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1 Diritto amministrativo Fonti, espropriazione, pubblico impiego e authorities A cura di Marco Fratini

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Diritto amministrativo

Fonti, espropriazione, pubblico impiego e

authorities

A cura di

Marco Fratini

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Fonti, espropriazione, pubblico impiego e

authorities.

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Indice

Espropriazione

L’istituto dell’acquisizione sanante

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 13 gennaio 2014, n. 441

Usucapibilità dell’area

Cons. di Stato, sez. IV, 3 luglio 2014, n. 3346

Ottemperanza e provvedimento ex art. 42 bis T.U. espr.

Cons. di Stato, ordinanza del 3 luglio 2014, n. 3347

Pubblico impiego

Corte di Giustizia, 26 novembre 2014

Corte di Cassazione, sentenza del 30 dicembre 2014, n. 27481

All. 1

Authorities

La legittimazione dell’Antitrust ex art. 21 bis l.n. 287/1990

Cons. di Stato, sez. V, 30 aprile 2014, n. 2246

Sul potere dell’Antitrust di esprimere parere motivato

Corte Costituzionale, 14 febbraio 2013, n. 20

Tar Lazio- Roma, sez. II, 6 maggio 2013, n. 4451

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Selezione giurisprudenziale

Espropriazione

L’istituto dell’acquisizione sanante

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 13 gennaio 2014, n. 441

Motivi della decisione

2. I ricorrenti hanno preliminarmente riproposto l'eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 42 bis

del T.U. sulle espropriazioni,dubitando della sua conformità alla normativa degli art. 117 Cost. ed art. 1

Protocollo 1 all. alla Convenzione Edu, per la sua evidente funzione sanante di un comportamento

illecito dell'amministrazione, dato che allo stesso è attribuita validità giuridica: con il conferimento alla

p.a. del potere di trarne vantaggio e di trasformarlo in una situazione lecita, nonchè di regolarne

unilateralmente le conseguenze a proprio favore. Il che corrisponde proprio alla nozione di

espropriazione indiretta, dalla Corte europea dichiarata incompatibile con la Convenzione pur

nell'ipotesi in cui essa derivi da una disposizione di legge, poichè persegue egualmente il risultato non

consentito, di rendere l'ingerenza illecita nella proprietà privata una alternativa ad un'espropriazione

svolta secondo i canoni di legge.

La questione è anzitutto rilevante nel presente giudizio in quanto, da un lato, è pacifica l'applicabilità del

menzionato istituto (re)introdotto dall'art. 42 bis T.U.; e dall'altro è proprio il sopravvenire di detta

normativa ad aver mutato quella precedente più favorevole, invocata dai ricorrenti,ed in particolare ad

impedire la restituzione dei terreni di fatto occupati dall'AIPO: del resto posta come alternativa dallo

stesso provvedimento 107/2010 del TSAP ove il Commissario non avesse ritenuto di procedere

all'acquisizione sanante ai sensi dell'allora vigente art. 43 del T.U. S'intende significare che l'esame dei

motivi di ricorso potrebbe indurrebbe astrattamente al rigetto dello stesso, nella vigenza della norma

della cui legittimità costituzionale si dubita, conseguendone che/Ove invece l'art. 42 bis, per i

consistenti dubbi di compatibilità con la Carta costituzionale, venisse espunto dall'ordinamento, i

ricorrenti fruirebbero del trattamento, risultante dalla disciplina previgente all'emanazione delle

disposizioni impugnate, per loro più favorevole e consistente nella restituzione dell'immobile soggetto

ad occupazione in radice illegittima, ed al risarcimento del danno informato ai principi generali dell'art.

2043 cod. civ., con accoglimento dei restanti motivi di ricorso.

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Alla completa tutela reintegratoria essi avevano,infatti, diritto in base al regime comune previgente: in

quanto contestualmente alle note decisioni 161/1971 e 138/1981 della Corte Costituzionale sui limiti di

intangibilità dell'atto amministrativo, questa Corte fin dalle sentenze 4423/1977 e 118/1978 delle

Sezioni Unite aveva enunciato la regola che nell'ipotesi di compressione di fatto del diritto di proprietà

privata da parte della P.A., di funzione amministrativa ablatoria meritevole della particolare tutela

apprestata dall'art. 42 Cost. nonchè dalla L. n. 2248 del 1865, art. 4 All. E può parlarsi soltanto nel caso

di provvedimenti espropriativi assistiti dalla dichiarazione di p.u. e non anche nel caso di mero

impiego,sia pure per fini pubblici, dell'immobile altrui materialmente appreso o dell'utilità da esso

materialmente ritratta con continuata o reiterata compressione di fatto dell'altrui diritto dominicale.

Sicchè ove la prevalenza dell'interesse pubblico sull'interesse privato non sia esternata nell'atto tipico del

procedimento amministrativo, costituito appunto dalla dichiarazione suddetta, la semplice

intromissione nell'immobile privato e la sua materiale utilizzazione non può valere a trasformare in

esercizio di potestà amministrativa nè l'iniziale apprensione del bene, nè la sua successiva detenzione,in

quanto lo status soggettivo dell'occupante non riveste alcuna rilevanza; e non ne presenta del pari

nessuna la successiva e non consentita trasformazione del fondo da parte dell'ente pubblico (ed

occupazione usurpativa) che, restando fine a sè stessa, non pone alcun problema di bilanciamento di

interessi ma produce soltanto le conseguenze proprie dell'illecito comune di carattere permanente ed è

inquadrabile, sotto ogni profilo, nello schema degli art. 2043 e 2058 cod. civ. Il quale, dunque, non solo

non consente l'acquisizione autoritativa del bene alla mano pubblica, costituente funzione propria della

vicenda espropriativa, ma attribuisce al proprietario, rimasto tale, la tutela reale e cautelare apprestata

nei confronti di qualsiasi soggetto dell'ordinamento (restituzione, riduzione in pristino stato

dell'immobile, provvedimenti di urgenza per impedirne la trasformazione ecc); oltre al consueto

risarcimento del danno, ancorato ai parametri dell'art. 2043 cod. civ. (Cass. sez. un. 3081 e 3380/1982,

più di recente: sez. un. 14886/2009; 1907/1997, nonchè sez. 1, 1080/2012; 9173 e 18239/2005;

15710/2001).

3. Siffatta disciplina - che trovava deroga nelle fattispecie della c.d. occupazione espropriativa, tuttavia

subordinata alla ricorrenza di specifici presupposti, tra cui la sussistenza di una valida dichiarazione di

p.u. (Cass. sez. un. 3940/1988; 3242 e 3243/1979 e succ), ed ora eliminata dal T.U. espropr. appr. con

D.P.R. n. 327 del 2001, - è stata profondamente modificata dall'originario art. 43 dello stesso T.U.; e,

dichiarata quest'ultima disposizione costituzionalmente illegittima per eccesso di delega dalla sentenza

293/2010 della Corte Costit., dal D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 34 conv. con mod. dalla L. 15 luglio

2011, n. 111, recante "Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria", che ha inserito nel T.U.

l'art. 42-bis ("Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico"), del seguente tenore:

"Valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse

pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della

pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio

indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non

patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale

del bene (comma 1). Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato

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annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la

pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio..." (comma 2).

E' stata in tal modo reintrodotta,secondo la più qualificata dottrina e la giurisprudenza amministrativa,

la possibilità per l'amministrazione che utilizza un bene privato senza titolo per scopi di interesse

pubblico, di evitarne la restituzione al proprietario (e/o la riduzione in pristino stato) attraverso il

ricorso ad un atto di acquisizione coattiva al proprio patrimonio indisponibile, che sostituisce il

procedimento ablativo prefigurato dal T.U., e si pone, a sua volta, come una sorta di procedimento

espropriativo semplificato. Il quale assorbe in sè sia la dichiarazione di pubblica utilità, che il decreto di

esproprio, e quindi sintetizza "uno actu" lo svolgimento dell'intero procedimento, in presenza dei

presupposti indicati dalla norma.

La nuova soluzione è apparsa al legislatore indispensabile, anzitutto per "eliminare la figura sorta nella

prassi giurisprudenziale della occupazione appropriativa ...nonchè quella dell'occupazione usurpativa.."

(Cons. St. Ad. gen. 4/2001), e quindi al fine di adeguare l'ordinamento "ai principi costituzionali ed a

quelli generali di diritto internazionale sulla tutela della proprietà". Posto che in forza di detto

provvedimento cessa la occupazione sine titulo, e nel contempo la situazione di fatto viene adeguata a

quella di diritto con l'attribuzione (questa volta) formale della proprietà alla p.a. (se prevale l'interesse

pubblico), cui è consentita una legale via di uscita dalle numerose situazioni di illegalità realizzate nel

corso degli anni. Onde permetterle il ritorno alla legalità in modo completo,perciò comprendente tanto

le (prevedibili) utilizzazioni illecite future, quanto quelle già verificatesi, anche in epoca antecedente al

T.U., per le quali permane egualmente la necessità di regolarizzarne la sorte definitiva, l'art. 42 bis ha

riproposto l'applicazione estensiva dell'istituto peculiare del precedente art. 43, di cui ha ereditato

perfino la rubrica, rivolgendola in diverse direzioni, in quanto: 1) ha superato la norma transitoria

dell'art. 57 con l'introduzione del comma 8, per il quale "Le disposizioni del presente articolo trovano

altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un

provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato"; 2) ha confermato, malgrado la

critica sul punto della Corte Costituzionale, l'estensione del potere di acquisizione alle servitù di fatto

(comma 7), in passato escluse dall'occupazione espropriativa (perchè ne difetta la non emendabile

trasformazione del suolo in una componente essenziale dell'opera pubblica: Cass. sez. un. 8065/1990;

4619 e 3963/1989; da ultimo: 19294/2006; 14049 e 17570/2008; 18039/2012): peraltro con ampia

facoltà all'amministrazione di costituirle con il peculiare contenuto indicato nel provvedimento,pur se al

di fuori delle fattispecie tipiche previste dal codice civile o da leggi speciali (Cons. Stato, 3723/ 2009); 3)

non richiede più che l'immobile realizzando rientri in una delle categorie individuate dagli artt. 822 ed

826 cod. civ. (postulate dall'occupazione appropriativa). Ed anzi è stato rescisso perfino il collegamento

con l'area delle espropriazioni per p.u., prevedendosi l'applicazione dell'istituto anche nell'ipotesi in cui

sia stato annullato l'atto da cui è sorto il vincolo preordinato all'esproprio: in base alla mera utilizzazione

dell'immobile per scopi di interesse pubblico, che ne abbia provocato una qualche modifica, pur

quando "attribuito...in uso speciale a soggetti privati (comma 5); 4) ha conclusivamente invertito il

principio tratto dall'art. 42 Cost. ed art. 834 cod. civ. che la potestà ablativa ha carattere eccezionale che

non può essere esercitata se non nei casi in cui sia la legge a prevederla (L. n. 2359 del 1865 per la

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realizzazione di opere pubbliche, L. n. 1089 del 1939 per i beni storici, artistici; D.Lgs. n. 215 del 1933

per finalità di bonifica; D.Lgs. n. 3267 del 1923 per fini di protezione idro-geologica ecc). In quanto

l'acquisizione è predisposta in via generale ed indeterminata per qualsiasi "utilizzazione" del bene -

meramente detentiva, come preordinata all'esproprio, reversibile oppure irreversibile -; in seguito alla

quale il provvedimento non è tenuto ad individuarne neppure la destinazione, essendo sufficiente

"l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la

data dalla quale essa ha avuto inizio" (comma 4).

4. Questi caratteri dell'acquisizione, immediatamente denominata "sanante", hanno indotto la

menzionata sentenza 293/2010 della Corte Costituzionale ad osservare che il nuovo istituto "prevede

un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa amministrazione che ha commesso l'illecito,

(anche) a dispetto di un giudicato che dispone il ristoro in forma specifica del diritto di proprietà

violato"; e che la norma, marcatamente innovativa rispetto al contesto normativo positivo, "neppure è

coerente con quegli orientamenti di giurisprudenza che, in via interpretativa, erano riusciti a porre un

certo rimedio ad alcune gravi patologie emerse nel corso dei procedimenti espropriativi". Per cui la sua

riproduzione nell'art. 42 bis, applicabile ad ogni genere di situazione sostanziale e processuale indicata,

con il risultato di aprire alla P.A. una vasta ed indeterminata gamma di nuove prerogative, ripropone

numerosi e gravi dubbi di costituzionalità - anche per le possibili violazioni del principio di legalità

dell'azione amministrativa - in relazione ai precetti contenuti negli art. 3, 24,42 e 97 Cost.; nonchè di

compatibilità con la ricordata normativa della Convenzione CEDU, e quindi dell'art. 117 Cost. In linea

più generale, infatti, dottrina e giurisprudenza si sono chieste se alla P.A. che abbia commesso un fatto

illecito, fonte per qualsiasi soggetto dell'obbligazione risarcitoria/restitutoria di cui agli art. 2043 e 2058

cod. civ., possa essere riservato un trattamento privilegiato (conforme alla normativa dell'art. 3 Cost.) ed

attribuita la facoltà di mutare, successivamente all'evento dannoso prodotto nella sfera giuridica altrui, e

per effetto di una propria unilaterale manifestazione di volontà, il titolo e l'ambito della responsabilità,

nonchè il tipo di sanzione (da risarcimento in indennizzo) stabiliti in via generale dal precetto del

"neminem laedere" per qualunque soggetto dell'ordinamento. Soprattutto al lume del principio

costituzionale (ritenuto da Corte Costit. 204/2004 "una conquista liberale di grande importanza") che

nel sistema vigente è privilegiata la tutela della funzione amministrativa e non della p.a. come soggetto.

La risposta, del tutto univoca a partire dalla revisione critica di cui si è detto avanti (par. 2), è stata che,

allorquando la stessa opera al di fuori di detta funzione, è soggetta a tutte le regole vincolanti per gli altri

soggetti, nonchè esposta alle medesime responsabilità, fra cui quelle di cui alle norme codicistiche

menzionate; e che vale anche per essa la regola che "factum infectum fieri nequit", costituente limite

invalicabile anche per il potere di sanatoria in via amministrativa di una situazione di illegittimità.

Sicchè, una volta attuata in tutti i suoi elementi costitutivi dela lesione ingiusta di un diritto soggettivo,

quest'ultima non può mai mutare natura e divenire "giusta" per effetto dell'autotutela amministrativa,

cui non è consentito neppure di eliminarne "ex post" le conseguenze e le obbligazioni restitutorie e

risarcitorie ad esse correlate.

Queste risposte hanno trovato piena corrispondenza nella rigorosa applicazione del principio di legalità

sostanziale predicato dalla normativa dell'Unione Europea (cfr. Corte giust. UE 10 novembre 2011, 0C

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405/10); nonchè nella giurisprudenza della Corte Edu (1,13 ottobre 2005, Serrao; 15 novembre 2005,

La Rosa; 3, 15 dicembre 2005, Scozzari; 2, 9 gennaio 2009, Sotira; Grande Chambre, 4 gennaio 2010,

Guiso) proprio in materia di ingerenza illegittima nella proprietà privata, fondata sempre e comunque

sul corollario divenuto per i giudici di Strasburgo insuperabile, che alla P.A. non è consentito (nè

direttamente nè indirettamente) trarre vantaggio da propri comportamenti illeciti,e più in generale, da

una situazione di illegalità dalla stessa determinata . Laddove l'art. 42 bis, per il solo fatto della

connotazione pubblicistica del soggetto responsabile, ha soppresso tale pregresso regime

dell'occupazione abusiva di un immobile altrui, sottraendo al proprietario l'intera gamma delle azioni di

cui disponeva in precedenza a tutela del diritto dominicale, e la stessa facoltà di scelta di avvalersene o

meno. E,considerando esclusivamente gli scopi dell'amministrazione, l'ha trasferita dalla "vittima

dell'ingerenza" (tale qualificata dalla Corte europea), all'autore del fatto illecito, attraverso la sostanziale

introduzione con il semplice atto di acquisizione emesso da quest'ultimo,di un nuovo modo di acquisto

della proprietà privata, che prescinde ormai dal collegamento con la realizzazione di opere pubbliche, e

perfino con una pregressa procedura ablativa:

essendo l'istituto rivolto a definire in linea generale (non più un procedimento espropriativo in itinere,

bensì) "quale sorte vada riservata ad una res utilizzata e modificata dalla amministrazione, restata senza

titolo nelle mani di quest'ultima" (Cons. St. Ad. Plen. 2/2005 e succ.).

Proprio per superare soluzioni analoghe, apparse non conformi al suddetto principio di legalità in

ambito espropriativo, la giurisprudenza di legittimità fin dall'inizio degli anni 80 aveva riconsiderato ed

espunto (Cass. 382/1978; 2931/1980; 5856/1981) la regola, fino ad allora seguita, che alla P.A.

occupante (senza titolo) fosse concesso di completare la procedura ablativa in ogni tempo con la tardiva

pronuncia del decreto di esproprio, perfino nel corso di un giudizio intrapreso dal proprietario per la

restituzione dell'immobile; e che il solo fatto dell'adozione postuma del provvedimento ablativo -

ammissibile fino alla decisione della Cassazione - comportasse la conversione automatica dell'azione

restitutoria e/o risarcitoria, in opposizione alla stima dell'indennità: alla quale soltanto il proprietario

finiva per avere diritto. E tale adeguamento alla normativa costituzionale non è sfuggito alla ricordata

decisione 293/10 della Consulta che lo ha contrapposto agli effetti dell'acquisizione sanante (analoghi a

quelli del decreto tardivo), dando atto che da decenni "secondo la giurisprudenza di legittimità, in

materia di occupazione di urgenza, la sopravvenienza di un provvedimento amministrativo non poteva

avere un'efficacia sanante retroattiva, determinata da scelte discrezionali dell'ente pubblico o dai suoi

poteri autoritativi".

5. Il dubbio di elusione delle garanzie poste dall'art. 42 Cost. a tutela della "proprietà privata" (commi 2

e 3) appare alle Sezioni Unite ancor più consistente in relazione al primo e fondamentale presupposto

per procedere al trasferimento coattivo di un immobile mediante espropriazione, ivi indicato nella

necessaria ricorrenza di "motivi di interesse generale"; che trova puntuale riscontro in quello di eguale

tenore dell'art. 1 del Protocollo 1 All. alla Convenzione EDU per cui l'ingerenza nella proprietà privata

può essere attuata soltanto "per causa di pubblica utilità".

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Fin dalle decisioni più lontane nel tempo la Corte Costituzionale ha affermato al riguardo (sent.

90/1966) che "Il precetto costituzionale, secondo cui una espropriazione non può essere consentita

dalla legge se non per motivi di interesse generale (o - il che è lo stesso - per pubblica utilità), e cioè se

non quando lo esigano ragioni importanti per la collettività, comporta, in primo luogo, la necessità che

la legge indichi le ragioni per le quali si può far luogo all'espropriazione; e inoltre che quest'ultima non

possa essere autorizzata se non nella effettiva presenza delle ragioni indicate dalla legge" Ed ancora che

"Nelle leggi della materia - la cui fondamentale espressione è rappresentata dalla L. 25 giugno 1865, n.

2359 - si trova infatti costantemente affermato il concetto (e anche lì dove esso non risulta

espressamente enunciato, è stata la giurisprudenza a proclamare l'inderogabilità del principio) che fin

dal primo atto della procedura espropriativa debbono risultare definiti non soltanto l'oggetto, ma anche

le finalità, i mezzi e i tempi di essa..." Negli stessi termini tutti i successivi interventi della Consulta

(sent. 95/1966; 384/1990; 486/1991; 155 e 188 /1995), nonchè la consolidata giurisprudenza di

legittimità che fin dai primi anni 60 (Sez. un. 826/1960 e succ), ha definito la dichiarazione di p.u. "la

guarentigia prima e fondamentale del cittadino e nel contempo la ragione giustificatrice del suo

sacrificio nel bilanciamento degli interessi del proprietario alla restituzione dell'immobile ed in quello

pubblico al mantenimento dell'opera pubblica per la funzione sociale della proprietà"; ha costantemente

confermato che la suddetta garanzia costituzionale viene osservata soltanto se la causa del trasferimento

è predeterminata nell'ambito di un apposito procedimento amministrativo, nel bilanciamento

dell'interesse primario con gli altri interessi in gioco. Ed è rimasta sempre ancorata al principio (Da ult.

Cass. sez. un. 30254 e 19501/2008; 10962/2005; 9139/2003) che la mancanza della preventiva

dichiarazione di pubblica utilità implica il difetto di potere dell'amministrazione nel procedere

all'espropriazione (sia essa rituale o attuata in forma anomala,come nell'ipotesi dell'occupazione

appropriativa: sent. 384/1990 cit.).

La norma costituzionale richiede, quindi, che i motivi d'interesse generale per giustificare l'esercizio del

potere espropriativo nei (soli) casi stabiliti dalla legge, siano predeterminati dall'amministrazione ed

emergano da un apposito procedimento - individuato, appunto, nel procedimento dichiarativo del

pubblico interesse culminante nell'adozione della dichiarazione di pubblica utilità - preliminare,

autonomo e strumentale rispetto al successivo procedimento espropriativo in senso stretto, nel quale

l'amministrazione programma un nuovo bene giuridico destinato a soddisfare uno specifico interesse

pubblico, attuale e concreto. E che siano palesati gradualmente e anteriormente (allo spossessamento

nonchè) al sacrificio del diritto di proprietà, in un momento in cui la comparazione tra l'interesse

pubblico e l'interesse privato possa effettivamente evidenziare la scelta migliore, nel rispetto dei principi

d'imparzialità e proporzionalità (art. 97 Cost.): in un momento, cioè in cui la lesione del diritto

dominicale non è ancora attuale ed eventuali ipotesi alternative all'espropriazione non sono ostacolate

da una situazione fattuale ormai irreversibilmente compromessa. Da qui la formula dell'art. 42, comma

3 per cui l'espropriazione in tanto è costituzionalmente legittima in quanto è originata da "motivi di

interesse generale", ovvero collegata ad un procedimento amministrativo che evidenzi i motivi che

giustificano una incisione nella sfera del privato proprietario, di questo valorizzando il ruolo

partecipativo; e la conseguenza che tale risultato non sarebbe garantito dall'esercizio di un potere

amministrativo che, sebbene presupponga astrattamente una valutazione degli interessi in conflitto, è

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destinato in concreto a giustificare ex post il sacrificio espropriativo unicamente in base alla situazione

di fatto illegittimamente determinatasi.

La preventiva emersione dei motivi d'interesse generale non costituisce, conclusivamente, semplice

regola procedimentale disponibile dal legislatore, ma specifica garanzia costituzionale strumentale alla

tutela di preminenti valori giuridici: come dimostra l'imponente giurisprudenza, soprattutto

amministrativa, secondo la quale la dichiarazione di pubblica utilità non è un semplice atto prodromico

con l'esclusivo effetto di condizionare la legittimità del provvedimento finale d'espropriazione ed

impugnabile quindi solo congiuntamente a quest'ultimo, bensì un provvedimento autonomo, idoneo a

determinare immediati effetti lesivi nella sfera giuridica di terzi. I quali si riflettono necessariamente sul

piano della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), consentendo all'espropriando di partecipare alla fase

antecedente alla sua adozione, e quindi di contestarlo sin dal primo momento del suo farsi, coincidente

con l'emersione dei motivi d'interesse generale (Cons. St. 4766/2013; 3684/2010; 3338 e 479/2009;

5034/2007; Ad. plen.2/2000; 14/1999). Per converso, l'art. 42 bis, prescindendo dalla dichiarazione di

p.u., autorizza l'espropriazione sostanziale in assenza di una predeterminazione dei motivi d'interesse

generale che dovrebbero giustificare il sacrificio del diritto di proprietà, reputando sufficiente che la

perdita del bene da parte del proprietario trovi giustificazione nella situazione di fatto venutasi a creare

per effetto del comportamento contra ius dell'amministrazione; e ne consente l'acquisizione anche

laddove tale procedura sia stata violata o totalmente omessa, in questo modo trasformando il rispetto

del procedimento tipizzato dalla legge in una mera facoltà dell'amministrazione. E, relegando la

dichiarazione di pubblica utilità al momento procedimentale eventuale, la cui assenza può essere

superata dal provvedimento di acquisizione che ne elimina in radice la necessarietà. In

contrasto,peraltro, anche con la complessiva e rigida disciplina delle espropriazioni posta dallo stesso

D.P.R. n. 327 del 2001 che nell'art. 2 ha dichiarato di ispirarsi proprio al "principio di legalità dell'azione

amministrativa": dal momento che il potere sanante viene di fatto ad esautorare il significato dei doveri,

obblighi e limiti che scandiscono il procedimento espropriativo. Ed in contrasto soprattutto con quella

specifica del capo 3^ relativo alla "fase della dichiarazione di p.u." che ha istituito, in conformità all'art.

97 Cost. un giusto procedimento che riconosce e valorizza il ruolo partecipativo del privato

proprietario (cfr. art. 11 segg.): subito dopo reso superfluo dalla contestuale introduzione di un

meccanismo "semplificato", parallelo ed alternativo, rimesso a scelte insindacabili dell'amministrazione.

Alla quale in definitiva viene attribuito il potere (di volta in volta, e per ogni espropriazione), di recepire

ovvero escludere le garanzie connesse al procedimento normale.

Non è sostenibile, infatti, che, siccome l'adozione del provvedimento di acquisizione è subordinato ad

una previa valutazione degli interessi in conflitto ed al fatto che il bene occupato sia utilizzato per scopi

d'interesse generale, queste espressioni abbiano valenza complessiva di sostanziale sinonimo dei "motivi

di interesse generale" di cui all'art. 42 Cost., comma 3: in quanto il riferimento normativo alla

valutazione degli interessi in conflitto presuppone un apprezzamento di amplissima discrezionalità

dell'amministrazione espropriante,assolutamente privo di "elementi e criteri idonei a delimitarla

chiaramente" (Corte Costit. 38/1966), tanto che non viene descritto alcun parametro, neppure

vaghissimo, al quale una siffatta valutazione debba essere ancorata; e neppure, viene prefigurato

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l'ingresso nell'iter decisionale di interessi privati che tale discrezionalità possano in qualche misura

indirizzare o soltanto attenuare. Mentre è lo stesso art. 42 bis ad escludere che i generici ed

indeterminati scopi di interesse generale - che peraltro si limitano a riprodurre la regola per cui tutta

l'attività dell'amministrazione è istituzionalmente e necessariamente finalizzata ad interessi generali -

coincidano con la causa di pubblica utilità postulata dalla Costituzione (e dalla Convenzione) per

procedere all'espropriazione, ritenendo, da un lato, sufficiente per la ricorrenza dei primi che l'immobile

sia occupato e utilizzato da una pubblica amministrazione: e quindi la stessa situazione di fatto venutasi

a creare per effetto del comportamento contra ius di quest'ultima. E dall'altro, richiedendo che la

determinazione relativa al loro accertamento, si svolga al solo fine di legittimarla ex post, peraltro

attraverso passaggi conoscitivi e valutativi tutti interni all'apparato amministrativo, e perciò

necessariamente soggettivi. A differenza dei "motivi di interesse generale", i quali (Corte Costit.

95/1966 e 155/1995) "valgono non solo ad escludere che il provvedimento ablatorio possa perseguire

un interesse meramente privato, ma richiedono anche che esso miri alla soddisfazione di effettive e

specifiche esigenze rilevanti per la comunità"; e la cui identificazione deve "rinvenirsi nella stessa legge

che prevede la potestà ablatoria; come anche in essa può trovarsi definita soltanto la fattispecie astratta

(a mezzo di clausola generale).." che ne implica poi l'individuazione in concreto nell'ambito di un

procedimento normativamente predeterminato (e partecipato). Allorchè, dunque, "il programma da

realizzare" sia ancora nella fase progettuale (comportante le opportune valutazioni relative a

collocazione, caratteristiche tecniche, convenienza, tutela ambientale ecc), precedente alla concreta

lesione del diritto dominicale (Corte Costit. 90/1966 cit.): soltanto così potendosi garantire che il

relativo sacrificio consegua il giusto equilibrio con le reali esigenze della collettività, e configurare il

comportamento dell'ente espropriante come rispettoso del principio di legalità non solo formale (cfr.

art. 97 Cost. ed 1 Prot. All. 1 alla CEDU).

6. Ma il rapporto di implicazione logica e giuridica tra la fase della dichiarazione di p.u. ed il successivo

trasferimento coattivo, assolve ad una seconda e non meno rilevante funzione, risalente alla Legge

fondamentale n. 2359 del 1865, art. 13; il quale, onde evitare che si protragga indefinitamente

l'incertezza sulla sorte dei beni espropriandi, e nel contempo, che si eseguano opere non più

rispondenti, per il decorso del tempo all'interesse generale, ha attribuito ai proprietari una ulteriore

garanzia fondamentale, oggi rispondente al principio di legalità e tipicità del procedimento ablativo,

disponendo nel comma 1 che nel provvedimento dichiarativo della pubblica utilità dell'opera devono

essere fissati quattro termini (e cioè quelli di inizio e di compimento della espropriazione e dei lavori); e

stabilendo, nel comma 3, che "trascorsi i termini, la dichiarazione di pubblica utilità diventa inefficace".

Sopravvenuta la Costituzione, questa disposizione ha assunto rilevanza costituzionale, essendo stata

collegata dalla Corte Costituzionale (sent. 355/1985; 257/1988; 141/1992) direttamente al principio

che, siccome la proprietà privata può essere espropriata esclusivamente per motivi di interesse generale

(art. 42 Cost., comma 3), tale possibilità è connaturata solo all'esigenza che l'espropriazione avvenga per

esigenze effettive e specifiche:che valgano, cioè, a far considerare indispensabile e tempestivo il

sacrificio della proprietà privata in quel momento; con la conseguenza che ciò non si verificherebbe ove

il trasferimento coattivo di un bene avvenisse in vista di una futura, ma attualmente ipotetica

utilizzazione al servizio di specifici fini di interesse generale, ma privi di attualità e di concretezza (Fra

tante: Cass. sez. un. 15606/2001; 460/1999; 355/1999; 1907/1997).

12

Da tale quadro normativo, la giurisprudenza tanto ordinaria, quanto amministrativa, ha tratto le regole,

oggi ritenute assolute e non derogabili: A) che "la fissazione di tali termini costituisce regola

indefettibile per ogni e qualsiasi procedimento espropriativo" (Così Corte Costit. 257/1988); B) che la

loro omessa fissazione comporta la giuridica inesistenza della dichiarazione di p.u. con tutte le

conseguenze sopra evidenziate: prima fra tutte che tale situazione non è idonea a far sorgere il potere

espropriativo e, dunque, ad affievolire il diritto soggettivo di proprietà sui beni espropriando;e

determina una situazione di carenza di potere che incide (negativamente) sui successivi atti e

comportamenti della procedura ablativa, più non consentendone l'adozione (Fra tante, Cass. sez. un.

3569/2011; 9323/2007; 600/2005; nonchè 4202/2009; 28214/2008; 16907/2003); C) che tale

indicazione (ove non apposta direttamente dalla legge) deve avvenire nello stesso atto avente "ex lege"

valore di dichiarazione di pubblica utilità dell'opera, e quindi nell'atto con cui è approvato il progetto di

opera pubblica;

ed il relativo onere non può essere assolto mediante atti successivi, seppure in forma di convalida e di

sanatoria, idonei ad eliminare l'intrinseca illegittimità del primo atto (Cass. 8210/2007; 120/2004; sez.

un. 7881 e 2688/2007; 9532/2004; 355/1999; Cons. St. 7578/2000); D) che scaduti inutilmente i

termini finali di cui all'art. 13, si esaurisce il potere dell'espropriante di condurre a compimento il

procedimento ablativo; che può soltanto ricominciare attraverso la rinnovazione della dichiarazione di

p.u necessariamente richiedente,come prescritto dalla norma, lo svolgimento ab inizio del

procedimento amministrativo strumentale di cui si è detto, e quindi il compimento ex novo di tutte le

formalità previste come indispensabili dalla legge per l'approvazione di quel progetto, con la

considerazione della situazione attuale (anche dei luoghi), così come evoluta nelle more (Cass. sez. un.

10024/2007; 4717/1996; 7191/1994, nonchè 17491/2008; 1836/2001).

Nella diversa prospettiva dell'acquisizione coattiva, che intende riunire sia gli effetti espropriativi, sia la

valutazione del pubblico interesse, anche la garanzia offerta dai termini dell'art. 13 è destinata a non

trovare spazio, nè tutela effettiva,in quanto la norma non indica alcun limite temporale entro il quale

l'amministrazione debba esercitare il relativo potere: perciò esponendo il diritto dominicale su di esso al

pericolo dell'emanazione del provvedimento acquisitivo senza limiti di tempo;

ed accentuando, i seri dubbi di contrasto con l'art. 3 Cost., avanti manifestati, per il regime

discriminatorio provocato tra il procedimento ordinario in cui l'esposizione è temporalmente limitata

all'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità (nella disciplina del T.U., anche a quella del vincolo

preordinato all'esproprio), e quello sanante in cui il bene privato detenuto sine titulo è sottoposto in

perpetuo al sacrificio dell'espropriazione.

13

7. La nuova operazione sanante - in tutte le fattispecie individuate dall'art. 42 bis, compresa quella di

utilizzazione del bene senza titolo "in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio" -

presenta poi, numerosi ed insuperabili profili di criticità - non risolvibili in via ermeneutica - con le

norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo (art. 117 Cost.).

La quale, del resto, come già rilevato da questa Corte (Cass. 18239/2005; 20543/2008), si è già

pronunciata in tali sensi, esaminando sia pure incidentalmente, l'allora vigente art. 43 T.U., interamente

riprodotto nell'impianto del meccanismo traslativo, dall'attuale art. 42 bis. Il suo fulcro qualificante è

ravvisato infatti nella prospettiva che la restituzione dell'immobile privato utilizzato per scopi di p.i.,

secondo le direttive della Convenzione, possa essere evitata soltanto a seguito di un legittimo e formale

provvedimento che ne dispone l'acquisizione al patrimonio pubblico; e che deve, a sua volta, trovare

giustificazione non più in una situazione fattuale e/o in una prassi giurisprudenziale, ma in una

previsione legislativa. Per cui, la coesistenza di detti presupposti è apparsa al legislatore necessaria e nel

contempo sufficiente per garantire il "rispetto dei parametri imposti dalla Corte europea e dai principi

costituzionali": anche per l'obbligo imposto all'autorità amministrativa di "valutare gli interessi in

conflitto", e perciò di "mantenere il giusto equilibrio tra le esigenze dell'interesse generale della

comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo".

7.1. Affatto diverso è il quadro normativo prospettato dalla Corte Edu nella interpretazione delle tre

norme dell'art. 1 del Prot. n. 1 - la prima afferma il principio generale di rispetto della proprietà; la

seconda consente la privazione della proprietà solo alle condizioni indicate; la terza riconosce agli Stati

il potere di disciplinare l'uso dei beni in conformità all'interesse generale-;

la quale muove dalla regola che, per determinare se vi sia stata privazione dei beni ai sensi della seconda

norma, occorre non solo verificare se vi sono stati spossessamene o espropriazione formale, ma anche

guardare al di là delle apparenze ed analizzare la realtà della concreta fattispecie, onde stabilire se essa

equivalga ad un'espropriazione di fatto o indiretta, atteso che la CEDU mira a proteggere diritti

"concreti ed effettivi" (tra le tante, Papamichalopoulos c. Grecia, 24 giugno 1993; Acciardi c. Italia, 19

maggio 2005; Cadetta c. Italia, 15 luglio 2005;De Angelis c. Italia, 21 dicembre 2006; Pasculli c. Italia, 4

dicembre 2007). Per cui ha dichiarato in radicale contrasto con la Convenzione il principio

dell'"espropriazione indiretta", con la quale il trasferimento della proprietà del bene dal privato alla p.a.

avviene in virtù della constatazione della situazione di illegalità o illiceità commessa dalla stessa

Amministrazione, con l'effetto di convalidarla; di consentire a quest'ultima di trarne vantaggio; nonchè

di passare oltre le regole fissate in materia di espropriazione, con il rischio di un risultato imprevedibile

o arbitrario per gli interessati.

E nella categoria suddetta la Corte ha sistematicamente inserito non soltanto l'ipotesi corrispondente

alla c.d. occupazione espropriativa, ma tutte indistintamente le fattispecie (sent. 19 maggio 2005,

Acciardi) di "perdita di ogni disponibilità dell'immobile combinata con l'impossibilità di porvi rimedio, e

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con conseguenze assai gravi per il proprietario che subisce una espropriazione di fatto incompatibile

con il suo diritto al rispetto dei propri beni": ritenendo ininfluente "che una tale vicenda sia giustificata

soltanto dalla giurisprudenza, ovvero sia consentita mediante disposizioni legislative, come è avvenuto

con la L. n. 458 del 1988, art. 3 ovvero da ultimo con l'art. 43 del T.U., in quanto il principio di legalità

non significa affatto esistenza di una norma di legge che consenta l'espropriazione indiretta, bensì

esistenza di norme giuridiche interne sufficientemente accessibili, precise e prevedibili". Con la

conseguenza che il supporto di "una base legale non è sufficiente a soddisfare al principio di legalità" e

che "è utile porre particolare attenzione ("se pencher") sulla questione della qualità della legge" (sent.

Acciardi cit. 75; Scordino, 12 ottobre 2005, cit. 87 ed 88). E quella ulteriore che al nuovo istituto del

T.U. i giudici di Strasburgo hanno mosso l'ulteriore addebito di non aver neppure escluso, come aveva

fatto la giurisprudenza ordinaria,che l'espropriazione indiretta potesse applicarsi quando la

dichiarazione di p.u. sia stata annullata,avendo previsto "che anche in assenza della dichiarazione di p.u.

qualsiasi terreno possa essere acquisito al patrimonio pubblico, se il giudice decide di non ordinare la

restituzione del terreno occupato e trasformato dall'amministrazione" (CEDU, Sciarrotta, 12 gennaio

2006; Genovese, 2 febbraio 2006; Serrao, 13 ottobre 2005; Scordino, 12 ottobre 2005, par. 90; S.A.S.

Cerro e/Italia, cit. par. 76-80).

7.2. In tale ottica diviene del tutto indifferente per escludere la ricorrenza di espropriazioni di fatto

incompatibili con il diritto al rispetto dei propri beni e ripristinare la legalità, l'adozione postuma di un

provvedimento con pretesi effetti sananti, perchè il requisito della legalità secondo la Corte Edu non

permette "in generale all'amministrazione di occupare un terreno e di trasformarlo irreversibilmente, di

tal maniera da considerarlo acquisito al patrimonio pubblico, senza che contestualmente un

provvedimento formale che dichiari il trasferimento di proprietà sia stato emanato" (Cfr. in particolare

decisioni 17 maggio 2005, Pasculli; 19 maggio 2005, Acciardi e Campagna; 11 ottobre 2005, La Rosa; 11

ottobre 2005, Chirò; 12 ottobre 2005, Scordino; 13 ottobre 2005, Serrao; 7 novembre 2005, Istituto

diocesano; 12 gennaio 2006, Sciarrotta; 23 febbraio 2006, S.A.S.; 20 aprile 2006, De Sciscio; 9 gennaio

2009, Sotira). Il contrasto con la Convenzione dipende, allora, dal riconoscimento nel nostro

ordinamento - "en vertu d'un principe jurisprudentiel ou d'un texte de loi comme l'article 43" - di effetti

traslativi all'occupazione e successiva modifica meramente fattuale di un terreno "sans quen parallele"

sussista un atto formale che dichiari il trasferimento della proprietà "intervenant au plus tard au

moment" in cui il proprietario ha perduto ogni potere sull'immobile:così come,del resto, oltre un secolo

prima aveva richiesto la L. n. 2359 del 1865, art. 50. Perciò inducendola a concludere che ogni forma di

espropriazione indiretta in ogni caso "n'a pas pour effet de regulariser la situation denoncee", nè tanto

meno quello di costituire "un'alternativa ad un'espropriazione in buona e dovuta forma" (CEDU, 4, 15

novembre 2005, La Rosa; 3, 12 gennaio 2006, Sciarrotta, 1, 23 febbraio 2006, Immobiliare Cerro).

La "legalizzazione dell'illegale" non è conclusivamente consentita dalla giurisprudenza di Strasburgo

neppure ad una norma di legge, nè tanto meno ad un provvedimento amministrativo di essa attuativo,

quale è quello che disponga l'acquisizione sanante (Ucci, 22 giugno 2006; Cerro sas, 23 maggio 2006;

De Sciscio, 20 aprile 2006; Dominici, 15 febbraio 2006; Serrao, 13 gennaio 2006; Sciarrotta, 12 gennaio

2006; Carletta, 15 luglio 2005; Scordino, 17 maggio 2005); ed in termini non dissimili si è espressa anche

15

Corte Costit. 293/2010, per la quale "non è affatto sicuro che la mera trasposizione in legge di un

istituto, in astratto suscettibile di perpetuare le stesse negative conseguenze dell'espropriazione indiretta,

sia sufficiente di per sè a risolvere il grave vulnus al principio di legalità". Sicchè il ritorno alla via

legale,come specificamente suggerito dalla stessa Corte Edu (sent. 6 marzo 2007, Scordino 3, cfr. anche,

I, 13 luglio 2006, Zaffuto; 30 marzo 2006, Gianni) allo Stato italiano onde evitare ulteriori condanne,

deve essere perseguito non regolarizzando ex post occupazioni già illegittime, bensì, anzitutto, in via

preventiva, consentendo alla p.a. di immettersi nella proprietà privata soltanto se - e dopocchè - abbia

già conseguito un legittimo titolo che autorizzi l'ingerenza; ed in caso in cui ciò non sia avvenuto

"eliminando gli ostacoli giuridici che impediscono sistematicamente e per principio la restituzione del

terreno": peraltro "in analogia con altri ordinamenti europei" (Corte Cost. 293/2010 cit.).

7.3. Il principio di legalità non è, infine, recuperabile in forza dei bilanciamenti e delle comparazioni tra

interessi pubblici e privati devoluti dalla norma all'autorità amministrativa che dispone l'acquisizione:

avendo la Corte EDU affermato fin dalla nota decisione Belvedere - Alberghiera del 30 maggio 2000,

nella quale l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sent. 1/1996) aveva dato precedenza all'interesse

pubblico specifico della collettività alla realizzazione di un'opera idrica per la stessa indispensabile

(seppur mancante di dichiarazione di p.u. perchè annullata dallo stesso giudice amministrativo), che la

necessità di esaminare tale questione è inattuabile in caso di ingerenza illegittima nella proprietà (in cui

la Convenzione privilegia quello privato, postulandone comunque la reintegrazione),ma "può porsi

soltanto a condizione che l'ingerenza litigiosa abbia osservato il principio di legalità e non sia risultata

arbitraria". Sicchè ha egualmente condannato lo Stato italiano non certamente per l'assenza (allora)

nell'ordinamento italiano di una norma con valore sanante della illegittimità della procedura ablativa, ma

perchè "la decisione del Consiglio di Stato aveva privato la ricorrente della possibilità di ottenere la

restituzione del suo terreno....che per essere compatibile con l'art. 1 del Protocollo deve essere attuata

per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi di diritto internazionale"

(54 e 55; nonchè Ucci c. Italia, 22 giugno 2006). E d'altra parte,poichè la norma attribuisce ad uno dei

due portatori dell'interesse in conflitto - la P.A. responsabile dell'illecito ed interessata alla acquisizione

dell'immobile - il potere di comparare gli interessi suddetti (CEDU, 3, 9 febbraio 2006, Prenna), e,

quindi la scelta di restituirlo ovvero di acquisirlo al proprio patrimonio indisponibile, il suo assetto reale

non dipende più (neppure) dalla sua (oggettiva) trasformazione in un bene demaniale o patrimoniale

indisponibile, ma viene affidato esclusivamente alla volontà dell'amministrazione - per quanto detto,

senza neppure limiti temporali - di ricorrere al nuovo istituto; nonchè, in caso di impugnazione del

provvedimento di acquisizione, alla pronuncia del giudice amministrativo di consentirne o escluderne la

restituzione: con conseguente incertezza ed imprevedibilità della sua situazione giuridica fino al

momento della sentenza definitiva. Il che ha indotto i giudici di Starsburgo a rilevare, con la più

qualificata dottrina, che con tale regime scompare anche quel minimo di prevedibilità che un sistema

normativo è tenuto ad assicurare: attesa l'inidoneità della base legale su cui si fonda la consentita

compromissione della proprietà ad assicurare il sufficiente grado di certezza postulato dalla

Convenzione attraverso "l'esistenza di norme giuridiche interne sufficientemente accessibili, precise e

dagli effetti prevedibili"; e rende l'istituto nuovamente incompatibile con la Convenzione "non

potendosi escludere il rischio di un risultato imprevedibile o arbitrario" (CEDU, 2, 28 giugno 2011, De

Caterina; 20 aprile 2006, De Sciscio; 3, 2 febbraio 2006, Genovese). Ne costituiscono del resto

significativa conferma le variegate interpretazioni della norma offerte dalla recente giurisprudenza

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amministrativa, che talvolta ha posto a carico del proprietario l'onere di esperire il procedimento di

messa in mora, per poi impugnare l'eventuale silenzio-rifiuto dell'amministrazione a provvedere; talaltra

gli ha concesso di intraprendere direttamente un'azione (soltanto) recuperatoria: a fronte della quale si è

tuttavia ulteriormente suddivisa, in quanto alcune pronunce hanno attribuito al giudice amministrativo il

normale potere di emettere le tradizionali statuizioni di annullamento e di condanna; altre (tra le quali la

decisione del TSAP 107/10), invocando l'art. 34 cod. proc. amm. anche il potere di assegnare

all'amministrazione un termine per scegliere tra l'adozione del provvedimento di cui all'art. 42 bis, e la

restituzione dell'immobile. Mentre altre ancora hanno devoluto direttamente al giudice suddetto il

compito di emettere il provvedimento, comportante (anche) la valutazione definitiva sulla presenza (o

meno), dell'interesse pubblico specifico all'acquisizione del bene.

8. La Corte europea, pur non escludendo che in materia civile una nuova normativa possa avere

efficacia retroattiva, ha ripetuta mente considerato lecita l'applicazione dello ius superveniens in causa

soltanto in presenza di "imperieux motifs d'interet general"; ed affermato che in ogni altro caso essa si

concreta nella violazione del principio di legalità nonchè del diritto ad un processo equo perchè

consente al potere legislativo di introdurre nuove disposizioni specificamente dirette ad influire

sull'esito di un giudizio già in corso (in cui è parte un'amministrazione pubblica), ed induce il giudice a

decisioni su base diversa da quella alla quale la controparte poteva legittimamente aspirare al momento

di introduzione della lite (cfr. sentenza della Grande Chambre, 28 ottobre 1999, Zielinski; nonchè

Forrer-Niedenthal, 20 febbraio 2003, proprio in materia di espropriazione per p.u.; OGIS, 27 maggio

2004; nonchè Scordino c/Italia, 29 luglio 2004, 78).

Questa situazione - già posta in evidenza dalla Corte vigente l'incostituzionale art. 43 T.U. (Cass.

21867/2011; 20543/2008; sez. un. 26732/2007) - si è riproposta proprio per effetto dell'art. 42 bis, il

quale, malgrado la precisazione del 1 comma che l'atto di acquisizione è destinato a non operare

retroattivamente (rivolta a rispondere ad uno dei rilievi espressi da Corte Costit. 293/2010), con la

menzionata disposizione dell'8 comma, ha confermato la possibilità dell'amministrazione di utilizzare il

provvedimento sanante ex tunc, ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un

provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato: in conformità del resto alla finalità

di attribuire alle amministrazioni occupanti una legale via di uscita dalle situazioni di illegalità venutesi a

verificare nel corso degli anni (anche pregressi).

Pertanto L.V.G. ed i consorti,che per effetto della sentenza 293/2010 della Corte Costit. avrebbero

avuto diritto, tanto al momento del ricorso introduttivo del giudizio, quanto a quello del passaggio in

giudicato della sentenza 20/2006 del TSAP che lo aveva interamente accolto, alla restituzione dei loro

immobili, nonchè al risarcimento del danno alla stregua dei parametri contenuti nell'art. 2043 cod. civ.,

in conseguenza del sopravvenuto art. 42 bis, nonchè del provvedimento acquisitivo autorizzato da detta

norma, nel corso del giudizio, hanno perduto in radice la tutela reale e possono avvalersi soltanto di

quella indennitaria/risarcitoria dalla stessa introdottala quale perciò non si sottrae neppure all'addebito

in casi analoghi mosso dalla Corte europea al legislatore nazionale "di averla slealmente introdotto in

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giudizi iniziati ed impostati secondo diversi presupposti normativi, sì da incorrere anche nella violazione

dell'art. 6, par. 1, della Convenzione"per il mutamento "delle regole in corsa": risultando sotto tale

profilo in contrasto anche con l'art. 111 Cost., commi 1 e 2, nella parte in cui, disponendo l'applicabilità

ai giudizi in corso delle regole sull'acquisizione coattiva sanante in seguito ad occupazione illegittima,

viola i principi del giusto processo, in particolare le condizioni di parità delle parti davanti al giudice, che

risultano lese dall'intromissione del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia allo scopo di

influire sulla risoluzione di una circoscritta e determinata categoria di controversie; ed appare,quindi,

anche sotto questo profilo, nuovamente in contrasto con i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali

(art. 117 Cost.).

9. Infine, neanche l'indennizzo/risarcimento stabilito quale corrispettivo dell'acquisizione risulta esente

da dubbi di legittimità costituzionale, in quanto l'art. 42 bis, comma 3 ne fissa i seguenti parametri: Salvi

i casi in cui la legge disponga altrimenti, l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 è

determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e,

se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'art. 37, commi 3, 4, 5, 6

e 7".

Sennonchè la Corte costituzionale (sent. 369/1996), nel dichiarare l'incostituzionalità della L. n. 549 del

1995, art. 1, comma 65, che aveva equiparato l'entità del risarcimento del danno da occupazione

acquisitiva a quella dell'indennizzo espropriativo, aveva affermato ".. è innegabile, in primo luogo, la

violazione che ne deriva del precetto di eguaglianza, stante la radicale diversità strutturale e funzionale

delle obbligazioni così comparate. Infatti, mentre la misura dell'indennizzo - obbligazione ex lege per

atto legittimo - costituisce il punto di equilibrio tra interesse pubblico alla realizzazione dell'opera e

interesse del privato alla conservazione del bene, la misura del risarcimento - obbligazione ex delicto -

deve realizzare il diverso equilibrio tra l'interesse pubblico al mantenimento dell'opera già realizzata e la

reazione dell'ordinamento a tutela della legalità violata per effetto della manipolazione-distruzione

illecita del bene privato. E quindi sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca (ex art. 3 Cost.), poichè

nella occupazione appropriativa l'interesse pubblico è già essenzialmente soddisfatto dalla non

restituibilità del bene e dalla conservazione dell'opera pubblica, la parificazione del quantum risarcitorio

alla misura dell'indennità si prospetta come un di più che sbilancia eccessivamente il contemperamento

tra i contrapposti interessi, pubblico e privato, in eccessivo favore del primo" (Considerazioni analoghe

si rinvengono nelle decisioni 442/1993; 188/1995; 148/1999; 349/2007).

Nel caso, i ricordati principi sono stati disattesi sotto diversi profili, in quanto disponendo che detto

indennizzo debba essere sempre e comunque commisurato "al valore venale del bene utilizzato", il

legislatore:

a) attribuisce ai proprietari interessati da un provvedimento di acquisizione sanante un trattamento

deteriore rispetto a quelli, che in mancanza di detto provvedimento - come sarebbe accaduto agli stessi

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ricorrenti se il Commissario ad acta avesse scelto la prima delle alternative imposte dalla sentenza

107/2010 del TSAP - sono ammessi a chiedere la restituzione dell'immobile insieme al risarcimento del

danno, pur quando destinatari di una medesima occupazione abusiva in radice (c.d. usurpativa): in

quanto soltanto a questi ultimi è consentito ottenere l'intero risarcimento del danno sofferto, in base ai

parametri dell'art. 2043 cod. civ. del danno emergente e del lucro cessante (utili, occasioni e vantaggi

che il proprietario provi di aver perduto dalla mancata disponibilità del bene: Cass. 14609/2012;

4052/2009; 2746/2008; 15710/2001; 1196/1986; 3590/1983); b) tale trattamento resta inferiore pur nel

confronto con l'espropriazione legittima dello stesso immobile, in quanto, ove avente destinazione

edificatoria, non è riconosciuto l'aumento del 10% di cui al T.U., art. 37, comma 2 (non richiamato dalla

norma), se l'accordo di cessione è stato concluso, se non è stato concluso per fatto non imputabile

all'espropriato o se l'indennità provvisoria attualizzata è inferiore all'80% di quella definitiva: e quindi a

maggior ragione se nessuna indennità gli viene offerta, come è peculiare del procedimento di cui all'art.

42 bis. Mentre se il terreno è agricolo non è applicabile il precedente art. 40, comma 1 che impone di

tener conto (Cfr. Corte Costit. 181/2011) delle colture effettivamente praticate sul fondo e "del valore

dei manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione all'esercizio dell'azienda agricola"

(Cass. 23967/2010; 10217/2009; 11782/2007; 4848/1998): nel caso specificamente richiesto dai

ricorrenti titolari di un'azienda agricola, che in conseguenza di un'espropriazione rituale avrebbero

avuto diritto all'inclusione nell'indennità anche del relativo pregiudizio; e) incorre in una disparità più

palese con il regime di quest'ultima laddove non considera affatto l'ipotesi di espropriazione parziale; e

non consente di tener conto della diminuzione di valore del fondo residuo, invece indennizzata fin dalla

L. n. 2359 del 1865, art. 40 (anche nelle ipotesi di occupazione appropriativa: Cass. 8197/2012;

591/2008; 24435/2006), ora trasfuso nell'art. 33 del T.U.; e nel caso espressamente invocata dai

proprietari; d) ha trasformato,come evidenzia la sentenza impugnata (pag. 8), il precedente regime

risarcitorio in un indennizzo derivante da atto lecito, che di conseguenza assume natura di debito di

valuta non automaticamente soggetto alla rivalutazione monetaria (art. 1224 c.c., comma 2). A

differenza del risarcimento da espropriazione e/o occupazione illegittime, costituente credito di valore,

che deve essere liquidato alla stregua dei valori monetari corrispondenti al momento della relativa

pronuncia, sicchè il giudice deve tenere conto della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla

decisione, anche di ufficio, a prescindere dalla prova della sussistenza di uno specifico pregiudizio

dell'interessato dipendente dal mancato tempestivo conseguimento dell'indennizzo medesimo (Tra

tante, Cass. 1889/2013; 4010/2006; 9711/2004).

10. Tale natura risarcitoria sembra invece mantenuta dall'art. 42 bis, comma 3 al corrispettivo per il

periodo di occupazione illegittima antecedente al provvedimento di acquisizione ("Per il periodo di

occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la

prova di una diversa entità del danno, l'interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai

sensi del presente comma): tuttavia pur esso determinato in base ad un parametro riduttivo rispetto a

quelli cui è commisurato l'analogo indennizzo per l'occupazione temporanea dell'immobile. In quanto:

a) il parametro base è costituito dall'interesse del cinque per cento annuo sul valore venale dell'immobile

stimato ai fini dell'indennizzo, perciò corrispondente a circa 1/20 del suo valore annuo. Laddove l'art.

50 del T.U., recependo analoga disposizione contenuta nella L. n. 865 del 1971, art. 20 stabilisce in tutti

i casi di occupazione legittima di un immobile che "è dovuta al proprietario una indennità per ogni

anno pari ad un dodicesimo di quanto sarebbe dovuto nel caso di esproprio dell'area e, per ogni mese o

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frazione di mese, una indennità pari ad un dodicesimo di quella annua": perciò corrispondente ad una

redditività predeterminata più elevata misura percentuale dell'8,33% all'anno sul valore venale

dell'immobile; b) il richiamo all'indennità di espropriazione consente altresì l'applicazione del principio

consolidato nella giurisprudenza di legittimità (Cass. 21352/2004; sez. un. 10502/2012; 24303/2010),

che nell'ipotesi di espropriazione parziale la percentuale suddetta vada calcolata sull'indennità di

espropriazione computata tenendo conto anche del decremento di valore subito dalla parte

dell'immobile rimasta in proprietà dell'espropriato:invece non autorizzato dal parametro rigido

contenuto nell'art. 42 bis, comma 3.

Per cui anche il ristoro patrimoniale attribuito dalla norma non consente di escludere il rilievo più volte

rivolto dalla Corte EDU al legislatore nazionale, che pure il meccanismo riduttivo di determinazione

dell'indennizzo/risarcimento da occupazione senza titolo consente all'espropriante, che omette di

svolgere il procedimento previsto dalla legge, di avvantaggiarsi ulteriormente del suo comportamento

illegittimo, esonerandolo dal corrispondere una porzione del ristoro dovuto nel caso di

occupazione/espropriazione legittime: perciò non favorendo la buona amministrazione e non

contribuendo a prevenire episodi di illegalità.

Conclusivamente, vanno dichiarate rilevanti, e non manifestamente infondate le questioni di legittimità

costituzionale riguardanti il D.P.R. n. 327 del 2001, art. 42 bis:

- per contrasto con il precetto di eguaglianza nonchè di ragionevolezza intrinseca di cui all'art. 3 Cost.

sotto ciascuno dei diversi profili di cui in motivazione, involgenti anche l'art. 24 Cost.

- per contrasto con i precetti e le garanzie posti dall'art. 42 Cost. a tutela della proprietà privata, nonchè

con il principio di legalità dell'azione amministrativa contenuto negli art. 97 e 113 Cost.: sotto i diversi

profili di cui in motivazione;

- per contrasto con l'art. 117 Cost., comma 1, anche alla luce dell'art. 6 e dell'art. 1 del 1^ prot. add.

della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, sotto i diversi profili di cui

in motivazione, con cui se ne è evidenziata la disciplina lesiva del diritto di proprietà, nonchè del diritto

al rispetto dei propri beni, in violazione dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.

- per contrasto con l'art. 111 Cost., commi 1 e 2, nonchè art. 117 Cost., anche alla luce dell'art. 6 della

Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, nella parte in cui, disponendo

l'applicabilità ai giudizi in corso della disciplina in questione anche relativa alla determinazione

dell'indennizzo/risarcimento del danno per occupazione illegittima in essa contenute, viola i principi del

20

giusto processo, in particolare le condizioni di parità delle parti davanti al giudice, che risultano lese

dall'intromissione del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla

risoluzione di una circoscritta e determinata categoria di controversie.

P.Q.M.

La Corte, visti l'art. 134 Cost. e della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23 dichiara rilevante e non

manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 34

conv. con mod. dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, che ha introdotto l'art. 42 bis nel T.U. espropr. p.u. appr.

con D.P.R. n. 327 del 2001, per contrasto, nei sensi di cui in motivazione, con gli artt. 3, 24, 42, 97,

Cost.; nonchè art. 111 Cost. e art. 117 cost., comma 1 anche alla luce dell'art. 6 e dell'art. 1 del 1 prot.

add. della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva con L. 4

agosto 1955, n. 848. Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il

giudizio. Dispone altresì che la presente ordinanza sia notificata, a cura della cancelleria, al Presidente

del Consiglio dei Ministri ed alle parti, ed inoltre comunicata al Presidente della Camera dei Deputati,

nonchè al Presidente del Senato della Repubblica.

Usucapibilità dell’area

Cons. di Stato, sez. IV, 3 luglio 2014, n. 3346

DIRITTO

1. Stante la completezza del contraddittorio e la mancata opposizione delle parti - rese edotte della possibilità di

immediata definizione del processo - la causa può essere integralmente decisa nel merito tenuto conto della

palese infondatezza dell'appello.

1.1.Quanto alla prima censura, concernente il vizio ex art. 112 cpc asseritamente attingente la impugnata

decisione, ritiene la Sezione di condividere la tradizionale impostazione secondo cui “l'omessa pronuncia, da

parte del giudice di primo grado, su censure e motivi di impugnazione costituisce tipico errore di diritto per

violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, deducibile in sede di appello sotto il

profilo della violazione del disposto di cui all'art. 112, c.p.c., che è applicabile al processo

amministrativo.”(Consiglio Stato, sez. IV, 16 gennaio 2006, n. 98).

Parimenti appare condivisibile il risalente principio, che costituisce jus receptum, secondo il quale il vizio di

omessa pronuncia su un vizio del provvedimento impugnato deve essere accertato con riferimento alla

motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché esso può ritenersi

sussistente soltanto nell'ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al

contrario, la decisione sul motivo d'impugnazione risulti implicitamente da un'affermazione decisoria di segno

contrario ed incompatibile(ex aliis Consiglio Stato , sez. VI, 06 maggio 2008, n. 2009).

I primi giudici, all’evidenza, hanno ritenuto che le affermazioni in punto di reiezione dell’eccezione di

prescrizione estintiva della domanda risarcitoria articolata dal Comune (che non ha gravato il relativo capo di

decisione) valessero a “disinnescare” anche la connessa eccezione di usucapione.

21

Appare evidente pertanto che, sia pure non fornendo analitica e partita risposta sulla questione specifica dedotta

nel ricorso di primo grado, essi si sono implicitamente pronunciati sulla medesima, respingendola sotto profili

assorbenti rispetto alla portata delle censura/eccezione medesima.

Ritiene la Sezione di potere condividere detto modus procedendi e che nel caso di specie non sia ravvisabile

alcuna lesione del principio di cui all'art. 112 cpc: in ogni caso, si deve rilevare che “l'omessa pronuncia su una o

più censure proposte col ricorso giurisdizionale non configura un error in procedendo tale da comportare

l'annullamento della decisione, con contestuale rinvio della controversia al giudice di primo grado, ma solo un

vizio dell'impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad eliminare integrando la motivazione

carente o, comunque, decidendo del merito della causa ( ex aliis Consiglio Stato , sez. IV, 19 giugno 2007, n.

3289, orientamento oggi confermato ex art. 105 del cpa).

2.1. Non sussiste pertanto alcun vizio di nullità della decisione gravata ed il Collegio esaminerà nel merito

l’eccezione/doglianza di intervenuta usucapione (l’appellante, infatti, non muove dirette censure avverso la

statuizione che ha escluso la fondatezza dell’eccezione di prescrizione ed in ogni caso, si rileva per incidens, la

decisione del Tar appare certamente esatta avuto riguardo alla pluralità di atti interruttivi resi ma anche alla

pacifica qualificazione di illecito permanente della condotta dell’amministrazione).

2.2. Ciò premesso, la detta doglianza volta a sostenere la maturata usucapione è certamente infondata: e lo

sarebbe anche laddove non si dovesse ritenere che gli atti interruttivi della prescrizione dell’azione risarcitoria resi

dalle parti appellate ed indicati dal Tar e non contestati dal Comune non “valessero” anche ad escludere la

invocata usucapione.

2.2.1. In disparte la circostanza che parte appellante non prova né chiarisce in qual momento sarebbe intervenuta

in suo favore la interversione del possesso ed in qual modo possa configurarsi la fattispecie del “pacifico ed

incontestato possesso” alla luce delle plurime azioni giudiziarie intentate da parte appellata, ed alla improduttività

di effetti della transazione, va innanzitutto premesso che, ad avviso del Collegio, il proprietario di un area

illegittimamente occupata che agisca in giudizio (o che proponga domanda stragiudiziale nei confronti dell’Ente

occupante) vanti un’unica pretesa (quella, fondata sullo ius omnes alios excludendi insito nel diritto di proprietà

ex art. 832 cc).

Tale pretesa, unica e complessa, a propria volta si può articolare nel petitum reipersecutorio e risarcitorio, ovvero

soltanto in quello risarcitorio, laddove il bene sia stato irreversibilmente trasformato e l’Amministrazione intenda

utilizzarlo per fini pubblicistici (a far data dal 2001, ex art. 43 del TU Espropriazione e, dopo la declaratoria di

incostituzionalità di quest’ultimo, ex art. 42 bis del medesimo dPR n. 327/2001): non v’è dubbio, però, che la

richiesta risarcitoria, in quanto fondata sul presupposto della illegittima protrazione della detenzione del bene da

parte dell’amministrazione, e senza che l’ordinamento, in passato, apprestasse strumenti per venire (rectius:

tornare) coattivamente in possesso dell’area illegittimamente occupata, valesse ad escludere il presupposto

applicativo dell’istituto della usucapione ventennale ex art. 1158 cc.. Sin da tempo risalente, infatti la Cassazione

Civile ha chiarito che (Cass. Civ. Sez. II, sent. n. 3464 del 18-05-1988) “per l'acquisto della proprietà per

usucapione, che trova il suo fondamento in una situazione di fatto caratterizzata, da un lato, dal mancato

esercizio delle potestà dominicali da parte del proprietario e, dall'altro, dalla prolungata signoria di fatto sullo

stesso bene da parte di altri che si sostituisca al proprietario nell'utilizzazione del bene medesimo, l'inerzia del

proprietario si manifesta nel mancato esercizio di dette potestà e nella mancata sua reazione contro il potere di

fatto esercitato sull'immobile dal possessore, laddove l'esercizio dei poteri dominicali vale a rendere di per sé

equivoco e non pacifico il possesso altrui ed impedisce che questo aderisca al contenuto del diritto di proprietà e

la conseguente usucapibilità di tale diritto”.

Orbene: ravvisare la sussistenza del presupposto della “assenza di reazione del privato proprietario” a fronte

delle plurime iniziative intraprese da questi a far data dal settembre dell’anno 1986 (data di cessazione

dell’occupazione legittima) sfociate nell’atto di transazione del settembre 1990 e successivamente nel settembre

1995 con la decisione della Commissione liquidatrice che ha approvato la relazione circa l’ammissibilità dei debiti

fuori bilancio riconosciuti dal Comune con la delibera 132/1990 ed ancora successivamente con il ricorso per

decreto ingiuntivo del 20 aprile 1999 proposto dai comproprietari (periodo interruttivo conclusosi col passaggio

22

in giudicato della sentenza 1932/2006 del Tribunale civile di Lecce) e successivamente con la proposizione del

ricorso all’inizio del 2011, sarebbe senz’altro impossibile.

La tesi del Comune va pertanto senz’altro disattesa, e ciò militerebbe in senso troncante per la reiezione della

censura.

2.2.2. Per completezza si evidenzia che, se anche non si dovesse condividere la tesi finora esposta, e –

frazionando artificiosamente il petitum proposto dai proprietari distinguendo quello risarcitorio da quello

finalizzato alla restituzione del bene- si volesse affermare che gli atti finora menzionati non abbiano interrotto il

termine necessario per usucapire il compendio patrimoniale per cui è causa, altre (e forse più radicali) ragioni si

opporrebbero all’accoglimento del mezzo.

2.3. Come si evince dalla parte in fatto della esposizione, l’azione risarcitoria promossa nei confronti

dell’amministrazione tende ad ottenere il risarcimento per tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti in

conseguenza dell’occupazione preordinata all’espropriazione effettuata nel 1979 e mai conclusasi con

l’emanazione del decreto di esproprio, pur a fronte della completa realizzazione dell’opera pubblica. Trattasi,

pertanto, di domanda di risarcimento da occupazione divenuta sine titulo, avendo definitivamente espunto la

giurisprudenza gli stessi istituti dell’occupazione acquisitiva ed usurpativa (ex multis Consiglio di Stato sez. IV, 15

febbraio 2013, n.914) pacificamente rientrante nella giurisdizione esclusiva del g.a. di cui alla lett. g) comma 1,

dell'art. 133 del Codice del processo amministrativo approvato con D.lgs. 2 luglio 2010 n.104. Infatti, è oramai

principio consolidato sia nella giurisprudenza amministrativa che della Cassazione, come siano devolute alla

giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione - naturalmente anche ai fini

complementari della tutela risarcitoria - di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una

dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all'interno del quale sono state

espletate non sia sfociato in un tempestivo atto traslativo ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi

dichiarati illegittimi (ex multis Consiglio Stato Adunanza Plenaria, 30 luglio 2007, n. 9; id. 22 ottobre 2007, n.12;

T.A.R. Lombardia Milano 30 marzo 2011, n.854; T.A.R. Sicilia Catania sez. III, 10 febbraio 2011, n.290;

Consiglio di Stato sez IV, 28 gennaio 2011, n.676; id. sez V, 2 novembre 2011, n.5844, Cassazione Sezioni Unite,

9 luglio 2009, n.16093) costituendo ormai ius receptum l’appartenenza alla giurisdizione del g.a. delle domande di

risarcimento di tutti i danni patiti in conseguenza dell’illegittima apprensione di terreni privati (T.A.R. Lombardia

- Milano sez II, 30 marzo 2011, n.854; Consiglio di Stato sez V, 2 novembre 2011, n.5844; id. 15 febbraio 2013,

n.914) ad eccezione delle sole occupazioni riconducibili a “mere vie di fatto”, anche quindi in ipotesi di

occupazione originariamente legittima ma divenuta illecita per effetto della perdita di efficacia della dichiarazione

di pubblica utilità, circostanza che concreta un illecito di carattere permanente (ex plurimis Consiglio di Stato sez

VI, 9 giugno 2010, n.3655, id. sez IV, 21 aprile 2009, n.2420).

2.3.1. L’eccepita questione dell’intervenuta usucapione in favore dell’Amministrazione sull’area per cui è causa,

sarebbe idonea a determinare, se fondata, la definizione del giudizio con sentenza in rito di accoglimento

dell’appello ed inammissibilità del ricorso di primo grado per difetto di interesse.

2.3.2. Nessuna delle parti del giudizio di primo grado ha sollevato alcuna problematica in punto di giurisdizione.

E’ però altresì rilevante sottolineare che il Tar non ha esplorato funditus, neanche implicitamente, la questione

della sussistenza della propria giurisdizione sulla detta eccezione.

Deve pertanto procedersi alla delibazione preliminare ex officio di tale tematica, all’evidenza pregiudiziale

rispetto al merito della questione, non potendo riscontarsi nella fattispecie alcuna affermazione “implicita” della

giurisdizione da parte del Tar, rimasta incontestata in appello, che precluderebbe a questo Collegio il rilievo ex

officio (art. 9 cpa).

2.3.3. L'art. 133 comma 1, lett. g) c.p.a. devolve, come prima posto in luce, alla giurisdizione esclusiva del giudice

amministrativo le controversie aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi ed i comportamenti,

riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere della p.a. in materia di espropriazione per

pubblica utilità.

Il giudice amministrativo, inoltre, ex art. 8 c.p.a. può conoscere, seppur solo in via incidentale e senza efficacia di

giudicato "tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti la cui risoluzione sia necessaria per

23

pronunciare sulla questione principale"; pertanto, ai sensi del citato art. 8, il giudice amministrativo ha il potere di

pronunciarsi, incidenter tantum, soltanto su questioni pregiudiziali, ancorché veicolate in via di eccezione,

attinenti a diritti (con esclusione, in ogni caso, dell'incidente di falso e delle questioni sullo stato e capacità delle

persone), ai circoscritti fini della soluzione della vertenza ad esso demandata in via principale.

Ciò premesso, deve essere indagata la possibilità per il giudice amministrativo di esaminare la domanda

riconvenzionale e/o l’eccezione (di tipo riconvenzionale) nell’ambito del presente giudizio, come detto avente ad

oggetto principaliter unicamente la domanda di risarcimento dei danni per equivalente in conseguenza

dell’irreversibile trasformazione del fondo in seguito all’occupazione preordinata all’espropriazione effettuata

dall’Amministrazione, divenuta illecita a decorrere dalla scadenza della dichiarazione di pubblica utilità,

pacificamente rientrante - come anticipato - nella giurisdizione esclusiva del g.a. in quanto comportamento pur

sempre riconducibile all’esercizio di un potere autoritativo ovvero alla dichiarazione di pubblica utilità, pur se

divenuta inefficace.

Secondo l’opinione manifestata da condivisibile giurisprudenza (G.G.A.S. 14 gennaio 2013, n.9; sentenza n.

41/2014 del TAR Umbria) ove la questione dell’intervenuta usucapione fosse oggetto di vera e propria domanda

riconvenzionale tesa ad accertare con efficacia di giudicato l’intervenuto acquisto a titolo originario della

proprietà da parte dell’Amministrazione, incompatibile con l’azione di risarcimento da occupazione sine titulo,

difetterebbe la giurisdizione del g.a. in favore del. g.o.

Ove invece l’usucapione venga fatta valere in via di “eccezione riconvenzionale”, cioè al solo fine di paralizzare

l’azione risarcitoria senza richiesta di accertamento della sussistenza di tale rapporto e connesso ampliamento del

thema decidendum, la giurisdizione spetterebbe al g.a. in forza del generale principio di cui all’art. 8 cod. proc.

amm.

La giurisprudenza civile ha da tempo elaborato accanto alla domanda riconvenzionale e all’eccezione, la nozione

della c.d. eccezione riconvenzionale, laddove il convenuto pur chiedendo l’accertamento eventualmente anche

costitutivo di un rapporto diverso e più ampio, si prefigge esclusivamente di paralizzare l’azione, con ciò

differenziandosi dalla domanda riconvenzionale vera e propria, laddove l’accertamento del rapporto diverso mira

ad ottenere qualcosa di più o di diverso (ex multis Cassazione 13 novembre 1997, n.11232; id. 17 marzo 1990,

n.2235; id. 20 gennaio 1997, n.538) e applicando senza esitazioni alle eccezioni riconvenzionali la disciplina

processuale propria delle eccezioni (Cassazione civ. sez. III 13 giugno 2013, n. 14852).

Il Comune resistente ha indubbiamente introdotto in giudizio il fatto della intervenuta usucapione nella forma

della c.d. eccezione di tipo riconvenzionale, al solo fine di paralizzare la domanda risarcitoria ex adverso

proposta, nel dichiarato presupposto della estraneità della domanda riconvenzionale alla giurisdizione pur

esclusiva del g.a., senza chiedere alcun accertamento pieno dell’acquisto a titolo originario dell’area in questione

ai sensi dell’art. 1158 c.c.: ne consegue la giurisdizione del GA. ai sensi dell’art. 8 cod. proc. amm. sull’“eccezione

riconvenzionale” di usucapione formulata dal Comune in primo grado e reiterata in appello.

2.4. Essa non è però fondata, e non soltanto per le ragioni prima esposte.

2.5. La questione dei rapporti tra l’istituto civilistico dell’usucapione e quello dell’occupazione sine titulo e

conseguente trasformazione da parte della P.A. di un bene privato e connessi aspetti in tema di tutela restitutoria

e risarcitoria, risulta quanto mai delicata, non solo sotto il profilo strettamente civilistico, quanto e soprattutto in

riferimento alla compatibilità con l’art. 1 del Protocollo Addizionale della C.E.D.U..

Secondo una tesi oggi invalsa sia presso la giurisprudenza amministrativa (T.A.R. Lazio Roma sez II bis, 2

ottobre 2009, n.9557; T.A.R. Abruzzo, 26 giugno 2008, n.860; T.A.R. Basilicata 2 gennaio 2008, n.4; T.A.R.

Sicilia Palermo sez III, 5 luglio 2012, n. 1402; C.G.A.S. 14 gennaio 2013, n. 9; T.A.R. Puglia Lecce sez III, 15

novembre 2013, n.2310) che ordinaria (Cassazione civ. sez I, 4 luglio 2012, n. 11147; id. sez. III, 8 settembre

2008, n.17570) l’usucapione sarebbe pienamente applicabile in favore della PA anche alle occupazioni

preordinate alla realizzazione di opere pubbliche laddove vi sia possesso protrattosi ininterrottamente per venti

anni, quale “valvola di chiusura del sistema” (T.A.R. Lazio - Roma sez II bis, 2 ottobre 2009, n.9557) altrimenti

dovendosi riconoscere la perpetuità di azione di restitutio in integrum o risarcitoria da parte del soggetto privato

24

vittima dell’occupazione, fermo restando la problematica della corretta individuazione del momento della

“interversio possessionis”.

Così opinando, il possesso da parte dell’Amministrazione non sarebbe né violento né clandestino (1163 c.c.) e

sarebbe pertanto utile ai fini del perfezionamento dell’usucapione, fermo solo restando appunto la necessità di

individuare l’interversio possessionis che la giurisprudenza identifica, non senza incertezze, nell’immissione in

possesso (T.A.R. Abruzzo, 26 giugno 2008, n.860; T.A.R. Basilicata 2 gennaio 2008, n.4) o - più correttamente -

nella intervenuta scadenza del periodo di occupazione legittima (T.A.R. Sicilia Palermo sez III, 5 luglio 2012, n.

1402; C.G.A.S. 14 gennaio 2013, n. 9; T.A.R. Puglia Lecce sez III, 15 novembre 2013, n.2310) oppure ancora alla

data di entrata in vigore del D.p.r. 8 giugno 2001 n. 327 (vedi l’isolata ma ampiamente motivata T.A.R. Lazio -

Roma sez II bis, 2 ottobre 2009, n.9557).

Secondo altra tesi, ai fini di una valida “interversio possessionis” devono ritenersi insufficienti i meri atti di

esercizio del possesso, quali, nel caso dell'apprensione materiale di un terreno edificabile, l'inizio e finanche il

compimento di una attività edificatoria (nella specie la realizzazione di una strada pubblica): e ciò, in quanto tali

atti non sono specificamente rivolti "contro il possessore" (art. 1141 comma 2 c.c.), giacché, secondo i principi

generali, tutto ciò che viene edificato sul suolo accede di diritto alla proprietà di esso (omne quod inaedificatur

solo cedit - art. 934 c.c.); tali attività non concretano dunque una valida interversione del possesso, ma soltanto

una ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla mera detenzione materiale del bene in forza

del decreto di occupazione di urgenza (così T.A.R. Liguria sez. I, 23 novembre 2011, n. 1635; vedi anche T.A.R.

Toscana sez I, 22 gennaio 2013, n.84 che nega radicalmente che il possesso sine titulo da parte

dell’Amministrazione, integrando un illecito permanente, possa dirsi utile ai fini dell’usucapione).

Ritiene il Collegio (con ciò manifestando condivisione alle eccezioni formulate da parte appellata nelle proprie

memorie) per il vero, assai discutibile la teorizzata usucapibilità di beni illecitamente occupati

dall’Amministrazione: e ciò sia alla luce dell’ampia nozione di violenza del possesso elaborata dalla

giurisprudenza (ex multis Cassazione civ. sez. II, 7 dicembre 2012, n. 22174) laddove si è sostenuta la

presunzione di volontà contraria del possessore ove manchi la prova di una manifestazione univoca di consenso,

quanto soprattutto in relazione alla assai dubbia compatibilità con l’art. 1 del Protocollo Addizionale della CEDU

(“Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua

proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del

diritto internazionale.”).

La costante giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (seconda sezione, 30 maggio 2000,

Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia, n. 31524/96; terza Sezione, 12 gennaio 2006, Sciarrotta c. Italia, n.

14793/02), ha più volte affermato la non conformità alla Convenzione (in particolare, al citato Protocollo

addizionale n. 1) dell'istituto della cosiddetta "espropriazione indiretta o larvata" (censurando quindi la possibilità

di individuare sistemi di acquisizione diversi da quello consensuale del contratto e da quello autoritativo del

procedimento espropriativo ed in particolare ogni fenomeno di creazione pretoria di acquisto della proprietà

mediante fatto illecito).

La disciplina sovranazionale contenuta nella C.E.D.U pur non avendo assunto forza di diritto comunitario (bensì

di “norma costituzionale interposta” ex art 117 c. 1 Cost. (Corte Costituzionale 11 marzo 2011, n.80, id. 24

ottobre 2007, nn. 348 e 349) impone al giudice l’interpretazione delle norme interne primarie conformemente,

ove possibile, alla C.E.D.U. quale parametro di legittimità costituzionale interposto (art. 117 c. 1 Cost.) ed in caso

di insanabile contrasto, di sollevare la questione di legittimità costituzionale.

Predicare quindi che l’apprensione materiale del bene da parte dell’Amministrazione al di fuori di una legittima

procedura espropriativa o di un procedimento sanante (art. 42 bis d.P.R. 327/2001) possa essere qualificata

idonea ad integrare il requisito del possesso utile ai fini dell’acquisto per usucapione, rischierebbe di reintrodurre

nell’ordinamento interno forme di espropriazione indiretta o larvata.

E, per soprammercato. non onerose per l’Amministrazione, dal momento che la c.d. retroattività reale

dell’usucapione estinguerebbe anche ogni pretesa risarcitoria (ex multis Cassazione civ. sez III, 8 settembre 2006,

25

n.19294; id. sez. II 24 febbraio 2009, n.4434;T.A.R. Basilicata 2 gennaio 2008, n.4; T.A.R. Puglia - Lecce sez I, 8

luglio 2004, n.4916).

2.5.1. In senso troncante per la reiezione della doglianza nella situazione di specie poi, si rileva che per

giurisprudenza consolidata, l’interruzione dell’usucapione può avvenire oltre che con la perdita materiale del

possesso soltanto con la proposizione di apposita domanda giudiziale, non essendo all’uopo sufficienti atti di

contestazione, diffida o messa in mora (ex multis Cassazione civ, 11 giugno 2009, n.13625; id. sez. II, 11 luglio

2011, n.15199).

Quantomeno sino all’entrata in vigore del d.P.R. 327/2001, risultava radicalmente preclusa, da parte del

destinatario dell’occupazione preordinata all’esproprio, l’azione di restitutio in integrum, qualificando

l’occupazione acquisitiva più che un mero fatto illecito, una vera e propria “fattispecie ablatoria seppur atipica”

(Corte Costituzionale 23 maggio 1995, n.188, Corte Costituzionale 30 aprile 1999, n.148, Cassazione civile sez I,

6 giugno 2000, n.7583).

Ne consegue che, a tutto concedere, (alla stregua dell’art 2935 c.c. - secondo cui la prescrizione decorre “dal

giorno in cui il diritto può essere fatto valere”) il dies a quo di un possibile possesso utile a fini di usucapione non

potrebbe che individuarsi a partire dall’entrata in vigore del d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327, (l’art. 43 ivi contenuto,

come è noto, aveva sancito il superamento normativo dell’istituto dell’occupazione acquisitiva) il che implica che

il termine ventennale non sarebbe neppure ad oggi maturato.

3.Parimenti (in disparte il dubbio interesse di parte appellante a coltivare l’eccezione) appare da escludere la

favorevole scrutinabilità della ulteriore censura, formulata peraltro in via “perplessa” dall’appellante comune, e

relativa alla asserita erroneità della sentenza dal Tar nella parte in cui essa ha ammesso l’intervento in causa

formulato dagli eredi delle comproprietarie dei terreni in questione.

3.1.Il comune non contesta che - vertendosi in sede di giurisdizione esclusiva- siano ammissibili tutti i tipi di

intervento previsti dal codice di procedura civile, come esattamente ritenuto dal primo giudice: con una formula

anodina, invece, l’appellante si duole della circostanza che “gli interventori possano avvantaggiarsi degli effetti

della sentenza per i quali non hanno ritenuto di agire in via diretta” e si duole altresì della circostanza che la

sentenza non abbia “distinto in alcun modo tra la posizione dei ricorrenti e quella degli interventori”.

Senonchè,in contrario senso rispetto a quanto ipotizzato dal comune appellante, è sufficiente rilevare che gli

interventori sono eredi della sig.ra Pasqualina Orlando e della sig.ra Costanza De Iaco, entrambe comproprietarie

dei terreni in questione, e che essi hanno agito per ottenere il risarcimento del danno sulle aree di proprietà delle

loro danti causa, per rendere palese che: le dette parti processuali avrebbero potuto proporre l’azione in via

autonoma senza che nessun ostacolo potesse essere alle stesse frapposto; che anzi, la circostanza che sia stato

proposto l’intervento ha evitato la frammentazione della causa (che ha un unico petitum e causa petendi) in una

pluralità di segmenti processuali; che la posizione derivata delle stesse e la assenza di preclusioni maturate (unica

ragione, questa, che in sede di giurisdizione di legittimità impedisce alcune forme di intervento in giudizio nel rito

processuale amministrativo) impedisce che le obiezioni del comune possano essere favorevolmente scrutinate.

3.2.In ultimo, nessuna rilevanza può spiegare in senso accoglitivo dell’appello la precaria situazione economica in

cui asseritamente versa il comune (come vibratamente sostenuto dalla difesa di quest’ultimo nel corso della

discussione in camera di consiglio) non costituendo la stessa causa di esonero da responsabilità risarcitoria.

4.Conclusivamente, l’appello è integralmente infondato e merita la reiezione. Restano assorbiti tutti gli argomenti

di doglianza motivi od eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini

della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

5.Le spese processuali seguono la soccombenza, e pertanto l’appellante amministrazione comunale va

condannata a corrisponderle a parte appellata, nella misura che appare equo determinare in complessivi Euro

tremila (€ 3000/00)oltre oneri accessori, se dovuti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe

proposto, lo respinge, nei termini di cui alla motivazione che precede.

26

Condanna l’appellante amministrazione comunale al pagamento delle spese processuali in favore di parte appellata, nella

misura di complessivi Euro tremila (€ 3000/00) oltre oneri accessori, se dovuti.

Ottemperanza e provvedimento ex art. 42 bis T.U. espr.

Cons. di Stato, ordinanza del 3 luglio 2014, n. 3347

ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA

sul ricorso numero di registro generale 7071 del 2013, proposto da:

Carmela Marraffa, rappresentata e difesa dall'avv. Carlo Caniglia, con domicilio eletto presso Segreteria Sezionale

del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, 13;

contro

Comune di Villa Castelli, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Giovanni Pomarico,

con domicilio eletto presso la Segreteria del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, 13;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. PUGLIA - SEZ. STACCATA DI LECCE: SEZIONE I n. 00383/2013, resa tra le

parti, concernente reclamo avverso provvedimento di acquisizione sanante emesso dal commissario ad acta.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Villa Castelli;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 25 febbraio 2014 il Cons. Nicola Russo e uditi per le parti gli

avvocati Caniglia e Pomarico;

Con ricorso notificato il 13 settembre 2013 e depositato il 30 settembre successivo la sig.ra Carmela Marraffa

propone appello per ottenere la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sez.

I, 21 febbraio 2013, n. 383/2013.

La sentenza impugnata ha respinto il reclamo n.r.g. 1309/2011, proposto dall’odierna appellante, avverso il

decreto di esproprio del commissario ad acta nominato dal medesimo Tribunale con precedente sentenza 24

maggio 2012 n. 928.

Va premessa una breve ricostruzione dei fatti riguardanti l’odierna vicenda contenziosa.

La sig.ra Marraffa, nella sua qualità di proprietaria di un terreno sito nell’agro del Comune di Villa Castelli,

ricadente nella zona Gravina, subiva l’occupazione del proprio terreno per la realizzazione di lavori di restauro

ambientale e di sistemazione a verde della gravina esistente, disposti sulla base di un progetto approvato con

delibera GM n. 372 del 13.06.1997, che ne decretava la pubblica utilità.

In particolare l’occupazione di urgenza veniva disposta con decreto n. 3351 del 19.04.1999 e a seguito di essa

venivano realizzate le opere de quibus, con conseguente trasformazione dell’area.

27

All’occupazione non faceva seguito alcun formale decreto di esproprio.

L’odierna appellante, dunque, proponeva ricorso di fronte il TAR Puglia - sez. Lecce al fine di ottenere la

restituzione dell’immobile illegittimamente detenuto, salva l’ipotesi di un provvedimento ai sensi dell’allora

vigente art. 43 t.u. n. 327/01.

Con sentenza n. 3342/2008 il giudice di prime cure accoglieva il ricorso e, riconoscendo la sopravvenuta

illegittimità dell’occupazione a seguito del mancato completamento del procedimento ablatorio, ordinava

all’amministrazione di completare tale procedimento ovvero di restituire il bene alla ricorrente, salvo in ogni caso

il diritto al risarcimento dei danni.

In particolare il Tribunale offriva tre opzioni per eseguire tale comando giudiziale: il raggiungimento entro

sessanta giorni di un accordo fra le parti con il quale trasferire la proprietà del bene in capo alla p.a.; se tale

accordo non fosse stato raggiunto, nei successivi sessanta giorni, il Comune avrebbe dovuto emanare un

motivato decreto di acquisizione al patrimonio indisponibile ai sensi dell’art. 43 t.u. espropriazioni; la

restituzione, infine, del bene alla proprietaria, salvo in tutti i casi il risarcimento dei relativi danni, che avrebbero

dovuto essere quantificati tenuto conto dei criteri legali, della data dalla quale è configurabile l’illecito

permanente, della destinazione urbanistica dell’area in questione e di ogni altra circostanza di fatto significativa.

Concludeva il Tribunale con formula di rito, con la quale rendeva edotta la sig.ra Marraffa della possibilità di

agire per l’esecuzione della sentenza di fronte al medesimo TAR, qualora il Comune non avesse provveduto nei

termini stabiliti ad accordarsi ovvero ad adottare un atto formale volto alla restituzione o all’acquisizione

dell'area.

Il Comune non prestava adempimento nei termini e nelle modalità indicati in sentenza e successivamente la sig.ra

Marraffa proponeva ricorso presso lo stesso TAR Puglia, sezione staccata di Lecce per chiedere la corretta

esecuzione della stessa.

Con sentenza 2 ottobre 2009 n. 2241, il TAR di Lecce, accogliendo il ricorso della sig.ra Marraffa, ordinava

all’Amministrazione di dare esecuzione alla sentenza n. 3342/2008 nel termine ultimativo di quarantacinque

giorni.

Il Comune rimaneva ulteriormente inadempiente e la proprietaria adiva nuovamente il TAR di Lecce al fine di

sentire nuovamente condannare il Comune all’esecuzione della sentenza, con richiesta di nomina di un

commissario ad acta.

Il TAR Lecce, con sentenza 24 maggio 2012 n. 928 accoglieva il nuovo ricorso della sig.ra Marraffa, ritenendo

priva di fondamento la tesi del Comune, relativa ad una mancanza di responsabilità dello stesso per mancato

raggiungimento dell’accordo, e ordinava all’Amministrazione di ottemperare alla sentenza n. 3342/2008 nel

termine di sessanta giorni o attraverso l’emanazione del decreto di acquisizione e il pagamento della somma

corrispondente al valore attuale del bene nonché di una somma pari al ventesimo del valore del bene

(determinato tenendo conto a ritroso degli indici di svalutazione dei beni al consumo) per ogni anno successivo

alla scadenza della legittima occupazione, o la restituzione del bene e il contestuale pagamento delle somme

compensative del danno arrecato e arrecando con la sottrazione del bene al proprietario per tutto il periodo

passato e futuro di illegittima occupazione (pari al ventesimo del valore del bene anno per anno, determinato

tenendo conto, per il passato e per il futuro, degli indici di svalutazione dei beni al consumo).

Provvedeva a nominare quale commissario ad acta l’ing. Raffaele Dell’Anna, nel caso in cui l’Amministrazione

non avesse dato tempestiva esecuzione alla sentenza.

Con successivo reclamo la sig.ra Marraffa impugnava di fronte al TAR di Lecce il decreto di esproprio del 10

settembre 2012, assunto dal commissario ad acta nominato dal medesimo Tribunale con sentenza n. 928/2012.

Il TAR con sentenza 21 febbraio 2013 n. 383 rigettava il reclamo, ritenendo che l’atto erroneamente nominato

decreto di esproprio dovesse essere qualificato più propriamente quale acquisizione sanante ai sensi dell’art. 43,

oggi 42 bis, del D.P.R. n. 327/2001.

Il Tribunale, dunque, affrontava la tematica relativa ai poteri del commissario ad acta, il quale, a parere del TAR, è

titolare di un potere che trova diretto fondamento nella pronuncia giurisdizionale da portare ad esecuzione, con

28

la conseguenza che detto organo può adottare ogni misura conforme al giudicato che si appalesi in concreto

idonea a garantire alla parte ricorrente il conseguimento effettivo del bene della vita cui aspira.

Alla luce di quanto esposto il TAR riteneva legittimo il comportamento del commissario ad acta, il quale, dunque,

non avrebbe avuto bisogno di acquisire preventivamente alcun parere, né da parte del ricorrente, né tanto meno

del Comune.

Reputava, infine, infondata la censura relativa alla quantificazione del risarcimento del danno, stante la non

edificabilità dell’area e l’utilizzabilità in proposito della determinazione effettuata dall’Agenzia del Territorio, che,

pur non potendosi considerare atto idoneo alla concreta esecuzione del giudicato, ben poteva essere utilizzata ai

fini dell’accertamento del valore dell’area.

Con ricorso n.r.g. 7071/2013 la sig.ra Marraffa propone appello avverso tale ultima sentenza del TAR Lecce

lamentando la violazione e falsa applicazione degli artt. 21, 114, comma 4, lett. d), commi 6 e 7 c.p.a., per essersi

il commissario ad actasostituito all’amministrazione, oltrepassando i limiti dei poteri conferitigli dal giudicato,

adottando un decreto di esproprio senza previamente acquisire la volontà dell’amministrazione e sostituendosi in

toto a quest’ultima.

Con secondo motivo lamenta la contraddittorietà della motivazione, per avere la stessa, da un lato, considerato la

stima dell’Agenzia del Territorio come non idonea a integrare una vera e propria esecuzione del giudicato,

mentre, dall’altro lato, la considerava strumento idoneo per la determinazione del valore dell’area.

Chiede, inoltre, la sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata, che questa Sezione, con ordinanza n.

4028/2013, non ha concesso, in considerazione dell’assenza dei presupposti.

Successivamente si è costituito il Comune di Villa Castelli, che contesta tutto quanto sostenuto da parte

appellante, affermando che il commissario ad acta avrebbe agito nel rispetto dei poteri conferitigli dalla sentenza,

alla luce della giurisprudenza di questo Consiglio, per la quale il commissario ad acta è legittimato, anche al di

fuori delle norme che governano l’azione ordinaria degli organi amministrativi sostituiti, ad adottare ogni misura

conforme al giudicato che si appalesi in concreto idonea a garantire alla parte ricorrente il conseguimento

effettivo del bene della vita di cui è riconosciuto titolare dalla sentenza (cfr. Cons. St., sez. V, 1 marzo 2012, n.

1194 e Cons. St., sez. III, 7 giugno 2013, n. 3124).

Eccepisce, inoltre, l’infondatezza del secondo motivo di ricorso relativo alla contraddittorietà della motivazione,

sostenendo che la sentenza n. 928/2012, resa in primo grado fra le parti, comandava all’amministrazione di

liquidare il danno subito dalla ricorrente sulla base del valore venale del bene e, pertanto, correttamente, il

commissario ad acta ha utilizzato la stima effettuata dall’Agenzia del Territorio di Brindisi.

Alla camera di consiglio del 25 febbraio 2014 la causa è stata trattenuta in decisione.

Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto dalla sig.ra Marraffa avverso la sentenza con cui

il Tar Puglia, sezione distaccata di Lecce, ha respinto il reclamo proposto avverso gli atti posti in essere dal

commissario ad acta.

Il Collegio rinviene al riguardo un contrasto giurisprudenziale in ordine alla quaestio iuris se il commissario ad acta,

nominato in sede di ottemperanza alla sentenza, possa ordinare la conclusione del procedimento di cui all’art. 42-

bis T.U. sulle espropriazioni (8 giugno 2001 n. 327) o se tale tipo di provvedimento sia di appannaggio esclusivo

dell’Amministrazione.

Occorre prendere le mosse dall’art. 42 bis d.P.R. 8.6.2001, n. 327 (cd. “t.u. espropriazione”), recante la disciplina

della cd. acquisizione sanante, inserito dall’art. 34 d.l. 6.7.2011, n. 98, convertito con modificazioni nella l.

15.7.2011, n. 111, che ha colmato il vuoto lasciato a seguito della declaratoria di incostituzionalità del previgente

art. 43, e che è stato oggetto di un vivace dibattito giurisprudenziale relativo, in particolare, all’ampiezza dei

poteri decisori del g.a. investito di una controversia concernente l’occupazione illegittima o senza titolo di un

bene e la relativa trasformazione.

Chiarita la natura di illecito permanente dell’occupazione e trasformazione di un bene da parte della p.a. in

assenza di valido titolo, la giurisprudenza afferma che l’obbligo restitutorio della p.a. può venire meno solo per

effetto dell’esercizio del potere acquisitivo (cfr. Cons. St., sez. IV, 29.8.2012, n. 4650).

29

Tale orientamento della Sezione conferma il principio, già affermato con precedenti sentenze (30 gennaio 2006,

n. 290; 7 aprile 2010 n. 1983), secondo cui l’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non fa venire meno

l’obbligo dell'amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso, con ciò superando

l’interpretazione che riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica e all’irreversibile trasformazione effetti

preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato.

Infatti, partendo dall’esame della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, deve ritenersi che il

quadro normativo e giurisprudenziale nazionale previgente non fosse aderente alla Convenzione europea e, in

particolare, al Protocollo addizionale n. 1 (sentenza Cedu 30 maggio 2000, ric. 31524/96).

Nella sentenza citata, la Corte ha ritenuto che la realizzazione dell’opera pubblica non costituisca impedimento

alla restituzione dell’area illegittimamente espropriata, e ciò indipendentemente dalle modalità - occupazione

acquisitiva o usurpativa - di acquisizione del terreno. Per tali ragioni, il proprietario del fondo illegittimamente

occupato dall’amministrazione, ottenuta la declaratoria di illegittimità dell’occupazione e l’annullamento dei

relativi provvedimenti, può legittimamente domandare nel giudizio di ottemperanza sia il risarcimento, sia la

restituzione del fondo che la sua riduzione in pristino.

La realizzazione dell’opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di

assurgere a titolo dell’acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il

formale atto di acquisizione dell’amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non

potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti,

fatti o contegni.

Ne discende che, nelle more dell’introduzione del nuovo art. 42-bis e dopo l’annullamento per illegittimità

costituzionale dell’art. 43 T.U. espropriazioni, la giurisprudenza di questa Sezione ha affermato che è obbligo

primario dell’amministrazione procedere alla restituzione della proprietà illegittimamente detenuta.

Muovendo da tale principio la Sezione ha, anzitutto, ribadito l’applicabilità dell’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del

2001 ai giudizi pendenti al momento della sua entrata in vigore, richiamando le coordinate interpretative in

precedenza fornite. In particolare, è richiamata la sentenza n. 1514 del 16 marzo 2012, in cui la Sezione ha

precisato che “l’art. 42 bis, pur facendo salvo il potere di acquisizione sanante in capo alla P.A. non ripropone lo

schema processuale previsto dal comma 2 dell’originario art. 43, che attribuiva all’amministrazione la facoltà e

l’onere di chiedere la limitazione alla sola condanna risarcitoria, ed al giudice il potere di escludere senza limiti di

tempo la restituzione del bene, con il corollario dell’obbligatoria e successiva emanazione dell’atto di

acquisizione”. In quella occasione la Sezione ha evidenziato che il potere discrezionale dell’amministrazione di

disporre l’acquisizione sanante è conservato: l’art. 42-bis infatti regola i rapporti tra potere amministrativo di

acquisizione in sanatoria e processo amministrativo di annullamento, in termini di autonomia, consentendo

l’emanazione del provvedimento dopo che “sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato

all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio” od anche,

“durante la pendenza di un giudizio per l’annullamento degli atti citati, se l’amministrazione che ha adottato l’atto

impugnato lo ritira”.

In conclusione, dalla giurisprudenza fin qui richiamata, si possono dedurre le seguenti massime:

1. L’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non fa venire meno l’obbligo dell'amministrazione di restituire

al privato il bene illegittimamente appreso, con ciò superando l’interpretazione che riconnetteva alla costruzione

dell’opera pubblica e all’irreversibile trasformazione effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del

privato.

2. La realizzazione dell’opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di

assurgere a titolo dell’acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il

formale atto di acquisizione dell’amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non

potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti,

fatti o contegni.

3. Nelle more dell’introduzione del nuovo art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001, e dopo l’annullamento per

illegittimità costituzionale dell’art. 43 T.U. espropriazioni, sussiste l’obbligo primario dell’amministrazione di

30

procedere alla restituzione della proprietà illegittimamente detenuta, fermo restando il potere

dell’amministrazione di valutare l’attivazione di quanto previsto dal citato art. 42-bis.

Dichiarato, dunque, nel 2010 l’art. 43 costituzionalmente illegittimo (C. cost., 8.10.2010, n. 293), per eccesso di

delega, il vuoto normativo è stato, quindi, colmato nel 2011, con l’inserimento nel t.u. espropriazioni dell’art.

42 bis, recante una disciplina parzialmente diversa rispetto alla precedente.

L’art. 43, oltre a prevedere l’acquisizione amministrativa, disposta sulla base di un provvedimento adottato dalla

p.a., ai co. 3 e 4, disciplinava l’acquisizione giudiziaria, riguardante le ipotesi in cui la p.a., nel corso del giudizio

per l’annullamento di un atto del procedimento ablatorio o per la restituzione del bene utilizzato per scopi di

interesse pubblico, avesse chiesto al giudice di escludere la restituzione, riconoscendo in entrambi i casi al

proprietario inciso il diritto al «risarcimento» del danno.

Diversamente, l’art. 42-bis riconosce, in luogo del risarcimento del danno, un «indennizzo» per il pregiudizio

subito. Inoltre, se da un lato è confermata la possibilità di ricorrere all’acquisizione anche «quando sia stato

annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di

un’opera o il decreto di esproprio» (co. 2), dall’altro non è riprodotta l’acquisizione giudiziaria: l’eliminazione è

compensata dall’espressa previsione che l’acquisizione può essere adottata «anche durante la pendenza di un

giudizio» per l’annullamento degli atti inerenti alla procedura espropriativa. Al rischio che il provvedimento

acquisitivo possa divenire rimedio ordinario alternativo alla procedura di esproprio, viene fatto fronte attraverso

un aggravio dell’onere motivazionale, richiedendosi che il provvedimento sia «specificamente motivato in

riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate

comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua

adozione» (co. 4).

Tanto premesso, il dibattito, in particolare, si è sviluppato intorno ai poteri decisori del g.a., qualora la domanda

avanzata in via principale concerna il risarcimento per equivalente del danno commisurato alla perdita della

proprietà, discutendosi se il giudice - specie alla luce del testo dell’art. 42-bis che non riproduce la c.d.

acquisizione giudiziaria ed esalta il carattere eccezionale del potere acquisitivo, esercitabile sulla base di rigorose

valutazioni di prevalente interesse pubblico - possa condannare la p.a. ad acquisire o ad avviare il procedimento

di acquisizione.

Questa Sezione, con la sentenza 16.3.2012, n. 1514, a fronte di un petitum rappresentato dalla domanda di

risarcimento del danno commisurato al valore venale del bene e, in subordine, di restitutio, ha riconosciuto in

capo al g.a. il potere di condannare la p.a. ad avviare il procedimento acquisitivo (ferma la discrezionale

valutazione in ordine agli interessi in conflitto), tramite un’interpretazione sistematica dell’art. 42-bis e

valorizzando il potere di condanna atipico del g.a. di cui all’art. 34 c.p.a.

Secondo l’orientamento prevalente, la realizzazione dell’opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è un

mero fatto, inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà ed integrante un illecito permanente (cfr.

Cons. St., sez. IV, 29.8.2011, n. 4833).

Ne consegue, che il legittimo proprietario ha diritto alla restituzione, previa riduzione in pristino stato:

l’affermazione categorica presuppone l’inquadramento della restituzione del bene nella tutela ripristinatoria (cfr.

Cons. St., sez. VI, 31.5.2008, n. 2622), anziché in quella risarcitoria in forma specifica (cfr. Cons. St., sez. IV,

15.9.2010, n. 6862), che sarebbe soggetta al limite della non eccessiva onerosità ex art. 2058 c.c., oltre a richiedere

i presupposti dell’illecito. Inoltre, la trasformazione dell’area occupata non può essere addotta dalla p.a. come

causa di impossibilità oggettiva e di impedimento alla restituzione ed il pregiudizio all’economia nazionale

derivante dalla distruzione della cosa, ex art. 2933 c.c., può essere invocato nelle ipotesi in cui l’area sia interessata

da un’opera di rilievo non meramente locale (cfr. Cons. St., sez. VI, 13.6.2011 n. 3561; Cass., sez. I, 23 agosto

2012, n. 14609).

Ulteriore premessa implicita nell’iter argomentativo dell’orientamento giurisprudenziale in rassegna è che non è

possibile connettere l’estinzione del diritto di proprietà del privato all’unilaterale volontà di questo di abdicare al

proprio diritto, volontà che la giurisprudenza della Cassazione in materia di occupazione usurpativa (cfr. Cass.,

S.U., 6.5.2003, n. 6853) ha, invece, giudicato implicita nella richiesta del proprietario di liquidazione del danno

31

commisurato alla perdita della proprietà. Tale conclusione, infatti, si porrebbe in contrasto sia con l’esigenza di

tutela della proprietà, sia con i principi civilistici, oltre con il tenore degli artt. 43 e 42-bis cit., che riservano

l’acquisizione ad una decisione discrezionale della p.a. (cfr. Cons. St., sez. IV, 28.1.2011, n. 676).

In tale contesto l’art. 42 bis (applicabile anche a fatti anteriori ai sensi del co. 8), (cfr. sent. n. 1514/2012 cit.),

prevede espressamente che il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di

un giudizio per l’annullamento degli atti ablatori e non ripropone invece «lo schema processuale previsto dal

comma 3 dell’art. 43» sull’acquisizione giudiziaria. Tale espunzione ha una conseguenza: «l’eliminazione della

descritta facoltà inibisce, sul piano processuale, l’emersione dell’interesse pubblico all’acquisizione dell’immobile,

sia pur in sanatoria, dovendo del resto escludersi che l’interesse, pur dedotto ed argomentato dalla difesa

dell’amministrazione nelle proprie memorie, costituisca o possa costituire (venuta meno la peculiare norma di cui

al 43, co. 3) oggetto e frutto di quella ponderata valutazione degli “interessi in conflitto” che il legislatore

demanda esclusivamente all’amministrazione nell’ambito della naturale sede procedimentale». L’art. 42-bis regola

unicamente i rapporti tra potere amministrativo di acquisizione e processo amministrativo di annullamento e li

regola in termini di autonomia, consentendo l’adozione del provvedimento anche dopo l’annullamento di un atto

della procedura ablatoria ed anche «durante la pendenza di un giudizio per l’annullamento degli atti citati». In

difetto di esercizio del potere di acquisizione, l’ordine di restituire il bene (in accoglimento della domanda

restitutoria avanzata in via subordinata e trattata in conseguenza del rigetto di quella risarcitoria per la persistente

titolarità della proprietà in capo all’originario proprietario), «eliderebbe irrimediabilmente il potere sanante

dell’amministrazione (salva ovviamente l’autonoma volontà transattiva delle parti) con conseguente frustrazione

degli obiettivi avuti a riferimento dal legislatore».

Tuttavia, secondo l’orientamento citato, «i principi derivanti dall’interpretazione sistematica delle norme citate e

le possibilità insite nel principio di atipicità delle pronunce di condanna, ex art. 34 lett. c c.p.a., impongono allora

una limitazione della condanna all’obbligo generico di provvedere ex art. 42 bis», «impregiudicata la discrezionale

valutazione in ordine agli interessi in conflitto», in esito alla quale la p.a. potrà scegliere se restituire l’immobile

previo ripristino o disporne l’acquisizione.

La sentenza n. 1514/2012 cit., inoltre, esclude che dopo un giudicato restitutorio possa essere esercitato il potere

di acquisizione.

Tuttavia, l’art. 42-bis non individua un limite temporale per l’esercizio del potere di acquisizione. Vigente l’art. 43

la questione aveva dato luogo a opposti orientamenti: secondo un primo orientamento, l’acquisizione è idonea a

porre nel nulla l’eventuale precedente condanna giudiziale a restituire il bene, poiché «la restituzione … è la

conseguenza dell’accertamento della proprietà dei beni e non implica effetti costitutivi» (cfr. Cons. St., sez. V,

11.5.2009, n. 2877); secondo altro orientamento, invece, il potere acquisitivo non può essere esercitato in

presenza di un giudicato che riconosca il diritto alla restituzione, mentre può essere applicato qualora siano

intervenute sentenze del g.a. meramente demolitorie degli atti espropriativi (Cons. St., sez. IV, 17.2.2009, n. 915).

Gli orientamenti in questione - il primo criticabile per il contrasto con il principio di effettività della tutela

giurisdizionale, il secondo perché omette di considerare l’effetto ripristinatorio proprio del giudicato di

annullamento - necessitano di un aggiornamento alla luce del c.p.a., che la sentenza n. 1514 del 2012 sembra,

invece, non trascurare: gli artt. 30 e 34 c.p.a. configurano un potere di condanna atipico del g.a., consentendo di

esplicitare già in esito al giudizio di cognizione la portata conformativa e ripristinatoria del giudicato, incluso

l’ordine di restituire il bene occupato sine titulo. Poiché detto ordine escluderebbe il successivo esercizio del

potere acquisitivo, l’orientamento in questione, sensibile alla rilevanza del pubblico interesse e tenuto conto del

co. 2 dell’art. 42-bis che ammette il potere acquisitivo anche dopo l’annullamento degli atti del procedimento

ablatorio, ha limitato la condanna all’obbligo generico di avviare il procedimento acquisitivo, ferma restando la

discrezionalità della p.a. nello scegliere se acquisire o meno il bene.

I profili problematici, tuttavia, non sembrano compiutamente risolti.

I principi elaborati dalla sentenza n. 1514 del 2012 cit., non sono affatto consolidati. Altre sentenze, infatti,

interpretano l’espunzione dell’acquisizione giudiziaria e l’aggravamento dell’onere motivazionale per quella

amministrativa come espressione della volontà legislativa di assicurare al proprietario la restituzione in pristino,

32

salvo il ricorso eccezionale all’acquisizione sulla base di rigorose valutazioni di prevalente interesse pubblico,

valutazioni queste che però sarebbero «interdette al giudicante», che altrimenti invaderebbe un’area di

amministrazione attiva.

Con riguardo alla vicenda in esame, deve dirsi che si registra un contrasto giurisprudenziale proprio in ordine ai

poteri del commissario ad acta nella conclusione del procedimento espropriativo avuto riguardo all’art. 42-bis T.U.

sulle espropriazioni.

Un primo orientamento, confluito nelle sentenze di questa Sezione, nn. 1222 e 1344 del 2014, ritiene che il

commissario ad acta non possa provvedere a norma dell’art. 42-bis T.U. espropriazioni.

Il ragionamento posto a fondamento di queste sentenze si radica sul presupposto che la sentenza da ottemperare

sia a sua volta legata ai limiti dati dalla domanda proposta dalla parte in sede di ricorso introduttivo.

Nel particolare caso di illegittimità della procedura la domanda del ricorrente è posta al fine di ottenere la

demolizione degli atti espropriativi; l’accoglimento della domanda, cui consegue l’annullamento della procedura e

il contestuale riconoscimento della mancata acquisizione alla mano pubblica della proprietà, comporta l’obbligo

della restituzione del bene illegittimamente sottratto.

La giurisprudenza in questione specifica che alla luce dei limiti posti dal rapporto fra “chiesto” e “pronunciato”

appare arduo immaginare che, di fronte alla domanda introdotta in giudizio per la declaratoria d’illegittimità della

procedura, il giudice dell’ottemperanza decida nel senso di ordinare all’amministrazione di provvedere ex art. 42-

bis: “Si assisterebbe alla singolare situazione per cui lo stesso giudice, che in sede di cognizione ha ritenuto che il

bene dovesse essere restituito al legittimo proprietario, in sede di ottemperanza ordinerà invece

all’amministrazione di impossessarsi dello stesso bene, anzi addirittura la sostituirà, mandando un suo ausiliario a

mettere in atto tale proposito”.

Tale orientamento dubita della legittimità costituzionale, rispetto all’art. 24 Cost., di tale risultato, dubbio che, al

contrario, può essere superato se si ritiene che l’unico obbligo scaturente dalla sentenza è quello di restituire il

bene.

Tale conclusione risulterebbe ulteriormente confermata dalla maggiore incidenza economica che avrebbe

l’adozione del provvedimento ex art. 42-bis: per cui deve essere lasciata all’esclusiva valutazione

dell’amministrazione la ponderazione comparativa delle alternative possibili.

In conclusione, tale orientamento giurisprudenziale ritiene che travalichi i poteri del commissario ad

acta l’adozione del provvedimento ex art. 42 bis, in quanto ciò non rispecchierebbe il dispositivo di una sentenza

volta a dichiarare l’illegittimità del provvedimento espropriativo e a condannare l’amministrazione alla

restituzione del bene, per cui, stante l’onerosità economica di tale procedimento, la scelta dovrebbe essere lasciata

all’amministrazione.

Con riguardo al rapporto tra ordine restitutorio e potere sanante, invece, in una sentenza del 2011 è stato

applicato l’art. 42-bisin sede di ottemperanza ad un giudicato restitutorio (ordinando all’amministrazione di

valutare entro il termine prefissato se acquisire), sul rilievo che in detta sede la giurisdizione di merito consente di

«tenere in debito conto le esigenze di interesse pubblico che militano ... nel senso del provvisorio mantenimento»

dell’opera pubblica realizzata (cfr. Cons. St., sez. VI, 1.12.2011, n. 6351).

Tale diverso filone giurisprudenziale ritiene, dunque, pienamente configurabile, fra i poteri del commissario ad

acta, la possibilità di agire ai sensi dell’art. 42-bis espropriazioni (cfr Cons. St., Sez. VI, n. 6351 del 2011 cit.).

La VI^ Sezione di questo Consiglio, dopo aver ripercorso le tappe che hanno condotto alla dichiarazione di

illegittimità costituzionale dell’art. 43 T.U. espropriazioni e la copertura del vuoto normativo tramite l’art. 42-bis,

ha ritenuto conforme ai poteri del commissario ad acta l’eventuale adozione del provvedimento di acquisizione

dell’immobile al patrimonio demaniale, con contemporanea liquidazione dei danni e degli indennizzi previsti dalla

norma.

Ritiene tale diverso orientamento, difatti, che il commissario ad acta possa sostituirsi all’amministrazione

competente al fine di portare a compimento la procedura espropriativa per il tramite del provvedimento di cui

all’art 42-bis, dando così rilievo ai poteri concessi al giudice amministrativo in sede di ottemperanza.

33

E, infatti, che cosa accade se l’amministrazione, come nel caso di specie, dinanzi ad una sentenza che assegna un

termine per (o “suggerisce”) la tempestiva adozione del provvedimento di cui all’art. 42-bis, non ottempera e,

anzi, continua a rimanere inerte e/o silente?

Com’è noto, in sede di ottemperanza il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione inadempiente,

prescindendo dalla riserva amministrativa, sulla scorta di quanto indicato nelle statuizioni passate in giudicato.

Il giudice, e per esso il commissario ad acta, instaurerebbe, dunque, il procedimento previsto dall’art. 42-

bis proprio come conseguenza della declaratoria di illegittimità degli atti della procedura espropriativa.

L’art. 42-bis, difatti, pone come presupposto per la procedura di acquisizione nel patrimonio demaniale di un

bene utilizzato a scopi pubblici, l’invalidità del titolo con il quale è stato occupato il terreno, procedura nella quale

il commissario ad actavaluterà, alla luce di tutti gli interessi in gioco, se il terreno debba essere acquisito o meno.

Il commissario ad acta, dunque, venuto meno il titolo espropriativo a seguito della caducazione degli atti della

procedura, pur tenendo in considerazione gli interessi del privato, valuterà ex novo gli interessi in gioco, che

portarono l’amministrazione a determinarsi circa l’avvio della procedura espropriativa.

Secondo tale diverso orientamento, solo tale tipo di impostazione renderebbe veramente satisfattiva la tutela

giurisdizionale del ricorrente ai sensi dell’art. 24 della Costituzione.

Mantenere il proprietario, che ha visto accolta la propria domanda di annullamento degli atti della procedura

espropriativa, in balia del comportamento dell’Amministrazione, la quale, anche a seguito della formazione del

giudicato, nonché del ricorso in ottemperanza, continui a non ripristinare la situazione di legalità, lederebbe le

legittime aspettative del proprietario medesimo, il quale finirebbe per non ottenere alcun tipo di tutela

dall’esperimento dell’azione amministrativa.

Con tale tipo di impostazione, dunque, si è inteso fornire una tutela sostanziale al proprietario, nel senso di

impedire che eventuali ulteriori dilazioni da parte dell’amministrazione nell’adempimento della sentenza possano

continuare a nuocere all’interessato, con evidente perdita di efficacia dei poteri sostitutivi del giudice in sede di

ottemperanza e, conseguentemente, di quelli del commissario ad acta nominato in tale sede.

Del resto, anche secondo l’orientamento formatosi nel vigore dell’art. 43, l’atto di acquisizione sanante era

applicabile in sede di giudizio di ottemperanza (cfr. Cons. St., sez. IV, 03.09.2008 n. 4114).

Premesso che, nel caso di annullamento giurisdizionale degli atti inerenti alla procedura di espropriazione per

pubblica utilità (dichiarazione di pubblica utilità e occupazione di urgenza), il proprietario può chiedere –

mediante il giudizio di ottemperanza – la restituzione del bene piuttosto che il risarcimento del danno per

equivalente monetario, anche se l’area è stata irreversibilmente trasformata a seguito della realizzazione dell’opera

pubblica, tale orientamento si poneva sulla scia di quello a suo tempo autorevolmente tracciato dall’Adunanza

Plenaria (cfr. Cons. St., Ad. Plen., 29 aprile 2005, n. 2), secondo il quale sussiste la possibilità per il proprietario di

chiedere la restituzione dell’area - a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale della dichiarazione di p.u. -

anche se su di essa è stata realizzata un’opera pubblica con possibilità, per la P.A., di evitare tale restituzione solo

mediante un provvedimento di acquisizione ex art. 43 d.P.R. n. 327/01.

Tale orientamento, invero, affermava che l’unico rimedio riconosciuto dall’ordinamento all’amministrazione per

evitare la restituzione dell’area a seguito dell’annullamento in s.g. della dichiarazione di p.u., è l’emanazione di un

(legittimo) provvedimento di acquisizione c.d. "sanante" ex art. 43 T.U. espropriazioni per pubblica utilità, in

assenza del quale l’Amministrazione stessa non può addurre la intervenuta realizzazione dell’opera pubblica quale

causa di impossibilità oggettiva e, quindi, come impedimento alla restituzione.

Tale orientamento, in particolare, riteneva che anche in sede di giudizio di ottemperanza trovasse applicazione la

disposizione dell’art. 43 che, in caso di apprensione e modifica di res sine titulo o con titolo annullato, consentiva la

possibilità di neutralizzare la domanda di restituzione del bene solamente mediante l’adozione di un atto formale

preordinato all’ acquisizione del bene medesimo - con corresponsione di quanto spettante a titolo risarcitorio -

ovvero con la speciale domanda giudiziale formulata nel giudizio in questione ai sensi dello stesso articolo 43.

Tanto premesso, questo Collegio, peraltro, non ignora che di recente le Sezioni Unite della Cassazione, con

ordinanza 13.01.2014, n. 441, hanno rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale

della norma di cui all’art. 42 bis del T.U. appr. con d.P.R. n. 327 del 2001, sotto diversi profili.

34

Cionondimeno il Collegio ritiene, tuttavia, che sia necessaria una pronuncia dell’Adunanza Plenaria in merito alla

questione che si intende sollevare, anche al fine di garantire il rispetto del principio di effettività della tutela

giurisdizionale e dell’autorità del giudicato, e, pertanto, il presente ricorso viene deferito all’esame dell’Adunanza

Plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, co. 1, c.p.a., al fine di comporre il contrasto giurisprudenziale

sopra menzionato, risolvendo il seguente quesito di diritto: se nella fase di ottemperanza - con giurisdizione,

quindi, estesa al merito - ad una sentenza avente ad oggetto una domanda demolitoria di atti concernenti una

procedura espropriativa, rientri o meno tra i poteri sostitutivi del giudice, e per esso, del commissario ad acta,

l’adozione della procedura semplificata di cui all’art. 42 bis cit..

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, ne

dispone il deferimento all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.

Manda alla segreteria della sezione per gli adempimenti di competenza, e, in particolare, per la trasmissione del fascicolo di

causa e della presente ordinanza al segretario incaricato di assistere all’Adunanza Plenaria.

Pubblico impiego

Corte di Giustizia, 26 novembre 2014

Sentenza

1 Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione delle clausole 4 e 5, punto 1,

dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 (in prosieguo:

l’«accordo quadro»), che figura nell’allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno

1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (GU L 175,

pag. 43), dell’articolo 2, paragrafi 1 e 2, della direttiva 91/533/CEE del Consiglio, del 14 ottobre 1991,

relativa all’obbligo del datore di lavoro di informare il lavoratore delle condizioni applicabili al

contratto o al rapporto di lavoro (GU L 288, pag. 32), del principio di leale cooperazione previsto

dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE nonché dei principi generali del diritto dell’Unione relativi alla

certezza del diritto, alla tutela del legittimo affidamento, all’uguaglianza delle armi nel processo,

all’effettiva tutela giurisdizionale, al diritto a un tribunale indipendente e a un equo processo, garantiti

dall’articolo 6, paragrafo 2, TUE, letto in combinato disposto con l’articolo 6 della Convenzione

europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4

novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»), e con gli articoli 46, 47 e 52, paragrafo 3, della Carta dei

diritti fondamentali dell’Unione europea.

2 Tali domande sono state presentate nell’ambito di controversie che vedono opposti la sig.ra Mascolo e

altri otto lavoratori, tutti membri del personale di scuole pubbliche, al proprio datore di lavoro, ossia,

per otto di essi, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, (in prosieguo: il

35

«Ministero») e, per l’ultimo, il Comune di Napoli, in merito alla qualificazione dei contratti di lavoro

che li legavano a tali datori di lavoro.

Contesto normativo

Il diritto dell’Unione

La direttiva 1999/70

3 La direttiva 1999/70 è fondata sull’articolo 139, paragrafo 2, CE e, ai sensi del suo articolo 1, è diretta

ad «attuare l’accordo quadro (…), che figura nell’allegato, concluso (…) fra le organizzazioni

intercategoriali a carattere generale [Confederazione europea dei sindacati (CES), Unione delle

confederazioni dell’industria e dei datori di lavoro dell’Europa (UNICE), Centro europeo delle

imprese a partecipazione pubblica (CEEP)]».

4 La clausola 1 dell’accordo quadro così recita:

«L’obiettivo del presente accordo quadro è:

a) migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non

discriminazione;

b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una

successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato».

5 La clausola 2 dell’accordo quadro, intitolata «Campo d’applicazione», prevede quanto segue:

«1. Il presente accordo si applica ai lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o

un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di

ciascuno Stato membro.

2. Gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali e/o le parti sociali stesse possono

decidere che il presente accordo non si applichi ai:

a) rapporti di formazione professionale iniziale e di apprendistato;

b) contratti e rapporti di lavoro definiti nel quadro di un programma specifico di formazione,

inserimento e riqualificazione professionale pubblico o che usufruisca di contributi

pubblici».

6 La clausola 3 dell’accordo quadro, intitolata «Definizioni», così prevede:

36

1. Ai fini del presente accordo, il termine “lavoratore a tempo determinato” indica una persona con

un contratto o un rapporto di lavoro definiti direttamente fra il datore di lavoro e il lavoratore e

il cui termine è determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il

completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico.

(…)».

7 La clausola 4 dell’accordo quadro, intitolata «Principio di non discriminazione», prevede, al suo punto

1, quanto segue:

«Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere

trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di

avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni

oggettive».

8 Ai sensi della clausola 5 dell’accordo quadro, intitolata «Misure di prevenzione degli abusi»:

«1. Per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro

a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle

leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno

introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che

tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure

relative a:

a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti;

b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;

c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.

2. Gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, e/o le parti sociali stesse dovranno, se

del caso, stabilire a quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato:

a) devono essere considerati “successivi”;

b) devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato».

La direttiva 91/533

9 L’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 91/533 così recita:

«Il datore di lavoro è tenuto a comunicare al lavoratore subordinato cui si applica la presente direttiva,

in appresso denominato “lavoratore”, gli elementi essenziali del contratto o del rapporto di lavoro».

37

10 Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera e), della citata direttiva, l’informazione al lavoratore, se si

tratta di un contratto o di un rapporto di lavoro temporaneo, riguarda, tra l’altro, la «durata prevedibile

del contratto o del rapporto di lavoro».

Il diritto italiano

11 L’articolo 117, primo comma, della Costituzione della Repubblica italiana prevede che «[l]a potestà

legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli

derivanti dal [diritto dell’Unione] e dagli obblighi internazionali».

12 In Italia, il ricorso a contratti a tempo determinato nel settore pubblico è disciplinato dal decreto

legislativo del 30 marzo 2001, n. 165, recante norme generali sull’ordinamento del lavoro alle

dipendenze delle amministrazioni pubbliche (supplemento ordinario alla GURI n. 106, del 9 maggio

2001; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 165/2001»).

13 L’articolo 36, comma 5, di tale decreto, come modificato dalla legge del 3 agosto 2009, n. 102,

relativa alla conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge del 1º luglio 2009, n. 78,

recante provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni

internazionali (supplemento ordinario alla GURI n. 179 del 4 agosto 2009), intitolato «Forme

contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale» dispone quanto segue:

«In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di

lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di

lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni

responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla

prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative (…)».

14 Secondo le ordinanze di rinvio, il lavoro a tempo determinato nella pubblica amministrazione è altresì

soggetto al decreto legislativo del 6 settembre 2001, n. 368, recante attuazione della direttiva

1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal

CEEP e dal CES (GURI n. 235, del 9 ottobre 2001; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 368/2001»).

15 L’articolo 5, comma 4 bis, di tale decreto legislativo è formulato come segue:

«Ferma restando la disciplina della successione di contratti di cui ai commi precedenti, e fatte salve

diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le

organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, qualora per effetto

di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro

fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi

comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra

un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato (…)».

38

16 Ai sensi dell’articolo 10, comma 4 bis, di detto decreto legislativo, come modificato dall’articolo 9,

comma 18, del decreto legge del 13 maggio 2011, n. 70 (in prosieguo: il «decreto legge n. 70/2011»),

convertito in legge del 12 luglio 2011, n. 106 (GURI n. 160, del 12 luglio 2011):

«(…) sono altresì esclusi dall’applicazione del presente decreto i contratti a tempo determinato

stipulati per il conferimento delle supplenze del personale docente ed ATA [amministrativo, tecnico ed

ausiliario], considerata la necessità di garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed

educativo anche in caso di assenza temporanea del personale docente ed ATA con rapporto di lavoro a

tempo indeterminato ed anche determinato. In ogni caso non si applica l’articolo 5, comma 4-bis, del

presente decreto».

17 Per quanto riguarda il personale docente e amministrativo, tecnico ed ausiliario, la disciplina del

rapporto di lavoro a tempo determinato è contenuta nell’articolo 4 della legge del 3 maggio 1999

n. 124, recante disposizioni urgenti in materia di personale scolastico (GURI n. 107, del 10 maggio

1999), come modificata dal decreto legge del 25 settembre 2009 n. 134, convertito, con modificazioni,

dalla legge del 24 novembre 2009 n. 167 (GURI n. 274, del 24 novembre 1999; in prosieguo: la

«legge n. 124/1999»). Secondo il giudice del rinvio nelle cause C-22/13 e da C-61/13 a C-63/13, è

pacifico che tale legge si applica solo alla scuola statale. Detta legge non si applica, invece, alla scuola

comunale, che resta soggetta ai decreti legislativi n. 165/2001 e n. 368/2001.

18 Ai sensi dell’articolo 4 della legge n. 124/1999:

«1. Alla copertura delle cattedre e dei posti di insegnamento che risultino effettivamente vacanti e

disponibili entro la data del 31 dicembre e che rimangano prevedibilmente tali per l’intero anno

scolastico, qualora non sia possibile provvedere con il personale docente di ruolo delle dotazioni

organiche provinciali o mediante l’utilizzazione del personale in soprannumero, e sempreché ai posti

medesimi non sia stato già assegnato a qualsiasi titolo personale di ruolo, si provvede mediante il

conferimento di supplenze annuali, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per

l’assunzione di personale docente di ruolo.

2. Alla copertura delle cattedre e dei posti di insegnamento non vacanti che si rendano di fatto

disponibili entro la data del 31 dicembre e fino al termine dell’anno scolastico si provvede mediante il

conferimento di supplenze temporanee fino al termine delle attività didattiche. Si provvede parimenti

al conferimento di supplenze temporanee fino al termine delle attività didattiche per la copertura delle

ore di insegnamento che non concorrono a costituire cattedre o posti orario.

3. Nei casi diversi da quelli previsti ai commi 1 e 2 si provvede con supplenze temporanee.

(…)

39

6. Per il conferimento delle supplenze annuali e delle supplenze temporanee sino al termine delle

attività didattiche si utilizzano le graduatorie permanenti di cui all’articolo 401 del testo unico, come

sostituito dal comma 6 dell’articolo 1 della presente legge.

(...)

11. Le disposizioni di cui ai precedenti commi si applicano anche al personale amministrativo,

tecnico ed ausiliario (ATA) (…)

(…)

14 bis. I contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze previste dai commi

1, 2 e 3, in quanto necessari per garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo,

possono trasformarsi in rapporti di lavoro a tempo indeterminato solo nel caso di immissione in ruolo,

ai sensi delle disposizioni vigenti e sulla base delle graduatorie (…)».

19 Ai sensi dell’articolo 1 del decreto del Ministero della pubblica istruzione del 13 giugno 2007, n. 131

(in prosieguo: il «decreto n. 131/2007»), gli incarichi dei docenti e del personale amministrativo,

tecnico ed ausiliario della scuola statale sono di tre tipi:

– supplenze annuali, su posti vacanti e disponibili, in quanto privi di titolare;

– supplenze temporanee fino al termine delle attività didattiche, su posti non vacanti, ma

ugualmente disponibili;

– supplenze temporanee per ogni altra necessità, ossia supplenze brevi.

20 L’immissione in ruolo di cui all’articolo 4, comma 14 bis, della legge n. 124/1999 è disciplinata dagli

articoli 399 e 401 del decreto legislativo del 16 aprile 1994, n. 297, recante testo unico delle

disposizioni legislative in materia di istruzione (supplemento ordinario alla GURI n. 115 del 19

maggio 1994; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 297/1994»).

21 L’articolo 399, comma 1, di tale decreto così dispone:

«L’accesso ai ruoli del personale docente della scuola materna, elementare e secondaria, ivi compresi i

licei artistici e gli istituti d’arte, ha luogo, per il 50 per cento dei posti a tal fine annualmente

assegnabili, mediante concorsi per titoli ed esami e, per il restante 50 per cento, attingendo alle

graduatorie permanenti di cui all’art. 401».

22 L’articolo 401, commi 1 e 2, di tale decreto stabilisce quanto segue:

«1. Le graduatorie relative ai concorsi per soli titoli del personale docente della scuola materna,

elementare e secondaria, ivi compresi i licei artistici e gli istituti d’arte, sono trasformate in

graduatorie permanenti, da utilizzare per le assunzioni in ruolo di cui all’art. 399, comma 1.

40

2. Le graduatorie permanenti di cui al comma 1 sono periodicamente integrate con l’inserimento

dei docenti che hanno superato le prove dell’ultimo concorso regionale per titoli ed esami, per la

medesima classe di concorso e il medesimo posto, e dei docenti che hanno chiesto il trasferimento

dalla corrispondente graduatoria permanente di altra provincia. Contemporaneamente all’inserimento

dei nuovi aspiranti è effettuato l’aggiornamento delle posizioni di graduatoria di coloro che sono già

compresi nella graduatoria permanente».

Procedimenti principali e questioni pregiudiziali

Le cause C-22/13 e da C-61/13 a C-63/13

23 Le sig.re Mascolo, Forni, Racca e Russo sono state assunte mediante contratti di lavoro a tempo

determinato stipulati in successione, le prime tre in qualità di docenti presso il Ministero e l’ultima in

qualità di educatrice in asili nido e in scuole materne presso il Comune di Napoli. In forza di tali

contratti, esse hanno lavorato per i propri rispettivi datori di lavoro per i seguenti periodi: 71 mesi su

un periodo di 9 anni per la sig.ra Mascolo (tra il 2003 e il 2012); 50 mesi e 27 giorni su un periodo di 5

anni per la sig.ra Forni (tra il 2006 e il 2011); 60 mesi su un periodo di 5 anni per la sig.ra Racca (tra il

2007 e il 2012), e 45 mesi e 15 giorni su un periodo di 5 anni per la sig.ra Russo (tra il 2006 e il 2011).

24 Ritenendo illegittimi tali contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione, le ricorrenti

nei procedimenti principali hanno adito il Tribunale di Napoli chiedendo, in via principale, la

trasformazione di tali contratti a tempo determinato in rapporti di lavoro a tempo indeterminato e,

pertanto, la loro immissione in ruolo, nonché il pagamento degli stipendi corrispondenti ai periodi di

interruzione tra la scadenza di un contratto a tempo determinato e l’entrata in vigore di quello

successivo e, in subordine, il risarcimento del danno subito.

25 Essendo stata immessa in ruolo nel corso del procedimento in virtù del suo avanzamento nella

graduatoria permanente, la sig.ra Racca ha modificato il suo ricorso originario in domanda di pieno

riconoscimento dell’anzianità di servizio e di risarcimento del danno subito.

26 Secondo il Ministero e il Comune di Napoli, al contrario, l’articolo 36, comma 5, del decreto

legislativo n. 165/2001 vieta qualsiasi riqualificazione del rapporto di lavoro. L’articolo 5, comma

4 bis, del decreto legislativo n. 368/2001 non sarebbe applicabile, tenuto conto dell’articolo 10,

comma 4 bis, dello stesso decreto, introdotto dall’articolo 9, comma 18, del decreto legge n. 70/2011.

Peraltro, le ricorrenti nei procedimenti principali non avrebbero nemmeno diritto al risarcimento del

danno, visto che la procedura di assunzione era legittima e che comunque non sussistevano gli

elementi costitutivi di un illecito. Infine, poiché i contratti a tempo determinato non erano connessi gli

uni agli altri e non costituivano pertanto né il proseguimento né la proroga dei contratti precedenti, non

sussisterebbe alcun abuso.

41

27 Investito di tale ricorso, il Tribunale di Napoli indica, in primo luogo, che la normativa nazionale di

cui trattasi nei procedimenti principali, contrariamente a quanto dichiarato dalla Corte suprema di

cassazione nella sentenza n. 10127/12, è contraria alla clausola 5 dell’accordo quadro.

28 Tale normativa, infatti, non contemplerebbe alcuna misura di prevenzione ai sensi del punto 1, lettera

a), di detta clausola, poiché non consentirebbe di verificare concretamente, in modo obiettivo e

trasparente, l’esistenza di un’esigenza reale di sostituzione temporanea e autorizzerebbe, come

previsto esplicitamente dall’articolo 4, comma 1, della legge n. 124/1999, il rinnovo di contratti di

lavoro a tempo determinato a copertura di posti effettivamente vacanti. Orbene, tale normativa non

contemplerebbe neppure misure di prevenzione ai sensi del punto 1, lettera b), di detta clausola.

Infatti, l’articolo 10, comma 4 bis, del decreto legislativo n. 368/2001 escluderebbe d’ora in avanti

l’applicazione alle scuole statali dell’articolo 5, comma 4-bis, del suddetto decreto, che prevede che i

contratti di lavoro a tempo determinato di durata superiore a 36 mesi siano trasformati in contratti di

lavoro a tempo indeterminato. Inoltre, tale normativa non conterrebbe alcuna misura di prevenzione ai

sensi del punto 1, lettera c), della medesima clausola.

29 Peraltro, non sarebbe prevista alcuna misura sanzionatoria, poiché i contratti di lavoro a tempo

determinato non potrebbero essere trasformati in contratti di lavoro a tempo indeterminato, secondo

l’articolo 4, comma 14 bis, della legge n. 124/1999, se non in caso di immissione in ruolo sulla base

delle graduatorie. Inoltre, sarebbe altresì escluso il diritto al risarcimento del danno causato dalla

successione di contratti di lavoro a tempo determinato. Secondo la sentenza n. 10127/12 della Corte

suprema di cassazione, infatti, l’articolo 36, comma 5, del decreto legislativo n. 165/2001, che

prevede, in linea di principio, un siffatto diritto nel settore pubblico, non è applicabile qualora i

contratti di lavoro a tempo determinato successivi abbiano superato il limite massimo di 36 mesi

previsto dall’articolo 5, comma 4 bis, del decreto legislativo n. 368/2001.

30 In secondo luogo, il giudice del rinvio, osservando che solo la scuola statale ha la facoltà di assumere

personale a tempo determinato senza essere soggetta ai limiti previsti dal decreto legislativo

n. 368/2001, comportando così una distorsione della concorrenza a danno della scuola privata, si

chiede se la scuola statale rientri nella nozione di «settori e/o categorie specifici di lavoratori» ai sensi

della clausola 5 dell’accordo quadro, che giustificano un regime distinto di prevenzione e di sanzioni

per il ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.

31 In terzo luogo, tale giudice si interroga sulla conformità della normativa nazionale di cui trattasi

rispetto alla clausola 4 dell’accordo quadro, nei limiti in cui essa prevede che un lavoratore del settore

pubblico illegittimamente assunto a tempo determinato, a differenza di un lavoratore assunto a tempo

indeterminato illegittimamente licenziato, non abbia diritto al risarcimento del danno subito.

32 In quarto luogo, tale giudice, osservando che, nella causa che ha dato luogo all’ordinanza Affatato

(C-3/10, EU:C:2010:574), il governo italiano ha sostenuto che l’articolo 5, comma 4 bis, del decreto

legislativo n. 368/2001 è applicabile al settore pubblico, mentre la Corte suprema di cassazione ha

42

dichiarato il contrario nella sua sentenza n. 10127/12, si chiede se, in considerazione del principio di

leale cooperazione, tale erronea interpretazione del diritto nazionale da parte del governo non si debba

più imporre ai giudici nazionali, rafforzando così il loro obbligo di procedere a un’interpretazione

conforme al diritto dell’Unione.

33 In quinto luogo, il Tribunale di Napoli si interroga sulla questione se la possibilità di trasformazione di

un contratto di lavoro a tempo determinato in contratto di lavoro a tempo indeterminato, prevista

dall’articolo 5, comma 4 bis, del decreto legislativo n. 368/2001, rientri nelle informazioni di cui

all’articolo 2, paragrafi 1 e 2, lettera e), della direttiva 91/533 che il datore di lavoro è tenuto a

comunicare al lavoratore e, in caso affermativo, se l’esclusione retroattiva dell’applicazione di tale

articolo 5, comma 4 bis, alla scuola statale tramite il decreto legge n. 70/2011 sia conforme a detta

direttiva.

34 Infine, in sesto luogo, il giudice del rinvio si chiede se una siffatta modifica con efficacia retroattiva

della normativa nazionale, che ha avuto come conseguenza di privare il personale della scuola statale

di un diritto di cui godeva al momento dell’assunzione, sia compatibile con i principi generali del

diritto dell’Unione.

35 In tali circostanze, il Tribunale di Napoli ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla

Corte le seguenti questioni pregiudiziali, di cui la settima è stata sollevata unicamente nelle cause

C-61/13 e C-62/13, mentre, nella causa C-63/13, sono state sollevate unicamente la seconda, la terza e

la quarta questione, le quali costituiscono la prima, la seconda e la terza questione di tale ultima causa:

«1) Se il contesto normativo del settore scuola, come descritto, costituisca misura equivalente ai

sensi della clausola 5 della direttiva [1999/70].

2) Quando debba ritenersi che un rapporto di lavoro sia alle dipendenze dello “Stato”, ai sensi della

clausola 5 della direttiva [1999/70] ed in particolare anche dell’inciso “settori e/o categorie

specifiche di lavoratori” e quindi sia atto a legittimare conseguenze differenti rispetto ai rapporti

di lavoro privati.

3) Se, tenuto conto delle esplicazioni di cui all’articolo 3, [paragrafo] 1, lettera c), della direttiva

2000/78/CE [del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la

parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU L 303, pag. 16)] ed

all’articolo 14, [paragrafo] 1, lettera c), della direttiva 2006/54/CE [del Parlamento europeo e

del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e

della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (GU L 204,

pag. 23)], nella nozione di condizioni di impiego di cui alla clausola 4 della direttiva [1999/70]

siano comprese anche le conseguenze dell’illegittima interruzione del rapporto di lavoro; [i]n

ipotesi di risposta positiva al quesito che precede, se la diversità tra le conseguenze

ordinariamente previste nell’ordinamento interno per la illegittima interruzione del rapporto di

43

lavoro a tempo indeterminato ed a tempo determinato siano giustificabili ai sensi della clausola

4 [della direttiva 1999/70].

4) Se, in forza del principio di leale cooperazione, ad uno Stato sia vietato rappresentare in un

procedimento pregiudiziale interpretativo alla Corte (…) un quadro normativo interno

volutamente non corrispondente al vero ed il giudice sia obbligato, in assenza di una diversa

interpretazione del diritto interno ugualmente satisfattiva degli obblighi derivanti dalla

appartenenza alla Unione europea, ad interpretare, ove possibile, il diritto interno

conformemente alla interpretazione offerta dallo Stato.

5) Se nelle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro previste dalla direttiva

[91/533] e segnatamente dall’articolo 2, [paragrafi] 1 e 2, [lettera] e), rientri la indicazione delle

ipotesi in cui il contratto di lavoro a termine si può trasformare in contratto a tempo

indeterminato.

6) In ipotesi di risposta positiva al quesito che precede se una modifica con efficacia retroattiva del

quadro normativo tale che non garantisca al lavoratore subordinato la possibilità di far valere i

suoi diritti derivanti dalla direttiva [91/533], ovvero il rispetto delle condizioni di lavoro

indicate nel documento di assunzione, sia contrari[a] all’articolo 8, [paragrafo] 1, della direttiva

[91/533] ed alle finalità di cui alla [stessa] ed in particolare al 2° “considerando”.

7) Se i principi generali del vigente diritto [dell’Unione] della certezza del diritto, della tutela del

legittimo affidamento, della uguaglianza delle armi del processo, dell’effettiva tutela

giurisdizionale, [del diritto] a un tribunale indipendente e, più in generale, a un equo processo,

garantiti dall’[articolo 6 TUE] (…) – in combinato disposto con l’articolo 6 della [CEDU], e

con gli artt. 46, 47 e 52, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (…) –

debbano essere interpretati nel senso di ostare, nell’ambito di applicazione della direttiva

[1999/70], all’emanazione da parte dello Stato italiano, dopo un arco temporale apprezzabile (3

anni e sei mesi), di una disposizione normativa, quale l’articolo 9 del decreto legge n. 70[/2011]

convertito con L. 12 luglio 2011, n. 106, [che] ha aggiunto il comma 4-bis all’articolo 10 del

[decreto legislativo n. 368/2001] – atta ad alterare le conseguenze dei processi in corso

danneggiando direttamente il lavoratore a vantaggio del datore di lavoro – [S]tato ed eliminando

la possibilità conferita dall’[o]rdinamento interno di sanzionare l’abusiva reiterazione di

contratti a termine».

36 Con ordinanza del presidente della Corte dell’8 marzo 2013, le cause C-22/13 e da C-61/13 a C-63/13

sono state riunite ai fini delle fasi scritta ed orale del procedimento, nonché della sentenza.

La causa C-418/13

44

37 Le sig.re Napolitano, Cittadino e Zangari nonché i sigg. Perrella e Romano sono stati assunti dal

Ministero mediante contratti di lavoro a tempo determinato successivi, i primi quattro in qualità di

docenti e l’ultimo in qualità di collaboratore amministrativo. Dagli elementi forniti alla Corte risulta

che, conformemente a tali contratti, essi hanno lavorato per i propri rispettivi datori di lavoro per i

seguenti periodi: 55 mesi su un periodo di 6 anni per la sig.ra Napolitano (tra il 2005 e il 2010), 100

mesi su un periodo di 10 anni per la sig.ra Cittadino (tra il 2002 e il 2012); 113 mesi su un periodo di

11 anni per la sig.ra Zangari (tra il 2001 e il 2012), 81 mesi su un periodo di 7 anni per la

sig.ra Perrella (tra il 2003 e il 2010) e 47 mesi su un periodo di 4 anni per il sig. Romano (tra il 2007 e

il 2011).

38 Ritenendo illegittime tali assunzioni a tempo determinato successive, i ricorrenti nei procedimenti

principali hanno adito, rispettivamente, il Tribunale di Roma e il Tribunale di Lamezia Terme,

chiedendo, in via principale, la conversione dei loro rispettivi contratti in contratti di lavoro a tempo

indeterminato e, di conseguenza, la loro immissione in ruolo e il pagamento delle retribuzioni

corrispondenti ai periodi di interruzione tra la scadenza di un contratto a tempo determinato e l’entrata

in vigore di quello successivo. In subordine, i ricorrenti nel procedimento principale hanno chiesto

altresì il risarcimento del danno subito.

39 Nell’ambito delle controversie di cui sono stati investiti, il Tribunale di Roma e il Tribunale di

Lamezia Terme si sono interrogati sulla compatibilità dell’articolo 4, commi 1 e 11, della legge

n. 124/1999 con la clausola 5 dell’accordo quadro, in quanto tale disposizione consente

all’amministrazione di assumere, senza limiti, a tempo determinato, personale docente, tecnico o

amministrativo al fine di coprire posti vacanti nell’organico di una scuola. Ritenendo di non poter

decidere tale questione né attraverso un’interpretazione conforme, essendo la suddetta disposizione

formulata in maniera non equivoca, né tramite la sua disapplicazione, essendo detta clausola 5 priva di

effetto diretto, tali giudici hanno sottoposto alla Corte costituzionale, in via incidentale, una questione

di legittimità costituzionale vertente sull’articolo 4, commi 1 e 11, della legge n. 124/1999 per

violazione dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione della Repubblica italiana, letto in

combinato disposto con la clausola 5 dell’accordo quadro.

40 Nella sua ordinanza di rinvio, la Corte costituzionale constata che la normativa nazionale applicabile

alla scuola statale non prevede, per quanto riguarda il personale assunto a tempo determinato, né una

durata massima totale dei contratti di lavoro a tempo determinato successivi, né l’indicazione del

numero massimo dei loro rinnovi, ai sensi della clausola 5, punto 1, lettere b) e c), dell’accordo

quadro. Tale giudice si chiede tuttavia se detta normativa non possa essere giustificata da una «ragione

obiettiva» ai sensi del punto 1, lettera a), della suddetta clausola.

41 Secondo il giudice del rinvio, la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale è

strutturata, almeno in via di principio, in modo tale che l’assunzione di personale con contratto di

lavoro a tempo determinato possa soddisfare una siffatta ragione obiettiva. Il servizio scolastico

45

sarebbe, infatti, «attivabile su domanda», nel senso che il diritto fondamentale allo studio previsto

dalla Costituzione della Repubblica italiana implica che lo Stato non può rifiutarsi di erogarlo e, di

conseguenza, che esso è tenuto ad organizzarlo in modo da poterlo adattare costantemente alle

evoluzioni della popolazione scolastica. Tale insita esigenza di flessibilità renderebbe indispensabile

l’assunzione di un numero significativo di docenti e di personale delle scuole statali con contratti di

lavoro a tempo determinato. Peraltro, il sistema delle graduatorie permanenti, associato a quello dei

concorsi pubblici, garantirebbe il rispetto di criteri oggettivi al momento dell’assunzione di personale

mediante siffatti contratti di lavoro a tempo determinato e consentirebbe allo stesso personale di avere

una possibilità ragionevole di diventare di ruolo in un posto permanente.

42 La Corte costituzionale rileva tuttavia che l’articolo 4, comma 1, della legge n. 124/1999, sebbene non

preveda il rinnovo reiterato di contratti di lavoro a tempo determinato e non escluda il diritto al

risarcimento del danno, consente di provvedere a supplenze annuali per posti vacanti e disponibili «in

attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale docente di ruolo».

Orbene, le procedure concorsuali sarebbero state interrotte tra il 2000 e il 2011. Tale disposizione

potrebbe così configurare la possibilità di un rinnovo dei contratti a tempo determinato senza la

previsione di tempi certi per lo svolgimento dei concorsi. Tale circostanza, combinata all’assenza di

disposizioni che riconoscano il diritto al risarcimento del danno al personale delle scuole statali che sia

stato indebitamente assoggettato a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato,

potrebbe porsi in conflitto con la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro.

43 In tali circostanze, la Corte costituzionale ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla

Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) Se la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro (...) debba essere interpretata nel senso che osta

all’applicazione dell’articolo 4, commi 1, ultima proposizione, e 11, della legge [n. 124/1999] –

i quali, dopo aver disciplinato il conferimento di supplenze annuali su posti “che risultino

effettivamente vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre”, dispongono che si provvede

mediante il conferimento di supplenze annuali, “in attesa dell’espletamento delle procedure

concorsuali per l’assunzione di personale docente di ruolo” – disposizione la quale consente che

si faccia ricorso a contratti a tempo determinato senza indicare tempi certi per l’espletamento

dei concorsi e in una condizione che non prevede il diritto al risarcimento del danno;

2) Se costituiscano ragioni obiettive, ai sensi della clausola 5, punto 1, dell’[accordo quadro], le

esigenze di organizzazione del sistema scolastico italiano come sopra delineato, tali da rendere

compatibile con il diritto dell’Unione europea una normativa come quella italiana che per

l’assunzione del personale scolastico a tempo determinato non prevede il diritto al risarcimento

del danno».

46

44 Con decisione della Corte dell’11 febbraio 2014, le cause C-22/13 e da C-61/13 a C-63/13 nonché la

causa C-418/13 sono state riunite ai fini delle fasi scritta ed orale del procedimento, nonché della

sentenza.

Sulle questioni pregiudiziali

45 Con le loro questioni, i giudici del rinvio interrogano la Corte sull’interpretazione, rispettivamente,

della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro (prima e seconda questione nelle cause C-22/13,

C-61/13 e C-62/13, prima questione nella causa C-63/13 nonché prima e seconda questione nella

causa C-418/13), della clausola 4 di tale accordo quadro (terza questione nelle cause C-22/13, C-61/13

e C-62/13 nonché seconda questione nella causa C-63/13), del principio di leale cooperazione (quarta

questione nelle cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13 nonché terza questione nella causa C-63/13), della

direttiva 91/533 (quinta e sesta questione nelle cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13), nonché di

numerosi principi generali del diritto dell’Unione (settima questione nelle cause C-61/13 e C-62/13).

Sulla ricevibilità

46 Il Comune di Napoli fa valere che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta dal Tribunale di

Napoli nella causa C-63/13 non è necessaria per la decisione della controversia principale e che,

pertanto, la domanda pregiudiziale in tale causa è irricevibile nel suo complesso. Tale giudice avrebbe

esso stesso indicato nella sua ordinanza di rinvio di ritenere che, alla luce della giurisprudenza della

Corte relativa all’accordo quadro, le misure adottate dal legislatore nazionale per la sua trasposizione

siano insufficienti. Spetterebbe, pertanto, a detto giudice decidere la controversia di cui al

procedimento principale facendo ricorso all’interpretazione conforme del diritto nazionale rispetto al

diritto dell’Unione.

47 Si deve, tuttavia, ricordare che, secondo una giurisprudenza costante, nell’ambito della cooperazione

tra la Corte e i giudici nazionali istituita dall’articolo 267 TFUE, spetta soltanto al giudice nazionale,

cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione

giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze della causa, sia la necessità di una

pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emettere la propria sentenza, sia la rilevanza delle

questioni che sottopone alla Corte (sentenza Rosado Santana, C-177/10, EU:C:2011:557, punto 32 e

giurisprudenza ivi citata).

48 Come la Corte ha ripetutamente dichiarato, i giudici nazionali hanno, a tale riguardo, la più ampia

facoltà di adire la Corte qualora ritengano che una causa dinanzi ad essi pendente faccia sorgere

questioni che richiedono un’interpretazione delle disposizioni del diritto dell’Unione (v., in

particolare, sentenze Križan e a., C-416/10, EU:C:2013:8, punto 64, nonché Ogieriakhi, C-244/13,

EU:C:2014:2068, punto 52).

47

49 Ne consegue che l’esistenza di una giurisprudenza consolidata su un punto di diritto dell’Unione,

sebbene possa portare la Corte ad adottare un’ordinanza ai sensi dell’articolo 99 del suo regolamento

di procedura, non può assolutamente compromettere la ricevibilità di un rinvio pregiudiziale nel caso

in cui un giudice nazionale decida, nell’ambito di tale potere discrezionale, di adire la Corte ai sensi

dell’articolo 267 TFUE.

50 Ciò posto, va ricordato, altresì, che, secondo costante giurisprudenza, la Corte può rifiutare di

pronunciarsi su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale, qualora risulti

manifestamente che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta non abbia alcuna relazione con

l’effettività o con l’oggetto del giudizio principale oppure qualora il problema sia di natura ipotetica,

oppure nel caso in cui la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire

una soluzione utile alle questioni che le vengono sottoposte (v., in particolare, sentenza Érsekcsanádi

Mezőgazdasági, C-56/13, EU:C:2014:352, punto 36 e giurisprudenza ivi citata).

51 Nel caso di specie, si deve osservare che, nella causa C-63/13, il giudice del rinvio sottopone alla

Corte tre questioni pregiudiziali identiche alla seconda, terza e quarta questione già sollevate nelle

cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13.

52 Tuttavia, dall’ordinanza di rinvio nella causa C-63/13 risulta che il contesto sia di fatto che di diritto

relativo a tale causa è distinto da quello di cui trattasi nelle altre tre cause, poiché, secondo il giudice

del rinvio, la sig.ra Russo, in qualità di educatrice impiegata in asili nido e in scuole materne

comunali, non è soggetta, a differenza delle sig.re Mascolo, Forni e Racca, nonché, del resto, dei

ricorrenti nel procedimento principale nella causa C-418/13, alla normativa nazionale applicabile alla

scuola statale risultante dalla legge n. 124/1999, ma resta sottoposta alla normativa generale prevista,

in particolare, dal decreto legislativo n. 368/2001.

53 In tali circostanze, risulta che la prima questione sollevata nella causa C-63/13, vertente, come nelle

cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13, sulla conformità alla clausola 5 dell’accordo quadro della

normativa nazionale prevista dalla legge n. 124/1999, nei limiti in cui quest’ultima consente allo Stato

di assumere personale nelle scuole da esso gestite con contratti di lavoro a tempo determinato, senza

essere soggetto, a differenza delle scuole private, ai limiti posti dal decreto legislativo n. 368/2001, è

irrilevante ai fini della decisione della controversia di cui al procedimento principale nella causa

C-63/13 e ha, pertanto, natura ipotetica.

54 Lo stesso vale anche per la seconda questione sollevata in tale causa, diretta sostanzialmente a sapere

se la normativa nazionale di cui trattasi, come risulta in particolare dall’articolo 36, comma 5, del

decreto legislativo n. 165/2001, sia conforme alla clausola 4 dell’accordo quadro, nei limiti in cui detta

normativa esclude, nel settore pubblico, il diritto al risarcimento del danno in caso di ricorso abusivo a

una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.

55 Lo stesso Tribunale di Napoli, infatti, constata, nella sua ordinanza di rinvio nella causa C-63/13, che

la ricorrente nel procedimento principale beneficia, a differenza delle ricorrenti nei procedimenti

48

principali nelle cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13, dell’applicazione dell’articolo 5, comma 4 bis, del

decreto legislativo n. 368/2001, disposizione che prevede la trasformazione dei contratti a tempo

determinato successivi di durata superiore a 36 mesi in contratto di lavoro a tempo indeterminato. Da

tale constatazione detto giudice rileva, giustamente, che la citata disposizione costituisce una misura

che, nei limiti in cui previene il ricorso abusivo a siffatti contratti e implica l’eliminazione definitiva

delle conseguenze dell’abuso, è conforme ai requisiti derivanti dal diritto dell’Unione (v., in

particolare, sentenza Fiamingo e a., C-362/13, C-363/13 e C-407/13, EU:C:2014:2044, punti 69 e 70,

nonché giurisprudenza ivi citata).

56 Si deve constatare che detto giudice non spiega assolutamente in che modo, in siffatte circostanze, la

sua seconda questione nella causa C-63/13 sia ancora rilevante per pronunciarsi, nella controversia di

cui al procedimento principale, sulla conformità della normativa nazionale di cui trattasi al diritto

dell’Unione.

57 In ogni caso, dall’ordinanza di rinvio non risulta assolutamente in che modo un lavoratore che benefici

di una siffatta trasformazione, la cui domanda di risarcimento è, peraltro, presentata in via subordinata,

subisca, al pari dei lavoratori che si trovino nella situazione delle ricorrenti nei procedimenti

all’origine delle cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13, che sono esclusi dall’applicazione di tale articolo

5, comma 4 bis, un danno che dia diritto al risarcimento.

58 In tali circostanze, si deve ritenere che anche la seconda questione sollevata nella causa C-63/13 sia di

natura ipotetica.

59 Il Comune di Napoli, il governo italiano e la Commissione europea, inoltre, mettono in discussione la

ricevibilità della quarta questione nelle cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13 nonché della terza questione

nella causa C-63/13, per il motivo, sostanzialmente, che la risposta a tali questioni è, in tutto o in parte,

irrilevante ai fini delle controversie di cui ai procedimenti principali.

60 Si deve osservare che tali questioni, la cui formulazione è identica, si fondano, come già constatato al

punto 32 della presente sentenza, sulla premessa in forza della quale l’interpretazione del diritto

nazionale apportata dal governo italiano nella causa che ha dato luogo all’ordinanza Affatato

(EU:C:2010:574, punto 48), secondo cui l’articolo 5, comma 4 bis, del decreto legislativo n. 368/2001

è applicabile al settore pubblico, è erronea e, pertanto, integra una violazione da parte dello Stato

membro interessato del principio di leale cooperazione.

61 Tale interpretazione, come risulta dai punti 14 e 15 della presente sentenza, corrisponde tuttavia

pienamente all’interpretazione apportata nel caso di specie dal Tribunale di Napoli, e alla luce della

quale, secondo una giurisprudenza costante, la Corte deve effettuare l’esame dei presenti rinvii

pregiudiziali (v., in particolare, sentenza Pontin, C-63/08, EU:C:2009:666, punto 38). Tale giudice

indica, infatti esplicitamente nelle sue ordinanze di rinvio che, a suo avviso, il legislatore nazionale

non ha inteso escludere l’applicazione di detto articolo 5, comma 4 bis, al settore pubblico.

49

62 Inoltre, come risulta dal punto 28 della presente sentenza, lo stesso giudice del rinvio ritiene, cosa che

rientra nella sua competenza esclusiva, che l’articolo 5, comma 4 bis, del decreto legislativo

n. 368/2001, sebbene si applichi al settore pubblico, non sia applicabile alla scuola statale, di modo

che tale disposizione non è rilevante ai fini delle controversie principali nelle cause C-22/13, C-61/13

e C-62/13.

63 Ne consegue che la quarta questione nelle cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13 nonché la terza questione

nella causa C-63/13 sono ipotetiche.

64 Alla luce di tutto quanto precede, si deve rilevare che la domanda di pronuncia pregiudiziale nella

causa C-63/13, nel suo complesso, nonché la quarta questione nelle cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13

sono, conformemente alla giurisprudenza ricordata al punto 50 della presente sentenza, irricevibili.

Nel merito

65 Con la prima questione nelle cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13 nonché con le due questioni nella

causa C-418/13, che occorre esaminare congiuntamente, i giudici del rinvio intendono, in sostanza,

sapere se la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro debba essere interpretata nel senso che osta a una

normativa nazionale, quale quella di cui ai procedimenti principali, che autorizzi, in attesa

dell’espletamento di procedure concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il

rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di

docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per

l’espletamento di tali concorsi ed escludendo qualsiasi possibilità, per tali docenti e detto personale, di

ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo.

Sull’ambito di applicazione dell’accordo quadro

66 Il governo ellenico fa valere che è inopportuno che il settore dell’insegnamento sia soggetto alle

disposizioni dell’accordo quadro relative al ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a

tempo determinato. Tale settore si caratterizzerebbe, infatti dall’esistenza di «esigenze (…) specifiche»

ai sensi della clausola 5, punto 1, di tale accordo quadro, poiché l’insegnamento è volto a garantire il

rispetto del diritto allo studio ed è indispensabile al buon funzionamento del sistema scolastico.

67 A tale proposito va ricordato che, dalla formulazione stessa della clausola 2, punto 1, dell’accordo

quadro, risulta che l’ambito di applicazione di quest’ultimo è concepito in senso ampio, poiché

riguarda in generale i «lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di

lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno Stato

membro». Inoltre, la definizione della nozione di «lavoratore a tempo determinato» ai sensi

dell’accordo quadro, enunciata alla clausola 3, punto 1, di quest’ultimo, include tutti i lavoratori, senza

operare distinzioni basate sulla natura pubblica o privata del loro datore di lavoro e a prescindere dalla

50

qualificazione del loro contratto in diritto interno (v. sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punti

28 e 29 nonché giurisprudenza ivi citata).

68 Pertanto, l’accordo quadro si applica all’insieme dei lavoratori che forniscono prestazioni retribuite

nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo determinato che li lega al loro datore di lavoro, purché

questi siano vincolati da un contratto di lavoro ai sensi del diritto nazionale, e fatto salvo soltanto il

margine di discrezionalità conferito agli Stati membri dalla clausola 2, punto 2, dell’accordo quadro

per quanto attiene all’applicazione di quest’ultimo a talune categorie di contratti o di rapporti di lavoro

nonché all’esclusione, conformemente al quarto comma del preambolo dell’accordo quadro, dei

lavoratori interinali (v. sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punti da 30 a 33 nonché

giurisprudenza ivi citata).

69 Ne consegue che l’accordo quadro non esclude nessun settore particolare dalla sua sfera

d’applicazione e che, pertanto, è applicabile al personale assunto nel settore dell’insegnamento (v., in

tal senso, sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 38).

70 Tale conclusione è avvalorata dal contenuto della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, da cui si

ricava che, conformemente al terzo comma del preambolo dell’accordo quadro nonché ai punti 8 e 10

delle sue considerazioni generali, è nell’ambito dell’attuazione di detto accordo quadro che gli Stati

membri hanno facoltà, in quanto ciò sia oggettivamente giustificato, di tener conto delle esigenze

particolari relative ai settori di attività e/o alle categorie specifici di lavoratori in questione (sentenza

Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 39).

71 Ne deriva che lavoratori che si trovino nella situazione dei ricorrenti nei procedimenti principali,

assunti in qualità di docenti o di collaboratori amministrativi per effettuare supplenze annuali in scuole

statali nell’ambito di contratti di lavoro ai sensi del diritto nazionale, che incontestabilmente non

rientrano in rapporti di lavoro che possano essere esclusi dall’ambito di applicazione dell’accordo

quadro, sono soggetti alle disposizioni dello stesso, e in particolare, alla sua clausola 5 (v., per

analogia, sentenza Márquez Samohano, C-190/13, EU:C:2014:146, punto 39).

Sull’interpretazione della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro

72 Occorre ricordare che la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro mira ad attuare uno degli obiettivi

perseguiti dallo stesso, vale a dire limitare il ricorso a una successione di contratti o rapporti di lavoro

a tempo determinato, considerato come una potenziale fonte di abuso in danno dei lavoratori,

prevedendo un certo numero di disposizioni di tutela minima tese ad evitare la precarizzazione della

situazione dei lavoratori dipendenti (v., in particolare, sentenze Adeneler e a., C-212/04,

EU:C:2006:443, punto 63; Kücük, C-586/10, EU:C:2012:39, punto 25, nonché Fiamingo e a.,

EU:C:2014:2044, punto 54).

73 Come risulta dal secondo comma del preambolo dell’accordo quadro, così come dai punti 6 e 8 delle

considerazioni generali di detto accordo quadro, infatti, il beneficio della stabilità dell’impiego è

51

inteso come un elemento portante della tutela dei lavoratori, mentre soltanto in alcune circostanze i

contratti di lavoro a tempo determinato sono atti a rispondere alle esigenze sia dei datori di lavoro sia

dei lavoratori (sentenze Adeneler e a., EU:C:2006:443, punto 62, nonché Fiamingo e a.,

EU:C:2014:2044, punto 55).

74 Pertanto, la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro impone agli Stati membri, al fine di prevenire

l’utilizzo abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, l’adozione

effettiva e vincolante di almeno una delle misure che essa elenca, qualora il loro diritto interno non

contenga norme equivalenti. Le misure così elencate al punto 1, lettere da a) a c), di detta clausola, in

numero di tre, attengono, rispettivamente, a ragioni obiettive che giustificano il rinnovo di tali contratti

o rapporti di lavoro, alla durata massima totale degli stessi contratti o rapporti di lavoro successivi ed

al numero dei rinnovi di questi ultimi (v., in particolare, sentenze Kücük, EU:C:2012:39, punto 26,

nonché Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 56).

75 Gli Stati membri dispongono di un’ampia discrezionalità a tale riguardo, dal momento che essi hanno

la scelta di far ricorso a una o a più misure enunciate al punto 1, lettere da a) a c), di detta clausola,

oppure a norme giuridiche equivalenti già esistenti, e ciò tenendo conto, nel contempo, delle esigenze

di settori e/o di categorie specifici di lavoratori (v. sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 59

nonché giurisprudenza ivi citata).

76 Così facendo, la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro fissa agli Stati membri un obiettivo generale,

consistente nella prevenzione di siffatti abusi, lasciando loro nel contempo la scelta dei mezzi per

conseguire ciò, purché essi non rimettano in discussione l’obiettivo o l’effetto utile dell’accordo

quadro (sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 60).

77 Inoltre quando, come nel caso di specie, il diritto dell’Unione non prevede sanzioni specifiche

nell’ipotesi in cui vengano nondimeno accertati abusi, spetta alle autorità nazionali adottare misure che

devono rivestire un carattere non solo proporzionato, ma anche sufficientemente energico e dissuasivo

per garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell’accordo quadro (v., in

particolare, sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 62 nonché giurisprudenza ivi citata).

78 Seppure, in mancanza di una specifica disciplina dell’Unione in materia, le modalità di applicazione di

tali norme spettino all’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in forza del principio

dell’autonomia procedurale di questi ultimi, esse non devono essere però meno favorevoli di quelle

che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né rendere in pratica

impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico

dell’Unione (principio di effettività) (v., in particolare, sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044,

punto 63 nonché giurisprudenza ivi citata).

79 Da ciò discende che, quando si è verificato un ricorso abusivo a una successione di contratti o di

rapporti di lavoro a tempo determinato, si deve poter applicare una misura che presenti garanzie

effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso e cancellare

52

le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione (sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044,

punto 64 nonché giurisprudenza ivi citata).

80 A tale proposito, occorre ricordare che, come sottolineato ripetutamente dalla Corte, l’accordo quadro

non enuncia un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione dei contratti di

lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato. Infatti, la clausola 5, punto 2,

dell’accordo quadro lascia, in linea di principio, agli Stati membri la cura di determinare a quali

condizioni i contratti o i rapporti di lavoro a tempo determinato vadano considerati come conclusi a

tempo indeterminato. Da ciò discende che l’accordo quadro non prescrive le condizioni in presenza

delle quali si può fare uso dei contratti a tempo indeterminato (v., in particolare, sentenza Fiamingo

e a., EU:C:2014:2044, punto 65 nonché giurisprudenza ivi citata).

81 Nel caso di specie, per quanto concerne la normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti

principali, occorre ricordare che la Corte non è competente a pronunciarsi sull’interpretazione delle

disposizioni del diritto interno, dato che questo compito spetta esclusivamente al giudice del rinvio o,

se del caso, ai competenti organi giurisdizionali nazionali, che devono determinare se i criteri ricordati

ai punti da 74 a 79 della presente sentenza siano soddisfatti dalle disposizioni della normativa

nazionale applicabile (v., in particolare, sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 66 nonché

giurisprudenza ivi citata).

82 Spetta pertanto al giudice del rinvio valutare in che misura i presupposti per l’applicazione nonché

l’effettiva attuazione delle disposizioni rilevanti del diritto interno costituiscano una misura adeguata

per prevenire e, se del caso, punire l’uso abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a

tempo determinato (v. sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 67 nonché giurisprudenza ivi

citata).

83 Tuttavia, la Corte, nel pronunciarsi su un rinvio pregiudiziale, può fornire, ove necessario, precisazioni

dirette a guidare il giudice nazionale nella sua valutazione (v., in particolare, sentenza Fiamingo e a.,

EU:C:2014:2044, punto 68 nonché giurisprudenza ivi citata).

– Sull’esistenza di misure di prevenzione del ricorso abusivo a una successione di contratti di

lavoro a tempo determinato

84 Per quanto riguarda l’esistenza di misure di prevenzione dell’utilizzo abusivo di una successione di

contratti di lavoro a tempo determinato ai sensi della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, è

pacifico che la normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali consenta di assumere

docenti con una successione di contratti di lavoro a tempo determinato per il conferimento di

supplenze, senza prevedere alcuna misura che limiti la durata massima totale di tali contratti o il

numero dei loro rinnovi, ai sensi del punto 1, lettere b) e c), di detta clausola. In particolare, il

Tribunale di Napoli indica a tale riguardo, come risulta dal punto 28 della presente sentenza, che

l’articolo 10, comma 4 bis, del decreto legislativo n. 368/2001 esclude l’applicazione alla scuola

53

statale dell’articolo 5, comma 4 bis, di detto decreto, che prevede che i contratti di lavoro a tempo

determinato di durata superiore a 36 mesi siano trasformati in contratti di lavoro a tempo

indeterminato, permettendo così un numero di rinnovi illimitato di siffatti contratti. È anche

incontestato che la normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali non preveda alcuna

misura equivalente a quelle enunciate alla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro.

85 In tali circostanze, è importante che il rinnovo di siffatti contratti di lavoro sia giustificato da una

«ragione obiettiva» ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro.

86 Come si evince dal punto 7 delle considerazioni generali di tale accordo, infatti, e come risulta dal

punto 74 della presente sentenza, i firmatari dell’accordo quadro hanno ritenuto che l’uso di contratti

di lavoro a tempo determinato basato su ragioni obiettive sia un mezzo per prevenire gli abusi (v.

sentenze Adeneler e a., EU:C:2006:443, punto 67, nonché Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 58).

87 Per quanto riguarda tale nozione di «ragioni obiettive» che figura nella clausola 5, punto 1, lettera a),

dell’accordo quadro, la Corte ha già dichiarato che essa deve essere intesa nel senso che si riferisce a

circostanze precise e concrete che contraddistinguono una determinata attività e, pertanto, tali da

giustificare, in tale peculiare contesto, l’utilizzo di una successione di contratti di lavoro a tempo

determinato. Dette circostanze possono risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle funzioni

per l’espletamento delle quali sono stati conclusi i contratti in questione, dalle caratteristiche ad esse

inerenti o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato

membro (sentenza Kücük, EU:C:2012:39, punto 27 e giurisprudenza ivi citata).

88 Per contro, una disposizione nazionale che si limitasse ad autorizzare, in modo generale e astratto

attraverso una norma legislativa o regolamentare, il ricorso ad una successione di contratti di lavoro a

tempo determinato, non soddisfarebbe i requisiti precisati al punto precedente della presente sentenza.

Infatti, una disposizione di tal genere, di natura puramente formale, non consente di stabilire criteri

oggettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di siffatti contratti risponda effettivamente ad

un’esigenza reale, se esso sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine. Una

siffatta disposizione comporta quindi un rischio concreto di determinare un ricorso abusivo a tale tipo

di contratti e, pertanto, non è compatibile con lo scopo e l’effetto utile dell’accordo quadro (sentenza

Kücük, EU:C:2012:39, punti 28 e 29 nonché giurisprudenza ivi citata).

89 Nel caso di specie si deve, in via preliminare, rilevare che dalle ordinanze di rinvio e dalle spiegazioni

fornite in udienza risulta che, in forza della normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti

principali, come prevista dalla legge n. 124/1999, l’assunzione di personale nelle scuole statali ha

luogo sia a tempo indeterminato tramite l’immissione in ruolo sia a tempo determinato mediante lo

svolgimento di supplenze. L’immissione in ruolo si effettua secondo il sistema cosiddetto «del doppio

canale», ossia, quanto alla metà dei posti vacanti per anno scolastico, mediante concorsi per titoli ed

esami e, quanto all’altra metà, attingendo alle graduatorie permanenti, nelle quali figurano i docenti

che hanno vinto un siffatto concorso senza tuttavia ottenere un posto di ruolo, e quelli che hanno

54

seguito corsi di abilitazione tenuti dalle scuole di specializzazione per l’insegnamento. Si è fatto

ricorso alle supplenze attingendo alle medesime graduatorie: la successione delle supplenze da parte di

uno stesso docente ne comporta l’avanzamento in graduatoria e può condurlo all’immissione in ruolo.

90 Dalle stesse ordinanze di rinvio emerge che la normativa nazionale di cui trattasi, come risulta

dall’articolo 4 della legge n. 124/1999, letto in combinato disposto con l’articolo 1 del decreto

n. 131/2007, prevede tre tipi di supplenze: in primo luogo, le supplenze annuali sull’organico «di

diritto», in attesa dell’espletamento di procedure concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo,

per posti vacanti e disponibili, in quanto privi di titolare, il cui termine corrisponde a quello dell’anno

scolastico, ossia il 31 agosto; in secondo luogo, le supplenze temporanee sull’organico «di fatto», per

posti non vacanti, ma disponibili, il cui termine corrisponde a quello delle attività didattiche, ossia il

30 giugno, e, in terzo luogo, le supplenze temporanee, o supplenze brevi, nelle altre ipotesi, il cui

termine corrisponde alla cessazione delle esigenze per le quali sono state disposte.

91 Si deve sottolineare che una normativa nazionale che consenta il rinnovo di contratti di lavoro a tempo

determinato per sostituire, da un lato, personale delle scuole statali in attesa dell’esito di procedure

concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo nonché, dall’altro, personale di tali scuole che si

trova momentaneamente nell’impossibilità di svolgere le sue funzioni non è di per sé contraria

all’accordo quadro. Infatti, la sostituzione temporanea di un altro dipendente al fine di soddisfare, in

sostanza, esigenze provvisorie del datore di lavoro in termini di personale può, in linea di principio,

costituire una «ragione obiettiva» ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), di tale accordo quadro

(v., in tal senso, sentenze Angelidaki e a., da C-378/07 a C-380/07, EU:C:2009:250, punti 101 e 102,

nonché Kücük, EU:C:2012:39, punto 30).

92 A tale riguardo, occorre, innanzitutto, ricordare che, nell’ambito di un’amministrazione che dispone di

un organico significativo, come il settore dell’insegnamento, è inevitabile che si rendano spesso

necessarie sostituzioni temporanee a causa, segnatamente, dell’indisponibilità di dipendenti che

beneficiano di congedi per malattia, per maternità, parentali o altri. La sostituzione temporanea di

dipendenti in tali circostanze può costituire una ragione obiettiva ai sensi della clausola 5, punto 1,

lettera a), dell’accordo quadro, che giustifica sia la durata determinata dei contratti conclusi con il

personale supplente, sia il rinnovo di tali contratti in funzione delle esigenze emergenti, fatto salvo il

rispetto dei requisiti fissati al riguardo dall’accordo quadro (v., in tal senso, sentenza Kücük,

EU:C:2012:39, punto 31).

93 Tale conclusione si impone a maggior ragione allorché la normativa nazionale che giustifica il rinnovo

di contratti a tempo determinato in caso di sostituzione temporanea persegue altresì obiettivi di politica

sociale riconosciuti come legittimi. Infatti, come risulta dal punto 87 della presente sentenza, la

nozione di «ragione obiettiva» che figura alla clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro

comprende il perseguimento di siffatti obiettivi. Orbene, misure dirette, in particolare, a tutelare la

gravidanza e la maternità nonché a consentire agli uomini e alle donne di conciliare i loro obblighi

55

professionali e familiari perseguono obiettivi legittimi di politica sociale (v. sentenza Kücük,

EU:C:2012:39, punti 32 e 33 nonché giurisprudenza ivi citata).

94 Inoltre, va rilevato che, come risulta, in particolare, dall’ordinanza di rinvio nella causa C-418/13,

l’insegnamento è correlato a un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione della Repubblica

italiana che impone a tale Stato l’obbligo di organizzare il servizio scolastico in modo da garantire un

adeguamento costante tra il numero di docenti e il numero di scolari. Orbene, non si può negare che

tale adeguamento dipenda da un insieme di fattori, taluni dei quali possono, in una certa misura, essere

difficilmente controllabili o prevedibili, quali, in particolare, i flussi migratori esterni ed interni o le

scelte di indirizzi scolastici da parte degli scolari.

95 Si deve ammettere che fattori del genere attestano, nel settore dell’insegnamento di cui trattasi nei

procedimenti principali, un’esigenza particolare di flessibilità che, conformemente alla giurisprudenza

ricordata al punto 70 della presente sentenza, è idonea, in tale specifico settore, a giustificare

oggettivamente, alla luce della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro, il ricorso a una

successione di contratti di lavoro a tempo determinato per rispondere in maniera adeguata alla

domanda scolastica ed evitare di esporre lo Stato, quale datore di lavoro in tale settore, al rischio di

dover immettere in ruolo un numero di docenti significativamente superiore a quello effettivamente

necessario per adempiere i propri obblighi in materia.

96 Infine, va constatato che, qualora uno Stato membro riservi, nelle scuole da esso gestite, l’accesso ai

posti permanenti al personale vincitore di concorso, tramite l’immissione in ruolo, può altresì

oggettivamente giustificarsi, alla luce di detta disposizione, che, in attesa dell’espletamento di tali

concorsi, i posti da occupare siano coperti con una successione di contratti di lavoro a tempo

determinato.

97 I ricorrenti nei procedimenti principali sostengono tuttavia che la normativa nazionale di cui trattasi in

tali procedimenti, quale risulta dall’articolo 4, comma 1, della legge n. 124/1999, che consente proprio

il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per coprire, tramite supplenze annuali, posti

vacanti e disponibili «in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di

personale docente di ruolo», porti, nella pratica, a un ricorso abusivo a una successione di contratti di

lavoro a tempo determinato, poiché non esiste alcuna certezza riguardo alla data alla quale tali

procedure concorsuali devono essere organizzate. Il rinnovo di siffatti contratti di lavoro a tempo

determinato consentirebbe così di soddisfare esigenze permanenti e durevoli nelle scuole statali

derivanti dalla mancanza strutturale di personale di ruolo.

98 Dal canto suo, il governo italiano fa valere che il sistema cosiddetto del doppio canale, come descritto

al punto 89 della presente sentenza, consente di inserire il personale a tempo determinato della scuola

statale in un percorso che conduce alla sua immissione in ruolo, poiché tale personale può non solo

partecipare a concorsi pubblici, ma anche, per effetto dell’avanzamento nelle graduatorie risultante

dalla successione delle supplenze, contabilizzare un numero di periodi di attività a tempo determinato

56

sufficienti per essere immesso in ruolo. Orbene, tali graduatorie dovrebbero essere «ad esaurimento»,

nel senso che, quando un certo numero di docenti vi è iscritto, esse non possono più essere alimentate.

Tali graduatorie costituirebbero quindi uno strumento tendente a contrastare il precariato del lavoro.

Indipendentemente dalla specifica situazione di fatto, la normativa nazionale di cui trattasi dovrebbe

quindi essere considerata conforme alla clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro.

99 A tale riguardo, occorre sottolineare che, sebbene una normativa nazionale che consenta il rinnovo di

contratti di lavoro a tempo determinato successivi per la sostituzione di personale in attesa dell’esito di

procedure concorsuali possa essere giustificata da una ragione obiettiva, l’applicazione concreta di tale

ragione, in considerazione delle particolarità dell’attività di cui trattasi e delle condizioni del suo

esercizio, deve essere conforme ai requisiti dell’accordo quadro. Nell’applicazione della disposizione

del diritto nazionale di cui trattasi, le autorità competenti devono quindi essere in grado di stabilire

criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di siffatti contratti risponda

effettivamente ad un’esigenza reale, sia atto a raggiungere lo scopo perseguito e sia necessario a tal

fine (v., in tal senso, sentenza Kücük, EU:C:2012:39, punto 34 e giurisprudenza ivi citata).

100 Orbene, come la Corte ha già dichiarato in numerose occasioni, il rinnovo di contratti o di rapporti di

lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare esigenze che, di fatto, hanno un carattere non già

provvisorio, ma, al contrario, permanente e durevole, non è giustificato ai sensi della clausola 5, punto

1, lettera a), dell’accordo quadro. Infatti, un utilizzo siffatto dei contratti o dei rapporti di lavoro a

tempo determinato è direttamente in contrasto con la premessa sulla quale si fonda tale accordo

quadro, vale a dire il fatto che i contratti di lavoro a tempo indeterminato costituiscono la forma

comune dei rapporti di lavoro, anche se i contratti di lavoro a tempo determinato rappresentano una

caratteristica dell’impiego in alcuni settori o per determinate occupazioni e attività (sentenza Kücük,

EU:C:2012:39, punti 36 e 37 nonché giurisprudenza ivi citata).

101 L’osservanza della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro richiede quindi che si verifichi

concretamente che il rinnovo di successivi contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato miri a

soddisfare esigenze provvisorie, e che una disposizione nazionale quale l’articolo 4, comma 1, della

legge n. 124/1999, letta in combinato disposto con l’articolo 1 del decreto n. 131/2007 non sia

utilizzata, di fatto, per soddisfare esigenze permanenti e durevoli del datore di lavoro in materia di

personale (v., in tal senso, sentenza Kücük, EU:C:2012:39, punto 39 e giurisprudenza ivi citata).

102 Occorre a tal fine esaminare di volta in volta tutte le circostanze del caso, prendendo in

considerazione, in particolare, il numero di detti contratti successivi stipulati con la stessa persona

oppure per lo svolgimento di uno stesso lavoro, al fine di escludere che contratti o rapporti di lavoro a

tempo determinato, sebbene palesemente conclusi per soddisfare un’esigenza di personale sostitutivo,

siano utilizzati in modo abusivo dai datori di lavoro (v., in tal senso, sentenza Kücük, EU:C:2012:39,

punto 40 e giurisprudenza ivi citata).

57

103 L’esistenza di una «ragione obiettiva» ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro

esclude quindi, in linea di principio, l’esistenza di un abuso, a meno che un esame globale delle

circostanze sottese al rinnovo dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato di cui trattasi

riveli che le prestazioni richieste del lavoratore non corrispondono ad una mera esigenza temporanea

(sentenza Kücük, EU:C:2012:39, punto 51).

104 Di conseguenza, contrariamente a quanto sostiene il governo italiano, il solo fatto che la normativa

nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali possa essere giustificata da una «ragione obiettiva»

ai sensi di tale disposizione non può essere sufficiente a renderla ad essa conforme, se risulta che

l’applicazione concreta di detta normativa conduce, nei fatti, a un ricorso abusivo a una successione di

contratti di lavoro a tempo determinato.

105 Orbene, a tale riguardo, sebbene, conformemente alla giurisprudenza ricordata ai punti 81 e 82 della

presente sentenza, ogni valutazione dei fatti rientri, nell’ambito del procedimento previsto dall’articolo

267 TFUE, nella competenza dei giudici nazionali, si deve constatare che dagli elementi forniti alla

Corte nelle presenti cause emerge che, come peraltro ammesso dallo stesso governo italiano, il termine

di immissione in ruolo dei docenti nell’ambito di tale sistema è tanto variabile quanto incerto.

106 Da un lato, infatti, è pacifico, come risulta dalla formulazione stessa della prima questione nella causa

C-418/13, che la normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali non fissa alcun termine

preciso riguardo all’organizzazione delle procedure concorsuali, dal momento che queste ultime

dipendono dalle possibilità finanziarie dello Stato e dalla valutazione discrezionale

dell’amministrazione. Così, secondo le stesse constatazioni operate dalla Corte costituzionale

nell’ordinanza di rinvio nella medesima causa, non è stata organizzata nessuna procedura concorsuale

tra il 2000 e il 2011.

107 Dall’altro lato, dalle spiegazioni del governo italiano risulta che l’immissione in ruolo per effetto

dell’avanzamento dei docenti in graduatoria, essendo in funzione della durata complessiva dei

contratti di lavoro a tempo determinato nonché dei posti che sono nel frattempo divenuti vacanti,

dipende, come sostenuto giustamente dalla Commissione, da circostanze aleatorie e imprevedibili.

108 Ne deriva che una normativa nazionale, quale quella di cui ai procedimenti principali, sebbene limiti

formalmente il ricorso ai contratti di lavoro a tempo determinato per provvedere a supplenze annuali

per posti vacanti e disponibili nelle scuole statali solo per un periodo temporaneo fino all’espletamento

delle procedure concorsuali, non consente di garantire che l’applicazione concreta di tale ragione

obiettiva, in considerazione delle particolarità dell’attività di cui trattasi e delle condizioni del suo

esercizio, sia conforme ai requisiti dell’accordo quadro.

109 Una siffatta normativa, infatti, in assenza di un termine preciso per l’organizzazione e l’espletamento

delle procedure concorsuali che pongono fine alla supplenza e, pertanto, del limite effettivo con

riguardo al numero di supplenze annuali effettuato da uno stesso lavoratore per coprire il medesimo

posto vacante, è tale da consentire, in violazione della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo

58

quadro, il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare esigenze che, di fatto,

hanno un carattere non già provvisorio, ma, al contrario, permanente e durevole, a causa della

mancanza strutturale di posti di personale di ruolo nello Stato membro considerato. Una siffatta

constatazione risulta suffragata, non solo dalla situazione dei ricorrenti nei procedimenti principali,

come descritta ai punti 23 e 37 della presente sentenza, ma anche, in maniera più generale, dai dati

forniti alla Corte nell’ambito delle presenti cause. Così, a seconda degli anni e delle fonti, risulta che

circa il 30%, o addirittura, secondo il Tribunale di Napoli, il 61%, del personale amministrativo,

tecnico e ausiliario delle scuole statali sia impiegato con contratti di lavoro a tempo determinato e che,

tra il 2006 e il 2011, il personale docente di tali scuole vincolato da siffatti contratti abbia

rappresentato tra il 13% e il 18% di tutto il personale docente di dette scuole.

110 A tale riguardo, va ricordato che, sebbene considerazioni di bilancio possano costituire il fondamento

delle scelte di politica sociale di uno Stato membro e possano influenzare la natura ovvero la portata

delle misure che esso intende adottare, esse non costituiscono tuttavia, di per sé, un obiettivo

perseguito da tale politica e, pertanto, non possono giustificare l’assenza di qualsiasi misura di

prevenzione del ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato ai sensi

della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro (v., per analogia, sentenza Thiele Meneses, C-220/12,

EU:C:2013:683, punto 43 e giurisprudenza ivi citata).

111 In ogni caso, va osservato che, come risulta dal punto 89 della presente sentenza, una normativa

nazionale quale quella di cui ai procedimenti principali non riserva l’accesso ai posti permanenti nelle

scuole statali al personale vincitore di concorso, poiché essa consente altresì, nell’ambito del sistema

del doppio canale, l’immissione in ruolo di docenti che abbiano unicamente frequentato corsi di

abilitazione. In tali circostanze, come la Commissione ha fatto valere in udienza, non è assolutamente

ovvio – circostanza che spetta, tuttavia, ai giudici del rinvio verificare – che possa essere considerato

oggettivamente giustificato, alla luce della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro, il

ricorso, nel caso di specie, a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato per la

copertura di posti vacanti e disponibili in dette scuole motivato dall’attesa dell’espletamento delle

procedure concorsuali.

112 A tale riguardo, si deve sottolineare, al pari della Commissione, che, ai fini dell’attuazione della

clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, uno Stato membro è legittimato a scegliere di non adottare la

misura di cui al punto 1, lettera a), di detta clausola. Viceversa, esso può preferire l’adozione di una

delle misure o le due misure di cui al punto 1, lettere b) e c), della medesima clausola, relative,

rispettivamente, alla durata massima totale di tali contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato

successivi e al numero dei loro rinnovi, e ciò purché, quale che sia la misura in concreto adottata,

venga garantita l’effettiva prevenzione dell’utilizzo abusivo di contratti o rapporti di lavoro a tempo

determinato (v., in tal senso, sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 61).

59

113 Si deve, pertanto, constatare, che dagli elementi forniti alla Corte nell’ambito delle presenti cause

emerge che una normativa nazionale, quale quella di cui ai procedimenti principali, non risulta

prevedere, fatte salve le necessarie verifiche da parte dei giudici del rinvio, alcuna misura di

prevenzione del ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato ai sensi

della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, contrariamente ai requisiti ricordati ai punti 74 e 76

della presente sentenza.

– Sull’esistenza di misure sanzionatorie del ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro

a tempo determinato

114 Per quanto riguarda l’esistenza di misure dirette a sanzionare l’utilizzo abusivo di una successione di

contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, si deve rilevare, innanzitutto, che dalle ordinanze di

rinvio risulta che, come espressamente indicato dalla Corte costituzionale nella sua seconda questione

pregiudiziale nella causa C-418/13, la normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali

esclude qualsivoglia diritto al risarcimento del danno subito a causa del ricorso abusivo a una

successione di contratti di lavoro a tempo determinato nel settore dell’insegnamento. In particolare, è

pacifico che il regime previsto dall’articolo 36, comma 5, del decreto legislativo n. 165/2001 nel caso

di ricorso abusivo ai contratti di lavoro a tempo determinato nel settore pubblico non può conferire un

siffatto diritto nei procedimenti principali.

115 Peraltro, come risulta dai punti 28 e 84 della presente sentenza, è altresì incontroverso che la

normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali non consenta neanche la trasformazione

dei contratti di lavoro a tempo determinato successivi in contratto o rapporto di lavoro a tempo

indeterminato, essendo esclusa l’applicazione dell’articolo 5, comma 4 bis, del decreto legislativo

n. 368/2001 alla scuola statale.

116 Ne consegue che, come risulta dalle ordinanze di rinvio e dalle osservazioni del governo italiano,

l’unica possibilità per un lavoratore che abbia effettuato supplenze, ai sensi dell’articolo 4 della legge

n. 124/1999, in una scuola statale di ottenere la trasformazione dei suoi contratti di lavoro a tempo

determinato successivi in un contratto o in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato risiede

nell’immissione in ruolo per effetto dell’avanzamento in graduatoria.

117 Tuttavia, essendo una siffatta possibilità, come risulta dai punti da 105 a 107 della presente sentenza,

aleatoria, la stessa non può essere considerata una sanzione a carattere sufficientemente effettivo e

dissuasivo ai fini di garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell’accordo

quadro.

118 Sebbene, certamente, uno Stato membro possa legittimamente, nell’attuazione della clausola 5, punto

1, dell’accordo quadro, prendere in considerazione esigenze di un settore specifico come quello

dell’insegnamento, così come già rilevato ai punti 70 e 95 della presente sentenza, tale facoltà non può

essere intesa nel senso di consentirgli di esimersi dall’osservanza dell’obbligo di prevedere una misura

60

adeguata per sanzionare debitamente il ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo

determinato.

119 Si deve, pertanto, ritenere che dagli elementi forniti alla Corte nell’ambito delle presenti cause si

evince che una normativa nazionale quale quella di cui trattasi nei procedimenti principali, fatte salve

le necessarie verifiche da parte dei giudici del rinvio, non risulta conforme ai requisiti che emergono

dalla giurisprudenza ricordata ai punti da 77 a 80 della presente sentenza.

120 Di conseguenza, si deve rispondere ai giudici del rinvio dichiarando che la clausola 5, punto 1,

dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, quale quella

di cui trattasi nei procedimenti principali, che autorizzi, in attesa dell’espletamento delle procedure

concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti di lavoro a

tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale

amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per l’espletamento di dette procedure

concorsuali ed escludendo qualsiasi possibilità, per tali docenti e detto personale, di ottenere il

risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo. Risulta, infatti, che tale

normativa, fatte salve le necessarie verifiche da parte dei giudici del rinvio, da un lato, non consente di

definire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali contratti risponda

effettivamente ad un’esigenza reale, sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a

tal fine, e, dall’altro, non prevede nessun’altra misura diretta a prevenire e a sanzionare il ricorso

abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.

121 In tali circostanze, non occorre rispondere alle altre questioni sollevate dal Tribunale di Napoli nelle

cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13.

Sulle spese

122 Nei confronti delle parti nei procedimenti principali le presenti cause costituiscono un incidente

sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri

soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:

La clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18

marzo 1999, che figura nell’allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999,

relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere

interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, quale quella di cui trattasi nei

procedimenti principali, che autorizzi, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali

per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti di lavoro a

61

tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale

amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per l’espletamento di dette

procedure concorsuali ed escludendo qualsiasi possibilità, per tali docenti e detto personale, di

ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo. Risulta,

infatti, che tale normativa, fatte salve le necessarie verifiche da parte dei giudici del rinvio, da un

lato, non consente di definire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali

contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, sia idoneo a conseguire l’obiettivo

perseguito e sia necessario a tal fine, e, dall’altro, non prevede nessun’altra misura diretta a

prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo

determinato.

Corte di Cassazione, sentenza del 30 dicembre 2014, n. 27481

All. 1

Authorities

La legittimazione dell’Antitrust ex art. 21 bis l.n. 287/1990

Cons. di Stato, sez. V, 30 aprile 2014, n. 2246

DIRITTO

5. L’appello è infondato.

5.1. L’art. 21 bis della legge n. 287 del 1990, aggiunto dall’art. 35, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011, convertito

con modificazioni dalla legge n. 214 del 2011, significativamente rubricato “Poteri dell’Autorità Garante della

concorrenza e del mercato sugli atti amministrativi che determinano distorsioni della concorrenza”, ha previsto al

comma 1 che “L’Autorità garante della concorrenza e del mercato è legittimata ad agire in giudizio contro gli atti

amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le

norme a tutela della concorrenza e del mercato”.

Al successivo secondo comma è poi stabilito che “L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, se ritiene

che una pubblica amministrazione abbia emanato un atto in violazione delle norma a tutela della concorrenza e

del mercato, emette, entro sessanta giorni, un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili delle violazioni

riscontrate. Se la pubblica amministrazione non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del

parere, l’autorità può presentare, tramite l’Avvocatura dello Stato, il ricorso, entro i successivi trenta giorni”,

mentre il terzo comma aggiunge infine che “Ai giudizi instaurati ai sensi del comma 1 si applica la disciplina di

cui al Libro IV, Titolo V, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104”.

62

5.2. Come si ricava agevolmente dal loro stesso tenore letterale, ognuna delle ricordate disposizioni assolve ad

una specifica funzione, individuando e tutelando uno specifico interesse pubblico.

5.2.1. Il primo comma infatti, attribuisce una peculiare legitimatio ad causam all’Autorità nei confronti

degli atti amministrativi generali, dei regolamenti e dei provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che

violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato, in tal modo evidenziando la natura di speciale

interesse pubblico generale della tutela della concorrenza e del mercato, quale condizione essenziale per

l’ordinato sviluppo economico e sociale e per il progresso della collettività, in armonia del resto con i principi

comunitari (non è del resto un caso che l’articolo 21 bis sia stato introdotto dall’art. 35, comma 1, del D.L. n. 201

del 2011, come modificato dalla legge n. 241 del 2011, recante disposizione urgenti per la crescita e lo sviluppo

economico).

E’ coerente con il bene giuridico protetto dalla norma (la libertà di concorrenza ed il corretto funzionamento

del mercato) e con le finalità che con esse si intende perseguire (la crescita e lo sviluppo economico) la

previsione che l’accertamento della violazione delle nome in questione e il loro ripristino, per un verso,

trascenda l’interesse specifico del singolo operatore del mercato e sia pertanto sottratto alla libera

disponibilità dell’interessato (il che giustifica la disposizione nella parte in cui ammette sostanzialmente una

legittimazione ad agire concorrente, dell’Autorità e dei singoli interessati, quanto ai provvedimenti lesivi del

predetto bene giuridico), e, per altro verso, la tutela debba avviarsi per quanto possibile immediatamente,

in tal modo dovendo essere intesa la legittimazione ad agire dell’Autorità nei confronti dei regolamenti e dei

provvedimenti generali (atti che, secondo i principi generali, in quanto in genere non immediatamente lesivi,

possono essere impugnati solo unitamente ai provvedimenti di cui costituiscono applicazione).

5.2. Il secondo comma, coerentemente con il principio di legalità predicato dall’articolo 97 della

Costituzione, cui è improntata tutta l’attività della pubblica amministrazione, disciplina (e delimita,

procedimentalizzandolo) il potere attribuito alla Autorità in relazione agli atti amministrativi generali, ai

regolamenti e ai provvedimenti amministrativi, dalla stessa ritenuti violativi delle norme a tutela della concorrenza

e del mercato.

Secondo l’intenzione del legislatore, così come si ricava dall’esame della norma, il fondamentale e innovativo

ruolo attribuito all’Autorità circa il controllo sull’effettivo ed efficace dispiegarsi della libertà della concorrenza e

del mercato impone che il potere di agire in giudizio contro gli atti lesivi di tali principi sia preceduto da una fase

pre - contenziosa, caratterizzata dall’emissione, da parte dell’Autorità, di un parere motivato rivolto alla pubblica

amministrazione, parere in cui ragionevolmente sono segnalate le violazioni riscontrate e sono indicano i rimedi

per eliminarli e ripristinare il corretto funzionamento della concorrenza e del mercato.

La funzione del predetto parere motivato è in realtà duplice: esso mira innanzitutto a sollecitare la pubblica

amministrazione a rivedere le proprie determinazioni e a conformarsi agli indirizzi dell’Autorità, attraverso uno

speciale esercizio del potere di autotutela giustificato proprio dalla particolare rilevanza dell’interesse

pubblico in gioco, in tal modo auspicando che la tutela di quest’ultimo sia assicurata innanzitutto all’interno della

stessa pubblica amministrazione e restando pertanto il ricorso all’autorità giudiziaria

amministrativa l’extrema ratio (non essendo stata d’altra parte dotata l’Autorità di poteri coercitivi nei

confronti dell’amministrazione pubblica che non intenda conformarsi al predetto parere motivato); d’altro canto,

la fase pre - contenziosa e il relativo parere, in coerenza con i principi comunitari, sono stati ragionevolmente

concepiti anche come significativo strumento di deflazione del contenzioso, potendo ammettersi che il

legislatore guardi con disfavore le situazioni in cui due soggetti pubblici si rivolgano direttamente (ed

esclusivamente) al giudice per la tutela di un interesse pubblico.

5.2.3. Con il terzo comma infine è stato stabilito che alle controversie azionate dall’Autorità ai sensi del comma

uno trovino applicazione le disposizioni concernenti i riti abbreviati.

In presenza di una previsione di rinvio così generale, all’intero titolo V del libro IV, del codice del processo

amministrativo, e in considerazione del bene giuridico tutelato, deve ragionevolmente ritenersi allo stato, anche

per la mancanza di diversi elementi di valutazione, che il legislatore non abbia inteso sottoporre le

controversie in questione al solo rito abbreviato dell’art. 119, fermo restando la necessità di verificare in

63

concreto l’applicabilità delle altre specifiche disposizione del titolo V alla fattispecie sottoposta

all’esame del giudice.

5.3. Ciò posto, la Sezione, condividendo le conclusioni cui sono pervenuti i primi giudici, è dell’avviso che

l’esaminato articolo 21 bis della legge n. 287 del 1990, anche in considerazione della sostanziale unicità ed

unitarietà del bene giuridico protetto (libertà della concorrenza e del mercato), sia pur nelle differenti prospettive

di cui ai commi 1 e 2, non preveda due distinte forme di tutela del predetto bene giuridico, l’una con

accesso diretto ed immediato al giudice e l’altra mediata alla fase pre- contenziosa.

5.3.1. A favore di tale ricostruzione propugnata dall’appellante non vi è del resto nessun argomento, né di ordine

letterale, né di carattere logico – sistematico, essendo invero del ragionevole che il legislatore, dopo aver fissato al

primo comma il principio della legittimazione straordinaria dell’Autorità ad agire nei confronti degli atti

amministrativi generali, regolamenti e provvedimenti violativi delle norme a tutela della concorrenza e a tutela del

mercato, abbia poi, al secondo comma, stabilito le modalità di concreto esercizio di tale legittimazione

straordinaria, con ciò volendo evitare che una norma, astrattamente concepita quale (ulteriore) strumento per la

ripresa e lo sviluppo economico, potesse dar luogo in concreto a nuove e diverse situazioni di confusione e

contraddittorietà dell’azione amministrativa.

E’ in tal senso priva di autonoma rilevanza la circostanza, su cui pure indugia l’appellante, che il terzo comma

dell’articolo in esame faccia riferimento, ai fini di stabilire la disciplina processuale da applicare, ai soli giudizi

instaurati ai sensi del comma 1, da ciò non potendo desumersi l’esistenza di altri giudizi (instaurati ai sensi del

comma 2, successivamente cioè all’espletamento della fase pre – contenziosa): infatti il riferimento operato dal

legislatore (ai giudizi di cui al comma 1), lungi dall’essere equivoco o fonte di dubbi, è del tutto coerente e

ragionevole, anche sotto il profilo dell’interpretazione letterale, solo nel comma 1 si prevede la legittimazione

straordinaria dell’Autorità ed il potere di quest’ultima di introdurre giudizi, di cui non vi è invece alcuna

menzione nel comma 2 (per le ragioni sopra già esposte e alle quali pertanto si rinvia).

5.3.2. Né alla predetta ricostruzione dell’unicità dei giudizi instaurabili dall’Autorità può opporsi che in tal modo,

dovendo cioè gli stessi essere necessariamente preceduti dalla fase pre - contenziosa, potrebbero verificarsi in

concreto e nell’immediato proprio quegli effetti negativi ed eventualmente irreversibili, derivanti dalla efficacia di

regolamenti, atti generali e provvedimenti emessi in violazione delle norme poste a tutela della concorrenza e del

mercato, che la stessa norma vuole invece scongiurare: è sufficiente rilevare al riguardo che, fermo restando la

generale disciplina delineata dal secondo comma dell’art. 21 bis in esame, non vi è alcuna ragione logico –

sistematica che possa ragionevolmente escludere, ricorrendone i presupposti, la richiesta da parte dell’Autorità delle misure

cautelari antecausam di cui all’art. 61 c.p.a.

5.3.3. Per completezza occorre infine segnalare che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 20 del 14 febbraio

2013, nel dichiarare inammissibili le questioni di illegittimità costituzionale dell’art. 21 bis della legge n. 287 del

1990 promosse in via principale dalla Regione Veneto in riferimento agli artt. 3, 97, primo comma, 113, primo

comma, 117, sesto comma, e 118, primo e secondo comma, della Costituzione, alla legge costituzionale n. 3 del

2001 ed al principio di leale collaborazione, ha osservato che detta norma, piuttosto che introdurre un “nuovo e

generalizzato controllo di legittimità” in capo all’Autorità nei confronti degli atti delle pubbliche amministrazioni,

ha soltanto integrato “…i poteri conoscitivi e consultivi già attribuiti all’Autorità garante dagli artt. 21 e seguenti

della legge n. 287 del 1990”, prevedendo “…un potere di iniziativa finalizzato a contribuire ad una più completa

tutela della concorrenza e del corretto funzionamento del mercato …e, comunque, certamente non

generalizzato, perché operante soltanto in ordine agli atti amministrativi che violino le norme a tutela della

concorrenza del mercato”, precisando quindi che tale potere “…si esterna in una prima fase a carattere

consultivo (parere motivato nel quale sono indicati gli specifici profili delle violazioni riscontrate), e in una

seconda (eventuale) fase di impugnativa in sede giurisdizionale, qualora la pubblica amministrazione non si

conformi al parere stesso”.

Trova pertanto autorevole conforto la tesi della eccezionalità della legittimatio ad causam riconosciuta

all’Autorità in funzione del bene giuridico tutelato e l’unicità e unitarietà dell’azione giudiziaria dalla

stessa proposta, ancorché preceduta da una necessaria fase pre – contenziosa.

64

6. In conclusione alla stregua delle osservazioni svolte l’appello deve essere respinto.

La novità delle questioni trattate giustifica la compensazione tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello proposto

dall’Autorità garante per la concorrenza e del mercato avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il

Lazio, sez. II, n. 4451 del 6 maggio 2013, lo respinge.

Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Sul potere dell’Antitrust di esprimere parere motivato

Corte Costituzionale, 14 febbraio 2013, n. 20

Considerato in diritto

1.— La Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe, ha promosso, tra l’altro, questioni di legittimità

costituzionale dell’articolo 35 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita,

l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n.

214, per contrasto con gli articoli 3, 97, primo comma, 113, primo comma, 117, sesto comma, e 118, primo e

secondo comma, della Costituzione, nonché con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo

V della parte seconda della Costituzione) e con il principio di leale collaborazione.

Riservata a separate pronunce la decisione delle restanti questioni di legittimità costituzionale sollevate con il

menzionato ricorso, vengono qui all’esame della Corte le censure mosse al citato art. 35.

2.— Le questioni sono inammissibili.

2.1.— La norma censurata – aggiungendo alla legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della

concorrenza e del mercato), l’articolo 21-bis ( la cui rubrica è «Poteri dell’Autorità garante della concorrenza e del

mercato sugli atti amministrativi che determinano distorsioni della concorrenza») – così dispone: «omissis».

Va ancora premesso che, per costante giurisprudenza di questa Corte, alle Regioni è preclusa la possibilità di

impugnare le leggi statali adducendo la violazione di un qualsiasi parametro costituzionale, in quanto ad esse è

riconosciuta soltanto la possibilità di far valere eventuali violazioni di competenze alle Regioni medesime

costituzionalmente attribuite.

Tali enti possono evocare parametri di legittimità diversi da quelli che sovraintendono al riparto di

attribuzioni solo quando «la violazione denunciata sia potenzialmente idonea a determinare un vulnus alle

attribuzioni costituzionali delle regioni e queste abbiano sufficientemente motivato in ordine ai profili di una

“possibile ridondanza” della predetta violazione sul riparto di competenze» (ex plurimis: sentenze n. 199, n. 151 e

n. 80 del 2012; n. 128 e n. 33 del 2011; n. 325 e n. 278 del 2010).

3.— Orbene, quanto alla prima censura, secondo cui la disposizione denunziata finirebbe «col sottoporre gli

atti regolamentari ed amministrativi regionali ad un nuovo e generalizzato controllo di legittimità, su iniziativa di

un’autorità statale», così travalicando i limiti desumibili dalla sentenza di questa Corte n. 64 del 2005 e violando

gli artt. 117, sesto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost., si deve osservare che è inesatto parlare di

«nuovo e generalizzato controllo di legittimità», là dove la norma – integrando i poteri conoscitivi e

consultivi già attribuiti all’Autorità garante dagli artt. 21 e seguenti della legge n. 287 del 1990 – prevede un

potere di iniziativa finalizzato a contribuire ad una più completa tutela della concorrenza e del corretto

funzionamento del mercato (art. 21, comma 1, della legge citata) e, comunque, certamente non

generalizzato, perché operante soltanto in ordine agli atti amministrativi «che violino le norme a tutela

65

della concorrenza e del mercato» (norma censurata, comma 1). Esso si esterna in una prima fase a carattere

consultivo (parere motivato nel quale sono indicati gli specifici profili delle violazioni riscontrate), e in una

seconda (eventuale) fase di impugnativa in sede giurisdizionale, qualora la pubblica amministrazione non si

conformi al parere stesso.

La detta disposizione, dunque, ha un perimetro ben individuato (quello, per l’appunto, della

concorrenza), compreso in una materia appartenente alla competenza legislativa esclusiva dello Stato

(art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.), concernente anche la potestà regolamentare, ai sensi dell’art.

117, sesto comma, primo periodo, Cost.

La ricorrente non tiene conto di tali aspetti, non indica gli atti amministrativi regionali sottoposti al (preteso)

«nuovo e generalizzato controllo di legittimità», non chiarisce quale sarebbe la materia di competenza

concorrente o residuale, cui dovrebbe essere correlata la potestà regolamentare e legislativa regionale che si

assume lesa dalla norma censurata. Inoltre adduce una asserita violazione della legge costituzionale n. 3 del 2001,

senza alcuna ulteriore specificazione.

Tali carenze, da un lato, rendono la censura stessa generica (ex plurimis: sentenze n. 199, n. 115 e n. 99 del

2012; n. 185 e n. 129 del 2011; n. 325 del 2010) e, dall’altro, quanto ai parametri estranei al Titolo V della Parte

seconda della Costituzione, si risolvono in un difetto di motivazione sulla «possibile ridondanza» delle denunciate

violazioni sul riparto di competenze legislative, sicché le violazioni stesse non risultano potenzialmente idonee a

determinare una lesione delle attribuzioni costituzionali della Regione (ex plurimis: sentenze n. 80 del 2012, n.

128 del 2011).

Alla stregua di tali rilievi la doglianza ora esaminata deve essere dichiarata inammissibile.

4.— Quanto alla censura mossa in riferimento all’art. 113, primo comma, Cost., si deve ribadire la

consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale la questione di legittimità costituzionale è

inammissibile allorché sia omesso qualsiasi accenno alla stessa nella delibera di impugnazione dell’organo

politico, dovendo, in questo caso, «escludersi la volontà del ricorrente di promuoverla» (ex pluribus: sentenze n.

227 del 2011, n. 365 e n. 275 del 2007). Nel caso di specie, l’esame della delibera della Giunta regionale n. 150 del

31 gennaio 2012 (che autorizzò l’impugnazione) consente di rilevare che, nella medesima, non si trova alcun

riferimento al parametro costituzionale dettato dall’art. 113, primo comma, Cost.

Peraltro, sotto diverso profilo, la questione promossa con riferimento al citato art. 113, primo comma, Cost.

è, comunque, inammissibile, perché – a parte il non pertinente richiamo alla figura del pubblico ministero, che

sarebbe stato introdotto in modo surrettizio nel processo amministrativo – si tratta di questione non attinente al

riparto delle competenze legislative tra Stato e Regione e non incidente sulle attribuzioni costituzionali di questa

(nessun argomento al riguardo risulta addotto nel ricorso), sicché la ricorrente non è legittimata a proporla.

5.— Ad avviso della ricorrente, «non mancano, poi, nella disposizione, vari elementi sintomatici di

irragionevolezza e di lesione del principio di certezza del diritto». In particolare, farebbe difetto una disciplina in

ordine alla decorrenza del termine di sessanta giorni entro i quali l’Autorità può formulare il proprio parere

motivato, prodromico all’eventuale proposizione del ricorso giurisdizionale entro i successivi trenta giorni. Tale

incertezza sul menzionato dies a quo si rifletterebbe sulla stabilità degli atti regolamentari e provvedimentali

regionali, «con ulteriore lesione – per difetto di ragionevolezza, censurabile anche ai sensi dell’art. 3 della

Costituzione e ai sensi dell’art. 97 sul buon andamento della pubblica amministrazione – della sfera di autonomia

regionale costituzionalmente garantita».

Inoltre, la legittimazione ad agire dell’Autorità non risulterebbe coordinata con la legittimazione propria delle

parti private, sicché il ricorso della prima potrebbe risolversi in un intervento di supplenza o surrogazione in

favore di parti private decadute dal termine per proporre l’impugnativa ordinaria. Palese, poi, sarebbe

l’incongruenza che si determinerebbe quando l’Autorità, tenuta ad avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello

Stato, impugni atti di un’amministrazione statale tenuta a sua volta ad avvalersi della detta Avvocatura.

Anche tali censure sono inammissibili.

Esse riguardano, per la maggior parte, questioni di diritto processuale, che non hanno alcuna attinenza col

riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni e sono, invece, demandate alla cognizione dei giudici

66

comuni che le decideranno secondo le norme dei rispettivi ordinamenti. L’unico aspetto, che potrebbe assumere

qui rilievo, concerne il presunto riflesso sulla stabilità degli atti regionali, conseguente alla (asserita) incertezza

della decorrenza dei termini disciplinati dalla norma de qua. Tuttavia, si tratta di doglianza avente carattere

meramente eventuale, che non può trovare ingresso in questa sede. Peraltro, i parametri evocati esulano dalle

norme comprese nel Titolo V della Parte seconda della Costituzione e non si rivelano potenzialmente idonei a

determinare una lesione delle attribuzioni costituzionali della Regione.

6.— Infine, quanto alla dedotta violazione del principio di leale collaborazione, va rilevato che esso non può

trovare applicazione con riferimento all’attività legislativa; del resto nessuna adeguata motivazione risulta addotta

sul punto.

7.— In definitiva, il ricorso deve essere dichiarato, nel suo complesso, inammissibile.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separate pronunce la decisione sull’impugnazione delle altre disposizioni contenute nel decreto-legge 6

dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici) convertito, con

modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214;

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 35 del d.l. n. 201 del 2011 convertito, con

modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, promosse in via principale dalla Regione Veneto, in riferimento agli articoli 3, 97,

primo comma, 113, primo comma, 117, sesto comma e 118, primo e secondo comma della Costituzione, alla legge

costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), nonché al principio di

leale collaborazione, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2013.

Tar Lazio- Roma, sez. II, 6 maggio 2013, n. 4451

DIRITTO

1. In via preliminare, occorre delibare l’eccezione di inammissibilità sollevata da Roma Capitale, in relazione alla

circostanza che la proposizione del ricorso da parte dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato non è

stata preceduta dall’espressione del “parere motivato”, secondo il procedimento disciplinato dall’art. 21 –bis,

comma 2, della l.n. 287/90, così come novellata dall’art. 35, comma 1, D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, modificato

dalla legge di conversione 22 dicembre 2011, n. 214.

L’Autorità al riguardo ha controdedotto che, a suo dire, con l’inserimento dell’art. 21 –bis nel corpo della l. n.

287/90, essa è stata dotata di un doppio set di poteri di intervento.

Il comma 1 della norma in esame la legittimerebbe a proporre un ricorso in via diretta avverso gli atti

amministrativi che determinino distorsioni della concorrenza, laddove, invece, il ricorso disciplinato dal comma 2

fa seguito ad una fase procedimentale in cui emette un parere motivato nel quale indica gli specifici profili

riscontrati nell’atto dell’amministrazione e, solo ove quest’ultima non si conformi al parere nei successivi 60

giorni, l’Autorità può presentare, entro i successivi 30 giorni, il ricorso.

Sul piano letterale, soggiunge, non si spiegherebbe la struttura dei primi due commi.

Se, infatti, si fosse voluto dotare l’Autorità unicamente del potere di ricorrere previa segnalazione, il primo

comma della norma sarebbe del tutto superfluo.

Inoltre, a conferma della distinzione tra le due tipologie di intervento, vi sarebbe anche il fatto che il comma 3

della norma disciplina mediante rinvio al Libro IV, Titolo V, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 204, i termini processuali

dei soli “giudizi instaurati ai sensi del comma 1”, senza operare il medesimo rinvio per i giudizi ex comma 2. Per

effetto di tale rinvio al solo comma 1, il termine per la notificazione del ricorso introduttivo diretto è quello

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ordinario di sessanta giorni ai sensi dell’art. 119, comma 2, c.p.a.. Diversamente, il ricorso indiretto deve essere

proposto, per espressa previsione del comma 2, entro 30 giorni dalla scadenza dei 60 che l’amministrazione ha

per conformarsi al parere.

L’Autorità, ancora, ha invocato, l’esigenza di flessibilità che la legittimazione al ricorso diretto consentirebbe di

soddisfare. In tal modo potrebbe infatti intervenire celermente nei casi di maggiore gravità, agendo

immediatamente in sede giurisdizionale, in particolare al fine di ottenere un tempestivo pronunciamento

cautelare.

Rilevante sarebbe anche la circostanza che il secondo comma non ricollega alla mancanza del parere alcuna

conseguenza in termini di inammissibilità o improcedibilità del ricorso.

Vi sarebbe poi una disparità di trattamento con gli enti esponenziali di interessi diffusi di natura privatistica, la cui

azione non è sottoposta ad alcuna condizione.

2. Al fine di definire la questione pregiudiziale testé sintetizzata, giova riportare l’intero testo del cit. art. 21 –bis,

secondo il quale (omissis)

2.1. Come noto, il nuovo potere attribuito all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, con la correlata,

generale legittimazione processuale ad impugnare gli atti amministrativi a tutela della concorrenza e del mercato,

ha introdotto, nel processo amministrativo elementi in grado di alterarne la tradizionale struttura soggettiva, di

processo di parti fondato sul principio dispositivo.

Se è vero, infatti, che nella giurisdizione amministrativa permane una connotazione parzialmente oggettivistica

della tutela ciò è dovuto esclusivamente alla circostanza che l’interesse legittimo è una situazione soggettiva che,

come è stato detto, “dialoga con il potere pubblico e con esso si confronta”.

La specificità delle giustizia amministrativa è infatti non soltanto di comporre interessi antagonisti, ma,

giocoforza, anche di orientare e conformare l’azione amministrativa.

Poiché ai fini del soddisfacimento dell’interesse al conseguimento o alla protezione del bene della vita, è

necessario l’intermediazione dell’attività amministrativa, l’accertamento compiuto dal giudice amministrativo ha,

necessariamente, una “portata generale e meta-individuale”.

Tale specificità è particolarmente evidente, ad esempio, nel sindacato giurisdizionale sui regolamenti, in quanto il

loro contenuto normativo comporta la natura efficacia erga omnes di una eventuale pronuncia demolitoria.

Sotto altro profilo, è la stessa categoria dell’interesse legittimo che ha conosciuto una profonda trasformazione in

quanto, da una dimensione strettamente individuale, è progressivamente approdato all’espressione di pretese “di

gruppo” (si pensi alla tematica degli interessi diffusi, adespoti, collettivi).

Nonostante tale evoluzione, la giurisdizione amministrativa italiana è rimasta però, sino ad oggi, una

giurisdizione di diritto soggettivo, ispirata al principio della effettività della tutela dei diritti e degli

interessi (cfr., da ultimo, l’art. 1 del Codice del processo amministrativo).

Circa la natura della peculiare legittimazione attribuita ad AGCM, le prime riflessioni della dottrina oscillano, da

un lato, tra l’inquadramento in un una vera e propria giurisdizione di diritto oggettivo, svincolata dalla titolarità di

una posizione soggettiva sostanziale qualificata e differenziata (con i conseguenti problemi di coerenza con il

principio costituzionale di cui all’art. 103, secondo il quale la giurisdizione amministrativa è funzionale alla tutela

di situazioni soggettive individuali e non di interessi generali), e, all’altro estremo, l’intestazione in capo ad

AGCM di una sorta di rappresentanza processuale degli interessi diffusi e/o collettivi che lo stesso legislatore ha

progressivamente riconosciuto nel campo ambientale, degli interessi economici e delle tutela del consumatore.

La prima tesi interpretativa esclude che “l’Autorità, in quanto tale, sia titolare di un interesse legittimo in senso

proprio, potendo (e dovendo) attivarsi per la tutela e realizzazione di un interesse generale alla concorrenza che,

per un verso, finisce per coincidere con una sommatoria di interessi di mero fatto ascrivibili alla collettività e, per

altro verso, restando così generico, non soddisfa di certo i caratteri di una situazione soggettiva imputabile ad un

soggetto di diritto”.

Secondo tale interpretazione, dunque, l’Autorità non sarebbe parte del rapporto con l’amministrazione, né

sarebbe portatrice di situazioni soggettive proprie, ed inoltre, essendo come le altre autorità indipendenti

ricompresa “nello Stato-comunità anziché nello Stato-apparato”, non potrebbe vantare la suitas di uno specifico

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interesse pubblico né potrebbe “corrispondentemente sostenere una peculiare e individuale posizione di

interesse”.

Ne consegue la necessità di una interpretazione costituzionalmente orientata della norma, incentrata sulla

considerazione che la giurisdizione di diritto oggettivo costituisce pur sempre una eccezione, nonché sulla

valorizzazione degli elementi di specificità contenuti nell’art. 21 - bis “soprattutto lì dove possono giustificare un

sia pur parziale richiamo al principio della domanda”.

Al centro, si pone la tesi secondo cui non sarebbe corretto parlare di superamento del processo di parti, quanto

piuttosto di “potenziamento” del ruolo del soggetto affidatario della tutela di un interesse pubblico particolare,

fino al punto di essere legittimato ad agire direttamente in giudizio contro gli atti e i comportamenti che,

violando la legge, ne integrino una lesione, in aggiunta a quella dei diritti e degli interessi degli operatori, pubblici

o privati, specificamente coinvolti.

Secondo tale posizione il nuovo potere dell’Autorità andrebbe inquadrato come azione a tutela di una situazione

giuridica differenziata e qualificata. Assumerebbe specifico peso a tale riguardo, l’interesse alla migliore attuazione

del valore “concorrenza”, che secondo detta ricostruzione non andrebbe ricondotto ad una declinazione del

mero interesse generale al rispetto della legge, quanto piuttosto ad un interesse particolare e differenziato di cui

l’Autorità sarebbe diretta portatrice; una declinazione di interesse legittimo soggettivizzato in capo all’Autorità e

per la cui tutela essa risulterebbe legittimata ex lege a rivolgersi al giudice amministrativo

Sarebbe infatti “proprio la natura indipendente dell’Autorità e la specifica missione ad essa affidata (tutela di uno

specifico interesse pubblico che, per le forti implicazioni economiche e sovranazionali, si vuole sottratta

all’apparato governativo)” a giustificare la scelta legislativa di attribuire in primis a tale soggetto, la legittimazione

processuale ad agire per assicurarne la tutela.

Viene richiamato, al riguardo, il modello previsto per la c.d. procedura di infrazione, in cui la Commissione

europea è legittimata ricorrere alla Corte di Giustizia dell’Unione, ai fini dell’accertamento della violazione degli

obblighi comunitari da parte degli Stati membri.

2.2. A parere del Collegio, l’esatto inquadramento della legittimazione processuale di AGCM consente anche di

decifrare se tale legittimazione sia incondizionata, come l’Autorità oggi sostiene, o se invece essa risulti

subordinata al previo espletamento della fase procedimentale preliminare disciplinata dal comma 2 dell’art. 21 -

bis.

Nella prima ipotesi, l’espressione del parere costituirebbe infatti una mera eventualità, essendo il relativo

procedimento attivabile ad esclusiva discrezione dell’Autorità, mentre nella seconda si tratterebbe di un vero e

proprio, indefettibile presupposto processuale.

E’ poi evidente che, se si ritiene che, con l’art. 21 –bis, il legislatore abbia voluto conferire ad AGCM, sia pure

quale soggetto pubblico qualificato, la natura di ente esponenziale di interessi diffusi e/o collettivi, diventa

difficile giustificare l’obbligatorietà della fase precontenziosa, la quale comporterebbe una evidente disparità di

trattamento con gli enti esponenziali dello stesso tipo.

Al contrario, sia la tesi che nega la titolarità in capo ad AGCM di un interesse pubblico “proprio” (in

considerazione della peculiare collocazione istituzionale delle Autorità indipendenti), sia quella che la ritiene

“portatrice di un interesse sostanziale protetto dall’ordinamento”, che si soggettivizza in capo ad essa, quale

peculiare forma di interesse legittimo, postulano la specialità (o specificità) del giudizio ex art. 21 –bis, in

relazione alla quale trova agevole giustificazione anche la previsione di una fase consultiva preliminare.

2.3. Reputa il Collegio che la collocazione “sistematica” del nuovo potere di azione di AGCM, con l’inserimento

nel corpo della legge istitutiva, tra gli articoli 21 e 22, riveli la volontà del legislatore di valorizzare la tradizionale

funzione consultiva e di segnalazione (c.d. competition advocacy) disciplinata da tali norme e ad essa attribuita ab

origine.

La legittimazione ad agire innanzi al giudice amministrativo conferisce infatti a tale funzione (in passato, mera

espressione di un’opinione dell’Autorità, ancorché suscettibile di effetti di moral suasion, sull’esistenza di

“situazioni distorsive” della concorrenza derivanti da norme di legge, di regolamento o provvedimenti

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amministrativi) veri e propri effetti costitutivi, sia pure conseguibili in via mediata attraverso lo scrutinio

giurisdizionale.

E’ in ragione di tale correlazione, a parere del Collegio, che l’iniziativa dell’Autorità deve essere necessariamente

preceduta da un’attività amministrativa procedimentalizzata, essendo il “procedimento” paradigma comune sia

alle autorità amministrative tradizionali che indipendenti.

In sostanza, come nel settore delle intese e degli abusi di posizione dominante – in cui possiede autonomi poteri

di enforcement (decisori e di sanzione) – l’Autorità agisce in contraddittorio con le imprese, così è logico ritenere

che, nei confronti degli eventuali abusi di potere regolatorio, e/o provvedimentale, compiuti da soggetti pubblici

ad essa pariordinati (siano essi espressione dello Stato - apparato ovvero, come pure è possibile, altre Autorità

indipendenti), vi sia una medesima esigenza di procedimentalizzazione, attraverso cui AGCM contestualizza e

concretizza la propria valutazione circa la regola giuridica da applicare al caso concreto.

In tal modo, essa concorre direttamente alla formazione, e al mantenimento, di un complessivo quadro legale

atto a favorire le dinamiche della concorrenza, promuovendo il sindacato del g.a., indipendentemente

dall’esistenza (o dall’iniziativa) di soggetti portatori di interessi, individuali e/o collettivi, lesi dall’attività

amministrativa.

Al riguardo, è significativo che, nello stesso contesto temporale dell’attribuzione di siffatta legittimazione ad

agire, l’Autorità abbia visto ulteriormente potenziata la propria funzione di advocacy, ad esempio, ai fini

dell’espressione del parere obbligatorio sulle c.d. delibere quadro relative alla gestione dei servizi pubblici locali.

Come noto, tale nuova competenza, originariamente prevista dall’art. 4, commi 3 e 4, del d.l. n. 138 del 2011

(così come modificato prima dalla l. di conversione n. 148/2011, e poi, da una vorticosa serie di decreti), è stata

successivamente travolta dalla declaratoria di incostituzionalità dell’intero articolo, pronunciata dalla Corte

Costituzionale con la sentenza 20 luglio 2012, n. 199.

E’ tuttavia importante notare che, nonostante la sopravvenuta espunzione dall’ordinamento di tale fonte,

l’assetto che un Ente territoriale decida oggi di dare alla gestione dei servizi pubblici locali, rimane tuttora

soggetto al vaglio dell’Autorità proprio in forza dell’art. 21 –bis in esame, in quanto norma avente portata

generale.

Il procedimento previsto dal secondo comma non costituisce, pertanto, una mera eventualità, ma è l’espressione

dell’ordinario modus procedendi dell’Autorità, in particolare là dove non sia stata dotata di poteri di enforcement

ovvero di poteri consultivi tipizzati.

3. L’opinione del Collegio, e della prevalente dottrina, è oggi supportata anche dall’orientamento espresso dalla

Corte Costituzionale (sentenza n. 20 del 14 febbraio 2013).

A fronte dell’impugnativa della Regione Veneto - la quale lamentava, tra l’altro, la circostanza secondo cui l’art.

21 –bis finirebbe «col sottoporre gli atti regolamentari ed amministrativi regionali ad un nuovo e generalizzato

controllo di legittimità, su iniziativa di un’autorità statale», così travalicando i limiti desumibili dalla sentenza della

Corte Costituzionale n. 64 del 2005 e violando altresì gli artt. 117, sesto comma, e 118, primo e secondo comma,

Cost., - la Corte ha osservato “che è inesatto parlare di «nuovo e generalizzato controllo di legittimità», là dove la

norma – integrando i poteri conoscitivi e consultivi già attribuiti all’Autorità garante dagli artt. 21 e seguenti della

legge n. 287 del 1990 – prevede un potere di iniziativa finalizzato a contribuire ad una più completa tutela della

concorrenza e del corretto funzionamento del mercato (art. 21, comma 1, della legge citata) e, comunque,

certamente non generalizzato, perché operante soltanto in ordine agli atti amministrativi «che violino le norme a

tutela della concorrenza e del mercato» (norma censurata, comma 1). Esso si esterna in una prima fase a carattere

consultivo (parere motivato nel quale sono indicati gli specifici profili delle violazioni riscontrate), e in una

seconda (eventuale) fase di impugnativa in sede giurisdizionale, qualora la pubblica amministrazione non si

conformi al parere stesso. La detta disposizione, dunque, ha un perimetro ben individuato (quello, per l’appunto,

della concorrenza), compreso in una materia appartenente alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (art.

117, secondo comma, lettera e, Cost.), concernente anche la potestà regolamentare, ai sensi dell’art. 117, sesto

comma, primo periodo, Cost.”.

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In sostanza, anche la Consulta sembra condividere la tesi di un procedimento bifasico, caratterizzato da un

parere preliminare espresso dall’Autorità e da un giudizio avente un “perimetro ben individuato”, con un

sindacato specificamente ed esclusivamente finalizzato ad accertare la violazione delle norme poste a tutela della

concorrenza e del corretto funzionamento del mercato.

3.1. Accanto alle esposte considerazioni di carattere sistematico, sovviene poi l’interpretazione logico – letterale,

convergente anch’essa verso un’unica tipologia di ricorso, caratterizzata da una fase consultiva preliminare che

assurge a vero e proprio presupposto processuale.

La struttura della norma evidenzia infatti un primo comma, che attribuisce ad AGCM la legittimazione “ad agire

in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione

pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato”.

Il secondo comma stabilisce poi le peculiari modalità di proposizione del giudizio, preceduto dalla necessaria

interlocuzione con l’amministrazione autrice dell’atto sospetto di violare le norme poste a tutela della

concorrenza e del mercato.

In tale ottica, si spiega, ad esempio l’utilizzo dell’espressione assertiva, secondo cui l’Autorità non già “può”,

bensì “emette” un parere motivato.

Si spiega anche l’assenza di criteri direttivi, almeno in linea generale, in ordine all’opzione tra le due tipologie di

ricorso.

Il terzo comma individua infine il rito applicabile (quello abbreviato, ai sensi degli artt. 119 e ss. c.p.a.).

Si tratta, a ben vedere, di una scelta coerente con l’oggetto del contenzioso, avente la stessa matrice

dell’impugnativa dei “provvedimenti adottati dalle Autorità indipendenti”, pur essa soggetta al rito abbreviato ai

sensi dell’art. 119, comma 1, lett. b) del Codice del processo amministrativo.

Reputa altresì il Collegio che anche l’espressione recata dal comma 3 dell’art. 21 –bis in esame (“Ai giudizi

instaurati ai sensi del comma 1 si applica la disciplina di cui al Libro IV, Titolo V, del decreto legislativo 2 luglio

2010, n. 104”), deponga per l’introduzione da parte del legislatore di una sola tipologia di ricorso.

Diversamente opinando, per i “giudizi di cui al comma 2”, in difetto di una diversa disposizione, non rimarrebbe

che applicare il rito ordinario, in maniera però del tutto incongruente con la dimidiazione del termine per la

proposizione del ricorso introduttivo.

Sarebbe poi da spiegare perché giudizi aventi il medesimo oggetto (la violazione delle norme sulla concorrenza),

debbano essere sottoposti a riti diversi, a seconda che siano stati preceduti, o meno, dall’espressione di un parere

preliminare.

3.2. In senso contrario alle considerazioni testé esposte, l’Autorità ha richiamato l’esigenza di flessibilità che l’art.

21- bis potrebbe soddisfare laddove le si consentisse di ricorrere direttamente, specie al fine di sollecitare, nei casi

di maggiore consistenza e gravità, un’immediata pronuncia in sede cautelare.

Tale pronuncia avrebbe poi il pregio di porre AGCM sullo stesso piano dei privati, laddove, invece, il ricorso

degli enti esponenziali di natura privatistica non è sottoposto a condizioni di ammissibilità.

3.2.1. La non condivisibilità di tale ultima argomentazione risiede nel fatto che la legittimazione dell’Autorità non

può assimilarsi a quella degli enti esponenziali di interessi diffusi e/o collettivi.

Questi, ultimi, infatti, pur suscettibili di “riconoscimento” da parte del legislatore, secondo gli indici

normativamente stabiliti, preesistono al diritto positivo e non sono conformati da esso.

La creazione di una autorità amministrativa indipendente (sebbene forse, come sostenuto da alcuni,

costituzionalmente necessitata), rimane comunque il frutto di una scelta politica discrezionale che conferisce a

tale organismo non già diritti, bensì potestà amministrative, sia pure non consistenti nella tutela di un interesse

pubblico tradizionale quanto nella garanzia di un bene comune, perseguito attraverso la regolazione neutrale degli

interessi di imprese, consumatori, utenti (sugli indici normativi di riconoscimento di una Autorità indipendente,

cfr., ad esempio Cons. St., sez. I, 22 marzo 2010, n. 1081).

Quanto, poi, all’affermazione secondo cui il ricorso diretto consentirebbe di elidere con maggiore sollecitudine,

mediante la richiesta di sospensione cautelare, il danno alla concorrenza, verrebbe fatto di chiedersi in base a

quale criterio l’Autorità potrebbe operare la scelta tra il ricorso diretto e quello preceduto dal parere.

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Come è stato osservato, la valutazione del “periculum in mora”, tipica del giudizio cautelare, si apprezza

soprattutto in funzione del concreto interesse al ricorso che, nel caso in esame, manca per definizione in quanto

l’Autorità non persegue il soddisfacimento di un interesse personale e concreto, ma agisce per la realizzazione

dell’interesse generale alla concorrenza.

Quanto, invece, al danno alla concorrenza in sé, si tratta, appunto, non di un danno soggettivo ma, semmai,

come pure evidenziato in dottrina, del danno alla struttura concorrenziale del mercato in senso oggettivo.

Al riguardo, va poi anche considerato che, a differenza delle parti private, l’Autorità, attraverso l’espressione del

parere, può esercitare una forma di moral suasion che, se tempestivamente attivata, è potenzialmente in grado di

condurre all’eliminazione della situazione distorsiva negli stessi tempi di un giudizio cautelare.

Comunque, la necessità di dovere attendere l’esaurimento del procedimento preliminare per promuovere il

ricorso, non sembra, di per sé sola, ragione sufficiente ad incrinare la piana ricostruzione della norma che si è in

precedenza sintetizzata.

Semmai, essa potrebbe costituire motivo per un intervento modificativo e/o chiarificatore, da parte del

legislatore (ad esempio, al fine di stabilire espressamente il dies a quo per l’espressione del parere da parte

dell’Autorità).

3.2.2. Non rileva, infine, che la fase procedimentale preliminare non sia espressamente definita dalla norma quale

condizione di ammissibilità e/o procedibilità, o che alla mancanza e/o irregolarità di tale fase non sia

espressamente ricollegata una pronuncia di inammissibilità.

Nel sistema del codice del processo amministrativo, accanto ad ipotesi di inammissibilità tipizzata (si veda ad

esempio l’ultimo comma dell’art. 40, così come sostituito dall’art. 1, comma 1, lett. f) del d.lgs. n. 160/2012,

relativo ai motivi proposti in violazione del principio di specificità. espressamente qualificati come inammissibili),

vi è, infatti, anche una previsione di carattere generale secondo cui il ricorso deve essere dichiarato inammissibile

“quando è carente l’interesse o sussistono altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito” (art. 35, comma 2,

c.p.a.).

Pertanto, l’inammissibilità può essere pronunciata ogniqualvolta si rilevi l’assenza di un presupposto

indispensabile alla costituzione del rapporto giuridico processuale.

4. In definitiva, per quanto appena argomentato, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

La novità delle questioni giustifica la compensazione delle spese di giudizio e degli onorari di difesa.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sede di Roma, sez. II^, definitivamente pronunciando sul ricorso, di cui

in premessa, lo dichiara inammissibile.