Forio La Chiesa Vincenzo Pascale del Purgatorio · infra octavarium commemorationis Mortuorum...

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La Rassegna d'Ischia 1/1993 1 A N N O X I V n. 1 Febbraio 1993 Lire 1500 Spedizione in abb. postale gr. III/70% Mensile di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi Dir. responsabile Raffaele Castagna A 20 anni dalla morte W. H. Auden Una pagina di gloria per l'Arma dei Carabinieri - Pastrengo Mostre (Palazzo Reale - Na) Gabriele Mattera Forio La Chiesa del Purgatorio compie 250 anni Testi antichi di documentazione sull'isola d'Ischia Vincenzo Pascale 1796 Descrizione storico-topografico-fisica delle isole del Regno di Napoli

Transcript of Forio La Chiesa Vincenzo Pascale del Purgatorio · infra octavarium commemorationis Mortuorum...

La Rassegna d'Ischia 1/1993 1

A N N O X I Vn. 1

Febbraio 1993Lire 1500

Spedizione in abb. postale gr. III/70%

Mensile di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportiviDir. responsabile Raffaele Castagna

A 20 anni dalla morteW. H. Auden

Una pagina di gloria per l'Arma dei Carabinieri - Pastrengo

Mostre (Palazzo Reale - Na)Gabriele Mattera

Forio

La Chiesadel Purgatoriocompie 250 anni

Testi antichi di documentazione sull'isola d'Ischia

Vincenzo Pascale 1796Descrizione storico-topografico-fisicadelle isole del Regno di Napoli

2 La Rassegna d'Ischia 1/1993

Pithecusafuori dall'oblio

Il Miseo Archeologicodi Villa Arbusto in LaccoAmeno deveessere finalmente aperto al publico

per valorizzareil ricco patrimonio culturale

La conservazione ha per definizione carattere statico. Essa non dovrebbe essere fine a se stes-sa, ma essere cconsiderata come il punto di par-tenza di una azione di valorizzazione nel senso più pregnante del termine. Alla conservazione devono più particolarmente aggiungersi misure destinate a far lrgamente conoscere il patrimo-nio culturale (Amadou-Mahtar M' Bow).

Questa pagina sarà pubblicata in tutti i numeri de La Rassegna d'Ischia, fino a quando non sarà avviato effettivamente il Museo Archeologico

La Rassegna d'Ischia 1/1993 3

La Rassegnad'Ischia

A N N O X I V

n. 1Febbraio 1993

Lire 1500Spedizione in abb. postale gr. III/70%

Sommario

ForioLa Chiesa del Purgatoriocompie 250 anni p. 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11

A 20 annidalla morte W. H. Auden p. 12, 13, 14

Mostre (Palazzo Reale - Napoli) Gabriele Mattera p. 15, 16, 17Arte

Album dei ricordi p. 18, 19

Il mio Yemen (1955-1968) VI parte

Unaa pagina di storia per l'Arma dei Carabinieri Pastrengo p. 37, 38, 39

Testi antichi di documentazione sull'isola d'Ischia Vincenzo Pascale Descrizione storico-topografico-fisica delle isole del Regno di Napoli p. 40/53

Rassegna Libri Mostre Premi p. 4, 54

In copertina (pag. 1): Panoraama foriano di F. Hackert

4 La Rassegna d'Ischia 1/1993

FEDERICO SECONDO SVEVOIl potere, luce del mondodi Enrico MontiTodariana Editrice, Milano, gennaio 1993 - pp.256

Rassegna Libri Mostre Premi

Queste pagine che scrivo su Federico II svevo – precisa l’autore Enrico Mon-ti nel prologo - , sono la conclusione di uno studio e di un impegno che è du-rato diversi anni. Federico non è stato nella storia dell'arte, della politica, del-la letteratura, un personaggio qualsia-si. La cosa è fin troppo nota, direi per-sino ovvia. Gli atteggiamenti suoi, a volta con-traddittori, in quanto sollecitati dalle necessità del momento e dall'interpre-tazione dei fatti e delle circostanze in cui si trovò a vivere e ad agire, lo collo-cano in una posizione di assoluto rilie-vo nella visione unitaria di un periodo e di un'epoca, contrassegnata dalla lotta tra la Chiesa e i rappresentanti del po-tere temporale. Lotta che, cominciata qualche secolo prima, prima cioè della sua venuta al mondo, trovò in Federico il più duro e tenace assertore. La sua vita, resa amara da eventi molto dolo-rosi, a cominciare dalla perdita, a bre-ve distanza di tempo, dei propri geni-tori, lo portò ad affrontare un progetto che, secoli prima, era stato già di Carlo Magno, la continuazione cioè in una sola persona del potere quale era eser-citato dagli imperatori romani e, dopo di loro, dai Franchi. Solo che, rispetto a questo passaggio diciamo di conse-gne, la concezione di intenderlo e pra-ticarlo di Federico, si arricchiva anche di un diverso elemento, quello divino, che presiedeva all'unità dell'impero e del regno e che era alla radice dei suoi innumeri contrasti con i Papi del suo tempo. In questo anelito di vedere af-fermata un'esigenza ultraterrena cui egli si sentiva chiamato per superiore disegno, prima ancora che politica, Fe-derico non conosceva soste, né si dava cura, se non nei limiti del necessario,

degli avversari, quali che potessero es-sere, Papa e Comuni lombardi compre-si, e neppure del sacrificio, spesso oltre il limite dell'umanamente concepibile e sopportabile, che fosse per apparire necessario. Si chiamasse pure questo rinunzia all'affetto di un figlio, Enrico, avuto dalla prima moglie Costanza, che aveva osato, tradendo i disegni e le attese paterne, elevare mano e alimen-tare progetti contro l'autorità sua, che, in un processo di identificazione cui Fe-derico fu sempre sensibile, era anche, e in primo luogo, autorità suprema dello Stato. Credo che in questa visione che egli ebbe della res pubblica, al di là e al di sopra di tutti gli altri meriti o demeriti che gli si vogliono attribuire o adde-bitare, risiede la ragione prima della tormentata esistenza di Federico, la

quale, con la sua azione e con il suo impegno, finì per consegnare ai poste-ri il patrimonio morale di sottostare, nell'interesse dell'ordine e del progres-so, all'imperativo categorico della ri-cerca della giustizia e della pace; mete luminose sul cammino dei popoli, sia pure attraverso l'ineluttabilità delle lotte e il mutamento delle vicende sto-riche, politiche, sociali e umane. La straordinarietà e l'eccezionalità del personaggio, che hanno impegnato scrittori e studiosi di ben diversa fama, a cominciare dal mai troppo lodato Ernst Kantorowicz a finire allo storico David Abulafia, e che sollecitano, come è dato di recente constatare, la ripresa degli studi sulla sua persona e sulla sua azione, sono stati per me motivo affa-scinante, pur tra non poche difficoltà, di ricerca e di studio. Il risultato, anche se costellato di lacune e di manchevo-lezze, le une e le altre inevitabili nella messa a fuoco di un personaggio di tal fatta, è ovviamente rimesso al giudizio dei lettori che, spero, vorranno, come sempre, onorarmi della loro attenzio-ne.

Premio Nazionale di PoesiaPoseidonia - Paestum (III edizione)

Nel solco della millenaria civiltà greco-italica di Paestum e nel riccordo di antichi approdi di coloni che consacrarono ad Hera Argiva uno dei templi più maestosi della Magna Grecia, i cui resti sono visibili in prossimit della foce del Sele, molto umilmente il Comune di Capaccio ed il Lions Club Paestjum vogliono continua-re il discorso inpreso sulla Poesia, sia per amore dell'arte come categoria dello spirito, e non come mezzo per far denaro, sia per amore di Paestum, che merita un rilancio nazionale ed internazionale per i suoi meravigliosi templi e suggestivi reperti che hanno sfidato le vicende di quasi tremila anni, sia perché Paestum rappresenta il compendio della storia mediterranea. Fenici, Etruschi, Greci, Lu-cani, Romani, Arabi, Normanni, Spagnoli, Ffranesi e Americani approdarono sul-le spaigge di Paestum e sulle divine sponde del Sele e vi lasciarono orme perenni.

Il Premio si articola in due sezioni: Adulti e Givani (fino a 18 anni)

Ogni concorrente potrà partecipare con una o due liriche inedite e mai premiate (massimo 50 versi ognuna) - Sono ammesse opere in qualsiasi lingua purché tra-dotte in italiano. Il contenuto è libero.

La Rassegna d'Ischia 1/1993 5

di Agostino Di Lustro

Nell'ampio "mantello screziato di chiese" del panorama foriano, spicca, come già nella tela di Filippo Hackert (1789 - Palazzo Reale di Caserta), la Chiesetta del Purgatorio o di S. Michele, che sorge in località Scen-tone lungo la statale 270. Essa attira subito l'interesse del turista per la forma singolare della facciata di uno stile tutto proprio, che costituisce la maggiore attrattiva di questo monu-mento, modesto nella sua mole, ma certamente importante nell'architet-tura ischitana. La lapide marmorea

La Chiesa del Purgatorio

compie 250 anni (1743 - 1993)

Forio

6 La Rassegna d'Ischia 1/1993

posta sull'architrave, compendiandone un po' la storia, dice:

Quos purgans ignis cruciat his ferre levamenexoptans Agnellus D'Ascia usque parare

Templum quos haec rura tenent hanc extulit aedemtortisque a flamma electis purgante dicavit

A. D. 1742 (1) L'atto ufficiale di fondazione di questa chiesa è una pergamena del Vicario Capitolare di Ischia, Daniele Morgioni, datata febbraio 1743, per cui fra qualche mese compie 250 anni (2). La cronistoria della fondazione della chiesa da parte di Aniello d'Ascia del fu Bernardino ci viene così descritta dall'atto di dotazione della chiesa che il d'Ascia fa rogare dal notaio Giovan Carlo Milone di Forio il 15 maggio 1742,

Atto ufficiale di fondazioneDaniel Morgionius Utriusque Juribus Doctor Ecclesie Cathedralis Isclane Primicerius in spiritualibus et tempo-ralibus // Vicarius Capitularis lo-cumtenens et officialis // Universis, et singulis has presentes concessionis et fundationis litteras inspecturis pa-riterque lecturis notum facimus et te-stamur, quod in pertinentiis Terre Forigii Isclane huius Diocesis et pro-prie ubi dicitur lo Scentone existens // quedam Capella sive ecclesia sub invocationibus Animarum Purgan-tium: Visitationis Beate Marie Virgi-nis et Sancti Michaelis Archangeli previa Curie Episcopalis licentia nu-per erecta, et edificata per Agnellum de Ascia dicte Terre in eius pro// prio predio, et fundo, carens Rectore, Ca-pellano, sive beneficiato, nullosque habens redditus nec in beneficium ecclesiasticum erecta fuit. Quare comparuit formaliter predictus Agnellus in hac Curia Capitulari, pre-sentavit supplicationem que // Nos hattenta, viso instrumento dotationis in actis fundationis, et exibitionis presentato, confecto manu Publici Notarii Joannis Caroli Milone Terre predicte sub die decimo quinto men-sis maij millesimo septingentesimo

qua // dragesimo secondo, in quo ora-tor predictus cessit, et assignavit, et ti-tulo donationis irrevocabiliter inter vi-vos donavit dicte Ecclesie sive Capelle in dotem, et dotis nomine, et eius capel-lano pro tempore annuos ducatos tri-ginta // quatuor cum dimidio una cum eius capitale ducatorum tercentorum octoginta, consequendos, et habendos videlicet a Silvestro Amitrano Terre Fo-rigij annuos ducatos novem pro capitale ducatorum centum; a Joanne Schioppa // eiusdem Terre annuos ducatos qua-tuor cum dimidio pro capitale ducato-rum quinquaginta; a Hieronimo de Ambra prefati loci annuos ducatos qua-tuor cum dimidio pro capitale ducato-rum quinquaginta: a Laurentio Castaldi // quondam Hiacynthi Terre predicte annuos ducatos quatuor cum dimidio pro capitale ducatorum quinquaginta; a Reverendo D. Liborio Castaldi prefate Terre annuos ducatos sex pro capitale septuaginta quinque; a Magdalena, D. Nicolao et Laureto Castaldi quondam Iosephi predicti Loci annuos ducatos sex pro capitale ducatorum septuaginta quinque; cum expressa conditione quod retrovenditiones forsan faciende dicto-rum Capitalium semper // faciende cum consensu, assensu, et beneplacito Curie Episcopalis Isclane sub pena nul-

litatis, et invaliditatis actus, et sub pe-nis, et censuris contra alienantes bona Ecclesie inflictis, non obstante quod aliter ab oratore // fuit disposi-tum in instrumento fundationis; cum onere vero celebrandi, sive celebrare faciendi per capellanum pro tempore singulis annis in perpetuum missas tres in cantu cum primis, et secundis vesperis; quarum // una in die Com-memorationis Mortuorum, que acci-dit in die secunda cuiuslibet mensis novembris applicanda pro Animabus Purgantibus; altera in die Visitationis Beate Marie Virginis, que venit in die secunda cu // juslibet mensis Iulij pro anima ipsius Agnelli Fundatoris applicanda; et reliqua in Festivitate Sancti Michaelis Arcangeli que est in die vigesima nona cujuslibet mensis Septembris applicanda pro animabus Reverendi D. Io // annis, et Petri Pauli de Ascia Fratrum, et filiorum ipsius Fundatoris; ac etiam cum one-re celebrandi, sive celebrare faciendi infra octavarium commemorationis Mortuorum missas planas decem pro omnibus anima // bus Purgatorij; et quoque alias missas centum, et duo-decim celebrandas in omnibus Domi-nicalibus, et festivis diebus de Pre-cepto, et residuas missas in diebus ex

1) Agnello d'Ascia bramando arrecare sollievo fino ad edificare un tempio a quelli che il fuoco brucia purificandoli, costruì questa chiesa a beneficio di quelli che posseggono que-sti campi, e la dedicò alle anime torturate e liberate dalla fiamma purificatrice nell'anno del Signore 1742.2) Il primicerio Daniele Morgioni U. J. D. fu eletto vicario capitolare quando il vescovo Nicola Antonio Schiaffinati, a causa della sua infermità, lasciò la diocesi alla fine del 1742 o ai primi del 1743.La pergamena originale è esposta nella sacrestia della chiesa. Misura cm 79 x 55 e si pre-senta sbiadita in alcuni righi. Inoltre, nella datazione, al posto del giorno, vi è uno spazio vuoto per cui il documento si presenta privo del giorno di emissione.

La facciata principale

La Rassegna d'Ischia 1/1993 7

in presenza anche di suo figlio, il sacerdote D. Giovan-ni, che vuole designare a rettore della stessa. Il notaio, tra l'altro, attesta che il predetto Aniello d'Ascia "da più tempo per sua devotione che ha nutrita nel suo cuore verso la Santissima Vergine di Santa Maria delle Grazie, dell'Anime Sante del Purgatorio, dalle quali s'è visto mi-rabilmente di continuo assistito in molte sue urgenze, e verso l'Arcangelo S. Michele, suo speciale Avvocato e Protettore, ha disposto di volere erigere da fondamenta, fabricare e costruire una chiesa seu cappella, e quella poi eretta, costrutta e fabricata, e provvista di tutti l'utensili sacri atti a potersi celebrare li divini officij; dotarla di una competente annualità dei suoi effetti; per la quale causa sin dalli 20 maggio del passato anno per istrumento di permutatione per mano mia col Reverendo D. Giacinto Sacchetta ne procurò il sito e l'ottenne nel luogo detto lo Scentone, pertinenze di detta terra di Forio per essere sito opportuno e comodo per li molti habitanti convici-ni. Et immediatamente con supplica data alla Reverenda Corte Vescovile di quest'isola si ottenne la beneditione del sito e la licenza della di lei costruttione, auta prima il

Atto ufficiale di fondazione Daniele Morgioni Dottore nell'uno e nell'altro Diritto, Primicerio del-la chiesa cattedrale isclana, vicario capitolare luogotenente ed officiale nelle cose spirituali e temporali. A tutti quelli che vedranno e leggeranno questa lettera di concessione e fonda-zione rendiamo noto e attestiamo che nel territorio della Terra di Forio di questa diocesi d'Ischia e propriaman-te nel luogo detto lo Scentone esiste una cappella o chiesa sotto i titoli del-le Anime Purganti della Visitazione della Beata Vergine Maria e di San Michele Arcangelo, edificata di recen-te con licenza della Curia Vescovile da Agnello d'Ascia della detta terra in un suo podere priva di rettore o cappel-lano o beneficiato, priva di reddito e non ancora eretta in beneficio eccle-siastico. Per questo comparve in que-sta Curia Capitolare il sudetto Agnello e avendoci presentata una supplica, e visto anche l'istrumento di dota-zione negli atti di fondazione rogato per mano del pubblico notaio Giovan Carlo Milone della predetta terra il 15 maggio 1742, con il quale l'orato-

re sudetto cedette ed assegnò in dote a beneficio irrevocabile tra i vivi di detta chiesa o cappella al suo cappellano pro tempore annui ducati 34 e mezzo con un capitale di 380 (1) da conseguire nel modo seguente: da Silvestro Amitrano della terra di Forio annui ducati 9 per un capitale di ducati 100; da Giovanni Schioppa della stessa terra annui ducati 4 e mezzo per un capitale di ducati 50; da Girolamo d'Ambra del predetto luo-go annui ducati 4 e mezzo per capitale di ducati 59; da Lorenzo Castaldi del fu Giacinto della predetta terra annui ducati 4 e mezzo per capitale di ducati 50; dal Rev.do D. Liborio Castaldi della sudetta terra annui ducati 6 per capita-le di ducati 65; da Maddalena, Nicola e D. Loreto Castaldi del fu Giueppe dello stesso luogo annui ducati 6 per capita-le di ducati 75, con espressa condizione che l'eventuale controvendita dei su ci-tati capitali si debba fare sempre con il consenso, l'assenso e il beneplacito del-la Curia Vescovile d'Ischia sotto pena di nullità e non validità dell'atto e sotto le pene e le censure inflitte a chi aliena i beni della chiesa, nonostante quan-to l'oratore dispose nell'istrumento di

fondazione, con l'onere di celebrare o far celebrare da parte del cappella-no pro tempore ogni anno in perpe-tuo tre messe cantate con i primi e secondi vespri, il giorno della Com-memorazione dei Defunti che cade il 2 novembre da applicare in suffragio delle Anime del Purgatorio; un'al-tra nel giorno della Visitazione della Beata Vergine Maria il 2 di luglio da applicare in suffragio dell'anima del fondatore Agnello; la terza nella festa di S. Michele Arcangelo che cade il 29 settembre da applicare in suffragio del Rev.do D. Giovanni e Pietro Paolo d'Ascia fratelli e figli dello stesso fon-datore; ed anche di celebrare o far ce-lebrare durante l'ottonario dei morti dieci messe piane per tutte le Anime del Purgatorio; altre 112 messe da ce-lebrare in tutte le domeniche e feste di precetto, ed altre messe residue nei giorni festivi di devozione della Beata Vergine Maria e in altri giorni feriali a scelta del cappellano pro tempore da applicare per il fu Bernardino d'A-scia e Beatrice di Majo genitori del fondatore messe cinque ogni anno per ciascuno di loro; messe dieci ogni anno per il Rev.do D. Giovanni e Pie-tro Paolo d'Ascia; messe 10 per Anna Antonia Maldese moglie del fondato-

La sezione longitudinale

consenso del Reverendo Parroco della chiesa di S. Seba-stiano, nel di cui distretto, e giurisdittione viene compre-so detto sito; e conseguentemente ne principiò la fabrica, di modo che al presente si ritrova eretta sino a voltarsi la e spera di bene totalmente compirla e renderla atta a ce-

1) In eeffetti la somma del capitaale ascende a ducati 400. Si tratta di un errore dell'a-manuense che ha scritto il testo del documento.

8 La Rassegna d'Ischia 1/1993

lebrare li Divini Officij; e per ponere in esequttione la sua volontà prima di terminarla ha voluto procedere alla sua dotazione e fondatione del jus patronato imperpetuum d'esso Aniello e dei suoi descendenti" (3). La dote che Aniello costituisce in favore della chiesa ascende a 33 ducati annui, per un capitale di ducati 400 e mezzo nei quali sono incluse le seguenti "annualità":- ducati 4 e mezo per capitale di 50 ducati da Giovanni Schioppa;- ducati 4 e mezzo per capitale di 50 ducati da Girolamo d'Ambra;- ducati 4 e mezzo per capitale di 50 ducati da Lorenzo Castaldo del fu Giacinto;- ducati 9 per capitale di 100 ducati da S. Amitrano;- ducati 6 per capitale di 75 ducati da D. Liborio Castaldi;

- ducati 6 per capitale di 75 ducati da Maddalena Nicola e D. Loreto Castaldi del fu Giuseppe. Aniello d'Ascia stabilisce inoltre che il diritto di patrona-to sulla chiesa deve essere riservato ai suoi successori in linea maschile o, mancando questa, in linea femminile, i quali dovranno designare anche il Cappellano. Quale primo cappellano designa suo figlio Giovanni. Nella no-mina dei futuri cappellani della chiesa debbono essere preferiti ed avere la precedenza sugli altri, i sacerdoti de-scendenti di Aniello che siano forniti di laurea Dottorale o in Sacra Teologia. Il Cappellano è tenuto a celebrare 3 messe cantate, con i primi e secondi vespri, nei seguen-ti giorni: il 2 novembre, commemorazione dei defunti "quale vuole esso Aniello, che sia la principale festività della detta chiesa colla castellana in mezzo d'essa chiesa e con tutta l'alta cerimonia solita farsi d'officiatura in det-to giorno, anche con dispensare qualche piccola carità a poveri, se a detti cappellani parerà".

devotione festivis Beate Marie Virgi-nis et aliis die // bus ferialibus ad libi-tum Capellani pro tempore, applica ndas videlicet pro animabus quon-dam Bernardini de Ascia, et Beatricis de Majo parentum ipsius fundatoris, missas quinque per quemlibet ipso-rum anno quolibet // pro dictis Reve-rendo D. Joanne, et Petro Paulo de Ascia missas decem singulis annis in perpetuum per quemlibet ipsorum // pro Anna Antonia Maldese uxore Fundatoris missas decem singulis an-nis in perpetuum // Pro Lucia de Ascia, eiusdem filia, et Olimpia, sive Linfa Verde uxore dicti Petri Pauli missas quinque per quemlibet ipsa-rum singulis annis et reliquas missas ad complementum dicatrum missa-rum... // pro anima ipsius Fundatoris in remissionem peccatorum eius vita durante, et post mortem in perpetu-um: pro quarum missarum celebra-tione Capellanus pro tempore tenetur conficere tabellam et illam suspende-re in sacristiam // eiusdem Ecclesie cum obligatione singulis annis in San-cta Visitatione reddere computa dica-turm missarum, et omnium expensu-um in dicta Ecclesia faciendorum: cum aliis quoque oneribus et solvendi quolibet anno // carolenos tres pro cereo Illustrissimo ac Reverendissimo Domino Episcopo pro tempore Iscla-no in die Assuntionis Beate Marie Vir-

ginis, et ornandi, ac providendi dictam Ecclesiam sive Capellam debitis utensi-libus, vasis sacris, aliisque rebus // ne-cessariis pro sacro faciendo; prout hac prima vice dictus Agnellus Fundator providit, atque ornavit; cum expressa declaratione, quod si propter retroven-siones forsan faciende supradictorum capitalium ut supra // pro dictis oneri-bus missarum assignatorum prefati an-nui ducati triginta quatuor cum dimidio sunt minorandi, tunc quoque onera missarum scilicet illarum centum, et duodecim et minoratio in // cipienda tunc erit a missis ferialibus, postea fe-stivis, et sic. Cum reservatione tamen Juris patronatus laicalis in omni casu vacationis dicte capelle sive ecclesie, presentandi et nominandi Cappella-num, sive / Rectorem in dicta Ecclesia sive Capella tam ipsi Agnello Fundatori vita eius durante, prout ad effectum predictum nominat et presentat pro nunc in primum Capellanum, sive Rec-torem inamovibilem sacerdotem D. Io-annem de // Ascia eius filium cum om-nibus oneribus, et honoribus juribus, actionibus; quam post eius obitum, suis heredibus, et successoribus masculinis tantum inperpetuum, quibus deficienti-bus, quibus deficientibus suis heredi-bus et descendentibus femininis ex al-tera linea masculina ipsius Agnelli proxime extincta; quibus etiam defi-cientibus suis heredibus, et descenden-

tibus femininis ex altera linea mascu-lina ipsius Agnelli ante proxima extinta, et sic in perpetuum: Quibus // omnibus tam linee masculine, quam feminine omnino pariter defi-cientibus, heredibus , et descendenti-bus masculinis Iosephi de Ascia eius fratris viventis ac etiam quondam Ale-xii, Ludovici, Matthie et Nicolai de // Ascia eius quoque Fratrum ex hac vita discessorum, hoc modo videlicet pre-sentandi et nominandi sacerdotem secularem descendentem ex linea ma-sculina dicti Fundatoris anteponendo semper sacerdotem in ordine anti-quiorem // et in casu quod adsunt duo sacerdotes ex predicta linea qui ordinati sunt eodem die tunc antepo-natur major in etate; nec non si adest sacerdos doctorali, vel Theologali lau-rea insignitus tunc anteponatur om-nibus aliis sacerdotibus con // cur-rentibus ut supra non obstante minoritate etatis; et si plures istius dignitatis inter ipsos quoque est pre-ferendus major in etate: deficientibus vero sacerdotibus sive clericis ex linea masculina dicti Fundatoris, usque dum veniat sacerdos, vel clericus ex linea predicta ab ipsis heredibus et successoribus eligatur pro Capellano ad nutum amovibile aliquis sacerdos ex linea feminina ipsius fundatoris preferendus semper antiquiorem sa-cerdotem. //deficiente vero totaliter

3) Archivio di Stato di Napoli, fondo Notai sec. XVIII scheda 28 del notaio Giovan Domenico Milone di Forio protocollo n. 42 f. 151-164, v. atto del 15 maggio 1742.

La Rassegna d'Ischia 1/1993 9

Le altre messe solenni debbono es-sere celebrate il 2 luglio, festa della Madonna delle Grazie, in suffragio di Aniello, e il 29 settembre, festa di S.

Michele, in suffragio di D. Giovanni e Pietro Paolo d'Ascia, figli di Aniello. Inoltre il cappellano deve celebrare altre centoventi messe, secondo le in-tenzioni del fondatore, ogni domeni-ca e festa di precetto, nelle feste della Madonna e nei giorni stabiliti dallo stesso cappellano (4). I pochi documenti esistenti nella chiesa non fanno alcun riferimento

al progettista, al direttore dei lavori e alle maestranze che hanno realizzato la costruzione della chiesa. Il terremoto del 28 luglio 1883 dan-neggiò la cupola per cui rimase per alcuni anni chiusa al culto (5). Altri lavori di restauro sono stati ese-guiti in tempi piuttosto recenti. L'aspetto più interessante di questa chiesa è quello architettonico. La co-

re; cinque messe all'anno per la figlia Lucia d'Ascia e Olimpia, o Linfa, Ver-de moglie del sudetto Pietro Paolo e le restanti messe fino al completamento delle dette messe .. per l'anima dello stesso fondatore e durante la sua vita in remissione dei peccati. Per la cele-brazione di queste messe il cappellano pro tempore deve formarne una tabel-la da appendere nella sacrestia della stessa chiesa con obbligo di presenta-re i conti delle dette messe e di tutte le spese da fare nella sudetta chiesa ogni anno nel corso della Santa Visita; con altri oneri anche e di pagare ogni anno tre carlini per un cero all'Illmo e Revmo Vescovo d'Ischia pro tempore nel giorno dell'Assunzione della Beata Vergine Maria e di ornare e provve-dere la detta chiesa o cappella degli utensili necessari, dei vasi sacri e delle altre cose necessarie per le sacre fun-zioni. Per la prima volta provvede ed orna il fondatore, con espressa dichia-razione che in caso di controvendita dei suddetti capitali per i citati oneri di messe nel caso in cui gli annui du-cati 34 e mezzo dovessero diminuire, anche gli oneri di messe, la riduzione dovrà cominciare dalle messe feriali e poi le festive. Tuttavia si riserva il di-ritto di patronato laicale in ogni caso di vacanza di detta cappella o chiesa di presentare il rettore in detta chiesa o cappella tanto il fondatore Agnello durante la sua vita che per tale effetto

presenta ora come primo cappellano o rettore inamovibile il sacerdote D. Gio-vanni d'Ascia suo figlio con tutti gli one-ri, onori, diritti, azioni; quanto dopo la sua morte i suoi eredi e successori ma-schi solamente in perpetuo, mancando i quali, i suoi eredi discendenti femmine per linea mascolina dello stesso Agnel-lo e così in perpetuo; e mancando del tutto discendenti di linea mascolina e femminina, ai discendenti maschi di Giuseppe d'Ascia suo fratello vivente e dei fu Alessio Ludovico Mattia e Ni-cola d'Ascia suoi fratelli già morti che dovranno regolarsi nel modo seguente. Devono presentare un sacerdote seco-lare discendente dalla linea mascolina del detto fondatore, preferendo sempre il sacerdote più anziano e nel caso che ci siano due sacerdoti della stessa linea ordinati nello stesso giorno, verrà ante-posto il maggiore di età; se poi vi fos-se un sacerdote insignito di laurea in teologia verrà preferito a tutti gli altri sacerdoti concorrenti nonostante siano più grandi di età; mancando sacerdoti o chierici discendenti in linea maschi-le dal fondatore finché non venga un sacerdote o un chierico dalla predetta linea dagli eredi e successori, sia elet-to cappellano ad nutum amovibile un sacerdote discendente dalla linea fem-minile dello stesso fondatore dando la preferenza sempre ai più vecchi; man-cando totalmente la linea maschile del fondatore, allora il diritto di patronato

passa, viene riservato ed è dovuto al discendente di linea femminile dalla ultima linea mascolina dello stesso fondatore per il quale comodo il fon-datore predetto riservò per sé e suoi discendenti il diritto di presentazione con la condizione tuttavia che se si ve-rifica che qualche chierico nominato come sopra cappellano o rettore della detta chiesa o cappella, che in segui-to non possa celebrare o (ciò che mai ccada) sia irregolare, allora lo stesso cappellano prende i redditi e alla ce-lebrazione delle messe provvede un altro sacerdote al suo posto facendo sempre memoria dei sacerdoti discen-denti dal predetto Agnello.Per la qual cosa noi considerando che dobbiamo essere accondiscendenti in ciò che si riferisce all'incremento del culto divino e che tutto ciò che si dice nella supplica presentata nella nostra Curia capitolare dallo stesso fondato-re Agnello è giusto, per cui non si può negare l'assenso al richiedente, per la qual cosa con la nostra piena po-testà e con l'ordinaria autorità e con ogni miglior modo, sia diritto, causa e forma a noi concessi dal diritto con i quali meglio e più efficacemente si può agire, stabilimmo di dover con-fermare ed erigere la predetta chiesa o cappella, sotto il titolo delle Anime Purganti, della Visitazione della Beata Vergine Maria e di S. Michele e la dote assegnata come sopra e prescritta in

4) Ibidem. In una relazione sullo stato della chiesa, presentata al parroco di S. Sebastia-no di Forio Anselmo Milone il 18 luglio 1810 dal cappellano D. Aniello d'Ascia (Archivio Diocesano d'Ischia, Lettere varie del 1810), si afferma che la rendita annua della chiesa è di ducati 44 e grana 50, mentre i "pesi" ascendono a D. 50 e grana 10 per cui "lo stipendio non è più di grana venti, come fu tassato dal fondatore, ma è l'incirca grana undeci per chiascheduna messa".5) Archivio Diocesano d'Ischia, Atti della Visita Pastorale di Gennaro Portanova 1886-82 f. 149: "La cappella del Purgatorio allo Scentone tutta lesionata pel terremoto, è chiusa pel pericolo, non si è riaperta, vi è il sussidio ricevuto dal Prefetto ecc. si vorrebbe accomodare, ma mancano i mezzi. Gli obblighi delle messe non soddisfatti dal tremuoto".La sezione trasversale nel transetto

10 La Rassegna d'Ischia 1/1993

struzione è preceduta da un sagrato quadrato, circondato da sedili di pie-tra e sopraelevato di alcuni gradini rispetto al livello stradale. La facciata è delimitata da due pilastri laterali, sporgenti come contrafforti, ed è di-visa in due ordini senza alcun ornam-neto di stucco e con semplici cornici. "Al centro del campo superiore il riquadro circondato da una sempli-ce sporgenza" (6) presenta un pan-nello maiolicato riproducente la pala dell'altare (7). Nella parte inferiore

della facciata si aprono due nicchie lateralmente al portale di pietra lavica grigia (8). La facciata laterale si presenta linea-re, eccezion fatta per la risvolta dei pi-lastri con le cornici relative . "La cupo-la di forma sferica poggia su un breve

tamburo". Al posto "del cupolino, al centro della cupola, si vede un piccolo cilindro sormontato da un toro su cui poggiano alcune tegole (9). L'interno, ad una sola navata, presenta la volta a botte con lunetta e fascioni ed è deco-rata molto sobriamente con stucchi a

linea masculina dicti Fundatoris tunc jus patronatus predictum transit, re-servatur, et debetur linee feminine descendenti ex ultima linea masculi-na ipsius fundatoris comodo quo sibi et descen // dentibus suis predictus Fundator jus Presentandi reservavit, cum conditione tamen, quod si acci-dit pro Capellano sive Rectore dicte Ecclesie sive Capelle aliquis clericus ut supra nominatus quo postea... // donatum sacrum facere non posset aut (quod absit) fieret irregularis, tunc ipsemet Capellanus redditus Ec-clesie predicte exigit et prefate cele-brationi... a quacumque.. sacerdote memoriam faciendo semper illorum sacerdotum quoque descendentium ex predicto Agnello. Quapropter con-siderantes Nos, quod in his, que ad divinum cultum augumentum ten-dunt, favorabile esse deberemus, et super premissis //et contentis in sup-plicatione per Agnellum Fundatorem in nostra Curia Capitolari facta, pre-sentata, et porrecta aliqua in parteque justa sunt admisimus, et ideo oratori petenti non est denegandus assensus, propterea ex nostra plenitudine pote-state // ac ordinaria authoritate, ac omnibus melioribus modo, via, jure, causa, et forma nobis de jure permis-sis, quibus melius, et efficacius fieri potest, dictam Ecclesiam, sive Capel-lam sub invacationibus Animarum Purgantium, Visitationis Beate Marie Virginis et Sancti Michaelis Archan-geli, atque dotationem, ut supra assi-gnatam, et in dicto instrumento pre-scriptam confirmandam, et erigendam duximus, cum reservatio-ne juris patronatus, et cum facultate,

tantum tam dicto oratori Fundatori quam post eius obitum ceteris ...// ..., et... ut supra expressis eligendi, nomi-nandi, et presentandi Capellanum, sive Rectore in dicta Ecclesia, sive Capella toties quoties sepulturam, sive sepultu-ras conficienti cadavera tam dicti Fun-datoris, quam ceterorum omnium ad dictum jus patronatus... //et descen-dentium ex dicto Fundatore, sepeliendi citra tamen prejudicium jurium Paro-chialium sub quibus omino eius jura reservamus. Missas solemnes in diebus ut supra expressis celebrare faciendi, et pro nunc in primeva ... Capellanum in dicta Ecclesia sive Capella... // Ioannem de Ascia filium Fundatoris nominatum Capellanum sive Rectorem inamovibi-lem vita eius durante cum omnibus oneribus, et honoribus, emolumentis et proventibus, juribus et actionibus ad dictam Ecclesiam vel capella quomodo-libet spectantibus admittimus... // vero instituimus, et bullas in sui favorem ex-pediri mandamus super quibus omni-bus et singulis ut supra sic dispositis auctoritate nostra ordinaria assensum. consensum, et beneplacitum et presta-mus prout statuimus et ordinamus om-nibus quorum est ... //... sive tangere poterit quomodolibet in futurum invio-labiter observari volumus, et precipi-mus, ita ut liceat , et licitum sit supra-dicto Oratori, ac omnibus aliis post eius obitum ut supra, et quomodolibet voca-tis in perpetuum uti, potiri gaudere om-nibus et singulis privilegiis... //... con-sessus ... ceteri Patroni et iuspatronatus habentes utunt..., et gaudentes juribus nostre Ecclesie Cathedralis, et paro-chialis Sancti Sebastiani dicte Terre semper salvis, ac expresse reservatis, ac

salvo quod jure Mense nostre episco-palis exigendi quolibet anno in die Assumptionis... // ... album ponderis unius libre in signum jurisdictionis in quorum omnium, et singulorum Fi-dem, testimoniumque premissorum presentes litteras expediri, et fieri fe-cimus et per infrascriptum Notarium, et cancellarium Curie scribi, et pub-blicari mandavimus... // pensione jussimus muniri ad Agnelli de Ascia, suorum heredum, et successorum cautelam.. plenam fidem. Datum Ischie in domibus nostre solite Resi-dentie die... mensis Februarij 1743 Pontificatus Sanctissimi in Christo Patris et Domini nostri Domini Bene-dicti divina Providentia...// ... presen-tibus ibidem Reverendis D. Iosepho Curcio D. Antonio Grimaldi... Riccar-di hebdomadarijs nostre Ecclesie ca-thedralis ad premissa vocatis, et spe-cialiter... // Daniel Primicerius Morgionius Vicarius Capitularis. //Ego infrascriptus Curie Episcopa-lis Isclane Notarius et Cancellarius supradictam Bullam concessionis, fundationis, // et dotationis confeci, scripsi et pubblicavi, solito sigilli Re-verendissimi Capituli Isclani appen-sione munivi, et // supradicto Agnello de Ascia Fundatori prefate Cappelle sive Ecclesie ut supra descripta dedi // prebui, et consignavi presentibus pro testibus eisdem Reverendis D. Iosepho Curcio, D. Antonio Grimaldi, et D. Antonio Riccardi Ecclesie cathe-dralis Isclane Hebdomadarijs; et in fi-dem rogatus scipsi die mense, et anno ut supra Marcus Canonicus Mazzella Notarius et Cancellarius.

*

6) F. G. Salvati - Architettura dell'Isola d'Ischia, Napoli 1951 p. 12.7) E' stato realizzato alcuni anni fa dalla ditta Taki Calise.8) Queste due nicchie si presentano in parte riempite da una parete lineare, supporto di altri due pannelli maiolicati raffiguranti i Santi Vito e Francesco di Paola della stessa ditta Taki di Forio.9) F. G. Salvati, op. cit. p. 12 - F. Sardella: Architettura di Ischia, S. Giovanni in Persiceto, 1985 pp. 158/59.

La Rassegna d'Ischia 1/1993 11

riquadri, mentre la cupola si presenta senza tamburo e poggia su pennacchi sferici. Presenta un solo altare completa-mente rifatto in seguito agli ultimi lavori di sistemazione, sul quale pen-de una grande tela raffigurante la Madonna delle Grazie, S. Giovanni Battista, S. Michele e le Anime Pur-ganti attribuita ad Alfonso Di Spigna (10). "Sia nel gruppo della Vergine col Bambino, sia in quello con S. Miche-le e le Anime Purganti si riscontrano i connotati consueti della pittura di-spignana" (11). La Madonna presen-ta lo stesso atteggiamento di quella della chiesa di S. Francesco Saverio al Cuotto datata 1741 (12), anche se con l'inversione del Bambino che, dal gi-nocchio destro, passa su quello sini-stro. E come a S. Vito, anche qui le ve-sti della Madonna "sono di un bianco grigio ricoperte da un manto azzurro pallidissimo e drappeggiano con mu-sicali curve la bella persona adagiata

detto strumento con l'attribuzione del diritto di patronato e con la facoltà al detto fondatore e dopo la sua mor-te agli altri eredi e discendenti come sopra di presentare il cappellano o rettore di detta chiesa e fare la sepol-tura o le sepolture sia del fondatore che di tutti gli altri discendenti del fondatore senza alcun pregiudizio dei diritti parrocchiali che restano intat-ti. Permettiamo di celebrare le messe solenni nei giorni sopra citati ed ora nella prima nomina del cappellano in detta chiesa o cappella invitiamo Gio-vanni d'Ascia figlio del fondatore no-minato cappellano o rettore a vita con tutti gli oneri ed onori, emolumenti e proventi, diritti ed azioni spettanti in qualsiasi modo alla detta chiesa o cap-pella comandiamo di spedire le bolle in suo favore e l'assenso, consenso e beneplacito in tutte e singole le cose come sopra così disposte con la no-stra ordinaria autorità e stabiliamo ed ordiniamo in qualunque modo...

vogliamo e comandiamo che in futuro inviolabilmente venga osservato così che sia lecito al detto oratore e a tutti gli altri dopo la sua morte come sopra in qualunque modo chiamati ad usare e godere in perpetuo di tutti e singoli privilegi... e gli altri patroni e quelli che hanno il diritto di patronato... sempre fatti salvi i diritti della nostra chiesa cattedrale e della parrocchiale chiesa di S. Sebastiano della detta terra e sal-vo ciò che per diritto alla nostra mensa episcopale spetta di esigere ogni anno il giorno dell'Assunzione... una candela del peso di una libbra in segno di giu-risdizione e facemmo scrivere e spedire in fede e testimonianza di tutte le sin-gole cose predette e comandammo che fossero scritte e pubblicate dal notaio e cancelliere della Curia e comandammo che fossero munite... per cautela e pie-na fede di Agnello d'Ascia e suoi eredi e successori. Dato in Ischia nella nostra solita residenza il giorno ... del mese di febbraio 1743 nell'anno.... del Pontifi-

cato del Santissimo Padre in Cristo e nostro Signore Benedetto.... essendo presenti i reverendi D. Giuseppe Cur-cio D. Antonio Grimaldi... Riccardi ebdomadari della nostra chiesa cat-tedrale testimoni chiamati per la cir-costanza Daniele Primicerio Morgioni Vicario Capitolare.Io sottoscritto notaio e cancelliere del-la Curia Vescovile d'Ischia preparai scrissi e pubblicai la predetta bolla di concessione e fondazione e dotazione e la munii del solito sigillo del Reve-rendissimo Capitolo d'Ischia e la diedi al predetto Agnello d'Ascia fondatore della predetta cappella o chiesa come sopra descritta e la consegnai essendo presenti come testimoni Reverendi D. Giuseppe Curcio, D. Antonio Grimal-di e D. Antonio Riccardi ebdomadari della chiesa cattedrale d'Ischia; e ri-chiesto in fede sottoscrissi il giorno mese ed anno predetto Marco Cano-nico Mazzella, notaio e cancelliere.

nelle nubi" (13). Si presenta, inoltre, distaccata dalla scena, come già al Cuotto e qualche anno dopo nella pala dell'altare maggiore nella Basilica di S. Vito fir-mata e datata 1745. S. Michele e le Anime Purganti formano un gruppo a sé che, nella parte inferiore, richiama le Anime Purganti che Paolo De Matteis aveva dipinto nel 1710 nella Madonna delle Grazie della Collegiata dello Spirito Santo d'Ischia. La composizione presenta una schiera di Angeli e Cherubini che, con il gruppo della Madonna e il Bambino, costituiscono forse la parte più valida dell'opera. La tela non reca data né firma, ma si può supporre che sia stata rea-lizzata contemporaneamente alla chiesa e quindi intorno al 1742-43. L'antica cantoria e un organo di legno dipinto sono scomparsi di recente. Nella vecchia sacrestia, rifatta negli anni '60, vi era un "banco" di noce del 700 per la custodia degli arredi sacri, tra i quali ancora si conservano una splendida pianeta di broccato rosso dell'epoca e una pisside d'argento finemente cesellata.

Agostino Di Lustro

10) G. Alparone: Francesco Cicino ed altri appunti storico-artistici, Napoli 1969 p. 39.11) E. Persico Rolando: Dipinti dal XVI al XVIII secolo nelle chiese d'Ischia, Napoli 1991 p. 90.12) G. Alparone: Ricerche su Alfonso Di Spigna in Ricerche Contributi e Memorie, atti del Centro di Studi su l'isola d'Ischia, vol. II, Napoli 1984 pp. 26-27; Alfonso Di Spigna pittore della malinconia in AA. VV. - Artisti dell'Isola d'Ischia, Napoli 1982 p. 44.13) G. Alparone - Alfonso Di Spigna cit. p. 25.

12 La Rassegna d'Ischia 1/1993

A 20 annidalla morte

Wystan H. Auden

W. H. Auden con Maria Senese proprietaria del Bar "Internazionale" di Forio

La Rassegna d'Ischia 1/1993 13

di Giuseppe Amalfitano

Il 29 settembre prossimo ricorrerà il ventesimo anniversario della mor-te di Wystan Hugh Auden che negli anni cinquanta ha caratterizzato la vita culturale dell'isola d'Ischia avendo trascorso lunghi periodi di soggiorno a Forio e frequentato per anni il Bar "Internazionale" di Ma-ria Senese, noto ritrovo di artisti, scrittori e uomini di cultura fino a non molti anni or sono. Auden chiuse la sua stagione terre-na sabato 29 settembre 1973, nelle prime ore del mattino, in una stan-za d'albergo di Vienna, per "collasso cardiaco" come sentenziò il 2 otto-bre una commissione d'inchiesta; ma c'è da dire che Chester Kallman, suo inseparabile amico, contestò l'o-ra della morte del poeta. I suoi funerali, (di cui parleremo diffusamente in un prossimo nostro lavoro) furono officiati, contempo-raneamente, nei riti Cattolico e An-glicano e si svolsero a Kirchstetten , un sobborgo 29 miglia a ovest del-la capitale austriaca, dove dal 1958 (anno in cui lasciò Forio) lo scritto-re viveva in una casa di campagna con Chester Kallman e dove venne sepolto (per suo espresso desiderio) il 4 ottobre dello stesso anno (nel piccolo cimitero del villaggio), alla presenza di rappresentanti ufficiali di tre delle quattro nazioni (Inghil-terra, Stati Uniti d'America, Italia e Austria) in cui era vissuto e che egli aveva tanto amato; mancava solo un rappresentante dell'Italia. W.H. Auden, grande poeta anglo-americano ma anche grande com-mediografo e librettista di opere liriche nonché uomo di profonda cultura nacque a Boothan, York il 21 febbraio 1907 (e quindi alla sua morte aveva 66 anni). Compì i suoi studi a Oxford ma a 32 anni, nel 1939, si trasferì negli Stati Uniti e ne assunse anche la cittadinanza. Negli anni cinquanta (come già accennato precedentemente), fino

al 1958 visse l'estate e l'autunno di ogni anno a Forio d'Ischia ( per la maggior parte degli anni in una vil-la in via Santa Lucia numero 12 di proprietà di un certo sig. Monte che il poeta ha anche citato nell'ultima sua lirica scritta in Italia dal titolo "Good Bye to the Mezzogiorno " (1) ) sempre in compagnia di Chester Kallman.

Nel 1938 pare che avesse sposato Erika Mann, figlia del grande scrit-tore Thomas Mann, solo per procu-

ra per permetterle di ottenere la cit-tadinanza americana, ma a questo proposito i pareri dei biografi sono discordi e Maria Senese del Bar "In-ternazionale" di Forio, da noi inter-vistata anni or sono, si dichiarava certa che lo scrittore anglo-america-no non fosse sposato (2). La produzione letteraria di Auden è molto ricca e spazia dalla poesia alla drammaturgia, alla critica letteraria. Le sue principali opere, in ordine cronologico sono: "Poems" (1930), "The Orators" (1932), "The dance of death" (1933), "Look, stranger" (1936), "Another time" (1940), "For the time beeing" (1944), "Nones" (1951), "About the house" (1966).

1) W.H. Auden - "Good-Bye to the Mez-zogiorno" (poesia inedita e versione ita-liana di Carlo Izzo) - "All'insegna del pe-sce d'oro" editrice, Milano, MCMLVIII, pp. 14 (con testo a fronte)In una sorta di introduzione intitolata "Occasione" il prof. Carlo Izzo (notissi-mo anglista nonché docente universita-rio) scrive: "Ebbi l'originale dattiloscrit-to di questa poesia dalle mani di W.H. Auden il 23 settembre di quest'anno (1958, n.d.r.). M'aveva telefonato a casa, e non c'ero. Avvertito, ebbi la for-tuna di trovarlo, a fiuto, nel primo luo-go dove andai a cercarlo. Parlava con alcune persone. S'alzò di scatto; dopo un festoso saluto, tolse di tasca e mi cacciò in mano due fogli dattiloscritti: <<E' da tradurre!>>, e m'invitò a co-lazione per il giorno dopo. Lessi i ver-si più volte, attraversando pian piano Piazza San Marco, e mi piacquero; mi piacquero molto. La sera la traduzione era già fatta, così che il giorno dopo, a colazione, potei mostrargliela. Mi chiarì alcuni punti, che io chiarirò a mia volta più avanti, ed ebbe la bontà di dedicar-mi la poesia.A quel che pare, W. H. Auden ha rinun-ciato alla sua casa di Forio d'Ischia per una casa che s'è comperata in Austria. Ce ne rammarichiamo, ma questo salu-to, pur con qualche punzecchiatura, è affettuoso, e ci rallegra il pensiero che gli italiani del mezzogiorno abbiano sa-puto dare al poeta qualche ora, come egli riconosce, di Felicità".Per quel che riguarda il Sig. Monte la lirica recita: "...Devo proprio andarme-ne, ma me ne vado grato (perfino a un certo Signor Monte) ..." e Carlo Izzo a pagina 13 chiarisce " <Un certo Signor Monte> era il padrone di casa dell'Au-tore, il quale, a quel che sembra, non

ebbe a lodarsene; tuttavia, come parte d'un tempo felice, è grato anche a lui".

Anche Nino d'Ambra, legale di Auden negli anni ischitani, parla diffusamente del sig. Monte in un lavoro dal titolo "Il mio ricordo del poeta Auden " pubbli-cato in "Rivista Letteraria" anno VI, nu-mero doppio 2/3 del 1984, pagg. 11-17 e dice, tra l'altro,: "... Il secondo incarico professionale che ebbi da Auden fu quello di affronta-re (è il caso) il sig. Monte, per l'esattezza Giulio, di <Addio al Mezzogiorno>, pa-drone di casa dove aveva vissuto negli ultimi anni a Forio d'Ischia (...) I termi-ni della vertenza erano semplici: Auden avrebbe lasciato la casa nell'estate del 1958 e cioè prima della scadenza del contratto, per cui Giulio Monte, il pro-prietario, voleva essere pagato anche per il periodo in cui il Poeta non avreb-be usufruito dell'appartamento. Già da tempo i rapporti tra i due non erano dei più cordiali, soprattutto perché il Monte per ogni sciocchezza andava dall'inqui-lino a reclamare (...) Sono convinto che quella esperienza nuova lo divertiva. Forse è lì la spiegazione della sua grati-tudine perfino al sig. Monte di "Addio al Mezzogiorno", poesia scritta a circa un mese da quegli avvenimenti ...".2) Giuseppe Amafitano, "Auden nel ri-cordo di Maria - Fatti inediti sugli anni passati ad Ischia dal poeta e scrittore anglo-americano " in "Rivista Lettera-ria", anno II, numero 1 del febbraio/maggio 1980, pagg. 3-4.

14 La Rassegna d'Ischia 1/1993

" (...) A questo punto la interrompo: <Maria, che sa del matrimonio del poeta, av-venuto nel 1938, con Erika Mann, figlia del grande Thomas Mann?">. E lei prontamente ribatte: "No, non è vero; signor Auden non mi ha mai detto di essere sposato> ... (...) "3) cfr. Giuseppe Amafitano, op. cit., pagg. 3-4.4) Per notizie più dettagliate cfr. Caterina Calcagnile, " The Ashent of F6 di W. H. Auden - Analisi critica dei personaggi " in "Rivista Letteraria", anno I, numero 1 del febbraio/maggio 1979, pagg. 5-12.5) cfr. Giuseppe Amalfitano, op. cit., pag. 3 " (...) In casa - continua la signora - non ci stava quasi mai anche perché il proprietario ... non lo vedeva di buon occhio a causa delle sue tendenze poco ortodosse che lo portavano a ricevere in casa giovani disposti solo a cavargli soldi. (...)" 6) W. H. Auden, " Good-bye to the Mezzogiorno " (1958), sono i tre versi finali "... though one cannot always/Remember exactly why one has been happy, /There is no forgetting that one was ". Nostra versione.

Nel 1947 pubblicò "L'età dell'ansia" da cui prese il nome quella parte della storia della letteratura inglese del '900 che parte dal dopoguerra e che comprende gli anni cinquanta. Interessante pure la figura di Au-den librettista d'opere liriche. Il suo lavoro più significativo in questo campo è il libretto dell'opera lirica "The Rake's progress" (conosciuta in Italia come "La carriera di un libertino") che scrisse in collabora-zione con Chester Kallman per la musica del grande Igos Stravinsky. La "prima" di quest'opera avvenne a Venezia, al Teatro "La Fenice", l'11 settembre 1951. Uno dei personag-gi principali di questo lavoro, Babà la Turca, fu ispirato ad Auden dal-la citata Maria Senese del Bar "In-ternazionale" di Forio (sotto il cui pergolato il poeta trascorse ore fe-lici durante i suoi soggiorni all'isola d'Ischia), sopravvissuta di qualche anno a Auden stesso (3) . In collaborazione, invece, con Christopher Isherwood scrisse "The ashent of F6", una tragedia in due atti del 1936 (4) in cui evidenti sono i riflessi del suo pensiero "socia-

le" (Auden era membro del Partito Comunista; si allontanò, però, da quell'idea politica dopo la seconda guerra mondiale). Per quel che riguarda la "poesia" si può dire che la poesia di Auden è, in linea generale, una poesia "difficile", che spesso mostra il tormento di un personaggio "sui generis" che visse una vita privata molto movimentata e che lo portò, specialmente duran-te gli anni ischitani, a contatto con persone interessate solo a trarre profitto dalla sua amicizia magari

"cavandogli soldi dalla tasca" (5). Ma furono quelli, forse, gli anni più belli della sua vita, quegli anni che Auden ha sempre ricordato volen-tieri e il cui ricordo egli ha portato nella fredda tomba di un freddo sobborgo di Vienna,"Sebbene sia impossibile ricordaresempre con esattezza perché si sia stati felici, non ci si dimentica di es-serlo stati" (6).

Giuseppe Amalfitano

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La Rassegna d'Ischia 1/1993 15

Ci si chiede con sempre maggior frequen-za se la condizione della pittura, oggi, non sia quella d'una resistenza, tenace ma quasi disperata, ai dettati di una modernità - o di una postmodernità, come s'è convenuto di chiamarla - che pare ormai insensibile ad ogni tradizione che non sia la propria. La "tradizione del nuovo", appunto, secondo la felice formula del Rosenberg, e che ha fatto del cosmopolitismo linguistico instaurato dalle neoavanguardie la scelta vincente. Ci sarebbe da dire delle strategie, del potere promozionale che governano quasi incon-trastati il tutto. Ma sono discorsi, alla fine, oziosi. Anche per questo, lamentava Jean Clair in un suo noto pamphlet, "la pittura, alla fine di questo nostro secolo, va male". Va male per le difficoltà oggettive che in-contra come pratica storica, insidiata dalle immagini e dai mezzi tecnologici; e perché s'è persa, nell'avvilente accademia dell'a-vanguardia ormai generalizzata, l'idea di una qualità della pittura stessa, e dunque di valore. Così che certi recuperi, certe nuove insorgenze, soprattutto nei primi anni Ot-tanta, che avevano magari alle spalle pre-cedenti concettuali, sono stati interpretati, e non a torto, proprio come esigenze di ri-trovare comunque un valore a cui ancorare finalmente la pratica artistica, in un tempo di crisi dei valori. Che poi, in molti casi ci si sia trovati di fronte non già alla pittura ma ad una sua parodia, ad una sua maschera, o foss'anche ad un suo riciclaggio manieri-stico ambiguamente sospeso tra il futile e il patetico, tutto ciò nulla toglie a quel senso della perdita che ci sembra uno dei segnali più inquietanti di questi ultimi tempi. Perdita dell'autentico - non saprei come definirlo in altro modo - risucchiato nel

commercio quotidiano del banale, del futi-le, del convenzionale. Che non necessitano di grandi interrogativi, che non fomentano dubbi non contingenti, che non comporta-no l'azzardo dell'inattualità. Quell'azzardo che, nonostante tutto, qualche pittore af-fronta ancora giorno dopo giorno, consa-pevolmente, forse come una sfida o forse come un destino cui non ci si sa sottrarre. O come un'avventura totale che vale an-cora la pena di vivere, perché in essa per-sistono suggestione mitica ed esperienza viva, concreta, eredità storica e coscienza del proprio tempo. Questa mi sembra la condizione di un pittore come Gabriele Mattera. E direi proprio la sua condizione d'oggi, di un ap-partato ma vigilissimo artista che ha alle spalle oltre quarant'anni di lavoro. Un la-voro che si è sviluppato con una sua medi-tata cadenza, con ragioni e tempi che non erano quelli imposti dalle vicende esterne, dall'alternarsi e dal sovrapporsi delle ten-denze dominanti. E meno che mai dai det-tati ufficiali che hanno avuto parte non tra-scurabile nelle "oscillazioni del gusto" degli ultimi decenni. Già questo mi sembra una garanzia sufficiente, intanto, per la tensio-ne morale che ha sorretto il suo percorso. So bene che è arduo scomodare, oggi, que-sta parola che pare destituita d'ogni fon-damento, che insomma non si sa davvero quale significato, quale importanza possa rivendicare. E tuttavia proprio in questa tensione penso che pittori come Mattera possano continuare a credere e a trovare la ragione prima del proprio lavoro. E non è questa, in fondo, una ricerca continua, irrinunciabile dell'autentico, di uno scan-daglio insistito del rapporto - quale che sia

Napoli - Palazzo Reale (20 febbraio - 2 marzo 1993)

Gabriele Mattera

La Società Dante Alighieri ha organizzato in Palazzo Reale (Napoli) una mostra di Gabriele Mattera con opere del perio-do 1986 - 1992. Nel catalogo, pubblicato dalle Edizioni Analisi di Bologna, la presentazione del pittore isolano (che di seguito riportiamo) è stata curata da Claudio Spadoni.

16 La Rassegna d'Ischia 1/1993

- che lega l'arte alla vita? Del resto, ba-sta scorrere le immagini della pittura di Mattera di stagioni ormai lontane. Im-magini d'una narrativa intrisa di umori espressionisti, dove magari la carica di partecipazione poteva risultare d'una evidenza insolita per il clima culturale di quel tempo. Penso a certe figure di "Pescatori", tozze, stagliate, in primo

In queste figure di Mattera, come bloc-cate in una propria, popolaresca e pa-radossale ieraticità, patetico-grottesca, appunto, si coglie un lavoro formale, uno scavo insistito e perfino impietoso alla ricerca di un'essenzialità, di un'im-mediatezza di corrispondenze, da auto-rizzare, crediamo, altre argomentazio-ni. Pare quasi che Mattera reagisca al

sieme il sottofondo morale e il tramite linguistico. Caricando quasi espressio-nisticamente gli accenti, Mattera cerca il massimo di forza rappresentativa di tensione morale, di evidenza e di es-senzialità dei mezzi pittorici, con la sostanziale monocromia degli spessori materici. Se si insiste su questo punto è per-

piano con tutto il loro pe-sante ingombro fisico: con quei volti ruvidamente sca-vati nella materia pittorica, con quelle mani enormi, pesanti, che sembravano zavorrare l'intero corpo. Qualcosa tra il patetico e il grottesco, che forse non sarebbe dispiaciuto a Du-buffet, ma che portano la memoria, soprattutto, dei fremiti dell'espressioni-smo nostrano, posto che così lo si possa chiamare. Da Viani a certo Sironi, per intenderci, ancor più che al versante realista del dopoguerra. "Ciò che mi sta a cuore soprattutto è l'uomo - scriveva con qua-si sconcertante semplicità Mattera - e particolarmen-te quel tipo d'uomo che è il pescatore d'Ischia". Ed era inevitabile ricondurre quella pittura, quella nar-razione aspra e ingrata, ad un movente tanto esplici-to e, appunto per questo, così esposto ad una inter-pretazione letteraria di racconto sociale. Il mondo dei pescatori di un tempo, certo, con tutto quello che ne consegue; "la sua agonia che si sta consumando lentamente sotto i nostri occhi"; "... i suoi severi impasti mono-cromatici, i suoi colori scuri, che trova-no nelle terre lo strumento espressivo più efficace per rappresentare il disfaci-mento di una certa realtà che non sarà più", secondo le parole di Luciano Rus-so. Nessun dubbio che l'intonazione di quel lungo ciclo di opere rispondesse ad un'accorata osservazione di una realtà così vicina a Mattera. Così sentita da di-ventare un motivo quasi ossessivo, non già un pretesto. E tuttavia mi parrebbe riduttivo fermarsi a tale constatazione.

clima artistico diffuso, in quegli anni, tra una chiassosa e invadente iconogra-fia da mass media, recuperi enfatizzati di un'oggettualità del quotidiano, e i rigori razionalisti, analitici, le riduzioni ad una progettualità o ad elaborazioni tutte mentali. Una reazione - non so quanto intenzionale, ma certo eviden-tissima - che punta invece sulla pittura la più carica di corrispondenze esisten-ziali. Ed ecco che le parole stesse dell'artista, in apparenza semplici e spoglie - "ciò che mi sta a cuore è l'uomo" - acqui-stano il senso di un rovello che tocca in-

ché rappresenta una fase fondamentale, penso, nel percorso di Mattera, che qui saggia le possibilità espressive di una figura-zione come ricondotta ad uno stadio elementare. Quasi un ritorno all'identi-ficazione mitica di materia terra carne, di ritualità del segno, del gesto che incide, che plasma. Un atto pitto-rico, insomma, che si libera di ogni compiacimento, di ogni piacevolezza, di ogni ostentazione di mestiere, per farsi quasi "brutale" come per un'oscura neces-sità. Ed è ben comprensibi-le, allora, che dopo questo affondo la pittura di Mat-tera abbia gradualmente riguadagnato non dico una solarità che mi sembra gli sia sostanzialmente estra-nea, ma una visione più di-stesa, più pacata. Che non vuol dire affatto depurata dall'inquietudine, anzi da un'ansia che, seppure fil-trata, traspare comunque nel ciclo successivo delle "Bagnanti". Se nei "Pesca-tori" Vitaliano Corbi ave-va visto "gli ultimi esem-

plari, certo un po' sfiancati e smarriti, di un'antica stirpe italica, discesa da Giotto fino al Nostro Novecento" - ed era un'osservazione lucidissima - nelle "Bagnanti" "protagonista della pittura di Mattera è diventata la durata inso-stenibile, ossessiva di una luce meridia-na...", "...è l'aria caliginosa d'una inter-minabile, torrida giornata d'estate, che avvolge tutto nel suo spessore umido, e assorbe la luce, la filtra e la rimanda con mille riverberi che abbagliano e sfocano la vista". Ecco, dunque, che si fa strada un'annotazione di paesaggio, di am-biente, ma con l'opportuna precisazione

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che si tratta di "qualcosa di molto lonta-no dal genere pittorico del paesaggio". In realtà, la variazione tematica è indi-cativa di un processo di trasformazione anche linguistica che tocca le corde di una più sottile elaborazione mentale, diciamo pure di meditazione. La spessa materia dei "Pescatori" si scioglie fino alla rarefazione, le immagini sono im-paginate secondo schemi sempre più semplici e non aneddotici, direi pro-prio oltre le tipologie del naturalismo, di una mimesi della realtà. La quale è certo evocata, ma infine allontanata dal motivo contingente, come sospeso in un'atmosfera straniante. "Sulla soglia dell'assenza", scrive ancora Corbi. Qua-si un rovesciamento di quell'ingombro pesantemente fisico dei "Pescatori". Nessuna precisa identità caratterizza queste nuove, sfuocate figure che giun-gono a far tutt'uno con l'ambiente nel quale sembrano galleggiare come diafa-ni relitti o involucri. Corpi senza carne e forse senz'anima; o meglio simula-cri, apparizioni, labili memorie di una presenza umana, lontana, sempre più perduta in uno spazio senza confini, in un tempo indefinibile. Ma non è anche questa una meditazione sull'uomo fatta pittura: una meditazione che si scioglie in un'intonazione elegiaca? La luce che inonda uniformemente la composizio-ne, che diventa valore cromatico domi-nante, è essa stessa un'indicazione per nulla meteorologica, ma di stato d'ani-mo. Dunque, d'una luminosità malata, o per meglio dire intrisa di malessere. Ed eccoci, finalmente, alla stagione del-le "Tende", preannunciata già nell'81-82 con un dipinto come "La tenda blu". Finalmente, dicevo, perché qui Mat-tera, pur nei passaggi consequenziali, imprime una svolta alla sua pittura. Un rinnovato vigore che pare scuotere l'at-mosfera torpida, stagnante con la sua luce "malata" sulle spiagge. E' come se l'artista riattizzasse i colori, muovesse l'impianto formale con una gestualità certo non sfrenata ma vibrante. Da far pensare ad una suggestione per casi sin-golari della pittura postinformale, per intenderci, dove una traccia, un nucleo figurale prendeva corpo dall'indistinto. Per gli artisti d'allora si trattava di una riemersione lenta, sofferta, verso ipote-si di "figurabilità" - così venne definita dal Calvesi - che poteva anche compor-tare il tentativo di ristabilire in qualche

modo una "relazione". Col mondo, con la società magari, attraverso una rico-struzione dell'immagine, della struttura narrativa, pur senza ricorrere all'usura-to formulario realista, e insomma alle convenzioni linguistiche della vecchia figurazione. Che Mattera abbia come riannodato i fili di certo postinforma-le, può significare, intanto, che il suo procedere nella pittura ha continuato a seguire una via autonoma rispetto alle rotte ufficiali, obbedendo a proprie ragioni, a proprie necessità espressive non barattabili con la gratificazione di sentirsi allineato. Il suo, insomma, si di-mostra ancora una volta un lavoro che procede in una meditata crescita su se stesso, in uno sviluppo consequenzia-le a certe premesse di una pittura che intende farsi carico di valori evocativi, allusivi ad una condizione umana. Una pittura di complessi "significati" intel-lettuali, e morali nel senso filosofico del termine. Una pittura, dunque, che muove da un pensiero dell'esistenza che sembra non lontano dal tema heidegge-riano - come è già stato notato da Corbi - dell'«essere per la morte». Non stupi-sce, allora, che Mattera abbia rivolto la sua attenzione proprio a quel clima arti-stico che era stato lo specchio più fedele delle filosofie dell'esistenza - l'Informa-le, appunto - e al suo laborioso passag-gio a possibilità figurali meno cariche di tragicità o di esasperato vitalismo, ma ugualmente risucchiate da quelle pro-blematiche. «L'artista non batte, come accade spesso in altri - scrive ancora Corbi - sul motivo del disfacimento, della corruzione delle cose o del loro inarrestabile tramutarsi. Egli avverte intorno ad esse, alla loro impassibile persistenza, un vento sottile ed arido che le forza lentamente sul confine del nulla; e sa che quel confine, prossimo o remoto che sia, è l'unica certezza su cui fonda l'esistenza dell'uomo». Ecco allora la tenda, vuoto involucro, «placenta o sudario», che evoca la di-mora provvisoria, instabile dell'uomo, il suo viaggio e il suo riposo, il suo rac-cogliersi e il suo dibattersi fra gli oscuri meandri della psiche, e il suo aprirsi alla luce, al mondo esterno. La tenda come figura, infine, di quel «falso movimen-to» che dal luogo della nascita a quello della morte, costituisce l'illusione tragi-ca dell'esistenza. Come un'impronta di luce. Come una fetta di luna in una not-

te d'inverno. Come una medusa. Come una sacca di carne: titoli che insistono sull'ambiguità dei riferimenti. Naturali-stici, per così dire, e tuttavia gravidi di allusioni, di corrispondenze profonde. Le immagini dirette, e inequivocabili, dei passati cicli pittorici, hanno lascia-to il campo a qualcosa di più instabile, sfuggente, ad un simulacro di realtà densamente fisico, certo, ma ugualmen-te aleatorio come identità. Qualcosa che può richiamare certe opere postinfor-mali, poniamo, di un Moreni; del More-ni delle Baracche, delle Staccionate, ma anche dei Cartelli e poi di certe Angurie, dove il pretesto oggettuale volgeva su-bito in "altro". Si potrebbe parlare di un naturalismo interiorizzato, se il termine non si prestasse ad un'interpretazione riduttiva e anzi fuorviante. Certo è che da un'immagine naturale, comunque la si voglia intendere, Mattera sembra non voler prescindere come dato di parten-za oggettivo, come termine di rapporto emozionale, come condizione della co-scienza su cui agiscono la visione e la memoria, l'assillo del presente e il tem-po come durata della coscienza stessa. Fino a giungere ad accenti perfino visio-nari in certe immagini che s'accampano come inquietanti apparizioni. In questo senso si è parlato, appunto, di una con-dizione "notturna" della pittura di Mat-tera. Ma dove tutto è talmente sentito, interiorizzato, talmente carico di par-tecipazione da ricondurre alfine ad un rapporto inabolibile col dato naturale. Che resta, nella sua fisicità, nella sua drammatica, palpitante bellezza, anco-ra spoglia, involucro, ma pur sempre materia e corpo della metafora esisten-ziale. Materia e corpo di una pittura che tenta le più complesse corrispondenze forzando l'ambiguità dell'immagine, la sua qualità di metafora. Ed ecco gli incendi dei rossi, i blu notturni, i rosa carne, i verdi incupiti e i gialli crepitanti. Virati, ispessiti di materia, o sciolti fino alla trasparenza; toccati da zone d'ombra, contaminati o sfatti, o d'un subito accesi da una nuo-va luce, portati ad una nuova fragranza; attraversati da vibrazioni, sommovi-menti, o come stagnanti in un'atmosfe-ra ferma, malata. Fatti pittorici, s'inten-de, ma di una pittura che con la propria voce intende farsi più che mai voce della coscienza.

Claudio Spadoni

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L'Angolo

dei

ricordi

L'Isola d'Ischia, il 24 ottobre 1910, fu colpita da un'alluvione(sei ore continue di pioggia insistente) che apportò danni immensi in tutti i Comuni. Ne presenta alcune situazioni la rivista "La Vedetta del Golfo" del 10 novembre 1910. Ne rimase particolrmente danneggiata Casamicciola: "Alla Marina quel rione di baracche è restato completamente allagato; son centinaia le famiglie messe sul lastrico, si è avuto qualche morto. Alla contra-da Bagni il disastro è stato maggiore. Lo stabilimento Lucibello è una pietà, è andato miseramente distrutto; altri sta-biimenti a ridosso hanno avuto la stessa sorte; grandemente è stato danneggiato lo stabilimenrto Manzi; le altre abitazioni della contrada, quale più e quale meno, hanno subito la stessa sorte. Sono scesi alle pendici dell'Epomeo dei blocchi enormi, alcuni sino a 5 metri cubi di volume; sembra incredibile, ma biso-gna vedere per credere! Alla contrada Rita poi devastazione generale: case pareggiate al suolo; due o tre stabilimenti ad uso dei fanghi, sorgenti di ricchezze, interamente distrutti; le rotaie delle volte le osservammo sulla marina del Lacco attorcigliate come pieghevoli tralci di vite; undici i morti. I

floridi vigneti che rivestivano le pendici dell'Epomeo inte-ramente distrutti. Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III, che stava a San Rossore, precipitosamente è corso su questo Mezzogiorno nostro cos' amaramente e ripetutamentepercosso. Arrivò a Casamicciola su una torpediniera, l'Orfeo, alle due pom. mercoledì 26: volle vedere tutto, volle confortare assai; nel-la piazza Bagni ricevette l'omaggio del clero loale, disse la parola di ringraziamento il Rev. Don Cristoforo Morgera".

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Prosegue la pubblicazione dell'opera autobiografica del prof. Massimo Mancioli sulla sua esperienza in Yemen, quale medico personale dell'Imam Ahmed e primario medico del Royal Hospital di Taiz

Il mioYemen(1955 - 1968)

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Il Palazzo reale era fuori dal centro. Tutte le abitazioni dei pescatori e della povera gente erano zeribe, cioè capanne di paglia, in genere, però, ben fatte, spaziose, di-vise le une dalle altre da piccoli pezzi di terreno sabbioso, recintato con canne. Ne veniva fuori una ragnatela di sentieri, ove si incontravano nunu (bambini) nudi, intenti a giocare sulla sabbia, galline, qualche cane spelacchiato. Se il mare era vici-no, se il rumore delle onde sollevate dal monsone era percepibile, malgrado tutto quello squallore lo spettacolo non era triste.

Con l’aiuto dei Russi il quadro stava cambiando. Un nuovo, vero porto era in alle-stimento a circa 3 km a Nord del vecchio porticciolo. Si diceva con insistenza che i Russi, nel costruire il porto, pensassero innanzi tutto alle installazioni per una loro base segreta di sommergibili nucleari. Questo era il tema più volte dibattuto con gli amici americani, che avevano puntato tutto sulle loro basi aeree di Asmara e di altre zone dell’Eritrea e dell’Etiopia, fidando sulla inamovibilità del Regime Impe-riale del Negus Ailé Selassié.L’aeroporto di Hodeidah era in via di miglioramento grazie ai Russi, ma già di per sé era un buon aeroporto, situato vicino al mare, in pieno bassopiano, vicinissi-mo alla città. Forse, però, portava un po’ jella. Una volta, infatti, mia moglie, per scherzare, poggiò delicatamente un dito sulla coda di un bimotore su cui era scritto “Vietato toccare”. Ci allontanammo di pochi passi, sentimmo uno strano rumore. L’aereo si era “accosciato”, cioè la sua coda direttamente poggiava per terra perché la piccola ruota che la sosteneva si era staccata.Un’altra volta, in partenza per Asmara, ove c’era la coincidenza per Roma, non fummo avvisati bene dal personale di bordo della partenza. Eravamo all’ombra sotto un’ala, a parlare con i Severino, quando l’aereo incominciò a rullare. Ci preci-pitammo alla portiera, che era aperta, infilai a volo mia figlia in carlinga, sostenni mia moglie nella stessa manovra e mi scorticai un ginocchio per eseguirla a mia volta, mentre l’aereo incominciava a muoversi.

Paride Paris era il mohandis marchigiano che mandava avanti la Centrale Elettrica di Hodeidah da molti anni.A Hodeidah si crepava dal caldo? “Sciocchezze! Ci si abitua. E qui abbiamo il mare, il pesce, le perle, etc. Che ci avete voi a Taiz?”A Sanaà non c’è acqua, fa freddo, sono fanaticucci, non ci sono W.C.? “Ci si ar-rangia benissimo, basta organizzarsi. Ma vuoi mettere le bellezze di Sanaà, il suo fascino misterioso? C’è qualcosa di simile a Taiz?”

Un personaggio di tutto rilievo a Hodeidah era l’amico radiologo Nicola Severino. Di nobile famiglia di Lucera, Nicola era un uomo pieno di ingegno e di risorse. Sapeva fare di tutto: dalla riparazione di un orologio alla fotografia d’arte, alla cinematografia documentaria, al taglio di un paio di calzoni, alla costruzione (che eseguì a puntino, per l’Imam) di un palazzo in cemento armato.

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Massimo Mancioli

Nella sua casa avita, a Lucera, c’era una cappella gentilizia con un altare, sotto il quale, protetto da lastre di cristallo, si venerava il corpo di un giovinetto protomar-tire cristiano, ricoperto di cera ben colorata e con la palma del martirio in mano. In quel periodo Nicola era in Yemen con Adriana, per la quale aveva lasciato la sua agiata vita e il suo bello studio radiologico a Genova. Era venuto lì subentrando ad un precedente radiologo che, per posta, non lo aveva certo messo bene al cor-rente di quanto gli lasciava (casa e Land-Rover piuttosto malconce) in cambio di ciò che lui gli offriva a Genova. Ma Nicola era un filosofo nato e non rimpiangeva assolutamente niente: anzi, era sempre pieno di entusiasmo per la sua nuova vita. Andò, una volta, in riva al mare, in un lontano paesello di pescatori di perle, ver-so l’Arabia Saudita. C’era un vero mercato di perle. Le vendevano a tanica chiusa, cioè vendevano taniche di latta da 7 galloni che servivano per il petrolio, piene di perle, perline e scarti marini vari, accuratamente sigillate. Nicola scelse una tanica e tornò ad Hodeidah tutto contento. Andò poi dai mercanti che trattavano queste cose per una prima, accurata cernita delle perline e perle che valeva la pena di con-servare. Si passava poi da artigiani di non so quale paese per la pulitura delle perle, che acquistavano, così, la loro particolare lucentezza. Infine, ultima tappa, biso-gnava andare in Olanda per far bucare regolarmente le perle destinate a collane, previa accuratissima selezione in base al diametro, alla forma più o meno regolare, alla “luce”, etc.Nicola ottenne così un bel collier e altre piccole cose.“Se andavo a Roma da Bulgari - diceva - lo avrei pagato la stessa cifra. Ma vuoi mettere la soddisfazione!?”Rossi, a questi racconti, ascoltava e sorrideva sornione... “Vi farò vedere io” - sem-brava dire.Una sera, tornando da Hodeidah, venne di corsa da noi con un pacchetto fatto di carta di giornale.“Guardi, guardi, signora!” - E piano piano cominciò a disfare il pacco. Dopo una montagna di fogli di giornale, arrivò ad una scatoletta di latta del Formitrol. L’aprì. Dentro, fra ovatta azzurra, c’era una perla di media grandezza. Mia moglie, spirito femminile della diffidenza, la prese, la rigirò fra le dita, poi con uno spillo la grattò leggermente. E la sottile vernicetta perlacca che ricopriva la perla di vetro saltò via.“Disgraziati, ladri!”, si lamentava Rossi, avvilito. “Ma, quanto l’ha pagata, dottore?”“Un tallero, signora! Un tallero!”“E che cosa voleva con un tallero? Era lei che credeva di averli presi in giro, ma è andata come la storia dei pifferi di montagna, che andarono per suonare e furono suonati”.

Quando andavo a Hodeidah, ero sempre a cena da Nicola e Adriana, che, poveri-na, si dava molto da fare perché tutto filasse alla perfezione malgrado il caldo. Per il caldo, anzi, notai che in due anni di permanenza, si erano talmente assuefatti a quel clima infernale che d’inverno chiudevano le finestre e usavano, sul letto, una copertina di lana! Noi, invece, facevamo il bagno di mezzanotte a capodanno: ci sembrava di nuotare in una piscina termale. Sulla spiaggia e sulle barche c’erano amici con fanù a farci luce.

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Il mio Yemen (1955 - 1968)

Il lichene era la noiosissima conseguenza del caldo-umido: le ghiandole sudorifere scoppiavano e si formavano sulla pelle dei pomfi arrossati, terribilmente prurigi-nosi. Il cranio non era risparmiato. Avendo notato che i pochi eletti che avevano i rarissimi impianti di aria condizionata (gli Uffici Americani e il nostro consolato, ad esempio) erano i più colpiti, seguii il criterio opposto, cioè, anziché cercare di eludere il clima, tuffarcisi dentro, come facevano i pescatori. Acqua salata e sole per tutto il giorno creavano una spessa patina salina su cui non sorgevano mai pomfi.

Il prof. Gozzano venne a Hodeidah durante la convalescenza dell’Imam. Aveva subìto un attentato all’Ospedale di Hodeidah: una frattura esposta del femore men-tre usciva dal Reparto Radiologia, dove era andata a fare una lastra. Severino se l’era scampata per miracolo: era lui, infatti, a sostenere l’Imam mentre camminava per l’Ospedale. Avrei dovuto fare la stessa cosa io, dall’altro lato, ma ero in Italia.Mi telefonò l’ambasciatore yemenita a Roma e organizzammo per l’invio imme-diato del prof. Jannelli, ortopedico dell’Università di Napoli, poi del prof. Gozzano, neurologo, e del mio maestro, Mariano Messini, clinico.Eravamo alloggiati al massimo delle possibilità di Hodeidah: un intero piano del vecchio Dar el Diafa era stato messo a disposizione nostra e dell’ambasciatore USA, Gardner, che dal Cairo si accingeva ad occupare la sede di Roma. C’erano anche mia moglie e mia figlia e si cercava di passare la giornata piacevolmente. Malgrado tutta la buona volontà yemenita e il trattamento eccezionale, il Dar el Diafa, vec-chio, era sì un bel palazzo arabo, ma assai poco confortevole. Una sera stavamo giocando a bridge nel largo salone corridoio dove si cenava, quando sopraggiunse una forte serie di scosse di terremoto sussultorio. Anche in questo caso, penso, Al-lah fu misericordioso: malgrado fossimo all’ultimo piano del palazzo, con pavimen-ti a dir poco preoccupanti perché stranamente concavi nel centro delle camere, non successe il minimo incidente. Altre case, all’intorno, furono lesionate più o meno gravemente.

L’ambasciatore Gardner era un vero gentleman. Era da giorni in attesa di essere ri-cevuto dall’Imam il quale sembrava facesse apposta, con scuse varie, spesso bislac-che, a non riceverlo. C’erano, evidentemente, grosse ragioni politiche dietro questa scortesia appa- rente, che veniva colmata da una serie di attenzioni mai viste usare per altri ambasciatori. Feci notare la cosa. Ci si scherzava sopra cercando di indo-vinare la prossima cortesia e la prossima ragione di rinvio dell’incontro program-mato. Quando, infine, venni chiamato dall’Imam, come di solito, a notte fonda, feci presente en passant che quel “meschìn” del povero Wasir Ameriki, Gardner, appunto, era molto dispiaciuto di non essere ricevuto: sembrava proprio una brava persona e conosceva a menadito tutto quello che si diceva al Cairo.Nasser era la bestia nera dell’Imam, non solo per ragioni politiche, ma anche per il suo modo di vestire all’europea e per certi atteggiamenti un po’ duciacchieschi, non certo raffinati e intonati a un Capo di Stato del Regno dei faraoni, secondo il gusto dell’Imam.

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MassimoMancioli

Il giorno dopo l’ambasciatore Gardner fu ricevuto. Mi invitò poi a Roma nel suo grande studio all’Ambasciata USA, in via Veneto, e fu come sempre molto affabile e gentile ricordando quelle giornate di Hodeidah.

Se c’era un posto dove vivere era difficile, in Yemen, questo era Sokna (El Sukna). Non molto lontana da Hodeidah, ai margini del bassopiano, dove iniziavano i pri-mi rilievi montuosi, era una plaga desertica, sassosa, priva di vegetazione. Sorgeva in mezzo a questo squallore un Palazzotto Imamiale con alte mura di cinta. Poco lontano era stata arrangiata alla men peggio, spazzando via tutto il pietrame del terreno, una pista di atterraggio. Per l’ingombro di un wadi, incassato nel deser-to, e la vicinanza delle prime erte colline, la pista era più difficile di quella di Taiz in quanto formava una sia pur ampia curva che circondava metà della base della montagnola più vicina. Specie in decollo, l’aereo veniva a passare molto accostato a questo “monterozzo” roccioso con la sua ala di destra. La pista aveva un modesto baraccone per la benzina e i pezzi di ricambio e una tettoia di paglia per ripararsi dai raggi del sole. Vi erano, infine, due sole piccole costruzioni, molto rudimentali, per i funzionari del Regno, i medici, i piloti, eventuali ospiti. Il villaggio era a circa 2 km.Nel sottosuolo del Palazzo sgorgavano sorgenti termominerali calde (e da qui il nome arabo della località) indubbiamente molto valide nel trattamento delle croniche reumo- artropatie (nonché in ginecologia e in O. R. L.), molto apprezzate dall’Imam. Dico “purtroppo” perché l’Imam andava spesso a Sokna, dove trova-va sollievo dalla sua artrosi e ci rimaneva a lungo per mesi e mesi. Naturalmente voleva che i suoi medici lo seguissero lì. Tra il caldo insopportabile, l’assenza di un minimo di comfort (si dormiva in due, tre persone in una cameretta spoglia, su angareb duri come il sasso, mangiando quello che i boy riuscivano a combinare) la vita a Sokna era un vero disastro. Riuscii, un po’ per volta, ad organizzare dei turni di guardia: ogni 15 giorni due medici andavano e due medici tornavano. La cosa era più ragionevole.Unico passatempo era il gioco degli scacchi. Andava bene quando, come compagno di turno, c’era Andrey, buon giocatore. Ma anche diversi yemeniti giocavano.Al tramonto era consuetudine di tutti andare a fare due passi lungo quella strana pista di atterraggio. Spesso accadeva che qualcuno, nella penombra del crepuscolo, non si avvedesse di qualche serpentello e venisse morso. Malgrado ripetutissimi ri-chiami, non ero mai riuscito ad avere sul posto dei sieri anti-ofidici polivalenti. Mi arrangiavo con sistemi primitivi: legatura con un laccio, far scorrere molto sangue con un taglio deciso, ghiaccio. Davo anche forti dosi di anti-istaminici e analettici. Il piede e la gamba si tumefacevano e davano forte dolenzia con febbre elevata. Nessuno però moriva. Dopo tre giorni tutto ritornava alla norma.Lo zoologo dell’Università di Genova, prof. Scortecci, che venne in quegli anni in Yemen per una accurata ricerca, catturava personalmente i serpenti con una de-strezza e un sangue freddo eccezionali. Si serviva o di un rametto robusto tagliato a Y o dell’indice e medio di una mano tenuti rigidamente divaricati in modo da for-mare una Y. In entrambi i casi la testa del serpente veniva fulmineamente incastra-ta nella Y e con la mano libera altrettanto fulmineamente veniva afferrata la coda del rettile. Così immobilizzato (“E’ semplicissimo”, diceva Scortecci) il serpente era

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infilato in un sacchetto trasparente di plastica.Il prof. Scortecci passò per Taiz all’andata e al ritorno della sua spedizione, ospite dell’ambasciatore Benardelli. Una sera, poco prima del suo rientro a Genova, lo avemmo a cena da noi.“Allora, professore, è contento delle sue ricerche? Che tipi di serpenti ha trovato inYemen?”“Viperidi e Colubridi”. “E altre specie?”“Ma guardi che viperidi e colubridi comprendono tutti i tipi di serpenti che esisto-no sulla terra!”

Notai che gli ascari del bassopiano molto raramente erano morsi dai serpenti. Pen-savo fosse la loro abilità nello scansarli, poi notai che gli strani sandali che calzava-no erano le loro armi difensive, perché erano fatti in modo che una ricca frangia di striscette di cuoio ricadesse intorno ai piedi, quando camminavano. Imbattendosi inavvertitamente in un serpente, il rettile veniva colpito dalla frangia di cuoio e o fuggiva spaventato o, se voleva attaccare, era frenato dalle striscette di cuoio piut-tosto rigide e non arrivava al piede o alla caviglia.L’arma di offesa contro i serpenti (ce l’aveva anche il nostro boy e l’adoperò una volta nella nostra camera da letto, sotto la culla dove dormiva la bambina) era una piccolissima accetta, con la testa tagliente, non più grande di due scatole di fiam-miferi svedesi, e un manico di bambù lungo circa 35 cm. La tenevano sempre a portata di mano, infilata nel cinturone. La flessibilità del manico di bambù permet-teva alla pesante testa dell’accetta di cadere al suolo parallelamente al terreno in modo da non lasciar varchi di fuga al serpente.

A Sokna gli Americani fecero venire un loro colonnello medico, celebre dentista, per un sofisticato intervento di protesi sull’Imam. Le difficoltà pratiche erano molte e ci volle tutto il dinamismo del Pino Gasparini, che, come chirurgo di fidu-cia, assisteva lo specialista, per creare una saletta operatoria in una apposita tenda da campo americana montata... in una sala del Palazzo Reale. L’intervento andò benissimo, ma come al solito l’Imam era troppo insofferente per sopportare prote-si complicate.

Le sorgenti di Sokna sgorgavano, caldissime, nel sottosuolo cribroso del Palazzo e formavano una serie di piscine termali o del tutto al coperto, per l’Imam e le donne reali, o sotto ampie tettoie che si affacciavano nel giardino interno. Erano acque cloruro-solfato- sodiche, radioattive, sul tipo di quelle ischitane (anche lì il terreno è di origine vulcanica). Feci un progetto per la valorizzazione di tutte le sorgenti termali yemenite, che non erano poche e che dagli studi che potei fare erano sicu-ramente idonee ad essere utilizzate razionalmente su più vasta scala.

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Anche sul “nostro” Monte Saber, che dominava Taiz, vi era una sorgente oligomi-nerale che poteva essere paragonata a Fiuggi. Ogni due giorni una corvée di muli saliva sul Gebel e ci portava in Ospedale un certo quantitativo di acqua, che veniva data ai malati appositamente ricoverati per poter seguire con esattezza l’anda-mento della cura. Osservai così la potente azione diuretica e antiurica esercitata da quest’acqua, e l’eliminazione spontanea in molti casi di calcoli renali e vescicali (diffusissimi in Yemen).Si potevano fare molte cose in questo settore (*) e nel campo delle reumo-artro-patie croniche, con la balneoterapia in sorgenti calde, in genere solfuree. Lo Stato avrebbe risparmiato delle cifre importanti, organizzando un moderno termalismo sociale. Purtroppo le vicende politiche bloccarono allora il progetto.

* Mancioli M., Parrinello E. A.: Idroclimatologia del Yemen. International Archives of Medical Hydrology, 1967.

MassimoMancioli

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Parte III

Intermezzo congolese

Con l’O. M. S. in pieno dopo-Lumumba

Ricevevo spesso giornali medici europei, americani, australiani per essere a con-tatto col “mio” mondo. Una volta, ricordo, risposi ad una inserzione del Governo Australiano che cercava medici per il controllo degli immigrati a Perth. Un’altra volta si trattava di un posto di lavoro veramente “fuori serie”: volevano un “Senior Medical Resident” per un atollo facente parte di un gruppo di sette sperduti isolotti sulla rotta Australia-India (una nave ogni 15 giorni, un aereo ogni 10, popolazione bianca 20 persone, indigeni 340). Ogni volta la tentazione di una avventura diver-sa dalla quieta vita yemenita faceva capolino, ma poi veniva respinta. Un giorno, però, lessi un comunicato diramato dall’Organisation Mondiale de la Santé (O. M. S.) in cui si cercava un medico con amoia esperienza di paesi afro-asiatici e gros-si titoli universitari per assumere il posto di Medico Provinciale di Leopoldville (Congo ex-belga). M’informai subito dagli amici francesi se quel Médecin Provin-cial equivalesse esattamente - come funzioni e importanza - al termine italiano. Sì, esattamente. “Ma allora è veramente un gran bel posto!”Scrissi subito all’OMS, a Ginevra. Mi risposero con sollecitudine. Il mio curriculum andava bene. Dovevo recarmi da loro per sostenere un larvato esame (che in realtà fu molto approfondito, anche sul piano della lingua francese).Proprio in quel periodo (marzo 1960) mia madre si era aggravata e avrei dovuto andare a Roma per assisterla. Non dissi, quindi, all’Imam che ero in trattative con l’OMS (si sarebbe offeso!) e chiesi solo di anticipare la mia licenza a causa di mia madre. Se fossi andato in Congo realmente avrei scritto col dovuto garbo.A Roma trovai mia madre in extremis. Telefonai a Ginevra spiegando la situazione. Mia madre si spense poco dopo fra le mie braccia.Trascorsa una settimana, andai a Ginevra. Ci fu un minuzioso “larvato esame” sotto forma di lunghe conversazioni - tutte in francese - con vari alti funzionari e medici dell’OMS, ognuno dei quali, senza farlo apparire, mandava il suo giudizio alla Direzione Generale. L’amico Dr Giaquint, grande esperto di oncocercosi (una malattia tropicale), conosciuto in quei giorni, mi teneva al corrente dell’andamento dei miei colloqui-esame. Andò tutto benissimo. Si congratularono per la mia nomi-na, firmai il contratto. Ero piuttosto “tirato” fra la scomparsa di mia madre e quel “tour de force” ginevrino.Rientrai in Italia, ad Ischia, dove avevo lasciato la famiglia, e pochi giorni dopo ero in volo con la K.L.M. da Roma al Congo. Era il giorno della festa della Regina d’Olanda: nell’aereo semivuoto ci offrirono drinks, pasticcini e liquori olandesi in onore di S. M.

Già dall’arrivo si poteva chiaramente capire che l’atmosfera congolese era tutt’altro che tranquilla. Lumumba era stato trucidato dagli uomini del Presidente Mobo-

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tu non molte settimane prima. La popolazione era divisa, insicura, eccitatissima, unita solo nell’odio contro gli ex padroni, i Belgi (Sales Flammandes, cioè Sporchi Fiamminghi) e i bianchi in genere. Circolavano diversi giornalisti russi, che certo non contribuivano a smorzare le cose. Le truppe dell’O.N.U. erano poche e - mi sembrò - dirette con incertezza e timore. Ogni Corpo rappresentante un Paese dell’O.N.U. godeva di una quasi illimitata autonomia. Mancava un vero Comando capace di armonizzare l’attività dei vari reparti e dare direttive precise. A Leo-poldville, Mobutu e le truppe a lui fedeli avevano in mano la situazione, ma fino a un certo punto. Di notte, ad esempio, non era proprio il caso di girellare per strada, specie verso le sponde del fiume Congo. La periferia e le campagne limitrofe erano ancora assai poco sicure. Cento volte peggiore la situazione in altre zone del Paese, ad esempio a Stanleyville, come ebbi poi occasione di provare di persona.Alla dogana primo scontro con i poliziotti locali che, con ostentata malagrazia, frugavano nella mia unica valigia gettando ogni tanto a terra qualche indumento, qualche libro. “Livres!” dicevano con occhi sgranati: “E che libri sono? Politici, certo! Di propaganda!”. Con somma pazienza feci osservare, documenti alla mano, che ero Medico dell’OMS, anzi, così come era stato stabilito a Ginevra, Tenente-Colonnello Medico dell’OMS. Il mio passaporto era un passaporto di servizio dell’ONU. Non bastava tutto questo per farli agire con un minimo di non scortesia? Volevano a tutti i costi creare un incidente diplomatico? Mi sarei rivolto all’ONU immediatamente, in tal caso.Bofonchiando fra loro mi fecero il massimo delle cortesie in quel frangente: spari-rono dal mio orizzonte.Fui alloggiato in un bell’albergo del centro, occupato solo dal personale dell’ONU e dell’OMS. La mattina dopo dovevo presentarmi al Capo locale dell’OMS. Il gran-de capo, un negro americano, era, come appresi, in ferie. La sua segreteria aveva organizzato un corso per mettere al corrente tutti i nuovi arrivati sulle complicate norme di servizio, leggine locali, etc... Ci trovavamo, in circa una dozzina di perso-ne, ogni mattina e ogni pomeriggio. Il capo, però, non tornava mai. Ebbi un cor-tese invito a cena all’Ambasciata d’Italia: l’ambasciatore aveva diretto, durante la guerra, gli Uffici Civili dell’Impero (Fascista) d’Etiopia.Feci, piano piano, amicizia con diverse persone. Nel nostro gruppetto c’erano an-che un paio di brave ragazze belghe e un paio francesi, tutte funzionarie diligenti, ma anche simpatiche compagne nelle nostre gite domenicali. A circa due ore da Leo (così si chiamava Leopoldville fra gli iniziati) c’era un laghetto di acque ferru-ginose, color rosso- arancio, incassato in una valletta verdissima. Il posto era ben attrezzato, con un piccolo Restaurant, capanne-spogliatoio, piccoli gazebo ombro-si, ai margini della foresta. Qual- che volta si andava a casa delle due belghe, che si erano attrezzate molto bene: un bel soggiorno, grammofono con ricco corredo di dischi, bar sempre ben fornito, un pianoforte. Un simpatico toscano che lavora-va per l’UNICEF si esibiva con sue creazioni musicali, a metà strada tra Puccini e Brahms. Un altro italiano era, invece, bravissimo a intagliare, con un trapano da dentista, le zanne di elefante (che venivano offerte per pochi dollari da venditori ambulanti che si intrufolavano fra i tavolini all’aperto dei caffè del centro).Qualche bella serata la passavamo a La Devinière, un meraviglioso Restaurant nel bosco, ai margini della città. Era pericolosa quella zona e lo sapevamo e lo sapeva pure la padrona, una distinta signora belga che, infatti, aveva chiuso il locale. Lo

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apriva, di quando in quando, col minimo del personale, per serate fra amici. Era una costruzione caratteristica, calce e legno, con saloni enormi, larghissime ve-rande, terrazze a livello di tutti i tipi. Il magnifico parquet di legno pregiato, i bei divani bianchi, un enorme pianoforte a coda da concerto, di mogano, ecc. creavano nella foresta congolese un' atmosfera magica. Il mangiare era al livello dell’am-biente. La carne (da potersi tagliare con la forchetta) veniva in aereo da Bruxelles.“Ma come, con tutto il bestiame che c’è in Congo?”“Qui non è possibile allevare vitelli che diano filetti teneri come i nostri” rispon-devano a La Dévinière. Preparavano un filet à l'américain del tutto particolare: pezzettini di carne cruda che ciascun commensale infilava col proprio forchettone (dal lungo manico colorato in varie tinte, in modo da riconoscerlo a distanza) e metteva a cuocere in una pentola posta sopra un fornelletto spevciale, al centro del tavolo. Le infinite salse che riempivano le piccole terrine di cui ciascuno disponeva servivano a variare ogni volta il sapore del cibo: senape, curry, mostarda di frutta, marmellata di mirtilli e di frutta tropicale, etc. La padrona era larga di consigli per ottenere, incredibilmente, mélange armoniosi.In una mitissima notte congolese di maggio, con un cielo d’un azzurro cupo vel-lutato, la Croce del Sud, una falce di luna tropicale (disposta cioè in senso molto orizzontale), le foltissime chiome degli alberi incombenti su La Dévinière, una vecchia melodia di Cole Porter che veniva dal Bechstein a coda, comparve Jeani-ne. Era una giovane signora belga slanciata, flessuosa, con un viso affilato, grandi occhi grigi, capelli color tiziano che le arrivavano alle spalle, un sorriso dolcissimo e un fare “pulito”, all’acqua e sapone... Ballammo anche noi e subito quel contatto suscitò un qualcosa che entrambi cercavamo di nascondere. Ci vedevamo, però, as-sieme agli altri, il più possibile. Ballavamo stretti al massimo. Arrivammo a tuffarci contemporaneamente dalle opposte sponde di una piscina in modo da incontrar-ci... sott’acqua. Lì ci baciavamo rapidissimamente - data la situazione. Un giorno mi azzardai, in quegli incontri sub, a metterla in topless. Mi tenne il broncio per tre giorni, poi mi sussurrò, ballando, che il nostro era solo un folle sogno dei Tropici, al di fuori della “nostra” realtà. Aveva perfettamente ragione.Sempre in attesa del grande capo per iniziare la mia attività, seguivo da vicino i molti e gravi problemi che l’andata via dei Belgi aveva creato in tutti i settori del-la vita congolese. C’era, tanto per cominciare, quello della Scuola. Dove andare a pescare maestri di lingua francese (perché questa era la lingua ufficiale, essendo impossibile unificare i cento linguaggi locali, molto dissimili l’uno dall’altro e trop-po primitivi per le esigenze d’un mondo moderno)? In Belgio e anche in Francia proprio no. Provarono in Italia. I venti vincitori di un concorso indetto dal nostro Ministero Istruzione Pubblica ressero in Congo non più di un mese: gli ispettori dell’UNICEF si accorsero subito che il loro francese era spaventoso. Una cosa poi è parlare e una cosa è insegnare una lingua a bambini negri che non la sanno. Si trovò con molte difficoltà qualche maestro all’altezza della situazione in Spagna, Portogallo e in Sud America. In questa non certo brillante situazione gli addetti dell’ONU ebbero l’improntitudine di organizzare un symposium sulla necessità di creare una Università afro-negra. Intervenni al dibattito scandalizzando per lo meno la metà dei convenuti col dire che mi pareva quanto meno ardito il fatto di parlare di cultura universitaria quando era tuttora da risolvere il problema terra-terra della Scuola Elementare.

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Altro problema era quello della navigazione fluviale, unico mezzo di comunicazio-ne nell’intricato bosco tropicale congolese. La Otraco, la compagnia che gestiva la navigazio- ne, era un equivalente delle nostre ferrovie dello Stato, per importanza e numero di dipendenti. Qualche anno prima, un missionario americano aveva avuto la bella idea di seminare strane piantine portate dagli USA lungo lo sperduto ruscello che costeggiava la sua Missione, proprio al centro del territorio congolese. Rapidamente queste piantine acquatiche avevano invaso tutto il bacino del fiume Congo, un bacino fra i più grandi del mondo. In molti tratti, malgrado la guerra contro la “terribile insidia verde”, la navigazione era difficile o, addirittura, impos-sibile, con danni spaventosi per l’economia locale. Si stavano, appunto, studiando, in quel periodo, nuovi mezzi di lotta.C’era poi il problema del legname: la foresta congolese è talmente ricca di albe-ri che proprio questo era un ostacolo alla raccolta sistematica del legno. Infatti, poiché a livello industriale è necessario raccogliere, a seconda delle circostanze, un solo tipo di legno, era assolutamente non conveniente mandare in giro per la fore-sta squadre di operai per trovare ad es. del mogano, con distanze di 50/100 metri fra un albero e l’altro, ciascuno sommerso nell’intrico fitto di alberi di altre qualità. L’amico Ricciardi, che era a capo di questo settore, si dannava l’anima per trovare una soluzione. Scoprì, ad un certo punto, che i tecnici forestali belgi avevano crea-to, qua e là, delle piccole aree omogenee, cioè con alberi della stessa specie. Allora cercò, con qualche successo, di scambiare queste notizie riservatissime (i Belgi “ci marciavano” per avere in mano la carta buona per essere assunti in servizio dalla F.A.O.) con bottiglie di whysky. Per il momento, però, era ancora più conveniente importare il legname!Di vitale importanza, infine, il controllo delle aree malariche, di quelle con la febbre gialla, dei lebbrosi, etc. Non mi sembrava proprio che fino ad allora l’OMS locale si fosse mossa in questa direzione.Era circa un mese che ero arrivato quando, bontà sua, il gran capo rientrò in sede e mi convocò.Attraverso un lungo, viscido e tortuoso giro di parole mi disse che le circostanze erano mutate dal mio soggiorno ginevrino e che, con suo enorme rincrescimento, era obbligato a scegliere come Medico Provinciale un uomo di colore (un suo pae-sano, pensai). Stessi però tranquillo! Avrei fatto il Medico Provinciale a Stanleyvil-le, con lo stesso grado, lo stesso stipendio. Il mio stupore e la mia indignazione era-no al colmo. Ma che potevo fare? Risposi che avrei informato della sua inaspettata decisione Ginevra e la nostra Ambascia- ta: avevo sottoscritto un regolare contrat-to e non vedevo perché avrei dovuto accettare modifiche.La sera ero in Ambasciata, ma capii subito che poco c’era da fare.“La nostra situazione, qui, è così difficile... La situazione del Paese è esplosiva... Non possiamo creare attriti con l’OMS..” e via di questo passo.“In fin dei conti lei mantiene in pieno il suo incarico. Si tratta solo di cambiare sede”. Capii l’antifona, ringraziai e salutai. Le parolacce me le tenni dentro.

Tre giorni dopo ero in aereo diretto a Stanleyville, la cittadina che allora ancora prendeva nome da Stanley. Mi veniva in mente, mentre sorvolavamo la fittissima foresta posta nella fascia equatoriale, lo straordinario incontro fra Stanley e li-

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vingstone, dopo una ricerca durata circa due anni. Quando, dopo infiniti disagi e peripezie, Stanley vide l’unico uomo bianco che avesse mai calcato quel territorio, gli si avvicinò, commosso, ma disse soltanto: “Doctor Livingstone, I suppose!”Il primo impatto con gli armigeri doganieri fu di gran lunga peggiore di quanto mi era capitato a Leo. Qui non era solo disprezzo e voglia di creare incidenti diploma-tici, ma vero e proprio odio, espresso in maniera primitiva. Per fortuna c’era ad accogliermi una jeep dell’ONU con la Military Police e tutto andò bene.L’impressione negativa di Stanleyville aumentò sempre di più guardandomi in giro. Sacchetti di sabbia con postazioni di mitragliatrici ai bordi della pista e all’in-gresso dell’aeroporto. Viavai di soldati congolesi armati sino ai denti. Un povero negro, anziano, preso a frustate e caricato a calci in un camion militare fu la prima sceneggiata locale. All’Hotel della Sabena vicino all’aeroporto, si respirava un’aria intonata all’ambiente: tutti con le valigie a portata di mano, confidando - fino ad un certo punto, però - sulla protezione della M. P. e delle truppe dell’ONU. L’Al-bergo aveva un corpo centrale con i saloni e la camera da pranzo, poi si frazionava in una trentina di piccoli bungalow bifamiliari sparsi ai margini della foresta tropi-cale, senza alcuna recinzione. La sera, rientrando nel mio bungalow, che era un po’ periferico, capitava di imbattersi in grossi scimpanzé che camminavano tranquilli per i fatti loro. Altre volte, invece degli scimmioni, si potevano incontrare “batton-cine” locali che “facevano la posta” per trovare qualche cliente. Le camere da letto dei bungalow erano molto accoglienti, con un piccolo vano di ingresso che assicu-rava una confortevole riservatezza e un bel bagno.

Feci amicizia con altri due medici arrivati con me: uno era un italiano nato e vis-suto a Mogadiscio, l’altro uno spagnolo dell’isola di Ibiza. Per fortuna reciproca - come vedremo fra poco - tutti noi avevamo larga esperienza coloniale, in più lo spagnolo si era fatta la Guerra Civile ed io l’ultima guerra e la partigianeria.In attesa di essere convocati all’OMS andavamo a zonzo in città, dove come all’ae-roporto, erano frequenti le piccole postazioni con mitragliatrici e tutto l’apparato guerriero di circostanza. Un giorno, passando per un lussureggiante giardino pub-blico, vedemmo qualcosa di veramente strano: una cabina telefonica vuota era sta-ta addobbata a ricordo di Lumumba con un suo grande ritratto e fiori a profusione. Io tirai avanti senza fermarmi, i miei colleghi, invece, si fermarono e si lasciarono sfuggire una sommessa risatina. Per fortuna li richiamai immediatamente. In quel momento sbucarono dai cespugli due armigeri congolesi, mitra in mano, che corsero verso di noi agitatissimi. Riuscimmo a spiegare che eravamo non belgi, ma italiani e spagnoli dell’OMS, che eravamo arrivati allora, che non sapevamo del “monumento” a Lumumba, e quindi eravamo rimasti sorpresi, ma assolu- tamente non avevamo voluto schernire la memoria di “Monsieur”. Ci andò bene.Per andare in città dall’albergo (per lo meno 5 km di strada, che tagliava, dritta, la foresta) era facile trovare posto in qualche macchina dell’ONU; al ritorno era molto difficile e dovevamo camminare di notte in zona non certo sicura. Prendem-mo, quindi, in affitto per una cifra irrisoria una splendida villa di un magnate belga

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che era fuggito in patria (occasioni del genere erano frequentissime, data la situa-zione). Tre saloni, cinque camere da letto, tutto lussuosamente arredato, ben dieci bagni, una piscina, un piccolo anfiteatro con grande schermo per la proiezione dei films, uno splendido giardino, garages, verande, etc. Il tutto molto vicino al centro.Ripensando al “monumento” a Lumumba si restava sempre più perplessi di una cosa: un uomo che a Leo era stato ucciso come un sovversivo dal Governo e la cui memoria era esecrata, a Stanleyville non solo era rimasto l’idolo della popolazio-ne, ma si sfidava pubblicamente il Governo centrale allestendo, alla sua memoria, quel patetico “ricordo” che ci stava per procurare un grosso guaio. Evidente che la Polizia lo usase, anche, come esca per catturare i nemici del Regime. Ma di quale Regime? Di quello tutto particolare di Stanleyville, residuo del Programma rivolu-zionario di Lumumba?Finalmente la Direzione locale dell’OMS ci chiamò. Qui comandava un losco figuro, un egiziano che era stato buttato fuori dallo Yemen perché si avevano forti dubbi sulla sua laurea in medicina e invece molta propensione a credere che fosse un agente nasseriano. Come lo vidi, indovinai subito che anche a Stanleyville il mio contratto ginevrino sarebbe stato considerato carta straccia. Così fu.“Lei andrà nella bruss, cioè nella boscaglia, a far del bene a questi poveri negri: un po’ di medicina, un po’ di chirurgia fra le tribù dell’interno. Le diamo un bel sac-chetto di medicinali (penicillina, antimalarici, etc.). L’accompagniamo sul posto e la verremo a salutare una volta al mese”.Feci appello a tutta la calma disponibile, ribadii che il mio contratto stabiliva il mio incarico in veste di Medico Provinciale e non di Medico Condotto nella foresta tropicale, ecc. “Perché non ci va lei a fare del bene a quei poveri negri, invece di starsene seduto in poltrona come il suo degno collega di Leo?E sempre con calma, presentai immediatamente le dimissioni. “Orali?” - “Adesso orali, domani mattina per scritto (e in un vero francese, non nel vostro franco-afro-negro)”. Bene. La frittata era completa. Avevo lasciato il “mio” Yemen, avevo vinto un Concorsoa Ginevra, avevo lasciato la mia famiglia per quel bel risultato dovuto a due veri farabutti, uno della mafia nera, l’altro della mafia nasseriana!Rientrai a casa e passai il resto della giornata a scrivere un lungo rapporto in cui denunciavo l’incredibile torto subito e rassegnavo le mie dimissioni.La mattina dopo, molto di buon’ora, mi stavo preparando per andare all’ufficio dell’OMS, vestito in pompa magna per sottolineare il mio gusto di mandarli al dia-volo, quando, fulmineamente, sfasciando vetrate, sfondando porte, sparacchiando per aria con i loro mitra, un reparto della Guarde Nationale irruppe nella nostra casa. Secondo loro eravamo sales Flammandes e parachutistes (paracadutisti).“Ma, porca miseria, non vedete che siamo tutti piccoli di statura?” “Voi siste lo Stato Maggiore!”Tirammo fuori i passaporti di servizio dell’ONU, la fascia con la croce rossa, i do-cumenti dell’OMS. A parte il fatto che erano tutti uomini di “bassa forza”, probabil-mente analfabeti, ragionare, in circostanze simili, è piuttosto difficile.“Ma siamo italiani, per la miseria!”“Zitto! Tu hai gli occhi bianchi (voleva dire chiari), quindi sei proprio uno sporco fiammingo!”

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Ci strattonarono in malo modo verso una Volkswagen che partì a razzo preceduta e seguita da due jeep stracolme di armati, sirene al vento. Passammo di fronte alla caserma dove alloggiavano le truppe etiopiche dell’ONU.“Speriamo che se ne siano accorti e che facciano qualcosa”, pensai. Avevo al polso l’orologio d’oro regalatomi dall’Imam, con il suo volto e la carta geografica del Pa-ese sul quadrante. Nel trambusto del momento mostrai l’orologio per dimostrare che non solo non ero belga, ma ero medico del Re dello Yemen. Non avevo tenuto presente che gli Arabi erano andati per secoli a catturare i loro schiavi da quelle parti. Naturalmente mi sfilarono immediatamente l’orologio dal polso, agitandolo come un trofeo. E - devo dire - mi andò bene!Arrivati al campo della Gendarmerie Nationale la situazione si fece veramente brutta. Non si vedeva in giro nessun Ufficiale con un minimo di autorità, era solo truppa in balia dei suoi istinti peggiori. Donne e bambini si mischiavano alla calca urlante che ci aspettava oltre i cancelli d’ingresso. Sembrava quella scena famo-sa del film Per chi suona la campana sulla guerra civile spagnola: la folla si apre lasciando un varco, siamo spintonati fra due ali urlanti di folla che ci insulta, sputa e tira calci e pugni al nostro passaggio. Il collega spagnolo ha uno zigomo tume-fatto, quello di Mogadiscio riceve colpi violenti sulle costole con i calci di fucile (ne avrà due fratturate). Io me la cavo meglio, forse perché vestito accuratamente in chantung di seta bianco con camicia e cravatta, riesco a incutere, inconsciamente, un certo rispetto. Dico alle volte, schivando qualche brutto calcone: “Monsieur, est-ce-que vous joué au football?” Sembra impossibile, ma in momenti così critici può affiorare istintivamente una certa dose di umorismo. Alla fine del lungo corri-doio umano ci attendono tre celle dove veniamo sbattuti. Per fortuna, dopo avermi sfilato i mocassini, si sono dimenticati di fregarmi le sigarette. Fumo per distende-re i nervi. L’unica via di uscita è l’arrivo delle truppe dell’ONU. Ma si muoveranno? Seppi, poi, che era stato convocato d’urgenza un piccolo Consiglio di Guerra: si era molto indecisi sul da fare. Al campo della Gendarmerie Nationale, dove eravamo noi, regnava la più completa anarchia. Tutti gli ufficiali congolesi responsabili se l’erano svignata. C’era il timore che marciando sul Campo gli animi si sarebbero ancor più eccitati. Rischiavamo la pelle sul serio. Forse era meglio attendere. C’era un grosso Generale congolese che pareva ben disposto. Ma anche lui non osava prsentarsi di persona al Campo.A un certo punto vennero a prenderci e questa volta le loro intenzioni erano fin troppo chiare: volevano farci fuori. Cercai di parlare e di spiegare ancora, ma i no-stri carcerieri esigevano che noi parlassimo in un loro dialetto, poiché, capimmo, convinti che come paracadutisti belgi lo dovevamo conoscere. Quando, finalmente, riuscimmo a poterci esprimere in francese eravamo allineati al muro di cinta del Campo e una ventina di armigeri ci prendevano di mira con fucili e mitra. Incre-dibile la lucidità che sopravviene in momenti come questo! Primo, pensai, mante-nere la calma come abbiamo fatto sinora e non far minimamente capire a questi brutti scimmioni che abbiamo fifa. Secondo: accidenti a quando sono venuto in questo stramaledetto paese! Terzo: porco Giuda, potevo fare una assicurazione più alta! Una voce beffarda disse: “La dernière cigarette, Monsieur?” Risposi istintiva-mente in romanesco: “Ma va a morì ammazzato tu!”I mitra e i fucili si alzarono fulmineamente al cielo mentre sparavano. C’era andata

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bene. Ma il giochetto si ripeté ben tre volte nel corso della mattinata. Un po’ troppe... La prima volta, tutto sommato, era stato più semplice: senza la minima speranza di so-pravvivere, l’unico pensiero è quello di non fare la figura del fifone davanti a gentaglia che si disprezza. Le altre volte subentrava la speranza, da un lato, che fosse un barbaro gioco, dall’altro che non solo facessero sul serio, ma che ci volessero imploranti ai loro piedi, per poi spararci. Tra una “fucilazione” e l’altra venivamo messi seduti per terra in un grande ufficio del Comando. Una parete vetrata ci divideva dalla teppaglia urlante che seguitava a minac- ciarci con coltellacci e baionette. Ormai delle truppe dell’ONU potevamo tranquillamente scordarci. Pensa e ripensa mi viene un’idea luminosa. Vici-no a noi era di guardia, mitra in mano, un enorme soldato che però dall’aspetto sem-brava più abbordabile dei suoi colleghi. Cominciai a parlargli in francese.“Voi dite che noi italiani siamo fascisti. Non è vero. Io, per esempio, ho fatto il partigia-no. Ma il nostro Governo è peggiore dei Fascisti. Se ci fate fuori, domani verranno qui più di mille aerei italiani e sarete tutti massacrati: useranno bombe al napalm. Quello che hanno fatto i fascisti in Etiopia con i loro aerei saranno scherzi al confronto! Vi state giocando la pelle!”Imboccata questa strada, seguitai su questo tono, impeterrito. Avevo giocato una carta molto pericolosa, ma ormai bisognava giocarla fino in fondo. I miei due colleghi, an-che loro seduti a terra, a piedi nudi, vicino a me, tacevano allibiti. Finalmente il nostro negrone rispose. Avevo fatto centro.“Ma io cosa posso fare?” disse con palese apprensione.Non mi lasciai sfuggire la palla in area di rigore: “Lì, su quella grossa scrivania metalli-ca, c’è un telefono. Posalo per terra vicino a me. La scrivania lo nasconderà benissimo ed io telefonerò al Console italiano”. Titubò un po’, poi disse: “Va bene, ma devi parlare in francese, non in italiano”. Così telefonai al geometra Primavera, console onorario a Stanleyville. Ero stato a cena da lui due giorni prima. Era un uomo attivissimo e simpa-tico, nato ad Alessandria d’Egitto; parlava correttamente molte lingue; dirigeva i lavori della Ditta Astaldi: una grande strada che sarebbe arrivata nell’altopiano, al lago Kiwu. Come abbia fatto a ricordarmi il numero di telefono del Console rientra nella categoria dei miracoli avvenuti in quella mattina. Mi rispose la moglie. Suo marito era fuori. Le dissi, con la maggior calma possibile, che c’era stato un malinteso per cui eravamo trat-tenuti al Campo della Gendarmerie Nationale. Mi fece intendere che aveva capito tutto. Avrebbe rintraccia- to subito suo marito che sarebbe immediatamente venuto da noi per chiarire la situazione. Infatti, dopo 10 minuti, arrivò di volata il console Primavera, in maniche di camicia, sorridente, affabile.“Ma cari ragazzi - disse ai Congolesi - mi conoscete bene, no? Lavoro qui per voi! Ebbe-ne c’è stato un grosso malinteso: questi sono italiani, medici dell’OMS. Anche loro sono qui per lavorare per voi! Lasciate che li porti con me, a casa mia. Avranno fame e mia moglie gli preparerà un bel piatto di spaghetti, come piacciono a noi Italiani”.Pur trattandolo con rispetto gli fu obiettato che al campo, quella mattina, non c’era nessun ufficiale e che loro non potevano prendersi la responsabilità di lasciar liberi dei prigionieri. Nel frattempo, sempre ridendo e scherzando, il Console era giunto sino a noi. Avvicinò il nostro guardiano, gli fece scivolare in tasca un bel mazzetto di franchi congolesi e gli sussurrò, minaccioso: “Tu sei responsabile in prima persona della vita di questi miei amici. Guai a te se non li aiuti! Il Governo italiano ti punirebbe senza pietà” e a noi disse: “State tranquilli, adesso. Ritorno a prendervi al momento del rancio”, e se ne andò.

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Capimmo il suo piano di emergenza quando suonò la tromba del rancio per la Gendar- merie Nationale. A quel segnale la turba di armati alla nostra finestra sparì: correvano tutti a mangiare e bere. Dopo qualche minuto, sotto un’altra finestra, più piccola, che dava sulla strada, si fermò la Volkswagen scoperta del Console. Con un segno d’intesa il nostro guardiano ci fece cenno di muoverci. Eravamo in un rez-de--chaussée e fu facile quindi con un salto arrivare in strada e salire direttamente sui sedili della macchina aperta che, rimasta col motore acceso, ripartì di slancio. In quei secondi il nostro guar-diano aveva imbracciato il suo mitra. Avrebbe davvero mantenuto fede ai patti? Fu, forse, il momento di maggior suspense di quella mattinata. E se una volta intascati i sol-di, ci sparava addosso, console compreso? Primavera ci disse, poi, che con tutta la sua esperienza congolese sulle spalle, aveva avuto anche lui lo stesso dubbio. Ma il negrone “buono” sparò solo per aria un paio di raffiche. Era, ovviamente, per poter giustificare la nostra fuga senza passare guai con i suoi commilitoni.Gli spaghetti (ed anche una robusta dose di Chianti) ci attendevano realmente nella mensa Ufficiali dell’ONU, ove ci accolsero con applausi e molto calore. Ci dissero della loro terribile indecisione: cosa fare in nostro aiuto senza involontariamente danneg-giarci?La mia telefonata e la prontezza e il coraggio del console avevano risolto tutto al mo-mento più opportuno.“So quanta birra bevono i soldati nell’ora del rancio - ci disse Primavera - e avevo paura che dopo la bevuta sarebbero avvenuti guai irreparabili”.Tornammo all’Hotel della Sabena, anche qui accolti da reduci che se l’erano cavata bene. Ci offrirono gin e whisky a sazietà per festeggiare il lieto fine. La notte, però, men-tre dormivo solo nel bungalow che mi avevano dato, fui svegliato da sirene della Polizia congolese, urla, qualche sparo isolato. “Porca miseria - pensai - vuoi vedere che quei fetenti ci hanno ripensato?”Ma una seconda esperienza analoga a quella della mattinata proprio non sentivo di po-terla reggere. Uscii sulla veranda, mi arrampicai sul tetto e arrivai ad un grosso cassone di cemento: la cisterna d’acqua che riforniva il bungalow. Senza esitare mi calai dentro (era una notte calda) pronto a chinarmi sino a raggiungere col viso il pelo dell’acqua in caso di necessità. Comandi, urla, spari, rumore di motori si spostavano qua e là fra i bungalow e la foresta. Passò una buona mezzora e, malgrado il tepore dell’aria, quella immersione forzata cominciava a procurarmi grossi brividi di freddo. Per fortuna, d’un colpo, tutto tornò tranquillo. Ridiscesi con molta cautela nella mia stanza e mi feci una doccia bollente. Avevo un fornellino a spirito e mi preparai un thè abbondantemente corretto col gin. Finalmente potei dormire.Riavemmo nei giorni seguenti quanto ci era stato rubato (per me, le scarpe e il prezio-so orologio dell’Imam). Quel tal Generale su cui aveva contato l’ONU ci invitò nel suo ufficio per dirci che si scusava con noi ma che, in realtà, i suoi uomini non erano colpe-voli: non avevano fatto altro che applicare a noi i metodi già impiegati contro di loro dai Belgi e che, per forza di cose, avevano imparato.“Peut-être, mon Général, peut-être - risposi per tutti - mais en tout cas, croyez moi, ce n’est pas une procedure trop jolie et amusante”.Tre giorni dopo eravamo in aereo per rientrare a Leo. Anche qui, alla partenza, molta tensione: tre ispezioni a bordo, cavilli vari per non farci decollare, controllo e ricontrollo esasperato dei documenti, etc. Ancora il pensiero fisso: “E se questi ci ripensano?”

Il mio Yemen (1955 - 1968)

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Finalmente, dopo più di due ore di attesa in carlinga, con un caldo asfissiante, ecco i mo-tori che vengono avviati. Si decolla. Addio, stramaledetta Stanleyville!A Leo trovammo ad attenderci un cortese funzionario che ci portò subito dalla massima autorità dell’ONU presente in Congo. Si informarono minuziosamente sull’accaduto e ci fecero fare una accurata visita medica di controllo: grosse ecchimosi agli zigomi e alle arcate sopraccigliari del collega spagnolo, due costole rotte del giovane medico di Mogadi-scio, piccole ecchimosi e contusioni varie un po’ dappertutto in tutti e tre. Nessun membro dell’OMS si degnò di farsi vivo; il che sorprese molto i funzionari dell’ONU.La sera, a cena in Ambasciata, parlai molto chiaro e dissi che ero semplicemente nauseato del comportamento dei dirigenti sanitari OMS e che intendevo mantenere le dimissioni presentate a Stanleyville. L’Ambasciatore fece il possibile, nei giorni seguenti, per farmi recedere dalla mia decisione.Era arrivato dallo Yemen l’amico Bucci. “Lavorerete assieme nel Campo delle truppe scelte del Presidente Mobutu: è qui a Leo, è perfettamente organizzato e di tutta sicurez-za. Così lei diventerà anche il Medico personale di Lumumba”. Ero troppo indignato per accettare e rifiutai categoricamente. Qualche giorno dopo il Capo OMS mi convocò. Mi fece fare una anticamera di circa un’ora e mezzo, lasciando passare nel frattempo gente di colore. A quel punto divenni furioso. Quando, bontà sua, potei entrare nel suo Ufficio lo insultai in tutti i modi possibili dicendo che era un “mafioso” della mafia nera, che era non un medico, ma un dilettante della medicina, etc. Restava impietrito dietro la sua scrivania, farfugliando parole incomprensibili. “E per dare un sonoro schiaffo morale - dissi - non voglio nemmeno un centesimo di rimborso sul biglietto di viaggio di ritorno. Vi mando al diavolo, tout court!”.E me ne andai sbattendo la porta alle mie spalle.In realtà un piccolo bluff l’avevo fatto nella mia sparata finale: la moneta congolese era svalutata all’inverosimile, ma la Sabena era obbligata a prenderla in pagamento dei bi-glietti aerei. Così, con un assegno del Banco di Roma di sole 80.000, versato ad un amicoitaliano, ricevetti in cambio una grossa borsa piena di franchi congolesi. Potei acquistare una prima classe per Roma, mi avanzarono soldi per acquistare qualche scultura in legno (interessante proprio perché primitiva, genuina) e il resto lo elargii in laute mance.Jeanine stava anche lei partendo per le vacanze: era attesa in famiglia, a Bruxelles. Bal-lammo un’ultima sera. “E se partissimo con lo stesso aereo? Se mi fermassi a Bruxelles?”Ma capivamo che “non era cosa”.Partii per Roma. Gli amici avevano trovato modo, negli ultimi giorni, di telefonare in Italia a colpi di bottiglie di Martini. Quando il telefono era chiuso, il telefonista si faceva molto volentieri corrompere e si telefonava gratis (a parte le bottiglie). Io, però, preoccupato di rassicurare mia moglie - che infatti aveva letto i giornali che parlavano della mia “cattura” senza spiegar bene il lieto fine - tentai più volte: i miei amici riuscivano ad avere in linea, per S. Maria Capua Vetere ed altri paesi, ma Ischia era irraggiungibile.Arrivato in Italia, andai all’Ambasciata yemenita, spiegai le cose e chiesi di poter rientrare a Taiz. L’Imam, dopo qualche mese, diede il suo la-bass.Appena lo andai a trovare a Taiz, mi abbracciò, commosso, e mi disse: “Ma che eri diven-tato pazzo (maginùn) ad andare da quelle scimmie senza coda? Non sai che non sono ca-paci nemmeno di fare gli schiavi? Qui sei in famiglia e vogliamo bene a te ed ai tuoi cari!”Ero anch’io commosso. E condividevo pienamente il giudizio di S. M.

MassimoMancioli

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Dopo una lunga indecisione, ca-ratteristica della sua complessa per-sonalità, nell'aprile del 1848 Carlo Alberto decise di inserire finalmen-te il suo esercito nel quadro di quel movimento patriottico che aveva infiammato l'Italia tutta e chiedeva, con voce sempre più insistente, la cacciata degli Austriaci dalla Peni-sola. L'avanzata dell'armata sarda si attuava in un momento durante il quale l'imperial esercito asburgico era già fortemente provato, sia per la rivolta popolare di Milano, che per lo scoppio democratico inter-nazionale dichiaratamente avverso all'Austria ed a tutte le forze e po-tenze reazionarie. A questo punto un'energica azione militare, affron-

Una pagina di gloria

PastrengoPastrengo: cittadina in provincia di Verona. Teatro di importanti avvenimenti durante la prima guerra di indipendenza. Il 30 aprile 1848 fu conquistata dai piemontesi di Carlo Alberto, con una delle migliori e più fortunate operazioni di quella guerra

Fatti e personaggi della storia di ieri e di oggi

di Vincenzo Cuomo

per l'Arma dei Carabinieri

In fotografia: Francesco Lord Mancini - Scontro tra Bersaglieri e Fanti Austriaci

38 La Rassegna d'Ischia 1/1993

piemontese, aveva inviato quattro battaglioni ad occupare la posizione avanzata di Pastrengo. Con tale spo-stamento di uomini il Maresciallo sperava di salvare la linea dell'Adige e continuare a mantenere i contatti con la città di Peschiera. Capito che in quel punto quasi sicuramente vi sarebbero stati degli scontri, appena possibile, inviò altre truppe nel vici-no centro di Bussolengo, di modo

che sulla testa di ponte Bussolengo-Pastrengo si trovassero raggruppati ben dieci battaglioni, sei squadroni di cavalleria e ventun cannoni con gli addetti ai pezzi. Il giorno della battaglia iniziò con dei reparti del II Corpo d'Armata piemontese che avanzavano contro lo schieramento austriaco con l'in-tento di rimuoverlo dalle sue posi-zioni. Comiciato lo scontro, l'eserci-to sardo incontrò notevoli difficoltà a causa delle difficili condizioni am-bientali, tanto che nelle prime ore del pomeriggio la situazione era an-cora incerta e non appariva chiaro se le truppe di Carlo Alberto sarebbero riuscite a superare lo sbarramento avversario. Verso le orer 14 il sovra-no, che sino ad allora aveva seguito lo svolgimento degli avvenimenti da un casolare, improvvisamente fece la sua apparizione sul campo di bat-taglia, tra gli ufficiali del seguito e con tre squadroni di Carabinieri di scorta. Alcuni cavalieri, raggiunta la linea dei combattimenti, furono però fatti retrocedere disordinata-mente da un nutrito fuoco di fuci-leria. Il loro comandante allora, il maggiore Alessandro Negri di San-front, sia perché temeva per la vita del re, sia per ristabilire l'ordine di questi uomini che avevano indie-

Quadro di Sebastiano de Albertis

tando le stanche e e disorientate for-ze del Radetzky, avrebbe potuto vin-cerle in una decisiva battaglia prima che potessero risollevarsi e ricevere rinforzi. La mancanza di un capo audace e deciso ed il comportamen-to di Carlo Alberto, sempre più "Re tentenna", fecero però condurre all'esercito sardo un'avanzata timi-da e lenta. Ciò non impedì tuttavia alle truppe di conservare un ottimo morale ed una salda volontà di vit-toria. Infatti, allorquando a Pastren-go vi fu il primo vero scontro di una certa portata, i Piemontesi non solo vinsero, travolgendo letteralmente i nemici, ma diedero anche un'imma-gine di alto valore, notevole corag-gio ed efficiente capacità militare. La battaglia destinata a lasciare un così profondo solco nella nostra sto-ria, ebbe il suo svolgimento vicino alla collina "Le Bionde", nei pressi di Pastrengo, ove il II Corpo d'Ar-mata piemontese, che avanzava ver-so il Veneto agli ordini del generale De Sonnaz, venne improvvisamente a trovarsi di fronte la divisione au-striaca al comando del Vocher, por-tatosi in quei luoghi per ordine del maresciallo Radeztky. Si era giunti a ciò, in quanto il co-mamdante supremo austriaco, im-pensierito dalla costante avanzata

La Rassegna d'Ischia 1/1993 39

treggiato sotto gli occhi del proprio sovrano, ordinò una carica che im-mediatamente eseguita con corag-gio ed entusiasmo dai tre squadroni, portò allo sfondamento della linea nemica. Approfittando dell'inaspet-tato momento favorevole, pure le altre truppe piemontesi si riversaro-no in avanti, completando così l'o-pera dei Carabinieri e costringendo gli Austriaci ad abbandonare le loro posizioni. Allo sfondamento del fronte Ra-detsky reagì con un'azione ad ampio respiro mirante a colpire l'intero centro dell'esercito sardo. L'attacco non ebbe però il risultato auspicato e venne fermato su tutto il fronte. Questa azione, anche non riuscen-do nell'intento, servì tuttavia ugual-mente a bloccare i Piemontesi, in quanto sia Carlo Alberto che lo Sta-to Maggiore, timorosi di procedere in una situazione di latente pericolo, decisero di sospendere l'avanzata. Al termine della giornata era chia-ro che, sia i Carabinieri che l'intero esercito sardo, avevano ampiamen-te dimostrato di essere all'altezza del

La battaglia di Pastrengo (30 aprile 1848) : i piemontesi respingono gli Austriaci oltre l'Adige

compito intrapreso e di possedere quelle virtù militari necessarie per poter sfidare in campo aperto quel-lo che al momento indubbiamente era l'esercito più potente d'Europa. L'Alto Comando invece, con il suo incerto comportamento, apriva le

porte all'annullamento di questo valore ed ardimento, ponendo l'ar-mata piemontese su quella strada che non poteva che condurre alla disastrosa disfatta di Custoza.

Vincenzo Cuomo

Dal 3 aprile aal 18 luglio 1993 a Venezia (Palazzo Grassi) mostra

Marcel Duchampche presenterà circa trecento tra opere e doccumenti riuniti daai maggiori musei e collezioni aamericani ed eiropei : dalle lggenda-rie opere del Museo di Filadelfia ai "suoi" famosi "readymades" proenienti da New York, Tokio, Stoccola, Londra, Parigi...L'intento è di presentare con la maggiore completezza possibile l'attività di un artista o meglio di un "atiartista", protagonista dello sviluppo dell'arte nel nostro secolo. Alla ricerca di un linguaggio radicalmente nuovo, Marcel Du-champ (1887-1968) ha attraversato iprincipali movimenti artisti-ci degli inizi del secolo : cubismo, fauvismo, e soprattutto dadai-smo e surrealismo.Commissario generale della mostra, curata da Jacques Caumont, è Pontus Hulten. Allestimento : Gae Aulenti.Progetto grafico: Pierluigi Cerri. Catalogo edto da Bompiani.

40 La Rassegna d'Ischia 1/1993

Vincenzo Pascale

Descrizione storico-topografico-fisica

delle isole del Regno di Napoli

Napoli, 1796Presso Onofrio Zambraja

Testi antichi di documentazine sull'isola d'Ischia

Cap. I - Delle isole di Ponza (Palmeruola (Palmaria), Zanno-ne, Ponza, Veentotene (Pandaa-taria), S. Stefano

Cap. II - ISCHIA

Cap. III - Procida

Cap. IV - Nisita

Cap. V - Rovigliano

Cap. VI - Capri

Cap. VII - Apragopoli

Cap. VIII - Li Galli

Il libro (112 pagine) è dedicato a Sua Eccellenza Signor D. Guglielmo Amilton, In-viato Straordinario e Ministro Plenipotenzziario di S. M. Britannica presso S. M. il Re delle Due Siciie ecc. e così recita nella parte introduttiva:

Se grande obbligazione si ha ad un cittadino, che imprenda ad illustrare la storia patria, molto di più certamente se ne ad un forestiero che vi sisia impiegato, e pressoché infinita a chi non contento della sua propria opera, abbia saputo ec-citarne degli altri a suo esempio, ed incoraggiarli con la sua protezione. Voi ben conoscete, o Signore, a che tenda il mio discorso, e che sia colui a cui siamo in ob-bligo. La nostra Storia naturale, che potevasi dir vergine, prima che ci avessimo invogliati a questi srudi, le costre opere sul Vesuvio, i Campi Flegrei, ecc. (2) che ci acquistrono sì gran nome presso gli uomini di buon gusto, sono fatiche che avete fatte in vantaggio della nazione, per le quali vi si deve tutta la stima da ogni indi-viduo che si pregi di patrriottismo, ed un'eterna riconoscenza pel favore costante accordato ai letterati. A queste cose dunque io avendo riguardo, e sapendo che vi siete anche molto impiegato in esaminare le nostre isole, la Storia delle quali ho preso a trattare, ho creduto un mio dovere dedicare al suo merito questa stessa operetta, dove sebbene non troverà ch'abbia saputo ben seguire le sue orme, lode-rà almeno la mia intenzione in voler supplire ad un'opera tanto necessaria, di cui eravamo finora privi. Accettate dunque con la solita vostra cortesia quest'offerta, qualunque ella siasi, mentre ho 'onore di dichiararmi

di V. Ecc.Napoli 29 aprile 1796

Umil. e Div. Serv.Vincenzo Pascale

a) Willim Hamilton - Campi Phlaegrei ou Observations sur les Volcans des deux Siviles.

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Descrizione storico-topografico-fisicadelle isole del Regno di Napoli

Ischia Dovendo descrivere quest'isola, celebre in tutti i tempi presso gli antichi, e mo-derni scrittori, stimo pregio dell'opera, non così semplicemente notar in filza i suoi diversi nomi, tacer come favolosi i racconti de' poeti specialmente, ma trattenermi anzi alcun poco, anche sopra l'etimologie che fin'ora ho sfuggite ad ogni costo, in grazia degli autori antichi, che vi si sono intrigati. Io non dubito, che in quest'artico-lo vi sarà qualche cosa, che dispiacerà a quelli, che contenti sono del metodo fin'or da me tenuto, ma conosceranno, che ciò non è affatto inutile, e saranno rinfrancati dal tedio, vedendo posti in chiaro molti luoghi d'antichi scrittori, ai quali fin'ora pochi, o nessuno, ha ardito convenevolmente di por mano. E' quasi costantemente creduto che l'isola Aea di Omero sia quel che oggi chiamasi Monte Circello, e Cluverio parlando di questo luogo raccoglie molte autorità per ciò provare; ma non era questo bastante pel Signor Vargas qualora li veniva fatto d'accozzar comunque alcune lettere fenicie, alle quali non vi era autorità da porre in confronto. Ma egli s'oppose a tutti, quando vide che Omero la dice circondata da un gran mare, non facendo alcun conto dell'autorità di Plinio, e Solino, che in parte par che li scioglievano questo dubbio; né rifletté, come avvertì il Signor Silla (1) che Omero (2) facendo sbarcar due volte Ulisse in quest'isola ebbe bisogno d'aspettar la nuova aurora, per non poter giungere allora alla casa di Circe, locché mal si confà con Ponza, che stretta è molto in tutte le parti. Il Signor Vargas ciò non ostante credé d'aver tutto bastantemente dimostrato, e trovando in Strabone, che nelle Far-nacuse isole nel golfo di Engia era la maga sepelita, lo riprende per aver quest'isole là situate, e per eccesso del più imperdonabile fanatismo, dice, che la più granmde di queste era Ponza, e l'altra Vientotene. Il Signor Abb. Pelliccia (3) che volle provare esser stata quella catena degli Ap-pennini, che termina diricontro all'Isola di Capri, un'isola, suppose quest'appunto l'Aea, e cercò di abbattere l'opinione contraria. Checchépoi ne sia de' suoi raziocini sul mentovato ramo degli Appennini, certo però, ch'egli non appoggia i suoi argo-menti, che sopra deboli concetture, che formar non possono una convincente pruo-va. Se dunque incertissimo è quel che intende provare, quanto più lo deve esser questo, che deve supporre la cosa di già certa? Egli, e 'l Signor Vargas, non hanno alcun appoggio d'antico; ma se dovesse esser rigettata la comune opinione, io non troverei altr'isola, che Ischia, che potess'esser l'Aea, dicendo Igino (4) che Ulisse partendosi dai Lestrigoni, evasit in insulam Aenariam ad Circen Solis filiam; egli però poco dopo, dice, che avendo fatto naufragio, enatavit in insulam Aeam, ubi Calypso.... retinuit. Avverte il suo annotatore lo sbaglio ed afferma che invece di Aeam doveva esservi Ogygiam, e che Micillo dice, che in suo antico codice vi erano rose alcune parole, onde da qualche imperito era stata fatta questa mutazione; ciò poi apparisce chiaramente poco dopo, dicendo in insulam Aeam ad Circen Ulyssem mortuum deportarunt, ibique sepulturae tradiderunt. Fuor di proposito sarebbe in questo luogo l'esaminare se può reggere l'opinione del Signor Vargas (5) e crederla la Surie di Omero. Io però, che non son solito dipar-tirmi dagli antichi, posso caratterizzare anche questa per una delle solite sue chi-mere, riserbandone altro giudizio a chi abbia ugualmente che lui guasto il cervello. Ma ben spinoso, e difficile, è individuare se Omero (6) abbia inteso parlar di essa,

a) Monte Circeo o Circello nel Lazio: una volta "se si crede a Omero, era un'isola circondata da un immenso tratto di mare, mentre ora si trova in mezzo alla pianura" (Plinio, Storia naturale, III, 57 - ed. Einaudi, 1982). "La notizia deriva dalla connessione istituita fra il nome del irceo e quello della maga Circe, la quale, come si sa dal libro X dell'Odissea, abitava in un'isola, Eea. Plinio segue probabilmente come fonte principale Varrone, il quale fornisce la notizia che il Circeo fosse anticamente un'isola" (nota in Plinio, op. cit.)1) Fondazione di Partenope, I p. 25.2) Odissea, c. X v. 195.3) Ricerche istoriche, filosofiche, etc... P; 80 e sgg.4) P. III, edit. Hamburg.5) t. I n. 158 p. 130.6) Iliade II. B v. 783.

Vincenzo Pascale

42 La Rassegna d'Ischia 1/1993

dicendo, che Tifone era stato confinato negli Arimi, ein Arimois, poiché né Tifone si finge sepolto in un sol luogo, né s'accordano gli antichi in assegnar una stessa situazione agli Arimi, altri volendoli in Cilicia, altri nella Siria, ed altri in quest'isola (7). Come funque uscir da quest'imbarazzo? Se avessimo da star al numero, avres-simo oltre di alcuni de' Greci, tutti i poeti latini, Plinio, e Solino, che costantemente credono che Omero di essa avesse inteso parlare, e perciò Virgilio, come si dice contrasse in Inarime l'ein Arimois d'Omero. Ben so che molti non si sono ritenu-ti di tacciar Plinio per ignorante della lingua greca, ma io sarei per sotenere che quest'opinione, checché sia di Plinio, che ha qualche poco difettato, non sia meno probabile delle altre, essendo per altro molto più accettata. Ma tralasciando questo nome, e le sue diverse etimologie, è certo che da' Greci particolarmente fu chiamata Pithecusae. Chi aveva Pitecos, scimia creduto che Ari-mi avesse presa la denominazione dalle scimmie disse che anche questo dovevasi trarre da a, e devesi tutta l'obbligazione a Salmazio (8), per aver dati a quest'opinio-ne molti gradi di probabilità, appogiato su di Strabone. Bochart (9) provò lo stesso con Esichio, e puossi dire che questa volta non troppo ne diedero alla fantasia; non era però di minor peso l'autorità di Diodoro Siculo (10), che parlando di tre città dell'Africa, dice che avevano avuto il nome dalle scimie, de' quali animali abbon-dava quella regione, e che in greco potevano cambiarsi in Pitecusas. Plinio (11) poi tutto all'opposto rifiutando quest'etimologia, dice che fu detta da piton, giacché i suoi vasi furono molto celebri, ma per questo motivo se l'accrebbe la taccia di non aver saputo la lingua greca. Il Sig. Verlicchi, nelle lettere che van dietro l'opera d'Aloysio, L'Infermo istruito..., tentò alla meglio di discolparlo, ma è tanto eviden-te, come riflette Salmasio, che poi se ne avrebbe dovuto far Pitecussa, che non vi è che opporre in contrario. Ma perché poi fu chiamata Pithecusae dalle scimie, come tutte l'altre cose dipen-denti da favole, è incerto al maggior segno. Io non mi attengo che al solo Ovidio (12), e credo, l'avesse sortito dalla gran malizia degli abitanti. Sembra poi ridicola l'opposizione del Signor Vargas (13), come vi avessero potuto esser quest'animali, quand'oggi qualcun soltanto ne viene da lontani paesi. Egli però fa vedere, aver considerata la cosa troppo superficialmente, senza entrar nel senso della favola. Dalle scimie si crede aver anche avuto il nome d'Aenaria, le quali si dicevano anares (14). Questo è assai posteriore all'altro (15), e probabilmente li fu dato dai Romani quando la conquistarono, vedendolo usato da tutt'i scrittori latini in preferenza de-gli altri due. Si stima da molti eruditi, che ai luoghi che venivano da essi conquistati avessero lasciati i medesimi nomi, o pur se li cambiavano, altri ne l'imponevano che lo stesso indicassero. Se così è, devesi dire che non si può trovare un'etimologia così ben adattata, e che corrisponda sempre a ciascuno dei suoi nomi. Plinio (16)ll'opposto li dà un'origine troppo rimota, e vorrebbe che lo avesse rice-vuto dalla dimora che vi fecero le navi di Enea. Si è creduto fin'alla metà di questo secolo, che a memoria de' posteri nel promontorio di Vico nell'isola stessa, vi fosse stato un marmo, che ciò dinotava; ma niuno si prese la cura di trascriverlo, non essendo in realtà, che una falsa credenza di pochi, che non ne comprendevano il significato. Ognuno, senza ch'io m'affatighi, sa qual coato si ha da fare di cosa così. antica, nella quale intrigato vi sia Enea. Allo stesso P. Arduino (17) non punto piacque siffatta opinione, e perciò disse che fosse detta Aenaria, quasi Ahenaria... ab aheno, aerisque metallis. In alcuni esem-plari di Marziano Capella, si trova chiamata Abaenaria, ma per farla andare a modo suo bisognerebbe mutar lettere, e farvi altri cambiamenti che sebben molte volte si accordano, danno però non piccola molestia a quei che fanatici non sono. Ciò poi potrebbe farsi, quando si provasse, che questa sia la vera lezione. In alcuni antichi autori, qual di due luoghi diversi, si trova distinta con due nomi, come comunemente si crede. Ovidio (18) dice: Inarimen, Prochytenque.. legit, sterilique locatas Colle Pithecusas.Livio (19) insulas Aenariam, & Pithecusas. Mela (20). At Pithecusa, Leucothea, Ae-naria, Simonia, Capreae, Prochyta. Gli eruditi non han potuto far a meno di confes-sare che quest'era un errore, e molti si sono studiati pur di farne l'apologia dicendo che per Pithecuse intender dovevasi Procida, ed Ischia per Aenaria. Ben molto

7) Strab. t. 2 l. 12 p. 784 - Stef. Bizant. p. 164 e sgg.8) Exercit. Plin. t. I, l. 3 c. 31.9) Hieroz. t. I l. 3 c. 31.10) T. 2 l. 20 n. 58.11) L. 3 c. 6.12) Metam. l. 14 v. 89.13) T. I n. 7 p. 6.14) V. Bochart l. c.15) Appian. Alex. Bell. Civ. l. 516) Hist. Nat. l. 3 c. 6.17) In Emenad. Plin. em. 51.18) Metam. l. 14 v. 89.19) Det. I, l. 8 c. 19.20) L. 2 c. 7.

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prima di essi, aveva detta la stessa cosa lo Scoliaste di Pindaro (21), ma s'ingannavano con esso vedendosi che Ovidio e Mela particolarmente vi avevano posto Prochyta, per dinotar Procida, onde venivasi in questa maniera, piuttosto che ad accomodare a con-fonder maggiormente la cosa. Il Signor Vargas (21), che vuol sempre distinguersi da tutti gli altri nel modo di pensa-re suppone che qualche ignorante copista vedendo nel margine del libro di Mela Aena-ria posta in ischiarimento di Pithecusa, l'abbia trascritto come cosa mancante; ma ben molte volte i copisti sono accagionati senza ragione, e par che quel che non vogliamo, o non comprendiamo tutto s'abbia a rifondere alla loro imperizia, poiché se così do-vressimo anche dire in riguardo a Livio, non vi resterebbe Ovidio a tenerci intrigati? O bisognerebbe dire, che il copista n'abbia cambiati i versi, o che se pur sono suoi propri, levandosi una parola vengono ad esser mancanti, e difettosi. Altr'è dunque asserire altre provare; altr'è chiarire, altr'è confondere con siffatte congetture. In Ischia vi era, come a suo luogo vedremo, una città, che chiamavasi Pithecusae, ed usando i latini, come ho avvertito, il nome Aenaria per dinotar l'isola, volevano coll'altro intender la città, che era in un'isoletta sterile. Così facilmente si possono componere questi tre autori, così vien tolta ogni difficoltà. Ci rende certi Strabone (22), che quest'isola fu abitata dagli Eretriesi e Calcidesi; e questi come ci assicura Livio parlando de' Cumani: Calcide Euboica originem trahunt: classe qua advecti fuerunt, multum in ora maris eius, quod accolunt, potuere. Primo in insulas Aenariam & Pithecusas egressi, deinde in continentem ausi sedes transferre. Chi non abbia appresi che i primi rudimenti della lingua latina, sa ch'egli volle intende-re che da Ischia passarono ad abitare nel continente; ma vbi è stato chi ha creduto che dopo stabilitisi nel continente avessero acquistata quest'isola, quasi Livio avesse volu-to dire: in insulas ex continente egressi quandoché egli si spiega chiaro abbastanza, e non vi è cosa più naturale che interpretarlo altrimenti: in insulas ex navibus egressi. I calcidesi ed Eretriesi l'abitarono unitamente, ma nata discordia tra essi i primi se ne partirono e l'eruzioni, i tremuoti e l'acque calde che sgorgarono costrinsero i secondi a lasciarla in abbandono; e venutavi una colonia di Siracusani mandativi da Ierone Ii, per gli stessi inconvenienti furono costretti a sloggiarne, avendovi fabbricato un muro, forse attorno alla città. Subentrarono quindi i Napoletani, che vi ebbero più fortuna, e la possederono per qualche tempo, finché ne furono cacciati dai Romani (23). Quando fusse venuta in mano di questi, come l'anno che i Napoletani l'avevano acquistata, non si ' da alcuno fissato. Probabilmente poco tempo dopo vi vennero, che i Siracusani ne fussero partiti, e senza dubbio la perdereno nella guerra ch'essi fecero, nel consolato di L. Cornelio Lentulo e Q. Publilio Filone, diunita coi Sanniti; poiché allora i Romani avevano una flotta in questi lidi, presero Palepoli, che poco era distante da Napoli e fecero una pace, che durò sempre in appresso con questa città (24). Qual fusse stata la sua condizione sin ai tempi d'Augusto, è incerto. Due cose devonsi però qui notare, che a riserba degli Euboici, de' Siracusani e de' Napoletani, non ab-biamo notizia, che altra colonia vi fusse venuta di Romani, o d'altre nazioni. Erronea è però l'opinione dell'erdutissimo Canonico Mazzocchi (25), il quale volendo provare che molti nostri luoghi fussero stati abitati dai Cilicj, produsse il passo di Strabone (t. 2 l. 13 p. 626), ma o non l'aveva affatto letto nell'originale, o l'aveva fatto troppo in fretta; poiché questo geografo dice tutt'altro, cioè: che pindaro non distingue il luogo dov'era Tifone, e lo stiua ugualmente nella Cilicia, in Pitecusa ed in Sicilia. Sciocca poi è all'intutto l'opinione di quelli che credono ricavar da Cicerone (26), che da Pompeo nel principio della era civile, vi fossero state rilegate diverse persone; poiché non sanno con qual precipitanza abbandonò costui l'Italia, e che non era questo un luogo d'esilio. Le parole di Cicerone suonano ben altro: hodie autem in Aenaria transire consituit. exilibus reditum pollicetur. Antonio doveva passar in Ischia, ma prometteva il ritorno agli esuli, ch'erano in altri luoghi. Fin dai primi secoli vi doverono esser delle terribili eruzioni, ma non sappiamo nep-pure il tempo preciso di quelle che ci son pervenute a notizia. Strabone (27) dopo aver detto quanto intorno a ciò sopra abbiamo esposto, soggiunge: Timeo parlando ancor egli d'Ischia, dice che gli antichi n'avevano scritte cose da non potersi credere. Ma poco prima del suo tempo, quel monte, ch'è in mezzo l'isola, e vien chiamato Epomeo, scos-so da un tremuoto erittò fuoco e svelto quel tratto di terra, ch'è tra esso e il mare (Pro-cida), lo spinse al mare istesso. La terra convertita in polvere (di questo pezzo distacca-

21) In Pyth. od. I.22) t. 2 n. 65 p. 66.22 bis) T. I l. 5 p. 249.23) Strab. l. C. V. Vargas t. 2 n. 59 p. 61 e seg.24) V. Livio l. c.25) Spicil. Bibl. t. I p. 254 in nota.26) Epist. ad Attic. l. 10 ep. 13.27) T. I l. 5 n. 248.

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to), vi venne di nuovo trasportata da un impetuoso turbine (che i Greci chiamerebbon Tifoni); ed essendosi il mare allontanato per tre stadj, poco dopo tornò di nuovo con gran furia, ed inondata l'isola estinsevi il fuoco. Spaventati dal gran fracasso quei del vicino continente, dal lido sen fuggirono ne' luoghi mediterranei della Campania. Si è questo stimato da molti un rfacconto non men favoloso di quelli stessi che ripro-va Timeo, ma ciò è avvenuto, perché non si è capito quel che voleva dire. Un luogo di Plinio serve molto per chiarir questo di Strabone, come questo per far meglio intender il suo. In effetto poi altro non vuol dir Timeo, che separato quel pezzo, ch'oggi forma l'isola di Procida dalla violenza del tremuoto, nell'assodarsi la sua base, venne ad inon-dar con la sua caduta Ischia, da cui per le lave, che scorrevano, il mare erasi dilungato per tre stadj. Il rumore, che cagionò questa repentina mossa, e il fremito del mare, ben poterono incuter timore a quei che vicini erano al lido, i quali s'aspettavano da ora in ora che fusse subissata la terra. Essendo consoli poi L. Marzio e Sesto Giulio, il monte cacciò fuoco un'altra volta e cagionò de' gravi danni (28). I Romani la possederono fin ad Augusto, ma costui, come vedremo la cedé ai Napo-letani in vece di Capri. Erronea all'intutto è l'opinione d'un nostro scrittore, che crede fosse stata di suo privato dominio, poiché ciò non apparisce da alcun antico monu-mento. Che vi fusse stata di nuovo introdotta la lingua, e l'usanze greche, lo congettura il Signor Vargas (29) da un marmo scritto in questa medesima lingua che vicino al Lacco trovarono alcuni letterati inglesi, ma volendo poi interpretare, al suo solito vi mette molto di quel che non vi è fingendo che Pacio Mimpsio e Maio Pacillo liberti fussero stati architetti d'un palazzo, dove aveva da soggiornare Traiano. Il canonico Ignarra (30) dimostra i suoi falli e tenta se egli può darli una miglior spiegazione; ma che di sicuro possiam ricavare da pochi rosi frammenti disposti a capriccio? Se però non vi venne Traiano, molti Imperatori prima e dopo di lui avevano visitate l'isole della Campania (31), una delle quali era appunto questa. Non vi dubbio alcuno che ne' tempi posteriori fosse stata soggetta agl'Imperatori greci, ed unita al Ducato di Napoli. Ciò si scorge chiaramente dalla lettera di S. Leo-ne III a Carlo Magno, dove li scrive che i Saraceni l'avevano saccheggiata senza che i Napoletani per tutto il tempo, che vi stidero avessero ardito di cacciarneli (32). Fin da allora egli la chiama Iscla, onde poco fondamento può avere l'opinione del Chiarissimo Canonico Mazzocchi (33), il quale credeé che sotto i Re Angioini, dal Francese Isle se ne fusse fatto Isla e quindi Iscla. Nell'accordo di cui abbiam parlato tra il Duca di Gaeta e quel di Napoli, vien nomi-nato nel dominio di quest'ultimo l'isola di Gerone, la quale non poteva esser altra che questa, se si rifletta che Jerone o Gerone una volta vi mandò una colonia di Siracusani; perché poi li fosse piaciuto così piuttosto che col proprio suo nome chiamarla, sarebbe del tutto inutile la ricerca; ma quel che di certo sappiamo si è che vi fu una città chia-mata Geronda. Il P. Caracciolo (34) congetturò che anche in quanto allo Spirituale fosse stata unita alla Diocesi Napoletana, e credé di provarlo con una lettera di S. Gregorio Magno, con la quale commette a Fortunato Vescovo di questa città, che consagri l'Oratorio & c., in quest'isola; ma non so come poi possa sostenere che vi fu unita fin al 1204, poiché nel Concilio Lateranense tenutosi sotto Alessandro III, nel 1179, trovasi sottoscritto il pro-prio Vescovo, che si chiamava Pietro. Prima però di questo l'Ughelli (35) non nomina alcun'altro. Avendo il Ruggiero unito in un corpo tutte le diverse Signorie, che oggi formano il Re-gno di Napoli, venne anch'essa in suo potere; ma afflitte di già le sue cose, e travagliato da molti nemici, fu nel 1135 saccheggiata dai Pisani (36). Da una carta poi, che con-servasi nell'Archivio della R. C. apparisce che da tempo immemorabile i suoi abitanti avevano la franchigia nel porto di Pisa, come i Pisani medesimi (37). Sotto Federico II, per un gran casma vi periroono 700 persone (38). Ribellatisi i Siciliani da Carlo I d'Angiò, fecero lo stesso quelli di Ischia. Io era quasi all'oscuro di questo avvenimento, ma mi fu fatto veder un diploma dal mio rispettabile amico il Sig. D. Vincenzo Galdi, che si conserva nella Real Cancellaria del Regno di Si-cilia, da lui fatto riscontrare, dal quale apparisce che Federico II d'Aragona re dell'an-zidetta Isola, da Catania nel mese di luglio dell'anno 1299 diede il governo d'Ischia maggiore e minore e di Procida a Landolfo Galdo. Devesi qui poi avvertire che per Ischia maggiore egli intende l'isola, come S. Leone nel luogo innanzi apportato, e per la

28) Jul. Obseq. c. 140.29) t. I n. 301.30) Palest. neap. p. 301 not. 20.31) Sveton. In Aug. c. 72 98. In Calig. c. 14 segg. - Non vi è dubio ch'ell'era nella Campania, né fa bisogno d'autorità alcu-na per provarlo. Plutarco solo nella Vita di Mario la pone dirimpetto a Minturno, ma egli o voleva intendere di qualch'una dell'Isola di ponza, o ne ignorava la vera situazione.32) L. c. ... ingressi sunt in insulam quamdam, quae dicitur Iscla maiore, non longe a Neapolitana urbe milliaria XXX, in qua familia et peculia Neapolitanorum non parva invenerunt: et fuerunt in ibi a XV usque ad XII Kal. Septembr. et nun-quam ibi Neapolitani super eos exierunt. Cumque totam ipsam insulam depraedas-sent implentes navigia sua de hominibus et eius necessariis, reversi sunt post se. 33)De Cathr.Eccl. semper unic. Anteloq. part. 3.34) De Sacr. Eccl. Neap. Monum. c. 15 p. 157.35Ital. sacra t. 7 De Ep. Isclan.36) Capacc. Hist. Neap. t. 2 c. 15.37) Regist. 1311 O. fol. 123.38) Capeceltr. Istor. Napol. part. 2.

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minore l'isoletta dov'è il castello, qual distinzione usata da essi, non poco conferisce ad accreditar la mia riflessione fatta per riguardo ad Aenaria e Pithecusae, nonmi che se le credevano dati, quasi a due luoghi diversi. Carlo II, nello stesso anno la ricuperò, e la fece saccheggiare da 400 soldati, de-vastarne le possessioni e tagliar gli alberi, per essersi dati ai nemici (39). Ma l'eru-zione, che succese nel 1301, e che durò per due mesi continui, formerà un'epoca memorabile nella sua storia. Quel tratto riprese per due miglia di lunghezza, che chiamasi le Cremate, e che era il più fertile, fu coverto di lave, e fin'oggi inservibi-le riesce per qualunque uso.Gli abitanti parte fuggirono ne' luoghi vicini, parte vi perirono; ma ritornati, che vi furono nel 1305, il Vescovo pretese le decime, e non ostante la loro trista situazione, per ordine reale, doverono sodisfarcele (40). Il genio turbolento degl'isolani si vide particolarmente nella discordia tra la fami-glia Cossa e manozza, quando non si astennero da farsi ogni danno, che porta seco una guerra civile (41). Ma essendo la Regina Giovanna II ridotta in gravi strettezze, ed avendo bisogno di stranieri aiuti, chiamò in suo soccorso Alfonso I d'Aragona, che adottò, al quale per sicurezza diede nel 1423 quest'isola (42). Avutala costui in mano ne cacciò i propri abitanti e v'introdusse una colonia cata-lana, facendo varie riparazioni alle antiche fortificazioni della città ed aggiungen-dovene delle nuove (43). Divenuta sua favorita Lucrezia d'Alagni, quando già era re di Napoli, diede ad essa la custodia dell'isola, e del castello, ma morta ella, ed entra-tovi in sua vece Carlo Toriglia, seguì le parti di Luigi d'Angiò contro Ferdinando I, suo figliuolo. Quanto il Regno patì per questa guerra, puossi leggere presso i nostri storici; quel che deve riflettersi è che avwendo Ferdinando parte con la forza, parte con le industrie tirato dalla sua parte i Baroni, si vide minacciato da una seconda guerra, quando venne alle strette col Toriglia. Egli l'aveva fortificata molto bene secondo l'uso di quei tempi, ed aveva allestite molte galee, pensando di renderla un nido di corsari; non però dové cedere, e venne in mano del Re. In quest'occasione Bartolomeo Perdice, genovese, girando nel 1465 (44) per le sue costiere, vide alcuni scogli naturalmente aluminosi; perloché avendo fatta espe-rienza, se potesse da essi cacciar l'alume, li riuscì molto bene (45). Quest'arte poi s'introdusse nella terra di Casannizzola particolarmente, e leggiamo che un tal capo di rendita fu alcune volte conceduto dai nostri Re (46). Per quanto utile poi ella fos-se stata, in seguito vi è stata trascurata, ed oggi non ve n'è vestigio alcuno. Venuto Carlo VIII, re di Francia nel Regno il solo asilo, che ebbe Ferdinando II si fu quest'isola. Un marmo che si conservava nel castello, e di cui non vi sono che al-cuni frammenti, fa vedere che un Re aveva di sua propria mano ucciso il castellano, che prima l'impediva l'entrata, ed appena poi si era condisceso a riceverlo; questo avvenne appunto al mentovato Re nel 1495, essendo il castellano Giusto della can-dida, secondo ci fa saper Summonte (47). Federico suo zio anche qui si ricoverò, allorché il Regno di nuovo venne invaso dai Francesi, ed è memorabile la difesa, che fece D. Costanza d'Avalos, donna di gran coraggio, la quale vi protesse dopo l'armata navale ancorata sotto il cannone del castello. I suoi discendenti, i quali la possederono pel molto tempo con autorità quasi assoluta, molto si distinsero nella fedeltà verso di questa casa. Il corsaro barabarossa per l 'inimicizia, che con essi aveva, la saccheggiò nel 1544 o secondo altri nel 1545 e condusse in schiavitù 4000 abitanti. Ritornata poi in mano del Re nell'anno 1751, vi si mandò per la prima volta un Governatore per decidere le cause civili, essendovene un altro Militare, che ha il governo della soldatesca. Prima di tutti nella parte orientale presentasi un grande scoglio da essa separato, sopra il quale sta il castello. Devesi per necessità convenire che questo sia il luogo il più antico, e dove si fermarono gli Euboici. Strabone secondoché antecedentemen-te ho esposto, dice che i Siracusani vi fecero un muro, che dvesi intendere attorno la città in quest'isoletta, tanto più che ne' tempi posteriori la troviam chiamata Geron-da. Di questa anche parlò Scylace (48), dicendo: Ivi è l'isola Pitecusa con una città greca. Se poi l'isola avesse presa da essa, o essa dall'isola, il nome d'Ischia, è incerto né si sa il tempo preciso, quando fosse succeduto questo cambiamento. Alfonso I vi edificò il castello, che si stimò de' più forti del Regno, al quale varie riparazioni si sono fatte da tempo in tempo. Forte si giudica al presente, poiché oltre d'esser ben munito, lo scoglio è così dirupato, che non vi si può aver l'accesso che dall'isola.

39) Capacc. loc. cit.40) Regist. 1139 f. 8.41) Capacc. Hist. neap. l. 2 c. 15.42) Tristan. Caracc. in vit. Sergian. caracc.43) Pontn. De Bello Neap. l. 2.44) Mazzella - Descr. del Regno di Nap. p. 19.45) Pontan. De Bello Neap. l. 6.46) Regitr. 1299 B. f. 68.47) lib. 6 p. 513 V. Capacc. l. c.48) Peripl. p. 6 edit. Lugd. Bat. 1697.

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Da questa parte poi si ha da passare per un ponte lungo circa 250 passi, il quale può esser battuto dal suo cannone; ma sebbene poi agevole ne sia la salita, è così tortuosa e stretta-mente incavata nel masso che vi possono appena andar pochi uomini di fronte, e può esser guardata da poche persone. Per privilegio molte volte confermato, che serbano gli abitanti, in riconoscenza della loro fedeltà, devono essi custodirlo, ma ciò non ostante essendovi ne-cessità, oggi si è venuto a derogarlo. Nella parte opposta è il Borgo di Celsa, di buon'aria, e ben popolato, che così credesi detto dalla gran quantità di gelsi, che vi erano. In mezzo alla piazza sgorga una bella fontana, che vien condotta dall'Epomeo. In esso vi è un Monistero di Frati Eremitani di S. Agostino, un altro dei P. Conventuali, ed un Seminario. Il luogo è di traffico, e gli abitanti s'occupano nel lavoro delle manifatture, nella pesca, e nell'agricoltura. poco distante vi è il giardino Nin-fario, che presentemente è mal tenuto. I privilegi, che a questa Terra sono stati dai nostri Sovrani conceduti in vari tempi, ed in varie occasioni, sono in gran numero, de' quali anche oggi godono. I luoghi ad esso appartenenti sono Barano, Campagnano, e Vico. Sieguono quindi Monopano e Testaccio, che sono due mediocri abitazioni, l'ultimo de' quali ha una bella ed estesa pianura, feconda di biade e vino, e dopo alcun'altre villette tra Mezzogiorno ed Occidente, vi è il castello di S. Angelo, situato sopra una punta, e serve di guardia a questa costa. A basso è il casale di Serrano composto di alcune case, ed una Parocchia: quindi in una pianura si trova la Villa di Panza con alcune case di villeggiatura. In un sito qua vicino mostrasi un sedile, chiamato dai paesani la Sedia del Re, poiché vi venivano spesso i Re di Napoli a caccia, essendovi nel mese di settembre gran quantità di quaglie e d'altri uccelli. Camminando verso Occidente, anche in una pianura s'incontra la Terra di Forio, la quale si crede che fosse stata fabbricata dai Siracusani, i quali perché vi moltiplicarono, e trovarono il suolo ferace d'ogni cosa, la chiamarono Fiorio; ma non è questa la sola finzione dei nostri creduli e melenzi scrittori, che anzi appena puossi congetturare, che sia la Massa Furiana di S. Gregorio testé allegato. Il suo sito è de' migliori dell'isola ed è molto popolata; gli abitanti s'industriano nelle manifatture, nella negoziazione, nella pesca, e nell'agricoltura; i terreni sono molto fertili, e gustoso è particolarmente il suo greco. Vicino vi è la cala di S. Montano, dove possono approdare sicuramente le barche, ma inondando il mare tutti questi contorni si pensò qualche tempo addietro di farvi un riparo con grosse muira. Lo scoglio del Caruso, ch'è poco distante, è un passo pericoloso, e temuto dai naviganti. Viene appresso il Lacco, che formava nel principio di questo secolo una sola Università con Casanizzola, ma oggi n'è separata. E' questa una terra mediocremente popolata, ed ha anche un territorio fertile. Poco distante da essa, vicino la pietra della Triglia, come dicono i paesani, si fa la pesca de' tonni. Non molto lontano dalle Arene di S. Restituta vi è una chiesa di questa Santa, con un ostello, ed accosto un convento de' PP. Carmelitani. Ai 17 Maggio, giorno nel quale ricorre la sua festivitè, vi si tiene una fiera con gran concorso de' vicini, la quale con un diploma di Carlo V fu dichiarata franca. Castiglione, che vien appresso nella riviera, si stima di origine antica; ma in fuori di pochi ruderi d'edifici non vi è monumento che possa renderci certi del suo nome, né di qualunque altra cosa, che perciò si richiede.Nel suo distretto, e nell'albergo de' Signori Garriglia di Casa Cumana, aprendosi nelle muraglie, o stanze sotterranee, molte volte vi si è trovato un odore acutissimo e penetrante. I Calcidiesi avevano l'arte di preparar mirabilmente gli unguenti, ma non sappiamo poi se essi o quei che vi vennero dopo ne avessero fatta industria, onde dire che fin dai quei tempi vi fussero stati riposti. Credesi poi che Casa Cumana fusse stata fabbricata da quei Cumani che vi si rifuggirono essendo Aristodemo tiranno della loro città, ma si finge troppo per la sola somiglianza del nome. Dentro terra è Casanizzola, che si crede abitata dagli Eretriesi, sol perché una sua collina si chiama l'Eritreste, tanto bastando per alcuni nostri scrittori ad accettar qualunque fatto, senza aver bisogno d'alcun'altra autorità. La favola che si racconta per riguardo all'origine del suo nome, è bastantemente curiosa per esser riferita. Si crede che una vecchia storpia chiamata Nisula nella fuga de' Calcidiesi, impotente a seguirli, fosse rimasta nell'isola, la quale, quasiché poi fusse divenuta libera, andò nel vicino bagno e si risanò. Di questo fatto informati i vinini, si trasferirono ad abitar quel luogo, e dalla sua abitazione la chiamarono Casanizzola; ma con tuttoché questa frottola sembrasse un vero racconto di vecchiarella, vi sono stati molti fanciulli che se l'hanno inghiottito, e persin chi ne foggiò un'iscrizione che disse aver trovata ivi vicino. Io sarei bastantemente noioso se volessi far menzione di tutte queste cose; ma non sembrami doversi tralasciare che vi sono alcuni, i quali credono che la stessa Sibilla Cumana si fusse ritirata a Casa Cumana, dove si mostra la sua sotterranea

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abitazione. Questa terra poi per altro riguardo è considerevole, l'aria vi è assai salubre, la popolazione numerosa, e il terreno fertile. In essa vi sono molte buone fabbriche, ma fra tutte è ragguardevole lo spedale di S. M. della Misericordia, dove vanno a curarsi gli infermi ne' bagni. Questi sono dispersi in vari luoghi per tutta l'isola e si sperimentano giovevoli per molte malattie (49), ma io volentieri tralascio di parlarne per aver fra l'altre l'opera di Giulio Jasolino, dell'Aloysio, e dell'erudito P. de Quintiis si di questo soggetto (50) Nel suo distretto vi sono molte fornaci per vasi di creta, e Plinio già da gran tempo dice che quest'arte presso gl'isolani si era introdotta. Il suo suolo è in buo-na parte cretoso, e di questa materia provvedono anche i vasai di Napoli. Or avendola descritta nel suo circuito, bisogna che la consideriamo anche in generale, e li diamo qualche altra occhiata per quel che più. interessa. Primieramente per quel che riguarda la sua formazione, non può dubitarsi che sia stato uno de' più antichi Vulcani della nostra Campania, né vi è bisogno per dimo-strarlo tale, darne de' contrasegni, giacché dalla sua storia bastantemente ne veniamo in chiaro. Strabone (51) asserisce che vi erano alcuni i quali credevano che fosse stata distaccata dal vicino promontorio di Miseno, ed in verità le sue lave hanno molto più di somiglianza con quelle di questo capo e de' vicini Campi Flegrei che col Vesuvio e gli altri Vulcani di Terra di Lavoro; ma non devesi per questo dedurre una tale conse-guenza poiché Plinio, il quale certamente era più informato dalle cose naturali, disse ch'era surta dal mare e così giudicherà ogn'altro, per poco che di queste cose sia perito. Esaminandola poi all'ingrosso, è di figura ellittica, ed ha circa 18 miglia di circuito. La sua superficie è coverta da infiniti monticelli, e colline e vi sono anche molti promonto-ri; ma il monte che più s'estende e che quasi tutta l'occupa è l'Epomeo o di S. Michele. Questo che un tempo era il Vulcano, e che non cessa tuttora di mantener in agitazione gli abitanti, meriterebbe d'esser esattamente a parte a parte esaminato da un diligente Naturalista. Egli si eleva dal livello del mare per quasi un miglio e mezzo ed attraversa in lungo tutta la superficie dell'isola. Chiaramente vi si ravvisano molte piccole boc-che, ma la principale è nella cima. Da questo punto come può supporsi, si gode della più estesa veduta e d'un'aria salubre e sottile. Chiamasi in questa parte il monte della Guardia, perché vi si sempre qualcuno in osservazione de' legni, che passano, e con le fumare ne dà il segno al castello di S. Eramo in Napoli. La terra qui è sterile, biancastra, e quasi tufacea per qualche tratto; ma a misura che si comincia a scendere varia nel colore e nella qualità, ed arrivandosi al fonte Boceto, si vede cambiata del tutto, e vi si ci trova uno strato fertile e coverto d'alberi e di piante. Tutto il composto dell'isola è un masso (eccetto in pochi soli luoghi), non molto duro, coverto da una profonda terra vegetabile di vari colori. In ogni luogo vi scaturiscono delle acque, senzaché ve ne cadessero in gran quantità, anzi un terzo di meno del vicino continente, ciocché diede occasione ad alcuni di confermar secondo l'antico sistema, che vi venissero introdotte dal mare per li sotterranei meati; ma puossi vedere come il Dottor Verlicchi sviluppa bene questa questione nelle lettere citate e come palpabil-mente dimostra che più ella riceve d'umido di quel che ne mandi fuora. Si crede che vi siano miniere d'argento e d'altri metalli, che vi si scavavano antica-mente (52), ma da essi oggi solamente sono restati i nomi ad alcuni de' bagni. L'alume naturale vi è in abbondanza, e vi si raccoglie il nitro, una terra per pulire e levigare le gemme, ed il sale ammoniaco. Il Cav. Hamilton avvertì che vi sono molte fumarole, che hanno la proprietà di scomporre le lave, esalando de' vapori acido-sulfurei e li comu-nicano un colore bianco. Sono poi tante le cose da osservarsi sulla sua storia naturale, mineralogica e termologica che non vi basterebbe per essa sola un ben grosso volume. Il terreno è da per se stesso molto fertile, e grande l'industria dei lavoratori. I suoi frutti sono saporitissimi e fra questi i ciliegi ed i fichi, ma non però il grano vi si rac-coglie in poco quantità, e così ancora i legumi. Ciò proviene dall'avervi piantate molte vigne ne' luoghi dove sarebbe stato opportuno seminarvi il frumento, ond'è che scar-seggiano de' generi di prima necessità, ed abbondano d'un altro che serve a mantener il commercio. la quantità che di questo si raccoglie supera di molto il proprio consumo, ed alcuni anni arriva a 45000 fin a 50000 barili napoletani. Sono poi di differenti qua-lità e divengono molto migliori quando abbiano passato il mare. Le produzioni naturali sono fra gli alberi gli orni, dai quali si cava la manna. La parti-colarità che narra Plinio (53) pei cipressi, è troppo singolare, dicendo che in quest'isola tagliati che erano, caccivano di nuovo delle radici e germogliavano, se si fussero tornati

49) Conosciuti furno anche dagli anti-chi questi bagni, che stazio (Silv; l. 3 5. v. 114) chiamò lacus medicos. L'unica proprietà però che ad essi assegnano è di guarire i calcoli. Strab. t. I l. 5 pag. 247. Plin. Hist. Nat. l. 2 c. 85.50) T. I l. I 54 e 60/51) Hist. nat. l. 2 c. 85.52) Strab. t. I l. 5 p. 249.53) Hist. nat. l. 16 c. 33.

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a piantare, cosa che non si vede oggigiorno. Fra l'erbe vi si trova una specie di Thè non cattivo, ma in pochi luoghi, in abbondanza il cametrio ed efficacissimo, e da per tutto l'assenzio, l'issopo, la centaura, la salvia, etc. Gli abitanti, che giungono al numero di 22333, sono ripartiti in vari impieghj. Alcuni sono occupati in lavorar rozze maifatture, canestri, ventagli e cappelli di paglia..., le donne le tele velate, che servono pei propri usi. Molti anche vivono a spese dell'Ospe-dale, e servendo i forastieri, che vi si vanno a curare. Vi è poi numerosa la classe degli agricoltori, e de' pescatori. La nobiltà anch'è numerosa e vi sono fra essa molte famiglie antiche. I forestieri fanno della gente bassa il più tristo carattere, e par che veramente corrispondas il cuore alla fisonomia. Vicino all'opposto continente, accosto al monte di Procida vi è l'isolettra di S. Martino, che prima era unita alla contigua terra. Nella rubrica de' beni, che la Chiesa di Napoli possedeva in Miseno, vien chiamato Monte di S. martino, e si fa menzione d'una Chie-sa (54). In una carta poi del 1128 si dice che stava nel Ducato Napoletano e che vi era un castro (55). L'onde del mare l'hanno per poco distaccata dai luoghi aggiacenti, né ciò è avvenuto molto tempo addietro. Rendesi ella considerevole per la sua tonnara, la quale dà un gran lucro, ma non è che un meschino scoglietto di pochi soli passi di circuito. Un tiro di schioppo distante dall'isola di Procida nello stretto che la separa da Ischia e quasi dirimpetto alla Torre del Fumo, vi è un'altra isoletta chiamata Vivara, la quale due secoli addietro cominciò a coltivarsi ed oggi è ripiena di fagiani (56). In essa però non vi è popolazione, non avendo che un piccolissimo circuito.

Procida Uno stretto di due miglia divide questa dalla vicina isola di Ischia, che una volta, se-condo ci attestano gli antichi furono unite. La di loro formazione, come ho accennato, rimonta ne' più oscuri tempi dell'alta antichità, ma non così la di loro separazione, la quale suppongo esser avvenuta poco prima, che ne fussero partiti i calcidiesi. Allora l'Epomeo eruttò fuoco, come ho dimostrato, e questo pezzo con l'urto che diede all'on-de fece allagare la superficie d'Ischia coverta di lave. Che non prima un tal avvenimento fusse occorso, non ci lascia Plinio (57) luogo di dubitarne, quando parlando della loro separazione, dice: In eadem (Pithecusis) op-pidum haustum profundo aliquo motu terrae, stagnum emersisse, et aliis provolutis montibus, insulam extitisse Prochytam; poiché essendovi una città, che anche profon-dossi, chiaro apparisce che questa terribile rivoluzione dové succedere quando i Cal-cidiesi vi si werano già stabiliti. Il luogo di Timeo, come ho avvertito, da questo viene ad acquistar chiarezza, e questo reciprocamente dall'altro. Assodato in tal maniera un fatto così interessante, da tal avvertimento facile riesce trar l'etimologia del suo nome. Servio (58), citandoo Plinio, dice: Inarimes mons fuit, qui terraemotu diffusus alteram insulam fecit, quae Prochyta ab effusione dicta est: Procus poi significa praescindo e par che ciò venga confermato da Plinio medesimo (59), il quale disse non esser stata così chiamata per causa della nutrice Enea, ma per esser stata divisa da Ischia. Ben è vero però che l'opinione da lui rifiutata, vien autorizzata da Vulcazio ed Aurelio Pisone presso Aurelio Vittore (60), e da Dionisio d'Alicarnasso (61), ma oltrecche essi la sba-gliano parlando di Procida isola, che allora non era tale, sembra, che difficilmente Enea avesse potuto condur seco tanti attinenti, o che tanti ne fussero morti, per infettar tutt'i nostri ligi. L'Abb. Scotti suo cittadino disse (62) che il primo nome datole dagli Euboici si fu Procima, quasi Prima Cyme, o Cuma, ma oltreche non si trova mai così scritto presso autore alcuno, ne avesse avuto alcun altro indizio per azzardar neppure una congettu-ra, pure ne parla come di cosa certa. Una tale supposizione è del tutto insufficiente, ma il soggiungere che fu detta quindi Procida e non Procima per lo facile scambiamento della lettera m in d, e il volerlo dimostrare nelle Origini Procidane, io lo stimo assai difficile, non essendovi monumento donde poter ricavar simili pruove. Crede di più e sostiene (63) che quest'isola si fosse chiamata Cuma e Sicilia la Cam-

54) V. Scotti p. 38.55) Federici Ipati di Gaeta p. 493.56) Capacc. Hist. Neap. l. 2 c. 16.57) Hist. nat. l. 2 c. 82.57 bis) Hist. nat. l. 2 c. 82.58) Ad Aeneid. Virg. l. 9 v. 715.59) Hist. Nat. l. 3 c. 6.60) Orig. Gent. Rom.61) Antiq. Rom. l. 1 p. 43.62) Dissert. Corogr. di Miseno e Cuma part. I c. 2 p. 43.63) part. I c. 1 p. 33 nella nota.

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pania; ma lasciando questa seconda parte per altro luogo, facciamci un poco a consi-derare le sue ragioni. Lo Scoliaste di Pindaro (64) nomina l'isola Κυμη vicino la Sicilia dicendo: Κυμη νεσος παρακειιμμενη τη Σικελια : Cyme isola accosto la Sicilia; veden-do che Stefano Bizantino anche un'isola di questo nome situa nello stesso luogo (65), ed inoltre che vicino la Sicilia dice anche esser Procida (66), si credfe d'aver provato tutto e d'aver tolta ogni difficoltà nel mentre che più l'induceva. Stefano certamente non è un autore da cui si possa far capo o per suo proprio difetto, o per l'ignoranza del suo abbreviatore, il quale non considerando, come fece per lo più la differenza, che vi era tra Italia e Sicilia, spesso trasporta i luoghi d'una regione nell'altra. Questo sbaglio poi era era stato da molti avvertito, e se n'avvide anche il Signor Scotti, ma volendolo occultare per quanto si fosse opposto alla sua nuova opinione, disse che di un'isola Procida ne fa due, una chiamandola con questo nome, e l'altra Cuma; sebbene alla sua franchezza spesso non corrispondono le ragioni. Ma che dirò poi dello Scoliaste? Egli si avvide anche, o almeno lascia luogo a sospettarlo, che non andava niente a suo verso, e perciò soggiunse che nello stesso testo spioega, che Cuma sia Procida. Sareb-be questo certamente di qualche peso, ma potrà conoscersi da ognuno che tutt'altro egli disse, essendo queste le sue parole: Cuma isola vicino la Sicilia. Evvenne un'altra nell'Eolia (quest'e città). Non è poi Cuma, che getta fuoco, bensì quella, che vien detta Procida, e con altro nome Pitecusa. Io non voglio qui notare li sbagli dello Scholiaste, ma manifestamente non distingue egli Cuma da Procida? Si deve dunque convenire che il Signor Scotti trattandosi d'un'opinione, a cui s'era affezionato, non badava alla lezione della verità, difetto che sarebbe forse condonabile, se si fosse trattato d'accre-scere qualche nuovo lustro alla sua patria. Circa i suoi primi abitatori niuno vi sarà, il quale dubiti che l'abbia avuti comuni con Ischia allorché erale unita, né mi persuado, come il Sig. Scotti voglia sostener che gli Euboici vi rimasero anche dopo la loro separazione, come quelli, che non avevano necessità di fuggire, non temendo de' fuochi e tremuoti; ma questo era impossibile quando il mare n'aveva sterilita la superficie, er erasi separata in maniera da Ischia da non restarvi salve le case, e gli abitanti. Contro voglia poi, e fuori del mio istituto son costretto a censurarli quasi ogni espressione, ma credo sicuramente, che tuttociò ch'e-gli disse in questa Dissertazione lavorata con ben diverso fine, che di parlar con tutt'e-sattezza delle antichità, che niente importavano per il buon esito della causa, l'avrebbe moderate o tolte del tutto nelle sue Origini Procidane, attese con piacere dagli eruditi, dove si aspetta, che dia altri lumi interessanti in riguardo alla sua patria. Or poi non so se bastala sua semplice affersione, per provare, che dopo diminuendosi la popolazione in Ischia, tutt'al contrario in essa crebbe e prosperò. Né sicuro è il cre-dere come fa con l'Olstenio, che i nomi tratti dalli compagni d'Enea, o da altra persona alla sua famiglia spettante, non si davano che a quei luoghi e città ch'erano cospicui e di qualche rinomanza, e così conchiudere che Procida era luogo rispettabile, perché Dionisio dice ch'ebbe il nome dalla nutrice di Enea. Quanto ciò sia mal sicuro, è evi-dente per se stesso; poiché si darebbe egli a credere, che ne fusse stata fin d'allora con-siderevole la popolazione? e poi dipendeva da un caso piuttosto, o da un premeditarto accidente la morte di qualcun del suo seguito? ed eran forse luoghi cospicui e rinomati Palinuro, e la Licosa, e pur l'uno dicono, che ricevé il nome del nocchiero d'Enea, e l'al-tro dalla cognata; e che par che sia di più di questa la nutrice? e pur la Licosa, era uno scoglio infame per la dimora delle Sirene. Per questo riguardo volle seguir la correzione di Sannazzaro ne' due versi di Properzio (67):

Et modo Thesproti mirantem suddita regno, Et modo Misenis aequora nobilibus

nel qual luogo invece di Thesproti cercò di porvi Prochyte e farli dire aequora Miseni erant subdita regno Prochytae, ma non faceva uopo di questa correzione, se si fus-se capito quel il Poeta volea dire. In buon conto Procida era un'isola deserta, ed evvi un'autorità decisiva di Giovenale (68) in questi versi:

Quamvis digressum veteris confusus amici Laudo tamen vacuis, quod sedem figere Cumis

64) loc. cit.65) p. 488.66) p. 648.67) l. 1 eleg. XI v. 3.68) Satyr. 3 v. 1.

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Destinet, atque unam civem dare Sybillae. Janua Baiarum est, et gratum litus ameni Secessus: Ego vel Prochytam praepone Saburae; Nam quid tamen miserum, tam solum vidimus, ut non Deterius credas.........

Che se indulgenti vogliamo essere qualche poco, e credere, che già allora fusse divenuta abitabile, e se ne avesse potuto cavar qualche profitto, non dobbiamo tan-to allargarci, ma convenire che fu questa scarsissima, poiché anche Solino (69), parlando delle nostre isole dice: Sed quantum residendum est, si dilatis quae pra-ecipua sunt, per quamdam desidiam Pandatariam, aut Prochytam dicamus; e così riesce anche facile l'interpretare l'epiteto d'aspera che le dà Stazio (70), per inculta, il quale ha fatto invano lambiccar il cervello a quanti fin ora si sono impegnati a spiegarlo, attribuendole qualità differenti da quelle del suo suolo. Nei primi tempi dové esser ella una dipendenza d'Ischia, e come tale soggetta ai Duchi di Napoli. Ciò lo fa veder chiaramente S. Gregorio, scrivendo al Duca di questa città, che avesse liberato il Priore de' Napoletani dalla vessazione del Conte di Miseno, che pretendeva venti orne di vino; ed aggiunge peso il saper che Marino figliuolo del Duca Giovanni, mentre voleva nuotare nel suo lido, restò improvvi-samente annegato dai cavalloni (1). Non è poi così facile determinare quale Dio-cesi fusse stata compresa, potendosene vedere alcune sebben lievi congetture nel progresso della Dissertazione del Signor Scotti; ma quel ch'è quasi certo, secondo io stimo, che essendovi al principio poca popolazione, la quale appena vi si potea mantenere, quando di già per le incursioni de' barbari nell'altri luoghi mancava, fusse stata indipendentemente nella cura de' PP. Benedettini, che vi avevano un Convento, assicurando il Chioccarelli (72) che non vi era altra Parrocchia fuor della loro Chiesa, e che il Commendatario di poi vi aveva la giurisdizione Ecclesiastica, dipendendo immediatamente dalla S. Sede. Il primo che l'avesse posseduta, stimasi esser stato qualcuno della famiglia di Pro-cida. Io azzarderei insussitenti congetture, se colessi individuare di dove essi fusse-ro originari, ma ciò poco importa al nostro proposito. Ciocch'é sicuro si è che il cele-bre Giovanni di Procida la possedeva, ma avendo rivoltato il Regno di Sicilia contro di Carlo I, li fu come traditore, confiscata e data ad un certo Lanfranco Milite (73). Il Signor Scotti raccolse molto per fare una completa numerazione de' vari passag-gi, ma vi lasciò qualche cosa interessante, che mi è riuscito di trovar senza molto stento, e per non far esser anche dimezzata questa mia, ben volentieri unirò tutto-ciò che mi è riuscito avere. Accesasi la guerra tra il Re di Napoli e di Sicilia, venne quest'isola, come ho dimostrato innanzi, in mano di quest'ultimo. Fattasi la pace tra essi, Giovanni di Procida l'ebbe col peso di cent'once e il servizio di cinque militi (74), ma essendo ricorso in appresso Tommaso allo stesso Carlo II, esponendoli che questo era troppo gravoso, perché l'Isola era esposta alle continue invasioni de' nemici, ed egli non la poteva custodire, li fu scemato di tre militi (75). Giovanni di Procida nel 1339 ebbe il Regio Assenso di Roberto per poterla vendere a Marino Cossa d'Iscla, come in effetto il suo figlio Adenolfo la diede a costui per mezzo di procura in testa a Nicolò Pagano (76). Per 180 anni ne restò il dominio in questa famiglia, onde sembra, che la sbagli il Signor Scotti, dicendo che sotto Ferdi-nando I la perdé Giovanni Cossa per essersi dato al partito del suo competitore Lu-igi d'Angiò; poiché sebbene sia vero che Giovanni fu uno de' più attaccati all'Angio-ino, pure allora, copme ci fa sapere il Capaccio (77), n'era padrone Michele, il quale si mantenne fedele a Ferdinando, né vi era motivo alcuno d'abbandonarlo, giacché lo stesso Storico ci assicura che venendo costui in Procida assediato dal Toriglia, il Re in persona andò in suo soccorso. Per farlo poi star più sicuro, la dové presidiare di proprie truppe e cessato il timore, ce la restituì nel 1466. Nè passò così presto al Dominio Reale, poiché questo la trasmise nel 1510 a Pietro suo figlio, il quale la permutò con Alfonso d'Avalos per Presenzano e Pietra Vairano; onde Carlo V non la concedé a costui, ma ce la confermò. Al Capaccio sid eve tutta la credenza, perché era molto ben informato di queste cose, scrittore diligente e quasi contemporaneo. Fin dal 1410, a tempo ch'essa veniva posseduta da Michele Cossa, la Regina Gio-vanna II l'aveva conceduta l'esenzione dai pesi fiscali, ed altre immunità, per esser-

69) Epistol. l. 7 22.70) Polyhist. c. 24.71) Chron. neap. ap. Peregr. Hist. Princ. Long. t. 3.72) De Episc. et Archiep. neap. p. 335.73) Arch. della Zecca fasc. 12 Registr. 1303 D f. 46.74) Registr. 1304 B fol. 15. 1299. A. fol. 58.75) Regist. 1300 e 1301. A. fol. 71.76) Capacc. l. 2 c. 16 - Registr. 1339. B. f. 12.77) Capacc. l. c.

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sele mantenuta fedele, ciocché venne confermato da un altro privilegio del 29 giugno 1422. Un anno dopo Ferdinando I approvò quanto s'era fatto dai suoi predecessori, locché fecero anche Ferdinando il Cattolico il 26 maggio 1507, Giovanna III e Carlo V il 16 luglio 1519, come si legge in un'istanza stampata nella causa tra l'Università di Procida e quella di Pozzuoli. Questi li furono sospesi nel 1649 fin al 1682, quando di nuovo li riebbe. Si è comunemente creduto nei tempi addietro, che a differenza dell'altre nostr'iso-le, questa non fosse stata formata da vulcani; ma in verità, se si esamino le materie, che la compongono, non vi vuol troppo né vi fa bisogno d'un occhio penetrante, per venirne in chiaro. Vi sono stati alcuni che si sono opposti a questa comune opinione, ma la maggior parte de' nostri Naturalisti ha voluto restar nell'antica credenza. Senza analizzare i suoi componenti, e col solo fatto avrebbesi potuta dirimere questa contro-versia, ma molte volte non si può aver la mente a tutto. Ella non vi è dubio ch'era parte dell'isola d'Ischia, e come tale, dov'é avere con essa un'origine comune; se dunque in questa e per i sicuri segni che vi ha lasciati il fuoco, e per quel che ne sappiamo dalla sua storia, non possiamo dubitare che la terra sia stata sollevata dalla conflagrazione dell'ignite materie; si convien anche credere che procida sia anche un pezzo vulcanico. Silio Italico (78) finge che fosse stata soprapposta al gigante Mimante, come Ischia a Tifeo, ed è sicuro che i giganti venivano confinati dai poeti e dai favoleggiatori in qwuei luoghi nei quali il fuoco aveva più agito con più violenza. Sebbene poi la sua superficie avesse sofferte molte mutazioni, vi si osservano da pertutto dei gran pezzi di lave. Il suo circuito è di 7 miglie, quasi tutta in piano, e il territorio è senza dubio de' più fertili della Provincia. Produce questo in abbondanza i generi di prima necessità, frutti squisiti e primaticci, che si mandano a Napoli; ma il commercio v'introduce grandi ric-chezze. Ha due porti, uno all'Oriente e l'altro ad Occidente, il quale è pieno continua-mente di legnmi mercantili, dove si vengono a noleggiare dai vicini, quando si ha da far qualche imbarco. Da essi l'isola viene divisa in due distretti, il primo dei quali è poco popolato, ma è da osservarsi un bel palazzo, con degli ameni giardini ch'era una volta dei Duchi d'Avalos. Nell'altro vi è un paese che ha il nome stesso dell'isola, il quale nel mese di luglio dell'anno 1792 fu dal Re dichiarata Città. Egli vi ha la caccia riserbata de' faggiani, dei quali si moltiplica, sempre più la specie, perché rarissime volte se ne uccide qualcuno, e sotto gravissime pene non possono esser molestati dagli abitanti, i quali permettono che prendessero il cibo coi loro animali domestici. Il numero delle anime arriva fin a 13419 e vengonvi amministrati i Sacramenti nella Parrocchia di S. Michele. Questa città ch'era del Monistero de' PP. Benedettini fu nel 1500 data in Coomenda e sotto la giurisdizione del proprio Commendatario, era sog-getta immediatamente alla S. Sede. L'arcivescovo di Napoli fece valere i suoi diritti su di essa e venuto ad accordo il Cardinal Bellarmino, che allora l'aveva con l'arcivescovo Alfonso Gesualdo, fu riconosciuta nella Diocesi Napoletana, e l'Abate si obligò d'inter-venire al Concilio Diocesano. Questa Chiesa è recettizia, e puossi dire che i soli Sacer-doti sono quelli che possono quivi dirsi poveri per le scarse contribuzioni che hanno.

Rovigliano Tra la Torre dell'Annunziata e Castellammare di Stabia, trovasi l'isoletta di Rovi-gliano, la quale si crede da alcuni esser la Petra Herculis di Plinio, sebben da altri si giudica ch'egli avesse inteso dello scoglio d'Orlando, ch'è più in là sotto il monte dello Scrajo. Noi non abbiamo fuor di questa, altr'autorità, per decidere una tale contro-versia, la quale può servire per sostenere l'un e l'altra opinione, dicendo: In Stabiano Carmine, ad Herculis petram, melanuri in mare panem obiectum rapiunt, iidemque ad nullum cibum in quo hamus fit, accedunt (80). Or Plinio la situa nella Campania, ed estendendosi questa assai più verso mezzogiorno, vi veniva compresa l'una, e l'al-tro, com'anche nel Golfo di Stabia; ma trattandosi d'opinioni, io mi atterrei a questa piuttosto che alla prima giacché è un puro supposto dal Milante (81), che fossevi sta-to un tempio d'Ercole, dal quale avesse preso il nome, e dall'altra parte è più sicuro che avesse dato il nome di Petra a questo scoglio che a Rovigliano, la quale, secondo egli stesso ne giudica, dové esser molto più grande prima dell'eruzione del Vesuvio, succeduta sotto Vespasiano.

78) De Secund. Bell. Punic. l. 12 v. 147. 79) Deipnos. l. 9 c. 14.80) Remondini, Storia Nolana, lib. 32 c. 281) De Stabiis Stabiana Eccl. p. 8

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Nel secolo di mezzo vi si stabilirono i PP. Cisterciesi, che vi fabricarono un Moni-stero sotto l'invocazione della B. Vergine, il quale passò poi ai PP. Cassinesi (82). Il citato Milante (83) porta un'istrumento d'Ursone Arcivescovo di Sorrento, col quale concede al Vescovo di Castellammare di Stabia la potestà sopra l'isola, e 'l Monistero di Rovigliano, o Robiliano, d'ordinar chierici, edificar chiese, altari, consacrar preti e benedire l'Abbate; qual concessione, quasi nei medesimi ter-mini, li venne confermata ai 17 Febbraio 1110, dall'Arcivescovo Barbato. Capac-cio (84) dice che Carlo I d'Angiò vi fabbricò la chiesa di S. Michele, ma non per questo devesi dedurre che non vi fossero stati più i Monaci, perché apparisce da un documento nell'Archivio della R. C. (85) che nel 1334 vi era esistente il Mo-nistero, e l'Abbate; ma nel suo tempo era già divenuta una Badia di collazione Pontificia; ed oggi se n'è fatta una torre di guardia per quelle costiere.

Apragopoli Di quest'isola che troviamo solamente nominata presso Svetonio (86) e di cui oggi non se ne sa la situazione, vari sono stati i sentimenti degli eruditi. Credo-no alcuni con lo Scoliaste di Giovenale, doversi in lui leggere: Nullo (Augustus) denique genere hilaritatis abstinuit: vicinam Capreas insulam Απραγοπολιν ap-pallabat, a desidia secedentium illuc e comitate suo; quandoché in tutti i codici si legge Capreis. S'appose ad essi e con qualche ragione il Martorelli (87), poiché se egli allora dimorava in Capri, non poteva onninamente succedere, che quell'A-pragopoli non fosse stata da essa separata. A questa difficoltà, credi di far argine il Signor Scotti (88) che essendo Capri quasi divisa in due da una profonda vallata, gli antichi la chiamassero perciò Capreae nel numero del più; ma se mai potesse aver luogo questa sua supposizione, non così se li potrebbe concedere, che si fos-se chiamata isola una porzione circondata in due soli lati dal mare; oltrediche se tutte e due le parti avevano il nome di Capreae, una sola, ognun vede, che per la stessa ragione dovevasi dir Caprea, ed ecco che neppure si uscirebbe d'impaccio. Quello poi che fa vedere, ch'egli non troppo ponderava le cose si è che quando Svetonio parla del sollazzo, che quelli della corte d'Augusto si andavano a prende-re in quest'isola, egli dice che erano abitatori intenti alle loro faccende, e spiegan-do così gl'indigetes, nome col quale voleva egli distinguere gli abitanti di Capri. Essendo dunque certo, che fu un'isola separata, non ne so poi il luogo, mentre non ve n'è alcuna in vicinanza. Martorelli la vuole la stessa di quella che Stazio (89) chiama Taurobulae, la quale crede che poi si fosse affondata; ma venne con-futato dall'Abbate Parascandolo (90) pel primo punto, sebben parmi che si deb-ba convenir con lui pel secondo, nn essendo difficile che un piccolo scoglio qual doveva essere o si sia impicciolito maggiormente o sia stato ricoperto dal mare.

Li GalliQuindi in n on molta distanza, dall'altra parte del capo di Massa, sono le Sire-nuse, isole spesso mentovate, da poeti in particolare, per l'infame dimora delle Sirene. Quali fossero state, o mostri, o donne, o corsari, si è disputato alla lunga da moltissimi scrittori. Io però, se qualche cosa vale il mio giudizio, stimo che inu-tilmente vi si siano affaticati, comeché lodevole sempre sia trar la verità dal seno delle favole, con le quali è avviluppata; poiché essendo stato un mero ircocervo di qualche antico, ognun la pensò a modo suo, e non si poté scovrir la verità dove non vi fu mai. La sensata domanda, che Tiberio fece ai Grammatici (91), quale si fosse stato il lor canto, e 'l non aver avuto questi che rispondere, li doveva ritene-re in non impiegar fatica in cosa che non avevasi potuta scovrire allora, quando vi erano tutti gli aiuti per venirne in chiaro. Ad ogni modo, sembranmi degni di

82) Remondini, Stor. Nolana t. 1, l. 1 cap. 4583) Lib. cit. p. 217, nota b.84) Hist. Neapol. l. 2 c. 1085) egistr. 1333, 4, D. F. 14186) In aug. c. 9887) De Reg. Thec. Calaamar t. 2 l. 2 c. 588) Dissert. Corograf. di Miseno89) Silv. l. 3, I, v. 12890) Lett. sulla città di Equa p. 86 e segg.91) Svet. in Tiber. c. 70

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riso, coloro che li stimano pingoini, uccelli de' quali abbondano parecchie isole del Tropico, senzache i loro abitanti, vicini provino quei molesti effetti che esse producevano. Conrovertito si fu anche il luogo della loro dimora, e molti le posero nel promon-torio di Peloro nella Sicilia. Apollonio Rodio, chiama la lor isola Ανδεμοεσσα, della quale Cluverio nell'Italia Antica (92) non sa trovarne il sito, ma poi in altro luogo (93) dice, non poter essere che Capri. Servio (94), anch'egli disse che da Peloro passarono ad abitare quest'isola, onde il Sig. Vargas (95) si pose in punto di sostenere l'opinione di Cluverio, persuadendosi che Apollonio di essa avesse inteso parlare, ed al suo solito affastellando mal pensate etimologie lo taccia alla fine d'aver male inteso Omero, e le lingue orientali, per cui d'un luogo così lugu-bre e tristo n'aveva fatto un florido prato. Inettisca però egli come vuole su di que-ste bagattelle, ma quel che vi è d'importante, che egli non si aveva presa la cura neppure di riscontrarlo, mentre son certo che avrebbe conosciuto che quest'isola da lui vien riposta vicino la Sicilia, ma quale si fosse stata precisamente, a me poi non tocca individuarlo. Queste che appariscono in un piccol gruppo di tre grandi scogli, e che si chiamano i Galli, sembra che non abbiano nome antico. In esse, come si legge nella Cronaca Amalfitana, vi fu condotto il Duca Mansone, a cui suo fratello Giovanni aveva fatto cavar gli occhi. Oggi vengono guardate da una torre e vi si pescano pesci saporiti.

92) T. 2 l. 4 c, 593) Sicil. Antiq.94) Not. ad Adeneid. V, v, 8695) T. I p. 108-

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