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Diritto amministrativo
Fonti, espropriazione, pubblico impiego e
authorities
A cura di
Marco Fratini
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Indice
Espropriazione
L’istituto dell’acquisizione sanante
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 13 gennaio 2014, n. 441
Usucapibilità dell’area
Cons. di Stato, sez. IV, 3 luglio 2014, n. 3346
Ottemperanza e provvedimento ex art. 42 bis T.U. espr.
Cons. di Stato, ordinanza del 3 luglio 2014, n. 3347
Pubblico impiego
Corte di Giustizia, 26 novembre 2014
Corte di Cassazione, sentenza del 30 dicembre 2014, n. 27481
All. 1
Authorities
La legittimazione dell’Antitrust ex art. 21 bis l.n. 287/1990
Cons. di Stato, sez. V, 30 aprile 2014, n. 2246
Sul potere dell’Antitrust di esprimere parere motivato
Corte Costituzionale, 14 febbraio 2013, n. 20
Tar Lazio- Roma, sez. II, 6 maggio 2013, n. 4451
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Selezione giurisprudenziale
Espropriazione
L’istituto dell’acquisizione sanante
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 13 gennaio 2014, n. 441
Motivi della decisione
2. I ricorrenti hanno preliminarmente riproposto l'eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 42 bis
del T.U. sulle espropriazioni,dubitando della sua conformità alla normativa degli art. 117 Cost. ed art. 1
Protocollo 1 all. alla Convenzione Edu, per la sua evidente funzione sanante di un comportamento
illecito dell'amministrazione, dato che allo stesso è attribuita validità giuridica: con il conferimento alla
p.a. del potere di trarne vantaggio e di trasformarlo in una situazione lecita, nonchè di regolarne
unilateralmente le conseguenze a proprio favore. Il che corrisponde proprio alla nozione di
espropriazione indiretta, dalla Corte europea dichiarata incompatibile con la Convenzione pur
nell'ipotesi in cui essa derivi da una disposizione di legge, poichè persegue egualmente il risultato non
consentito, di rendere l'ingerenza illecita nella proprietà privata una alternativa ad un'espropriazione
svolta secondo i canoni di legge.
La questione è anzitutto rilevante nel presente giudizio in quanto, da un lato, è pacifica l'applicabilità del
menzionato istituto (re)introdotto dall'art. 42 bis T.U.; e dall'altro è proprio il sopravvenire di detta
normativa ad aver mutato quella precedente più favorevole, invocata dai ricorrenti,ed in particolare ad
impedire la restituzione dei terreni di fatto occupati dall'AIPO: del resto posta come alternativa dallo
stesso provvedimento 107/2010 del TSAP ove il Commissario non avesse ritenuto di procedere
all'acquisizione sanante ai sensi dell'allora vigente art. 43 del T.U. S'intende significare che l'esame dei
motivi di ricorso potrebbe indurrebbe astrattamente al rigetto dello stesso, nella vigenza della norma
della cui legittimità costituzionale si dubita, conseguendone che/Ove invece l'art. 42 bis, per i
consistenti dubbi di compatibilità con la Carta costituzionale, venisse espunto dall'ordinamento, i
ricorrenti fruirebbero del trattamento, risultante dalla disciplina previgente all'emanazione delle
disposizioni impugnate, per loro più favorevole e consistente nella restituzione dell'immobile soggetto
ad occupazione in radice illegittima, ed al risarcimento del danno informato ai principi generali dell'art.
2043 cod. civ., con accoglimento dei restanti motivi di ricorso.
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Alla completa tutela reintegratoria essi avevano,infatti, diritto in base al regime comune previgente: in
quanto contestualmente alle note decisioni 161/1971 e 138/1981 della Corte Costituzionale sui limiti di
intangibilità dell'atto amministrativo, questa Corte fin dalle sentenze 4423/1977 e 118/1978 delle
Sezioni Unite aveva enunciato la regola che nell'ipotesi di compressione di fatto del diritto di proprietà
privata da parte della P.A., di funzione amministrativa ablatoria meritevole della particolare tutela
apprestata dall'art. 42 Cost. nonchè dalla L. n. 2248 del 1865, art. 4 All. E può parlarsi soltanto nel caso
di provvedimenti espropriativi assistiti dalla dichiarazione di p.u. e non anche nel caso di mero
impiego,sia pure per fini pubblici, dell'immobile altrui materialmente appreso o dell'utilità da esso
materialmente ritratta con continuata o reiterata compressione di fatto dell'altrui diritto dominicale.
Sicchè ove la prevalenza dell'interesse pubblico sull'interesse privato non sia esternata nell'atto tipico del
procedimento amministrativo, costituito appunto dalla dichiarazione suddetta, la semplice
intromissione nell'immobile privato e la sua materiale utilizzazione non può valere a trasformare in
esercizio di potestà amministrativa nè l'iniziale apprensione del bene, nè la sua successiva detenzione,in
quanto lo status soggettivo dell'occupante non riveste alcuna rilevanza; e non ne presenta del pari
nessuna la successiva e non consentita trasformazione del fondo da parte dell'ente pubblico (ed
occupazione usurpativa) che, restando fine a sè stessa, non pone alcun problema di bilanciamento di
interessi ma produce soltanto le conseguenze proprie dell'illecito comune di carattere permanente ed è
inquadrabile, sotto ogni profilo, nello schema degli art. 2043 e 2058 cod. civ. Il quale, dunque, non solo
non consente l'acquisizione autoritativa del bene alla mano pubblica, costituente funzione propria della
vicenda espropriativa, ma attribuisce al proprietario, rimasto tale, la tutela reale e cautelare apprestata
nei confronti di qualsiasi soggetto dell'ordinamento (restituzione, riduzione in pristino stato
dell'immobile, provvedimenti di urgenza per impedirne la trasformazione ecc); oltre al consueto
risarcimento del danno, ancorato ai parametri dell'art. 2043 cod. civ. (Cass. sez. un. 3081 e 3380/1982,
più di recente: sez. un. 14886/2009; 1907/1997, nonchè sez. 1, 1080/2012; 9173 e 18239/2005;
15710/2001).
3. Siffatta disciplina - che trovava deroga nelle fattispecie della c.d. occupazione espropriativa, tuttavia
subordinata alla ricorrenza di specifici presupposti, tra cui la sussistenza di una valida dichiarazione di
p.u. (Cass. sez. un. 3940/1988; 3242 e 3243/1979 e succ), ed ora eliminata dal T.U. espropr. appr. con
D.P.R. n. 327 del 2001, - è stata profondamente modificata dall'originario art. 43 dello stesso T.U.; e,
dichiarata quest'ultima disposizione costituzionalmente illegittima per eccesso di delega dalla sentenza
293/2010 della Corte Costit., dal D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 34 conv. con mod. dalla L. 15 luglio
2011, n. 111, recante "Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria", che ha inserito nel T.U.
l'art. 42-bis ("Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico"), del seguente tenore:
"Valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse
pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della
pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio
indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non
patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale
del bene (comma 1). Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato
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annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la
pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio..." (comma 2).
E' stata in tal modo reintrodotta,secondo la più qualificata dottrina e la giurisprudenza amministrativa,
la possibilità per l'amministrazione che utilizza un bene privato senza titolo per scopi di interesse
pubblico, di evitarne la restituzione al proprietario (e/o la riduzione in pristino stato) attraverso il
ricorso ad un atto di acquisizione coattiva al proprio patrimonio indisponibile, che sostituisce il
procedimento ablativo prefigurato dal T.U., e si pone, a sua volta, come una sorta di procedimento
espropriativo semplificato. Il quale assorbe in sè sia la dichiarazione di pubblica utilità, che il decreto di
esproprio, e quindi sintetizza "uno actu" lo svolgimento dell'intero procedimento, in presenza dei
presupposti indicati dalla norma.
La nuova soluzione è apparsa al legislatore indispensabile, anzitutto per "eliminare la figura sorta nella
prassi giurisprudenziale della occupazione appropriativa ...nonchè quella dell'occupazione usurpativa.."
(Cons. St. Ad. gen. 4/2001), e quindi al fine di adeguare l'ordinamento "ai principi costituzionali ed a
quelli generali di diritto internazionale sulla tutela della proprietà". Posto che in forza di detto
provvedimento cessa la occupazione sine titulo, e nel contempo la situazione di fatto viene adeguata a
quella di diritto con l'attribuzione (questa volta) formale della proprietà alla p.a. (se prevale l'interesse
pubblico), cui è consentita una legale via di uscita dalle numerose situazioni di illegalità realizzate nel
corso degli anni. Onde permetterle il ritorno alla legalità in modo completo,perciò comprendente tanto
le (prevedibili) utilizzazioni illecite future, quanto quelle già verificatesi, anche in epoca antecedente al
T.U., per le quali permane egualmente la necessità di regolarizzarne la sorte definitiva, l'art. 42 bis ha
riproposto l'applicazione estensiva dell'istituto peculiare del precedente art. 43, di cui ha ereditato
perfino la rubrica, rivolgendola in diverse direzioni, in quanto: 1) ha superato la norma transitoria
dell'art. 57 con l'introduzione del comma 8, per il quale "Le disposizioni del presente articolo trovano
altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un
provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato"; 2) ha confermato, malgrado la
critica sul punto della Corte Costituzionale, l'estensione del potere di acquisizione alle servitù di fatto
(comma 7), in passato escluse dall'occupazione espropriativa (perchè ne difetta la non emendabile
trasformazione del suolo in una componente essenziale dell'opera pubblica: Cass. sez. un. 8065/1990;
4619 e 3963/1989; da ultimo: 19294/2006; 14049 e 17570/2008; 18039/2012): peraltro con ampia
facoltà all'amministrazione di costituirle con il peculiare contenuto indicato nel provvedimento,pur se al
di fuori delle fattispecie tipiche previste dal codice civile o da leggi speciali (Cons. Stato, 3723/ 2009); 3)
non richiede più che l'immobile realizzando rientri in una delle categorie individuate dagli artt. 822 ed
826 cod. civ. (postulate dall'occupazione appropriativa). Ed anzi è stato rescisso perfino il collegamento
con l'area delle espropriazioni per p.u., prevedendosi l'applicazione dell'istituto anche nell'ipotesi in cui
sia stato annullato l'atto da cui è sorto il vincolo preordinato all'esproprio: in base alla mera utilizzazione
dell'immobile per scopi di interesse pubblico, che ne abbia provocato una qualche modifica, pur
quando "attribuito...in uso speciale a soggetti privati (comma 5); 4) ha conclusivamente invertito il
principio tratto dall'art. 42 Cost. ed art. 834 cod. civ. che la potestà ablativa ha carattere eccezionale che
non può essere esercitata se non nei casi in cui sia la legge a prevederla (L. n. 2359 del 1865 per la
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realizzazione di opere pubbliche, L. n. 1089 del 1939 per i beni storici, artistici; D.Lgs. n. 215 del 1933
per finalità di bonifica; D.Lgs. n. 3267 del 1923 per fini di protezione idro-geologica ecc). In quanto
l'acquisizione è predisposta in via generale ed indeterminata per qualsiasi "utilizzazione" del bene -
meramente detentiva, come preordinata all'esproprio, reversibile oppure irreversibile -; in seguito alla
quale il provvedimento non è tenuto ad individuarne neppure la destinazione, essendo sufficiente
"l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la
data dalla quale essa ha avuto inizio" (comma 4).
4. Questi caratteri dell'acquisizione, immediatamente denominata "sanante", hanno indotto la
menzionata sentenza 293/2010 della Corte Costituzionale ad osservare che il nuovo istituto "prevede
un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa amministrazione che ha commesso l'illecito,
(anche) a dispetto di un giudicato che dispone il ristoro in forma specifica del diritto di proprietà
violato"; e che la norma, marcatamente innovativa rispetto al contesto normativo positivo, "neppure è
coerente con quegli orientamenti di giurisprudenza che, in via interpretativa, erano riusciti a porre un
certo rimedio ad alcune gravi patologie emerse nel corso dei procedimenti espropriativi". Per cui la sua
riproduzione nell'art. 42 bis, applicabile ad ogni genere di situazione sostanziale e processuale indicata,
con il risultato di aprire alla P.A. una vasta ed indeterminata gamma di nuove prerogative, ripropone
numerosi e gravi dubbi di costituzionalità - anche per le possibili violazioni del principio di legalità
dell'azione amministrativa - in relazione ai precetti contenuti negli art. 3, 24,42 e 97 Cost.; nonchè di
compatibilità con la ricordata normativa della Convenzione CEDU, e quindi dell'art. 117 Cost. In linea
più generale, infatti, dottrina e giurisprudenza si sono chieste se alla P.A. che abbia commesso un fatto
illecito, fonte per qualsiasi soggetto dell'obbligazione risarcitoria/restitutoria di cui agli art. 2043 e 2058
cod. civ., possa essere riservato un trattamento privilegiato (conforme alla normativa dell'art. 3 Cost.) ed
attribuita la facoltà di mutare, successivamente all'evento dannoso prodotto nella sfera giuridica altrui, e
per effetto di una propria unilaterale manifestazione di volontà, il titolo e l'ambito della responsabilità,
nonchè il tipo di sanzione (da risarcimento in indennizzo) stabiliti in via generale dal precetto del
"neminem laedere" per qualunque soggetto dell'ordinamento. Soprattutto al lume del principio
costituzionale (ritenuto da Corte Costit. 204/2004 "una conquista liberale di grande importanza") che
nel sistema vigente è privilegiata la tutela della funzione amministrativa e non della p.a. come soggetto.
La risposta, del tutto univoca a partire dalla revisione critica di cui si è detto avanti (par. 2), è stata che,
allorquando la stessa opera al di fuori di detta funzione, è soggetta a tutte le regole vincolanti per gli altri
soggetti, nonchè esposta alle medesime responsabilità, fra cui quelle di cui alle norme codicistiche
menzionate; e che vale anche per essa la regola che "factum infectum fieri nequit", costituente limite
invalicabile anche per il potere di sanatoria in via amministrativa di una situazione di illegittimità.
Sicchè, una volta attuata in tutti i suoi elementi costitutivi dela lesione ingiusta di un diritto soggettivo,
quest'ultima non può mai mutare natura e divenire "giusta" per effetto dell'autotutela amministrativa,
cui non è consentito neppure di eliminarne "ex post" le conseguenze e le obbligazioni restitutorie e
risarcitorie ad esse correlate.
Queste risposte hanno trovato piena corrispondenza nella rigorosa applicazione del principio di legalità
sostanziale predicato dalla normativa dell'Unione Europea (cfr. Corte giust. UE 10 novembre 2011, 0C
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405/10); nonchè nella giurisprudenza della Corte Edu (1,13 ottobre 2005, Serrao; 15 novembre 2005,
La Rosa; 3, 15 dicembre 2005, Scozzari; 2, 9 gennaio 2009, Sotira; Grande Chambre, 4 gennaio 2010,
Guiso) proprio in materia di ingerenza illegittima nella proprietà privata, fondata sempre e comunque
sul corollario divenuto per i giudici di Strasburgo insuperabile, che alla P.A. non è consentito (nè
direttamente nè indirettamente) trarre vantaggio da propri comportamenti illeciti,e più in generale, da
una situazione di illegalità dalla stessa determinata . Laddove l'art. 42 bis, per il solo fatto della
connotazione pubblicistica del soggetto responsabile, ha soppresso tale pregresso regime
dell'occupazione abusiva di un immobile altrui, sottraendo al proprietario l'intera gamma delle azioni di
cui disponeva in precedenza a tutela del diritto dominicale, e la stessa facoltà di scelta di avvalersene o
meno. E,considerando esclusivamente gli scopi dell'amministrazione, l'ha trasferita dalla "vittima
dell'ingerenza" (tale qualificata dalla Corte europea), all'autore del fatto illecito, attraverso la sostanziale
introduzione con il semplice atto di acquisizione emesso da quest'ultimo,di un nuovo modo di acquisto
della proprietà privata, che prescinde ormai dal collegamento con la realizzazione di opere pubbliche, e
perfino con una pregressa procedura ablativa:
essendo l'istituto rivolto a definire in linea generale (non più un procedimento espropriativo in itinere,
bensì) "quale sorte vada riservata ad una res utilizzata e modificata dalla amministrazione, restata senza
titolo nelle mani di quest'ultima" (Cons. St. Ad. Plen. 2/2005 e succ.).
Proprio per superare soluzioni analoghe, apparse non conformi al suddetto principio di legalità in
ambito espropriativo, la giurisprudenza di legittimità fin dall'inizio degli anni 80 aveva riconsiderato ed
espunto (Cass. 382/1978; 2931/1980; 5856/1981) la regola, fino ad allora seguita, che alla P.A.
occupante (senza titolo) fosse concesso di completare la procedura ablativa in ogni tempo con la tardiva
pronuncia del decreto di esproprio, perfino nel corso di un giudizio intrapreso dal proprietario per la
restituzione dell'immobile; e che il solo fatto dell'adozione postuma del provvedimento ablativo -
ammissibile fino alla decisione della Cassazione - comportasse la conversione automatica dell'azione
restitutoria e/o risarcitoria, in opposizione alla stima dell'indennità: alla quale soltanto il proprietario
finiva per avere diritto. E tale adeguamento alla normativa costituzionale non è sfuggito alla ricordata
decisione 293/10 della Consulta che lo ha contrapposto agli effetti dell'acquisizione sanante (analoghi a
quelli del decreto tardivo), dando atto che da decenni "secondo la giurisprudenza di legittimità, in
materia di occupazione di urgenza, la sopravvenienza di un provvedimento amministrativo non poteva
avere un'efficacia sanante retroattiva, determinata da scelte discrezionali dell'ente pubblico o dai suoi
poteri autoritativi".
5. Il dubbio di elusione delle garanzie poste dall'art. 42 Cost. a tutela della "proprietà privata" (commi 2
e 3) appare alle Sezioni Unite ancor più consistente in relazione al primo e fondamentale presupposto
per procedere al trasferimento coattivo di un immobile mediante espropriazione, ivi indicato nella
necessaria ricorrenza di "motivi di interesse generale"; che trova puntuale riscontro in quello di eguale
tenore dell'art. 1 del Protocollo 1 All. alla Convenzione EDU per cui l'ingerenza nella proprietà privata
può essere attuata soltanto "per causa di pubblica utilità".
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Fin dalle decisioni più lontane nel tempo la Corte Costituzionale ha affermato al riguardo (sent.
90/1966) che "Il precetto costituzionale, secondo cui una espropriazione non può essere consentita
dalla legge se non per motivi di interesse generale (o - il che è lo stesso - per pubblica utilità), e cioè se
non quando lo esigano ragioni importanti per la collettività, comporta, in primo luogo, la necessità che
la legge indichi le ragioni per le quali si può far luogo all'espropriazione; e inoltre che quest'ultima non
possa essere autorizzata se non nella effettiva presenza delle ragioni indicate dalla legge" Ed ancora che
"Nelle leggi della materia - la cui fondamentale espressione è rappresentata dalla L. 25 giugno 1865, n.
2359 - si trova infatti costantemente affermato il concetto (e anche lì dove esso non risulta
espressamente enunciato, è stata la giurisprudenza a proclamare l'inderogabilità del principio) che fin
dal primo atto della procedura espropriativa debbono risultare definiti non soltanto l'oggetto, ma anche
le finalità, i mezzi e i tempi di essa..." Negli stessi termini tutti i successivi interventi della Consulta
(sent. 95/1966; 384/1990; 486/1991; 155 e 188 /1995), nonchè la consolidata giurisprudenza di
legittimità che fin dai primi anni 60 (Sez. un. 826/1960 e succ), ha definito la dichiarazione di p.u. "la
guarentigia prima e fondamentale del cittadino e nel contempo la ragione giustificatrice del suo
sacrificio nel bilanciamento degli interessi del proprietario alla restituzione dell'immobile ed in quello
pubblico al mantenimento dell'opera pubblica per la funzione sociale della proprietà"; ha costantemente
confermato che la suddetta garanzia costituzionale viene osservata soltanto se la causa del trasferimento
è predeterminata nell'ambito di un apposito procedimento amministrativo, nel bilanciamento
dell'interesse primario con gli altri interessi in gioco. Ed è rimasta sempre ancorata al principio (Da ult.
Cass. sez. un. 30254 e 19501/2008; 10962/2005; 9139/2003) che la mancanza della preventiva
dichiarazione di pubblica utilità implica il difetto di potere dell'amministrazione nel procedere
all'espropriazione (sia essa rituale o attuata in forma anomala,come nell'ipotesi dell'occupazione
appropriativa: sent. 384/1990 cit.).
La norma costituzionale richiede, quindi, che i motivi d'interesse generale per giustificare l'esercizio del
potere espropriativo nei (soli) casi stabiliti dalla legge, siano predeterminati dall'amministrazione ed
emergano da un apposito procedimento - individuato, appunto, nel procedimento dichiarativo del
pubblico interesse culminante nell'adozione della dichiarazione di pubblica utilità - preliminare,
autonomo e strumentale rispetto al successivo procedimento espropriativo in senso stretto, nel quale
l'amministrazione programma un nuovo bene giuridico destinato a soddisfare uno specifico interesse
pubblico, attuale e concreto. E che siano palesati gradualmente e anteriormente (allo spossessamento
nonchè) al sacrificio del diritto di proprietà, in un momento in cui la comparazione tra l'interesse
pubblico e l'interesse privato possa effettivamente evidenziare la scelta migliore, nel rispetto dei principi
d'imparzialità e proporzionalità (art. 97 Cost.): in un momento, cioè in cui la lesione del diritto
dominicale non è ancora attuale ed eventuali ipotesi alternative all'espropriazione non sono ostacolate
da una situazione fattuale ormai irreversibilmente compromessa. Da qui la formula dell'art. 42, comma
3 per cui l'espropriazione in tanto è costituzionalmente legittima in quanto è originata da "motivi di
interesse generale", ovvero collegata ad un procedimento amministrativo che evidenzi i motivi che
giustificano una incisione nella sfera del privato proprietario, di questo valorizzando il ruolo
partecipativo; e la conseguenza che tale risultato non sarebbe garantito dall'esercizio di un potere
amministrativo che, sebbene presupponga astrattamente una valutazione degli interessi in conflitto, è
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destinato in concreto a giustificare ex post il sacrificio espropriativo unicamente in base alla situazione
di fatto illegittimamente determinatasi.
La preventiva emersione dei motivi d'interesse generale non costituisce, conclusivamente, semplice
regola procedimentale disponibile dal legislatore, ma specifica garanzia costituzionale strumentale alla
tutela di preminenti valori giuridici: come dimostra l'imponente giurisprudenza, soprattutto
amministrativa, secondo la quale la dichiarazione di pubblica utilità non è un semplice atto prodromico
con l'esclusivo effetto di condizionare la legittimità del provvedimento finale d'espropriazione ed
impugnabile quindi solo congiuntamente a quest'ultimo, bensì un provvedimento autonomo, idoneo a
determinare immediati effetti lesivi nella sfera giuridica di terzi. I quali si riflettono necessariamente sul
piano della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), consentendo all'espropriando di partecipare alla fase
antecedente alla sua adozione, e quindi di contestarlo sin dal primo momento del suo farsi, coincidente
con l'emersione dei motivi d'interesse generale (Cons. St. 4766/2013; 3684/2010; 3338 e 479/2009;
5034/2007; Ad. plen.2/2000; 14/1999). Per converso, l'art. 42 bis, prescindendo dalla dichiarazione di
p.u., autorizza l'espropriazione sostanziale in assenza di una predeterminazione dei motivi d'interesse
generale che dovrebbero giustificare il sacrificio del diritto di proprietà, reputando sufficiente che la
perdita del bene da parte del proprietario trovi giustificazione nella situazione di fatto venutasi a creare
per effetto del comportamento contra ius dell'amministrazione; e ne consente l'acquisizione anche
laddove tale procedura sia stata violata o totalmente omessa, in questo modo trasformando il rispetto
del procedimento tipizzato dalla legge in una mera facoltà dell'amministrazione. E, relegando la
dichiarazione di pubblica utilità al momento procedimentale eventuale, la cui assenza può essere
superata dal provvedimento di acquisizione che ne elimina in radice la necessarietà. In
contrasto,peraltro, anche con la complessiva e rigida disciplina delle espropriazioni posta dallo stesso
D.P.R. n. 327 del 2001 che nell'art. 2 ha dichiarato di ispirarsi proprio al "principio di legalità dell'azione
amministrativa": dal momento che il potere sanante viene di fatto ad esautorare il significato dei doveri,
obblighi e limiti che scandiscono il procedimento espropriativo. Ed in contrasto soprattutto con quella
specifica del capo 3^ relativo alla "fase della dichiarazione di p.u." che ha istituito, in conformità all'art.
97 Cost. un giusto procedimento che riconosce e valorizza il ruolo partecipativo del privato
proprietario (cfr. art. 11 segg.): subito dopo reso superfluo dalla contestuale introduzione di un
meccanismo "semplificato", parallelo ed alternativo, rimesso a scelte insindacabili dell'amministrazione.
Alla quale in definitiva viene attribuito il potere (di volta in volta, e per ogni espropriazione), di recepire
ovvero escludere le garanzie connesse al procedimento normale.
Non è sostenibile, infatti, che, siccome l'adozione del provvedimento di acquisizione è subordinato ad
una previa valutazione degli interessi in conflitto ed al fatto che il bene occupato sia utilizzato per scopi
d'interesse generale, queste espressioni abbiano valenza complessiva di sostanziale sinonimo dei "motivi
di interesse generale" di cui all'art. 42 Cost., comma 3: in quanto il riferimento normativo alla
valutazione degli interessi in conflitto presuppone un apprezzamento di amplissima discrezionalità
dell'amministrazione espropriante,assolutamente privo di "elementi e criteri idonei a delimitarla
chiaramente" (Corte Costit. 38/1966), tanto che non viene descritto alcun parametro, neppure
vaghissimo, al quale una siffatta valutazione debba essere ancorata; e neppure, viene prefigurato
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l'ingresso nell'iter decisionale di interessi privati che tale discrezionalità possano in qualche misura
indirizzare o soltanto attenuare. Mentre è lo stesso art. 42 bis ad escludere che i generici ed
indeterminati scopi di interesse generale - che peraltro si limitano a riprodurre la regola per cui tutta
l'attività dell'amministrazione è istituzionalmente e necessariamente finalizzata ad interessi generali -
coincidano con la causa di pubblica utilità postulata dalla Costituzione (e dalla Convenzione) per
procedere all'espropriazione, ritenendo, da un lato, sufficiente per la ricorrenza dei primi che l'immobile
sia occupato e utilizzato da una pubblica amministrazione: e quindi la stessa situazione di fatto venutasi
a creare per effetto del comportamento contra ius di quest'ultima. E dall'altro, richiedendo che la
determinazione relativa al loro accertamento, si svolga al solo fine di legittimarla ex post, peraltro
attraverso passaggi conoscitivi e valutativi tutti interni all'apparato amministrativo, e perciò
necessariamente soggettivi. A differenza dei "motivi di interesse generale", i quali (Corte Costit.
95/1966 e 155/1995) "valgono non solo ad escludere che il provvedimento ablatorio possa perseguire
un interesse meramente privato, ma richiedono anche che esso miri alla soddisfazione di effettive e
specifiche esigenze rilevanti per la comunità"; e la cui identificazione deve "rinvenirsi nella stessa legge
che prevede la potestà ablatoria; come anche in essa può trovarsi definita soltanto la fattispecie astratta
(a mezzo di clausola generale).." che ne implica poi l'individuazione in concreto nell'ambito di un
procedimento normativamente predeterminato (e partecipato). Allorchè, dunque, "il programma da
realizzare" sia ancora nella fase progettuale (comportante le opportune valutazioni relative a
collocazione, caratteristiche tecniche, convenienza, tutela ambientale ecc), precedente alla concreta
lesione del diritto dominicale (Corte Costit. 90/1966 cit.): soltanto così potendosi garantire che il
relativo sacrificio consegua il giusto equilibrio con le reali esigenze della collettività, e configurare il
comportamento dell'ente espropriante come rispettoso del principio di legalità non solo formale (cfr.
art. 97 Cost. ed 1 Prot. All. 1 alla CEDU).
6. Ma il rapporto di implicazione logica e giuridica tra la fase della dichiarazione di p.u. ed il successivo
trasferimento coattivo, assolve ad una seconda e non meno rilevante funzione, risalente alla Legge
fondamentale n. 2359 del 1865, art. 13; il quale, onde evitare che si protragga indefinitamente
l'incertezza sulla sorte dei beni espropriandi, e nel contempo, che si eseguano opere non più
rispondenti, per il decorso del tempo all'interesse generale, ha attribuito ai proprietari una ulteriore
garanzia fondamentale, oggi rispondente al principio di legalità e tipicità del procedimento ablativo,
disponendo nel comma 1 che nel provvedimento dichiarativo della pubblica utilità dell'opera devono
essere fissati quattro termini (e cioè quelli di inizio e di compimento della espropriazione e dei lavori); e
stabilendo, nel comma 3, che "trascorsi i termini, la dichiarazione di pubblica utilità diventa inefficace".
Sopravvenuta la Costituzione, questa disposizione ha assunto rilevanza costituzionale, essendo stata
collegata dalla Corte Costituzionale (sent. 355/1985; 257/1988; 141/1992) direttamente al principio
che, siccome la proprietà privata può essere espropriata esclusivamente per motivi di interesse generale
(art. 42 Cost., comma 3), tale possibilità è connaturata solo all'esigenza che l'espropriazione avvenga per
esigenze effettive e specifiche:che valgano, cioè, a far considerare indispensabile e tempestivo il
sacrificio della proprietà privata in quel momento; con la conseguenza che ciò non si verificherebbe ove
il trasferimento coattivo di un bene avvenisse in vista di una futura, ma attualmente ipotetica
utilizzazione al servizio di specifici fini di interesse generale, ma privi di attualità e di concretezza (Fra
tante: Cass. sez. un. 15606/2001; 460/1999; 355/1999; 1907/1997).
12
Da tale quadro normativo, la giurisprudenza tanto ordinaria, quanto amministrativa, ha tratto le regole,
oggi ritenute assolute e non derogabili: A) che "la fissazione di tali termini costituisce regola
indefettibile per ogni e qualsiasi procedimento espropriativo" (Così Corte Costit. 257/1988); B) che la
loro omessa fissazione comporta la giuridica inesistenza della dichiarazione di p.u. con tutte le
conseguenze sopra evidenziate: prima fra tutte che tale situazione non è idonea a far sorgere il potere
espropriativo e, dunque, ad affievolire il diritto soggettivo di proprietà sui beni espropriando;e
determina una situazione di carenza di potere che incide (negativamente) sui successivi atti e
comportamenti della procedura ablativa, più non consentendone l'adozione (Fra tante, Cass. sez. un.
3569/2011; 9323/2007; 600/2005; nonchè 4202/2009; 28214/2008; 16907/2003); C) che tale
indicazione (ove non apposta direttamente dalla legge) deve avvenire nello stesso atto avente "ex lege"
valore di dichiarazione di pubblica utilità dell'opera, e quindi nell'atto con cui è approvato il progetto di
opera pubblica;
ed il relativo onere non può essere assolto mediante atti successivi, seppure in forma di convalida e di
sanatoria, idonei ad eliminare l'intrinseca illegittimità del primo atto (Cass. 8210/2007; 120/2004; sez.
un. 7881 e 2688/2007; 9532/2004; 355/1999; Cons. St. 7578/2000); D) che scaduti inutilmente i
termini finali di cui all'art. 13, si esaurisce il potere dell'espropriante di condurre a compimento il
procedimento ablativo; che può soltanto ricominciare attraverso la rinnovazione della dichiarazione di
p.u necessariamente richiedente,come prescritto dalla norma, lo svolgimento ab inizio del
procedimento amministrativo strumentale di cui si è detto, e quindi il compimento ex novo di tutte le
formalità previste come indispensabili dalla legge per l'approvazione di quel progetto, con la
considerazione della situazione attuale (anche dei luoghi), così come evoluta nelle more (Cass. sez. un.
10024/2007; 4717/1996; 7191/1994, nonchè 17491/2008; 1836/2001).
Nella diversa prospettiva dell'acquisizione coattiva, che intende riunire sia gli effetti espropriativi, sia la
valutazione del pubblico interesse, anche la garanzia offerta dai termini dell'art. 13 è destinata a non
trovare spazio, nè tutela effettiva,in quanto la norma non indica alcun limite temporale entro il quale
l'amministrazione debba esercitare il relativo potere: perciò esponendo il diritto dominicale su di esso al
pericolo dell'emanazione del provvedimento acquisitivo senza limiti di tempo;
ed accentuando, i seri dubbi di contrasto con l'art. 3 Cost., avanti manifestati, per il regime
discriminatorio provocato tra il procedimento ordinario in cui l'esposizione è temporalmente limitata
all'efficacia della dichiarazione di pubblica utilità (nella disciplina del T.U., anche a quella del vincolo
preordinato all'esproprio), e quello sanante in cui il bene privato detenuto sine titulo è sottoposto in
perpetuo al sacrificio dell'espropriazione.
13
7. La nuova operazione sanante - in tutte le fattispecie individuate dall'art. 42 bis, compresa quella di
utilizzazione del bene senza titolo "in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio" -
presenta poi, numerosi ed insuperabili profili di criticità - non risolvibili in via ermeneutica - con le
norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo (art. 117 Cost.).
La quale, del resto, come già rilevato da questa Corte (Cass. 18239/2005; 20543/2008), si è già
pronunciata in tali sensi, esaminando sia pure incidentalmente, l'allora vigente art. 43 T.U., interamente
riprodotto nell'impianto del meccanismo traslativo, dall'attuale art. 42 bis. Il suo fulcro qualificante è
ravvisato infatti nella prospettiva che la restituzione dell'immobile privato utilizzato per scopi di p.i.,
secondo le direttive della Convenzione, possa essere evitata soltanto a seguito di un legittimo e formale
provvedimento che ne dispone l'acquisizione al patrimonio pubblico; e che deve, a sua volta, trovare
giustificazione non più in una situazione fattuale e/o in una prassi giurisprudenziale, ma in una
previsione legislativa. Per cui, la coesistenza di detti presupposti è apparsa al legislatore necessaria e nel
contempo sufficiente per garantire il "rispetto dei parametri imposti dalla Corte europea e dai principi
costituzionali": anche per l'obbligo imposto all'autorità amministrativa di "valutare gli interessi in
conflitto", e perciò di "mantenere il giusto equilibrio tra le esigenze dell'interesse generale della
comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo".
7.1. Affatto diverso è il quadro normativo prospettato dalla Corte Edu nella interpretazione delle tre
norme dell'art. 1 del Prot. n. 1 - la prima afferma il principio generale di rispetto della proprietà; la
seconda consente la privazione della proprietà solo alle condizioni indicate; la terza riconosce agli Stati
il potere di disciplinare l'uso dei beni in conformità all'interesse generale-;
la quale muove dalla regola che, per determinare se vi sia stata privazione dei beni ai sensi della seconda
norma, occorre non solo verificare se vi sono stati spossessamene o espropriazione formale, ma anche
guardare al di là delle apparenze ed analizzare la realtà della concreta fattispecie, onde stabilire se essa
equivalga ad un'espropriazione di fatto o indiretta, atteso che la CEDU mira a proteggere diritti
"concreti ed effettivi" (tra le tante, Papamichalopoulos c. Grecia, 24 giugno 1993; Acciardi c. Italia, 19
maggio 2005; Cadetta c. Italia, 15 luglio 2005;De Angelis c. Italia, 21 dicembre 2006; Pasculli c. Italia, 4
dicembre 2007). Per cui ha dichiarato in radicale contrasto con la Convenzione il principio
dell'"espropriazione indiretta", con la quale il trasferimento della proprietà del bene dal privato alla p.a.
avviene in virtù della constatazione della situazione di illegalità o illiceità commessa dalla stessa
Amministrazione, con l'effetto di convalidarla; di consentire a quest'ultima di trarne vantaggio; nonchè
di passare oltre le regole fissate in materia di espropriazione, con il rischio di un risultato imprevedibile
o arbitrario per gli interessati.
E nella categoria suddetta la Corte ha sistematicamente inserito non soltanto l'ipotesi corrispondente
alla c.d. occupazione espropriativa, ma tutte indistintamente le fattispecie (sent. 19 maggio 2005,
Acciardi) di "perdita di ogni disponibilità dell'immobile combinata con l'impossibilità di porvi rimedio, e
14
con conseguenze assai gravi per il proprietario che subisce una espropriazione di fatto incompatibile
con il suo diritto al rispetto dei propri beni": ritenendo ininfluente "che una tale vicenda sia giustificata
soltanto dalla giurisprudenza, ovvero sia consentita mediante disposizioni legislative, come è avvenuto
con la L. n. 458 del 1988, art. 3 ovvero da ultimo con l'art. 43 del T.U., in quanto il principio di legalità
non significa affatto esistenza di una norma di legge che consenta l'espropriazione indiretta, bensì
esistenza di norme giuridiche interne sufficientemente accessibili, precise e prevedibili". Con la
conseguenza che il supporto di "una base legale non è sufficiente a soddisfare al principio di legalità" e
che "è utile porre particolare attenzione ("se pencher") sulla questione della qualità della legge" (sent.
Acciardi cit. 75; Scordino, 12 ottobre 2005, cit. 87 ed 88). E quella ulteriore che al nuovo istituto del
T.U. i giudici di Strasburgo hanno mosso l'ulteriore addebito di non aver neppure escluso, come aveva
fatto la giurisprudenza ordinaria,che l'espropriazione indiretta potesse applicarsi quando la
dichiarazione di p.u. sia stata annullata,avendo previsto "che anche in assenza della dichiarazione di p.u.
qualsiasi terreno possa essere acquisito al patrimonio pubblico, se il giudice decide di non ordinare la
restituzione del terreno occupato e trasformato dall'amministrazione" (CEDU, Sciarrotta, 12 gennaio
2006; Genovese, 2 febbraio 2006; Serrao, 13 ottobre 2005; Scordino, 12 ottobre 2005, par. 90; S.A.S.
Cerro e/Italia, cit. par. 76-80).
7.2. In tale ottica diviene del tutto indifferente per escludere la ricorrenza di espropriazioni di fatto
incompatibili con il diritto al rispetto dei propri beni e ripristinare la legalità, l'adozione postuma di un
provvedimento con pretesi effetti sananti, perchè il requisito della legalità secondo la Corte Edu non
permette "in generale all'amministrazione di occupare un terreno e di trasformarlo irreversibilmente, di
tal maniera da considerarlo acquisito al patrimonio pubblico, senza che contestualmente un
provvedimento formale che dichiari il trasferimento di proprietà sia stato emanato" (Cfr. in particolare
decisioni 17 maggio 2005, Pasculli; 19 maggio 2005, Acciardi e Campagna; 11 ottobre 2005, La Rosa; 11
ottobre 2005, Chirò; 12 ottobre 2005, Scordino; 13 ottobre 2005, Serrao; 7 novembre 2005, Istituto
diocesano; 12 gennaio 2006, Sciarrotta; 23 febbraio 2006, S.A.S.; 20 aprile 2006, De Sciscio; 9 gennaio
2009, Sotira). Il contrasto con la Convenzione dipende, allora, dal riconoscimento nel nostro
ordinamento - "en vertu d'un principe jurisprudentiel ou d'un texte de loi comme l'article 43" - di effetti
traslativi all'occupazione e successiva modifica meramente fattuale di un terreno "sans quen parallele"
sussista un atto formale che dichiari il trasferimento della proprietà "intervenant au plus tard au
moment" in cui il proprietario ha perduto ogni potere sull'immobile:così come,del resto, oltre un secolo
prima aveva richiesto la L. n. 2359 del 1865, art. 50. Perciò inducendola a concludere che ogni forma di
espropriazione indiretta in ogni caso "n'a pas pour effet de regulariser la situation denoncee", nè tanto
meno quello di costituire "un'alternativa ad un'espropriazione in buona e dovuta forma" (CEDU, 4, 15
novembre 2005, La Rosa; 3, 12 gennaio 2006, Sciarrotta, 1, 23 febbraio 2006, Immobiliare Cerro).
La "legalizzazione dell'illegale" non è conclusivamente consentita dalla giurisprudenza di Strasburgo
neppure ad una norma di legge, nè tanto meno ad un provvedimento amministrativo di essa attuativo,
quale è quello che disponga l'acquisizione sanante (Ucci, 22 giugno 2006; Cerro sas, 23 maggio 2006;
De Sciscio, 20 aprile 2006; Dominici, 15 febbraio 2006; Serrao, 13 gennaio 2006; Sciarrotta, 12 gennaio
2006; Carletta, 15 luglio 2005; Scordino, 17 maggio 2005); ed in termini non dissimili si è espressa anche
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Corte Costit. 293/2010, per la quale "non è affatto sicuro che la mera trasposizione in legge di un
istituto, in astratto suscettibile di perpetuare le stesse negative conseguenze dell'espropriazione indiretta,
sia sufficiente di per sè a risolvere il grave vulnus al principio di legalità". Sicchè il ritorno alla via
legale,come specificamente suggerito dalla stessa Corte Edu (sent. 6 marzo 2007, Scordino 3, cfr. anche,
I, 13 luglio 2006, Zaffuto; 30 marzo 2006, Gianni) allo Stato italiano onde evitare ulteriori condanne,
deve essere perseguito non regolarizzando ex post occupazioni già illegittime, bensì, anzitutto, in via
preventiva, consentendo alla p.a. di immettersi nella proprietà privata soltanto se - e dopocchè - abbia
già conseguito un legittimo titolo che autorizzi l'ingerenza; ed in caso in cui ciò non sia avvenuto
"eliminando gli ostacoli giuridici che impediscono sistematicamente e per principio la restituzione del
terreno": peraltro "in analogia con altri ordinamenti europei" (Corte Cost. 293/2010 cit.).
7.3. Il principio di legalità non è, infine, recuperabile in forza dei bilanciamenti e delle comparazioni tra
interessi pubblici e privati devoluti dalla norma all'autorità amministrativa che dispone l'acquisizione:
avendo la Corte EDU affermato fin dalla nota decisione Belvedere - Alberghiera del 30 maggio 2000,
nella quale l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sent. 1/1996) aveva dato precedenza all'interesse
pubblico specifico della collettività alla realizzazione di un'opera idrica per la stessa indispensabile
(seppur mancante di dichiarazione di p.u. perchè annullata dallo stesso giudice amministrativo), che la
necessità di esaminare tale questione è inattuabile in caso di ingerenza illegittima nella proprietà (in cui
la Convenzione privilegia quello privato, postulandone comunque la reintegrazione),ma "può porsi
soltanto a condizione che l'ingerenza litigiosa abbia osservato il principio di legalità e non sia risultata
arbitraria". Sicchè ha egualmente condannato lo Stato italiano non certamente per l'assenza (allora)
nell'ordinamento italiano di una norma con valore sanante della illegittimità della procedura ablativa, ma
perchè "la decisione del Consiglio di Stato aveva privato la ricorrente della possibilità di ottenere la
restituzione del suo terreno....che per essere compatibile con l'art. 1 del Protocollo deve essere attuata
per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi di diritto internazionale"
(54 e 55; nonchè Ucci c. Italia, 22 giugno 2006). E d'altra parte,poichè la norma attribuisce ad uno dei
due portatori dell'interesse in conflitto - la P.A. responsabile dell'illecito ed interessata alla acquisizione
dell'immobile - il potere di comparare gli interessi suddetti (CEDU, 3, 9 febbraio 2006, Prenna), e,
quindi la scelta di restituirlo ovvero di acquisirlo al proprio patrimonio indisponibile, il suo assetto reale
non dipende più (neppure) dalla sua (oggettiva) trasformazione in un bene demaniale o patrimoniale
indisponibile, ma viene affidato esclusivamente alla volontà dell'amministrazione - per quanto detto,
senza neppure limiti temporali - di ricorrere al nuovo istituto; nonchè, in caso di impugnazione del
provvedimento di acquisizione, alla pronuncia del giudice amministrativo di consentirne o escluderne la
restituzione: con conseguente incertezza ed imprevedibilità della sua situazione giuridica fino al
momento della sentenza definitiva. Il che ha indotto i giudici di Starsburgo a rilevare, con la più
qualificata dottrina, che con tale regime scompare anche quel minimo di prevedibilità che un sistema
normativo è tenuto ad assicurare: attesa l'inidoneità della base legale su cui si fonda la consentita
compromissione della proprietà ad assicurare il sufficiente grado di certezza postulato dalla
Convenzione attraverso "l'esistenza di norme giuridiche interne sufficientemente accessibili, precise e
dagli effetti prevedibili"; e rende l'istituto nuovamente incompatibile con la Convenzione "non
potendosi escludere il rischio di un risultato imprevedibile o arbitrario" (CEDU, 2, 28 giugno 2011, De
Caterina; 20 aprile 2006, De Sciscio; 3, 2 febbraio 2006, Genovese). Ne costituiscono del resto
significativa conferma le variegate interpretazioni della norma offerte dalla recente giurisprudenza
16
amministrativa, che talvolta ha posto a carico del proprietario l'onere di esperire il procedimento di
messa in mora, per poi impugnare l'eventuale silenzio-rifiuto dell'amministrazione a provvedere; talaltra
gli ha concesso di intraprendere direttamente un'azione (soltanto) recuperatoria: a fronte della quale si è
tuttavia ulteriormente suddivisa, in quanto alcune pronunce hanno attribuito al giudice amministrativo il
normale potere di emettere le tradizionali statuizioni di annullamento e di condanna; altre (tra le quali la
decisione del TSAP 107/10), invocando l'art. 34 cod. proc. amm. anche il potere di assegnare
all'amministrazione un termine per scegliere tra l'adozione del provvedimento di cui all'art. 42 bis, e la
restituzione dell'immobile. Mentre altre ancora hanno devoluto direttamente al giudice suddetto il
compito di emettere il provvedimento, comportante (anche) la valutazione definitiva sulla presenza (o
meno), dell'interesse pubblico specifico all'acquisizione del bene.
8. La Corte europea, pur non escludendo che in materia civile una nuova normativa possa avere
efficacia retroattiva, ha ripetuta mente considerato lecita l'applicazione dello ius superveniens in causa
soltanto in presenza di "imperieux motifs d'interet general"; ed affermato che in ogni altro caso essa si
concreta nella violazione del principio di legalità nonchè del diritto ad un processo equo perchè
consente al potere legislativo di introdurre nuove disposizioni specificamente dirette ad influire
sull'esito di un giudizio già in corso (in cui è parte un'amministrazione pubblica), ed induce il giudice a
decisioni su base diversa da quella alla quale la controparte poteva legittimamente aspirare al momento
di introduzione della lite (cfr. sentenza della Grande Chambre, 28 ottobre 1999, Zielinski; nonchè
Forrer-Niedenthal, 20 febbraio 2003, proprio in materia di espropriazione per p.u.; OGIS, 27 maggio
2004; nonchè Scordino c/Italia, 29 luglio 2004, 78).
Questa situazione - già posta in evidenza dalla Corte vigente l'incostituzionale art. 43 T.U. (Cass.
21867/2011; 20543/2008; sez. un. 26732/2007) - si è riproposta proprio per effetto dell'art. 42 bis, il
quale, malgrado la precisazione del 1 comma che l'atto di acquisizione è destinato a non operare
retroattivamente (rivolta a rispondere ad uno dei rilievi espressi da Corte Costit. 293/2010), con la
menzionata disposizione dell'8 comma, ha confermato la possibilità dell'amministrazione di utilizzare il
provvedimento sanante ex tunc, ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un
provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato: in conformità del resto alla finalità
di attribuire alle amministrazioni occupanti una legale via di uscita dalle situazioni di illegalità venutesi a
verificare nel corso degli anni (anche pregressi).
Pertanto L.V.G. ed i consorti,che per effetto della sentenza 293/2010 della Corte Costit. avrebbero
avuto diritto, tanto al momento del ricorso introduttivo del giudizio, quanto a quello del passaggio in
giudicato della sentenza 20/2006 del TSAP che lo aveva interamente accolto, alla restituzione dei loro
immobili, nonchè al risarcimento del danno alla stregua dei parametri contenuti nell'art. 2043 cod. civ.,
in conseguenza del sopravvenuto art. 42 bis, nonchè del provvedimento acquisitivo autorizzato da detta
norma, nel corso del giudizio, hanno perduto in radice la tutela reale e possono avvalersi soltanto di
quella indennitaria/risarcitoria dalla stessa introdottala quale perciò non si sottrae neppure all'addebito
in casi analoghi mosso dalla Corte europea al legislatore nazionale "di averla slealmente introdotto in
17
giudizi iniziati ed impostati secondo diversi presupposti normativi, sì da incorrere anche nella violazione
dell'art. 6, par. 1, della Convenzione"per il mutamento "delle regole in corsa": risultando sotto tale
profilo in contrasto anche con l'art. 111 Cost., commi 1 e 2, nella parte in cui, disponendo l'applicabilità
ai giudizi in corso delle regole sull'acquisizione coattiva sanante in seguito ad occupazione illegittima,
viola i principi del giusto processo, in particolare le condizioni di parità delle parti davanti al giudice, che
risultano lese dall'intromissione del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia allo scopo di
influire sulla risoluzione di una circoscritta e determinata categoria di controversie; ed appare,quindi,
anche sotto questo profilo, nuovamente in contrasto con i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali
(art. 117 Cost.).
9. Infine, neanche l'indennizzo/risarcimento stabilito quale corrispettivo dell'acquisizione risulta esente
da dubbi di legittimità costituzionale, in quanto l'art. 42 bis, comma 3 ne fissa i seguenti parametri: Salvi
i casi in cui la legge disponga altrimenti, l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 è
determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e,
se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'art. 37, commi 3, 4, 5, 6
e 7".
Sennonchè la Corte costituzionale (sent. 369/1996), nel dichiarare l'incostituzionalità della L. n. 549 del
1995, art. 1, comma 65, che aveva equiparato l'entità del risarcimento del danno da occupazione
acquisitiva a quella dell'indennizzo espropriativo, aveva affermato ".. è innegabile, in primo luogo, la
violazione che ne deriva del precetto di eguaglianza, stante la radicale diversità strutturale e funzionale
delle obbligazioni così comparate. Infatti, mentre la misura dell'indennizzo - obbligazione ex lege per
atto legittimo - costituisce il punto di equilibrio tra interesse pubblico alla realizzazione dell'opera e
interesse del privato alla conservazione del bene, la misura del risarcimento - obbligazione ex delicto -
deve realizzare il diverso equilibrio tra l'interesse pubblico al mantenimento dell'opera già realizzata e la
reazione dell'ordinamento a tutela della legalità violata per effetto della manipolazione-distruzione
illecita del bene privato. E quindi sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca (ex art. 3 Cost.), poichè
nella occupazione appropriativa l'interesse pubblico è già essenzialmente soddisfatto dalla non
restituibilità del bene e dalla conservazione dell'opera pubblica, la parificazione del quantum risarcitorio
alla misura dell'indennità si prospetta come un di più che sbilancia eccessivamente il contemperamento
tra i contrapposti interessi, pubblico e privato, in eccessivo favore del primo" (Considerazioni analoghe
si rinvengono nelle decisioni 442/1993; 188/1995; 148/1999; 349/2007).
Nel caso, i ricordati principi sono stati disattesi sotto diversi profili, in quanto disponendo che detto
indennizzo debba essere sempre e comunque commisurato "al valore venale del bene utilizzato", il
legislatore:
a) attribuisce ai proprietari interessati da un provvedimento di acquisizione sanante un trattamento
deteriore rispetto a quelli, che in mancanza di detto provvedimento - come sarebbe accaduto agli stessi
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ricorrenti se il Commissario ad acta avesse scelto la prima delle alternative imposte dalla sentenza
107/2010 del TSAP - sono ammessi a chiedere la restituzione dell'immobile insieme al risarcimento del
danno, pur quando destinatari di una medesima occupazione abusiva in radice (c.d. usurpativa): in
quanto soltanto a questi ultimi è consentito ottenere l'intero risarcimento del danno sofferto, in base ai
parametri dell'art. 2043 cod. civ. del danno emergente e del lucro cessante (utili, occasioni e vantaggi
che il proprietario provi di aver perduto dalla mancata disponibilità del bene: Cass. 14609/2012;
4052/2009; 2746/2008; 15710/2001; 1196/1986; 3590/1983); b) tale trattamento resta inferiore pur nel
confronto con l'espropriazione legittima dello stesso immobile, in quanto, ove avente destinazione
edificatoria, non è riconosciuto l'aumento del 10% di cui al T.U., art. 37, comma 2 (non richiamato dalla
norma), se l'accordo di cessione è stato concluso, se non è stato concluso per fatto non imputabile
all'espropriato o se l'indennità provvisoria attualizzata è inferiore all'80% di quella definitiva: e quindi a
maggior ragione se nessuna indennità gli viene offerta, come è peculiare del procedimento di cui all'art.
42 bis. Mentre se il terreno è agricolo non è applicabile il precedente art. 40, comma 1 che impone di
tener conto (Cfr. Corte Costit. 181/2011) delle colture effettivamente praticate sul fondo e "del valore
dei manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione all'esercizio dell'azienda agricola"
(Cass. 23967/2010; 10217/2009; 11782/2007; 4848/1998): nel caso specificamente richiesto dai
ricorrenti titolari di un'azienda agricola, che in conseguenza di un'espropriazione rituale avrebbero
avuto diritto all'inclusione nell'indennità anche del relativo pregiudizio; e) incorre in una disparità più
palese con il regime di quest'ultima laddove non considera affatto l'ipotesi di espropriazione parziale; e
non consente di tener conto della diminuzione di valore del fondo residuo, invece indennizzata fin dalla
L. n. 2359 del 1865, art. 40 (anche nelle ipotesi di occupazione appropriativa: Cass. 8197/2012;
591/2008; 24435/2006), ora trasfuso nell'art. 33 del T.U.; e nel caso espressamente invocata dai
proprietari; d) ha trasformato,come evidenzia la sentenza impugnata (pag. 8), il precedente regime
risarcitorio in un indennizzo derivante da atto lecito, che di conseguenza assume natura di debito di
valuta non automaticamente soggetto alla rivalutazione monetaria (art. 1224 c.c., comma 2). A
differenza del risarcimento da espropriazione e/o occupazione illegittime, costituente credito di valore,
che deve essere liquidato alla stregua dei valori monetari corrispondenti al momento della relativa
pronuncia, sicchè il giudice deve tenere conto della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla
decisione, anche di ufficio, a prescindere dalla prova della sussistenza di uno specifico pregiudizio
dell'interessato dipendente dal mancato tempestivo conseguimento dell'indennizzo medesimo (Tra
tante, Cass. 1889/2013; 4010/2006; 9711/2004).
10. Tale natura risarcitoria sembra invece mantenuta dall'art. 42 bis, comma 3 al corrispettivo per il
periodo di occupazione illegittima antecedente al provvedimento di acquisizione ("Per il periodo di
occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la
prova di una diversa entità del danno, l'interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai
sensi del presente comma): tuttavia pur esso determinato in base ad un parametro riduttivo rispetto a
quelli cui è commisurato l'analogo indennizzo per l'occupazione temporanea dell'immobile. In quanto:
a) il parametro base è costituito dall'interesse del cinque per cento annuo sul valore venale dell'immobile
stimato ai fini dell'indennizzo, perciò corrispondente a circa 1/20 del suo valore annuo. Laddove l'art.
50 del T.U., recependo analoga disposizione contenuta nella L. n. 865 del 1971, art. 20 stabilisce in tutti
i casi di occupazione legittima di un immobile che "è dovuta al proprietario una indennità per ogni
anno pari ad un dodicesimo di quanto sarebbe dovuto nel caso di esproprio dell'area e, per ogni mese o
19
frazione di mese, una indennità pari ad un dodicesimo di quella annua": perciò corrispondente ad una
redditività predeterminata più elevata misura percentuale dell'8,33% all'anno sul valore venale
dell'immobile; b) il richiamo all'indennità di espropriazione consente altresì l'applicazione del principio
consolidato nella giurisprudenza di legittimità (Cass. 21352/2004; sez. un. 10502/2012; 24303/2010),
che nell'ipotesi di espropriazione parziale la percentuale suddetta vada calcolata sull'indennità di
espropriazione computata tenendo conto anche del decremento di valore subito dalla parte
dell'immobile rimasta in proprietà dell'espropriato:invece non autorizzato dal parametro rigido
contenuto nell'art. 42 bis, comma 3.
Per cui anche il ristoro patrimoniale attribuito dalla norma non consente di escludere il rilievo più volte
rivolto dalla Corte EDU al legislatore nazionale, che pure il meccanismo riduttivo di determinazione
dell'indennizzo/risarcimento da occupazione senza titolo consente all'espropriante, che omette di
svolgere il procedimento previsto dalla legge, di avvantaggiarsi ulteriormente del suo comportamento
illegittimo, esonerandolo dal corrispondere una porzione del ristoro dovuto nel caso di
occupazione/espropriazione legittime: perciò non favorendo la buona amministrazione e non
contribuendo a prevenire episodi di illegalità.
Conclusivamente, vanno dichiarate rilevanti, e non manifestamente infondate le questioni di legittimità
costituzionale riguardanti il D.P.R. n. 327 del 2001, art. 42 bis:
- per contrasto con il precetto di eguaglianza nonchè di ragionevolezza intrinseca di cui all'art. 3 Cost.
sotto ciascuno dei diversi profili di cui in motivazione, involgenti anche l'art. 24 Cost.
- per contrasto con i precetti e le garanzie posti dall'art. 42 Cost. a tutela della proprietà privata, nonchè
con il principio di legalità dell'azione amministrativa contenuto negli art. 97 e 113 Cost.: sotto i diversi
profili di cui in motivazione;
- per contrasto con l'art. 117 Cost., comma 1, anche alla luce dell'art. 6 e dell'art. 1 del 1^ prot. add.
della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, sotto i diversi profili di cui
in motivazione, con cui se ne è evidenziata la disciplina lesiva del diritto di proprietà, nonchè del diritto
al rispetto dei propri beni, in violazione dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
- per contrasto con l'art. 111 Cost., commi 1 e 2, nonchè art. 117 Cost., anche alla luce dell'art. 6 della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, nella parte in cui, disponendo
l'applicabilità ai giudizi in corso della disciplina in questione anche relativa alla determinazione
dell'indennizzo/risarcimento del danno per occupazione illegittima in essa contenute, viola i principi del
20
giusto processo, in particolare le condizioni di parità delle parti davanti al giudice, che risultano lese
dall'intromissione del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla
risoluzione di una circoscritta e determinata categoria di controversie.
P.Q.M.
La Corte, visti l'art. 134 Cost. e della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23 dichiara rilevante e non
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 34
conv. con mod. dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, che ha introdotto l'art. 42 bis nel T.U. espropr. p.u. appr.
con D.P.R. n. 327 del 2001, per contrasto, nei sensi di cui in motivazione, con gli artt. 3, 24, 42, 97,
Cost.; nonchè art. 111 Cost. e art. 117 cost., comma 1 anche alla luce dell'art. 6 e dell'art. 1 del 1 prot.
add. della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva con L. 4
agosto 1955, n. 848. Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il
giudizio. Dispone altresì che la presente ordinanza sia notificata, a cura della cancelleria, al Presidente
del Consiglio dei Ministri ed alle parti, ed inoltre comunicata al Presidente della Camera dei Deputati,
nonchè al Presidente del Senato della Repubblica.
Usucapibilità dell’area
Cons. di Stato, sez. IV, 3 luglio 2014, n. 3346
DIRITTO
1. Stante la completezza del contraddittorio e la mancata opposizione delle parti - rese edotte della possibilità di
immediata definizione del processo - la causa può essere integralmente decisa nel merito tenuto conto della
palese infondatezza dell'appello.
1.1.Quanto alla prima censura, concernente il vizio ex art. 112 cpc asseritamente attingente la impugnata
decisione, ritiene la Sezione di condividere la tradizionale impostazione secondo cui “l'omessa pronuncia, da
parte del giudice di primo grado, su censure e motivi di impugnazione costituisce tipico errore di diritto per
violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, deducibile in sede di appello sotto il
profilo della violazione del disposto di cui all'art. 112, c.p.c., che è applicabile al processo
amministrativo.”(Consiglio Stato, sez. IV, 16 gennaio 2006, n. 98).
Parimenti appare condivisibile il risalente principio, che costituisce jus receptum, secondo il quale il vizio di
omessa pronuncia su un vizio del provvedimento impugnato deve essere accertato con riferimento alla
motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché esso può ritenersi
sussistente soltanto nell'ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al
contrario, la decisione sul motivo d'impugnazione risulti implicitamente da un'affermazione decisoria di segno
contrario ed incompatibile(ex aliis Consiglio Stato , sez. VI, 06 maggio 2008, n. 2009).
I primi giudici, all’evidenza, hanno ritenuto che le affermazioni in punto di reiezione dell’eccezione di
prescrizione estintiva della domanda risarcitoria articolata dal Comune (che non ha gravato il relativo capo di
decisione) valessero a “disinnescare” anche la connessa eccezione di usucapione.
21
Appare evidente pertanto che, sia pure non fornendo analitica e partita risposta sulla questione specifica dedotta
nel ricorso di primo grado, essi si sono implicitamente pronunciati sulla medesima, respingendola sotto profili
assorbenti rispetto alla portata delle censura/eccezione medesima.
Ritiene la Sezione di potere condividere detto modus procedendi e che nel caso di specie non sia ravvisabile
alcuna lesione del principio di cui all'art. 112 cpc: in ogni caso, si deve rilevare che “l'omessa pronuncia su una o
più censure proposte col ricorso giurisdizionale non configura un error in procedendo tale da comportare
l'annullamento della decisione, con contestuale rinvio della controversia al giudice di primo grado, ma solo un
vizio dell'impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad eliminare integrando la motivazione
carente o, comunque, decidendo del merito della causa ( ex aliis Consiglio Stato , sez. IV, 19 giugno 2007, n.
3289, orientamento oggi confermato ex art. 105 del cpa).
2.1. Non sussiste pertanto alcun vizio di nullità della decisione gravata ed il Collegio esaminerà nel merito
l’eccezione/doglianza di intervenuta usucapione (l’appellante, infatti, non muove dirette censure avverso la
statuizione che ha escluso la fondatezza dell’eccezione di prescrizione ed in ogni caso, si rileva per incidens, la
decisione del Tar appare certamente esatta avuto riguardo alla pluralità di atti interruttivi resi ma anche alla
pacifica qualificazione di illecito permanente della condotta dell’amministrazione).
2.2. Ciò premesso, la detta doglianza volta a sostenere la maturata usucapione è certamente infondata: e lo
sarebbe anche laddove non si dovesse ritenere che gli atti interruttivi della prescrizione dell’azione risarcitoria resi
dalle parti appellate ed indicati dal Tar e non contestati dal Comune non “valessero” anche ad escludere la
invocata usucapione.
2.2.1. In disparte la circostanza che parte appellante non prova né chiarisce in qual momento sarebbe intervenuta
in suo favore la interversione del possesso ed in qual modo possa configurarsi la fattispecie del “pacifico ed
incontestato possesso” alla luce delle plurime azioni giudiziarie intentate da parte appellata, ed alla improduttività
di effetti della transazione, va innanzitutto premesso che, ad avviso del Collegio, il proprietario di un area
illegittimamente occupata che agisca in giudizio (o che proponga domanda stragiudiziale nei confronti dell’Ente
occupante) vanti un’unica pretesa (quella, fondata sullo ius omnes alios excludendi insito nel diritto di proprietà
ex art. 832 cc).
Tale pretesa, unica e complessa, a propria volta si può articolare nel petitum reipersecutorio e risarcitorio, ovvero
soltanto in quello risarcitorio, laddove il bene sia stato irreversibilmente trasformato e l’Amministrazione intenda
utilizzarlo per fini pubblicistici (a far data dal 2001, ex art. 43 del TU Espropriazione e, dopo la declaratoria di
incostituzionalità di quest’ultimo, ex art. 42 bis del medesimo dPR n. 327/2001): non v’è dubbio, però, che la
richiesta risarcitoria, in quanto fondata sul presupposto della illegittima protrazione della detenzione del bene da
parte dell’amministrazione, e senza che l’ordinamento, in passato, apprestasse strumenti per venire (rectius:
tornare) coattivamente in possesso dell’area illegittimamente occupata, valesse ad escludere il presupposto
applicativo dell’istituto della usucapione ventennale ex art. 1158 cc.. Sin da tempo risalente, infatti la Cassazione
Civile ha chiarito che (Cass. Civ. Sez. II, sent. n. 3464 del 18-05-1988) “per l'acquisto della proprietà per
usucapione, che trova il suo fondamento in una situazione di fatto caratterizzata, da un lato, dal mancato
esercizio delle potestà dominicali da parte del proprietario e, dall'altro, dalla prolungata signoria di fatto sullo
stesso bene da parte di altri che si sostituisca al proprietario nell'utilizzazione del bene medesimo, l'inerzia del
proprietario si manifesta nel mancato esercizio di dette potestà e nella mancata sua reazione contro il potere di
fatto esercitato sull'immobile dal possessore, laddove l'esercizio dei poteri dominicali vale a rendere di per sé
equivoco e non pacifico il possesso altrui ed impedisce che questo aderisca al contenuto del diritto di proprietà e
la conseguente usucapibilità di tale diritto”.
Orbene: ravvisare la sussistenza del presupposto della “assenza di reazione del privato proprietario” a fronte
delle plurime iniziative intraprese da questi a far data dal settembre dell’anno 1986 (data di cessazione
dell’occupazione legittima) sfociate nell’atto di transazione del settembre 1990 e successivamente nel settembre
1995 con la decisione della Commissione liquidatrice che ha approvato la relazione circa l’ammissibilità dei debiti
fuori bilancio riconosciuti dal Comune con la delibera 132/1990 ed ancora successivamente con il ricorso per
decreto ingiuntivo del 20 aprile 1999 proposto dai comproprietari (periodo interruttivo conclusosi col passaggio
22
in giudicato della sentenza 1932/2006 del Tribunale civile di Lecce) e successivamente con la proposizione del
ricorso all’inizio del 2011, sarebbe senz’altro impossibile.
La tesi del Comune va pertanto senz’altro disattesa, e ciò militerebbe in senso troncante per la reiezione della
censura.
2.2.2. Per completezza si evidenzia che, se anche non si dovesse condividere la tesi finora esposta, e –
frazionando artificiosamente il petitum proposto dai proprietari distinguendo quello risarcitorio da quello
finalizzato alla restituzione del bene- si volesse affermare che gli atti finora menzionati non abbiano interrotto il
termine necessario per usucapire il compendio patrimoniale per cui è causa, altre (e forse più radicali) ragioni si
opporrebbero all’accoglimento del mezzo.
2.3. Come si evince dalla parte in fatto della esposizione, l’azione risarcitoria promossa nei confronti
dell’amministrazione tende ad ottenere il risarcimento per tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti in
conseguenza dell’occupazione preordinata all’espropriazione effettuata nel 1979 e mai conclusasi con
l’emanazione del decreto di esproprio, pur a fronte della completa realizzazione dell’opera pubblica. Trattasi,
pertanto, di domanda di risarcimento da occupazione divenuta sine titulo, avendo definitivamente espunto la
giurisprudenza gli stessi istituti dell’occupazione acquisitiva ed usurpativa (ex multis Consiglio di Stato sez. IV, 15
febbraio 2013, n.914) pacificamente rientrante nella giurisdizione esclusiva del g.a. di cui alla lett. g) comma 1,
dell'art. 133 del Codice del processo amministrativo approvato con D.lgs. 2 luglio 2010 n.104. Infatti, è oramai
principio consolidato sia nella giurisprudenza amministrativa che della Cassazione, come siano devolute alla
giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si faccia questione - naturalmente anche ai fini
complementari della tutela risarcitoria - di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una
dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche se il procedimento all'interno del quale sono state
espletate non sia sfociato in un tempestivo atto traslativo ovvero sia caratterizzato dalla presenza di atti poi
dichiarati illegittimi (ex multis Consiglio Stato Adunanza Plenaria, 30 luglio 2007, n. 9; id. 22 ottobre 2007, n.12;
T.A.R. Lombardia Milano 30 marzo 2011, n.854; T.A.R. Sicilia Catania sez. III, 10 febbraio 2011, n.290;
Consiglio di Stato sez IV, 28 gennaio 2011, n.676; id. sez V, 2 novembre 2011, n.5844, Cassazione Sezioni Unite,
9 luglio 2009, n.16093) costituendo ormai ius receptum l’appartenenza alla giurisdizione del g.a. delle domande di
risarcimento di tutti i danni patiti in conseguenza dell’illegittima apprensione di terreni privati (T.A.R. Lombardia
- Milano sez II, 30 marzo 2011, n.854; Consiglio di Stato sez V, 2 novembre 2011, n.5844; id. 15 febbraio 2013,
n.914) ad eccezione delle sole occupazioni riconducibili a “mere vie di fatto”, anche quindi in ipotesi di
occupazione originariamente legittima ma divenuta illecita per effetto della perdita di efficacia della dichiarazione
di pubblica utilità, circostanza che concreta un illecito di carattere permanente (ex plurimis Consiglio di Stato sez
VI, 9 giugno 2010, n.3655, id. sez IV, 21 aprile 2009, n.2420).
2.3.1. L’eccepita questione dell’intervenuta usucapione in favore dell’Amministrazione sull’area per cui è causa,
sarebbe idonea a determinare, se fondata, la definizione del giudizio con sentenza in rito di accoglimento
dell’appello ed inammissibilità del ricorso di primo grado per difetto di interesse.
2.3.2. Nessuna delle parti del giudizio di primo grado ha sollevato alcuna problematica in punto di giurisdizione.
E’ però altresì rilevante sottolineare che il Tar non ha esplorato funditus, neanche implicitamente, la questione
della sussistenza della propria giurisdizione sulla detta eccezione.
Deve pertanto procedersi alla delibazione preliminare ex officio di tale tematica, all’evidenza pregiudiziale
rispetto al merito della questione, non potendo riscontarsi nella fattispecie alcuna affermazione “implicita” della
giurisdizione da parte del Tar, rimasta incontestata in appello, che precluderebbe a questo Collegio il rilievo ex
officio (art. 9 cpa).
2.3.3. L'art. 133 comma 1, lett. g) c.p.a. devolve, come prima posto in luce, alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo le controversie aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi ed i comportamenti,
riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere della p.a. in materia di espropriazione per
pubblica utilità.
Il giudice amministrativo, inoltre, ex art. 8 c.p.a. può conoscere, seppur solo in via incidentale e senza efficacia di
giudicato "tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti la cui risoluzione sia necessaria per
23
pronunciare sulla questione principale"; pertanto, ai sensi del citato art. 8, il giudice amministrativo ha il potere di
pronunciarsi, incidenter tantum, soltanto su questioni pregiudiziali, ancorché veicolate in via di eccezione,
attinenti a diritti (con esclusione, in ogni caso, dell'incidente di falso e delle questioni sullo stato e capacità delle
persone), ai circoscritti fini della soluzione della vertenza ad esso demandata in via principale.
Ciò premesso, deve essere indagata la possibilità per il giudice amministrativo di esaminare la domanda
riconvenzionale e/o l’eccezione (di tipo riconvenzionale) nell’ambito del presente giudizio, come detto avente ad
oggetto principaliter unicamente la domanda di risarcimento dei danni per equivalente in conseguenza
dell’irreversibile trasformazione del fondo in seguito all’occupazione preordinata all’espropriazione effettuata
dall’Amministrazione, divenuta illecita a decorrere dalla scadenza della dichiarazione di pubblica utilità,
pacificamente rientrante - come anticipato - nella giurisdizione esclusiva del g.a. in quanto comportamento pur
sempre riconducibile all’esercizio di un potere autoritativo ovvero alla dichiarazione di pubblica utilità, pur se
divenuta inefficace.
Secondo l’opinione manifestata da condivisibile giurisprudenza (G.G.A.S. 14 gennaio 2013, n.9; sentenza n.
41/2014 del TAR Umbria) ove la questione dell’intervenuta usucapione fosse oggetto di vera e propria domanda
riconvenzionale tesa ad accertare con efficacia di giudicato l’intervenuto acquisto a titolo originario della
proprietà da parte dell’Amministrazione, incompatibile con l’azione di risarcimento da occupazione sine titulo,
difetterebbe la giurisdizione del g.a. in favore del. g.o.
Ove invece l’usucapione venga fatta valere in via di “eccezione riconvenzionale”, cioè al solo fine di paralizzare
l’azione risarcitoria senza richiesta di accertamento della sussistenza di tale rapporto e connesso ampliamento del
thema decidendum, la giurisdizione spetterebbe al g.a. in forza del generale principio di cui all’art. 8 cod. proc.
amm.
La giurisprudenza civile ha da tempo elaborato accanto alla domanda riconvenzionale e all’eccezione, la nozione
della c.d. eccezione riconvenzionale, laddove il convenuto pur chiedendo l’accertamento eventualmente anche
costitutivo di un rapporto diverso e più ampio, si prefigge esclusivamente di paralizzare l’azione, con ciò
differenziandosi dalla domanda riconvenzionale vera e propria, laddove l’accertamento del rapporto diverso mira
ad ottenere qualcosa di più o di diverso (ex multis Cassazione 13 novembre 1997, n.11232; id. 17 marzo 1990,
n.2235; id. 20 gennaio 1997, n.538) e applicando senza esitazioni alle eccezioni riconvenzionali la disciplina
processuale propria delle eccezioni (Cassazione civ. sez. III 13 giugno 2013, n. 14852).
Il Comune resistente ha indubbiamente introdotto in giudizio il fatto della intervenuta usucapione nella forma
della c.d. eccezione di tipo riconvenzionale, al solo fine di paralizzare la domanda risarcitoria ex adverso
proposta, nel dichiarato presupposto della estraneità della domanda riconvenzionale alla giurisdizione pur
esclusiva del g.a., senza chiedere alcun accertamento pieno dell’acquisto a titolo originario dell’area in questione
ai sensi dell’art. 1158 c.c.: ne consegue la giurisdizione del GA. ai sensi dell’art. 8 cod. proc. amm. sull’“eccezione
riconvenzionale” di usucapione formulata dal Comune in primo grado e reiterata in appello.
2.4. Essa non è però fondata, e non soltanto per le ragioni prima esposte.
2.5. La questione dei rapporti tra l’istituto civilistico dell’usucapione e quello dell’occupazione sine titulo e
conseguente trasformazione da parte della P.A. di un bene privato e connessi aspetti in tema di tutela restitutoria
e risarcitoria, risulta quanto mai delicata, non solo sotto il profilo strettamente civilistico, quanto e soprattutto in
riferimento alla compatibilità con l’art. 1 del Protocollo Addizionale della C.E.D.U..
Secondo una tesi oggi invalsa sia presso la giurisprudenza amministrativa (T.A.R. Lazio Roma sez II bis, 2
ottobre 2009, n.9557; T.A.R. Abruzzo, 26 giugno 2008, n.860; T.A.R. Basilicata 2 gennaio 2008, n.4; T.A.R.
Sicilia Palermo sez III, 5 luglio 2012, n. 1402; C.G.A.S. 14 gennaio 2013, n. 9; T.A.R. Puglia Lecce sez III, 15
novembre 2013, n.2310) che ordinaria (Cassazione civ. sez I, 4 luglio 2012, n. 11147; id. sez. III, 8 settembre
2008, n.17570) l’usucapione sarebbe pienamente applicabile in favore della PA anche alle occupazioni
preordinate alla realizzazione di opere pubbliche laddove vi sia possesso protrattosi ininterrottamente per venti
anni, quale “valvola di chiusura del sistema” (T.A.R. Lazio - Roma sez II bis, 2 ottobre 2009, n.9557) altrimenti
dovendosi riconoscere la perpetuità di azione di restitutio in integrum o risarcitoria da parte del soggetto privato
24
vittima dell’occupazione, fermo restando la problematica della corretta individuazione del momento della
“interversio possessionis”.
Così opinando, il possesso da parte dell’Amministrazione non sarebbe né violento né clandestino (1163 c.c.) e
sarebbe pertanto utile ai fini del perfezionamento dell’usucapione, fermo solo restando appunto la necessità di
individuare l’interversio possessionis che la giurisprudenza identifica, non senza incertezze, nell’immissione in
possesso (T.A.R. Abruzzo, 26 giugno 2008, n.860; T.A.R. Basilicata 2 gennaio 2008, n.4) o - più correttamente -
nella intervenuta scadenza del periodo di occupazione legittima (T.A.R. Sicilia Palermo sez III, 5 luglio 2012, n.
1402; C.G.A.S. 14 gennaio 2013, n. 9; T.A.R. Puglia Lecce sez III, 15 novembre 2013, n.2310) oppure ancora alla
data di entrata in vigore del D.p.r. 8 giugno 2001 n. 327 (vedi l’isolata ma ampiamente motivata T.A.R. Lazio -
Roma sez II bis, 2 ottobre 2009, n.9557).
Secondo altra tesi, ai fini di una valida “interversio possessionis” devono ritenersi insufficienti i meri atti di
esercizio del possesso, quali, nel caso dell'apprensione materiale di un terreno edificabile, l'inizio e finanche il
compimento di una attività edificatoria (nella specie la realizzazione di una strada pubblica): e ciò, in quanto tali
atti non sono specificamente rivolti "contro il possessore" (art. 1141 comma 2 c.c.), giacché, secondo i principi
generali, tutto ciò che viene edificato sul suolo accede di diritto alla proprietà di esso (omne quod inaedificatur
solo cedit - art. 934 c.c.); tali attività non concretano dunque una valida interversione del possesso, ma soltanto
una ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla mera detenzione materiale del bene in forza
del decreto di occupazione di urgenza (così T.A.R. Liguria sez. I, 23 novembre 2011, n. 1635; vedi anche T.A.R.
Toscana sez I, 22 gennaio 2013, n.84 che nega radicalmente che il possesso sine titulo da parte
dell’Amministrazione, integrando un illecito permanente, possa dirsi utile ai fini dell’usucapione).
Ritiene il Collegio (con ciò manifestando condivisione alle eccezioni formulate da parte appellata nelle proprie
memorie) per il vero, assai discutibile la teorizzata usucapibilità di beni illecitamente occupati
dall’Amministrazione: e ciò sia alla luce dell’ampia nozione di violenza del possesso elaborata dalla
giurisprudenza (ex multis Cassazione civ. sez. II, 7 dicembre 2012, n. 22174) laddove si è sostenuta la
presunzione di volontà contraria del possessore ove manchi la prova di una manifestazione univoca di consenso,
quanto soprattutto in relazione alla assai dubbia compatibilità con l’art. 1 del Protocollo Addizionale della CEDU
(“Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua
proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del
diritto internazionale.”).
La costante giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (seconda sezione, 30 maggio 2000,
Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia, n. 31524/96; terza Sezione, 12 gennaio 2006, Sciarrotta c. Italia, n.
14793/02), ha più volte affermato la non conformità alla Convenzione (in particolare, al citato Protocollo
addizionale n. 1) dell'istituto della cosiddetta "espropriazione indiretta o larvata" (censurando quindi la possibilità
di individuare sistemi di acquisizione diversi da quello consensuale del contratto e da quello autoritativo del
procedimento espropriativo ed in particolare ogni fenomeno di creazione pretoria di acquisto della proprietà
mediante fatto illecito).
La disciplina sovranazionale contenuta nella C.E.D.U pur non avendo assunto forza di diritto comunitario (bensì
di “norma costituzionale interposta” ex art 117 c. 1 Cost. (Corte Costituzionale 11 marzo 2011, n.80, id. 24
ottobre 2007, nn. 348 e 349) impone al giudice l’interpretazione delle norme interne primarie conformemente,
ove possibile, alla C.E.D.U. quale parametro di legittimità costituzionale interposto (art. 117 c. 1 Cost.) ed in caso
di insanabile contrasto, di sollevare la questione di legittimità costituzionale.
Predicare quindi che l’apprensione materiale del bene da parte dell’Amministrazione al di fuori di una legittima
procedura espropriativa o di un procedimento sanante (art. 42 bis d.P.R. 327/2001) possa essere qualificata
idonea ad integrare il requisito del possesso utile ai fini dell’acquisto per usucapione, rischierebbe di reintrodurre
nell’ordinamento interno forme di espropriazione indiretta o larvata.
E, per soprammercato. non onerose per l’Amministrazione, dal momento che la c.d. retroattività reale
dell’usucapione estinguerebbe anche ogni pretesa risarcitoria (ex multis Cassazione civ. sez III, 8 settembre 2006,
25
n.19294; id. sez. II 24 febbraio 2009, n.4434;T.A.R. Basilicata 2 gennaio 2008, n.4; T.A.R. Puglia - Lecce sez I, 8
luglio 2004, n.4916).
2.5.1. In senso troncante per la reiezione della doglianza nella situazione di specie poi, si rileva che per
giurisprudenza consolidata, l’interruzione dell’usucapione può avvenire oltre che con la perdita materiale del
possesso soltanto con la proposizione di apposita domanda giudiziale, non essendo all’uopo sufficienti atti di
contestazione, diffida o messa in mora (ex multis Cassazione civ, 11 giugno 2009, n.13625; id. sez. II, 11 luglio
2011, n.15199).
Quantomeno sino all’entrata in vigore del d.P.R. 327/2001, risultava radicalmente preclusa, da parte del
destinatario dell’occupazione preordinata all’esproprio, l’azione di restitutio in integrum, qualificando
l’occupazione acquisitiva più che un mero fatto illecito, una vera e propria “fattispecie ablatoria seppur atipica”
(Corte Costituzionale 23 maggio 1995, n.188, Corte Costituzionale 30 aprile 1999, n.148, Cassazione civile sez I,
6 giugno 2000, n.7583).
Ne consegue che, a tutto concedere, (alla stregua dell’art 2935 c.c. - secondo cui la prescrizione decorre “dal
giorno in cui il diritto può essere fatto valere”) il dies a quo di un possibile possesso utile a fini di usucapione non
potrebbe che individuarsi a partire dall’entrata in vigore del d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327, (l’art. 43 ivi contenuto,
come è noto, aveva sancito il superamento normativo dell’istituto dell’occupazione acquisitiva) il che implica che
il termine ventennale non sarebbe neppure ad oggi maturato.
3.Parimenti (in disparte il dubbio interesse di parte appellante a coltivare l’eccezione) appare da escludere la
favorevole scrutinabilità della ulteriore censura, formulata peraltro in via “perplessa” dall’appellante comune, e
relativa alla asserita erroneità della sentenza dal Tar nella parte in cui essa ha ammesso l’intervento in causa
formulato dagli eredi delle comproprietarie dei terreni in questione.
3.1.Il comune non contesta che - vertendosi in sede di giurisdizione esclusiva- siano ammissibili tutti i tipi di
intervento previsti dal codice di procedura civile, come esattamente ritenuto dal primo giudice: con una formula
anodina, invece, l’appellante si duole della circostanza che “gli interventori possano avvantaggiarsi degli effetti
della sentenza per i quali non hanno ritenuto di agire in via diretta” e si duole altresì della circostanza che la
sentenza non abbia “distinto in alcun modo tra la posizione dei ricorrenti e quella degli interventori”.
Senonchè,in contrario senso rispetto a quanto ipotizzato dal comune appellante, è sufficiente rilevare che gli
interventori sono eredi della sig.ra Pasqualina Orlando e della sig.ra Costanza De Iaco, entrambe comproprietarie
dei terreni in questione, e che essi hanno agito per ottenere il risarcimento del danno sulle aree di proprietà delle
loro danti causa, per rendere palese che: le dette parti processuali avrebbero potuto proporre l’azione in via
autonoma senza che nessun ostacolo potesse essere alle stesse frapposto; che anzi, la circostanza che sia stato
proposto l’intervento ha evitato la frammentazione della causa (che ha un unico petitum e causa petendi) in una
pluralità di segmenti processuali; che la posizione derivata delle stesse e la assenza di preclusioni maturate (unica
ragione, questa, che in sede di giurisdizione di legittimità impedisce alcune forme di intervento in giudizio nel rito
processuale amministrativo) impedisce che le obiezioni del comune possano essere favorevolmente scrutinate.
3.2.In ultimo, nessuna rilevanza può spiegare in senso accoglitivo dell’appello la precaria situazione economica in
cui asseritamente versa il comune (come vibratamente sostenuto dalla difesa di quest’ultimo nel corso della
discussione in camera di consiglio) non costituendo la stessa causa di esonero da responsabilità risarcitoria.
4.Conclusivamente, l’appello è integralmente infondato e merita la reiezione. Restano assorbiti tutti gli argomenti
di doglianza motivi od eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini
della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
5.Le spese processuali seguono la soccombenza, e pertanto l’appellante amministrazione comunale va
condannata a corrisponderle a parte appellata, nella misura che appare equo determinare in complessivi Euro
tremila (€ 3000/00)oltre oneri accessori, se dovuti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe
proposto, lo respinge, nei termini di cui alla motivazione che precede.
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Condanna l’appellante amministrazione comunale al pagamento delle spese processuali in favore di parte appellata, nella
misura di complessivi Euro tremila (€ 3000/00) oltre oneri accessori, se dovuti.
Ottemperanza e provvedimento ex art. 42 bis T.U. espr.
Cons. di Stato, ordinanza del 3 luglio 2014, n. 3347
ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA
sul ricorso numero di registro generale 7071 del 2013, proposto da:
Carmela Marraffa, rappresentata e difesa dall'avv. Carlo Caniglia, con domicilio eletto presso Segreteria Sezionale
del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, 13;
contro
Comune di Villa Castelli, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Giovanni Pomarico,
con domicilio eletto presso la Segreteria del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, 13;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. PUGLIA - SEZ. STACCATA DI LECCE: SEZIONE I n. 00383/2013, resa tra le
parti, concernente reclamo avverso provvedimento di acquisizione sanante emesso dal commissario ad acta.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Villa Castelli;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 25 febbraio 2014 il Cons. Nicola Russo e uditi per le parti gli
avvocati Caniglia e Pomarico;
Con ricorso notificato il 13 settembre 2013 e depositato il 30 settembre successivo la sig.ra Carmela Marraffa
propone appello per ottenere la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sez.
I, 21 febbraio 2013, n. 383/2013.
La sentenza impugnata ha respinto il reclamo n.r.g. 1309/2011, proposto dall’odierna appellante, avverso il
decreto di esproprio del commissario ad acta nominato dal medesimo Tribunale con precedente sentenza 24
maggio 2012 n. 928.
Va premessa una breve ricostruzione dei fatti riguardanti l’odierna vicenda contenziosa.
La sig.ra Marraffa, nella sua qualità di proprietaria di un terreno sito nell’agro del Comune di Villa Castelli,
ricadente nella zona Gravina, subiva l’occupazione del proprio terreno per la realizzazione di lavori di restauro
ambientale e di sistemazione a verde della gravina esistente, disposti sulla base di un progetto approvato con
delibera GM n. 372 del 13.06.1997, che ne decretava la pubblica utilità.
In particolare l’occupazione di urgenza veniva disposta con decreto n. 3351 del 19.04.1999 e a seguito di essa
venivano realizzate le opere de quibus, con conseguente trasformazione dell’area.
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All’occupazione non faceva seguito alcun formale decreto di esproprio.
L’odierna appellante, dunque, proponeva ricorso di fronte il TAR Puglia - sez. Lecce al fine di ottenere la
restituzione dell’immobile illegittimamente detenuto, salva l’ipotesi di un provvedimento ai sensi dell’allora
vigente art. 43 t.u. n. 327/01.
Con sentenza n. 3342/2008 il giudice di prime cure accoglieva il ricorso e, riconoscendo la sopravvenuta
illegittimità dell’occupazione a seguito del mancato completamento del procedimento ablatorio, ordinava
all’amministrazione di completare tale procedimento ovvero di restituire il bene alla ricorrente, salvo in ogni caso
il diritto al risarcimento dei danni.
In particolare il Tribunale offriva tre opzioni per eseguire tale comando giudiziale: il raggiungimento entro
sessanta giorni di un accordo fra le parti con il quale trasferire la proprietà del bene in capo alla p.a.; se tale
accordo non fosse stato raggiunto, nei successivi sessanta giorni, il Comune avrebbe dovuto emanare un
motivato decreto di acquisizione al patrimonio indisponibile ai sensi dell’art. 43 t.u. espropriazioni; la
restituzione, infine, del bene alla proprietaria, salvo in tutti i casi il risarcimento dei relativi danni, che avrebbero
dovuto essere quantificati tenuto conto dei criteri legali, della data dalla quale è configurabile l’illecito
permanente, della destinazione urbanistica dell’area in questione e di ogni altra circostanza di fatto significativa.
Concludeva il Tribunale con formula di rito, con la quale rendeva edotta la sig.ra Marraffa della possibilità di
agire per l’esecuzione della sentenza di fronte al medesimo TAR, qualora il Comune non avesse provveduto nei
termini stabiliti ad accordarsi ovvero ad adottare un atto formale volto alla restituzione o all’acquisizione
dell'area.
Il Comune non prestava adempimento nei termini e nelle modalità indicati in sentenza e successivamente la sig.ra
Marraffa proponeva ricorso presso lo stesso TAR Puglia, sezione staccata di Lecce per chiedere la corretta
esecuzione della stessa.
Con sentenza 2 ottobre 2009 n. 2241, il TAR di Lecce, accogliendo il ricorso della sig.ra Marraffa, ordinava
all’Amministrazione di dare esecuzione alla sentenza n. 3342/2008 nel termine ultimativo di quarantacinque
giorni.
Il Comune rimaneva ulteriormente inadempiente e la proprietaria adiva nuovamente il TAR di Lecce al fine di
sentire nuovamente condannare il Comune all’esecuzione della sentenza, con richiesta di nomina di un
commissario ad acta.
Il TAR Lecce, con sentenza 24 maggio 2012 n. 928 accoglieva il nuovo ricorso della sig.ra Marraffa, ritenendo
priva di fondamento la tesi del Comune, relativa ad una mancanza di responsabilità dello stesso per mancato
raggiungimento dell’accordo, e ordinava all’Amministrazione di ottemperare alla sentenza n. 3342/2008 nel
termine di sessanta giorni o attraverso l’emanazione del decreto di acquisizione e il pagamento della somma
corrispondente al valore attuale del bene nonché di una somma pari al ventesimo del valore del bene
(determinato tenendo conto a ritroso degli indici di svalutazione dei beni al consumo) per ogni anno successivo
alla scadenza della legittima occupazione, o la restituzione del bene e il contestuale pagamento delle somme
compensative del danno arrecato e arrecando con la sottrazione del bene al proprietario per tutto il periodo
passato e futuro di illegittima occupazione (pari al ventesimo del valore del bene anno per anno, determinato
tenendo conto, per il passato e per il futuro, degli indici di svalutazione dei beni al consumo).
Provvedeva a nominare quale commissario ad acta l’ing. Raffaele Dell’Anna, nel caso in cui l’Amministrazione
non avesse dato tempestiva esecuzione alla sentenza.
Con successivo reclamo la sig.ra Marraffa impugnava di fronte al TAR di Lecce il decreto di esproprio del 10
settembre 2012, assunto dal commissario ad acta nominato dal medesimo Tribunale con sentenza n. 928/2012.
Il TAR con sentenza 21 febbraio 2013 n. 383 rigettava il reclamo, ritenendo che l’atto erroneamente nominato
decreto di esproprio dovesse essere qualificato più propriamente quale acquisizione sanante ai sensi dell’art. 43,
oggi 42 bis, del D.P.R. n. 327/2001.
Il Tribunale, dunque, affrontava la tematica relativa ai poteri del commissario ad acta, il quale, a parere del TAR, è
titolare di un potere che trova diretto fondamento nella pronuncia giurisdizionale da portare ad esecuzione, con
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la conseguenza che detto organo può adottare ogni misura conforme al giudicato che si appalesi in concreto
idonea a garantire alla parte ricorrente il conseguimento effettivo del bene della vita cui aspira.
Alla luce di quanto esposto il TAR riteneva legittimo il comportamento del commissario ad acta, il quale, dunque,
non avrebbe avuto bisogno di acquisire preventivamente alcun parere, né da parte del ricorrente, né tanto meno
del Comune.
Reputava, infine, infondata la censura relativa alla quantificazione del risarcimento del danno, stante la non
edificabilità dell’area e l’utilizzabilità in proposito della determinazione effettuata dall’Agenzia del Territorio, che,
pur non potendosi considerare atto idoneo alla concreta esecuzione del giudicato, ben poteva essere utilizzata ai
fini dell’accertamento del valore dell’area.
Con ricorso n.r.g. 7071/2013 la sig.ra Marraffa propone appello avverso tale ultima sentenza del TAR Lecce
lamentando la violazione e falsa applicazione degli artt. 21, 114, comma 4, lett. d), commi 6 e 7 c.p.a., per essersi
il commissario ad actasostituito all’amministrazione, oltrepassando i limiti dei poteri conferitigli dal giudicato,
adottando un decreto di esproprio senza previamente acquisire la volontà dell’amministrazione e sostituendosi in
toto a quest’ultima.
Con secondo motivo lamenta la contraddittorietà della motivazione, per avere la stessa, da un lato, considerato la
stima dell’Agenzia del Territorio come non idonea a integrare una vera e propria esecuzione del giudicato,
mentre, dall’altro lato, la considerava strumento idoneo per la determinazione del valore dell’area.
Chiede, inoltre, la sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata, che questa Sezione, con ordinanza n.
4028/2013, non ha concesso, in considerazione dell’assenza dei presupposti.
Successivamente si è costituito il Comune di Villa Castelli, che contesta tutto quanto sostenuto da parte
appellante, affermando che il commissario ad acta avrebbe agito nel rispetto dei poteri conferitigli dalla sentenza,
alla luce della giurisprudenza di questo Consiglio, per la quale il commissario ad acta è legittimato, anche al di
fuori delle norme che governano l’azione ordinaria degli organi amministrativi sostituiti, ad adottare ogni misura
conforme al giudicato che si appalesi in concreto idonea a garantire alla parte ricorrente il conseguimento
effettivo del bene della vita di cui è riconosciuto titolare dalla sentenza (cfr. Cons. St., sez. V, 1 marzo 2012, n.
1194 e Cons. St., sez. III, 7 giugno 2013, n. 3124).
Eccepisce, inoltre, l’infondatezza del secondo motivo di ricorso relativo alla contraddittorietà della motivazione,
sostenendo che la sentenza n. 928/2012, resa in primo grado fra le parti, comandava all’amministrazione di
liquidare il danno subito dalla ricorrente sulla base del valore venale del bene e, pertanto, correttamente, il
commissario ad acta ha utilizzato la stima effettuata dall’Agenzia del Territorio di Brindisi.
Alla camera di consiglio del 25 febbraio 2014 la causa è stata trattenuta in decisione.
Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto dalla sig.ra Marraffa avverso la sentenza con cui
il Tar Puglia, sezione distaccata di Lecce, ha respinto il reclamo proposto avverso gli atti posti in essere dal
commissario ad acta.
Il Collegio rinviene al riguardo un contrasto giurisprudenziale in ordine alla quaestio iuris se il commissario ad acta,
nominato in sede di ottemperanza alla sentenza, possa ordinare la conclusione del procedimento di cui all’art. 42-
bis T.U. sulle espropriazioni (8 giugno 2001 n. 327) o se tale tipo di provvedimento sia di appannaggio esclusivo
dell’Amministrazione.
Occorre prendere le mosse dall’art. 42 bis d.P.R. 8.6.2001, n. 327 (cd. “t.u. espropriazione”), recante la disciplina
della cd. acquisizione sanante, inserito dall’art. 34 d.l. 6.7.2011, n. 98, convertito con modificazioni nella l.
15.7.2011, n. 111, che ha colmato il vuoto lasciato a seguito della declaratoria di incostituzionalità del previgente
art. 43, e che è stato oggetto di un vivace dibattito giurisprudenziale relativo, in particolare, all’ampiezza dei
poteri decisori del g.a. investito di una controversia concernente l’occupazione illegittima o senza titolo di un
bene e la relativa trasformazione.
Chiarita la natura di illecito permanente dell’occupazione e trasformazione di un bene da parte della p.a. in
assenza di valido titolo, la giurisprudenza afferma che l’obbligo restitutorio della p.a. può venire meno solo per
effetto dell’esercizio del potere acquisitivo (cfr. Cons. St., sez. IV, 29.8.2012, n. 4650).
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Tale orientamento della Sezione conferma il principio, già affermato con precedenti sentenze (30 gennaio 2006,
n. 290; 7 aprile 2010 n. 1983), secondo cui l’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non fa venire meno
l’obbligo dell'amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso, con ciò superando
l’interpretazione che riconnetteva alla costruzione dell’opera pubblica e all’irreversibile trasformazione effetti
preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato.
Infatti, partendo dall’esame della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, deve ritenersi che il
quadro normativo e giurisprudenziale nazionale previgente non fosse aderente alla Convenzione europea e, in
particolare, al Protocollo addizionale n. 1 (sentenza Cedu 30 maggio 2000, ric. 31524/96).
Nella sentenza citata, la Corte ha ritenuto che la realizzazione dell’opera pubblica non costituisca impedimento
alla restituzione dell’area illegittimamente espropriata, e ciò indipendentemente dalle modalità - occupazione
acquisitiva o usurpativa - di acquisizione del terreno. Per tali ragioni, il proprietario del fondo illegittimamente
occupato dall’amministrazione, ottenuta la declaratoria di illegittimità dell’occupazione e l’annullamento dei
relativi provvedimenti, può legittimamente domandare nel giudizio di ottemperanza sia il risarcimento, sia la
restituzione del fondo che la sua riduzione in pristino.
La realizzazione dell’opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di
assurgere a titolo dell’acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il
formale atto di acquisizione dell’amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non
potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti,
fatti o contegni.
Ne discende che, nelle more dell’introduzione del nuovo art. 42-bis e dopo l’annullamento per illegittimità
costituzionale dell’art. 43 T.U. espropriazioni, la giurisprudenza di questa Sezione ha affermato che è obbligo
primario dell’amministrazione procedere alla restituzione della proprietà illegittimamente detenuta.
Muovendo da tale principio la Sezione ha, anzitutto, ribadito l’applicabilità dell’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del
2001 ai giudizi pendenti al momento della sua entrata in vigore, richiamando le coordinate interpretative in
precedenza fornite. In particolare, è richiamata la sentenza n. 1514 del 16 marzo 2012, in cui la Sezione ha
precisato che “l’art. 42 bis, pur facendo salvo il potere di acquisizione sanante in capo alla P.A. non ripropone lo
schema processuale previsto dal comma 2 dell’originario art. 43, che attribuiva all’amministrazione la facoltà e
l’onere di chiedere la limitazione alla sola condanna risarcitoria, ed al giudice il potere di escludere senza limiti di
tempo la restituzione del bene, con il corollario dell’obbligatoria e successiva emanazione dell’atto di
acquisizione”. In quella occasione la Sezione ha evidenziato che il potere discrezionale dell’amministrazione di
disporre l’acquisizione sanante è conservato: l’art. 42-bis infatti regola i rapporti tra potere amministrativo di
acquisizione in sanatoria e processo amministrativo di annullamento, in termini di autonomia, consentendo
l’emanazione del provvedimento dopo che “sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato
all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio” od anche,
“durante la pendenza di un giudizio per l’annullamento degli atti citati, se l’amministrazione che ha adottato l’atto
impugnato lo ritira”.
In conclusione, dalla giurisprudenza fin qui richiamata, si possono dedurre le seguenti massime:
1. L’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non fa venire meno l’obbligo dell'amministrazione di restituire
al privato il bene illegittimamente appreso, con ciò superando l’interpretazione che riconnetteva alla costruzione
dell’opera pubblica e all’irreversibile trasformazione effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del
privato.
2. La realizzazione dell’opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di
assurgere a titolo dell’acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il
formale atto di acquisizione dell’amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non
potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti,
fatti o contegni.
3. Nelle more dell’introduzione del nuovo art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001, e dopo l’annullamento per
illegittimità costituzionale dell’art. 43 T.U. espropriazioni, sussiste l’obbligo primario dell’amministrazione di
30
procedere alla restituzione della proprietà illegittimamente detenuta, fermo restando il potere
dell’amministrazione di valutare l’attivazione di quanto previsto dal citato art. 42-bis.
Dichiarato, dunque, nel 2010 l’art. 43 costituzionalmente illegittimo (C. cost., 8.10.2010, n. 293), per eccesso di
delega, il vuoto normativo è stato, quindi, colmato nel 2011, con l’inserimento nel t.u. espropriazioni dell’art.
42 bis, recante una disciplina parzialmente diversa rispetto alla precedente.
L’art. 43, oltre a prevedere l’acquisizione amministrativa, disposta sulla base di un provvedimento adottato dalla
p.a., ai co. 3 e 4, disciplinava l’acquisizione giudiziaria, riguardante le ipotesi in cui la p.a., nel corso del giudizio
per l’annullamento di un atto del procedimento ablatorio o per la restituzione del bene utilizzato per scopi di
interesse pubblico, avesse chiesto al giudice di escludere la restituzione, riconoscendo in entrambi i casi al
proprietario inciso il diritto al «risarcimento» del danno.
Diversamente, l’art. 42-bis riconosce, in luogo del risarcimento del danno, un «indennizzo» per il pregiudizio
subito. Inoltre, se da un lato è confermata la possibilità di ricorrere all’acquisizione anche «quando sia stato
annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di
un’opera o il decreto di esproprio» (co. 2), dall’altro non è riprodotta l’acquisizione giudiziaria: l’eliminazione è
compensata dall’espressa previsione che l’acquisizione può essere adottata «anche durante la pendenza di un
giudizio» per l’annullamento degli atti inerenti alla procedura espropriativa. Al rischio che il provvedimento
acquisitivo possa divenire rimedio ordinario alternativo alla procedura di esproprio, viene fatto fronte attraverso
un aggravio dell’onere motivazionale, richiedendosi che il provvedimento sia «specificamente motivato in
riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate
comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua
adozione» (co. 4).
Tanto premesso, il dibattito, in particolare, si è sviluppato intorno ai poteri decisori del g.a., qualora la domanda
avanzata in via principale concerna il risarcimento per equivalente del danno commisurato alla perdita della
proprietà, discutendosi se il giudice - specie alla luce del testo dell’art. 42-bis che non riproduce la c.d.
acquisizione giudiziaria ed esalta il carattere eccezionale del potere acquisitivo, esercitabile sulla base di rigorose
valutazioni di prevalente interesse pubblico - possa condannare la p.a. ad acquisire o ad avviare il procedimento
di acquisizione.
Questa Sezione, con la sentenza 16.3.2012, n. 1514, a fronte di un petitum rappresentato dalla domanda di
risarcimento del danno commisurato al valore venale del bene e, in subordine, di restitutio, ha riconosciuto in
capo al g.a. il potere di condannare la p.a. ad avviare il procedimento acquisitivo (ferma la discrezionale
valutazione in ordine agli interessi in conflitto), tramite un’interpretazione sistematica dell’art. 42-bis e
valorizzando il potere di condanna atipico del g.a. di cui all’art. 34 c.p.a.
Secondo l’orientamento prevalente, la realizzazione dell’opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è un
mero fatto, inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà ed integrante un illecito permanente (cfr.
Cons. St., sez. IV, 29.8.2011, n. 4833).
Ne consegue, che il legittimo proprietario ha diritto alla restituzione, previa riduzione in pristino stato:
l’affermazione categorica presuppone l’inquadramento della restituzione del bene nella tutela ripristinatoria (cfr.
Cons. St., sez. VI, 31.5.2008, n. 2622), anziché in quella risarcitoria in forma specifica (cfr. Cons. St., sez. IV,
15.9.2010, n. 6862), che sarebbe soggetta al limite della non eccessiva onerosità ex art. 2058 c.c., oltre a richiedere
i presupposti dell’illecito. Inoltre, la trasformazione dell’area occupata non può essere addotta dalla p.a. come
causa di impossibilità oggettiva e di impedimento alla restituzione ed il pregiudizio all’economia nazionale
derivante dalla distruzione della cosa, ex art. 2933 c.c., può essere invocato nelle ipotesi in cui l’area sia interessata
da un’opera di rilievo non meramente locale (cfr. Cons. St., sez. VI, 13.6.2011 n. 3561; Cass., sez. I, 23 agosto
2012, n. 14609).
Ulteriore premessa implicita nell’iter argomentativo dell’orientamento giurisprudenziale in rassegna è che non è
possibile connettere l’estinzione del diritto di proprietà del privato all’unilaterale volontà di questo di abdicare al
proprio diritto, volontà che la giurisprudenza della Cassazione in materia di occupazione usurpativa (cfr. Cass.,
S.U., 6.5.2003, n. 6853) ha, invece, giudicato implicita nella richiesta del proprietario di liquidazione del danno
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commisurato alla perdita della proprietà. Tale conclusione, infatti, si porrebbe in contrasto sia con l’esigenza di
tutela della proprietà, sia con i principi civilistici, oltre con il tenore degli artt. 43 e 42-bis cit., che riservano
l’acquisizione ad una decisione discrezionale della p.a. (cfr. Cons. St., sez. IV, 28.1.2011, n. 676).
In tale contesto l’art. 42 bis (applicabile anche a fatti anteriori ai sensi del co. 8), (cfr. sent. n. 1514/2012 cit.),
prevede espressamente che il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di
un giudizio per l’annullamento degli atti ablatori e non ripropone invece «lo schema processuale previsto dal
comma 3 dell’art. 43» sull’acquisizione giudiziaria. Tale espunzione ha una conseguenza: «l’eliminazione della
descritta facoltà inibisce, sul piano processuale, l’emersione dell’interesse pubblico all’acquisizione dell’immobile,
sia pur in sanatoria, dovendo del resto escludersi che l’interesse, pur dedotto ed argomentato dalla difesa
dell’amministrazione nelle proprie memorie, costituisca o possa costituire (venuta meno la peculiare norma di cui
al 43, co. 3) oggetto e frutto di quella ponderata valutazione degli “interessi in conflitto” che il legislatore
demanda esclusivamente all’amministrazione nell’ambito della naturale sede procedimentale». L’art. 42-bis regola
unicamente i rapporti tra potere amministrativo di acquisizione e processo amministrativo di annullamento e li
regola in termini di autonomia, consentendo l’adozione del provvedimento anche dopo l’annullamento di un atto
della procedura ablatoria ed anche «durante la pendenza di un giudizio per l’annullamento degli atti citati». In
difetto di esercizio del potere di acquisizione, l’ordine di restituire il bene (in accoglimento della domanda
restitutoria avanzata in via subordinata e trattata in conseguenza del rigetto di quella risarcitoria per la persistente
titolarità della proprietà in capo all’originario proprietario), «eliderebbe irrimediabilmente il potere sanante
dell’amministrazione (salva ovviamente l’autonoma volontà transattiva delle parti) con conseguente frustrazione
degli obiettivi avuti a riferimento dal legislatore».
Tuttavia, secondo l’orientamento citato, «i principi derivanti dall’interpretazione sistematica delle norme citate e
le possibilità insite nel principio di atipicità delle pronunce di condanna, ex art. 34 lett. c c.p.a., impongono allora
una limitazione della condanna all’obbligo generico di provvedere ex art. 42 bis», «impregiudicata la discrezionale
valutazione in ordine agli interessi in conflitto», in esito alla quale la p.a. potrà scegliere se restituire l’immobile
previo ripristino o disporne l’acquisizione.
La sentenza n. 1514/2012 cit., inoltre, esclude che dopo un giudicato restitutorio possa essere esercitato il potere
di acquisizione.
Tuttavia, l’art. 42-bis non individua un limite temporale per l’esercizio del potere di acquisizione. Vigente l’art. 43
la questione aveva dato luogo a opposti orientamenti: secondo un primo orientamento, l’acquisizione è idonea a
porre nel nulla l’eventuale precedente condanna giudiziale a restituire il bene, poiché «la restituzione … è la
conseguenza dell’accertamento della proprietà dei beni e non implica effetti costitutivi» (cfr. Cons. St., sez. V,
11.5.2009, n. 2877); secondo altro orientamento, invece, il potere acquisitivo non può essere esercitato in
presenza di un giudicato che riconosca il diritto alla restituzione, mentre può essere applicato qualora siano
intervenute sentenze del g.a. meramente demolitorie degli atti espropriativi (Cons. St., sez. IV, 17.2.2009, n. 915).
Gli orientamenti in questione - il primo criticabile per il contrasto con il principio di effettività della tutela
giurisdizionale, il secondo perché omette di considerare l’effetto ripristinatorio proprio del giudicato di
annullamento - necessitano di un aggiornamento alla luce del c.p.a., che la sentenza n. 1514 del 2012 sembra,
invece, non trascurare: gli artt. 30 e 34 c.p.a. configurano un potere di condanna atipico del g.a., consentendo di
esplicitare già in esito al giudizio di cognizione la portata conformativa e ripristinatoria del giudicato, incluso
l’ordine di restituire il bene occupato sine titulo. Poiché detto ordine escluderebbe il successivo esercizio del
potere acquisitivo, l’orientamento in questione, sensibile alla rilevanza del pubblico interesse e tenuto conto del
co. 2 dell’art. 42-bis che ammette il potere acquisitivo anche dopo l’annullamento degli atti del procedimento
ablatorio, ha limitato la condanna all’obbligo generico di avviare il procedimento acquisitivo, ferma restando la
discrezionalità della p.a. nello scegliere se acquisire o meno il bene.
I profili problematici, tuttavia, non sembrano compiutamente risolti.
I principi elaborati dalla sentenza n. 1514 del 2012 cit., non sono affatto consolidati. Altre sentenze, infatti,
interpretano l’espunzione dell’acquisizione giudiziaria e l’aggravamento dell’onere motivazionale per quella
amministrativa come espressione della volontà legislativa di assicurare al proprietario la restituzione in pristino,
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salvo il ricorso eccezionale all’acquisizione sulla base di rigorose valutazioni di prevalente interesse pubblico,
valutazioni queste che però sarebbero «interdette al giudicante», che altrimenti invaderebbe un’area di
amministrazione attiva.
Con riguardo alla vicenda in esame, deve dirsi che si registra un contrasto giurisprudenziale proprio in ordine ai
poteri del commissario ad acta nella conclusione del procedimento espropriativo avuto riguardo all’art. 42-bis T.U.
sulle espropriazioni.
Un primo orientamento, confluito nelle sentenze di questa Sezione, nn. 1222 e 1344 del 2014, ritiene che il
commissario ad acta non possa provvedere a norma dell’art. 42-bis T.U. espropriazioni.
Il ragionamento posto a fondamento di queste sentenze si radica sul presupposto che la sentenza da ottemperare
sia a sua volta legata ai limiti dati dalla domanda proposta dalla parte in sede di ricorso introduttivo.
Nel particolare caso di illegittimità della procedura la domanda del ricorrente è posta al fine di ottenere la
demolizione degli atti espropriativi; l’accoglimento della domanda, cui consegue l’annullamento della procedura e
il contestuale riconoscimento della mancata acquisizione alla mano pubblica della proprietà, comporta l’obbligo
della restituzione del bene illegittimamente sottratto.
La giurisprudenza in questione specifica che alla luce dei limiti posti dal rapporto fra “chiesto” e “pronunciato”
appare arduo immaginare che, di fronte alla domanda introdotta in giudizio per la declaratoria d’illegittimità della
procedura, il giudice dell’ottemperanza decida nel senso di ordinare all’amministrazione di provvedere ex art. 42-
bis: “Si assisterebbe alla singolare situazione per cui lo stesso giudice, che in sede di cognizione ha ritenuto che il
bene dovesse essere restituito al legittimo proprietario, in sede di ottemperanza ordinerà invece
all’amministrazione di impossessarsi dello stesso bene, anzi addirittura la sostituirà, mandando un suo ausiliario a
mettere in atto tale proposito”.
Tale orientamento dubita della legittimità costituzionale, rispetto all’art. 24 Cost., di tale risultato, dubbio che, al
contrario, può essere superato se si ritiene che l’unico obbligo scaturente dalla sentenza è quello di restituire il
bene.
Tale conclusione risulterebbe ulteriormente confermata dalla maggiore incidenza economica che avrebbe
l’adozione del provvedimento ex art. 42-bis: per cui deve essere lasciata all’esclusiva valutazione
dell’amministrazione la ponderazione comparativa delle alternative possibili.
In conclusione, tale orientamento giurisprudenziale ritiene che travalichi i poteri del commissario ad
acta l’adozione del provvedimento ex art. 42 bis, in quanto ciò non rispecchierebbe il dispositivo di una sentenza
volta a dichiarare l’illegittimità del provvedimento espropriativo e a condannare l’amministrazione alla
restituzione del bene, per cui, stante l’onerosità economica di tale procedimento, la scelta dovrebbe essere lasciata
all’amministrazione.
Con riguardo al rapporto tra ordine restitutorio e potere sanante, invece, in una sentenza del 2011 è stato
applicato l’art. 42-bisin sede di ottemperanza ad un giudicato restitutorio (ordinando all’amministrazione di
valutare entro il termine prefissato se acquisire), sul rilievo che in detta sede la giurisdizione di merito consente di
«tenere in debito conto le esigenze di interesse pubblico che militano ... nel senso del provvisorio mantenimento»
dell’opera pubblica realizzata (cfr. Cons. St., sez. VI, 1.12.2011, n. 6351).
Tale diverso filone giurisprudenziale ritiene, dunque, pienamente configurabile, fra i poteri del commissario ad
acta, la possibilità di agire ai sensi dell’art. 42-bis espropriazioni (cfr Cons. St., Sez. VI, n. 6351 del 2011 cit.).
La VI^ Sezione di questo Consiglio, dopo aver ripercorso le tappe che hanno condotto alla dichiarazione di
illegittimità costituzionale dell’art. 43 T.U. espropriazioni e la copertura del vuoto normativo tramite l’art. 42-bis,
ha ritenuto conforme ai poteri del commissario ad acta l’eventuale adozione del provvedimento di acquisizione
dell’immobile al patrimonio demaniale, con contemporanea liquidazione dei danni e degli indennizzi previsti dalla
norma.
Ritiene tale diverso orientamento, difatti, che il commissario ad acta possa sostituirsi all’amministrazione
competente al fine di portare a compimento la procedura espropriativa per il tramite del provvedimento di cui
all’art 42-bis, dando così rilievo ai poteri concessi al giudice amministrativo in sede di ottemperanza.
33
E, infatti, che cosa accade se l’amministrazione, come nel caso di specie, dinanzi ad una sentenza che assegna un
termine per (o “suggerisce”) la tempestiva adozione del provvedimento di cui all’art. 42-bis, non ottempera e,
anzi, continua a rimanere inerte e/o silente?
Com’è noto, in sede di ottemperanza il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione inadempiente,
prescindendo dalla riserva amministrativa, sulla scorta di quanto indicato nelle statuizioni passate in giudicato.
Il giudice, e per esso il commissario ad acta, instaurerebbe, dunque, il procedimento previsto dall’art. 42-
bis proprio come conseguenza della declaratoria di illegittimità degli atti della procedura espropriativa.
L’art. 42-bis, difatti, pone come presupposto per la procedura di acquisizione nel patrimonio demaniale di un
bene utilizzato a scopi pubblici, l’invalidità del titolo con il quale è stato occupato il terreno, procedura nella quale
il commissario ad actavaluterà, alla luce di tutti gli interessi in gioco, se il terreno debba essere acquisito o meno.
Il commissario ad acta, dunque, venuto meno il titolo espropriativo a seguito della caducazione degli atti della
procedura, pur tenendo in considerazione gli interessi del privato, valuterà ex novo gli interessi in gioco, che
portarono l’amministrazione a determinarsi circa l’avvio della procedura espropriativa.
Secondo tale diverso orientamento, solo tale tipo di impostazione renderebbe veramente satisfattiva la tutela
giurisdizionale del ricorrente ai sensi dell’art. 24 della Costituzione.
Mantenere il proprietario, che ha visto accolta la propria domanda di annullamento degli atti della procedura
espropriativa, in balia del comportamento dell’Amministrazione, la quale, anche a seguito della formazione del
giudicato, nonché del ricorso in ottemperanza, continui a non ripristinare la situazione di legalità, lederebbe le
legittime aspettative del proprietario medesimo, il quale finirebbe per non ottenere alcun tipo di tutela
dall’esperimento dell’azione amministrativa.
Con tale tipo di impostazione, dunque, si è inteso fornire una tutela sostanziale al proprietario, nel senso di
impedire che eventuali ulteriori dilazioni da parte dell’amministrazione nell’adempimento della sentenza possano
continuare a nuocere all’interessato, con evidente perdita di efficacia dei poteri sostitutivi del giudice in sede di
ottemperanza e, conseguentemente, di quelli del commissario ad acta nominato in tale sede.
Del resto, anche secondo l’orientamento formatosi nel vigore dell’art. 43, l’atto di acquisizione sanante era
applicabile in sede di giudizio di ottemperanza (cfr. Cons. St., sez. IV, 03.09.2008 n. 4114).
Premesso che, nel caso di annullamento giurisdizionale degli atti inerenti alla procedura di espropriazione per
pubblica utilità (dichiarazione di pubblica utilità e occupazione di urgenza), il proprietario può chiedere –
mediante il giudizio di ottemperanza – la restituzione del bene piuttosto che il risarcimento del danno per
equivalente monetario, anche se l’area è stata irreversibilmente trasformata a seguito della realizzazione dell’opera
pubblica, tale orientamento si poneva sulla scia di quello a suo tempo autorevolmente tracciato dall’Adunanza
Plenaria (cfr. Cons. St., Ad. Plen., 29 aprile 2005, n. 2), secondo il quale sussiste la possibilità per il proprietario di
chiedere la restituzione dell’area - a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale della dichiarazione di p.u. -
anche se su di essa è stata realizzata un’opera pubblica con possibilità, per la P.A., di evitare tale restituzione solo
mediante un provvedimento di acquisizione ex art. 43 d.P.R. n. 327/01.
Tale orientamento, invero, affermava che l’unico rimedio riconosciuto dall’ordinamento all’amministrazione per
evitare la restituzione dell’area a seguito dell’annullamento in s.g. della dichiarazione di p.u., è l’emanazione di un
(legittimo) provvedimento di acquisizione c.d. "sanante" ex art. 43 T.U. espropriazioni per pubblica utilità, in
assenza del quale l’Amministrazione stessa non può addurre la intervenuta realizzazione dell’opera pubblica quale
causa di impossibilità oggettiva e, quindi, come impedimento alla restituzione.
Tale orientamento, in particolare, riteneva che anche in sede di giudizio di ottemperanza trovasse applicazione la
disposizione dell’art. 43 che, in caso di apprensione e modifica di res sine titulo o con titolo annullato, consentiva la
possibilità di neutralizzare la domanda di restituzione del bene solamente mediante l’adozione di un atto formale
preordinato all’ acquisizione del bene medesimo - con corresponsione di quanto spettante a titolo risarcitorio -
ovvero con la speciale domanda giudiziale formulata nel giudizio in questione ai sensi dello stesso articolo 43.
Tanto premesso, questo Collegio, peraltro, non ignora che di recente le Sezioni Unite della Cassazione, con
ordinanza 13.01.2014, n. 441, hanno rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale
della norma di cui all’art. 42 bis del T.U. appr. con d.P.R. n. 327 del 2001, sotto diversi profili.
34
Cionondimeno il Collegio ritiene, tuttavia, che sia necessaria una pronuncia dell’Adunanza Plenaria in merito alla
questione che si intende sollevare, anche al fine di garantire il rispetto del principio di effettività della tutela
giurisdizionale e dell’autorità del giudicato, e, pertanto, il presente ricorso viene deferito all’esame dell’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, co. 1, c.p.a., al fine di comporre il contrasto giurisprudenziale
sopra menzionato, risolvendo il seguente quesito di diritto: se nella fase di ottemperanza - con giurisdizione,
quindi, estesa al merito - ad una sentenza avente ad oggetto una domanda demolitoria di atti concernenti una
procedura espropriativa, rientri o meno tra i poteri sostitutivi del giudice, e per esso, del commissario ad acta,
l’adozione della procedura semplificata di cui all’art. 42 bis cit..
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, ne
dispone il deferimento all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
Manda alla segreteria della sezione per gli adempimenti di competenza, e, in particolare, per la trasmissione del fascicolo di
causa e della presente ordinanza al segretario incaricato di assistere all’Adunanza Plenaria.
Pubblico impiego
Corte di Giustizia, 26 novembre 2014
Sentenza
1 Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione delle clausole 4 e 5, punto 1,
dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 (in prosieguo:
l’«accordo quadro»), che figura nell’allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno
1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (GU L 175,
pag. 43), dell’articolo 2, paragrafi 1 e 2, della direttiva 91/533/CEE del Consiglio, del 14 ottobre 1991,
relativa all’obbligo del datore di lavoro di informare il lavoratore delle condizioni applicabili al
contratto o al rapporto di lavoro (GU L 288, pag. 32), del principio di leale cooperazione previsto
dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE nonché dei principi generali del diritto dell’Unione relativi alla
certezza del diritto, alla tutela del legittimo affidamento, all’uguaglianza delle armi nel processo,
all’effettiva tutela giurisdizionale, al diritto a un tribunale indipendente e a un equo processo, garantiti
dall’articolo 6, paragrafo 2, TUE, letto in combinato disposto con l’articolo 6 della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4
novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»), e con gli articoli 46, 47 e 52, paragrafo 3, della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea.
2 Tali domande sono state presentate nell’ambito di controversie che vedono opposti la sig.ra Mascolo e
altri otto lavoratori, tutti membri del personale di scuole pubbliche, al proprio datore di lavoro, ossia,
per otto di essi, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, (in prosieguo: il
35
«Ministero») e, per l’ultimo, il Comune di Napoli, in merito alla qualificazione dei contratti di lavoro
che li legavano a tali datori di lavoro.
Contesto normativo
Il diritto dell’Unione
La direttiva 1999/70
3 La direttiva 1999/70 è fondata sull’articolo 139, paragrafo 2, CE e, ai sensi del suo articolo 1, è diretta
ad «attuare l’accordo quadro (…), che figura nell’allegato, concluso (…) fra le organizzazioni
intercategoriali a carattere generale [Confederazione europea dei sindacati (CES), Unione delle
confederazioni dell’industria e dei datori di lavoro dell’Europa (UNICE), Centro europeo delle
imprese a partecipazione pubblica (CEEP)]».
4 La clausola 1 dell’accordo quadro così recita:
«L’obiettivo del presente accordo quadro è:
a) migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non
discriminazione;
b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una
successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato».
5 La clausola 2 dell’accordo quadro, intitolata «Campo d’applicazione», prevede quanto segue:
«1. Il presente accordo si applica ai lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o
un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di
ciascuno Stato membro.
2. Gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali e/o le parti sociali stesse possono
decidere che il presente accordo non si applichi ai:
a) rapporti di formazione professionale iniziale e di apprendistato;
b) contratti e rapporti di lavoro definiti nel quadro di un programma specifico di formazione,
inserimento e riqualificazione professionale pubblico o che usufruisca di contributi
pubblici».
6 La clausola 3 dell’accordo quadro, intitolata «Definizioni», così prevede:
36
1. Ai fini del presente accordo, il termine “lavoratore a tempo determinato” indica una persona con
un contratto o un rapporto di lavoro definiti direttamente fra il datore di lavoro e il lavoratore e
il cui termine è determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il
completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico.
(…)».
7 La clausola 4 dell’accordo quadro, intitolata «Principio di non discriminazione», prevede, al suo punto
1, quanto segue:
«Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere
trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di
avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni
oggettive».
8 Ai sensi della clausola 5 dell’accordo quadro, intitolata «Misure di prevenzione degli abusi»:
«1. Per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro
a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle
leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno
introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che
tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure
relative a:
a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti;
b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;
c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.
2. Gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, e/o le parti sociali stesse dovranno, se
del caso, stabilire a quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato:
a) devono essere considerati “successivi”;
b) devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato».
La direttiva 91/533
9 L’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 91/533 così recita:
«Il datore di lavoro è tenuto a comunicare al lavoratore subordinato cui si applica la presente direttiva,
in appresso denominato “lavoratore”, gli elementi essenziali del contratto o del rapporto di lavoro».
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10 Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera e), della citata direttiva, l’informazione al lavoratore, se si
tratta di un contratto o di un rapporto di lavoro temporaneo, riguarda, tra l’altro, la «durata prevedibile
del contratto o del rapporto di lavoro».
Il diritto italiano
11 L’articolo 117, primo comma, della Costituzione della Repubblica italiana prevede che «[l]a potestà
legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli
derivanti dal [diritto dell’Unione] e dagli obblighi internazionali».
12 In Italia, il ricorso a contratti a tempo determinato nel settore pubblico è disciplinato dal decreto
legislativo del 30 marzo 2001, n. 165, recante norme generali sull’ordinamento del lavoro alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche (supplemento ordinario alla GURI n. 106, del 9 maggio
2001; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 165/2001»).
13 L’articolo 36, comma 5, di tale decreto, come modificato dalla legge del 3 agosto 2009, n. 102,
relativa alla conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge del 1º luglio 2009, n. 78,
recante provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni
internazionali (supplemento ordinario alla GURI n. 179 del 4 agosto 2009), intitolato «Forme
contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale» dispone quanto segue:
«In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di
lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di
lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni
responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla
prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative (…)».
14 Secondo le ordinanze di rinvio, il lavoro a tempo determinato nella pubblica amministrazione è altresì
soggetto al decreto legislativo del 6 settembre 2001, n. 368, recante attuazione della direttiva
1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal
CEEP e dal CES (GURI n. 235, del 9 ottobre 2001; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 368/2001»).
15 L’articolo 5, comma 4 bis, di tale decreto legislativo è formulato come segue:
«Ferma restando la disciplina della successione di contratti di cui ai commi precedenti, e fatte salve
diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le
organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, qualora per effetto
di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro
fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi
comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra
un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato (…)».
38
16 Ai sensi dell’articolo 10, comma 4 bis, di detto decreto legislativo, come modificato dall’articolo 9,
comma 18, del decreto legge del 13 maggio 2011, n. 70 (in prosieguo: il «decreto legge n. 70/2011»),
convertito in legge del 12 luglio 2011, n. 106 (GURI n. 160, del 12 luglio 2011):
«(…) sono altresì esclusi dall’applicazione del presente decreto i contratti a tempo determinato
stipulati per il conferimento delle supplenze del personale docente ed ATA [amministrativo, tecnico ed
ausiliario], considerata la necessità di garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed
educativo anche in caso di assenza temporanea del personale docente ed ATA con rapporto di lavoro a
tempo indeterminato ed anche determinato. In ogni caso non si applica l’articolo 5, comma 4-bis, del
presente decreto».
17 Per quanto riguarda il personale docente e amministrativo, tecnico ed ausiliario, la disciplina del
rapporto di lavoro a tempo determinato è contenuta nell’articolo 4 della legge del 3 maggio 1999
n. 124, recante disposizioni urgenti in materia di personale scolastico (GURI n. 107, del 10 maggio
1999), come modificata dal decreto legge del 25 settembre 2009 n. 134, convertito, con modificazioni,
dalla legge del 24 novembre 2009 n. 167 (GURI n. 274, del 24 novembre 1999; in prosieguo: la
«legge n. 124/1999»). Secondo il giudice del rinvio nelle cause C-22/13 e da C-61/13 a C-63/13, è
pacifico che tale legge si applica solo alla scuola statale. Detta legge non si applica, invece, alla scuola
comunale, che resta soggetta ai decreti legislativi n. 165/2001 e n. 368/2001.
18 Ai sensi dell’articolo 4 della legge n. 124/1999:
«1. Alla copertura delle cattedre e dei posti di insegnamento che risultino effettivamente vacanti e
disponibili entro la data del 31 dicembre e che rimangano prevedibilmente tali per l’intero anno
scolastico, qualora non sia possibile provvedere con il personale docente di ruolo delle dotazioni
organiche provinciali o mediante l’utilizzazione del personale in soprannumero, e sempreché ai posti
medesimi non sia stato già assegnato a qualsiasi titolo personale di ruolo, si provvede mediante il
conferimento di supplenze annuali, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per
l’assunzione di personale docente di ruolo.
2. Alla copertura delle cattedre e dei posti di insegnamento non vacanti che si rendano di fatto
disponibili entro la data del 31 dicembre e fino al termine dell’anno scolastico si provvede mediante il
conferimento di supplenze temporanee fino al termine delle attività didattiche. Si provvede parimenti
al conferimento di supplenze temporanee fino al termine delle attività didattiche per la copertura delle
ore di insegnamento che non concorrono a costituire cattedre o posti orario.
3. Nei casi diversi da quelli previsti ai commi 1 e 2 si provvede con supplenze temporanee.
(…)
39
6. Per il conferimento delle supplenze annuali e delle supplenze temporanee sino al termine delle
attività didattiche si utilizzano le graduatorie permanenti di cui all’articolo 401 del testo unico, come
sostituito dal comma 6 dell’articolo 1 della presente legge.
(...)
11. Le disposizioni di cui ai precedenti commi si applicano anche al personale amministrativo,
tecnico ed ausiliario (ATA) (…)
(…)
14 bis. I contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze previste dai commi
1, 2 e 3, in quanto necessari per garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo,
possono trasformarsi in rapporti di lavoro a tempo indeterminato solo nel caso di immissione in ruolo,
ai sensi delle disposizioni vigenti e sulla base delle graduatorie (…)».
19 Ai sensi dell’articolo 1 del decreto del Ministero della pubblica istruzione del 13 giugno 2007, n. 131
(in prosieguo: il «decreto n. 131/2007»), gli incarichi dei docenti e del personale amministrativo,
tecnico ed ausiliario della scuola statale sono di tre tipi:
– supplenze annuali, su posti vacanti e disponibili, in quanto privi di titolare;
– supplenze temporanee fino al termine delle attività didattiche, su posti non vacanti, ma
ugualmente disponibili;
– supplenze temporanee per ogni altra necessità, ossia supplenze brevi.
20 L’immissione in ruolo di cui all’articolo 4, comma 14 bis, della legge n. 124/1999 è disciplinata dagli
articoli 399 e 401 del decreto legislativo del 16 aprile 1994, n. 297, recante testo unico delle
disposizioni legislative in materia di istruzione (supplemento ordinario alla GURI n. 115 del 19
maggio 1994; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 297/1994»).
21 L’articolo 399, comma 1, di tale decreto così dispone:
«L’accesso ai ruoli del personale docente della scuola materna, elementare e secondaria, ivi compresi i
licei artistici e gli istituti d’arte, ha luogo, per il 50 per cento dei posti a tal fine annualmente
assegnabili, mediante concorsi per titoli ed esami e, per il restante 50 per cento, attingendo alle
graduatorie permanenti di cui all’art. 401».
22 L’articolo 401, commi 1 e 2, di tale decreto stabilisce quanto segue:
«1. Le graduatorie relative ai concorsi per soli titoli del personale docente della scuola materna,
elementare e secondaria, ivi compresi i licei artistici e gli istituti d’arte, sono trasformate in
graduatorie permanenti, da utilizzare per le assunzioni in ruolo di cui all’art. 399, comma 1.
40
2. Le graduatorie permanenti di cui al comma 1 sono periodicamente integrate con l’inserimento
dei docenti che hanno superato le prove dell’ultimo concorso regionale per titoli ed esami, per la
medesima classe di concorso e il medesimo posto, e dei docenti che hanno chiesto il trasferimento
dalla corrispondente graduatoria permanente di altra provincia. Contemporaneamente all’inserimento
dei nuovi aspiranti è effettuato l’aggiornamento delle posizioni di graduatoria di coloro che sono già
compresi nella graduatoria permanente».
Procedimenti principali e questioni pregiudiziali
Le cause C-22/13 e da C-61/13 a C-63/13
23 Le sig.re Mascolo, Forni, Racca e Russo sono state assunte mediante contratti di lavoro a tempo
determinato stipulati in successione, le prime tre in qualità di docenti presso il Ministero e l’ultima in
qualità di educatrice in asili nido e in scuole materne presso il Comune di Napoli. In forza di tali
contratti, esse hanno lavorato per i propri rispettivi datori di lavoro per i seguenti periodi: 71 mesi su
un periodo di 9 anni per la sig.ra Mascolo (tra il 2003 e il 2012); 50 mesi e 27 giorni su un periodo di 5
anni per la sig.ra Forni (tra il 2006 e il 2011); 60 mesi su un periodo di 5 anni per la sig.ra Racca (tra il
2007 e il 2012), e 45 mesi e 15 giorni su un periodo di 5 anni per la sig.ra Russo (tra il 2006 e il 2011).
24 Ritenendo illegittimi tali contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione, le ricorrenti
nei procedimenti principali hanno adito il Tribunale di Napoli chiedendo, in via principale, la
trasformazione di tali contratti a tempo determinato in rapporti di lavoro a tempo indeterminato e,
pertanto, la loro immissione in ruolo, nonché il pagamento degli stipendi corrispondenti ai periodi di
interruzione tra la scadenza di un contratto a tempo determinato e l’entrata in vigore di quello
successivo e, in subordine, il risarcimento del danno subito.
25 Essendo stata immessa in ruolo nel corso del procedimento in virtù del suo avanzamento nella
graduatoria permanente, la sig.ra Racca ha modificato il suo ricorso originario in domanda di pieno
riconoscimento dell’anzianità di servizio e di risarcimento del danno subito.
26 Secondo il Ministero e il Comune di Napoli, al contrario, l’articolo 36, comma 5, del decreto
legislativo n. 165/2001 vieta qualsiasi riqualificazione del rapporto di lavoro. L’articolo 5, comma
4 bis, del decreto legislativo n. 368/2001 non sarebbe applicabile, tenuto conto dell’articolo 10,
comma 4 bis, dello stesso decreto, introdotto dall’articolo 9, comma 18, del decreto legge n. 70/2011.
Peraltro, le ricorrenti nei procedimenti principali non avrebbero nemmeno diritto al risarcimento del
danno, visto che la procedura di assunzione era legittima e che comunque non sussistevano gli
elementi costitutivi di un illecito. Infine, poiché i contratti a tempo determinato non erano connessi gli
uni agli altri e non costituivano pertanto né il proseguimento né la proroga dei contratti precedenti, non
sussisterebbe alcun abuso.
41
27 Investito di tale ricorso, il Tribunale di Napoli indica, in primo luogo, che la normativa nazionale di
cui trattasi nei procedimenti principali, contrariamente a quanto dichiarato dalla Corte suprema di
cassazione nella sentenza n. 10127/12, è contraria alla clausola 5 dell’accordo quadro.
28 Tale normativa, infatti, non contemplerebbe alcuna misura di prevenzione ai sensi del punto 1, lettera
a), di detta clausola, poiché non consentirebbe di verificare concretamente, in modo obiettivo e
trasparente, l’esistenza di un’esigenza reale di sostituzione temporanea e autorizzerebbe, come
previsto esplicitamente dall’articolo 4, comma 1, della legge n. 124/1999, il rinnovo di contratti di
lavoro a tempo determinato a copertura di posti effettivamente vacanti. Orbene, tale normativa non
contemplerebbe neppure misure di prevenzione ai sensi del punto 1, lettera b), di detta clausola.
Infatti, l’articolo 10, comma 4 bis, del decreto legislativo n. 368/2001 escluderebbe d’ora in avanti
l’applicazione alle scuole statali dell’articolo 5, comma 4-bis, del suddetto decreto, che prevede che i
contratti di lavoro a tempo determinato di durata superiore a 36 mesi siano trasformati in contratti di
lavoro a tempo indeterminato. Inoltre, tale normativa non conterrebbe alcuna misura di prevenzione ai
sensi del punto 1, lettera c), della medesima clausola.
29 Peraltro, non sarebbe prevista alcuna misura sanzionatoria, poiché i contratti di lavoro a tempo
determinato non potrebbero essere trasformati in contratti di lavoro a tempo indeterminato, secondo
l’articolo 4, comma 14 bis, della legge n. 124/1999, se non in caso di immissione in ruolo sulla base
delle graduatorie. Inoltre, sarebbe altresì escluso il diritto al risarcimento del danno causato dalla
successione di contratti di lavoro a tempo determinato. Secondo la sentenza n. 10127/12 della Corte
suprema di cassazione, infatti, l’articolo 36, comma 5, del decreto legislativo n. 165/2001, che
prevede, in linea di principio, un siffatto diritto nel settore pubblico, non è applicabile qualora i
contratti di lavoro a tempo determinato successivi abbiano superato il limite massimo di 36 mesi
previsto dall’articolo 5, comma 4 bis, del decreto legislativo n. 368/2001.
30 In secondo luogo, il giudice del rinvio, osservando che solo la scuola statale ha la facoltà di assumere
personale a tempo determinato senza essere soggetta ai limiti previsti dal decreto legislativo
n. 368/2001, comportando così una distorsione della concorrenza a danno della scuola privata, si
chiede se la scuola statale rientri nella nozione di «settori e/o categorie specifici di lavoratori» ai sensi
della clausola 5 dell’accordo quadro, che giustificano un regime distinto di prevenzione e di sanzioni
per il ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.
31 In terzo luogo, tale giudice si interroga sulla conformità della normativa nazionale di cui trattasi
rispetto alla clausola 4 dell’accordo quadro, nei limiti in cui essa prevede che un lavoratore del settore
pubblico illegittimamente assunto a tempo determinato, a differenza di un lavoratore assunto a tempo
indeterminato illegittimamente licenziato, non abbia diritto al risarcimento del danno subito.
32 In quarto luogo, tale giudice, osservando che, nella causa che ha dato luogo all’ordinanza Affatato
(C-3/10, EU:C:2010:574), il governo italiano ha sostenuto che l’articolo 5, comma 4 bis, del decreto
legislativo n. 368/2001 è applicabile al settore pubblico, mentre la Corte suprema di cassazione ha
42
dichiarato il contrario nella sua sentenza n. 10127/12, si chiede se, in considerazione del principio di
leale cooperazione, tale erronea interpretazione del diritto nazionale da parte del governo non si debba
più imporre ai giudici nazionali, rafforzando così il loro obbligo di procedere a un’interpretazione
conforme al diritto dell’Unione.
33 In quinto luogo, il Tribunale di Napoli si interroga sulla questione se la possibilità di trasformazione di
un contratto di lavoro a tempo determinato in contratto di lavoro a tempo indeterminato, prevista
dall’articolo 5, comma 4 bis, del decreto legislativo n. 368/2001, rientri nelle informazioni di cui
all’articolo 2, paragrafi 1 e 2, lettera e), della direttiva 91/533 che il datore di lavoro è tenuto a
comunicare al lavoratore e, in caso affermativo, se l’esclusione retroattiva dell’applicazione di tale
articolo 5, comma 4 bis, alla scuola statale tramite il decreto legge n. 70/2011 sia conforme a detta
direttiva.
34 Infine, in sesto luogo, il giudice del rinvio si chiede se una siffatta modifica con efficacia retroattiva
della normativa nazionale, che ha avuto come conseguenza di privare il personale della scuola statale
di un diritto di cui godeva al momento dell’assunzione, sia compatibile con i principi generali del
diritto dell’Unione.
35 In tali circostanze, il Tribunale di Napoli ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla
Corte le seguenti questioni pregiudiziali, di cui la settima è stata sollevata unicamente nelle cause
C-61/13 e C-62/13, mentre, nella causa C-63/13, sono state sollevate unicamente la seconda, la terza e
la quarta questione, le quali costituiscono la prima, la seconda e la terza questione di tale ultima causa:
«1) Se il contesto normativo del settore scuola, come descritto, costituisca misura equivalente ai
sensi della clausola 5 della direttiva [1999/70].
2) Quando debba ritenersi che un rapporto di lavoro sia alle dipendenze dello “Stato”, ai sensi della
clausola 5 della direttiva [1999/70] ed in particolare anche dell’inciso “settori e/o categorie
specifiche di lavoratori” e quindi sia atto a legittimare conseguenze differenti rispetto ai rapporti
di lavoro privati.
3) Se, tenuto conto delle esplicazioni di cui all’articolo 3, [paragrafo] 1, lettera c), della direttiva
2000/78/CE [del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la
parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU L 303, pag. 16)] ed
all’articolo 14, [paragrafo] 1, lettera c), della direttiva 2006/54/CE [del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e
della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (GU L 204,
pag. 23)], nella nozione di condizioni di impiego di cui alla clausola 4 della direttiva [1999/70]
siano comprese anche le conseguenze dell’illegittima interruzione del rapporto di lavoro; [i]n
ipotesi di risposta positiva al quesito che precede, se la diversità tra le conseguenze
ordinariamente previste nell’ordinamento interno per la illegittima interruzione del rapporto di
43
lavoro a tempo indeterminato ed a tempo determinato siano giustificabili ai sensi della clausola
4 [della direttiva 1999/70].
4) Se, in forza del principio di leale cooperazione, ad uno Stato sia vietato rappresentare in un
procedimento pregiudiziale interpretativo alla Corte (…) un quadro normativo interno
volutamente non corrispondente al vero ed il giudice sia obbligato, in assenza di una diversa
interpretazione del diritto interno ugualmente satisfattiva degli obblighi derivanti dalla
appartenenza alla Unione europea, ad interpretare, ove possibile, il diritto interno
conformemente alla interpretazione offerta dallo Stato.
5) Se nelle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro previste dalla direttiva
[91/533] e segnatamente dall’articolo 2, [paragrafi] 1 e 2, [lettera] e), rientri la indicazione delle
ipotesi in cui il contratto di lavoro a termine si può trasformare in contratto a tempo
indeterminato.
6) In ipotesi di risposta positiva al quesito che precede se una modifica con efficacia retroattiva del
quadro normativo tale che non garantisca al lavoratore subordinato la possibilità di far valere i
suoi diritti derivanti dalla direttiva [91/533], ovvero il rispetto delle condizioni di lavoro
indicate nel documento di assunzione, sia contrari[a] all’articolo 8, [paragrafo] 1, della direttiva
[91/533] ed alle finalità di cui alla [stessa] ed in particolare al 2° “considerando”.
7) Se i principi generali del vigente diritto [dell’Unione] della certezza del diritto, della tutela del
legittimo affidamento, della uguaglianza delle armi del processo, dell’effettiva tutela
giurisdizionale, [del diritto] a un tribunale indipendente e, più in generale, a un equo processo,
garantiti dall’[articolo 6 TUE] (…) – in combinato disposto con l’articolo 6 della [CEDU], e
con gli artt. 46, 47 e 52, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (…) –
debbano essere interpretati nel senso di ostare, nell’ambito di applicazione della direttiva
[1999/70], all’emanazione da parte dello Stato italiano, dopo un arco temporale apprezzabile (3
anni e sei mesi), di una disposizione normativa, quale l’articolo 9 del decreto legge n. 70[/2011]
convertito con L. 12 luglio 2011, n. 106, [che] ha aggiunto il comma 4-bis all’articolo 10 del
[decreto legislativo n. 368/2001] – atta ad alterare le conseguenze dei processi in corso
danneggiando direttamente il lavoratore a vantaggio del datore di lavoro – [S]tato ed eliminando
la possibilità conferita dall’[o]rdinamento interno di sanzionare l’abusiva reiterazione di
contratti a termine».
36 Con ordinanza del presidente della Corte dell’8 marzo 2013, le cause C-22/13 e da C-61/13 a C-63/13
sono state riunite ai fini delle fasi scritta ed orale del procedimento, nonché della sentenza.
La causa C-418/13
44
37 Le sig.re Napolitano, Cittadino e Zangari nonché i sigg. Perrella e Romano sono stati assunti dal
Ministero mediante contratti di lavoro a tempo determinato successivi, i primi quattro in qualità di
docenti e l’ultimo in qualità di collaboratore amministrativo. Dagli elementi forniti alla Corte risulta
che, conformemente a tali contratti, essi hanno lavorato per i propri rispettivi datori di lavoro per i
seguenti periodi: 55 mesi su un periodo di 6 anni per la sig.ra Napolitano (tra il 2005 e il 2010), 100
mesi su un periodo di 10 anni per la sig.ra Cittadino (tra il 2002 e il 2012); 113 mesi su un periodo di
11 anni per la sig.ra Zangari (tra il 2001 e il 2012), 81 mesi su un periodo di 7 anni per la
sig.ra Perrella (tra il 2003 e il 2010) e 47 mesi su un periodo di 4 anni per il sig. Romano (tra il 2007 e
il 2011).
38 Ritenendo illegittime tali assunzioni a tempo determinato successive, i ricorrenti nei procedimenti
principali hanno adito, rispettivamente, il Tribunale di Roma e il Tribunale di Lamezia Terme,
chiedendo, in via principale, la conversione dei loro rispettivi contratti in contratti di lavoro a tempo
indeterminato e, di conseguenza, la loro immissione in ruolo e il pagamento delle retribuzioni
corrispondenti ai periodi di interruzione tra la scadenza di un contratto a tempo determinato e l’entrata
in vigore di quello successivo. In subordine, i ricorrenti nel procedimento principale hanno chiesto
altresì il risarcimento del danno subito.
39 Nell’ambito delle controversie di cui sono stati investiti, il Tribunale di Roma e il Tribunale di
Lamezia Terme si sono interrogati sulla compatibilità dell’articolo 4, commi 1 e 11, della legge
n. 124/1999 con la clausola 5 dell’accordo quadro, in quanto tale disposizione consente
all’amministrazione di assumere, senza limiti, a tempo determinato, personale docente, tecnico o
amministrativo al fine di coprire posti vacanti nell’organico di una scuola. Ritenendo di non poter
decidere tale questione né attraverso un’interpretazione conforme, essendo la suddetta disposizione
formulata in maniera non equivoca, né tramite la sua disapplicazione, essendo detta clausola 5 priva di
effetto diretto, tali giudici hanno sottoposto alla Corte costituzionale, in via incidentale, una questione
di legittimità costituzionale vertente sull’articolo 4, commi 1 e 11, della legge n. 124/1999 per
violazione dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione della Repubblica italiana, letto in
combinato disposto con la clausola 5 dell’accordo quadro.
40 Nella sua ordinanza di rinvio, la Corte costituzionale constata che la normativa nazionale applicabile
alla scuola statale non prevede, per quanto riguarda il personale assunto a tempo determinato, né una
durata massima totale dei contratti di lavoro a tempo determinato successivi, né l’indicazione del
numero massimo dei loro rinnovi, ai sensi della clausola 5, punto 1, lettere b) e c), dell’accordo
quadro. Tale giudice si chiede tuttavia se detta normativa non possa essere giustificata da una «ragione
obiettiva» ai sensi del punto 1, lettera a), della suddetta clausola.
41 Secondo il giudice del rinvio, la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale è
strutturata, almeno in via di principio, in modo tale che l’assunzione di personale con contratto di
lavoro a tempo determinato possa soddisfare una siffatta ragione obiettiva. Il servizio scolastico
45
sarebbe, infatti, «attivabile su domanda», nel senso che il diritto fondamentale allo studio previsto
dalla Costituzione della Repubblica italiana implica che lo Stato non può rifiutarsi di erogarlo e, di
conseguenza, che esso è tenuto ad organizzarlo in modo da poterlo adattare costantemente alle
evoluzioni della popolazione scolastica. Tale insita esigenza di flessibilità renderebbe indispensabile
l’assunzione di un numero significativo di docenti e di personale delle scuole statali con contratti di
lavoro a tempo determinato. Peraltro, il sistema delle graduatorie permanenti, associato a quello dei
concorsi pubblici, garantirebbe il rispetto di criteri oggettivi al momento dell’assunzione di personale
mediante siffatti contratti di lavoro a tempo determinato e consentirebbe allo stesso personale di avere
una possibilità ragionevole di diventare di ruolo in un posto permanente.
42 La Corte costituzionale rileva tuttavia che l’articolo 4, comma 1, della legge n. 124/1999, sebbene non
preveda il rinnovo reiterato di contratti di lavoro a tempo determinato e non escluda il diritto al
risarcimento del danno, consente di provvedere a supplenze annuali per posti vacanti e disponibili «in
attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale docente di ruolo».
Orbene, le procedure concorsuali sarebbero state interrotte tra il 2000 e il 2011. Tale disposizione
potrebbe così configurare la possibilità di un rinnovo dei contratti a tempo determinato senza la
previsione di tempi certi per lo svolgimento dei concorsi. Tale circostanza, combinata all’assenza di
disposizioni che riconoscano il diritto al risarcimento del danno al personale delle scuole statali che sia
stato indebitamente assoggettato a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato,
potrebbe porsi in conflitto con la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro.
43 In tali circostanze, la Corte costituzionale ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla
Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro (...) debba essere interpretata nel senso che osta
all’applicazione dell’articolo 4, commi 1, ultima proposizione, e 11, della legge [n. 124/1999] –
i quali, dopo aver disciplinato il conferimento di supplenze annuali su posti “che risultino
effettivamente vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre”, dispongono che si provvede
mediante il conferimento di supplenze annuali, “in attesa dell’espletamento delle procedure
concorsuali per l’assunzione di personale docente di ruolo” – disposizione la quale consente che
si faccia ricorso a contratti a tempo determinato senza indicare tempi certi per l’espletamento
dei concorsi e in una condizione che non prevede il diritto al risarcimento del danno;
2) Se costituiscano ragioni obiettive, ai sensi della clausola 5, punto 1, dell’[accordo quadro], le
esigenze di organizzazione del sistema scolastico italiano come sopra delineato, tali da rendere
compatibile con il diritto dell’Unione europea una normativa come quella italiana che per
l’assunzione del personale scolastico a tempo determinato non prevede il diritto al risarcimento
del danno».
46
44 Con decisione della Corte dell’11 febbraio 2014, le cause C-22/13 e da C-61/13 a C-63/13 nonché la
causa C-418/13 sono state riunite ai fini delle fasi scritta ed orale del procedimento, nonché della
sentenza.
Sulle questioni pregiudiziali
45 Con le loro questioni, i giudici del rinvio interrogano la Corte sull’interpretazione, rispettivamente,
della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro (prima e seconda questione nelle cause C-22/13,
C-61/13 e C-62/13, prima questione nella causa C-63/13 nonché prima e seconda questione nella
causa C-418/13), della clausola 4 di tale accordo quadro (terza questione nelle cause C-22/13, C-61/13
e C-62/13 nonché seconda questione nella causa C-63/13), del principio di leale cooperazione (quarta
questione nelle cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13 nonché terza questione nella causa C-63/13), della
direttiva 91/533 (quinta e sesta questione nelle cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13), nonché di
numerosi principi generali del diritto dell’Unione (settima questione nelle cause C-61/13 e C-62/13).
Sulla ricevibilità
46 Il Comune di Napoli fa valere che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta dal Tribunale di
Napoli nella causa C-63/13 non è necessaria per la decisione della controversia principale e che,
pertanto, la domanda pregiudiziale in tale causa è irricevibile nel suo complesso. Tale giudice avrebbe
esso stesso indicato nella sua ordinanza di rinvio di ritenere che, alla luce della giurisprudenza della
Corte relativa all’accordo quadro, le misure adottate dal legislatore nazionale per la sua trasposizione
siano insufficienti. Spetterebbe, pertanto, a detto giudice decidere la controversia di cui al
procedimento principale facendo ricorso all’interpretazione conforme del diritto nazionale rispetto al
diritto dell’Unione.
47 Si deve, tuttavia, ricordare che, secondo una giurisprudenza costante, nell’ambito della cooperazione
tra la Corte e i giudici nazionali istituita dall’articolo 267 TFUE, spetta soltanto al giudice nazionale,
cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione
giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze della causa, sia la necessità di una
pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emettere la propria sentenza, sia la rilevanza delle
questioni che sottopone alla Corte (sentenza Rosado Santana, C-177/10, EU:C:2011:557, punto 32 e
giurisprudenza ivi citata).
48 Come la Corte ha ripetutamente dichiarato, i giudici nazionali hanno, a tale riguardo, la più ampia
facoltà di adire la Corte qualora ritengano che una causa dinanzi ad essi pendente faccia sorgere
questioni che richiedono un’interpretazione delle disposizioni del diritto dell’Unione (v., in
particolare, sentenze Križan e a., C-416/10, EU:C:2013:8, punto 64, nonché Ogieriakhi, C-244/13,
EU:C:2014:2068, punto 52).
47
49 Ne consegue che l’esistenza di una giurisprudenza consolidata su un punto di diritto dell’Unione,
sebbene possa portare la Corte ad adottare un’ordinanza ai sensi dell’articolo 99 del suo regolamento
di procedura, non può assolutamente compromettere la ricevibilità di un rinvio pregiudiziale nel caso
in cui un giudice nazionale decida, nell’ambito di tale potere discrezionale, di adire la Corte ai sensi
dell’articolo 267 TFUE.
50 Ciò posto, va ricordato, altresì, che, secondo costante giurisprudenza, la Corte può rifiutare di
pronunciarsi su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale, qualora risulti
manifestamente che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta non abbia alcuna relazione con
l’effettività o con l’oggetto del giudizio principale oppure qualora il problema sia di natura ipotetica,
oppure nel caso in cui la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire
una soluzione utile alle questioni che le vengono sottoposte (v., in particolare, sentenza Érsekcsanádi
Mezőgazdasági, C-56/13, EU:C:2014:352, punto 36 e giurisprudenza ivi citata).
51 Nel caso di specie, si deve osservare che, nella causa C-63/13, il giudice del rinvio sottopone alla
Corte tre questioni pregiudiziali identiche alla seconda, terza e quarta questione già sollevate nelle
cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13.
52 Tuttavia, dall’ordinanza di rinvio nella causa C-63/13 risulta che il contesto sia di fatto che di diritto
relativo a tale causa è distinto da quello di cui trattasi nelle altre tre cause, poiché, secondo il giudice
del rinvio, la sig.ra Russo, in qualità di educatrice impiegata in asili nido e in scuole materne
comunali, non è soggetta, a differenza delle sig.re Mascolo, Forni e Racca, nonché, del resto, dei
ricorrenti nel procedimento principale nella causa C-418/13, alla normativa nazionale applicabile alla
scuola statale risultante dalla legge n. 124/1999, ma resta sottoposta alla normativa generale prevista,
in particolare, dal decreto legislativo n. 368/2001.
53 In tali circostanze, risulta che la prima questione sollevata nella causa C-63/13, vertente, come nelle
cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13, sulla conformità alla clausola 5 dell’accordo quadro della
normativa nazionale prevista dalla legge n. 124/1999, nei limiti in cui quest’ultima consente allo Stato
di assumere personale nelle scuole da esso gestite con contratti di lavoro a tempo determinato, senza
essere soggetto, a differenza delle scuole private, ai limiti posti dal decreto legislativo n. 368/2001, è
irrilevante ai fini della decisione della controversia di cui al procedimento principale nella causa
C-63/13 e ha, pertanto, natura ipotetica.
54 Lo stesso vale anche per la seconda questione sollevata in tale causa, diretta sostanzialmente a sapere
se la normativa nazionale di cui trattasi, come risulta in particolare dall’articolo 36, comma 5, del
decreto legislativo n. 165/2001, sia conforme alla clausola 4 dell’accordo quadro, nei limiti in cui detta
normativa esclude, nel settore pubblico, il diritto al risarcimento del danno in caso di ricorso abusivo a
una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.
55 Lo stesso Tribunale di Napoli, infatti, constata, nella sua ordinanza di rinvio nella causa C-63/13, che
la ricorrente nel procedimento principale beneficia, a differenza delle ricorrenti nei procedimenti
48
principali nelle cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13, dell’applicazione dell’articolo 5, comma 4 bis, del
decreto legislativo n. 368/2001, disposizione che prevede la trasformazione dei contratti a tempo
determinato successivi di durata superiore a 36 mesi in contratto di lavoro a tempo indeterminato. Da
tale constatazione detto giudice rileva, giustamente, che la citata disposizione costituisce una misura
che, nei limiti in cui previene il ricorso abusivo a siffatti contratti e implica l’eliminazione definitiva
delle conseguenze dell’abuso, è conforme ai requisiti derivanti dal diritto dell’Unione (v., in
particolare, sentenza Fiamingo e a., C-362/13, C-363/13 e C-407/13, EU:C:2014:2044, punti 69 e 70,
nonché giurisprudenza ivi citata).
56 Si deve constatare che detto giudice non spiega assolutamente in che modo, in siffatte circostanze, la
sua seconda questione nella causa C-63/13 sia ancora rilevante per pronunciarsi, nella controversia di
cui al procedimento principale, sulla conformità della normativa nazionale di cui trattasi al diritto
dell’Unione.
57 In ogni caso, dall’ordinanza di rinvio non risulta assolutamente in che modo un lavoratore che benefici
di una siffatta trasformazione, la cui domanda di risarcimento è, peraltro, presentata in via subordinata,
subisca, al pari dei lavoratori che si trovino nella situazione delle ricorrenti nei procedimenti
all’origine delle cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13, che sono esclusi dall’applicazione di tale articolo
5, comma 4 bis, un danno che dia diritto al risarcimento.
58 In tali circostanze, si deve ritenere che anche la seconda questione sollevata nella causa C-63/13 sia di
natura ipotetica.
59 Il Comune di Napoli, il governo italiano e la Commissione europea, inoltre, mettono in discussione la
ricevibilità della quarta questione nelle cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13 nonché della terza questione
nella causa C-63/13, per il motivo, sostanzialmente, che la risposta a tali questioni è, in tutto o in parte,
irrilevante ai fini delle controversie di cui ai procedimenti principali.
60 Si deve osservare che tali questioni, la cui formulazione è identica, si fondano, come già constatato al
punto 32 della presente sentenza, sulla premessa in forza della quale l’interpretazione del diritto
nazionale apportata dal governo italiano nella causa che ha dato luogo all’ordinanza Affatato
(EU:C:2010:574, punto 48), secondo cui l’articolo 5, comma 4 bis, del decreto legislativo n. 368/2001
è applicabile al settore pubblico, è erronea e, pertanto, integra una violazione da parte dello Stato
membro interessato del principio di leale cooperazione.
61 Tale interpretazione, come risulta dai punti 14 e 15 della presente sentenza, corrisponde tuttavia
pienamente all’interpretazione apportata nel caso di specie dal Tribunale di Napoli, e alla luce della
quale, secondo una giurisprudenza costante, la Corte deve effettuare l’esame dei presenti rinvii
pregiudiziali (v., in particolare, sentenza Pontin, C-63/08, EU:C:2009:666, punto 38). Tale giudice
indica, infatti esplicitamente nelle sue ordinanze di rinvio che, a suo avviso, il legislatore nazionale
non ha inteso escludere l’applicazione di detto articolo 5, comma 4 bis, al settore pubblico.
49
62 Inoltre, come risulta dal punto 28 della presente sentenza, lo stesso giudice del rinvio ritiene, cosa che
rientra nella sua competenza esclusiva, che l’articolo 5, comma 4 bis, del decreto legislativo
n. 368/2001, sebbene si applichi al settore pubblico, non sia applicabile alla scuola statale, di modo
che tale disposizione non è rilevante ai fini delle controversie principali nelle cause C-22/13, C-61/13
e C-62/13.
63 Ne consegue che la quarta questione nelle cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13 nonché la terza questione
nella causa C-63/13 sono ipotetiche.
64 Alla luce di tutto quanto precede, si deve rilevare che la domanda di pronuncia pregiudiziale nella
causa C-63/13, nel suo complesso, nonché la quarta questione nelle cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13
sono, conformemente alla giurisprudenza ricordata al punto 50 della presente sentenza, irricevibili.
Nel merito
65 Con la prima questione nelle cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13 nonché con le due questioni nella
causa C-418/13, che occorre esaminare congiuntamente, i giudici del rinvio intendono, in sostanza,
sapere se la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro debba essere interpretata nel senso che osta a una
normativa nazionale, quale quella di cui ai procedimenti principali, che autorizzi, in attesa
dell’espletamento di procedure concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il
rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di
docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per
l’espletamento di tali concorsi ed escludendo qualsiasi possibilità, per tali docenti e detto personale, di
ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo.
Sull’ambito di applicazione dell’accordo quadro
66 Il governo ellenico fa valere che è inopportuno che il settore dell’insegnamento sia soggetto alle
disposizioni dell’accordo quadro relative al ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a
tempo determinato. Tale settore si caratterizzerebbe, infatti dall’esistenza di «esigenze (…) specifiche»
ai sensi della clausola 5, punto 1, di tale accordo quadro, poiché l’insegnamento è volto a garantire il
rispetto del diritto allo studio ed è indispensabile al buon funzionamento del sistema scolastico.
67 A tale proposito va ricordato che, dalla formulazione stessa della clausola 2, punto 1, dell’accordo
quadro, risulta che l’ambito di applicazione di quest’ultimo è concepito in senso ampio, poiché
riguarda in generale i «lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di
lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno Stato
membro». Inoltre, la definizione della nozione di «lavoratore a tempo determinato» ai sensi
dell’accordo quadro, enunciata alla clausola 3, punto 1, di quest’ultimo, include tutti i lavoratori, senza
operare distinzioni basate sulla natura pubblica o privata del loro datore di lavoro e a prescindere dalla
50
qualificazione del loro contratto in diritto interno (v. sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punti
28 e 29 nonché giurisprudenza ivi citata).
68 Pertanto, l’accordo quadro si applica all’insieme dei lavoratori che forniscono prestazioni retribuite
nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo determinato che li lega al loro datore di lavoro, purché
questi siano vincolati da un contratto di lavoro ai sensi del diritto nazionale, e fatto salvo soltanto il
margine di discrezionalità conferito agli Stati membri dalla clausola 2, punto 2, dell’accordo quadro
per quanto attiene all’applicazione di quest’ultimo a talune categorie di contratti o di rapporti di lavoro
nonché all’esclusione, conformemente al quarto comma del preambolo dell’accordo quadro, dei
lavoratori interinali (v. sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punti da 30 a 33 nonché
giurisprudenza ivi citata).
69 Ne consegue che l’accordo quadro non esclude nessun settore particolare dalla sua sfera
d’applicazione e che, pertanto, è applicabile al personale assunto nel settore dell’insegnamento (v., in
tal senso, sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 38).
70 Tale conclusione è avvalorata dal contenuto della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, da cui si
ricava che, conformemente al terzo comma del preambolo dell’accordo quadro nonché ai punti 8 e 10
delle sue considerazioni generali, è nell’ambito dell’attuazione di detto accordo quadro che gli Stati
membri hanno facoltà, in quanto ciò sia oggettivamente giustificato, di tener conto delle esigenze
particolari relative ai settori di attività e/o alle categorie specifici di lavoratori in questione (sentenza
Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 39).
71 Ne deriva che lavoratori che si trovino nella situazione dei ricorrenti nei procedimenti principali,
assunti in qualità di docenti o di collaboratori amministrativi per effettuare supplenze annuali in scuole
statali nell’ambito di contratti di lavoro ai sensi del diritto nazionale, che incontestabilmente non
rientrano in rapporti di lavoro che possano essere esclusi dall’ambito di applicazione dell’accordo
quadro, sono soggetti alle disposizioni dello stesso, e in particolare, alla sua clausola 5 (v., per
analogia, sentenza Márquez Samohano, C-190/13, EU:C:2014:146, punto 39).
Sull’interpretazione della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro
72 Occorre ricordare che la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro mira ad attuare uno degli obiettivi
perseguiti dallo stesso, vale a dire limitare il ricorso a una successione di contratti o rapporti di lavoro
a tempo determinato, considerato come una potenziale fonte di abuso in danno dei lavoratori,
prevedendo un certo numero di disposizioni di tutela minima tese ad evitare la precarizzazione della
situazione dei lavoratori dipendenti (v., in particolare, sentenze Adeneler e a., C-212/04,
EU:C:2006:443, punto 63; Kücük, C-586/10, EU:C:2012:39, punto 25, nonché Fiamingo e a.,
EU:C:2014:2044, punto 54).
73 Come risulta dal secondo comma del preambolo dell’accordo quadro, così come dai punti 6 e 8 delle
considerazioni generali di detto accordo quadro, infatti, il beneficio della stabilità dell’impiego è
51
inteso come un elemento portante della tutela dei lavoratori, mentre soltanto in alcune circostanze i
contratti di lavoro a tempo determinato sono atti a rispondere alle esigenze sia dei datori di lavoro sia
dei lavoratori (sentenze Adeneler e a., EU:C:2006:443, punto 62, nonché Fiamingo e a.,
EU:C:2014:2044, punto 55).
74 Pertanto, la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro impone agli Stati membri, al fine di prevenire
l’utilizzo abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, l’adozione
effettiva e vincolante di almeno una delle misure che essa elenca, qualora il loro diritto interno non
contenga norme equivalenti. Le misure così elencate al punto 1, lettere da a) a c), di detta clausola, in
numero di tre, attengono, rispettivamente, a ragioni obiettive che giustificano il rinnovo di tali contratti
o rapporti di lavoro, alla durata massima totale degli stessi contratti o rapporti di lavoro successivi ed
al numero dei rinnovi di questi ultimi (v., in particolare, sentenze Kücük, EU:C:2012:39, punto 26,
nonché Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 56).
75 Gli Stati membri dispongono di un’ampia discrezionalità a tale riguardo, dal momento che essi hanno
la scelta di far ricorso a una o a più misure enunciate al punto 1, lettere da a) a c), di detta clausola,
oppure a norme giuridiche equivalenti già esistenti, e ciò tenendo conto, nel contempo, delle esigenze
di settori e/o di categorie specifici di lavoratori (v. sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 59
nonché giurisprudenza ivi citata).
76 Così facendo, la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro fissa agli Stati membri un obiettivo generale,
consistente nella prevenzione di siffatti abusi, lasciando loro nel contempo la scelta dei mezzi per
conseguire ciò, purché essi non rimettano in discussione l’obiettivo o l’effetto utile dell’accordo
quadro (sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 60).
77 Inoltre quando, come nel caso di specie, il diritto dell’Unione non prevede sanzioni specifiche
nell’ipotesi in cui vengano nondimeno accertati abusi, spetta alle autorità nazionali adottare misure che
devono rivestire un carattere non solo proporzionato, ma anche sufficientemente energico e dissuasivo
per garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell’accordo quadro (v., in
particolare, sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 62 nonché giurisprudenza ivi citata).
78 Seppure, in mancanza di una specifica disciplina dell’Unione in materia, le modalità di applicazione di
tali norme spettino all’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in forza del principio
dell’autonomia procedurale di questi ultimi, esse non devono essere però meno favorevoli di quelle
che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né rendere in pratica
impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico
dell’Unione (principio di effettività) (v., in particolare, sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044,
punto 63 nonché giurisprudenza ivi citata).
79 Da ciò discende che, quando si è verificato un ricorso abusivo a una successione di contratti o di
rapporti di lavoro a tempo determinato, si deve poter applicare una misura che presenti garanzie
effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso e cancellare
52
le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione (sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044,
punto 64 nonché giurisprudenza ivi citata).
80 A tale proposito, occorre ricordare che, come sottolineato ripetutamente dalla Corte, l’accordo quadro
non enuncia un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione dei contratti di
lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato. Infatti, la clausola 5, punto 2,
dell’accordo quadro lascia, in linea di principio, agli Stati membri la cura di determinare a quali
condizioni i contratti o i rapporti di lavoro a tempo determinato vadano considerati come conclusi a
tempo indeterminato. Da ciò discende che l’accordo quadro non prescrive le condizioni in presenza
delle quali si può fare uso dei contratti a tempo indeterminato (v., in particolare, sentenza Fiamingo
e a., EU:C:2014:2044, punto 65 nonché giurisprudenza ivi citata).
81 Nel caso di specie, per quanto concerne la normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti
principali, occorre ricordare che la Corte non è competente a pronunciarsi sull’interpretazione delle
disposizioni del diritto interno, dato che questo compito spetta esclusivamente al giudice del rinvio o,
se del caso, ai competenti organi giurisdizionali nazionali, che devono determinare se i criteri ricordati
ai punti da 74 a 79 della presente sentenza siano soddisfatti dalle disposizioni della normativa
nazionale applicabile (v., in particolare, sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 66 nonché
giurisprudenza ivi citata).
82 Spetta pertanto al giudice del rinvio valutare in che misura i presupposti per l’applicazione nonché
l’effettiva attuazione delle disposizioni rilevanti del diritto interno costituiscano una misura adeguata
per prevenire e, se del caso, punire l’uso abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a
tempo determinato (v. sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 67 nonché giurisprudenza ivi
citata).
83 Tuttavia, la Corte, nel pronunciarsi su un rinvio pregiudiziale, può fornire, ove necessario, precisazioni
dirette a guidare il giudice nazionale nella sua valutazione (v., in particolare, sentenza Fiamingo e a.,
EU:C:2014:2044, punto 68 nonché giurisprudenza ivi citata).
– Sull’esistenza di misure di prevenzione del ricorso abusivo a una successione di contratti di
lavoro a tempo determinato
84 Per quanto riguarda l’esistenza di misure di prevenzione dell’utilizzo abusivo di una successione di
contratti di lavoro a tempo determinato ai sensi della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, è
pacifico che la normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali consenta di assumere
docenti con una successione di contratti di lavoro a tempo determinato per il conferimento di
supplenze, senza prevedere alcuna misura che limiti la durata massima totale di tali contratti o il
numero dei loro rinnovi, ai sensi del punto 1, lettere b) e c), di detta clausola. In particolare, il
Tribunale di Napoli indica a tale riguardo, come risulta dal punto 28 della presente sentenza, che
l’articolo 10, comma 4 bis, del decreto legislativo n. 368/2001 esclude l’applicazione alla scuola
53
statale dell’articolo 5, comma 4 bis, di detto decreto, che prevede che i contratti di lavoro a tempo
determinato di durata superiore a 36 mesi siano trasformati in contratti di lavoro a tempo
indeterminato, permettendo così un numero di rinnovi illimitato di siffatti contratti. È anche
incontestato che la normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali non preveda alcuna
misura equivalente a quelle enunciate alla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro.
85 In tali circostanze, è importante che il rinnovo di siffatti contratti di lavoro sia giustificato da una
«ragione obiettiva» ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro.
86 Come si evince dal punto 7 delle considerazioni generali di tale accordo, infatti, e come risulta dal
punto 74 della presente sentenza, i firmatari dell’accordo quadro hanno ritenuto che l’uso di contratti
di lavoro a tempo determinato basato su ragioni obiettive sia un mezzo per prevenire gli abusi (v.
sentenze Adeneler e a., EU:C:2006:443, punto 67, nonché Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 58).
87 Per quanto riguarda tale nozione di «ragioni obiettive» che figura nella clausola 5, punto 1, lettera a),
dell’accordo quadro, la Corte ha già dichiarato che essa deve essere intesa nel senso che si riferisce a
circostanze precise e concrete che contraddistinguono una determinata attività e, pertanto, tali da
giustificare, in tale peculiare contesto, l’utilizzo di una successione di contratti di lavoro a tempo
determinato. Dette circostanze possono risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle funzioni
per l’espletamento delle quali sono stati conclusi i contratti in questione, dalle caratteristiche ad esse
inerenti o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato
membro (sentenza Kücük, EU:C:2012:39, punto 27 e giurisprudenza ivi citata).
88 Per contro, una disposizione nazionale che si limitasse ad autorizzare, in modo generale e astratto
attraverso una norma legislativa o regolamentare, il ricorso ad una successione di contratti di lavoro a
tempo determinato, non soddisfarebbe i requisiti precisati al punto precedente della presente sentenza.
Infatti, una disposizione di tal genere, di natura puramente formale, non consente di stabilire criteri
oggettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di siffatti contratti risponda effettivamente ad
un’esigenza reale, se esso sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine. Una
siffatta disposizione comporta quindi un rischio concreto di determinare un ricorso abusivo a tale tipo
di contratti e, pertanto, non è compatibile con lo scopo e l’effetto utile dell’accordo quadro (sentenza
Kücük, EU:C:2012:39, punti 28 e 29 nonché giurisprudenza ivi citata).
89 Nel caso di specie si deve, in via preliminare, rilevare che dalle ordinanze di rinvio e dalle spiegazioni
fornite in udienza risulta che, in forza della normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti
principali, come prevista dalla legge n. 124/1999, l’assunzione di personale nelle scuole statali ha
luogo sia a tempo indeterminato tramite l’immissione in ruolo sia a tempo determinato mediante lo
svolgimento di supplenze. L’immissione in ruolo si effettua secondo il sistema cosiddetto «del doppio
canale», ossia, quanto alla metà dei posti vacanti per anno scolastico, mediante concorsi per titoli ed
esami e, quanto all’altra metà, attingendo alle graduatorie permanenti, nelle quali figurano i docenti
che hanno vinto un siffatto concorso senza tuttavia ottenere un posto di ruolo, e quelli che hanno
54
seguito corsi di abilitazione tenuti dalle scuole di specializzazione per l’insegnamento. Si è fatto
ricorso alle supplenze attingendo alle medesime graduatorie: la successione delle supplenze da parte di
uno stesso docente ne comporta l’avanzamento in graduatoria e può condurlo all’immissione in ruolo.
90 Dalle stesse ordinanze di rinvio emerge che la normativa nazionale di cui trattasi, come risulta
dall’articolo 4 della legge n. 124/1999, letto in combinato disposto con l’articolo 1 del decreto
n. 131/2007, prevede tre tipi di supplenze: in primo luogo, le supplenze annuali sull’organico «di
diritto», in attesa dell’espletamento di procedure concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo,
per posti vacanti e disponibili, in quanto privi di titolare, il cui termine corrisponde a quello dell’anno
scolastico, ossia il 31 agosto; in secondo luogo, le supplenze temporanee sull’organico «di fatto», per
posti non vacanti, ma disponibili, il cui termine corrisponde a quello delle attività didattiche, ossia il
30 giugno, e, in terzo luogo, le supplenze temporanee, o supplenze brevi, nelle altre ipotesi, il cui
termine corrisponde alla cessazione delle esigenze per le quali sono state disposte.
91 Si deve sottolineare che una normativa nazionale che consenta il rinnovo di contratti di lavoro a tempo
determinato per sostituire, da un lato, personale delle scuole statali in attesa dell’esito di procedure
concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo nonché, dall’altro, personale di tali scuole che si
trova momentaneamente nell’impossibilità di svolgere le sue funzioni non è di per sé contraria
all’accordo quadro. Infatti, la sostituzione temporanea di un altro dipendente al fine di soddisfare, in
sostanza, esigenze provvisorie del datore di lavoro in termini di personale può, in linea di principio,
costituire una «ragione obiettiva» ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), di tale accordo quadro
(v., in tal senso, sentenze Angelidaki e a., da C-378/07 a C-380/07, EU:C:2009:250, punti 101 e 102,
nonché Kücük, EU:C:2012:39, punto 30).
92 A tale riguardo, occorre, innanzitutto, ricordare che, nell’ambito di un’amministrazione che dispone di
un organico significativo, come il settore dell’insegnamento, è inevitabile che si rendano spesso
necessarie sostituzioni temporanee a causa, segnatamente, dell’indisponibilità di dipendenti che
beneficiano di congedi per malattia, per maternità, parentali o altri. La sostituzione temporanea di
dipendenti in tali circostanze può costituire una ragione obiettiva ai sensi della clausola 5, punto 1,
lettera a), dell’accordo quadro, che giustifica sia la durata determinata dei contratti conclusi con il
personale supplente, sia il rinnovo di tali contratti in funzione delle esigenze emergenti, fatto salvo il
rispetto dei requisiti fissati al riguardo dall’accordo quadro (v., in tal senso, sentenza Kücük,
EU:C:2012:39, punto 31).
93 Tale conclusione si impone a maggior ragione allorché la normativa nazionale che giustifica il rinnovo
di contratti a tempo determinato in caso di sostituzione temporanea persegue altresì obiettivi di politica
sociale riconosciuti come legittimi. Infatti, come risulta dal punto 87 della presente sentenza, la
nozione di «ragione obiettiva» che figura alla clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro
comprende il perseguimento di siffatti obiettivi. Orbene, misure dirette, in particolare, a tutelare la
gravidanza e la maternità nonché a consentire agli uomini e alle donne di conciliare i loro obblighi
55
professionali e familiari perseguono obiettivi legittimi di politica sociale (v. sentenza Kücük,
EU:C:2012:39, punti 32 e 33 nonché giurisprudenza ivi citata).
94 Inoltre, va rilevato che, come risulta, in particolare, dall’ordinanza di rinvio nella causa C-418/13,
l’insegnamento è correlato a un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione della Repubblica
italiana che impone a tale Stato l’obbligo di organizzare il servizio scolastico in modo da garantire un
adeguamento costante tra il numero di docenti e il numero di scolari. Orbene, non si può negare che
tale adeguamento dipenda da un insieme di fattori, taluni dei quali possono, in una certa misura, essere
difficilmente controllabili o prevedibili, quali, in particolare, i flussi migratori esterni ed interni o le
scelte di indirizzi scolastici da parte degli scolari.
95 Si deve ammettere che fattori del genere attestano, nel settore dell’insegnamento di cui trattasi nei
procedimenti principali, un’esigenza particolare di flessibilità che, conformemente alla giurisprudenza
ricordata al punto 70 della presente sentenza, è idonea, in tale specifico settore, a giustificare
oggettivamente, alla luce della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro, il ricorso a una
successione di contratti di lavoro a tempo determinato per rispondere in maniera adeguata alla
domanda scolastica ed evitare di esporre lo Stato, quale datore di lavoro in tale settore, al rischio di
dover immettere in ruolo un numero di docenti significativamente superiore a quello effettivamente
necessario per adempiere i propri obblighi in materia.
96 Infine, va constatato che, qualora uno Stato membro riservi, nelle scuole da esso gestite, l’accesso ai
posti permanenti al personale vincitore di concorso, tramite l’immissione in ruolo, può altresì
oggettivamente giustificarsi, alla luce di detta disposizione, che, in attesa dell’espletamento di tali
concorsi, i posti da occupare siano coperti con una successione di contratti di lavoro a tempo
determinato.
97 I ricorrenti nei procedimenti principali sostengono tuttavia che la normativa nazionale di cui trattasi in
tali procedimenti, quale risulta dall’articolo 4, comma 1, della legge n. 124/1999, che consente proprio
il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per coprire, tramite supplenze annuali, posti
vacanti e disponibili «in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di
personale docente di ruolo», porti, nella pratica, a un ricorso abusivo a una successione di contratti di
lavoro a tempo determinato, poiché non esiste alcuna certezza riguardo alla data alla quale tali
procedure concorsuali devono essere organizzate. Il rinnovo di siffatti contratti di lavoro a tempo
determinato consentirebbe così di soddisfare esigenze permanenti e durevoli nelle scuole statali
derivanti dalla mancanza strutturale di personale di ruolo.
98 Dal canto suo, il governo italiano fa valere che il sistema cosiddetto del doppio canale, come descritto
al punto 89 della presente sentenza, consente di inserire il personale a tempo determinato della scuola
statale in un percorso che conduce alla sua immissione in ruolo, poiché tale personale può non solo
partecipare a concorsi pubblici, ma anche, per effetto dell’avanzamento nelle graduatorie risultante
dalla successione delle supplenze, contabilizzare un numero di periodi di attività a tempo determinato
56
sufficienti per essere immesso in ruolo. Orbene, tali graduatorie dovrebbero essere «ad esaurimento»,
nel senso che, quando un certo numero di docenti vi è iscritto, esse non possono più essere alimentate.
Tali graduatorie costituirebbero quindi uno strumento tendente a contrastare il precariato del lavoro.
Indipendentemente dalla specifica situazione di fatto, la normativa nazionale di cui trattasi dovrebbe
quindi essere considerata conforme alla clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro.
99 A tale riguardo, occorre sottolineare che, sebbene una normativa nazionale che consenta il rinnovo di
contratti di lavoro a tempo determinato successivi per la sostituzione di personale in attesa dell’esito di
procedure concorsuali possa essere giustificata da una ragione obiettiva, l’applicazione concreta di tale
ragione, in considerazione delle particolarità dell’attività di cui trattasi e delle condizioni del suo
esercizio, deve essere conforme ai requisiti dell’accordo quadro. Nell’applicazione della disposizione
del diritto nazionale di cui trattasi, le autorità competenti devono quindi essere in grado di stabilire
criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di siffatti contratti risponda
effettivamente ad un’esigenza reale, sia atto a raggiungere lo scopo perseguito e sia necessario a tal
fine (v., in tal senso, sentenza Kücük, EU:C:2012:39, punto 34 e giurisprudenza ivi citata).
100 Orbene, come la Corte ha già dichiarato in numerose occasioni, il rinnovo di contratti o di rapporti di
lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare esigenze che, di fatto, hanno un carattere non già
provvisorio, ma, al contrario, permanente e durevole, non è giustificato ai sensi della clausola 5, punto
1, lettera a), dell’accordo quadro. Infatti, un utilizzo siffatto dei contratti o dei rapporti di lavoro a
tempo determinato è direttamente in contrasto con la premessa sulla quale si fonda tale accordo
quadro, vale a dire il fatto che i contratti di lavoro a tempo indeterminato costituiscono la forma
comune dei rapporti di lavoro, anche se i contratti di lavoro a tempo determinato rappresentano una
caratteristica dell’impiego in alcuni settori o per determinate occupazioni e attività (sentenza Kücük,
EU:C:2012:39, punti 36 e 37 nonché giurisprudenza ivi citata).
101 L’osservanza della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro richiede quindi che si verifichi
concretamente che il rinnovo di successivi contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato miri a
soddisfare esigenze provvisorie, e che una disposizione nazionale quale l’articolo 4, comma 1, della
legge n. 124/1999, letta in combinato disposto con l’articolo 1 del decreto n. 131/2007 non sia
utilizzata, di fatto, per soddisfare esigenze permanenti e durevoli del datore di lavoro in materia di
personale (v., in tal senso, sentenza Kücük, EU:C:2012:39, punto 39 e giurisprudenza ivi citata).
102 Occorre a tal fine esaminare di volta in volta tutte le circostanze del caso, prendendo in
considerazione, in particolare, il numero di detti contratti successivi stipulati con la stessa persona
oppure per lo svolgimento di uno stesso lavoro, al fine di escludere che contratti o rapporti di lavoro a
tempo determinato, sebbene palesemente conclusi per soddisfare un’esigenza di personale sostitutivo,
siano utilizzati in modo abusivo dai datori di lavoro (v., in tal senso, sentenza Kücük, EU:C:2012:39,
punto 40 e giurisprudenza ivi citata).
57
103 L’esistenza di una «ragione obiettiva» ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro
esclude quindi, in linea di principio, l’esistenza di un abuso, a meno che un esame globale delle
circostanze sottese al rinnovo dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato di cui trattasi
riveli che le prestazioni richieste del lavoratore non corrispondono ad una mera esigenza temporanea
(sentenza Kücük, EU:C:2012:39, punto 51).
104 Di conseguenza, contrariamente a quanto sostiene il governo italiano, il solo fatto che la normativa
nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali possa essere giustificata da una «ragione obiettiva»
ai sensi di tale disposizione non può essere sufficiente a renderla ad essa conforme, se risulta che
l’applicazione concreta di detta normativa conduce, nei fatti, a un ricorso abusivo a una successione di
contratti di lavoro a tempo determinato.
105 Orbene, a tale riguardo, sebbene, conformemente alla giurisprudenza ricordata ai punti 81 e 82 della
presente sentenza, ogni valutazione dei fatti rientri, nell’ambito del procedimento previsto dall’articolo
267 TFUE, nella competenza dei giudici nazionali, si deve constatare che dagli elementi forniti alla
Corte nelle presenti cause emerge che, come peraltro ammesso dallo stesso governo italiano, il termine
di immissione in ruolo dei docenti nell’ambito di tale sistema è tanto variabile quanto incerto.
106 Da un lato, infatti, è pacifico, come risulta dalla formulazione stessa della prima questione nella causa
C-418/13, che la normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali non fissa alcun termine
preciso riguardo all’organizzazione delle procedure concorsuali, dal momento che queste ultime
dipendono dalle possibilità finanziarie dello Stato e dalla valutazione discrezionale
dell’amministrazione. Così, secondo le stesse constatazioni operate dalla Corte costituzionale
nell’ordinanza di rinvio nella medesima causa, non è stata organizzata nessuna procedura concorsuale
tra il 2000 e il 2011.
107 Dall’altro lato, dalle spiegazioni del governo italiano risulta che l’immissione in ruolo per effetto
dell’avanzamento dei docenti in graduatoria, essendo in funzione della durata complessiva dei
contratti di lavoro a tempo determinato nonché dei posti che sono nel frattempo divenuti vacanti,
dipende, come sostenuto giustamente dalla Commissione, da circostanze aleatorie e imprevedibili.
108 Ne deriva che una normativa nazionale, quale quella di cui ai procedimenti principali, sebbene limiti
formalmente il ricorso ai contratti di lavoro a tempo determinato per provvedere a supplenze annuali
per posti vacanti e disponibili nelle scuole statali solo per un periodo temporaneo fino all’espletamento
delle procedure concorsuali, non consente di garantire che l’applicazione concreta di tale ragione
obiettiva, in considerazione delle particolarità dell’attività di cui trattasi e delle condizioni del suo
esercizio, sia conforme ai requisiti dell’accordo quadro.
109 Una siffatta normativa, infatti, in assenza di un termine preciso per l’organizzazione e l’espletamento
delle procedure concorsuali che pongono fine alla supplenza e, pertanto, del limite effettivo con
riguardo al numero di supplenze annuali effettuato da uno stesso lavoratore per coprire il medesimo
posto vacante, è tale da consentire, in violazione della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo
58
quadro, il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare esigenze che, di fatto,
hanno un carattere non già provvisorio, ma, al contrario, permanente e durevole, a causa della
mancanza strutturale di posti di personale di ruolo nello Stato membro considerato. Una siffatta
constatazione risulta suffragata, non solo dalla situazione dei ricorrenti nei procedimenti principali,
come descritta ai punti 23 e 37 della presente sentenza, ma anche, in maniera più generale, dai dati
forniti alla Corte nell’ambito delle presenti cause. Così, a seconda degli anni e delle fonti, risulta che
circa il 30%, o addirittura, secondo il Tribunale di Napoli, il 61%, del personale amministrativo,
tecnico e ausiliario delle scuole statali sia impiegato con contratti di lavoro a tempo determinato e che,
tra il 2006 e il 2011, il personale docente di tali scuole vincolato da siffatti contratti abbia
rappresentato tra il 13% e il 18% di tutto il personale docente di dette scuole.
110 A tale riguardo, va ricordato che, sebbene considerazioni di bilancio possano costituire il fondamento
delle scelte di politica sociale di uno Stato membro e possano influenzare la natura ovvero la portata
delle misure che esso intende adottare, esse non costituiscono tuttavia, di per sé, un obiettivo
perseguito da tale politica e, pertanto, non possono giustificare l’assenza di qualsiasi misura di
prevenzione del ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato ai sensi
della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro (v., per analogia, sentenza Thiele Meneses, C-220/12,
EU:C:2013:683, punto 43 e giurisprudenza ivi citata).
111 In ogni caso, va osservato che, come risulta dal punto 89 della presente sentenza, una normativa
nazionale quale quella di cui ai procedimenti principali non riserva l’accesso ai posti permanenti nelle
scuole statali al personale vincitore di concorso, poiché essa consente altresì, nell’ambito del sistema
del doppio canale, l’immissione in ruolo di docenti che abbiano unicamente frequentato corsi di
abilitazione. In tali circostanze, come la Commissione ha fatto valere in udienza, non è assolutamente
ovvio – circostanza che spetta, tuttavia, ai giudici del rinvio verificare – che possa essere considerato
oggettivamente giustificato, alla luce della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro, il
ricorso, nel caso di specie, a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato per la
copertura di posti vacanti e disponibili in dette scuole motivato dall’attesa dell’espletamento delle
procedure concorsuali.
112 A tale riguardo, si deve sottolineare, al pari della Commissione, che, ai fini dell’attuazione della
clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, uno Stato membro è legittimato a scegliere di non adottare la
misura di cui al punto 1, lettera a), di detta clausola. Viceversa, esso può preferire l’adozione di una
delle misure o le due misure di cui al punto 1, lettere b) e c), della medesima clausola, relative,
rispettivamente, alla durata massima totale di tali contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato
successivi e al numero dei loro rinnovi, e ciò purché, quale che sia la misura in concreto adottata,
venga garantita l’effettiva prevenzione dell’utilizzo abusivo di contratti o rapporti di lavoro a tempo
determinato (v., in tal senso, sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 61).
59
113 Si deve, pertanto, constatare, che dagli elementi forniti alla Corte nell’ambito delle presenti cause
emerge che una normativa nazionale, quale quella di cui ai procedimenti principali, non risulta
prevedere, fatte salve le necessarie verifiche da parte dei giudici del rinvio, alcuna misura di
prevenzione del ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato ai sensi
della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, contrariamente ai requisiti ricordati ai punti 74 e 76
della presente sentenza.
– Sull’esistenza di misure sanzionatorie del ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro
a tempo determinato
114 Per quanto riguarda l’esistenza di misure dirette a sanzionare l’utilizzo abusivo di una successione di
contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, si deve rilevare, innanzitutto, che dalle ordinanze di
rinvio risulta che, come espressamente indicato dalla Corte costituzionale nella sua seconda questione
pregiudiziale nella causa C-418/13, la normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali
esclude qualsivoglia diritto al risarcimento del danno subito a causa del ricorso abusivo a una
successione di contratti di lavoro a tempo determinato nel settore dell’insegnamento. In particolare, è
pacifico che il regime previsto dall’articolo 36, comma 5, del decreto legislativo n. 165/2001 nel caso
di ricorso abusivo ai contratti di lavoro a tempo determinato nel settore pubblico non può conferire un
siffatto diritto nei procedimenti principali.
115 Peraltro, come risulta dai punti 28 e 84 della presente sentenza, è altresì incontroverso che la
normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali non consenta neanche la trasformazione
dei contratti di lavoro a tempo determinato successivi in contratto o rapporto di lavoro a tempo
indeterminato, essendo esclusa l’applicazione dell’articolo 5, comma 4 bis, del decreto legislativo
n. 368/2001 alla scuola statale.
116 Ne consegue che, come risulta dalle ordinanze di rinvio e dalle osservazioni del governo italiano,
l’unica possibilità per un lavoratore che abbia effettuato supplenze, ai sensi dell’articolo 4 della legge
n. 124/1999, in una scuola statale di ottenere la trasformazione dei suoi contratti di lavoro a tempo
determinato successivi in un contratto o in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato risiede
nell’immissione in ruolo per effetto dell’avanzamento in graduatoria.
117 Tuttavia, essendo una siffatta possibilità, come risulta dai punti da 105 a 107 della presente sentenza,
aleatoria, la stessa non può essere considerata una sanzione a carattere sufficientemente effettivo e
dissuasivo ai fini di garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell’accordo
quadro.
118 Sebbene, certamente, uno Stato membro possa legittimamente, nell’attuazione della clausola 5, punto
1, dell’accordo quadro, prendere in considerazione esigenze di un settore specifico come quello
dell’insegnamento, così come già rilevato ai punti 70 e 95 della presente sentenza, tale facoltà non può
essere intesa nel senso di consentirgli di esimersi dall’osservanza dell’obbligo di prevedere una misura
60
adeguata per sanzionare debitamente il ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo
determinato.
119 Si deve, pertanto, ritenere che dagli elementi forniti alla Corte nell’ambito delle presenti cause si
evince che una normativa nazionale quale quella di cui trattasi nei procedimenti principali, fatte salve
le necessarie verifiche da parte dei giudici del rinvio, non risulta conforme ai requisiti che emergono
dalla giurisprudenza ricordata ai punti da 77 a 80 della presente sentenza.
120 Di conseguenza, si deve rispondere ai giudici del rinvio dichiarando che la clausola 5, punto 1,
dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, quale quella
di cui trattasi nei procedimenti principali, che autorizzi, in attesa dell’espletamento delle procedure
concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti di lavoro a
tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale
amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per l’espletamento di dette procedure
concorsuali ed escludendo qualsiasi possibilità, per tali docenti e detto personale, di ottenere il
risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo. Risulta, infatti, che tale
normativa, fatte salve le necessarie verifiche da parte dei giudici del rinvio, da un lato, non consente di
definire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali contratti risponda
effettivamente ad un’esigenza reale, sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a
tal fine, e, dall’altro, non prevede nessun’altra misura diretta a prevenire e a sanzionare il ricorso
abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.
121 In tali circostanze, non occorre rispondere alle altre questioni sollevate dal Tribunale di Napoli nelle
cause C-22/13, C-61/13 e C-62/13.
Sulle spese
122 Nei confronti delle parti nei procedimenti principali le presenti cause costituiscono un incidente
sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri
soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:
La clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18
marzo 1999, che figura nell’allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999,
relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere
interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, quale quella di cui trattasi nei
procedimenti principali, che autorizzi, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali
per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti di lavoro a
61
tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale
amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per l’espletamento di dette
procedure concorsuali ed escludendo qualsiasi possibilità, per tali docenti e detto personale, di
ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo. Risulta,
infatti, che tale normativa, fatte salve le necessarie verifiche da parte dei giudici del rinvio, da un
lato, non consente di definire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali
contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, sia idoneo a conseguire l’obiettivo
perseguito e sia necessario a tal fine, e, dall’altro, non prevede nessun’altra misura diretta a
prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo
determinato.
Corte di Cassazione, sentenza del 30 dicembre 2014, n. 27481
All. 1
Authorities
La legittimazione dell’Antitrust ex art. 21 bis l.n. 287/1990
Cons. di Stato, sez. V, 30 aprile 2014, n. 2246
DIRITTO
5. L’appello è infondato.
5.1. L’art. 21 bis della legge n. 287 del 1990, aggiunto dall’art. 35, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011, convertito
con modificazioni dalla legge n. 214 del 2011, significativamente rubricato “Poteri dell’Autorità Garante della
concorrenza e del mercato sugli atti amministrativi che determinano distorsioni della concorrenza”, ha previsto al
comma 1 che “L’Autorità garante della concorrenza e del mercato è legittimata ad agire in giudizio contro gli atti
amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le
norme a tutela della concorrenza e del mercato”.
Al successivo secondo comma è poi stabilito che “L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, se ritiene
che una pubblica amministrazione abbia emanato un atto in violazione delle norma a tutela della concorrenza e
del mercato, emette, entro sessanta giorni, un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili delle violazioni
riscontrate. Se la pubblica amministrazione non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del
parere, l’autorità può presentare, tramite l’Avvocatura dello Stato, il ricorso, entro i successivi trenta giorni”,
mentre il terzo comma aggiunge infine che “Ai giudizi instaurati ai sensi del comma 1 si applica la disciplina di
cui al Libro IV, Titolo V, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104”.
62
5.2. Come si ricava agevolmente dal loro stesso tenore letterale, ognuna delle ricordate disposizioni assolve ad
una specifica funzione, individuando e tutelando uno specifico interesse pubblico.
5.2.1. Il primo comma infatti, attribuisce una peculiare legitimatio ad causam all’Autorità nei confronti
degli atti amministrativi generali, dei regolamenti e dei provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che
violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato, in tal modo evidenziando la natura di speciale
interesse pubblico generale della tutela della concorrenza e del mercato, quale condizione essenziale per
l’ordinato sviluppo economico e sociale e per il progresso della collettività, in armonia del resto con i principi
comunitari (non è del resto un caso che l’articolo 21 bis sia stato introdotto dall’art. 35, comma 1, del D.L. n. 201
del 2011, come modificato dalla legge n. 241 del 2011, recante disposizione urgenti per la crescita e lo sviluppo
economico).
E’ coerente con il bene giuridico protetto dalla norma (la libertà di concorrenza ed il corretto funzionamento
del mercato) e con le finalità che con esse si intende perseguire (la crescita e lo sviluppo economico) la
previsione che l’accertamento della violazione delle nome in questione e il loro ripristino, per un verso,
trascenda l’interesse specifico del singolo operatore del mercato e sia pertanto sottratto alla libera
disponibilità dell’interessato (il che giustifica la disposizione nella parte in cui ammette sostanzialmente una
legittimazione ad agire concorrente, dell’Autorità e dei singoli interessati, quanto ai provvedimenti lesivi del
predetto bene giuridico), e, per altro verso, la tutela debba avviarsi per quanto possibile immediatamente,
in tal modo dovendo essere intesa la legittimazione ad agire dell’Autorità nei confronti dei regolamenti e dei
provvedimenti generali (atti che, secondo i principi generali, in quanto in genere non immediatamente lesivi,
possono essere impugnati solo unitamente ai provvedimenti di cui costituiscono applicazione).
5.2. Il secondo comma, coerentemente con il principio di legalità predicato dall’articolo 97 della
Costituzione, cui è improntata tutta l’attività della pubblica amministrazione, disciplina (e delimita,
procedimentalizzandolo) il potere attribuito alla Autorità in relazione agli atti amministrativi generali, ai
regolamenti e ai provvedimenti amministrativi, dalla stessa ritenuti violativi delle norme a tutela della concorrenza
e del mercato.
Secondo l’intenzione del legislatore, così come si ricava dall’esame della norma, il fondamentale e innovativo
ruolo attribuito all’Autorità circa il controllo sull’effettivo ed efficace dispiegarsi della libertà della concorrenza e
del mercato impone che il potere di agire in giudizio contro gli atti lesivi di tali principi sia preceduto da una fase
pre - contenziosa, caratterizzata dall’emissione, da parte dell’Autorità, di un parere motivato rivolto alla pubblica
amministrazione, parere in cui ragionevolmente sono segnalate le violazioni riscontrate e sono indicano i rimedi
per eliminarli e ripristinare il corretto funzionamento della concorrenza e del mercato.
La funzione del predetto parere motivato è in realtà duplice: esso mira innanzitutto a sollecitare la pubblica
amministrazione a rivedere le proprie determinazioni e a conformarsi agli indirizzi dell’Autorità, attraverso uno
speciale esercizio del potere di autotutela giustificato proprio dalla particolare rilevanza dell’interesse
pubblico in gioco, in tal modo auspicando che la tutela di quest’ultimo sia assicurata innanzitutto all’interno della
stessa pubblica amministrazione e restando pertanto il ricorso all’autorità giudiziaria
amministrativa l’extrema ratio (non essendo stata d’altra parte dotata l’Autorità di poteri coercitivi nei
confronti dell’amministrazione pubblica che non intenda conformarsi al predetto parere motivato); d’altro canto,
la fase pre - contenziosa e il relativo parere, in coerenza con i principi comunitari, sono stati ragionevolmente
concepiti anche come significativo strumento di deflazione del contenzioso, potendo ammettersi che il
legislatore guardi con disfavore le situazioni in cui due soggetti pubblici si rivolgano direttamente (ed
esclusivamente) al giudice per la tutela di un interesse pubblico.
5.2.3. Con il terzo comma infine è stato stabilito che alle controversie azionate dall’Autorità ai sensi del comma
uno trovino applicazione le disposizioni concernenti i riti abbreviati.
In presenza di una previsione di rinvio così generale, all’intero titolo V del libro IV, del codice del processo
amministrativo, e in considerazione del bene giuridico tutelato, deve ragionevolmente ritenersi allo stato, anche
per la mancanza di diversi elementi di valutazione, che il legislatore non abbia inteso sottoporre le
controversie in questione al solo rito abbreviato dell’art. 119, fermo restando la necessità di verificare in
63
concreto l’applicabilità delle altre specifiche disposizione del titolo V alla fattispecie sottoposta
all’esame del giudice.
5.3. Ciò posto, la Sezione, condividendo le conclusioni cui sono pervenuti i primi giudici, è dell’avviso che
l’esaminato articolo 21 bis della legge n. 287 del 1990, anche in considerazione della sostanziale unicità ed
unitarietà del bene giuridico protetto (libertà della concorrenza e del mercato), sia pur nelle differenti prospettive
di cui ai commi 1 e 2, non preveda due distinte forme di tutela del predetto bene giuridico, l’una con
accesso diretto ed immediato al giudice e l’altra mediata alla fase pre- contenziosa.
5.3.1. A favore di tale ricostruzione propugnata dall’appellante non vi è del resto nessun argomento, né di ordine
letterale, né di carattere logico – sistematico, essendo invero del ragionevole che il legislatore, dopo aver fissato al
primo comma il principio della legittimazione straordinaria dell’Autorità ad agire nei confronti degli atti
amministrativi generali, regolamenti e provvedimenti violativi delle norme a tutela della concorrenza e a tutela del
mercato, abbia poi, al secondo comma, stabilito le modalità di concreto esercizio di tale legittimazione
straordinaria, con ciò volendo evitare che una norma, astrattamente concepita quale (ulteriore) strumento per la
ripresa e lo sviluppo economico, potesse dar luogo in concreto a nuove e diverse situazioni di confusione e
contraddittorietà dell’azione amministrativa.
E’ in tal senso priva di autonoma rilevanza la circostanza, su cui pure indugia l’appellante, che il terzo comma
dell’articolo in esame faccia riferimento, ai fini di stabilire la disciplina processuale da applicare, ai soli giudizi
instaurati ai sensi del comma 1, da ciò non potendo desumersi l’esistenza di altri giudizi (instaurati ai sensi del
comma 2, successivamente cioè all’espletamento della fase pre – contenziosa): infatti il riferimento operato dal
legislatore (ai giudizi di cui al comma 1), lungi dall’essere equivoco o fonte di dubbi, è del tutto coerente e
ragionevole, anche sotto il profilo dell’interpretazione letterale, solo nel comma 1 si prevede la legittimazione
straordinaria dell’Autorità ed il potere di quest’ultima di introdurre giudizi, di cui non vi è invece alcuna
menzione nel comma 2 (per le ragioni sopra già esposte e alle quali pertanto si rinvia).
5.3.2. Né alla predetta ricostruzione dell’unicità dei giudizi instaurabili dall’Autorità può opporsi che in tal modo,
dovendo cioè gli stessi essere necessariamente preceduti dalla fase pre - contenziosa, potrebbero verificarsi in
concreto e nell’immediato proprio quegli effetti negativi ed eventualmente irreversibili, derivanti dalla efficacia di
regolamenti, atti generali e provvedimenti emessi in violazione delle norme poste a tutela della concorrenza e del
mercato, che la stessa norma vuole invece scongiurare: è sufficiente rilevare al riguardo che, fermo restando la
generale disciplina delineata dal secondo comma dell’art. 21 bis in esame, non vi è alcuna ragione logico –
sistematica che possa ragionevolmente escludere, ricorrendone i presupposti, la richiesta da parte dell’Autorità delle misure
cautelari antecausam di cui all’art. 61 c.p.a.
5.3.3. Per completezza occorre infine segnalare che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 20 del 14 febbraio
2013, nel dichiarare inammissibili le questioni di illegittimità costituzionale dell’art. 21 bis della legge n. 287 del
1990 promosse in via principale dalla Regione Veneto in riferimento agli artt. 3, 97, primo comma, 113, primo
comma, 117, sesto comma, e 118, primo e secondo comma, della Costituzione, alla legge costituzionale n. 3 del
2001 ed al principio di leale collaborazione, ha osservato che detta norma, piuttosto che introdurre un “nuovo e
generalizzato controllo di legittimità” in capo all’Autorità nei confronti degli atti delle pubbliche amministrazioni,
ha soltanto integrato “…i poteri conoscitivi e consultivi già attribuiti all’Autorità garante dagli artt. 21 e seguenti
della legge n. 287 del 1990”, prevedendo “…un potere di iniziativa finalizzato a contribuire ad una più completa
tutela della concorrenza e del corretto funzionamento del mercato …e, comunque, certamente non
generalizzato, perché operante soltanto in ordine agli atti amministrativi che violino le norme a tutela della
concorrenza del mercato”, precisando quindi che tale potere “…si esterna in una prima fase a carattere
consultivo (parere motivato nel quale sono indicati gli specifici profili delle violazioni riscontrate), e in una
seconda (eventuale) fase di impugnativa in sede giurisdizionale, qualora la pubblica amministrazione non si
conformi al parere stesso”.
Trova pertanto autorevole conforto la tesi della eccezionalità della legittimatio ad causam riconosciuta
all’Autorità in funzione del bene giuridico tutelato e l’unicità e unitarietà dell’azione giudiziaria dalla
stessa proposta, ancorché preceduta da una necessaria fase pre – contenziosa.
64
6. In conclusione alla stregua delle osservazioni svolte l’appello deve essere respinto.
La novità delle questioni trattate giustifica la compensazione tra le parti le spese del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello proposto
dall’Autorità garante per la concorrenza e del mercato avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il
Lazio, sez. II, n. 4451 del 6 maggio 2013, lo respinge.
Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Sul potere dell’Antitrust di esprimere parere motivato
Corte Costituzionale, 14 febbraio 2013, n. 20
Considerato in diritto
1.— La Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe, ha promosso, tra l’altro, questioni di legittimità
costituzionale dell’articolo 35 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita,
l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n.
214, per contrasto con gli articoli 3, 97, primo comma, 113, primo comma, 117, sesto comma, e 118, primo e
secondo comma, della Costituzione, nonché con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo
V della parte seconda della Costituzione) e con il principio di leale collaborazione.
Riservata a separate pronunce la decisione delle restanti questioni di legittimità costituzionale sollevate con il
menzionato ricorso, vengono qui all’esame della Corte le censure mosse al citato art. 35.
2.— Le questioni sono inammissibili.
2.1.— La norma censurata – aggiungendo alla legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della
concorrenza e del mercato), l’articolo 21-bis ( la cui rubrica è «Poteri dell’Autorità garante della concorrenza e del
mercato sugli atti amministrativi che determinano distorsioni della concorrenza») – così dispone: «omissis».
Va ancora premesso che, per costante giurisprudenza di questa Corte, alle Regioni è preclusa la possibilità di
impugnare le leggi statali adducendo la violazione di un qualsiasi parametro costituzionale, in quanto ad esse è
riconosciuta soltanto la possibilità di far valere eventuali violazioni di competenze alle Regioni medesime
costituzionalmente attribuite.
Tali enti possono evocare parametri di legittimità diversi da quelli che sovraintendono al riparto di
attribuzioni solo quando «la violazione denunciata sia potenzialmente idonea a determinare un vulnus alle
attribuzioni costituzionali delle regioni e queste abbiano sufficientemente motivato in ordine ai profili di una
“possibile ridondanza” della predetta violazione sul riparto di competenze» (ex plurimis: sentenze n. 199, n. 151 e
n. 80 del 2012; n. 128 e n. 33 del 2011; n. 325 e n. 278 del 2010).
3.— Orbene, quanto alla prima censura, secondo cui la disposizione denunziata finirebbe «col sottoporre gli
atti regolamentari ed amministrativi regionali ad un nuovo e generalizzato controllo di legittimità, su iniziativa di
un’autorità statale», così travalicando i limiti desumibili dalla sentenza di questa Corte n. 64 del 2005 e violando
gli artt. 117, sesto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost., si deve osservare che è inesatto parlare di
«nuovo e generalizzato controllo di legittimità», là dove la norma – integrando i poteri conoscitivi e
consultivi già attribuiti all’Autorità garante dagli artt. 21 e seguenti della legge n. 287 del 1990 – prevede un
potere di iniziativa finalizzato a contribuire ad una più completa tutela della concorrenza e del corretto
funzionamento del mercato (art. 21, comma 1, della legge citata) e, comunque, certamente non
generalizzato, perché operante soltanto in ordine agli atti amministrativi «che violino le norme a tutela
65
della concorrenza e del mercato» (norma censurata, comma 1). Esso si esterna in una prima fase a carattere
consultivo (parere motivato nel quale sono indicati gli specifici profili delle violazioni riscontrate), e in una
seconda (eventuale) fase di impugnativa in sede giurisdizionale, qualora la pubblica amministrazione non si
conformi al parere stesso.
La detta disposizione, dunque, ha un perimetro ben individuato (quello, per l’appunto, della
concorrenza), compreso in una materia appartenente alla competenza legislativa esclusiva dello Stato
(art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.), concernente anche la potestà regolamentare, ai sensi dell’art.
117, sesto comma, primo periodo, Cost.
La ricorrente non tiene conto di tali aspetti, non indica gli atti amministrativi regionali sottoposti al (preteso)
«nuovo e generalizzato controllo di legittimità», non chiarisce quale sarebbe la materia di competenza
concorrente o residuale, cui dovrebbe essere correlata la potestà regolamentare e legislativa regionale che si
assume lesa dalla norma censurata. Inoltre adduce una asserita violazione della legge costituzionale n. 3 del 2001,
senza alcuna ulteriore specificazione.
Tali carenze, da un lato, rendono la censura stessa generica (ex plurimis: sentenze n. 199, n. 115 e n. 99 del
2012; n. 185 e n. 129 del 2011; n. 325 del 2010) e, dall’altro, quanto ai parametri estranei al Titolo V della Parte
seconda della Costituzione, si risolvono in un difetto di motivazione sulla «possibile ridondanza» delle denunciate
violazioni sul riparto di competenze legislative, sicché le violazioni stesse non risultano potenzialmente idonee a
determinare una lesione delle attribuzioni costituzionali della Regione (ex plurimis: sentenze n. 80 del 2012, n.
128 del 2011).
Alla stregua di tali rilievi la doglianza ora esaminata deve essere dichiarata inammissibile.
4.— Quanto alla censura mossa in riferimento all’art. 113, primo comma, Cost., si deve ribadire la
consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale la questione di legittimità costituzionale è
inammissibile allorché sia omesso qualsiasi accenno alla stessa nella delibera di impugnazione dell’organo
politico, dovendo, in questo caso, «escludersi la volontà del ricorrente di promuoverla» (ex pluribus: sentenze n.
227 del 2011, n. 365 e n. 275 del 2007). Nel caso di specie, l’esame della delibera della Giunta regionale n. 150 del
31 gennaio 2012 (che autorizzò l’impugnazione) consente di rilevare che, nella medesima, non si trova alcun
riferimento al parametro costituzionale dettato dall’art. 113, primo comma, Cost.
Peraltro, sotto diverso profilo, la questione promossa con riferimento al citato art. 113, primo comma, Cost.
è, comunque, inammissibile, perché – a parte il non pertinente richiamo alla figura del pubblico ministero, che
sarebbe stato introdotto in modo surrettizio nel processo amministrativo – si tratta di questione non attinente al
riparto delle competenze legislative tra Stato e Regione e non incidente sulle attribuzioni costituzionali di questa
(nessun argomento al riguardo risulta addotto nel ricorso), sicché la ricorrente non è legittimata a proporla.
5.— Ad avviso della ricorrente, «non mancano, poi, nella disposizione, vari elementi sintomatici di
irragionevolezza e di lesione del principio di certezza del diritto». In particolare, farebbe difetto una disciplina in
ordine alla decorrenza del termine di sessanta giorni entro i quali l’Autorità può formulare il proprio parere
motivato, prodromico all’eventuale proposizione del ricorso giurisdizionale entro i successivi trenta giorni. Tale
incertezza sul menzionato dies a quo si rifletterebbe sulla stabilità degli atti regolamentari e provvedimentali
regionali, «con ulteriore lesione – per difetto di ragionevolezza, censurabile anche ai sensi dell’art. 3 della
Costituzione e ai sensi dell’art. 97 sul buon andamento della pubblica amministrazione – della sfera di autonomia
regionale costituzionalmente garantita».
Inoltre, la legittimazione ad agire dell’Autorità non risulterebbe coordinata con la legittimazione propria delle
parti private, sicché il ricorso della prima potrebbe risolversi in un intervento di supplenza o surrogazione in
favore di parti private decadute dal termine per proporre l’impugnativa ordinaria. Palese, poi, sarebbe
l’incongruenza che si determinerebbe quando l’Autorità, tenuta ad avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello
Stato, impugni atti di un’amministrazione statale tenuta a sua volta ad avvalersi della detta Avvocatura.
Anche tali censure sono inammissibili.
Esse riguardano, per la maggior parte, questioni di diritto processuale, che non hanno alcuna attinenza col
riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni e sono, invece, demandate alla cognizione dei giudici
66
comuni che le decideranno secondo le norme dei rispettivi ordinamenti. L’unico aspetto, che potrebbe assumere
qui rilievo, concerne il presunto riflesso sulla stabilità degli atti regionali, conseguente alla (asserita) incertezza
della decorrenza dei termini disciplinati dalla norma de qua. Tuttavia, si tratta di doglianza avente carattere
meramente eventuale, che non può trovare ingresso in questa sede. Peraltro, i parametri evocati esulano dalle
norme comprese nel Titolo V della Parte seconda della Costituzione e non si rivelano potenzialmente idonei a
determinare una lesione delle attribuzioni costituzionali della Regione.
6.— Infine, quanto alla dedotta violazione del principio di leale collaborazione, va rilevato che esso non può
trovare applicazione con riferimento all’attività legislativa; del resto nessuna adeguata motivazione risulta addotta
sul punto.
7.— In definitiva, il ricorso deve essere dichiarato, nel suo complesso, inammissibile.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce la decisione sull’impugnazione delle altre disposizioni contenute nel decreto-legge 6
dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici) convertito, con
modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214;
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 35 del d.l. n. 201 del 2011 convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, promosse in via principale dalla Regione Veneto, in riferimento agli articoli 3, 97,
primo comma, 113, primo comma, 117, sesto comma e 118, primo e secondo comma della Costituzione, alla legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), nonché al principio di
leale collaborazione, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2013.
Tar Lazio- Roma, sez. II, 6 maggio 2013, n. 4451
DIRITTO
1. In via preliminare, occorre delibare l’eccezione di inammissibilità sollevata da Roma Capitale, in relazione alla
circostanza che la proposizione del ricorso da parte dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato non è
stata preceduta dall’espressione del “parere motivato”, secondo il procedimento disciplinato dall’art. 21 –bis,
comma 2, della l.n. 287/90, così come novellata dall’art. 35, comma 1, D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, modificato
dalla legge di conversione 22 dicembre 2011, n. 214.
L’Autorità al riguardo ha controdedotto che, a suo dire, con l’inserimento dell’art. 21 –bis nel corpo della l. n.
287/90, essa è stata dotata di un doppio set di poteri di intervento.
Il comma 1 della norma in esame la legittimerebbe a proporre un ricorso in via diretta avverso gli atti
amministrativi che determinino distorsioni della concorrenza, laddove, invece, il ricorso disciplinato dal comma 2
fa seguito ad una fase procedimentale in cui emette un parere motivato nel quale indica gli specifici profili
riscontrati nell’atto dell’amministrazione e, solo ove quest’ultima non si conformi al parere nei successivi 60
giorni, l’Autorità può presentare, entro i successivi 30 giorni, il ricorso.
Sul piano letterale, soggiunge, non si spiegherebbe la struttura dei primi due commi.
Se, infatti, si fosse voluto dotare l’Autorità unicamente del potere di ricorrere previa segnalazione, il primo
comma della norma sarebbe del tutto superfluo.
Inoltre, a conferma della distinzione tra le due tipologie di intervento, vi sarebbe anche il fatto che il comma 3
della norma disciplina mediante rinvio al Libro IV, Titolo V, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 204, i termini processuali
dei soli “giudizi instaurati ai sensi del comma 1”, senza operare il medesimo rinvio per i giudizi ex comma 2. Per
effetto di tale rinvio al solo comma 1, il termine per la notificazione del ricorso introduttivo diretto è quello
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ordinario di sessanta giorni ai sensi dell’art. 119, comma 2, c.p.a.. Diversamente, il ricorso indiretto deve essere
proposto, per espressa previsione del comma 2, entro 30 giorni dalla scadenza dei 60 che l’amministrazione ha
per conformarsi al parere.
L’Autorità, ancora, ha invocato, l’esigenza di flessibilità che la legittimazione al ricorso diretto consentirebbe di
soddisfare. In tal modo potrebbe infatti intervenire celermente nei casi di maggiore gravità, agendo
immediatamente in sede giurisdizionale, in particolare al fine di ottenere un tempestivo pronunciamento
cautelare.
Rilevante sarebbe anche la circostanza che il secondo comma non ricollega alla mancanza del parere alcuna
conseguenza in termini di inammissibilità o improcedibilità del ricorso.
Vi sarebbe poi una disparità di trattamento con gli enti esponenziali di interessi diffusi di natura privatistica, la cui
azione non è sottoposta ad alcuna condizione.
2. Al fine di definire la questione pregiudiziale testé sintetizzata, giova riportare l’intero testo del cit. art. 21 –bis,
secondo il quale (omissis)
2.1. Come noto, il nuovo potere attribuito all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, con la correlata,
generale legittimazione processuale ad impugnare gli atti amministrativi a tutela della concorrenza e del mercato,
ha introdotto, nel processo amministrativo elementi in grado di alterarne la tradizionale struttura soggettiva, di
processo di parti fondato sul principio dispositivo.
Se è vero, infatti, che nella giurisdizione amministrativa permane una connotazione parzialmente oggettivistica
della tutela ciò è dovuto esclusivamente alla circostanza che l’interesse legittimo è una situazione soggettiva che,
come è stato detto, “dialoga con il potere pubblico e con esso si confronta”.
La specificità delle giustizia amministrativa è infatti non soltanto di comporre interessi antagonisti, ma,
giocoforza, anche di orientare e conformare l’azione amministrativa.
Poiché ai fini del soddisfacimento dell’interesse al conseguimento o alla protezione del bene della vita, è
necessario l’intermediazione dell’attività amministrativa, l’accertamento compiuto dal giudice amministrativo ha,
necessariamente, una “portata generale e meta-individuale”.
Tale specificità è particolarmente evidente, ad esempio, nel sindacato giurisdizionale sui regolamenti, in quanto il
loro contenuto normativo comporta la natura efficacia erga omnes di una eventuale pronuncia demolitoria.
Sotto altro profilo, è la stessa categoria dell’interesse legittimo che ha conosciuto una profonda trasformazione in
quanto, da una dimensione strettamente individuale, è progressivamente approdato all’espressione di pretese “di
gruppo” (si pensi alla tematica degli interessi diffusi, adespoti, collettivi).
Nonostante tale evoluzione, la giurisdizione amministrativa italiana è rimasta però, sino ad oggi, una
giurisdizione di diritto soggettivo, ispirata al principio della effettività della tutela dei diritti e degli
interessi (cfr., da ultimo, l’art. 1 del Codice del processo amministrativo).
Circa la natura della peculiare legittimazione attribuita ad AGCM, le prime riflessioni della dottrina oscillano, da
un lato, tra l’inquadramento in un una vera e propria giurisdizione di diritto oggettivo, svincolata dalla titolarità di
una posizione soggettiva sostanziale qualificata e differenziata (con i conseguenti problemi di coerenza con il
principio costituzionale di cui all’art. 103, secondo il quale la giurisdizione amministrativa è funzionale alla tutela
di situazioni soggettive individuali e non di interessi generali), e, all’altro estremo, l’intestazione in capo ad
AGCM di una sorta di rappresentanza processuale degli interessi diffusi e/o collettivi che lo stesso legislatore ha
progressivamente riconosciuto nel campo ambientale, degli interessi economici e delle tutela del consumatore.
La prima tesi interpretativa esclude che “l’Autorità, in quanto tale, sia titolare di un interesse legittimo in senso
proprio, potendo (e dovendo) attivarsi per la tutela e realizzazione di un interesse generale alla concorrenza che,
per un verso, finisce per coincidere con una sommatoria di interessi di mero fatto ascrivibili alla collettività e, per
altro verso, restando così generico, non soddisfa di certo i caratteri di una situazione soggettiva imputabile ad un
soggetto di diritto”.
Secondo tale interpretazione, dunque, l’Autorità non sarebbe parte del rapporto con l’amministrazione, né
sarebbe portatrice di situazioni soggettive proprie, ed inoltre, essendo come le altre autorità indipendenti
ricompresa “nello Stato-comunità anziché nello Stato-apparato”, non potrebbe vantare la suitas di uno specifico
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interesse pubblico né potrebbe “corrispondentemente sostenere una peculiare e individuale posizione di
interesse”.
Ne consegue la necessità di una interpretazione costituzionalmente orientata della norma, incentrata sulla
considerazione che la giurisdizione di diritto oggettivo costituisce pur sempre una eccezione, nonché sulla
valorizzazione degli elementi di specificità contenuti nell’art. 21 - bis “soprattutto lì dove possono giustificare un
sia pur parziale richiamo al principio della domanda”.
Al centro, si pone la tesi secondo cui non sarebbe corretto parlare di superamento del processo di parti, quanto
piuttosto di “potenziamento” del ruolo del soggetto affidatario della tutela di un interesse pubblico particolare,
fino al punto di essere legittimato ad agire direttamente in giudizio contro gli atti e i comportamenti che,
violando la legge, ne integrino una lesione, in aggiunta a quella dei diritti e degli interessi degli operatori, pubblici
o privati, specificamente coinvolti.
Secondo tale posizione il nuovo potere dell’Autorità andrebbe inquadrato come azione a tutela di una situazione
giuridica differenziata e qualificata. Assumerebbe specifico peso a tale riguardo, l’interesse alla migliore attuazione
del valore “concorrenza”, che secondo detta ricostruzione non andrebbe ricondotto ad una declinazione del
mero interesse generale al rispetto della legge, quanto piuttosto ad un interesse particolare e differenziato di cui
l’Autorità sarebbe diretta portatrice; una declinazione di interesse legittimo soggettivizzato in capo all’Autorità e
per la cui tutela essa risulterebbe legittimata ex lege a rivolgersi al giudice amministrativo
Sarebbe infatti “proprio la natura indipendente dell’Autorità e la specifica missione ad essa affidata (tutela di uno
specifico interesse pubblico che, per le forti implicazioni economiche e sovranazionali, si vuole sottratta
all’apparato governativo)” a giustificare la scelta legislativa di attribuire in primis a tale soggetto, la legittimazione
processuale ad agire per assicurarne la tutela.
Viene richiamato, al riguardo, il modello previsto per la c.d. procedura di infrazione, in cui la Commissione
europea è legittimata ricorrere alla Corte di Giustizia dell’Unione, ai fini dell’accertamento della violazione degli
obblighi comunitari da parte degli Stati membri.
2.2. A parere del Collegio, l’esatto inquadramento della legittimazione processuale di AGCM consente anche di
decifrare se tale legittimazione sia incondizionata, come l’Autorità oggi sostiene, o se invece essa risulti
subordinata al previo espletamento della fase procedimentale preliminare disciplinata dal comma 2 dell’art. 21 -
bis.
Nella prima ipotesi, l’espressione del parere costituirebbe infatti una mera eventualità, essendo il relativo
procedimento attivabile ad esclusiva discrezione dell’Autorità, mentre nella seconda si tratterebbe di un vero e
proprio, indefettibile presupposto processuale.
E’ poi evidente che, se si ritiene che, con l’art. 21 –bis, il legislatore abbia voluto conferire ad AGCM, sia pure
quale soggetto pubblico qualificato, la natura di ente esponenziale di interessi diffusi e/o collettivi, diventa
difficile giustificare l’obbligatorietà della fase precontenziosa, la quale comporterebbe una evidente disparità di
trattamento con gli enti esponenziali dello stesso tipo.
Al contrario, sia la tesi che nega la titolarità in capo ad AGCM di un interesse pubblico “proprio” (in
considerazione della peculiare collocazione istituzionale delle Autorità indipendenti), sia quella che la ritiene
“portatrice di un interesse sostanziale protetto dall’ordinamento”, che si soggettivizza in capo ad essa, quale
peculiare forma di interesse legittimo, postulano la specialità (o specificità) del giudizio ex art. 21 –bis, in
relazione alla quale trova agevole giustificazione anche la previsione di una fase consultiva preliminare.
2.3. Reputa il Collegio che la collocazione “sistematica” del nuovo potere di azione di AGCM, con l’inserimento
nel corpo della legge istitutiva, tra gli articoli 21 e 22, riveli la volontà del legislatore di valorizzare la tradizionale
funzione consultiva e di segnalazione (c.d. competition advocacy) disciplinata da tali norme e ad essa attribuita ab
origine.
La legittimazione ad agire innanzi al giudice amministrativo conferisce infatti a tale funzione (in passato, mera
espressione di un’opinione dell’Autorità, ancorché suscettibile di effetti di moral suasion, sull’esistenza di
“situazioni distorsive” della concorrenza derivanti da norme di legge, di regolamento o provvedimenti
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amministrativi) veri e propri effetti costitutivi, sia pure conseguibili in via mediata attraverso lo scrutinio
giurisdizionale.
E’ in ragione di tale correlazione, a parere del Collegio, che l’iniziativa dell’Autorità deve essere necessariamente
preceduta da un’attività amministrativa procedimentalizzata, essendo il “procedimento” paradigma comune sia
alle autorità amministrative tradizionali che indipendenti.
In sostanza, come nel settore delle intese e degli abusi di posizione dominante – in cui possiede autonomi poteri
di enforcement (decisori e di sanzione) – l’Autorità agisce in contraddittorio con le imprese, così è logico ritenere
che, nei confronti degli eventuali abusi di potere regolatorio, e/o provvedimentale, compiuti da soggetti pubblici
ad essa pariordinati (siano essi espressione dello Stato - apparato ovvero, come pure è possibile, altre Autorità
indipendenti), vi sia una medesima esigenza di procedimentalizzazione, attraverso cui AGCM contestualizza e
concretizza la propria valutazione circa la regola giuridica da applicare al caso concreto.
In tal modo, essa concorre direttamente alla formazione, e al mantenimento, di un complessivo quadro legale
atto a favorire le dinamiche della concorrenza, promuovendo il sindacato del g.a., indipendentemente
dall’esistenza (o dall’iniziativa) di soggetti portatori di interessi, individuali e/o collettivi, lesi dall’attività
amministrativa.
Al riguardo, è significativo che, nello stesso contesto temporale dell’attribuzione di siffatta legittimazione ad
agire, l’Autorità abbia visto ulteriormente potenziata la propria funzione di advocacy, ad esempio, ai fini
dell’espressione del parere obbligatorio sulle c.d. delibere quadro relative alla gestione dei servizi pubblici locali.
Come noto, tale nuova competenza, originariamente prevista dall’art. 4, commi 3 e 4, del d.l. n. 138 del 2011
(così come modificato prima dalla l. di conversione n. 148/2011, e poi, da una vorticosa serie di decreti), è stata
successivamente travolta dalla declaratoria di incostituzionalità dell’intero articolo, pronunciata dalla Corte
Costituzionale con la sentenza 20 luglio 2012, n. 199.
E’ tuttavia importante notare che, nonostante la sopravvenuta espunzione dall’ordinamento di tale fonte,
l’assetto che un Ente territoriale decida oggi di dare alla gestione dei servizi pubblici locali, rimane tuttora
soggetto al vaglio dell’Autorità proprio in forza dell’art. 21 –bis in esame, in quanto norma avente portata
generale.
Il procedimento previsto dal secondo comma non costituisce, pertanto, una mera eventualità, ma è l’espressione
dell’ordinario modus procedendi dell’Autorità, in particolare là dove non sia stata dotata di poteri di enforcement
ovvero di poteri consultivi tipizzati.
3. L’opinione del Collegio, e della prevalente dottrina, è oggi supportata anche dall’orientamento espresso dalla
Corte Costituzionale (sentenza n. 20 del 14 febbraio 2013).
A fronte dell’impugnativa della Regione Veneto - la quale lamentava, tra l’altro, la circostanza secondo cui l’art.
21 –bis finirebbe «col sottoporre gli atti regolamentari ed amministrativi regionali ad un nuovo e generalizzato
controllo di legittimità, su iniziativa di un’autorità statale», così travalicando i limiti desumibili dalla sentenza della
Corte Costituzionale n. 64 del 2005 e violando altresì gli artt. 117, sesto comma, e 118, primo e secondo comma,
Cost., - la Corte ha osservato “che è inesatto parlare di «nuovo e generalizzato controllo di legittimità», là dove la
norma – integrando i poteri conoscitivi e consultivi già attribuiti all’Autorità garante dagli artt. 21 e seguenti della
legge n. 287 del 1990 – prevede un potere di iniziativa finalizzato a contribuire ad una più completa tutela della
concorrenza e del corretto funzionamento del mercato (art. 21, comma 1, della legge citata) e, comunque,
certamente non generalizzato, perché operante soltanto in ordine agli atti amministrativi «che violino le norme a
tutela della concorrenza e del mercato» (norma censurata, comma 1). Esso si esterna in una prima fase a carattere
consultivo (parere motivato nel quale sono indicati gli specifici profili delle violazioni riscontrate), e in una
seconda (eventuale) fase di impugnativa in sede giurisdizionale, qualora la pubblica amministrazione non si
conformi al parere stesso. La detta disposizione, dunque, ha un perimetro ben individuato (quello, per l’appunto,
della concorrenza), compreso in una materia appartenente alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (art.
117, secondo comma, lettera e, Cost.), concernente anche la potestà regolamentare, ai sensi dell’art. 117, sesto
comma, primo periodo, Cost.”.
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In sostanza, anche la Consulta sembra condividere la tesi di un procedimento bifasico, caratterizzato da un
parere preliminare espresso dall’Autorità e da un giudizio avente un “perimetro ben individuato”, con un
sindacato specificamente ed esclusivamente finalizzato ad accertare la violazione delle norme poste a tutela della
concorrenza e del corretto funzionamento del mercato.
3.1. Accanto alle esposte considerazioni di carattere sistematico, sovviene poi l’interpretazione logico – letterale,
convergente anch’essa verso un’unica tipologia di ricorso, caratterizzata da una fase consultiva preliminare che
assurge a vero e proprio presupposto processuale.
La struttura della norma evidenzia infatti un primo comma, che attribuisce ad AGCM la legittimazione “ad agire
in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione
pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato”.
Il secondo comma stabilisce poi le peculiari modalità di proposizione del giudizio, preceduto dalla necessaria
interlocuzione con l’amministrazione autrice dell’atto sospetto di violare le norme poste a tutela della
concorrenza e del mercato.
In tale ottica, si spiega, ad esempio l’utilizzo dell’espressione assertiva, secondo cui l’Autorità non già “può”,
bensì “emette” un parere motivato.
Si spiega anche l’assenza di criteri direttivi, almeno in linea generale, in ordine all’opzione tra le due tipologie di
ricorso.
Il terzo comma individua infine il rito applicabile (quello abbreviato, ai sensi degli artt. 119 e ss. c.p.a.).
Si tratta, a ben vedere, di una scelta coerente con l’oggetto del contenzioso, avente la stessa matrice
dell’impugnativa dei “provvedimenti adottati dalle Autorità indipendenti”, pur essa soggetta al rito abbreviato ai
sensi dell’art. 119, comma 1, lett. b) del Codice del processo amministrativo.
Reputa altresì il Collegio che anche l’espressione recata dal comma 3 dell’art. 21 –bis in esame (“Ai giudizi
instaurati ai sensi del comma 1 si applica la disciplina di cui al Libro IV, Titolo V, del decreto legislativo 2 luglio
2010, n. 104”), deponga per l’introduzione da parte del legislatore di una sola tipologia di ricorso.
Diversamente opinando, per i “giudizi di cui al comma 2”, in difetto di una diversa disposizione, non rimarrebbe
che applicare il rito ordinario, in maniera però del tutto incongruente con la dimidiazione del termine per la
proposizione del ricorso introduttivo.
Sarebbe poi da spiegare perché giudizi aventi il medesimo oggetto (la violazione delle norme sulla concorrenza),
debbano essere sottoposti a riti diversi, a seconda che siano stati preceduti, o meno, dall’espressione di un parere
preliminare.
3.2. In senso contrario alle considerazioni testé esposte, l’Autorità ha richiamato l’esigenza di flessibilità che l’art.
21- bis potrebbe soddisfare laddove le si consentisse di ricorrere direttamente, specie al fine di sollecitare, nei casi
di maggiore consistenza e gravità, un’immediata pronuncia in sede cautelare.
Tale pronuncia avrebbe poi il pregio di porre AGCM sullo stesso piano dei privati, laddove, invece, il ricorso
degli enti esponenziali di natura privatistica non è sottoposto a condizioni di ammissibilità.
3.2.1. La non condivisibilità di tale ultima argomentazione risiede nel fatto che la legittimazione dell’Autorità non
può assimilarsi a quella degli enti esponenziali di interessi diffusi e/o collettivi.
Questi, ultimi, infatti, pur suscettibili di “riconoscimento” da parte del legislatore, secondo gli indici
normativamente stabiliti, preesistono al diritto positivo e non sono conformati da esso.
La creazione di una autorità amministrativa indipendente (sebbene forse, come sostenuto da alcuni,
costituzionalmente necessitata), rimane comunque il frutto di una scelta politica discrezionale che conferisce a
tale organismo non già diritti, bensì potestà amministrative, sia pure non consistenti nella tutela di un interesse
pubblico tradizionale quanto nella garanzia di un bene comune, perseguito attraverso la regolazione neutrale degli
interessi di imprese, consumatori, utenti (sugli indici normativi di riconoscimento di una Autorità indipendente,
cfr., ad esempio Cons. St., sez. I, 22 marzo 2010, n. 1081).
Quanto, poi, all’affermazione secondo cui il ricorso diretto consentirebbe di elidere con maggiore sollecitudine,
mediante la richiesta di sospensione cautelare, il danno alla concorrenza, verrebbe fatto di chiedersi in base a
quale criterio l’Autorità potrebbe operare la scelta tra il ricorso diretto e quello preceduto dal parere.
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Come è stato osservato, la valutazione del “periculum in mora”, tipica del giudizio cautelare, si apprezza
soprattutto in funzione del concreto interesse al ricorso che, nel caso in esame, manca per definizione in quanto
l’Autorità non persegue il soddisfacimento di un interesse personale e concreto, ma agisce per la realizzazione
dell’interesse generale alla concorrenza.
Quanto, invece, al danno alla concorrenza in sé, si tratta, appunto, non di un danno soggettivo ma, semmai,
come pure evidenziato in dottrina, del danno alla struttura concorrenziale del mercato in senso oggettivo.
Al riguardo, va poi anche considerato che, a differenza delle parti private, l’Autorità, attraverso l’espressione del
parere, può esercitare una forma di moral suasion che, se tempestivamente attivata, è potenzialmente in grado di
condurre all’eliminazione della situazione distorsiva negli stessi tempi di un giudizio cautelare.
Comunque, la necessità di dovere attendere l’esaurimento del procedimento preliminare per promuovere il
ricorso, non sembra, di per sé sola, ragione sufficiente ad incrinare la piana ricostruzione della norma che si è in
precedenza sintetizzata.
Semmai, essa potrebbe costituire motivo per un intervento modificativo e/o chiarificatore, da parte del
legislatore (ad esempio, al fine di stabilire espressamente il dies a quo per l’espressione del parere da parte
dell’Autorità).
3.2.2. Non rileva, infine, che la fase procedimentale preliminare non sia espressamente definita dalla norma quale
condizione di ammissibilità e/o procedibilità, o che alla mancanza e/o irregolarità di tale fase non sia
espressamente ricollegata una pronuncia di inammissibilità.
Nel sistema del codice del processo amministrativo, accanto ad ipotesi di inammissibilità tipizzata (si veda ad
esempio l’ultimo comma dell’art. 40, così come sostituito dall’art. 1, comma 1, lett. f) del d.lgs. n. 160/2012,
relativo ai motivi proposti in violazione del principio di specificità. espressamente qualificati come inammissibili),
vi è, infatti, anche una previsione di carattere generale secondo cui il ricorso deve essere dichiarato inammissibile
“quando è carente l’interesse o sussistono altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito” (art. 35, comma 2,
c.p.a.).
Pertanto, l’inammissibilità può essere pronunciata ogniqualvolta si rilevi l’assenza di un presupposto
indispensabile alla costituzione del rapporto giuridico processuale.
4. In definitiva, per quanto appena argomentato, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
La novità delle questioni giustifica la compensazione delle spese di giudizio e degli onorari di difesa.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sede di Roma, sez. II^, definitivamente pronunciando sul ricorso, di cui
in premessa, lo dichiara inammissibile.