figure sanitarie neiconfronti delle persone di cui si occupano. Ci ricordano che in tirocinio si impara a "rischiare",fare e prendere decisioni, compatibilmente con le capacità, si impara e si insegna a "nonsbagliare", si impara anche dall' errore se "guardato", non passato sotto silenzio e lasciatocome fardello solo a colui che lo ha compiuto.

L'errore, tanto temuto in sanità con giusta ragione, è ancora considerato un tabùnonostante la diffusione della cultura della prevenzione del rischio clinico. Questo eventonegativo attiva molte emozioni e sentimenti e, solo se condiviso e oggetto di analisi,riflessioni, spunti di miglioramento, rappresenta una delle più marcate esperienze diapprendimento non solo per coloro che ne sono coinvolti, ma anche per il resto del gruppo dilavoro.

4. Un'occasione e qualche rischio nello svolgere la funzione di tutor intirocinio.

L'esperienza e il modello di tutorship adottato in questi anni, come abbiamo visto neiprecedenti paragrafi, ha permesso di mettere a regime una rete di professionisti che sioccupano di tirocinio, luogo dove si sviluppano gli apprendimenti professionali e nelcontempo si sviluppa la maturità umana dei giovani studenti.

Con le figure tutoriali, a cui sono state date conoscenze di base e strumenti, si mantieneun rapporto stretto e si realizzano interventi di formazione permanente per sviluppareulteriormente le loro competenze educative, necessarie anche per l'inserimento dineoassunti.

In questo modo è stato sensibilizzato e reso consapevole un grande numero diprofessionisti nei profili delle lauree sanitarie, che hanno indubbiamente messo in atto unacultura del monitoraggio dell'apprendimento e della valutazione, anche se restano aspettiancora critici, in particolare su tema delicato della valutazione.

Nonostante queste condizioni organizzative, la formazione specifica, i contatti costanticon le Sezioni dei Corsi di Laurea e l'interesse personale a svolgere le funzioni di tutor, iltirocinio presenta anche dei rischi e a più livelli. Sono rischi relativi al "cosa" si imparadurante il tirocinio, ma soprattutto al "come" si impara: questi potenziali rischi in molti casi sipossono prevedere e prevenire o evitare in modo che non abbiano conseguenze gravi sudiversi soggetti. Proviamo a esplicitare qualcuno di questi rischi in base a cosa ci suggeriscel'esperienza.

Esiste un primo tipo di rischio, che sentono particolarmente i formatori, i docenti e iresponsabili dei percorsi che preparano queste professioni: si tratta del rischio di nonraggiungere gli obiettivi e quindi di formare dei professionisti non abbastanza preparati, purin presenza di valutazioni sufficienti, tali da permettere agli studenti di laurearsi. In parte

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questa condizione attiene ai docenti degli insegnamenti, ma il filtro degli esami dovrebbecostituire la garanzia dei livelli minimi sulle conoscenze.

Dato il peso che ha l'acquisizione delle competenze professionali, il rischio del mancatoraggiungimento degli obiettivi si può realizzare in tirocinio: in questo caso sono riferibili o aglistudenti o ai tutor di tirocinio, o a entrambi. Potrebbe essere il caso di uno scarso impegno,in riferimento alle responsabilità della preparazione dello studente stesso, oppure il caso diesperienze "mancate" nei servizi in cui non sono stati trasmessi messaggi, contenuti e saperipratici, o di esperienze gestite con scarso investimento anche in termini relazionali da partedei tutor; talvolta non si sono realizzate condizioni organizzative adeguate ocondizioni/occasioni didattiche significative. Lo studente da un certo punto di vista puòrappresentare un peso.

In sintesi, "alla prova dei fatti", il tirocinio non ha dato la possibilità di imparare glielementi basilari richiesti per una laurea di primo livello - e va ricordato che nelle laureesanitarie triennali l'acquisizione del titolo è già abilitante la professione. Di questo rischio e diquesta corresponsabilità non sono sempre consapevoli i professionisti delle sedi di tirocinio.

Possono aver sottovalutato qualcosa in termini organizzativi, oppure non sono stati incondizioni di approfondire o verificare gli effettivi apprendimenti rispetto agli obiettivi ditirocinio o alle caratteristiche e possibilità dei singoli studenti. In questo caso c'è statocomunque uno sforzo degli operatori durante il tirocinio: spesso si tratta di uno sforzo diffusoed essendoci la percezione dell'impegno e buona volontà può passare in secondo piano laconsapevolezza delle effettive condizioni che non hanno permesso migliori risultati. Nellamaggior parte dei casi il correttivo a questa situazione lo metterà lo studente stesso, insuccessive esperienze di tirocinio e in generale mettendo in campo strategie compensative ela sua motivazione.

L'esperienza di tirocinio poco fruttuosa, in ultima analisi, può servire per farecomprendere allo stesso discente come non si deve organizzare e gestire un percorso ditirocinio.

Analizzando i potenziali rischi includiamo quello di non riuscire a trasmettere un modelloe una identità professionale orientati ai nuovi paradigmi o non ancorati alle radici etico-deontologiche e disciplinari. Questi aspetti sono molto importanti perché sostengono leprofessioni nella realtà sanitaria e nella percezione dei cittadini e della società, nellacomplessità della multidisciplinarietà.

In particolare c'è il rischio che l'esperienza di tirocinio non abbia trasmessoadeguatamente e confermato i valori professionali, l'acquisizione di comportamentideontologici e approccio etici che sono rappresentati nelle pratiche quotidiane o nei momentiparticolarmente emblematici che l' esperienza diretta mette a fuoco. In questo caso si collocail rischio che non siano stati sottolineati o attuati comportamenti, osservazioni e scelte chemettano al centro il principio di responsabilità in tutte le sue espressioni. C'è, in altre parole, ilrischio che abbia avuto il sopravvento un sapere procedurale fine a se stesso, come unicagaranzia del "bene" per le persone e talvolta anche solo della "tutela" dei professionisti edell'organizzazione che, così, non si assumono responsabilità, delegate alla correttaapplicazione delle procedure e linee guida. Un ripiegamento che qualcuno ritiene possaridurre il rischio di reclami e di contenziosi. In questo potenziale rischio ritroviamo anchequello che i colleghi o il tutor non abbiano sempre chiara la responsabilità che è stataassunta nella preparazione del futuro collega.

Più evidente e temuto è un altro rischio che assume il tutor, insieme allo studenteaffidatogli: è il rischio dell'errore o di fare correre pericoli e causare danni agli assistiti e allostudente stesso, e ciò chiamerà in causa anche il tutor clinico. Compare, in questo caso, ilproblema della sicurezza e della gestione del rischio nella pratica professionale, in presenza

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di studenti che, nel percorso formativo di base, sono per definizione ancora inesperti o"novizi" come dice Benner (2003).

5. La responsabilità nel fare: legame tra tirocinanti e tutor

Il "fare", "mettere in atto", contiene intrinsecamente la possibilità di sbagliare, come recitaun detto popolare, frutto della saggezza della vita.

L'Università fa riferimento a tutor appositamente formati e dello stesso profiloprofessionale che si occupano degli stage, cita il testo sul tirocinio guidato, sottintendendoche l'apprendimento avviene con professionisti messi a disposizione dalle Aziende cheaccolgono i tirocinanti a seguito di Convenzione tra le parti. I tutor di tirocinio nelle laureesanitarie, se richiesto, esprimono una valutazione o un giudizio sul tirocinio: in ogni casodefiniscono il livello raggiunto dallo studente e gli apprendimenti acquisiti nel periodo dipermanenza nella sede operativa, assumendosi così la responsabilità di affermare che sonostati raggiunti i livelli minimi di apprendimento clinico.

Sempre in termini di responsabilità nel Corso di Laurea delle professioni sanitarieesistono delle figure, previste da norme nazionali, quali i Responsabili dei tirocini delleIstituzioni formative, che corrispondono ai Responsabili delle Sezioni formative, i qualisvolgono una funzione di cerniera tra le Istituzioni coinvolte.13

In molti Regolamenti dei Corsi gli esami di tirocinio annuali costituiscono uno"sbarramento" alla prosecuzione del percorso, sono propedeutici ad altri tirocini successivi erichiedono il superamento di insegnamenti propedeutici alle esperienze cliniche o agli stessiesami di tirocinio.

È evidente che le istituzioni titolari del percorso di laurea triennale sono impegnate nelgarantire le premesse di conoscenza degli studenti che accedono all' esperienza sul campoe individuano filtri che favoriscono una gradualità e una selezione. I Regolamenti dei diversiCorsi di laurea descrivono le modalità di accesso, le situazioni e i casi di sospensione orecupero dei tirocini e degli apprendimenti: in molti frangenti sono stati redatti veri e propriRegolamenti di tirocinio. Ciò evidenzia come l'università, su questi aspetti professionalizzantie molto delicati, si sia espressa in documenti e con indicazioni, riconoscendone l'importanzae i potenziali rischi.

Nei percorsi formativi post base tutto questo sistema di filtro scompare e le indicazionisui tirocini sono più orientati all' acquisizione di competenze di secondo livello. I partnercontraenti la Convenzione sono garanti verso la società che il professionista in uscita dalpercorso abbia dimostrato una condizione accettabile di performance professionale applicataai diversi contesti.

Esiste quindi sul tirocinio un sistema articolato di livelli di responsabilità che inizia sulpiano istituzionale, e successivamente si articola ed afferisce alla stessa linea professionaledegli studenti dei singoli corsi. Le modalità di espletamento del tirocinio, presentate econdivise con i tutor direttamente interessati, consente anche di garantire sicurezza e buonecondizioni didattiche per gli studenti.

Le fasi più delicate del processo di tirocinio sono definite ed organizzate, si chiarisconole responsabilità dei singoli, le modalità operative e strumenti, il monitoraggio

13 Queste figure tra le funzioni attribuite hanno quella di farsi garanti dell’ apprendimento teorico-pratico professionalizzati tra cui le esperienze di tirocinio e della qualità delle stesse. Sono titolari deiCFU di tirocinio presenti nel piano di studio che rappresentano un terzo dei crediti del Corso, inoltrepresiedono la Commissione d’Esame annuale di tirocinio.

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dell'apprendimento e dell'autoapprendimento e strumenti di valutazione formativa e, a finetirocinio, la valutazione certificativa.

Tutti i diversi percorsi di tirocinio nell'Asl di Bologna rispondono a criteri di qualità e sonocertificati secondo la Certificazione ISO 9001/2008 14. Gli aspetti organizzativi del tirocinio, irequisiti minimi del contesto in cui si realizzerà, la garanzia della presenza di tutorappositamente formati, fanno sì che non si verifichino "salti pericolosi e cadute" nelleesperienze sul campo, evitando di imparare per tentativi ed errori, modalità inaccettabile neicontesti sanitari. Si realizzano in tal modo esperienze che sostanziano il difficile percorsoverso l'adultità non solo professionale. Lo studente in questo percorso è al centro con unaresponsabilità diretta sul suo apprendimento, sui suoi comportamenti.

Ci pare sempre più evidente che c'è un "come si apprende in sanità" che ha una fortevalenza organizzativa, una rete di norme e regole, ma non di meno si rifà a valori e alladeontologia che i tutor di tirocinio devono rappresentare. Ciò non esime dal rischio delcommettere errori: sono tanti i pericoli che si possono incontrare nell'apprendimento pratico ediretto occupandosi delle persone o dei problemi sociosanitari di un gruppo o di unacomunità. Il tutor viene così ad assumere ulteriori rischi rispetto a quello legato al propriooperato: sono quelli in relazione alla possibilità che lo studente compia un errore o incontriuna condizione di rischio o di vero e proprio pericolo, così che gli viene richiesto diimpegnarsi a prevenire rischi anche rivolti agli studenti o ai danni verso pazienti assistiti daitirocinanti, o di gestire una situazione avversa riducendone il danno. Così facendo ilprofessionista, oltre al rischio dell'errore personale che porta in sé, si fa carico anche di unpotenziale rischio di errore dello studente. L'errore potrebbe essere prevalentemente disistema, potrebbe essere prevalentemente del singolo, e difficilmente è totalmente a caricodi una di queste componenti. Gli autori che si sono occupati di questo tema in sanità,distinguono diverse afferenze causali, ma sostengono che anche nel secondo casodifficilmente non c'è una responsabilità anche del sistema/organizzazione, ad esempio nonavendo messo in campo tutti i possibili strumenti di controllo. Lo studente deve essereconsapevole dei rischi di eventi avversi che si possono verificare, in modo da agirecorrettamente o chiedere o dubitare o verificare con il tutor o attivare una supervisione.

Un riferimento importante è il Codice Deontologico degli Infermieri che cita in due articoli(art.29 e art.13)15 espressamente la prevenzione e l' apprendimento dall' errore, l' obbligoanche etico alla supervisione e di richiederla quando ci siano dubbi da parte delprofessionista o la necessità di consulenza di un collega esperto. L'apprendimento ègraduale e porta all'autonomia, attivando responsabilità personali dello studente, così comeper il tutor, per il quale si ampliano le responsabilità professionali. Un atteggiamento cauto edi valutazione dei singoli casi, del contesto e delle capacità e caratteristiche dello studente èalla base della prevenzione del rischio. L'atteggiamento di fiducia verso lo studente èaltrettanto il motore che lo muove, lo incoraggia a esperire, gli permette di esprimere piùliberamente dubbi o incertezze, di dichiarare più serenamente quando non si senta ancora ingrado di svolgere una attività, se pure collocata in quella fase del percorso o in quelle precisecondizioni. L'equilibrio tra il rischio di errore e l' atteggiamento positivo e propositivo del darefiducia sono due facce della stessa medaglia, hanno a che fare, soprattutto nel caso dellostudente, con un proprio rigore, con un livello di maturità morale che consente di assumersi erispondere delle proprie azioni od omissioni. L'onestà intellettuale, la consapevolezza cheprima di tutto viene il bene del paziente, l'assunzione delle proprie responsabilità e delleconseguenze del proprio agire sono le premesse di un atteggiamento corretto al momento in

14 La certificazione ISO 9001-2008 rilasciata dal Cermet è riferita a tutti i percorsi di tirocinio che siattivino a seguito delle diverse Convenzioni e differenti percorsi formativi nell’Asl di Bologna.15 Codice deontologico dell’Infermiere pubblicato dalla Federazione Nazionale Collegi IPASVI (2009)art.29 e art 13.

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cui si verifichi l' errore e della possibilità di poter ridurre il danno che deriva dall'errore.L'atteggiamento morale ed etico e la responsabilità guidano anche il tutor di fronte ad unerrore dello studente che in molti casi è avvenuto per disattenzione o errata valutazione deltutor.

L'atteggiamento "no blame"16, definito nel linguaggio del "risk management" comel'atteggiamento a cui i professionisti si devono conformare nel caso di errore, consente diconsiderarlo, analizzarlo, mettere in atto una serie di interventi specifici di miglioramento e diprevenzione.

Al contrario, l'evento errore, quando ormai occorso, sarebbe un'occasione perduta edeterminerebbe solo un annichilimento per lo studente e per il tutor che lo affianca epotrebbe generare, come spesso accade, una situazione di ricerca del colpevole.

Dalle narrazioni:«Ecco che una voce arriva dal corridoio…un errore, un errore di consegna! Potevoessere stata io a controllare con troppa superficialità…disagio, senso di inadeguatezza,calo di pressione…fino a capire che in effetti non era possibile che fossimo state noi».

Apprendere ed insegnare sono sempre una sfida e sperimentare è rischiare: dosare irischi permette di percepire un sentimento di sicurezza che favorisce l' apprendimento.

6. Gli studenti e l'errore nel difficile percorso di apprendimento sulla curae il prendersi cura.

La cultura della sicurezza, basate sulla conoscenza e competenza, l'atteggiamento eticoe lo spirito critico, sono acquisizioni che lo studente apprende se intenzionalmente i docenti, itutor ed i responsabili dei Corsi danno priorità a questi aspetti, trasmettendone l'importanza.

La convinzione che la sicurezza dell'assistito sia una garanzia che renda reale eapplicato il principio per cui la persona o cittadino sono al centro dell' assistenza e delsistema sanità e necessita di progettare una serie di momenti ed occasioni predefinitedurante in corso di studi dai formatori che interagiscono con gli studenti ai diversi livelli

La sensibilizzazione a questi temi, oggi molto diffusa, ha permesso di creare più fronti diattenzione sul tema dell'errore e del rischi di errore anche nel Corso di Infermieristica per lamolteplicità di rischi presenti in tale attività. I contenuti relativi a queste tematiche sonopresenti in tutti i tre anni di corso, sia negli insegnamenti d'aula, sia nei seminari, nelle attivitàdi laboratorio e di simulazione. In particolare ogni studente deve frequentare uno specificocorso di 16 ore e superare la prova finale, ottemperando il dettato normativo (Decreto81/2008) in materia di sicurezza per i professionisti della sanità che precede l' accesso alprimo tirocinio del Corso. Il tema del diritto alla sicurezza delle cure nei confronti dei cittadiniè presente ed esplicitato negli obiettivi di tirocinio, nelle procedure e nelle modalità diattivazione di percorsi di denuncia qualora si verifichino danni all'assistito o se si presentanopotenziali rischi per la salute dello stesso studente.

Durante il Corso di studi vengono presentati gli strumenti tipici della gestione degli eventiavversi, siano essi errori (miss) o quasi errori (near miss), le modalità e gli strumenti dimiglioramento, in particolare gli Audit ai quali talvolta hanno direttamente partecipato anchegli studenti.

16 Con questo termine si intende l’atteggiamento che l’errore non abbia come effetto unacolpevolizzazione fine a se stessa.

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Con questo bagaglio di conoscenze e con questa consapevolezza, i tirocinanti si trovanonei servizi con i professionisti, partecipando all'assunzione di responsabilità verso gli assistitie i loro famigliari. In loro è molto presente il timore di sbagliare e di danneggiare la personache incontrano durante il tirocinio.

Dalla mia esperienza in questi anni errori afferibili agli studenti durante il tirocinio edichiarati sembrerebbero abbastanza rari, in parte per l'attenzione che gli studenti mettonodurante l'esperienza clinica e per la supervisione ed affiancamento dei vari tutor eprofessionisti presenti. Parlando di errori che sono stati individuati e che coinvolgevano iltirocinante, talvolta si è potuto riscontrare quanto il loro ruolo fosse molto secondario nei fatti:resta la consapevolezza che la cultura del "biasimo" non ci permette di avere il polso verodella situazione e sicuramente di avere le stesse informazioni nel caso dei quasi errori.Questi ultimi, non essendosi di fatto realizzati, sono poco considerati.

Gli eventi avversi o gli incidenti, durante il periodo della formazione sul campo, possonoessere stati segnalati subito nella realtà in cui sono accaduti dagli studenti stessi, o dai tutoro da chi fosse stato presente per provvedere immediatamente a gestire e ridurne gli effetti.La cultura della colpevolizzazione, ancora presente nella maggior parte degli ambientisanitari, in contrapposizione all'atteggiamento "no blame" che si sta cercando di fareprevalere nei servizi e sul quale si sviluppa la formazione, ci fa pensare che i quasi errorisiano stati raramente evidenziati, forse perché l'errore di fatto non c'è stato e quindi nonconviene sollevare problemi o discussioni. Questo non aiuta lo sviluppo dellaconsapevolezza e della cultura dell' apprendimento dall'errore e della sua prevenzione,mentre sarebbe un terreno molto fertile in tal senso: infatti i casi di " quasi errore"consentono di guardare e analizzare l' accaduto, senza la preoccupazione e la tensione chescatena un evento avverso a seguito di un errore umano/organizzativo. Perché i near missche coinvolgono lo studente non sono segnalati o non sono sottoposti ad analisi sistematichee sistemiche per un miglioramento? Sicuramente ne risente il giudizio e la valutazione ditirocinio, per cui l'evento errato che non ha determinato un "fatto", sventato in tempo perdiverse ragioni, relega lo studente comunque nella considerazione del colpevole.

Non è di aiuto in questi ultimi anni il moltiplicarsi di casi e contenziosi tra cittadini eprofessionisti della salute, casi di malasanità che contribuiscono a ridurre la fiducia nelleistituzioni sanitarie e in chi ci lavora. La paura di denunce e contenziosi, molto presente neimedici, si allarga agli altri professionisti che si occupano di cura, ed è percepita come unadelle priorità per le Aziende sanitarie. Prova ne sia anche l'elevato numero di professionistinon medici che provvedono a integrare con polizze personali l'assicurazione che il datore dilavoro è tenuto ad attivare per i dipendenti.

Si è così sviluppata una medicina difensiva che teme azioni legali e si proteggeimmediatamente anche in casi in cui non c'è colpa e tantomeno dolo. Il percorso legale daaffrontare, anche nel caso si risolva il contenzioso senza confermare la responsabilità deglioperatori, non solo determina tensione e incertezze per gli interessati, ma si riflette nel climadell'intero gruppo di lavoro, toglie fiducia ai cittadini e danneggia l'immagine dell'Istituzione.

Nei casi in cui l'errore coinvolga direttamente lo studente, viene segnalato secondoprocedure ben precise nel servizio, in cui sono indicati i professionisti presenti che avevanoin carico lo studente e assumono, accettandone la presenza, la responsabilità "in vigilando".

In caso di errore durante il tirocinio, oltre alla denuncia "aziendale", la comunicazione deifatti viene inviata alla Sezione formativa del Corso che lo studente frequenta, in quanto dicompetenza di tutto ciò che attiene i tirocini i universitari e per l' afferenza dello studente nonall'Azienda Sanitaria ma all'Università, anche in termini assicurativi. L'Università in questocaso corrisponde al datore di lavoro.

Nei casi di errore a carico o con il coinvolgimento del tirocinante ciò determinavalutazioni insufficienti da parte del tutor clinico. L'evento viene sempre analizzato con le

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figure coinvolte, talvolta viene descritto diversamente dallo studente rispetto ai tutor o aiprofessionisti dei servizi, nonostante gli incontri per comprendere meglio cosa è successo eattivare esperienze di recupero. Il chiarimento, in alcuni casi, non convince entrambe le parti(studente ed altri operatori presenti) per le posizioni ed i punti di vista o le premesse dipartenza: chiaramente la gravità del danno, per fortuna mai drammatico, influenza moltotutte le dinamiche che ne conseguono. Il problema in questi casi è la non conoscenzadell'intero percorso o di tutte le componenti di una attività o prestazione, oppure la mancanzadi spiegazioni esaustive, tali per cui lo studente non ha agito tutto ciò che era necessario enon ha valutato le conseguenze, che non riesce sempre ad avere chiare o a collegare.

Per Benner il novizio non ha il quadro di insieme e questo talvolta potrebbe determinareerrori. Come, del resto, un rapporto poco chiaro o una relazione difficile tra tutor e tirocinantegenerano incomprensioni o soggezioni o una scarsa disponibilità ad accogliere dubbi, tuttifattori che possono aumentare i pericoli.

Dopo l'evento dannoso segue spesso una situazione irrecuperabile, principalmente neirapporti, venuta meno la fiducia da entrambe le parti. A volte lo studente chiede di poter dareulteriori spiegazioni ai tutor o ai Responsabili della Sezione Formativa, fornendo una propriaversione, più rivolta a giustificare che a spiegare l' accaduto. I tutor della Sezione analizzanocon lo studente le cause, mettendo a fuoco insieme a lui gli aspetti specifici su cui migliorareper prevenire altri eventi di questa natura, per recuperare il rapporto con i tutor, mettendo incampo una sorta di mediazione.

In ogni caso anche l'analisi e le riflessioni per acquisire apprendimenti dagli errori sonoinfluenzate in entrambe le parti dal giudizio, e talvolta vale anche per i tutor della Sezioneformativa.

In queste esperienze anche la capacità di condurre questo percorso da parte dei tutordidattici del Corso è a rischio di pregiudizio, ugualmente da parte della componente delCorso che ha un mandato più pedagogico. Pertanto il giudizio negativo percepito dallostudente, anche se limitato a quella esperienza, condiziona alcune decisioni successive, tracui quella di mettere in atto un'esperienza di recupero che, nei tempi stretti del percorsotriennale, posticipa i tempi di laurea.

Inoltre per lo studente l'evento può essere faticoso da superare, determinato in alcunicasi anche la decisione di sospendere per un periodo l'attività clinica: in alcuni casi glistudenti hanno abbandonato il corso di studio riferendo di non sentirsi più adeguati e a nullasono valsi i tentativi di recuperare questa decisione, di analizzare la situazione distinguendol'errore dalla colpa. È evidente come, nonostante l'atteggiamento, su cui si concorda, di noncolpevolizzazione del singolo, dalla fase di analisi delle cause da parte degli altri attori epartecipanti all'evento, fino alla definizione delle azioni conseguenti e delle azioni dimiglioramento che ne dovrebbero derivare, non c'è un adeguata preparazione a prevenire egestire questi fatti nei confronti degli studenti.

Lo studente non è un professionista, presenta delle fragilità e dei meccanismi di difesapropri, deve confermare la sua scelta professionale e personale, deve acquisire autostima estima in merito alla sua preparazione e ai suoi livelli di apprendimento. Si utilizza quasisempre il termine errore, nell'accezione quotidiana, sebbene sarebbe bene distinguere erroreda sbaglio e soffermarci sulla colpa.

Sulla colpa ruota l'idea che ci possa essere la possibilità di evitare un errore che non èstato deliberatamente evitato; e si potrebbe intendere che il colpevole ha quasi creato lecondizioni per il verificarsi dell'errore: si sente in questo termine qualche cosa di deliberato.

Nel termine sbaglio è come se risuonasse una minore gravità, ma il riferimento rimanesempre personale: lo sbaglio è a carico del singolo.

Ma di quale genere di errori si tratta in questo contesto di formazione infermieristica dibase?

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In questi casi di solito si tratta di errori di terapia, oppure di errori nel valutare omonitorare le condizioni di un paziente, o di avere sottovalutato dei segni o dei dati dariferire. In realtà le possibilità di incorrere in errori sono molte, con potenziali conseguenzeanche gravi tra cui quelle di "omettere" ovvero non effettuare una attività, ad esempio nonsomministrare un farmaco, oppure non garantire le migliori cure possibili: è il caso dellecosiddette "cure perse". Tra gli errori più frequenti e gravi in sanità e che coinvolgono gliinfermieri, troviamo gli errori nel processo di gestione della terapia.

Per questo motivi gli obiettivi di tirocinio devono descrivere il livello di autonomina, disupervisione, di affiancamento per le diverse attività da svolgere in tirocinio, siano esseprestazioni tecniche, modalità e strumenti di valutazione e monitoraggio, di raccolta dati, direlazione e livello di informazioni che lo studente può dare all'assistito o alla famiglia.

La stessa applicazione di linee guida e protocolli possono necessitare talvolta di unadiscrezionalità che lo studente non ha o che non può attivare autonomamente.

Esiste secondo P. Frerie «un rapporto tra l'allegria, necessaria all' attività educativa e lasperanza» 17

Auspichiamo quindi che gli approcci educativi e formativi, le condizioni organizzativemesse in campo e le cautele, visti i rischi di vario genere insiti nel tirocinio, non alterino ilpiacere di imparare ed il piacere di insegnare una professione.

7. Bibliografia

Benner P. (2003), L'eccellenza nella pratica clinica dell' infermiere. L' apprendimento basatosull'esperienza, Milano, Mc Graw-Hill, I° Edizione italiana.

Federazione Nazionale Collegi IPASVI (2009), Codice deontologico dell'Infermiere.

Frerie P. (2004), Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa,Torino, EGA.

Knowles M. (1996), Quando l' adulto impara. Pedagogia e andragogia, Milano, F. Angeli.

Lichtner M. (2010), a cura di, Vivere il tirocinio, Ausl di Bologna, convegno del 14 maggio2010

Sarchielli G., Castellucci A. (2000), Viaggi guidati, Milano, F.Angeli.

Schon D.A. (1993), Il professionista riflessivo: per una nuova prospettiva della formazione edell'apprendimento nelle professioni, Bari, Dedalo.

17 in ”Pedagogia dell’ autonomia” (2004), una delle opere tradotte in italiano del pedagogista brasiliano(1921-1977)

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PENSARE E AGIRE IN SICUREZZA NEL TIROCINIO DELLEPROFESSIONI SANITARIE: OBBLIGO LEGISLATIVO E

OPPORTUNITÀ CULTURALE

di Rossana Di Renzo

«Ogni giorno si corregge un errore,ogni giorno si impara

a saper meglio quello che possiamo far di bene oquello che siamo condannati ancora a lasciar avvenire

di male, ogni giorno erriamo menodella vigilia e impariamo a sperare di far di meglio dimane. Errare, sì.

È una parola che fa paura al pubblico.L'uomo che non erra non c'è».

Augusto Murri, tratte dal suo Quattro lezioni e una perizia (1906-1907)

In ambito sanitario la prevenzione dell'errore è un tema sentito e dibattuto; una grandeconquista culturale è di accettare che in medicina, come in tutte le attività umane, si puòsbagliare, che non è possibile pretendere la perfezione, ma è comunque giusto impegnarsiper raggiungerla.

L'Azienda USL di Bologna è sede di tirocinio per le diverse figure professionali sanitarie,tecniche, sociali ed educative. In questi anni è stato affrontato il tema dell'applicazione delD.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81 nell'ambito del tirocinio. Formare il tirocinante – così come ognioperatore della sanità - sulla tutela della salute e della sicurezza nella pratica professionale èdovere previsto da un preciso obbligo legislativo. Ma è anche e soprattutto, per la nostraazienda, un'opportunità di sviluppare la cultura della sicurezza e far sì che divenga un valorecostante per il futuro professionista che lavorerà in un'organizzazione e si prenderà cura deicittadini.

Trattare il tema dell'educazione e prevenzione alla sicurezza e alla salute è ancora piùimportante quando ci si rivolge a una popolazione con età prevalente compresa tra i 19 e i 28anni, in procinto di iniziare il percorso professionale. Durante il percorso formativo e nel tirocinioallo studente sono fornite informazioni per la sua sicurezza (per ridurre al minimo infortuni,malattie professionali) e per la sicurezza dei pazienti (rischi clinici, errori ed eventi avversi). Laformazione deve tener conto di nozioni e di competenze tecniche (conoscenze specifiche persvolgere un'attività con le regole e adempimenti connessi), ma anche di come queste vengonopercepite, assimilate e interpretate, di comportamenti ad esse correlati.

Nelle esperienze formative di tirocinio il processo di apprendimento, non è lineare, spesso èaccompagnato da tentativi ed errori, da sbagli, da insuccessi e riuscite. L'errore nel processoeducativo riveste un ruolo importante, perché fa parte dell'esperienza e dell'attività dell'essereumano.

Scrive Karl Popper nel saggio Congetture e confutazioni del 1963:

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«Per noi, dunque, la scienza non ha niente a che fare con la ricerca della certezza, dellaprobabilità o dell'attendibilità. Non siamo interessati allo stabilimento di teorie scientifiche inquanto sicure, certe o probabili. Consapevoli della nostra fallibilità, siamo soltantointeressati a criticarle e a controllarle con la speranza di scoprire dove sbagliamo, diapprendere dagli errori e, se abbiamo fortuna, di pervenire a teorie migliori».

Per quanto paradossale l'errore è un aiuto per la verità. Parlarne, intervenire, correggerel'errore, permette allo studente di giungere a conoscenze adeguate ad affrontare la situazione.La correzione dell'errore favorisce il tirocinante nel giungere a conoscenze più prossime allaverità. Porre l'enfasi sulla conoscenza e non solo sulle regole mette lo studente in condizione diimparare dagli errori. L'errore, in questo caso, diventa un elemento potente nella ricerca dirisposte e stimola il desiderio di conoscenza. Spesso l'errore è giudicato e punito, leconseguenze si manifestano in forma di disapprovazione dei colleghi e mancanza di fiducia delgruppo di lavoro. Il rischio di una cultura punitiva fa sì che l'errore sia nascosto e taciuto.

Nell'articolo saranno illustrati alcuni dati riguardanti un'indagine conoscitiva che ha utilizzatogli strumenti della medicina narrativa1 e ha coinvolto i tirocinanti delle professioni sanitarie, icoordinatori didattici delle sedi formative e i tutor di tirocinio sul tema della percezione di rischioed errore in tirocinio. I dati saranno utilizzati per migliorare la sicurezza del tirocinante e quelladel paziente e per monitorare e individuare strumenti atti a creare una più consapevole e diffusacultura della sicurezza nell'ambito dei tirocini. Dell'ampio lavoro condotto, saranno condivisi soloi dati riferiti ai tirocinanti del Corso di Laurea di Infermieristica dell'Università di Ferrara2.

1. Trafficare con l'incertezza

L'idea di rischio è in relazione allo sviluppo della società moderna occidentale, ai suoitentativi di controllare il futuro e ai meccanismi per farlo. Nello stesso tempo gli individuiassociano all'idea di rischio il bisogno crescente di sicurezza.

Il termine rischio è stato acquisito dalla lingua inglese dal portoghese ed è stato utilizzatoper descrivere i viaggi degli avventurieri europei nelle esplorazioni del secolo XVI. Da quelmomento è stata diffusa "fisicamente" l'idea del rischio come momento in cui s'incontravanoacque che non rientravano nelle mappature nautiche. L'area rischiosa era un'area nonmappata del mare, quindi sconosciuta e pericolosa. Questo però non ha fermato l'uomo e ildesiderio di scoprire e conoscere: si assume un rischio in conformità a un aumento di

1 Il lavoro di ricerca è stato elaborato come tesi nell’ambito del Master di Medicina Narrativa Applicatadi Istud, si ringrazia la dott.ssa Paola Chesi per il supporto metodologico e il Direttore del Masterdott.ssa Maria Giulia Marini.2 Si ringrazia il Direttore del Corso di Laurea in Infermieristica dell’Università degli Studi di Ferrara,dott.ssa Cristina Loss e il suo gruppo di lavoro. Si specifica che l’Università, a seguito di appositaconvenzione con l’Azienda, affida la responsabilità a svolgere al suo interno la parte teoricadisciplinare specifica e tecnico-pratica del curricolo formativo. L’Azienda in quanto Sede formativa delCorso di Laurea in Infermieristica, articola in docenze i contenuti e i comportamenti professionali diruolo. Questi ultimi si sperimentano prima in appositi laboratori, poi nella realtà operativa dei servizi, informa di tirocinio. Questa parte è affidata ai Tutor coordinatori didattici. La responsabilità della sedeformativa è affidata al Direttore delle attività didattiche. Sia i Tutor, sia il Direttore sono professionistidell’Azienda. Nella formazione universitaria, il tirocinio curriculare è previsto nell’ordinamento di uncorso di Studi per il conseguimento di una laurea triennale o magistrale. A questo percorso vienericonosciuto uno specifico numero di crediti universitari e la sua regolamentazione è gestitaautonomamente da ogni Ateneo, nel rispetto della normativa nazionale e regionale in materia, con lafinalità di «integrare i percorsi didattici con esperienze di formazione professionalizzante, ricerca,elaborazione delle esperienze condotte nelle aree produttive, dei servizi, delle relazioni sociali e delleattività culturali».

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possibilità future e di una qualità di vita migliore. Così, se in origine il rischio è statoconsiderato una nozione spaziale legata alla conoscenza di mondi nuovi, rapidamente èdivenuto un termine riferito alla dimensione temporale e ai comportamenti dell'individuo. Piùci si confronta con una società aperta che volge il suo sguardo al futuro, più si è costretti apensare in termini di rischio e insicurezza.

Nella società moderna, Ulrich Beck afferma che, «i rischi suggeriscono solamente cosanon si dovrebbe fare, non cosa si dovrebbe fare» (2000) e per essere accertato il rischio habisogno degli strumenti, delle teorie, e degli esperimenti della scienza, che a sua volta èfonte di soluzione ma anche causa di rischio. Convivere con queste incertezze non è facileper l'uomo che deve confrontarsi con il futuro.

Se la società in cui viviamo è governata dall'incertezza e dal rischio, come educare eformare i futuri professionisti delle professioni sanitarie? La dimensione formativa che sirealizza nel tirocinio è un aspetto prezioso, ancor più oggi, in un mondo caratterizzato dallacontinua mutevolezza e dalla complessità dei processi di lavoro, che sempre di piùrichiedono coinvolgimento e creatività personale da parte di chi lavora. I tirocinanti deipercorsi di laurea delle professioni sanitarie entrano in organizzazioni complesse contecnologie sofisticate, con situazioni che richiedono risposte e decisioni a volte tempestive.

L'ambiente lavorativo costituisce un giacimento di principi teorici, tecniche operative eazioni che rappresentano la struttura fondante, a volte manifeste e a volte nascoste, delleattività che lo compongono. Ne consegue che il lavoro è una pratica in sé istruttiva, formativaed educativa. Una pratica che il tirocinante, se guidato, può osservare e analizzare percomprendere gli aspetti tecnici e i principi teorici, può sperimentare per sviluppare le abilitàmanuali che permettono di eseguirla e sulla quale può riflettere dopo averla attuata, peracquisire le competenze che gli consentono di svolgerla nel modo più utile e giusto.

All'interno del tirocinio avviene la ricomposizione del "divorzio tra la mente e la mano".Sennet parla di «intimo nesso tra la mano e la testa», dialogo che «si concretizzanell'acquisizione di abitudini di sostegno, le quali creano un movimento ritmico tra soluzionee individuazione di problemi», invita a superare le storiche «linee di faglia che dividono lapratica dalla teoria, la tecnica dall'espressività, l'artigiano dall'artista, il produttore dal fruitore»(2008). Ricomposizione difficile se non è guidata da un professionista esperto e se il servizioche accoglie il tirocinante non ha le caratteristiche per favorire apprendimenti e competenze.

Il tirocinante entra nei servizi con le sue conoscenze, esperienze di vita, con aspettative diconferme che la strada individuata sia quella giusta. Nel tirocinio lo studente mette in gioco lesue capacità, i suoi sogni, i suoi desideri, i suoi limiti, ciò che sa e sa fare. Essendo informazione, il tirocinante non sempre riesce a padroneggiare le variabili presentinell'organizzazione e nella gestione delle relazioni. Se da una parte il tirocinante èconsapevole che il percorso di tirocinio favorirà apprendimenti, è altrettanto consapevole diessere esposto a possibilità di rischi ed errori. Il tirocinio permette di entrare in contatto consituazioni ad alto tasso di problematicità e il tirocinante può trovarsi in situazioni in cui nonesiste sempre una risposta disponibile. La soluzione richiede esperienza professionale,capacità di problem solving. Un sapere teorico è quello che, rispetto a certe situazioniproblematiche, indica e fornisce strategie da adottare. Il tirocinante nei servizi, si trova agestire relazioni complesse con casi unici, differenti l'uno dall'altro, dove le risposte nonpossono essere standardizzate, applicando semplicemente la teoria. Racconta unatirocinante:

«l'impatto iniziale mi spaventa. Ho provato, riprovato tante volte le tecniche sul manichinoin sala simulazione. Lavorare sul manichino è diverso: non reagisce, non prova dolore,non ha una storia e se sbaglio non succede nulla. Con la persona che sta male è tuttaun'altra cosa. Se sbagli non torni indietro» (Di Renzo R., Bellamio D., 2011).

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Prendere delle decisioni ha delle implicazioni, come ben descrive la nostra tirocinante.Una decisione, una volta presa, segue il suo corso e se sbagli non può essere annullata.L'azione messa in campo è imprevedibile e illimitata, una volta realizzata non si è più padronidelle conseguenze.

2. Il disegno di ricerca e gli strumenti

La sicurezza nel Servizio Sanitario è un obiettivo primario sia per i pazienti ma anche per isuoi professionisti. Questa tematica, affermatasi recentemente, investe il mondo sanitario e ilmondo formativo: la strada da percorrere affinché siano garantite cure di qualità e sicurenecessita dell'impegno coordinato tra i vari attori. La sinergia tra mondo accademico e mondodei servizi può contribuire e sviluppare la cultura della sicurezza nei riguardi dei futuriprofessionisti.

Nel tirocinio le conoscenze, le competenze, le abilità e i comportamenti appropriati entranoin gioco interagendo con il contesto in cui si apprende e si agisce. Il tutor è consapevole chel'"'elemento umano" influenza il "sistema sicurezza" (ambiente di lavoro, normative, procedure etecnologie, ecc…) attraverso l'adozione o meno di comportamenti sicuri, ma anche attraverso lacondivisione o meno di valori culturali, la comunicazione delle informazioni, il climaorganizzativo, ecc.

È sicuramente interessante e utile analizzare il rapporto che intercorre tra sicurezza,comportamento umano, errore e qualità delle attività professionalizzanti. I comportamenti sono ilrisultato di interazioni complesse che coinvolgono personalità, aspettative, motivazioni,professionalità, contesto lavorativo, rete sociale. Comportamento individuale e contesto socialesi influenzano reciprocamente, così come le carenze teoriche influenzano le attivitàprofessionali.

Per conoscere ed esplorare il tema del rischio e dell'errore in tirocinio è stata avviataun'indagine. Il lavoro prende in considerazione i diversi stakeholder del sistema formativo:coordinatori didattici delle sedi formative, tutor dei servizi e studenti.

Per indagare sono stati elaborati uno strumento qualitativo e uno strumento quantitativo3.I questionari sono stati elaborati tenendo presente il percorso del tirocinante nel tirocinio,

dall'ingresso nel servizio, alle relazioni che instaura, alle aspettative che hanno iprofessionisti e i malati nei suoi confronti, alla sua preparazione teorica, per poi affrontare itemi delle responsabilità, delle autonomie, del rischio e dell'errore. L'intento eraaccompagnare il tirocinante a rispondere alle domande, ma soprattutto offrire uno spazio perriflettere sull'esperienza e in particolare per riflettere su come percepisce e affronta il temadel rischio e dell'errore e sull'influenza che ha nel suo percorso di apprendimento. Iquestionari contengono le stesse domande (22 quesiti): il questionario qualitativo ha

3Gli strumenti elaborati sono stati due: un questionario qualitativo e un questionario quantitativo rivolto aitutor didattici delle sedi formative universitarie, ai tutor dei servizi e ai tirocinanti. Sono stati coinvolti perla compilazione dello strumento tre corsi di laurea: Corso di Laurea in fisioterapia dell’Università deglistudi di Bologna; il Corso di Laurea in Ostetrica/o dell’Università degli studi di Bologna; il Corso di Laureain Infermieristica dell’Università degli Studi di Ferrara. Alla compilazione hanno partecipato gli studenti deltriennio. Sono stati coinvolti per compilare il questionario qualitativo 45 studenti, 9 coordinatori didatticidella sede formativa universitaria e 45 tutor dei servizi. Per quanto riguarda lo strumento quantitativosono stati coinvolti per la compilazione: 135 studenti, 9 coordinatori didattici della sede formativauniversitaria e 90 tutor dei servizi. I questionari, seguendo un percorso immaginario di tirocinio,affrontano le tematiche legate all’organizzazione, alle relazioni, alla sfera psicologica e infine allapreparazione dello studente. L’indagine è stata condotta nel 2014/15.

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domande aperte, mentre nel questionario quantitativo le risposte sono state codificate. Lacompilazione era anonima. I questionari sono stati consegnati alle sedi formativeuniversitarie e per mail ai tutor dei servizi dell'AUSL di Bologna. Ogni questionario eraintrodotto da una nota che spiegava le finalità dell'indagine.

Una prima considerazione che si può fare, leggendo i dati, è che i tirocinanti si sono residisponibili non solo a partecipare all'attività ma anche a raccontare la loro esperienza ditirocinio vissuta. Tuttavia, in generale si evince un certo limite di apertura, forse causato dalfatto che gli studenti non si sono sentiti completamente liberi di esprimersi e in qualche casosi sono limitati a raccontarsi dal punto di vista delle proprie competenze, rimanendo su unpiano che si potrebbe definire accademico.

3. Il linguaggio utilizzato dagli studenti per raccontare le esperienze ditirocinio

Ci sembra utile prestare attenzione al linguaggio utilizzato dai tirocinanti del Corso diLaurea in infermieristica nelle loro narrazioni. Linguaggio che può influenzare le relazioni. Leesperienze sono state raccolte attraverso l'utilizzo di un questionario qualitativo (tracciasemi-strutturata) che ha guidato le narrazioni su specifici temi d'interesse e, nello specifico, liha portati a trattare il tema del rischio e dell'errore.

Interessante è l'analisi del linguaggio utilizzato e la frequenza delle parole. Le prime 50espressioni più frequenti nelle storie dei tirocinanti sono le seguenti:

Per quanto si tratti di dati quantitativi che vanno contestualizzati e integrati alle analisiqualitative, è significativo che le espressioni che ricorrono con maggior frequenza siano leparole "paziente/pazienti", a sottolineare l'importanza che l'incontro con le persone in cura haavuto nell'esperienza di tirocinio. Ulteriore conferma anche dalle frequenze delle parole"persona/persone" e "rapporto". L'aspetto relazionale è predominante nelle esperienze ditirocinio, prevale anche rispetto alle esperienze assistenziali.

Sono frequenti le espressioni "molto", "tanto", "sempre", "tutto/i/e", termini quantitativipiuttosto totalitari che servono a enfatizzare i concetti espressi. La loro ricorrente presenza èindicativa dell'importanza che ha avuto il tirocinio per gli studenti.

Il terzo gruppo di espressioni più frequenti è il verbo "fare", "fatto", "agire", indicativodell'importanza che ha per i tirocinanti la possibilità di mettere in pratica le conoscenzeteoriche: una delle loro principali aspettative.

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Le frequenti parole "preparato/a, preparazione" e "competenze", sottolineano una certatensione nel sentirsi adeguatamente preparati o nel voler dimostrare le proprie conoscenze.

Essendo il linguaggio molto disease-centered, le parole "terapia", "prelievo/i","somministrazione" rientrano tra le pratiche cliniche che maggiormente impegnano itirocinanti nelle loro attività.

Tra le altre parole più frequenti, "collaborare", "collaborazione" rilevano l'importanza dellerelazioni di équipe; "difficoltà"; "aspettano", "aspettarsi" rimandano alle aspettative percepite;"imparare", "rispetto", come uno dei valori maggiormente ricorrenti nelle storie; "autonomia",obiettivo a cui tendono i ragazzi, e "dovere" come impegno e responsabilità.

Il linguaggio utilizzato nelle storie degli studenti è tendenzialmente uniforme e si puòdefinire in parte "disease" ed in parte "illness4.

La componente di disease è molto presente nella descrizione puntuale che i ragazzifanno delle loro attività e anche nello stile linguistico adottato, spesso molto asciutto esintetico, che lascia poco spazio allo sviluppo di considerazioni più ampie:

«Mi occupo di prelievi, inserimento di CVP e del CV, rifacimento del letto, igieneperineale, preparazione e somministrazione della terapia, ECG, igiene del cavo orale,

somministrazione del clistere a grande volume, rilevamento dei PV, intramuscolo,somministrazione dell'insulina per via intradermica».

«Nel Centro prelievi ho eseguito sia l'accettazione e la presa in carico della personaregistrandola nel sistema informatico e la raccolta di campioni, sia l'esecuzione deiprelievi ematici. Nel CMG ho svolto la rilevazione di PA, FC e glicemia, l'esecuzione diIM, medicazioni e somministrazione di farmaci EV, rifornimento e sistemazione dellafarmacia e dei dispositivi e collaboravo con il chirurgo durante le operazioni chirurgichedi piccola intensità».

«Mi occupo dell'assistenza infermieristica del paziente chirurgico. Gestisco sia il pre-operatorio (accoglienza, presa in carico, preparazione pre-operatoria), la degenza opost-operatorio del paziente in reparto (assistenza infermieristica di base, medicazioni,terapia, lato relazionale) e la dimissione».

«In questo servizio mi impegno a garantire le cure primarie alla persona, e svolgo tutte leattività infermieristiche che la persona necessita in questo servizio. Svolgo le mie attivitàin base al turno lavorativo. In collaborazione o supervisione del mio tutor clinico inizio adistribuire la terapia e a rilevare parametri vitali della persona, controllo il suo stato disalute in quel momento, effettuo prelievi o altre tecniche se prescritte. In collaborazionecon un infermiere o dell' OSS faccio le cure igieniche della persona, per il rifacimento delletto. Effettuo insieme al mio tutor clinico il giro visita con il medico, riferisco se ci sonoreferti di esami di laboratorio o altri esami diagnostici del paziente, se necessario facciocontrollare e aggiornare dal medico il foglio terapia».

4Le definizioni sono mutuate dalla Medicina Narrativa: “disease”(= malattia al centro): forniscono unadescrizione precisa, puntuale e generalmente asciutta della situazione attraverso un linguaggiotecnico (come su una cartella clinica), che non lascia spazio a considerazioni più personali circa ilproprio stato d'animo. Rivelano un imbarazzo di fondo, una scarsa abitudine a raccontarsi. “illness” (=l'esperienza della malattia al centro): raccontano le proprie emozioni, il vissuto dell’esperienza,analizzando e reinterpretando i ricordi del percorso di tirocinio. Rivelano la voglia di raccontarsi e diessere ascoltati.

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In generale comunque gli aspetti di illness sono meno preponderanti rispetto a quelli didisease. Quello che si può notare è che talvolta le narrazioni iniziano con un linguaggio piùdisease-centered e gradualmente si aprono a considerazioni e riflessioni più inerenti allapersonalizzazione dell'esperienza, a dimostrare una scarsa consuetudine a raccontarsi ma,nel contempo, la volontà di farlo e, forse, l'utilità di tale occasione di riflessione.

La componente della "illness" è invece più presente quando si parla delle relazioni con ipazienti e l'equipe del servizio, o relativamente al significato dell'esperienza di tirociniovissuta:

«Ho avuto quasi l'impressione di star lì da una vita, perché sono riuscita a inserirmibenissimo con tutti: ovviamente quando ci si deve rapportare con tanta gente è normaleche per alcuni si possa avere più simpatia rispetto ad altri».

«Inizialmente mi sono ritrovata molto spaesata poiché non vi è stata una vera e propriaaccoglienza da parte del personale sanitario, ma con il tempo sono riuscita adambientarmi anche grazie a un paio di infermieri molto amichevoli e cordiali nei mieiconfronti».

Sono comunque molti gli aspetti che emergono da questo lavoro e che potrebberoessere di utilità per la formazione e organizzazione delle esperienze di tirocinio, cherappresentano indubbiamente un momento di grande importanza per gli studenti, comeconfermato dalle loro narrazioni.

4. Analisi dei dati raccolti

Tutti gli studenti del Corso di Laurea in Infermieristica dell'Università degli Studi diFerrara, coinvolti nell'indagine, hanno compilato e inviato in forma anonima il questionario.Molti hanno sottolineato che essendo il questionario composto di molte domande, il tempoda dedicare non sempre era adeguato.

L'età media degli studenti che hanno partecipato alla ricerca è di 23 anni, eprevalentemente frequentano il secondo o terzo anno del Corso di Laurea di inInfermieristica:

6%

53%

41%

I anno

II anno

III anno

Le esperienze di tirocinio raccontate sono state svolte nei seguenti servizi: Casa protetta,RSA, Servizio Medicina, Servizio Chirurgia, Medicina Riabilitativa, Geriatria, ASP, Serviziopost acuti, Servizio Chirurgia e Urologia, Hospice, Servizio Ematologia, Servizio ChirurgiaTrapianti. La maggior parte dei servizi frequentati fanno parte dell'AUSL di Bologna. Trattasidi contesti notevolmente differenti sia per la tipologia di cure erogate, sia per l'impostazione

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organizzativa. Infatti, ci sono strutture con 0 fino a 90 posti letto e, per quanto riguarda leéquipe, vengono descritti gruppi di lavoro dagli 8 ai 50 operatori.

Il contesto a cui si riferiscono le risposte, fornite dai tirocinanti, sono le esperienze ditirocinio nei servizi frequentati nel periodo dell'indagine.

Domanda n°1: Cosa sto trovando

01234567

41%35%

23,5%17,6% 17,6%

11,7%5,8% 5,8% 5,8%

Sono tendenzialmente positivi gli elementi descritti delle realtà in cui gli studenti hannosvolto i loro tirocini. Nella maggior parte sono sottolineati gli aspetti di organizzazione deireparti, di collaborazione di équipe, di relazione con i pazienti, di preparazione professionale.In qualche caso i tirocinanti sottolineano la novità del contesto in cui ci si trova, un ambientesconosciuto nel quale mettersi alla prova. Solo in poche storie viene sottolineata la negativitàdel luogo, per la scarsa collaborazione trovata o per le difficoltà oggettive e organizzative delreparto.

Domanda n° 2: Mi guardo intorno e vedo…

0123456

35%

23,5%17,6%

11,7% 11,7% 11,7%5,8% 5,8%

Sono in maggior parte positivi gli elementi descritti quando è chiesto agli studenti diindicare con più spontaneità le sensazioni che provano stando nell'ambiente di lavoro in cuisvolgono il tirocinio. Ciò che viene maggiormente indicato è, di nuovo, l'aspettoorganizzativo, ma anche il clima percepito, l'attenzione alle persone in cura. In qualche casotraspaiono sensazioni più negative, come, di nuovo, le difficoltà organizzative e lavorative deiservizi:

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«Nel servizio guardandomi intorno vedo sanitari che svolgono le proprie attività. Sonorari gli episodi di confusione del reparto»

«Tante persone bisognose di aiuto pratico e di relazionarsi, sfogare le loropreoccupazioni, le loro paure»

«Vedo un'équipe con delle conoscenze, grande esperienza lavorativa, e concompetenze non solo tecniche ma soprattutto relazionali, quelle di cui hannomaggiormente bisogno questi pazienti; ho visto davvero infermieri molto preparati, contanta pazienza e tanta capacità di relazionarsi con queste persone che hanno bisogno diaiuto, ho visto proprio una relazione d'aiuto, e non solo tra gli operatori e i pazienti maanche tra gli operatori e i familiari».

Domanda n°3: A cosa presto attenzione…

0123456789

1058,8% 58,8%

17,6%

5,8%

L'aspetto cui si presta più attenzione è quello relazionale, soprattutto rivolto al paziente.È inoltre oggetto di prioritaria attenzione tutto ciò che riguarda le pratiche, le manovreinfermieristiche e la somministrazione delle terapie. In qualche caso è accennato il temadella sicurezza, sia personale sia dei pazienti; meno sentito è il tema dell'autonomia rispettoalle attività:

«Presto molta attenzione soprattutto alla preparazione e somministrazione della terapiae durante tutte le procedute diagnostiche, terapeutiche ed assistenziali, per evitarecomplicanze»

«Nella mia pratica quotidiana presto attenzione ad acquisire competenze tecniche, masoprattutto cerco di concentrarmi molto nel campo relazionale, cerco di creare unrapporto d‘aiuto con la persona, di capire qual è il suo bisogno, e la cosa che facciospesso è cercare di mettermi "nei suoi panni", o di pensare che lì ci fosse un miofamiliare, questo mi porta a darmi quasi completamente verso quella persona»

«Non considero prioritario un aspetto della mia pratica quotidiana in reparto rispetto adun altro. Importante è per me l'ordine con il quale svolgo le mie attività»

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«Presto attenzione a tutto quello che per me è nuovo e a tutto quello sul quale ho ancoradei dubbi. Esempi che potrei fare sono: i drenaggi epatici, a me sconosciuti fino all'arrivoin reparto; o determinate terapie come gli immunosoppressivi accompagnati dai loroeffetti collaterali e dalle complicanze che provocano»

«Gli approfondimenti relativi alle competenze intellettuali sono stati affrontati con il tutor ein alcuni casi con i medici, per le competenze gestuali e/o relazionali ho avuto un validosupporto da parte del tutor clinico».

Domanda n°4: I miei punti di riferimento

02468

10121416

88%

35%23,5%

11,7% 5,8%

Il punto di riferimento principale è il tutor o il coordinatore infermieristico di reparto, checoncordano un piano di lavoro e seguono i tirocinanti giorno per giorno supervisionandocostantemente il lavoro dei tirocinanti e i loro apprendimenti:

«Il mio punto di riferimento durante questo tirocinio è stato la mia tutor clinica, perchécon lei ho trascorso gran parte del tempo, lei mi ha spiegato con molta pazienza tutto ciòche riguarda l‘organizzazione del reparto. Mi è stata sempre vicino. Non mi sono sentitamai sola, anzi, mi ha sempre chiarito ogni dubbio. Con lei si è anche creato un bellissimorapporto che non è solo quello di tutor-tirocinante. Mi ha ascoltato, mi è venuta incontrotutte le volte in cui ho avuto bisogno».

In qualche caso gli studenti sono affiancati da infermieri e Operatore Socio-Sanitario(OSS); in rari casi direttamente dall'intera équipe. In un solo caso si parla di sostegno tratirocinanti.

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Domanda n° 5: L'inserimento nell'équipe…

0

2

4

6

8

10

1264,7%

29,4% 29,4%23,5%

11,7%5,8%

L'inserimento nel gruppo di lavoro è considerato positivo nella maggior parte delleesperienze; in qualche caso si rileva la disponibilità degli operatori e l'immediatezzadell'inserimento. I tirocinanti raccontano di inserimenti difficili, per mancanza di una vera epropria accoglienza, per la gradualità del consolidamento delle relazioni e dell'instaurarerapporti di fiducia. In un solo caso è riportata un'esperienza in cui la tirocinante non è stataintegrata nel gruppo di lavoro.

Domanda n° 6: Il rapporto con i pazienti…

0

1

2

3

4

5

6

7

Rispetto,disponibilità,

dialogo,ascolto

Bellissimo,fanstastico,

ottimo

cercavo di darerisposte

Ciringraziavano,

confortante

41%

29,4%

23,5%

11,7%

I tirocinanti descrivono solo esperienze positive relativamente alle relazioni instauratecon i pazienti, fondate per lo più su rispetto reciproco, disponibilità, dialogo e ascolto. Perqualche studente instaurare una buona relazione ha rappresentato uno degli elementi dimaggior soddisfazione dell'esperienza di tirocinio. In qualche caso si rileva la difficoltà afornire risposte al paziente, poiché non sempre si hanno gli elementi per rispondere alle lororichieste. Per alcuni tirocinanti, è fonte di disagio.

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Domanda n° 7: Il rapporto con la sede formativa…

0

2

4

6

8

10

12

Disponibilità,aiuto,

presenza

Non ne hoavuto bisogno

Splendido,ottimo

rapporto

Fiducia,sincerità

Riferimentoper difficoltà

70,5%

35%

23,5%

11,7%5,8%

Molto positive sono le relazioni con i coordinatori della sede formativa universitaria. Itirocinanti evidenziano la disponibilità e la loro costante presenza durante l'esperienza. Inalcuni casi gli studenti pongono l'accento su come l'esperienza positiva di tirocinio abbia fattosì che non fosse necessario l'intervento dei coordinatori didattici. In altri casi è statonecessario un supporto per affrontare alcune difficoltà incontrate dal tirocinante.

Domanda n° 8: Cosa si aspetta da me l'équipe…

43%

38%

19% volontà di imparare,impegno

preparazione, autonomia

correttezza,collaborazione

Le aspettative che gli studenti percepiscono su di loro da parte dell'équipe riguardanoprevalentemente: dimostrare l'interesse ad apprendere, essere responsabili e attenti durantele attività e garantire impegno quotidiano a trasferire nella pratica quanto appreso. Siattendono disponibilità, rispetto e collaborazione con il gruppo di lavoro. In qualche casovengono sottolineate l'importanza della preparazione, delle competenze acquisite el'autonomia nel caso di studenti del terzo anno, autonomia con supervisione:

«L'equipe si aspetta che sia preparata e pronta a gestire il mio lavoro al meglio. I pazientisi aspettano che sappia quello che faccio e che mi occupi di loro»

«Che sia preparata, affidabile e responsabile»«Che sia attenta, partecipe e curiosa»«Che sia professionale e collaborativa»

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Domanda n°9: Cosa si aspettano da me i pazienti…

57%

43% rispetto, ascolto, umanità

assistenza completa ecompetente

Cosa si aspettano da me i pazienti

È interessante notare come il tirocinante "legga" le aspettative del paziente. I pazienti,secondo i tirocinanti, si aspettano molto semplicemente di essere rispettati, ascoltati e curaticon umanità. Altrettanto importante è la competenza professionale e la loro sicurezza. Leattese dei pazienti vengono lette come un mix equilibrato tra una buona relazione associataalla qualità dell'assistenza.

Domanda n° 10: Le responsabilità…

02468

10121416

Praticheinfermieristiche

corrette,attente,

autonome

Supportomorale aipazienti

Puntualità eprofessionalità

Non crearedanni

Aiutare ilpersonale

88%

11,7% 11,7%5,8% 5,8%

Le responsabilità che gli studenti sentono di avere durante il tirocinio sono in gran partelegate alla preparazione e alla competenza nello svolgimento delle pratichecliniche/assistenziali, di somministrazione corretta e attenta della terapia:

«Prestare attenzione a quello che faccio, prestare attenzione alle consegne, sia a quelleche ricevi che a quelle che riferisci ai colleghi, affinché l'informazione sia completa,svolgere attività in maniera corretta sulla base di conoscenze pregresse e di evidenzescientifiche»

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«Le responsabilità che mi sono state affidate riguardano essenzialmente la gestionedelle pompe di infusione, dei cvc, quindi medicazioni, prelievi, tecniche per le quali horaggiunto un buon livello di autonomia. Per quanto riguarda la terapia, soprattutto per lasua preparazione sono autonoma, mentre per l'infusione di chemioterapici collaboro coltutor o con gli altri infermieri in turno».

Domanda n° 11: Criteri di autonomia…

0

1

2

3

4

5

6

Sono statoosservato/a

sono statosupervisionato/a

nelle primemanovre

autonomiabasata su

conoscenzeteoriche

autonomiabasata su

disponibilitàtirocinante

autonomiabasata su livello

difficoltà

35% 35%

17,6%

11,7% 11,7%

Il livello di autonomia dei tirocinanti, così come descritto nelle loro narrazioni, ègeneralmente definito dopo un periodo di osservazione, di collaborazione, di gestionedell'attività con supervisione. In rari casi l'autonomia si basa sul livello di conoscenzeteoriche raggiunte fino a quel momento. Ci sono situazioni in cui al tirocinante vieneaccordata la possibilità di gestire l'attività in autonomia con la supervisione del tutor.

Domanda n° 12: Quando mi sento a mio agio…

0

0,5

1

1,5

2

2,5

3

3,5

4

quando ho leconoscenze/mi

sentopreparato/a

quando sonocon tutor

quando sonocon i pazienti

quando ho giàfatto unamanovra

infermieristica

quando lavoroin autonomia

quando lavoroin un ambientecollaborativo

23,5%

17,6%

11,7% 11,7%

5,8% 5,8%

Quando mi sento a mio agio

Molte sono le situazioni in cui il tirocinante si sente a proprio agio. Le più comuniriguardano il livello di preparazione percepito: in altre parole gli studenti si sentono a loroagio quando sono chiamati a fare operazioni che conoscono e hanno già svolto inprecedenza. Si sentono sicuri e in grado di gestire le situazioni quando sono accompagnati eseguiti dal proprio tutor.

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Domanda n° 13: Quando non mi sento a mio agio…

0

0,5

1

1,5

2

2,5

3

3,5

4

quando svolgo perla prima volta una

nuovamanovra/affronto

una nuovasituazione

quando sento dinon essere

preparato/nonavere le

conoscenze

quando lavoro inautonomia/nonsono con tutor

quando mi sentoosservato

quando lavoro inun ambiente non

collaborativo

quando sono in unnuovo ambiente

quando mi vieneimposto qualcosae non concordo

23,5

17,6% 17,6%

5,8% 5,8% 5,8% 5,8%

Quando non mi sento a mio agio

Ci si sente a disagio quando si è chiamati a svolgere un'attività per la prima volta e nonsi ha la percezione di essere sufficientemente preparati. Non ci si sente sicuri ma a disagioquando ci si sente un po' abbandonati e non si ha il supporto diretto del tutor.

Domanda n° 14: Quando ho dei dubbi…

80%

10%10%

chiedo atutor/infermieri/equipe

mi documento

non agisco

Quando ho dei dubbi

È molto lineare la reazione descritta dai tirocinanti in caso di dubbi, prima di agire, sichiede aiuto al tutor di riferimento o in qualche caso anche a infermieri e professionistidell'equipe presenti nel servizio.

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Domanda n° 15: Quando sbaglio…

41%

23,5%11,7% 11,7%

5,8% 5,8% 5,8% 5,8%0

2

4

6

8

Riferis

co a

tutor/e

...

chied

o dove ho sb

a...

cerco

di rimed

iare

lo am

metto

viene s

ottolin

eato l..

.

mi sento

in co

lpa

vado nel p

anico

mi arra

bbio co

n me..

.

Quando si sbaglia, il comportamento più diffuso da parte dei tirocinanti è quello dicomunicare immediatamente al tutor e al resto dell'équipe, in modo da rimediare il piùvelocemente possibile. Uno studente riferisce:

«Stavo facendo una manovra e capivo di non farla bene, ho chiesto aiuto. Capivo di nonsapere fare quell'attività assistenziale e temevo la reazione del paziente. Siamo ancorastudenti e siamo in apprendimento».

Dopo l'intervento dei professionisti, il tirocinante chiede dove ha sbagliato e ripercorredescrivendo minuziosamente ciò che ha fatto per capire l'errore e soprattutto come porrerimedio e non sbagliare più in futuro:

«Il mio tutor sottolinea spesso di chiedere, nel caso ci sia un dubbio, e che non disturbomai, anche se è impegnata. Importante è che io comunichi la mia difficoltà o disagio. Avolte basta uno sguardo per capirsi che quella pratica non l'ho mai fatta».

In questo caso si può evidenziare che un buon rapporto mette nella condizione lostudente di chiedere aiuto e che questo non pregiudica la relazione di fiducia e di valutazionedegli apprendimenti. In altri casi il tirocinante comunica:

«Presto molto attenzione quando somministro i farmaci. Una piccola disattenzione puòcausare esiti molto gravi»

La studentessa ci vuole segnalare che l'errore accade quando l'esecuzione è effettuatain modo "automatico", cioè seguendo uno schema ben consolidato, fino a una distrazione oal calo dell'attenzione. Un tirocinante racconta:

«Quella mattina tutto girava vorticosamente, bisognava fare tutto e velocemente. Mi recodal paziente, dovevo somministrare dei farmaci per endovena. Saluto il paziente, loinformo di quello che dovevo fare e poi proseguo. Terminata l'attività esco dalla stanza.Non appena varcata la soglia mi sento chiamare, torno indietro e il paziente mi fa notareche non avevo tolto l'ago dalla vena. Sarei voluto sprofondare…».

Quando il tirocinante sbaglia e può correggere immediatamente l'errore non informa iltutor o il professionista presente in servizio. Il non informare il tutor da cosa dipende? Iltirocinante non ha dato il giusto peso a quello che accaduto? Nella fretta di svolgere altreattività ha dimenticato l'episodio? Il peso della vergogna era tale da non poterlo condividere?Ha avuto paura di un severo giudizio da parte del tutor e di perdere la sua fiducia?. Iltirocinante è consapevole di partire svantaggiato nel suo essere "neofita", ci tiene adapparire affidabile, responsabile e degno di fiducia: l'essere degni di fiducia costituisce un

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capitale simbolico importante. Si può pensare che una delle principali cause di mancatasegnalazione possa essere il timore di perdere credibilità e affidabilità e, quindi, possaesserci una possibile sottostima di quanto ufficialmente dichiarato. Nella maggior parte deicasi le conseguenze non sono riscontrabili perché ritenute irrilevanti e si risolvono con laripetizione della manovra infermieristica in questione, e con il fatto che i provvedimentimaggiori sono quelli di risolvere, attraverso chiarimenti e discussioni, l'episodio.

Domanda n° 16: Quanto mi sento preparato al tema del rischio dell'errore…

23%

46%

31%

poco

abbastanza

preparato/a

Quanto mi sento preparato al tema del rischio dell'errore

In generale gli studenti si sentono "abbastanza preparati" al tema del rischio dell'errore,più per le conoscenze teoriche acquisite nei laboratori attivati dalla sede formativauniversitaria. I tirocinanti ricevono un'approfondita formazione teorica e hanno la possibilità ditrasferire gli apprendimenti all'interno di laboratori simulando situazioni che comportanorischi. Un tirocinante racconta:

«Preliminarmente all'invio in tirocinio mi sono state fornite informazioni riguardanti lasicurezza (anche addestramento all'uso dei DPI) e ai comportamenti da adottare in casodi infortunio (messa a disposizione di documentazione di ateneo e aziendale). Vienesvolto un incontro precedente all'inizio del tirocinio, in cui siamo presenti tutti ( tutorclinico, studente e tutor didattico) e mi vengono fornite informazioni sulla sede di tirocinioanche relative a comportamenti da adottare in caso di criticità»

Un altro tirocinante ci dice che«…le indicazioni di allert sono sempre da prendere in considerazione con una presa dicoscienza a 360°…».«...il mio tutor mi dice che in situazioni critiche devo evitare di essere d'intralcio durante l'intervento degli operatori sanitari per evitare errori».

Al termine del tirocinio molti temi riguardanti il rischio e l'errore sono ripresi e chiaritinell'ambito della sede formativa universitaria

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Domanda n° 17: Quanto mi sento preparato a livello di conoscenze…

19%

56%

25%

poco

abbastanza

preparato/a

Quanto mi sento preparato a livello di conoscenze

Gli studenti percepiscono di avere un buon livello di preparazione. Gli apprendimentiteorici sono, tendenzialmente, considerati sufficienti per affrontare l'esperienza di tirocinio:

«Credo di aver acquisito le conoscenze di base per sostenere attività e problemi presentinei servizi. Sono in grado di affrontarli e di valutare gli esiti del mio intervento positivi onegativi che siano. Naturalmente le attività devono essere coerenti con gli obiettivi ditirocinio e quindi con la mia preparazione».

«Mi sento abbastanza preparato perché ho ricevuto le basi necessarie per svolgere illavoro richiesto».

Domanda n° 18: L'ascolto del paziente…

45%

31%

6%

6%

6%6%

molto

poco

nessuno

né troppo né poco

si potrebbe fare di più

dipende

Lo spazio dato all'ascolto del paziente e dei suoi famigliari si distribuisce tra contesti incui viene data molta importanza e altri contesti in cui viene considerato "poco" il tempomesso a disposizione per il dialogo e l'ascolto delle persone in cura:

…«L'ascolto è fondamentale per questo tipo di pazienti. Infatti, si cerca sempre difermarsi quanto più è possibile, per fargli capire che noi siamo lì per loro e per aiutarlianche magari solo facendo una chiacchierata di pochi minuti: per loro può essere molto»«In questo servizio dove io sto svolgendo tirocinio tantissimo, non ho mai visto degliinfermieri "correre" perché altrimenti non si riesce a finire la somministrazione dellaterapia, si dà molta più importanza all'ascolto della persona, possiamo dire che è unapriorità».«Poche persone dell'équipe hanno capito quanto sia importante ascoltare il paziente.Spesso si crede di risolvere i problemi del paziente somministrandogli la terapia. Spessoil paziente ha bisogno di una parola in più, di un chiarimento in più, piuttosto che dellegocce per dormire. Ha bisogno magari di un sorriso quando si entra in camera persentirsi più tranquillo e ha bisogno di risposte più dettagliate per contenere la sua ansia».

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Domanda n° 19: L'ascolto tra gli operatori…

44%

44%

6%6%

molto/sempre

poco/non sempre

il giusto

dipende

L'ascolto tra gli operatori

L'ascolto tra operatori delle equipe, in alcuni contesti è definito adeguato e continuativo,in altri descritto come molto limitato e discontinuo.

Domanda n° 20: Cosa sto imparando…

00,5

11,5

22,5

33,5

44,5

529,4%

23,5%

17,6% 17,6%

11,7% 11,7%

5,8% 5,8% 5,8% 5,8%

Sono molte e frammentate le descrizioni di quanto s'impara dall'esperienza di tirocinio.Una prima considerazione è che l'esperienza di tirocinio ha permesso ai tirocinanti dicrescere dal punto professionale e personale. L'aspetto relazionale domina, siarelativamente alle relazioni con i pazienti, sia alle relazioni con i professionisti presenti nelservizio. Fondamentale è l'apprendimento di competenze tecniche e cliniche e l'importanzadi lavorare in sicurezza. Non mancano riflessioni legate alla professione scelta sia comescoperta di un lavoro appassionante, impegnativo e utile, ma anche faticosopsicologicamente e fisicamente:

«Sto imparando a svolgere le tecniche e i meccanismi farmacologici che ci sono dietroad ogni farmaco».

«Sto imparando che la responsabilità è il principio cardine di questo lavoro come tantialtri ed è fondamentale per agire in totale sicurezza».

«Da questa esperienza ho imparato che il ruolo dell'infermiere è faticoso, è impegnativosoprattutto perché il lavoro del reparto non lo puoi lasciare lì ma è inevitabile pensarciquando si rientra a casa. Nonostante ciò penso che sia il mestiere adatto a me perché

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sento di poter dare il meglio di me alle persone malate. Riesco a far sorridere unmalato».

«Penso che questa sia una professione che oltre a dare alla persona dà tanto anche ate. A volte quando torno a casa da questo "reparto" penso che tutte le altre mie cosesono nullità rispetto a ciò che vedo quando sono in tirocinio, penso che i miei piccoliproblemini non sono niente. Da questa esperienza ho imparato tante cose, non riuscireia descriverle per quante sono. Ho potuto vedere da vicino la sofferenza, capire che sonolì i veri "problemi" della vita… quest'esperienza mi ha aiutato a dare molta più importanzaalle cose, a non prendere nulla in maniera superficiale, mi ha fatto crescere tanto nonsolo professionalmente, ma anche personalmente. Oltre a essere un periodo diapprendimento è stato anche un periodo di grande riflessione. Immagino il mio futuropercorso come una continua crescita, e spero di essere sempre un'infermiera paziente,fine della mia carriera lavorativa».

«Sto imparando tantissime nozioni che mi porterò nel bagaglio della mia vita, e non solodi conoscenze teoriche ma anche l'importanza di instaurare i rapporti e di avere tantoamore con gli ospiti».

«Sto imparando a lavorare bene in équipe, è fondamentale riconoscere tutti i bisognidella persona e saperli risolvere. Mi immagino in futuro un'infermiera competente, quindipreparata in tutti gli ambiti dell'assistenza al paziente, sia a livello delle conoscenze, siaper quanto riguarda quello delle competenze gestuali e relazionali».

«Sto imparando molto, vivere quest'esperienza ha confermato la mia voglia di farequesto mestiere».

Domanda n° 21: Un episodio in cui mi sono sentito/a in difficoltà…

00,5

11,5

22,5

317,6% 17,6% 17,6%

11,7% 11,7%

5,8% 5,8% 5,8%

Tra gli episodi raccontati, le difficoltà maggiori sono descritte in situazioni in cui non si sacosa dire o cosa fare di fronte al paziente, in altre parole non ci si sente in grado di fornirgli larisposta che chiede. Ciò crea un forte disagio e sentimento di frustrazione nei tirocinanti:

«Per la mia esperienza svolta mi sono sentita poco soddisfatta poco seguita e quindi inalcuni casi mi sono trovata in difficoltà: difficoltà con l'équipe, con i familiari e alcune voltecon le consegne. Spero che la mia seconda esperienza di tirocinio sarà più formativa esoddisfacente di questa esperienza».

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«Da questa esperienza di tirocinio, immagino un percorso difficile per me, che ho semprefatto fatica a studiare materie scientifiche».

I tirocinanti riferiscono difficoltà relative alla qualità dell'esperienza del tirocinio, allerelazioni instaurate e che le difficoltà incontrate possano rimettere in discussione la sceltaformativa. In altri casi le difficoltà sono diverse:

«Ho provato, riprovato tante volte le tecniche sul manichino in sala simulazione. I docentispiegavano come fare e come comportarsi. Mi mette ansia sbagliare. Lavorare sulmanichino è diverso: non reagisce, non prova dolore e se sbaglio non succede nulla. Conla persona che sta male è tutta un'altra cosa».

Affrontare un problema pratico risulta spesso più complesso che affrontare una situazionedi natura tecnica o scientifica. Prendere una decisione ha delle implicazioni, come ben dice ilnostro tirocinante. Una decisione, una volta presa, segue il suo corso e se sbagli non puòessere annullata. L'azione messa in campo è imprevedibile e illimitata, una volta realizzatanon si è più padroni delle conseguenze. Non esiste un sapere capace di prevederel'imprevedibile dell'agire umano5 (Mortari, 2003.). Il sapere di cui si nutre l'esperienza è unsapere che si costruisce con l'esperienza, cioè stando in un rapporto pensoso con quel cheaccade (Idem, 2003).

Partecipare e agire nei contesti di cura non è sufficiente perché l'esperienza si trasformi insapere. Costruire sapere partendo dall'esperienza richiede la capacità di riflettere su quelloche si è fatto: solo così si elabora sapere. L'esperienza prende forma quando diventariflessione e l'individuo se ne appropria consapevolmente per capirne il senso. Il soggetto"riflette in azione" e riflette sull'azione; non è più solo un esperto di contenuti ma diventa un"professionista riflessivo" come afferma Schön (1993) e condividendo con altri la suaesperienza rende visibile la sua maestria professionale. Il professionista, rispetto altirocinante, è capace di costruire sapere dall'esperienza attraverso la capacità di rifletteresull'esperienza vissuta. La riflessione trasforma la routine in esperienza, riflessione,narrazione.

Domanda n° 22: Quando torno a casa mi sento…

43%

26%

11%

4%4%

4% 4% 4% soddisfatto, appagato

stanco/a

felice, bene

tranquillo

motivato

utile

poco soddisfatto/a

arrabbiato/a

La sensazione maggiormente descritta dagli studenti al termine delle loro giornate ditirocinio è di soddisfazione per quanto appreso e svolto. In generale prevale una sensazionedi positività nei confronti dell'esperienza:

«Mi sento bene (tranne situazioni eccezionali), perché so di essere stata bene in quelle 7ore».

5 In pochi casi i tirocinanti riferiscono: «…Ho imparato che»

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«So di aver creato buoni rapporti».«Ho aiutato e sono stata utile».

«Mi piace pensare che il giorno dopo mi alzerò con la voglia di andare a vedere comesta quel paziente che è stato operato, o di andare a salutare quello che fortunatamentesarà dimesso».

«Ho imparato tanto, ho rafforzato molte competenze».

A volte si torna a casa con dubbi rispetto alla scelta professionale:«Devo prepararmi di più a livello di conoscenze, e ho ancora tanto da imparare in ambitorelazionale ma anche tecnico. Avrò fatto la scelta giusta?...».

In molti casi riferiscono stanchezza, per l'intensità emotiva e i ritmi di lavoro cuicomprensibilmente gli studenti non sono ancora abituati; riferiscono di situazioni (ad es. nellavoro con i bambini) che lasciano "strascichi emotivi importanti", situazioni sulle quali sicontinua a riflettere anche a casa.

5. Per non concludere.

Il tutor e il gruppo di lavoro come risorsa per costruire la cultura del rischio edell'errore

Quello che emerge dalla ricerca è un quadro abbastanza rassicurante: gli studentiriferiscono di avere una formazione adeguata per affrontare le attività che dovranno svolgerenei servizi; sentono di essere preparati anche sui temi che riguardano la sicurezza delpaziente.

Nei racconti degli studenti emerge l'importanza del clima presente nei servizi e dellerelazioni di fiducia che s'instaurano con i tutor e il gruppo di lavoro. Ciò permette ai tirocinantidi essere liberi di raccontare gli errori, di farsi correggere e di riflettere sull'accaduto.

L'errore ha connaturata in sé una forza che, se interpretata ed impiegata nel modocorretto, si palesa come strumento di incredibile utilità nel processo conoscitivo e di crescitapersonale. L'impiego negativo dell'errore porta allo svilimento, impotenza e frustrazione neltirocinante. È, perciò, importante che il tutor e il gruppo di lavoro sostengano lo studente nelsuo percorso di indagine per individuare le cause dell'errore. Questo ci permette di dire chein tirocinio l'interazione e lo scambio che avvengono tra i vari attori sono fonte diarricchimento e crescita. Ciò che il tirocinante riceve dai tutor e/o dai colleghi, come rispostaa una sua azione o atteggiamento, costituisce un feedback necessario e indispensabile perfavorire il suo apprendimento.

L'apprendimento6, come quello che avviene in tirocinio, è un processo di costruzione,non solo personale, ma frutto di un processo dinamico, scaturito dall'interazione con gli

6 Per Lave, Wenger, 2006, i principi di fondo dell’apprendimento situato sono: la conoscenza deveessere presentata in un ambiente realistico, dove tipicamente quel tipo di conoscenza è richiesto;l’apprendimento si verifica come funzione dell’attività, del contesto e della cultura in cui avviene;l’apprendimento richiede l’interazione sociale e collaborazione. L’apprendimento si sviluppanormalmente come risultato del coinvolgimento in attività; in precisi contesti; nel rapporto con lepersone.

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oggetti e con gli individui; l'apprendimento è quindi il risultato di una condivisione dellaconoscenza. Nel tirocinio, l'apprendimento non si configura come una pratica individuale esvincolata dalle dinamiche e dal contesto di appartenenza, ma avviene attraverso attivitàsociali e partecipative. La partecipazione del tirocinante alle attività dei servizi, così comeviene descritta nell'indagine, è graduale per far sì che non siano coinvolti e pressati dallaresponsabilità, dalla paura, dall'errore e dalla fatica. I compiti inizialmente sono semplici e ilcosto degli errori è basso. Il tirocinante nel frattempo si appropria del sapere socialedisponibile: ruotine tecniche, tradizioni lavorative, gerghi, rituali, trucchi del mestiere,conoscenze tacite che caratterizzano l'esperienza e la cultura del gruppo. Con il passare deltempo e delle competenze acquisite la partecipazione da periferica diventa legittima.Essendo il tirocinante in formazione sarà sempre supervisionato.

Accade, però, che il tirocinante, anche se tutelato, affiancato, commetta errori. La pauradi sbagliare può indurre nello studente uno stato d'ansia che non gli permette di affrontare inmodo adeguato le situazioni che deve affrontare. Spesso non comunica il suo disagio perevitare di essere esposto al giudizio del tutor e del gruppo di lavoro. Il non condividere lascelta errata fa sì che il tirocinante viva una situazione di incertezza e di inquietudine e saràdestinato, in solitudine, a doverne sopportare il peso.

Il tutor o il gruppo di lavoro che riusciranno ad intercettare il disagio, interverrannosostenendo il tirocinante nella rielaborazione e nella condivisione dell'errore. Il tirocinante, inquesto caso, si sentirà sollevato dal peso degli eventi, riavviando il processo conoscitivointerrotto:

«Ciò che ostacola maggiormente l'apprendimento esplorativo è la pressione a fingereche gli errori non esistano. Per parlare dei propri errori è necessario sentirsi al sicuro.Occorre avere la sensazione che la squadra consenta ai propri componenti di assumererischi interpersonali. I membri del team si rispettano l'un l'altro e si tengonoreciprocamente in considerazione? Nutrono la certezza di non essere rimproverati,emarginati o penalizzati se faranno sentire la propria voce, o sfideranno prassi comuni oopinioni predominanti?»

Questo ci fa capire quanto sia importante l'atteggiamento che il tutor, il gruppo di lavorohanno nel considerare e affrontare gli errori e se la cultura presente permetta, aiprofessionisti, di sentirsi a proprio agio quando ammettono e analizzano i propri errori. Se lacultura è quella della curiosità verso l'inatteso e dell'interrogarsi su ciò che è avvenuto perpervenire a nuove soluzioni, il tirocinante si sentirà sicuro e più incline a confrontarsi ediscutere apertamente degli errori.

Un suggerimento che si potrebbe dare alle organizzazioni che accolgono tirocinanti è distimolare la ricerca e la catalogazione degli eventi e per analogia si potrebbe pensare a unaestensione ai gruppi di audit di risk management anche nella formazione professionale dibase.

Altro aspetto da considerare è la persona che compie l'azione. Alcune persone hannopiù probabilità di commettere errori per motivi costitutivi. Il tutor deve essere in grado dicapire le caratteristiche del tirocinante (se è accurato, determinato, perfezionista,superficiale, ecc.) che dovrà seguire per impostare, supervisionare le attività e i livelli diautonomia. Il tirocinante, se vuole ottenere l'autonomia, deve aver presente che laresponsabilità delle proprie scelte la si assume in modo concreto non solamente accettandole conseguenze degli esiti, ma impegnandosi con rigore e pazienza nel processo della lororealizzazione. Essa è favorita da un atteggiamento prudente e dalla capacità di riflettere suse stessi e sulle situazioni che si sono presentate. Scegliere di intervenire con prudenza vuol

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dire non solamente farsi carico delle conseguenze delle proprie azioni una volta compiute,ma esercitare su di esse un vaglio critico prima che avvengano, così da poter ridurre alminimo le conseguenze negative.

Altri fattori che possono aumentare o ridurre la probabilità di errore sono: ladisattenzione, la fretta, la distrazione, la stanchezza. Spesso, i tirocinanti hanno evidenziatoche quando erano stanchi hanno avvertito che stavano sbagliando. Se poi nel gruppo dilavoro c'è tensione o si è sottoposti a stress o a un carico di lavoro percepito comeimpegnativo c'è più probabilità di commettere errori. Altri elementi fonte di errori sono leinterruzioni, la perdita di concentrazione, la scarsa comunicazione.

Educare a coltivare il dubbio

Un tema importante e individuato dai tirocinanti è il tema della fiducia. Fiducia nelleproprie possibilità; fiducia che il gruppo di lavoro mantiene nei loro confronti nonostante larilevazione di un errore commesso. Spesso il tirocinante avverte la sua fallibilità e l'accetta.Questo non deve portare all'umiliazione della persona, che finisce con il percepirsiinadeguata in ogni situazione, ma essere a sua disposizione per verificare, controllare erielaborare le proprie idee per migliorarle.

La validità delle idee è sempre soggetta al dubbio. Per tentare di raggiungere laconoscenza, dobbiamo imparare che l'unico strumento valido è il dubbio. Il dubbio è ilcatalizzatore della mente, il compagno di viaggio che ci permette di individuare scelte chepossiamo condividere e riformulare in relazione alla crescente consapevolezza. Il dubbiofrena, limita, modula le nostre azioni; nello stesso tempo, il fermarsi ci permette di rifletteresu quello che stiamo facendo. Il dubbio alimenta la curiosità, la ricerca di percorsi alternativie costringe l'uomo a produrre conoscenza. L'uomo ha bisogno di certezze e sicurezzenecessarie per intervenire e operare scelte. Una risposta potrebbe essere quella di ricorrereal confronto con i colleghi. Altra risposta potrebbe essere quella di raccogliere elementi,sistematizzarli per determinare conclusioni. Conclusioni momentanee, perché è semprenecessario riattivare il processo per nuove scoperte. Naturalmente non si può vivere solo didubbio: la vita sarebbe molto faticosa. Convivere con il dubbio è possibile se ne vediamol'utilità e se è sostenuto da credenze, valori e comportamenti. Le credenze rispondono alladomanda di vero o falso, i valori sono credenze specifiche che agiscono come principi guida:coraggio, disciplina, rispetto per gli altri, integrità, lealtà. Il dubbio consente all'individuo e algruppo di condividere credenze fondamentali che influenzano comportamenti e decisioni (siveda Aparo U.L. e Aparo A., 2001). Educhiamo i nostri studenti a conoscere e utilizzare iprotocolli, linee guida presenti nelle organizzazioni: questo servirà a eliminare dubbi sucomportamenti e scelte. Eliminare, però, il dubbio serve a far funzionare le persone, non afarle pensare. È importante coltivare il dubbio, il dubbio come metodo, il dubbio comenecessità di fronte a situazioni che non padroneggiamo o di fronte a questioni etiche.

E infine, non si deve temere l'errore e nemmeno amarlo, sicuramente bisogna gestirlo.Semplicemente non si deve averne paura, così da riuscire a contenere il disagio che,inevitabilmente, crea a ogni persona impegnata in un qualsiasi tipo di cammino diconoscenza. Solamente assunta questa prospettiva, potremo trarre da esso tutto il beneficioche può offrire.

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6. Bibliografia

Aparo U.L., Aparo A. (2001), Alla ricerca del dubbio perduto, 37 Congresso NazionaleANMDO, Gestire il futuro in sanità.

Beck U. (2000), La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, Carocci.

Binanti L. (2005), Sbagliando s'impara. Una rivalutazione dell'errore, Roma, ArmandoEditore.

Di Renzo R., Bellamio D.(2011), "Mappe per un viaggio di formazione", in Di Renzo R.,Scandella O., (a cura di) Pratiche in viaggio. La tutorship nella sanità in Italia e in Europa,edito da Azienda USL di Bologna

Giddens A. (1994), Le conseguenze della modernità, Bologna, Il Mulino.

Lave J., Wenger E. (2006), L'apprendimento situato, Trento, Erickson.

Luhmann N. (1996), Sociologia del rischio, Milano, Bruno Mondadori.

Mortari L. (2003), Apprendere dall'esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione, Roma,Carocci.

Murri A. (1972), Quattro lezioni e una perizia, Bologna, Zanichelli Editore.

Schön D.A. (1993), Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della praticaprofessionale, Bari, Dedalo.

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INTERVISTA ALLA DOTTORESSA FRANCESCA PASINELLI

DIRETTORE GENERALE DI TELETHON1

a cura di Daria Marinangeli, Roberto Pezzoni e Giovanni Gaetano Reale

Premessa

Abbiamo proposto alla Dr.ssa Pasinelli, Direttore Generale della Fondazione Telethon(Ente senza scopo di lucro riconosciuto dal Ministero dell'Università e della RicercaScientifica e Tecnologica), un'intervista sul tema della gestione degli effetti indesiderati(termine con il quale noi curatori designiamo errori, eventi negativi, opportunità perse,risultati insoddisfacenti nelle organizzazioni).

Ci è parso interessante conoscere e comprendere come vengono gestiti gli errori, comesi apprende dagli eventi negativi, come si superano i risultati non soddisfacenti, se èpresente la cultura della colpevolizzazione delle persone nel contesto di un'organizzazionecome Telethon, che si distingue per l'eccellenza e l'internazionalizzazione della ricercascientifica, e per il fatto di rappresentare un modello organizzativo evoluto nel mondo del nonprofit.

Ci parli in generale di Telethon e della sua struttura«Indubbiamente la Fondazione Telethon può essere vista come un'azienda a tutti gli effetti,se non addirittura come una public company: oltre ad avere un consiglio di amministrazione,organi di controllo di consulenza, pur non avendone l'obbligo, aderiamo alla Legge 231 per laDisciplina delle persone giuridiche e pubblichiamo regolarmente il bilancio. Un bilancio chenon concepiamo, come spesso accade nel mondo non profit, come la semplicedimostrazione su carta che "spendiamo tanto quanto raccogliamo". Piuttosto è il rendicontodel nostro operato nei confronti di pazienti e donatori, che rappresentano, di fatto, i nostriprincipali azionisti. Il nostro bilancio descrive come cerchiamo di massimizzare la quantità didenaro che investiamo in programmi di ricerca, ma anche come tendiamo a un profitto di tipoqualitativo. Non ci basta cioè finanziare dell'ottima ricerca: di per sé questa è un'operazionemeritoria, ma non è ciò che promettiamo all'investitore nel momento in cui gli chiediamo deldenaro, ovvero fare del nostro meglio per trovare una cura alle malattie genetiche. Non

1 Intervista effettuata a Milano, il 9 luglio 2015.

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possiamo promettere la cura, perché quando si fa ricerca non si può in alcun modo garantireal 100% di raggiungere i risultati auspicati: quello che possiamo promettere è di mettere incampo le migliori competenze disponibili per perseguire l'obiettivo. Non solo: se la nostramissione è far avanzare la ricerca verso la cura delle malattie genetiche, la visione è direnderne fruibili i risultati ai pazienti di oggi e di domani, anche grazie al coinvolgimento diindustrie farmaceutiche. In questo scenario, tutte le attività della Fondazione (risorse umane,raccolta fondi, amministrazione finanza e controllo) sono gestite proprio come in un'aziendamultinazionale, per quanto il sistema di valori ispirante sia diverso. Dal mio punto di vista,uno dei grandi errori del non profit è di sentirsi legittimato dalle "buone intenzioni": chi l'hadetto che nel non profit non bisogna controllare le ore di lavoro, pretendere competenzespecifiche e valutare in modo stringente le performance? Noi cerchiamo di farlo con lo stessorigore con cui viene speso il denaro che ci viene affidato dai donatori».

Qui emerge il rischio di un possibile errore…«Esatto uno degli errori più comuni fatti in passato è stato sottovalutare questo aspetto nelreclutamento del personale: non è vero che in un'organizzazione come la nostra si lavorameno, anzi. Può capitare di dover lavorare nel fine settimana, quando si organizza buonaparte della raccolta fondi: ecco allora che può capitare di dover passare la domenica a unapartita in una città di provincia dove la comunità è molto generosa e ricca ed è importanteesserci per gratificarla.Più in generale, per quanto ormai il nostro sistema di reclutamento del personale si basi suprocedure stringenti, che prevedono una valutazione di competenze sia tecniche siamanageriali e coinvolgono diversi livelli organizzativi nella scelta, non nascondo che abbiamofatto anche degli errori, essenzialmente perché abbiamo sottovalutato aspetti importanti.Anche nel caso del finanziamento della ricerca scientifica accade talvolta di constatare diaver finanziato progetti che non lo meritavano. Tuttavia, nell'ambito del nostro processo divalutazione, mutuato peraltro dai modelli anglosassoni, la possibilità di errore è prevista findall'inizio: il sistema è quindi costruito prevedendo tutte le azioni e le correzioni in grado diminimizzare l'errore, ma sempre nella consapevolezza che non lo si può azzerare. Quelloche invece caratterizza molti concorsi dell'accademia italiana, e che produce anche storturegravissime, è la pretesa di giudicare la bontà di una ricerca o di una carriera scientifica senzacommettere errori e all'insegna dell'assoluta oggettività: praticamente impossibile se avalutare è un essere umano».

Chi sono i ricercatori che valutano i progetti?«La nostra Commissione medico-scientifica è costituita da 30-35 persone, che perlopiù nonlavorano in Italia, sempre per minimizzare il rischio di un conflitto di interesse. Questo nonper esterofilia, ma semplicemente perché l'Italia è un paese piccolo ed è difficile pensare difinanziare i ricercatori più bravi e averne contemporaneamente di altrettanto validi incommissione. Per questo li scegliamo fuori, ma ne manteniamo un paio attivi in Italia perchépossano far presente agli altri le specificità del contesto nostrano. Tuttavia, per quantocompetenti, questo gruppo di ricercatori non può coprire tutto il panorama delle conoscenze:è per questo che, grazie al lavoro dei program manager, individuiamo ulteriori revisori esternia cui chiediamo di mandare una relazione scritta sul progetto che si aggiunge così al giudiziodei membri della Commissione. A oggi abbiamo contattato circa 8500 revisori in giro per ilmondo».

Può spiegarci come, nel vostro sistema, vengono minimizzati gli errori?«Il primo elemento è un bando scritto in modo chiaro, che espliciti in modo inequivocabileche cosa ci si attende dai ricercatori, nonché le modalità e le regole con cui i progetti di

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ricerca saranno valutati. Altro elemento importante è una squadra di persone esperte dellamateria che possano valutare i progetti, i cosiddetti peer: scienziati ancora attivi che lavorinoprevalentemente all'estero, realmente esperti di quello specifico settore e privi di evidenticonflitti di interesse (in accordo, per esempio, con regole da noi stabilite sui rapportiprofessionali e personali tra valutatore e valutato). Riguardo invece all'assegnazione deiprogetti ai valutatori, va affidata a un'agenzia di finanziamento che faccia da intermediario enon, come spesso accade nei programmi di valutazione italiani, chiedendo ai revisori di unalista stilata in precedenza quali progetti vogliono valutare. Questo mette seriamente a rischioil processo, perché la scelta di un revisore di un progetto può dipendere dal fatto che ilvalutato è un suo amico (o un suo nemico), oppure dall'interesse a voler acquisireinformazioni sul suo lavoro.È per questo che in Telethon abbiamo una squadra di program manager che sono tutti ex-ricercatori e lavorano con i nostri advisor esterni per scrivere il bando, curarne la parteamministrativa e, soprattutto, assegnare i progetti ai revisori adeguati. In questo modo sisepara davvero il valutato dal valutatore e, ancora una volta, si riduce ulteriormente ilmargine di errore.Inoltre, ciascun progetto viene esaminato non da uno, ma da almeno tre valutatori diversi,che inizialmente esaminano il progetto a casa loro, ma poi sono chiamati a discuterloinsieme a tutti gli altri in una riunione plenaria che organizziamo presso la nostra sede: se cilimitassimo a fare la media dei voti non saremmo infatti in grado di "intercettare" eventualistorture dovute per esempio al fatto che un revisore non è del tutto preparato o ha unconflitto di interesse. La discussione, moderata da un chairman e registrata, prevede checiascun progetto sia presentato a tutti dai revisori che lo hanno esaminato a casa, chepossono anche essere in disaccordo sul giudizio: ciascuno è invitato a esporre agli altri leproprie argomentazioni nell'ottica di arrivare al consenso. Ricordiamoci che una discussionefaccia a faccia tra pari scoraggia eventuali posizioni "disoneste", perché la reputazione incontesti come questi è molto preziosa.Una volta fatta la media dei voti dei tre revisori, tutti gli altri sono chiamati a esprimersi a lorovolta: questo permette di annullare le possibili distorsioni nel caso in cui non si sia generato ilconsenso e i voti dei revisori rimangano distanti. Se anche tra gli altri rileviamo un voto moltodistante da quello medio chiediamo a chi lo ha espresso di motivarlo davanti a tutti. Leposizioni molto divergenti sono legittime, ma devono essere motivate, sempre, perminimizzare il rischio di errore».

Come comunicate ai ricercatori l'esito del processo di valutazione?«Ciascun ricercatore il cui progetto sia stato discusso nella plenaria riceve un documentoche contiene una premessa uguale per tutti con le informazioni generali (totale delle richiestedi finanziamento pervenute, numero delle proposte escluse per ragioni amministrative, totaledei revisori contattati, tasso di successo), più un focus specifico sul progetto (riassuntodell'eventuale discussione, commenti di ciascun revisore precedentemente resi anonimi,posizione ottenuta dal progetto nella classifica finale). Questo feedback così completo puòcertamente suscitare qualche critica da parte dei ricercatori, ma sempre in modo costruttivoe, soprattutto, li aiuta nel ripresentare il proprio progetto l'anno successivo in caso dimancato finanziamento. Questo accade abbastanza spesso, perché i suggerimenti ricevuti sirivelano utili per migliorare la proposta. Un'ulteriore conferma del valore di questo processo èla certificazione di qualità secondo la ISO 9001».

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Torniamo ai progetti che, a posteriori, avreste fatto meglio a non finanziare: avete inqualche modo fatto tesoro di questa erronea valutazione e adottato delle correzioni?«In questo senso, una delle cose più importanti che abbiamo compreso analizzando i nostriinvestimenti sbagliati è stata la necessità, a un certo punto, di coinvolgere l'industria. Ilprocesso che porta dalla malattia alla possibile cura implica inizialmente molta ricerca dibase, che permette di indagare i meccanismi alla base della patologia ma che può appariremolto lontana dal paziente. Per questo abbiamo iniziato a chiedere ai ricercatori uno sforzonell'identificare il possibile impatto futuro dei loro progetti, perché per quanto sacrosanta siala libertà di ricerca non possiamo perdere di vista la nostra missione. Alla ricerca di basesegue quella pre-clinica, che precede la prova sull'uomo e può essere definita traslazionalein quanto lascia intravedere un ambito applicativo: in questo ambito, oltre a generareconoscenza si studia una potenziale terapia su un opportuno modello animale. Quando poiuna terapia dovesse dimostrarsi efficace e sicura nel modello animale di riferimento, si arrivaalla ricerca clinica, che prevede la sperimentazione nell'uomo.Nel 2009 ci siamo ritrovati di fronte a un bivio: disponevamo di una terapia efficace per unararissima malattia ma non sapevamo come renderla disponibile a tutti. Si trattava inparticolare della terapia genica per una grave e rara immunodeficienza di origine genetica,che rende i bambini affetti estremamente vulnerabili anche nel caso di infezioni banali comel'influenza. La terapia genica messa a punto in uno dei nostri istituti si era dimostrata efficacee sicura già in dieci bambini. A quel punto, il progetto di ricerca si era concluso positivamentee Telethon, in teoria, aveva esaurito il proprio compito. Ma cosa dire agli altri pazienti giuntialla nostra attenzione? Trattarli sarebbe stato doveroso, ma dove trovare le risorse senzasottrarre fondi a tutto il resto, compresi altri progetti di ricerca clinica? Le tradizionali attività diraccolta fondi non sarebbero bastate, non solo per la sopraggiunta crisi economica. Cosìsiamo andati a bussare alla porta di una grande industria farmaceutica, offrendo loroun'opportunità: una terapia bella e sviluppata con competenze dallo standard elevato, cheavrebbe permesso di curare una tantum bambini privi di altre opportunità. Ma che soprattuttoavrebbe permesso all'industria di disporre di una tecnologia innovativa e competitivaapplicabile non solo ad altre malattie genetiche (erano già sei allora le altre malattie studiatenel nostro istituto), ma anche in futuro a patologie ben più diffuse come i tumori.Nel 2010 abbiamo così siglato un accordo che definirei storico: l'azienda ha preso in licenzala terapia e ha fatto l'investimento produttivo necessario per farla diventare un farmaco. Nelmaggio del 2015 ha presentato all'Agenzia europea del farmaco il dossier di registrazione econtiamo che entro la prossima estate questa terapia possa diventare fruibile dai pazienti ditutto il mondo. Parallelamente, i fondi che l'azienda ci ha dato per l'esercizio della licenza diquesta terapia sono stati investiti in altri programmi di ricerca clinica e, secondo l'accordo,l'azienda potrà ulteriormente esercitare l'opzione di licenza in caso di risultati positivi. Ilcontratto prevede comunque che, qualora per ragioni strategiche di vario tipo l'industriadecidesse di ritirarsi e non sviluppare più quella terapia, Telethon ritornerebbe in possesso diquanto sviluppato fino a quel momento. In questo modo non verrebbe vanificato alcuninvestimento ma soprattutto siamo riusciti a rendere sostenibile anche per noi una ricercacostosa come quella clinica».

Cos'è successo poi?«Da allora abbiamo fatto altri accordi di questo tipo, con grosse multinazionali americane. Èchiaro che alleanze di questo genere espongono a un rischio reputazionale altissimo,soprattutto in un paese un po' ideologico come l'Italia. Abbiamo però deciso di assumerciquesto rischio, spiegando in modo trasparente le ragioni del nostro operato: per mantenerefino in fondo la promessa della cura nei confronti dei pazienti dobbiamo assicurarci che leterapie eventualmente sviluppate grazie alla ricerca da noi finanziata siano concretamente

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prodotte e distribuite continuativamente nel mondo. Questo, fino a prova contraria è ilmestiere dell'industria farmaceutica, non di una charity come noi. Ad ogni modo, pur avendoprevisto nei dettagli la gestione di questo potenziale rischio reputazionale, non abbiamo maiavuto problemi in questo senso, anche perché la comunità dei pazienti è dalla nostra parte.È innegabile che le malattie rare non siano particolarmente interessanti per l'industriafarmaceutica. Però noi abbiamo dimostrato che prendendoci carico di un pezzo di percorsocon standard di grado industriale si può attirare il loro interesse: non solo hanno un risultatoche non devono replicare, ma possono farlo proprio con investimento contenuto e accederecosì a tecnologie molto competitive, nonché rispondere a logiche di responsabilità sociale diimpresa.Un altro aspetto da considerare è che questi sono soldi industriali stranieri che vengonoinvestiti in ricerca accademica italiana: un esempio su tutti in questo senso è l'investimento di17 milioni di euro fatto da un'azienda americana nel nostro Istituto di Pozzuoli, vero fioreall'occhiello della ricerca del Sud».

Tornado invece ai dipendenti di Telethon, che rapporto hanno secondo lei conl'errore?«Negli ultimi anni abbiamo lavorato molto sulla condivisione e il confronto, grazie al lavoro digruppo, al ricorso a consulenze esterne, corsi di formazione e di coaching, oltre allacreazione di un comitato esecutivo formato da me con i miei primi riporti.È chiaro a tutti che l'errore è sempre possibile, ma bisogna lavorare insieme per controllarloe correggerlo. Adesso questa visione è diffusa almeno fino alla mia seconda linea di riporto,ma non sempre fino a tutti i loro collaboratori. La fatica maggiore è stata nell'ottenere unalinea di secondi riporti omogenea, che si assumesse la sua quota di responsabilitàmanageriale e non si limitasse a dire: "Il Telethon ci deve dire cosa dobbiamo fare".Adesso questa linea di pensiero è molto molto solida e si sta diffondendo in manieracapillare, però non è sempre e completamente condivisa. Per esempio stiamo cercando diderubricare la cultura del "non l'ho fatto apposta": questo tipo di errori sottendono spessol'essere approssimativi e la mancanza di proattività. Questa secondo me resta la principalefonte di errore ed è l'aspetto su cui stiamo lavorando di più, perché tutti tendano almiglioramento continuo e, di conseguenza, alla minimizzazione dell'errore. La nostrareputazione è di fondamentale importanza, sia che interagiamo con i donatori che con iricercatori che finanziamo. Non possiamo permetterci, per esempio, di scrivere una lettera diringraziamento con refusi, oppure di dare un feedback incompleto o approssimativo a unoscienziato. Nessuno è un passacarte neutro, tutti hanno la responsabilità di garantirel'immagine dell'ente per cui lavorano. Qualunque errore va a danno dell'organizzazione enon del premio che un dipendente può percepire o meno. Cerchiamo di alzare sempre unpochino l'asticella».

Capita in Telethon che le persone scarichino le responsabilità sugli altri?«Questo può sempre accadere, però esistono degli strumenti per promuovere l'assunzione diresponsabilità da parte del singolo, come per esempio il sistema degli obiettivi individuali. Nelcorso dell'anno facciamo colloqui individuali in cui le persone sono chiamate a rendere contodi quello che hanno fatto. Chiaramente è parte del lavoro del capo intercettare, anche incorso d'opera, eventuali mancanze in questo senso, quando il presidio dell'attività è venuto amancare. Il capo deve essere un mentore continuo: questo me lo ha insegnato proprio ilmondo della ricerca. Personalmente mi ritengo molto fortunata perché ho avuto dei grandimaestri, nel lavoro e nella vita. Spesso mi trovo a volte a fare tributi silenziosi a chi mi hainsegnato una cosa, nel momento in cui la faccio e mi soddisfa, perché ho sempre in mentequale è stato il momento e la persona che mi ha insegnato come farla.

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Nell'ambito dei programmi di ricerca scientifica stiamo investendo molto sul mentoring, peresempio nei confronti di ricercatori che abbiano finito il post-dottorato e a cui affidiamo unlaboratorio: a loro chiediamo di scegliere un mentore, a cui noi diamo indicazioni secondo unprogramma strutturato. Questo permette di minimizzare l'errore nel cambiamento di ruolo edi acquisire le necessarie capacità manageriali senza le quali non si può portare avanti finoin fondo l'attività di ricerca per quanto brillante nei contenuti».

Qual è il suo rapporto con l'apprendimento dall'esperienza?«Il mio modo di ragionare e apprendere è sempre stato molto empirico: parto sempredall'esperienza per elaborare una teoria. Quando sono arrivata a Telethon, però, credevoche il mio compito fosse finanziare ricerca scientifica, grazie a un modello di revisioneefficiente. L'esperienza che per me è stata la vera lezione di vita è stata il contatto con imalati: sono loro ad avermi fatto capire che la missione non era quella, nonostante cosìsembrasse quando sono arrivata nell'organizzazione.La governance di fatto era passata in mano agli scienziati che, come tutte le comunitàumane, tendevano a esprimere se stessi. Per questo credo che il più grosso lavoro che hofatto non sia stato tanto mettere a punto un sistema di valutazione così stringente, mareinquadrare il ruolo della charity rispetto ai pazienti: non c'è niente che equivalga a parlarecon queste persone per capire quanto urgente sia la loro istanza. Lo sforzo consiste nelcreare una triangolazione efficace tra i nostri principali stakeholder: i pazienti, i ricercatori e idonatori. Cosa non semplice, perché se è vero che la cura è il nostro obiettivo finale, alcontempo non possiamo accorciare il percorso della ricerca, che ha regole rigorose e tempilunghi, spesso troppo lunghi per i pazienti di oggi: l'accettazione di questo passa attraversoun percorso condiviso di empowerment. Ecco perché i pazienti sono stati la vera esperienzaper me, quella che mi ha davvero insegnato il mio mestiere».

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RECENSIONI

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RECENSIONE DI

COUNSELING ORGANIZZATIVO – UN APPROCCIO INDIVIDUALE EDI GRUPPO, DI GRAZIELLA NUGNES

a cura di Cristiana Pauletti

Nel suo libro Graziella Nugnes illustra il metodo somatorelazione come modalità diconduzione delle attività di counseling organizzativo, sia con i gruppi che con i singoli.

L'autrice presenta un metodo di lavoro, del tutto originale, che per le sue caratteristichesi configura come un approccio molto innovativo nella conduzione delle attività di counselingorganizzativo. Si tratta di una metodologia di lavoro consulenziale che integra conoscenze,approcci e tecniche diversi, giungendo a una sintesi efficace che consente un lavoro - consingoli e gruppi - che sollecita, insieme, abilità cognitive, consapevolezza emotiva ecorporea.

In questa presentazione cerchiamo di evidenziare gli elementi essenziali del metodo masoprattutto di rilevare gli aspetti che appaiono come molto innovativi e aprono unaprospettiva di attività nuove nelle organizzazioni.

1. Il metodo e i suoi fondamenti

L'autrice dedica molta parte del suo testo alla descrizione del metodo illustrandone, nellaprima parte, i fondamenti teorici derivanti dalle teorie psicologiche, dagli studi organizzativi edalle ricerche sulla formazione degli adulti; alla giustificazione scientifica del metodo segue lasua descrizione - impianto metodologico, processi, tecniche e possibili applicazioni. Nugnesdedica anche un breve capitolo alla presentazione delle competenze del counselorsomatorelazionale.

La terza parte del testo è dedicata alla narrazione delle esperienze concrete, condottedirettamente dall'autrice in ambiti organizzativi diversi – organizzazioni sindacali, cooperativesociali e ambienti educativi. Questa parte, nella quale Nugnes racconta le sue esperienze,consente al lettore di entrare nel vivo delle pratiche, attraverso le parole dei protagonisti.

L'autrice utilizza questo metodo stabilmente dal 2009, con applicazioni in particolare nelterzo settore.

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Come già evidenziato, si tratta di un approccio consulenziale alle organizzazioni cheintegra innanzi tutto metodologie e tecniche attive di lavoro con i gruppi, derivanti dallaformazione degli adulti, ma anche elementi tratti dall'approccio psicologico, in particolarerogersiano. In coerenza con l'approccio operativo derivante dalle teorie psicologiche di KarlRogers al cliente dell'intervento di consulenza, se opportunamente stimolato e sostenuto,sono riconosciuti il potere e la capacità di affrontare l'analisi e la risoluzione delleproblematiche, in questo caso di natura organizzativa.

Come afferma Nugnes, in linea con l'approccio centrato sulla persona, si tratta di unmetodo di lavoro, con i gruppi e i singoli, di natura non prescrittiva ma piuttosto difacilitazione organizzativa.

Inoltre un chiaro contributo psicologico è quello che deriva dall'approccio psicocorporeoe in particolare dalla bioenergetica che trova entro il counseling organizzativosomatorelazionale una collocazione non solo teorica ma anche operativa.

Nel metodo utilizzato dalla counselor è riconoscibile infine un utilizzo marcato delletecniche della comunicazione efficace e della comunicazione non violenta (Rosenberg,2003).

2. La narrazione delle esperienze

È soprattutto attraverso la narrazione delle esperienze che si può cogliere la potenzialitàinnovativa del counseling somatorelazionale.

La grande sfida che questo metodo assume, infatti, è quella di consentire, nei luoghi dilavoro, la manifestazione delle emozioni, di "aiutare le persone ad accettarsi nella lorointerezza" e, passando dal piano cognitivo a quello emotivo e tornando nuovamente al pianocognitivo, analizzare le problematiche del gruppo di lavoro e individuare soluzioni e strategieaccettabili e condivise.

Nelle esperienze narrate l'accettabilità di una soluzione organizzativa - e la sua tenuta -probabilmente risiede nel fatto che, per individuarla, si è passati attraverso la manifestazionedelle emozioni, che pertanto non rimangono nel cono d'ombra, inespresse, operando permettere in crisi l'applicazione concreta della soluzione.

Centrare le emozioni, individuarle anche nelle loro manifestazioni fisiche (tensionimuscolari), aiuta a partecipare alla discussione e al confronto, su tematiche organizzativetalvolta difficili, con la concentrazione su di sé escludendo, il più possibile, giustificazioni eattribuzione di responsabilità su altri o a fattori esterni, di carattere macro – la legislazionesfavorevole, la dirigenza ecc.

Chi opera nelle organizzazioni, con l'incarico di consulente o formatore, sa quanto siafrequente il ricorso a fattori esterni come la manifestazione di senso di sfiducia verso lapossibilità di incidere nel processo di cambiamento. Richiamare, attraverso la focalizzazionesulle emozioni e la pratica bioenergetica, l'attenzione sui singoli diventa un modo perattribuire, a ciascuno, fiducia e responsabilità verso il cambiamento.

Tutte le organizzazioni hanno una loro cultura emozionale, pertanto, in taluni ambienti dilavoro, l'espressione di alcune emozioni può non essere accettata. Le emozioni vannotuttavia considerate come impulso all'agire: ciascuno, attraverso un movimento dall'internoverso l'esterno, attiva questo fondamentale impulso all'azione che si concretizza neicomportamenti individuali (Giannelli, 2006).

Come afferma Goleman (2000) le capacità collegate all'intelligenza emotiva sono insinergia con le capacità cognitive. L'intelligenza emotiva - e le competenze cha fannoriferimento a essa - "facilitano l'uso dell'expertise tecnica e delle capacità cognitive". Unodegli elementi costitutivi dell'intelligenza emotiva è l'empatia che trova ampio spazio nel testo

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di Nugnes, sia come elemento costitutivo dell'approccio metodologico e relazionale delcounselor, sia come dimensione da sollecitare nei partecipanti alle attività di counselingorganizzativo somatorelazionale.

Lowen (1983) afferma che l'empatia, in quanto capacità di sentire gli stati d'animo deglialtri, è una forma di risonanza. Per percepire l'altro è necessario inoltre uscire da unaprospettiva egocentrica, assumere un atteggiamento di sospensione del giudizio per coglierela ricchezza e la diversità che abita l'altro (Giannelli, 2006). Un'autentica comprensionedell'altro necessita inoltre di una disponibilità empatica all'ascolto (Mortari, 2003).

Nelle esperienze che Nugnes narra, l'empatia è esercitata dal counselor, sollecitata efacilitata attraverso uno stile di conduzione che sicuramente possiamo definire autorevole.

L'evoluzione dall'utilizzo di un linguaggio tecnico e professionale - poco adatto arappresentare i vissuti - verso modalità più personali, la limitazione della verbalizzazione afavore di altre forme espressive, l'utilizzo del corpo e del movimento, l'introduzione di regoleprecise per normare la relazione nei gruppi, sono tutte strategie che facilitano laconsapevolezza di sé e l'ascolto attento ed empatico dell'altro.

Viviamo nell'epoca della rivoluzione digitale e la scrittura sempre più spesso sostituiscela comunicazione verbale. Come afferma Luisa Carrada (2007) siamo una text generation,tutti utilizziamo in modo massiccio la scrittura e, nelle organizzazioni in particolare, email, maanche sms e chat, hanno sostituito spesso la comunicazione face to face. Questo tipo discrittura ha trovato un suo modo per introdurre nella comunicazione elementi emotivi; tutti,infatti, facciamo ricorso a simbolizzazioni degli stati d'animo, sottoforma di emoticon, perarricchire il nostro testo e personalizzarlo.

Il lavoro di Nugnes è tanto prezioso quanto invita le persone e i gruppi a uno stilecomunicativo al quale rischiamo di non essere più abituati; uno stile dove dall'immanenza delcorpo non è possibile prescindere. Nell'esperienza condotta con la FIM (sindacatometalmeccanici) di Brescia, ad esempio, sul tema della gestione del tempo e dello stress èstato proposto un metodo di lavoro innovativo a figure professionali poco abituate a tecnichedi consulenza e formazione attiva e a coinvolgimento diretto.

Nel corso delle due giornate residenziali l'approccio al tema dello stress è stato non solocognitivo, ma l'inserimento delle sessioni di pratica bioenergetica ha consentito la vicinanzacon la propria soggettiva sensazione di stress, attraverso l'individuazione e laconsapevolezza corporea delle tensioni muscolari. Ovviamente questo metodo inizialmentepuò generare delle resistenze; non è facile, infatti, per gruppi che hanno consolidato forme dicomunicazione basate esclusivamente sul linguaggio tecnico e su un piano relazionale chespesso esclude la soggettività, per favorire una relazione esclusivamente basata su ruoli efunzioni, mettere in campo il corpo e condividere momenti di consapevolezza corporea edemotiva. Tuttavia, a fine percorso, in merito alla capitalizzazione dei risultati i partecipantidichiarano che, in modo particolare, l'esperienza ha aiutato a fare chiarezza, a comprendereatteggiamenti ed errori personali, ad acquisire una visione diversa della realtà organizzativa.

Le attività di counseling che integrano una dimensione corporea sviluppano neipartecipanti un senso diverso, una visione diversa, integrata, della realtà. Questa visionediversa è spesso la condizione per attivare processi di miglioramento o soluzione deiproblemi. Sono varie e di sicura rilevanza le tematiche che Nugnes affronta nella sua attivitàdi counseling: la motivazione al lavoro, la leadership, la valutazione delle competenze, lacostruzione di profili organizzativi e job description, processi di integrazione di professionalitàdiverse nei servizi socio-educativi.

Il processo di counseling prevede un primo contatto con la committenza per lafocalizzazione delle problematiche e la presentazione del metodo somatorelazionale; nelcorso di questa fase di contatto con la committenza vengono chiarite le modalità di lavoro e ivincoli alla partecipazione dei singoli.

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Quale che sia il tema da affrontare, il metodo somatorelazionale alterna momenti diconfronto e analisi delle problematiche a momenti di concentrazione individuale attraverso lapratica bioenergetica; sempre presente la dimensione della socializzazione ovvero dellacondivisione dei pensieri, delle sensazioni e delle emozioni individuali.

La cura di sé mediante l'attenzione prestata a se stessi (Mortari, 2003) e lasocializzazione sono fasi importanti per attivare l'emersione e la decostruzione di idee ecostrutti, disfunzionali alla soluzione delle problematiche. L'attività di socializzazione è unacondizione necessaria per smontare i costrutti consolidati e avviare la pratica della riflessione(Shon, 1983), fondativa di un possibile cambiamento. Ad esempio, nella trattazione del temadella motivazione, la decostruzione delle idee disfunzionali avviene proprio in virtù delprocesso di socializzazione poiché si scopre che ciò che motiva alcuni può essere motivo didemotivazione per altri. La questione della motivazione assume, nelle esperienze narrate daNugnes, un carattere particolare in quanto, proprio nello spirito del metodo, valorizzando ilcliente, il counselor consolida in lui l'idea che egli possiede le risorse necessarie pergovernare la propria dinamica motivazionale.

Attivare pratiche di riflessione individuale e socializzazione nelle organizzazioni richiedeche il cliente del processo di counseling acquisisca una consapevolezza nuova rispetto alsuo ruolo nel processo: sentirsi coinvolto nell'analisi del problema, percepire la possibilità diaver un ruolo attivo nel processo di counseling, condizionarlo con il proprio atteggiamento ecollaborare con il counselor all'efficacia dell'esperienza (Shon, 1983). Nel percorso condottoda Nugnes, la dinamica motivazionale individuale intreccia inoltre una nuovaconsapevolezza - che possiamo associare al lavoro cooperativo - ovvero il raggiungimento dialcuni obiettivi è condizionato dal proprio impegno e anche da quello degli altri; nei gruppi siacquisisce consapevolezza che l'interdipendenza positiva tra i membri costituisce unacondizione necessaria per il perseguimento delle finalità dell'organizzazione. Anche inquesto caso la focalizzazione è sempre sulla necessità di tenere presenti obiettivi e processidi miglioramento che coinvolgono sempre la dimensione individuale e quella organizzativa.

Il metodo somatorelazionale sostiene le risorse individuali e le competenze, le faesprimere, supporta il processo di focalizzazione, al fine di renderle disponibili per il contestoprofessionale.

Una delle esperienze condotte per la valutazione delle competenze ha adottato la formaintegrata che ha previsto una fase di autovalutazione associata ad una fase dieterovalutazione. Dagli anni settanta del secolo scorso si è iniziato a parlare di competenzenelle organizzazioni. La necessità di fare focus sulle competenze, inizialmente consideratecome caratteristica espressa individualmente (modelli individuali delle competenze), è sortaper la necessità di ottimizzare la collocazione delle risorse umane. Gli studi sullecompetenze si sono sviluppati nella direzione di considerare il contesto come influente sullaprestazione individuale, pertanto la competenza come il risultato dell'interazione tra elementiindividuali e stimoli proventi dall'organizzazione.

Nugnes ha proposto in questo caso una modalità difficile che può presentare parecchieinsidie; se non è facile infatti condurre una valutazione della propria prestazioneprofessionale - focalizzare i propri punti di forza e punti di debolezza, riconoscere gap dicompetenza o capacità da implementare - è particolarmente difficile accettare che altriconducano questa analisi. L'eterovalutazione tra pari è una competenza organizzativaimportante ma molto complessa da raggiungere.

La narrazione, in termini professionali, che l'altro fa di me e delle mie caratteristiche sullavoro arricchisce, mette in circolo energie nuove e motivazione al lavoro di squadra. Inquesta esperienza i partecipanti riconoscono che lo stile di conduzione ha sicuramentefavorito il raggiungimento degli obiettivi ed evitato pericolose derive o addirittura il caos.

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Nelle esperienze che abbiamo, in modo sommario, richiamato, la pratica bioenergeticaviene inserita allo scopo di acquisire energia, percepire un più saldo radicamento esperimentare maggiore apertura. Non è mai fine a se stessa o collocata a fine di giornata,come viatico o forma di rilassamento. È uno snodo rilevante prima di affrontare progetti dimiglioramento o individuare strategie. Si tratta di un continuo movimento – interno /esterno –una danza che porta ad alternare la messa in comune e la socializzazione a un ripiegamentosu di sé, per trarre energia, per ritornare, con nuova consapevolezza e disponibilità, alconfronto con gli altri.

Questa alternanza di interno e esterno risulta particolarmente significativa nelleesperienze condotte in contesti socio assistenziali ed educativi; contesti nei quali il recuperodelle energie è vitale per prendersi cura degli utenti con efficacia. Il metodosomatorelazionale costituisce, in questo caso, uno spazio necessario di "ricomposizionedell'esperienza" e integrazione delle professionalità. In contesti dedicati al lavoro di cura(assistenziale e educativo) è necessario infatti che ruoli diversi si integrino efficacemente, siriconoscano e si rispettino.

Nelle esperienze condotte da Nugnes in questi ambiti, il processo di counselingsomatorelazionale ha favorito la decostruzione dei costrutti rigidi e delle percezioniintersoggettive disfunzionali per favorire un'efficace integrazione delle professionalità.

3. Conclusioni

A conclusione di questa presentazione possiamo porre l'accento - come del resto faNugnes nel capitolo conclusivo del suo libro – su alcuni elementi ricorrenti nelle esperienzedi applicazione del metodo che possono essere rilevati come elementi che favoriscono iprocessi di miglioramento organizzativo.

Un primo elemento è sicuramente l'avanzamento individuale, in termini di apprendimentoe di consapevolezza, e la sua ricaduta sui cambiamenti organizzativi. Non esiste unautomatismo tra avanzamento individuale e apprendimento organizzativo ma sicuramentecollaboratori più consapevoli di sé e del proprio comportamento professionale possonoessere più aperti verso gli altri e più attrezzati nell'analizzare le problematiche del contestoprofessionale in cui operano.

La partecipazione attiva individuale e la valorizzazione di ciascuno sostiene l'autostimaattraverso processi che favoriscono nei singoli il senso di autoefficacia. Il lavoro individuale ei processi di socializzazione in cui il metodo si articola favoriscono inoltre l'emersione delledifferenze all'interno dei gruppi di lavoro; l'emersione delle differenze è la condizione primariaperché queste possano essere messe a valore e capitalizzate.

Un ulteriore elemento presente nelle esperienze che Nugnes ha condotto - e cheabbiamo più volte sottolineato - è la riduzione dei modelli rigidi di interpretazione della realtàa favore di una visione delle problematiche non standardizzata, più reale e sistemica.

Infine rimane sempre costante, nel lavoro di Nugnes, un doppio sguardo, che lacounselor sa attuare molto bene nel suo lavoro di conduzione e facilitazione ma chesuggerisce anche ai singoli nei gruppi con cui lavora: porre contemporaneamente attenzionealle prestazioni e alle relazioni. Le une non indipendenti dalle altre ma le due legate in unintreccio da cui è bene non prescindere per mantenere una visione complessa, sistemica ericca del contesto umano e professionale in cui si lavora.

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Graziella Nugnes ha maturato una significativa esperienza nell'ambito delle politiche dellavoro,dell'orientamento, della formazione e della consulenza in organizzazioni profit enon profit, in particolare sui temi della gestione del personale e del comportamentoorganizzativo.La sua formazione - Laurea in Sociologia, specializzazione ad indirizzo psicosociologico,diploma di Counselor presso l'Istituto di Psicologia Somatorelazione di Milano - el'insieme delle esperienze professionali realizzate, hanno permesso a Graziella Nugnesdi elaborare un approccio innovativo ed efficace di intervento nelle organizzazioni: ilcounseling organizzativo somatorelazionale.A queste esperienze affianca da anni colloqui di counseling, che realizza nel suo studioa Brescia, e classi di pratica bioenergetica.Per una descrizione più dettagliata delle esperienze ed attività di Graziella Nugnes sirimanda al sito www.sideris.it

4. Riferimenti bibliografici

Nugnes G. (2015), Counseling organizzativo. Un approccio integrato di gruppo e individuale,Trento, Edizioni Centro Studi Erickson SpA

Carrada L.(2007), Il mestiere di scrivere. Le parole al lavoro, tra carta e web, Milano,Apogeo.

Giannelli M.T.(2006), Comunicare in modo etico, Milano, Raffaello Cortina Editore.

Goleman D. (1998), Working with emotional intelligences, NY, Bantman; trad.it.: Lavorarecon intelligenza emotiva, Milano, Rizzoli, 1998.

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Mortari L. (2003), Apprendere dall'esperienza, Il pensare riflessivo nella formazione, Roma,Carocci Editore.

Rosenberg M. (1998), Nonviolent Communication, Puddle Dancer Press; trad.it.: Le parolesono finestre (oppure muri) – Introduzione alla comunicazione non violenta, Reggio Emilia,Edizioni Esserci, 2003.

Shon D.A. (1983), The Reflexive Practitioner, New York, Basic Book Inc.; trad. it.: Ilprofessionista riflessivo, Bari, Edizioni Dedalo, 1993.

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ANCORA SULLE DONNE NEL MONDO DEL LAVORO

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PROGETTO 50/50

di Virginia Lucchesi, Lorenzo Mugnai e Marta Vagaggini

Il nostro progetto è nato all'interno di un seminario di Psicologia dell'EmpowermentSociale presso l'Università degli Studi di Firenze: si tratta quindi di un lavoro che stainiziando a mettere le prime radici, con l'auspicio che siano abbastanza forti per poter crearequalcosa di solido in futuro. Questa esperienza ci ha dato l'opportunità di metterci in gioco,imparando a gestire e a condurre interviste entrando in contatto con il contesto aziendale elavorativo.

Ovviamente non sempre siamo stati d'accordo sul modo di procedere e anche perquesto il nostro gruppo ha subito dei cambiamenti. Siamo partiti in nove, per poi arrivare adoggi a essere in tre. Questo sta a dimostrare come sia difficoltoso riuscire a gestire ungruppo, anche per coloro che dovrebbero dirigerne i lavori. Fin tanto che l'obiettivo daraggiungere è rimasto prettamente "scolastico" ognuno dei componenti si è dimostratoimpegnato e attivo. Le prime rotture si sono verificate quando è arrivato il momento diprovare a utilizzare ciò che avevamo fatto fino a quel punto, per sganciarci dal contestouniversitario. È stato un processo inevitabile visto anche il numero elevato dei componentiiniziali.

Di seguito esporremo i passi che hanno portato alla nascita del nostro progetto e con cuiintendiamo proseguire apportando costantemente modifiche, grazie anche alla progressivaconoscenza del ruolo della donna con alti livelli di responsabilità nel contesto lavorativo.Come già accennato in precedenza sono i nostri primi passi e speriamo che possano servircida spunto per poter ampliare la nostra rete e per poter fare ricerca e formazione.

1. Introduzione

Per secoli la donna ha dovuto lottare all'interno di una società fatta su misura per gliuomini. Ha cercato di conquistarsi passo dopo passo la sua libertà e indipendenza:purtroppo però il percorso da compiere è ancora lungo.

Nonostante i piccoli passi avanti che l'Italia sta cercando di compiere verso la parità digenere, continuiamo ad occupare uno degli ultimi posti in classifica del World EconomicForum (WEF) tra i paesi industrializzati. Dal 2006 il WEF pubblica una ricerca che quantificala disparità di genere presente in vari paesi del mondo: si tratta del Global Gender GapReport, ovvero il rapporto che permette di effettuare confronti tra diversi paesi in base aquattro criteri: l'economia, considerando la differenza tra salari, leadership e partecipazione;la salute, come l'aspettativa di vita e il rapporto tra sessi alla nascita; l'accesso all'istruzione

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elementare e superiore; ed infine la rappresentanza politica1. La presa visione di questi datiha dato avvio al nostro progetto, portando l'attenzione sulle differenze di genere presenti nelmondo del lavoro.

Inoltre, il nostro lavoro è stato ispirato dalla lettura di "Lean in: Women, Work, and theWill to Lead" nel quale Sheryl Sandberg, Direttore Operativo di Facebook, racconta di comele donne debbano lottare maggiormente per raggiungere livelli di carriera più alti, anche negliaspetti quotidiani, come ad esempio l'assenza di un parcheggio riservato vicino al luogo dilavoro per donne in attesa. Abbiamo anche voluto considerare il livello di empowermentpresente nelle donne, il quale si presume le abbia facilitate nel raggiungere livelli più elevatidi responsabilità. Con empowerment si intende appunto quel processo di crescita, sianell'individuo che nel gruppo, in base al quale avviene un incremento della stima di sé,dell'autoefficacia e dell'autodeterminazione. Questo permette all'individuo di far emergere lesue risorse latenti e di prendere consapevolezza del proprio potenziale. Tale processo fa sìche vi sia un rovesciamento nella percezione dei propri limiti, con l'obiettivo di raggiungererisultati superiori alle proprie aspettative.

Prendendo in considerazione la classifica generale del World Gender Gap, si evidenziacome nessun paese abbia raggiunto completamente la parità tra generi. All'interno deiquattro criteri presi in considerazione, le differenze sono ancora molto forti in favore delgenere maschile, in particolare per quanto riguarda il settore dell'economia, del mercato dellavoro e della distribuzione della ricchezza. I miglioramenti che si stanno verificando sonoancora piuttosto lenti: si calcola infatti che di questo passo ci vorranno approssimativamentepiù di 80 anni affinché vi sia una vera e propria parità tra generi all'interno del settorelavorativo. Le prime posizioni della classifica sono mantenute da paesi del nord Europacome Islanda, Finlandia, Norvegia, Svezia e Danimarca, i quali hanno ridotto la disparità peroltre l'80%. L'Italia nel 2014 si è classificata al 69° posto su 142 paesi presi inconsiderazione. Uno degli indici più bassi registrati, per quanto riguarda l'ambito economico,prende in considerazione la partecipazione delle donne nel mondo del lavoro e laretribuzione a parità di mansioni. Ci chiediamo quindi: le differenze di genere tra paesipotrebbero essere spiegate prendendo in considerazione la dimensione socio-culturale deipaesi stessi?

Geert Hofstede, psicologo sociale e antropologo olandese, si è occupato dello studiodelle interazioni tra culture. Uno dei suoi maggiori contributi è la teoria delle dimensioniculturali, la quale fornisce uno schema sistematico per stabilire le differenze tra le diversenazioni e culture. In base a questa teoria si pensa che un valore debba essere inseritoall'interno di un sistema a sei dimensioni. Le sei dimensioni a cui si riferisce sono: il potere, ilcollettivismo o l'individualismo del paese, il rifiuto di fronte all'incertezza, l'orientamentotemporale, l'indulgenza in opposizione al controllo e la "mascolinità" o la "femminilità" dellanazione.

Per il nostro progetto ci siamo concentrati su quest'ultimo punto che consiste nelladistribuzione di norme emotive tra i sessi: si riferisce, più in particolare, a quanto unadeterminata società dà importanza ai valori maschili stereotipati quali assertività, ambizione,potere e materialismo, o ai valori femminili stereotipati come la capacità maggiore di gestirele risorse umane. Geert Hofstede nel 4° capitolo del libro "Cultures and organizations:software of the mind" (2010) utilizza il termine "maschio" e "femmina" per riferirsi alledifferenze biologiche presenti tra i sessi, mentre usa i termini "maschile" e "femminile" per

1 Per una disamina su come è costruito l'indica globale di disuguaglianza di genere, ved., su questarivista, Mattalucci L. (2015), "Global Gender Gap Report e valutazione delle politiche di genere", inDonne e lavoro. Esperienze, punti di vista, testimonianze, Numero monografico.

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riferirsi ai ruoli sociali culturalmente determinati. In base a questo punto di vista, quindi, se unuomo si comporta in modo "femminile" significa che si allontana da alcune convenzionivigenti nella sua società. I comportamenti considerati maschili o femminili non sono presentisoltanto in quelle società considerate come tradizionali ma anche in quelle moderne2.

Infatti nel suo testo Hofstede illustra alcune dimensioni della società con culturetipicamente mascoline e femminili. Al polo maschile sono attribuite le dimensionidell'earnings, ovvero dell'opportunità di guadagni elevati; della recognition, cioè ilriconoscimento meritato quando è stato fatto un buon lavoro; dell'advancement ovverol'opportunità di avanzamento verso un livello lavorativo più elevato ed infine della challengecioè avere un lavoro sfidante, che spinga a dare sempre di più e che permetta di sentirsirealizzati. Per quanto riguarda il polo della femminilità le dimensioni sono manager, cioè lacapacità di avere una buona relazione di lavoro con i propri superiori; la cooperation, ovveroessere in grado di lavorare con altre persone che cooperano le une con le altre; la living areacioè vivere in un luogo desiderabile per sé e per la propria famiglia ed infine l'employmentsecurity cioè avere la possibilità di lavorare in una organizzazione per tutto il tempo che sivuole.

In base a tutte queste informazioni si può affermare che la mascolinità si riferisce allesocietà in cui i ruoli di genere sono chiaramente definiti, mentre la femminilità si ritrova inquelle società nelle quali i ruoli di genere si sovrappongono. Partendo da questopresupposto Hofstede afferma che, tenendo conto dei valori di chi esercita una dataprofessione, si può parlare di professioni più maschili e di professioni più femminili. In base atale ragionamento, in genere, le occupazioni maschili sono svolte da coloro che hanno "valorimaschili", mentre quelle femminili da coloro che hanno "valori femminili".

L'Italia rimane uno dei paesi con le più alte differenze di genere a svantaggio dellapopolazione femminile e anche nel caso in cui le giovani donne riescano a trovareun'occupazione, spesso si trovano in posizioni meno qualificate e difficilmente riescono araggiungere posizioni di vertice, con forti disparità anche nelle retribuzioni. In Italia le donnetendono a scegliere la famiglia a discapito del lavoro a causa spesso delle mancanzestrutturali del nostro Paese. La maternità continua a essere infatti il fattore primario chedetermina l'abbandono del lavoro o ancora peggio il licenziamento. Tuttavia, anche quandole donne decidono e hanno la possibilità di mantenere la propria occupazione, devonospendere parte del loro tempo nella cura della famiglia e della casa rispetto al tempo che videdicano gli uomini. Occorre tenere presente tuttavia che l'inattività delle donne non è dovutasoltanto alla carenza di servizi che possono facilitare la conciliazione di lavoro e famiglia.Infatti si tratta di una scelta più o meno volontaria dovuta a fattori culturali uniti ai bassi livellisalariali, che non rendono conveniente delegare la cura dei bambini e della casa a struttureprivate, spesso molto care.

2 Pensando alla nostra cultura è più facile immaginarsi una donna maestra e un uomo ingegnerepiuttosto che il contrario. Inoltre in molte società c’è una tendenza comune nella distribuzione dei ruolisociali sessuali cioè i ruoli di genere. Secondo questi ruoli gli uomini sarebbero più assertivi,competitivi, duri e maggiormente interessati alle faccende extradomestiche; al contrario le donnesarebbero più "tenere" e maggiormente portate a prendersi cura della casa, dei figli e delle persone ingenerale. In questo modo i successi raggiunti dagli uomini rafforzerebbero l’assertività e lacompetitività, mentre le cure femminili l’attitudine alle relazioni e all’ambiente di vita. Possiamo direche la società, la cultura e la famiglia esercitano un ruolo importante nelle attitudini e neicomportamenti delle ragazze sin dai primi anni di vita. Difficilmente vedremo regalare a un bambinouna bambola, cosa che invece risulta molto più facile se a dover ricevere il regalo è una bambina.

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2. Ipotesi di ricerca

In base all'analisi della letteratura sopra messa in evidenza, abbiamo messo a punto lenostre ipotesi di ricerca. Ci siamo chiesti:

1- quali fossero state le capacità personali che hanno favorito alcune donne araggiungere elevati livelli di responsabilità all'interno dell'azienda;2- quale fosse la visione della donna su se stessa nel contesto lavorativo;3- quale fosse la visione dell'azienda da parte della donna;4- come (l'intervistata) pensa di essere percepita da parte dell'azienda.

In base al primo punto ci interessava andare a verificare se vi fossero dellecaratteristiche comuni in coloro che sono riuscite a raggiungere un ruolo importanteall'interno del contesto lavorativo, per aiutarci a capire se tali caratteristiche possano esserepotenziate al fine di aiutare anche altre donne a portare avanti il proprio percorso di carriera.

Per quanto riguarda il secondo punto, ciò che volevamo mettere in luce era capire se ilfatto di possedere una visione di sé positiva e capace avesse favorito la possibilità delladonna di farsi strada nel contesto lavorativo e quanto, riferendoci al terzo e quarto puntodell'ipotesi di ricerca, il contesto lavorativo più o meno "femminile", nei termini enunciati daHofstede, abbia giocato un ruolo di catalizzatore per queste donne.

Il nostro campione è composto da 21 dirigenti di aziende; 14 aziende private, 5pubbliche, 2 cooperative sociali. Tra i partecipanti 13 sono donne e 8 uomini, questo permettere a confronto le eventuali similitudini o differenze tra essere donna o uomo con un'altaresponsabilità nel contesto lavorativo.

3. Strumento

Visti i presupposti abbiamo creato uno strumento che ci ha permesso di indagare tutti ipunti sopra elencati, in modo da essere usato sia con donne sia con uomini. Non abbiamochiesto direttamente se fosse presente o meno nel contesto lavorativo la percezione di unadifferenza legata al genere per evitare di influenzare i partecipanti, in particolare le donne,riguardo a questo fattore. Abbiamo creato un'intervista semi-strutturata, che ci ha dato mododi seguire una traccia uguale per tutti i partecipanti e con la possibilità, se necessario, diapprofondire con ulteriori domande. Di seguito presentiamo lo strumento.

- In cosa consiste il suo lavoro?- Quali sono le sue responsabilità?- Quanto tempo impiega per recarsi al lavoro?- Con che mezzi si muove?- A casa ha qualcuno di cui si occupa?- Quanto tempo occupa il lavoro nella sua vita?- Lascia del tempo per fare altro?- Quando ha iniziato a lavorare nell'azienda/organizzazione?- Come si trova nell'azienda/organizzazione in cui lavora?- Si ricorda come si era trovata, al suo ingresso in azienda/organizzazione?- Lei ha raggiunto una posizione di responsabilità nell'azienda/organizzazione nella

quale lavora. Come, secondo lei, viene percepita questa sua posizione dai colleghi ecolleghe?E lei come si vede nella sua posizione di responsabilità?

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- Pensando alle sue capacità personali, quali sono secondo lei quelle che l'hannofacilitata nel raggiungimento di questo livello di responsabilità lavorativa?

- Quali sono oggi i suoi obiettivi?- Si ricorda quali potevano essere i suoi più ambiziosi obiettivi all'inizio della sua carriera

lavorativa?- Nella sua vita lavorativa c'è stato qualcuno/a che l'ha ispirata?

4. Punti salienti emersi

Andiamo adesso a vedere da vicino ciò che i partecipanti alla ricerca ci hanno aiutato acomprendere rispetto all'ipotesi da noi sviluppata.

In base a ciò che volevamo indagare, vale a dire la percezione di differenze nel contestolavorativo tra l'essere una donna o uomo leader, molte sono state le dichiarazioni in talproposito.

C'è chi ha ammesso che l'essere donna nel contesto lavorativo in cui si trova aiuta,perché «l'uomo deve dimostrare di raggiungere obiettivi e quindi 'strafà', smania e vuolesempre di più» e quindi c'è chi si considera "fortunata ad essere donna" in quanto ritiene diaver già ricevuto tanto.

Come ben sappiamo molti sono stati i cambiamenti nel contesto lavorativo degli ultimianni, quindi anche gli uomini «si sono abituati alla presenza delle donne», anche se, ancoraoggi, «se certe cose vengono fatte da un uomo è normale, mentre per una donna èassociato all'essere 'isterica'».

Rispetto alle differenze di ruoli e di professioni all'interno dello stesso contesto lavorativoc'è chi dichiara di percepire un "razzismo professionale" perché una donna, nonostantedimostri di «essere brava rimane comunque etichettata nel suo ruolo» ed in più l'esseredonna non favorisce un cambiamento di questa visione.

Molte delle nostre partecipanti quindi hanno percepito differenze nell'essere donna nelcontesto lavorativo perché spesso - affermano - «gli uomini ti vedono come un'insidia, comequella che ha goduto di facilitazioni. Devi dare il 150% in più rispetto agli uomini»; «Esseredirigente donna non è facile, una donna deve essere doppiamente brava. Dai collaboratoriuomini certi aspetti non sono ben accettati, bisogna trovare una via di mezzo». Il confrontouomo/donna sul lavoro è "atavico".

C'è chi non ha percepito una discriminazione nell'essere donna anche se «devi farnotare la differenza di bravura tra te e gli altri».

Rispetto al rapporto lavoro/famiglia, c'è chi ha affermato che «c'è bisogno di una retefamiliare forte che ti sostiene nel lavoro», perché spesso i figli vedono il lavoro come un"competitor".

Nonostante la maggior parte delle nostre partecipanti abbiano dichiarato di percepiredifferenze e difficoltà sul lavoro correlate al fatto, per esempio, di «cercare di calibrare ilmodo di vestirsi, perché gli uomini tendono a fare commenti», non vedono il loro essere unadonna come un ostacolo ma spesso come una risorsa in quanto «si riesce a fare più coseinsieme», «è una spinta a fare qualcosa di diverso e di nuovo in un'azienda maschile».

Rispetto a cercare di capire se le donne avessero già prima di iniziare a lavorare lavoglia di raggiungere posizioni di alto livello nel contesto lavorativo, le risposte variano tracoloro che affermano di aver avuto sin da subito la volontà e l'ambizione di far carriera e chi

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invece non pensava di raggiungere la posizione attuale. C'è poi chi percepisce il proprio stiledi leadership come non ben accetto dichiarando che «rispetto allo standard dei colleghi[sono] anomala e [ho] un modello di leadership esercitato con autorevolezza non conautorità» e i capi per questo la considerano una "chioccia".

Entrando nello specifico, andando ad approfondire una delle nostre ipotesi di ricerca,cioè quali fossero state le capacità personali che hanno favorito alcune donne nelraggiungimento di elevati livelli di responsabilità, riportiamo di seguito frasi che esse stessehanno affermato. C'è chi dichiara che «la curiosità, la determinazione, la tenacia e laconsapevolezza che si può sempre fare qualcosa di più»; «la testardaggine, il fatto di essereuna 'persona diretta'» sono sicuramente capacità che aiutano a raggiungere elevati livelli diresponsabilità.

Un'altra delle nostre partecipanti dichiara invece che è stato «l'orgoglio e ladeterminazione, il dover portare a termine quello che si inizia a costo di morire» ad aiutarla araggiungere il suo ruolo nell'azienda. Sicuramente «la razionalità, il non perdere di vista gliobiettivi»; «l'essere caparbia» sono requisiti richiesti a qualsiasi leader, ma secondo alcunenostre partecipanti anche il «saper lavorare in squadra, mettersi in prima battuta nelle cosesapendo anche delegare ad altri», "l'umiltà", sono anch'esse capacità che non possonomancare. È necessaria inoltre «la testardaggine e la volontà di arrivare, senza prevaricaresugli altri» e «la giusta dose di ascolto e autorevolezza».

Tuttavia il fatto di "essere esplicita", «non da tutti è apprezzato, non tutti amano latrasparenza». Molte donne leader da noi intervistate inoltre hanno dichiarato di «averlavorato più delle ore richieste» e che una grande dose di «determinazione a raggiungere ciòche mi [ero] prefissata, chiedendo molto a me stessa» è stata fondamentale. Infine c'è chi haaffermato che un aspetto importante è stato anche il fatto di «approfondire i temi senzasuperficialità» oltre al «dare forte importanza alle relazioni con gli altri».

Rispetto invece al nostro interesse ad approfondire quale fosse la visione della donna suse stessa nel contesto lavorativo c'è chi dichiara:

«Nel mio ruolo mi sento a mio agio ma certe cose non mi piacciono molto. Ad esempionon delego molto».«Faccio il meglio ogni giorno e cerco di essere positiva e ottimista facendo trasparirequesto ai miei dipendenti»; «mi vedo bene, perché si è responsabili ma senzaopprimere».«Mi riconosco nella mia posizione che mi sono meritata» essendoci «un coinvolgimentoemotivo con questa azienda».«Ho raggiunto la professione che mi ero prefissata e in cui mi sento più forte ecompetente».«Sono soddisfatta perché da donna ho raggiunto quello che volevo, scegliendo anche dicostruirmi una famiglia».

Relativamente alle altre due aree di interesse, vale a dire quale fosse la visionedell'azienda da parte della donna e come pensa di essere percepita da parte dell'azienda siaal loro ingresso che oggi, le nostre partecipanti hanno affermato quanto segue:

«All'inizio del mio ingresso in azienda non mi sono sentita spaventata. Forse si sonosentiti più spaventati gli altri, perché non avevano mai lavorato con una donna».«I miei colleghi non hanno problemi ad accettarmi, ma riconosco che il fatto di esseredonna per alcuni è un problema».«Se si è in un'azienda molto grande ci si fa fuorviare dal ruolo che una persona occupa,anche in quello che si pensa di lui come persona».

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Anche prendendo in considerazione la differenza tra ruoli professionali all'interno dellastessa azienda viene aggiunto: «Fatico ad essere considerata una loro pari. In più sono puredonna» ma c'è anche chi asserisce che «i colleghi [mi] la vedono in modo positivo, sipossono fidare e mi contattano sempre».

È vero che «per arrivare, una donna deve fare salti più lunghi e alti rispetto agli uomini»ma «la speranza è di essere apprezzata» all'interno di un'azienda in cui

«il [mio] titolo e il [mio] ruolo viene visto come figura di riferimento. L'azienda ha creatoun clima molto positivo. Si vive in un clima di scambio e sono molto disponibile. Se peròci sono degli obiettivi da raggiungere, non transigo».

Molte sono sicure del fatto che «essere donna non è mai stato percepito come un peso oun limite. Ciò che fa la differenza è ciò che la persona prova dell'essere donna. Solo laprofessionalità fa la differenza».

Ciò che è stato detto fin qui è solo una parte di quello che viene percepito dalleintervistate su cosa significa essere donna nel contesto lavorativo, con opinioni a volteantitetiche ma che fanno parte della percezione che ognuno ha di sé. Molti sono gli aspettiche ci hanno portato a riflettere su ciò che ancora può essere fatto per far sì che ladiscrepanza tra uomo/donna vada a cadere. È stato interessante notare come moltecaratteristiche che i nostri partecipanti hanno usato per raccontarsi e descriversi nel lororuolo lavorativo venivano usate da entrambi i sessi. Tra queste: determinazione, ambizione,ascolto, rispetto/correttezza, non perdere di vista gli obiettivi, motivazione ed empatia.

Alcune di queste sono caratteristiche classificate come più "femminili" che "maschili" equesto ci ha fatto notare come gli aspetti che spesso vengono classificati come femminili, equindi discrepanti nel contesto lavorativo, siano invece presenti e aiutino a diventare un buonleader anche agli occhi dei colleghi.

In ultima analisi possiamo affermare che le donne, confrontate con gli uomini intervistati,sono state più disponibili a parlare. In alcuni casi con i testimoni maschi è stato difficilecondurre l'intervista perché le risposte di alcuni di loro sono state concise e dirette lasciandopoco spazio per approfondimenti. Questo non è stato riscontrato con le partecipanti donne,che invece, al termine dell'intervista, ci hanno ringraziato per averle portate a riflettere sulloro ruolo lavorativo. Una di loro per esempio percepisce che ancora c'è molto da fare per farsì che altre donne possano arrivare a raggiungere cariche elevate» e in tal senso sta«cercando di rompere gli schemi ed aprire uno spiraglio».

5. Limiti

Tra gli scopi principali della nostra ricerca qualitativa c'è la necessità di creare qualcosache vada al di là dell'analisi dei dati e che coinvolga i partecipanti della ricerca, per far sì chesi abbandoni l'idea dicotomica soggetto-oggetto e arrivare a creare una dinamica superiore,in modo da approfondire le ipotesi che si sono formate durante il percorso di ricerca. Per farequesto abbiamo scelto di realizzare, in base alle nostre ipotesi iniziali, un'intervista semi-strutturata in modo da creare un dialogo con i partecipanti, cercando di lasciarli liberi diapprofondire la discussione in seguito agli spunti da noi dati. Questo fattore è stato difondamentale importanza perché ha permesso alla ricerca di trovare la sua "qualità" e quindidi ottenere quel qualcosa in più arrivando alla ristrutturazione delle ipotesi.

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Abbiamo notato durante gli incontri che il limite maggiore che ci ha posto l'intervista èstato il nostro conformarci al suo schema. Essendo di tipo semi-strutturato abbiamo cercatodi attenerci a essa e ai contenuti che ci eravamo prefissati in precedenza. Questo ci ha fattonotare, sin dalle prime interviste, che, grazie alla natura delle nostre domande,prevalentemente aperte, alcuni argomenti emergevano senza che ci fosse una richiestaspecifica. Pur essendoci un limite nella natura dell'intervista, abbiamo cercato di utilizzarlo anostro vantaggio per la ristrutturazione delle ipotesi, per esempio includendovi gli argomentidella quantità di supporto esterno, delle opportunità offerte o colte e dell'equilibrio tra vitaprivata e lavoro.

Attenendoci alla struttura della nostra intervista ci siamo resi conto che gli stili dileadership sono stati poco approfonditi. Quando abbiamo realizzato il questionario ci erasembrato poco opportuno chiedere direttamente questo aspetto, soprattutto perché entravain contraddizione con l'idea principale, ovvero di fare domande in modo che l'intervistatofosse più libero possibile nelle risposte per renderlo già da queste prime battute parteintegrante del processo di ricerca. L'aspetto della leadership è un contenuto specifico chepotrà essere utile integrare nelle sfide future nelle quali sarà importante la partecipazioneattiva degli intervistati.

Un limite che possiamo definire "fisiologico" della nostra ricerca è stata la disparità nelladistribuzione dei partecipanti tra settore pubblico, privato e sociale. Abbiamo contattato infattiquattordici membri di aziende private, cinque invece erano provenienti da aziende pubblichee due da cooperative sociali. I contatti che abbiamo ottenuto sono stati il risultato di ungrande sforzo personale: infatti la rete che abbiamo creato è un nostro grande punto di forza.È vero anche però che le politiche delle aziende private, pubbliche e sociali sono differentitra loro e che queste esercitano un'influenza sui membri che ne fanno parte. Non essendouna ricerca quantitativa non ci siamo preoccupati inizialmente di avere dei gruppi di numeroomogeneo tra di loro, ma di raccogliere le esperienze degli individui in modo da renderlipartecipanti attivi per il proseguimento della ricerca. Potrebbe essere interessante ampliare ilgruppo in futuro e inserire più esperienze di donne provenienti dal pubblico e dal sociale inmodo da mettere a fuoco quali sono e se ci sono differenze o punti di incontro.

Sempre derivato da quest'ultimo dato abbiamo individuato che, nonostante tutti ipartecipanti avessero alti livelli di responsabilità, c'erano delle differenze tra di loro dovutealla posizione che occupavano in azienda. Questo è un punto che può influenzare la lorovisione dell'azienda e il modo in cui percepiscono la loro posizione sia rispetto ai bisognipersonali sia rispetto a come si sentono di essere visti dai colleghi.

6. Prospettive future

Con il Progetto 50/50 ci siamo proposti di facilitare un processo di empowermentattraverso la ricerca intervento per approfondire il punto di vista di quelle donne che hannoalti livelli di responsabilità nella loro carriera e per capire come abbiano raggiunto questotraguardo nelle loro vite. Siamo ancora all'inizio di questo processo e pensiamo che nelfuturo a breve termine sia necessario coinvolgere i partecipanti nel processo di ricerca,realizzando insieme una rete di donne leader. Da un punto di vista pratico, poiché ipartecipanti abitano in zone differenti tra loro, abbiamo pensato di riunirci in un luogo fisico opiù luoghi fisici a seconda della provenienza per poi chiamarci via internet grazie a Viber oSkype. Questo punto è il primo passo verso la crescita dei partecipanti che diventano parteattiva della ricerca in modo da portare, all'interno del bagaglio di conoscenze, le loroesperienze di vita e le loro risorse.

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La rete che vogliamo far sì che si crei ha molteplici funzioni. In primo luogo i partecipantiaccrescono il loro livello di consapevolezza delle abilità e conoscenze, favorendo così unacrescita e una riappropriazione di potenzialità personale tipiche dell'empowerment. Fareesperienza di gruppo permette a chi vi partecipa di auto formarsi grazie alla condivisione deimodi di affrontare i problemi professionali e personali che si possono creare dentro e fuoril'ambiente lavorativo.

Potrebbe essere interessante in questa fase analizzare insieme quali sono gli stili dileadership utilizzati, prendendo in considerazione le diversità dei contesti aziendali dai qualiprovengono le donne leader. Questo passaggio consentirebbe al gruppo di ricerca di creareuna cultura differente, un modo di essere proprio che permetta di influenzare non solo isingoli elementi che fanno parte di questo progetto, ma anche il contesto aziendale. Questarete infatti avrebbe la funzione di sostegno per le donne che desiderano migliorare lasoddisfazione personale e lavorativa, di diventare un punto di riferimento, una cultura equindi una risorsa essa stessa. Da qui una rete di aziende che potranno essere in contatto,conoscersi tra di loro e iniziare una diffusione di buone pratiche al loro interno.

Il gruppo 50/50 dovrà essere in grado di creare un elenco di servizi utili per le azienderiguardo alla questione della leadership femminile e grazie a questo sarà possibile fareformazione affinché il processo di empowerment si estenda per portare a un cambiamentosempre più diffuso.

7. Conclusioni

Essendo la nostra una ricerca qualitativa, ciò che ne risulta è uno spaccato di unasituazione più ampia e complessa. Tuttavia, dalle interviste da noi condotte emergonotestimonianze rilevanti del nostro contesto lavorativo e culturale in cui le differenze di generesono ancora molto presenti. Questo ci ha fatto notare che donne e uomini non hannonecessariamente caratteristiche differenti che li hanno aiutati a raggiungere elevati livelli diresponsabilità: ciò che li differenzia sembra essere ancora la visione stereotipata di come unleader dovrebbe essere, anche se, come abbiamo potuto osservare, alcune dellecaratteristiche importanti da possedere sono prettamente femminili. Siamo ancora all'iniziodel processo di ricerca e ci auspichiamo di creare presto una rete di donne leaderempowered ed empowering.

8. Bibliografia essenziale

Hofstede G. (2010), Cultures and organizations: software of the mind (Third edition), NewYork, McGraw-Hill.

Sheryl S. (2013), Lean in: Women, Work, and the Will to Lead, Knopf.

Eagly A. H., Johannesen-Schmidt M. (2001), The Leadership Styles of Women and Men,Journal of social issues.

Gerzema J. (2013), "Feminine" Values Can Give Tomorrow's Leaders an Edge.

9. Sitografia

www.Italialavoro.it

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NOTIZIE SUGLI AUTORI

Rossana Di Renzo

Rossana Di Renzo, formatrice, si occupa di formazione sui temi dell'educazione degli adulti edella tutorship, utilizzando prevalentemente lo strumento della narrazione. È referente per itirocini professionalizzandi della AUSL di Bologna.Email: [email protected]

Daria Marinangeli

Daria Marinangeli, psicologa del lavoro e delle organizzazioni, dopo alcune esperienzeimpiegatizie, ha iniziato più di vent'anni fa la sua esperienza come consulente free-lancenell'area delle risorse umane. Ha collaborato con aziende italiane e multinazionali, consocietà di consulenza, e organizzazioni non profit, svolgendo principalmente attività diselezione, formazione, assessment di valutazione e sviluppo. Un altro suo filone diesperienze comprende il counseling psicologico individuale e l'insegnamento dello yoga.Vive e lavora a Milano.Email: [email protected]

Lauro Mattalucci

Ha una esperienza professionale di oltre trenta anni nel campo della formazione e dellaconsulenza organizzativa, maturata in una primaria azienda del settore dove ha ricoperto ilruolo di responsabile della direzione tecnica e scientifica.Ha coordinato molteplici progetti formativi in aziende industriali e P.A. e nel campo dellepolitiche di formazione professionale e dell'occupazione. Le sue attuali attività professionaliriguardano:- consulenza e formazione nell'ambito di progetti di ricerca sui contesti economico-sociali,

mercato del lavoro;- sviluppo dei sistemi scolastici e di formazione professionale;- ricerca e docenza sui temi dello sviluppo organizzativo (strutture, processi e risorse

umane), formazione manageriale, sviluppo dei sistemi formativi;- consulenza per lo sviluppo organizzativo e progetti formativi condotti attraverso blended

learning strategy.È autore di numerose pubblicazioni: ha curato i volumi Il lavoro d'ufficio, Franco Angeli(1990) e L'Information Technology nella P.A. Ostacoli organizzativi e culturali (con A. Vino),Franco Angeli, (1993); è inoltre autore di numerosi saggi con particolare riferimento ai temidel knowledge management ed alla formazione come leva per il cambiamento organizzativo.È Referente Scientifico di Dialoghi, Rivista di Studi sulla Formazione e sullo SviluppoOrganizzativo, per cui ha scritto diversi articoli.Email: [email protected]; [email protected]

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Cristiana Pauletti

Cristiana Pauletti è una formatrice esperta in processi formativi per adulti. Ha lavorato permolti anni in Istituti Universitari e di ricerca salesiani e attualmente svolge attività diformazione e consulenza come libera professionista.Le tematiche formative e organizzative di cui si è maggiormente occupata sono: lacomunicazione interna e la comunicazione e gestione del cliente, team building e dinamichemotivazionali, assessment delle competenze, skills profile e processi di sviluppo delpotenziale individuale.L'integrazione delle tecnologie nei processi formativi e lo sviluppo di ambienti virtuali diapprendimento è stato un ulteriore tema di approfondimento nel quale ha maturatoesperienze significative. Inoltre, negli ultimi mesi, ha indirizzato il suo interesse allo studiodelle dinamiche comunicative nei social network.Email: [email protected]

Rosaeugenia Pesci

Rosaugenia Pesci è docente a contratto delle discipline Infermieristiche, è Responsabiledella sezione Formativa Universitaria Bo2 dell'Università di Bologna in convenzione conl'ASL di Bologna e responsabile delle attività didattiche professionalizzanti. Si interessa inparticolare degli aspetti normativi, etico deontologici e della formazione di base e degli adulti,con particolare riferimento alla funzione tutoriale nell' area infermieristica.Email: [email protected]

Roberto Pezzoni

Roberto Pezzoni, laureato in Ingegneria chimica al Politecnico di Milano, dagli anni settantaagli anni novanta ha svolto ruoli di responsabile di gestione di commesse e di aree dibusiness in aziende impiantistiche tecnologiche, tra le quali aziende del gruppo Montedisone del gruppo Fiat.Tra il 1998 e il 2007 ha svolto incarichi di Project Manager in progetti industriali destinati adiversi contesti scientifici internazionali (CERN, INFN e altri). Contemporaneamente, dal1997, è consulente libero professionista e si occupa di processi e organizzazione aziendale,formazione, executive coaching, business development, project e risk management, incontesti organizzativi diversificati.Email: [email protected]

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Progetto 50/50

Il Progetto 50/50 nasce all'interno di un seminario di Psicologia dell'Empowerment Sociale icui membri sono Virginia Lucchesi, Lorenzo Mugnai e Marta Vagaggini laureati in PsicologiaClinica e della Salute presso l'Università degli Studi di Firenze. Attualmente stanno tuttisvolgendo il tirocinio post laurea per la successiva iscrizione all'albo degli psicologi. Il gruppoè interessato agli aspetti che riguardano: la parità di genere, l'empowerment, il lavoro con igruppi e la formazione.Email: [email protected]

Giovanni Gaetano Reale

Giovanni Gaetano reale, psicologo del lavoro e delle organizzazioni, career counselor, sioccupa, da più di vent'anni, di formazione, consulenza per lo sviluppo organizzativo e per losviluppo professionale in aziende private, pubbliche e pubblica amministrazione. È statodocente di un Master Universitario di II° livello dell'Università Cattolica del S.C. di Milano,oltre che cultore di materia nello stesso ateneo. Tra il 1999 e il 2004, per due mandati, haricoperto il ruolo di membro del consiglio direttivo nazionale della SIPLO (Società italiana dipsicologia del lavoro e delle organizzazioni). È autore di alcuni saggi in pubblicazioni e rivisteuniversitarie e redattore della rivista Dialoghi.Email: [email protected]

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