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Fondamento biblico della missione
Don Paolo Greco, svd - Suore Santa Maria dell’Orto 14/09/2016
Premessa
1) La particolare situazione culturale in cui oggi viviamo è caratterizzata da movimento,
profonde oscillazioni e da un generale senso di incertezza che alcuni filosofi e sociologi hanno
saputo commentare con dovizia di particolari ricorrendo a idee suggestive come ad esempio quelle
di: “fine delle meta-narrazioni” (Lyotard, le grandi narrazioni culturali, hanno esaurito le proprie
pretese e concetti come verità, tradizione, autorità, ragione e religione hanno manifestato
l’inadeguatezza nell’interpretazione della storia e nella realizzazione dei progetti rispondenti);
(“società liquida” (Bauman, niente è solido e duraturo, tutto è ripiegato alla liquidità dell’utile e del
consumo); “non-luoghi” (Augé, nuove identità e appartenenze, antropologia delle solitudini e
primato del consumo); “età secolare” (la città secolare, affrancata da ogni richiamo al trascendente,
agisce etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse, e ogni sfera della vita è ordinata da
un’autonomia che consente di fare l’impasse su Dio). La mobilità in atto ovviamente riguarda anche
la vita della Chiesa e finisce per toccare profondamente la percezione peculiare che essa ha della
sua azione pastorale. Assistiamo ad una diffusa secolarizzazione, si nega il concetto di Dio, si
diffonde un distacco dalla fede e si consolida l’indifferenza verso il messaggio che la Chiesa
propone: URGENZA DELLA MISSIONE.
2) Papa Francesco con i suoi gesti prima e poi con il suo magistero ci ha richiamato
all’urgenza dell’evangelizzazione. Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium ha richiamato
tutti i battezzati, i preti ed i vescovi ad un compito non più prorogabile: TRASFORMAZIONE
MISSIONARIA DELLA CHIESA. Invito che ha tradotto nell’immagine e modello della Chiesa in
“uscita” e “dalla porta aperta” che va incontro all’umanità sofferente “le periferie esistenziali”,
prendendo l’iniziativa, coinvolgendosi e accompagnando l’umanità ferita e stanca, e in questo
festeggiare e trovare gioia (EG 20-24).
3) Bisogna recuperare una spiritualità missionaria (EG 78-80). “È degno di nota il fatto che,
persino chi apparentemente dispone di solide convinzioni dottrinali e spirituali, spesso cade in uno
stile di vita che porta ad attaccarsi a sicurezze economiche, o a spazi di potere e di gloria umana che
ci si procura in qualsiasi modo, invece di dare la vita per gli altri nella missione. Non lasciamoci
rubare l’entusiasmo missionario!” (EG 80).
4) Il paradigma per un nuovo agire della Chiesa (svolta del Concilio Vaticano II): CURA
PASTORALE = MISSIONARIETA’ e MISERICORDIA. Papa Francesco ci ricorda continuamente
che la Chiesa esiste per portare a tutti gli uomini e le donne del suo tempo la misericordia salvifica
di Dio che in Gesù ha manifestato in modo pieno ed efficace. La Chiesa non esiste per condannare
ma per annunciare la grazia di Dio a tutte le genti, in particolare modo ai poveri ed ai sofferenti
(verso le periferie esistenziali).
5) A cosa ci riferiamo quando parliamo di missione? Oggi nel mondo ci sono tante missioni. La
missione di Pace (contingente italiano presso l’Afghanistan, l’Iraq …); la missione di guerra (basta
vedere quello che accade in Siria …); la missione di volontariato, pensiamo Green Peace (impegno
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ecologico a servizio del pianeta e dell’uomo). Abbiamo tante forme di missione che richiamano il
significato dell’inviato, del mandato, andare per fare qualcosa.
6) Ma quando parliamo di missione per i credenti, di cosa parliamo?
Per approfondire il significato di questa parola dobbiamo ritornare ad un dato fondamentale per noi
credenti cristiani, al dato rivelato, alla Sacra Scrittura: alla RIVELAZIONE. Dio ha parlato e si è
rivelato nel corso di una lunga storia che abbraccia i due Testamenti, l’Antico Testamento e il
Nuovo Testamento. Tutto è per iniziativa gratuita di Dio. Lettera agli Ebrei: “Dio, che aveva parlato
nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi
giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb l,l). Il Vangelo di San Giovanni annuncia: “In
principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio..., tutto è stato fatto per mezzo di
lui... E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi... pieno di grazia e di verità” (cf. Gv
1,1-14). Dirà Paolo di Tarso: “è apparsa l’umanità di Dio che ci insegna a vivere in questo mondo”
(Tt 2,11-12).
Una storia fatta di carne e tramandata nei secoli, prima oralmente e poi scritturalmente, che
racconta il manifestarsi, il dispiegarsi e il divenire di Dio agli uomini. Un fatto stravolgente che
pone al centro della Rivelazione il silenzio di un mondo attonito e stupito di fronte alla Sua nascita,
“raggio di amore pieno di luce e di speranza in un mondo tenebroso e freddo”1, è soprattutto dinanzi
alla morte dell’uomo-Dio, “morte della morte e vittoria della vita”2. Un mistero che implica di
riconoscere il linguaggio della fede nella sua intima essenza che non si manifesta in un “enigma
spiegato” ma come “un’alterità che si propone”: non è evidenza, ma invito, non certezza ma
imbarazzo, e neanche possesso perché espone all’angoscia della resa3. È ciò che il teologo svizzero
Balthasar definisce: “Nell’esperienza che si fa di una superiore bellezza … ciò che ci sta dinanzi è
di una grandiosità schiacciante come un miracolo, e in quanto tale non può mai essere colto,
raggiunto da colui che ne fa esperienza, ma possiede, proprio in quanto miracolo, la facoltà di
essere compreso”4.
Catechismo Chiesa Cattolica parlando sulla RIVELAZIONE DI DIO, afferma:
(N. 53) Il disegno divino della Rivelazione si realizza ad un tempo “con eventi e parole” che sono
“intimamente connessi tra loro” (Dei Verbum 2) e si chiariscono a vicenda. Esso comporta una
“pedagogia divina” particolare: Dio si comunica gradualmente all’uomo, lo prepara per tappe a
ricevere la rivelazione soprannaturale che egli fa di se stesso e che culmina nella Persona e nella
missione del Verbo incarnato, Gesù Cristo.
Sant’Ireneo di Lione parla a più riprese di questa pedagogia divina sotto l’immagine della reciproca
familiarità tra Dio e l’uomo: “Il Verbo di Dio [...] pose la sua abitazione tra gli uomini e si è fatto
Figlio dell’uomo, per abituare l’uomo a comprendere Dio e per abituare Dio a mettere la sua dimora
nell'uomo secondo la volontà del Padre”.
1 Cfr. KASPER, Misericordia, 100.
2 Ibidem, 125.
3 Cfr. TESTAFERRI, Credo, aiutami nella mia incredulità, 33.-38.
4 H. U. VON BALTHASAR, Solo l’amore è credibile, Borla, Torino 1965, 54-55.
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Dio parla agli uomini. Ecco la meraviglia sorprendente dell’amore di Dio verso di noi. A Lui
piacque rivelarsi a noi, far conoscere il mistero intimo ed eterno della sua vita divina, conversare
con noi, entrare in comunione con noi, amarci e avere così rapporti personali con noi. Dio ci ama e
perciò ci parla e ci apre il suo cuore paterno ed amabile.
Volgendoci alla Sacra Scrittura, vediamo che nell’Antico Testamento Dio parla ad Israele ed a tutti
gli uomini, in molte forme diverse, ma soprattutto per mezzo dei profeti. La parola divina non è data
come rivelazione privata a persone singole o gruppi selezionati da Dio, ma è un messaggio per il
popolo eletto di Israele e per l’intera umanità. Tutti gli esseri umani, iniziando dal popolo d’Israele,
sono destinatari della parola che Dio pone sulla bocca dei suoi profeti.
È il fondamento del lavoro missionario, evangelizzatore, della missione d’annunciare a tutti la
Parola di Dio. In Israele, la Parola di Dio appare come legge e regola di vita. La legge divina non è
solamente un documento scritto, ma un rapporto di un Dio personale, una persona divina, che parla,
si fa conoscere e attua il proprio disegno nella storia di questo popolo. Per Israele non si tratta,
quindi, soltanto di accogliere una dottrina o la lettera di una legge, ma è implicita un’adesione
personale e comunitaria per la persona di Dio. Si tratta di un’alleanza tra persone, cioè da una parte
Dio e dall’altra la comunità e le singole persone che formano il popolo d’Israele.
Il Nuovo Testamento prese inizio quando questa Parola di Dio si fece carne ed abitò tra noi. Questo
è l’evento, in fatti e parole che manifesta un Dio inedito, con i piedi nella polvere, scandaloso,
capovolto potremmo dire. In altre parole, un’immagine di Dio carica della mobilità, dell’incertezza
dell’umanità e della povertà. Sono molto significative le accezioni del termine Rivelazione, dal
Greco (Apokalypis= togliere il velo); al Latino (Revelatio=manifestare, rivelare ma anche velare
nuovamente); Al Tedesco (Offenbarung=coprire). Afferma il teologo tedesco Karl Rahner che il
concetto (Begriff) Dio non è un afferrare (Ergreifen) Dio con cui l’uomo si impossessa del mistero,
bensì è un lasciarsi afferrare (Sich-ergreifen-Lassen) da un mistero presente e sempre sottraentesi5.
In questa dinamica appare necessario recuperare l’orizzonte di tale mistero che trova la “suprema
istanza della verità di fede”6 nella Parola di Dio, la quale si esprime nel suo massimo grado
attraverso il linguaggio biblico della kènosi7 che dispiega il linguaggio dell’amore trinitario (ad
intra: la comunione delle differenze, donazione gratuita dall’uno altro delle persone divine [Gv
6,15; 17,26; 19,31]; ad extra: uscire, abbassarsi, svuotarsi per l’altro), del Dio che si abbassa, si
svuota e si spoglia della sua onnipotenza e veste i panni della mortalità, del rischio e dello scandalo
per condividere se stesso con l’altro; dinanzi al quale restiamo in silenzio, non per tacere ma per
dire meglio e senza forzature il Dio che si dice tacendosi, ovvero assumiamo quel linguaggio che
conduce alla contemplazione8 e attraverso di essa consente di avvicinarsi al mistero rispettandone
l’alterità e l’identità, le profondità e le altezze, la vicinanza e la lontananza, la bellezza di un amore
che ci stordisce e ci afferra.
Conseguenze per la Chiesa, per noi: ne consegue che “la chiesa che vive nel tempo è per sua
natura missionaria” (AG 2) e il modello che ispira l’evangelizzazione è “l’incarnazione” (cf RM,
5 Cfr. K. RAHNER, Corso fondamentale sulla fede, Paoline, Torino 1977, 84.
6 BÖTTIGHEIMER, Comprendere la fede, 119.
7 Cfr. DOTOLO, Un cristianesimo possibile, 181-198.
8Sul tema suggerisco di vedere il numero monografico della rivista Convivium assisiense 1 (2010) dal titolo Il nome di
Dio; E. SALMANN, Presenza di Spirito. Il cristianesimo come stile di pensiero e di vita, Cittadella, Assisi (PG) 2011,
151-194.
4
5) e il modello Trinitario. Dalla Trinità trabocca l’Amore, la venuta del Figlio missionario. Nella
sua enciclica sulle missioni, Redemptor hominis (1998), San Giovanni Paolo II inizia dicendo
che la missione di Cristo Redentore, affidata alla Chiesa, è ancora ben lontana dal suo
compimento. […] Uno sguardo d’insieme all’umanità mostra che tale missione è ancora agli inizi e
che dobbiamo impegnarci con tutte le forze al suo servizio (RH 1).
La missione di Dio si incentra dunque in Gesù solo. Quel mistero altissimo, quella cascata che
scende, si chiama Gesù con il dono dello Spirito Santo. E la cascata si butta nella piccola pozza
d’acqua, che è la Chiesa. La Diocesi, la parrocchia, la piccola comunità, la Congregazione religiosa,
sono piccole pozze vive di Dio, da cui sgorga poi la missione che si distribuisce sulla terra. Questa è
la missione che tocca a noi.
Papa Francesco nel consueto messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni dello
scorso anno (52° Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, L’esodo, l’esperienza fondamentale
della vocazione, 29 marzo 2015), ha ribadito l’urgenza di far propria la dinamica dell’esodo biblico,
quale processo missionario che tutta la Chiesa e ogni cristiano è chiamato a mettere in pratica oggi.
Forse l’esodo per troppi cristiani, per troppi di noi è rimasto soltanto un bel racconto antico dinanzi
al quale commuoversi, il papa ci sprona a farlo divenire il paradigma della vita cristiana e in
particolare di chi abbraccia una vocazione di speciale dedizione al servizio del Vangelo. È quanto
mai urgente per la Chiesa del nostro tempo praticare l’atteggiamento del “camminare convertendosi
e del convertirsi camminando”, ovvero il passare dalla morte alla vita, così come celebriamo nella
liturgia e vivere nella quotidianità il dinamismo pasquale di uscire da sé e dal proprio egoismo per
andare e darsi ai fratelli sull’altare della vita.
La Chiesa è davvero fedele al suo “Maestro” quando è capace di agire secondo lo stile di Dio, lo
stile di Gesù, animato dallo Spirito Santo, il quale esce da se stesso in maniera trinitaria di amore e
si muove verso l’uomo, per incontrare i figli nella loro situazione reale e di compatire le loro ferite
(cfr. Es 3,7).
Recuperare per l’oggi le categorie bibliche dell’Esilio e dell’Esodo
Per far fronte alla particolare situazione epocale in cui viviamo è utile riproporre le categorie
bibliche dell’esodo e direi anche dell’esilio. Mi spiego: oltre che essere capisaldi della storia biblica,
queste parole sono gli estremi di un’oscillazione entro il cui spazio si colloca nella sua drammaticità
e bellezza tutta l’esperienza umana. Si potrebbe dire che in quanto uomini, donne e credenti siamo
sempre in bilico fra l’esilio e l’esodo, fra lo smarrimento, la desolazione, la sconfitta, da un lato, e
dall'altro il cammino verso la meta agognata, il compimento dei desideri, la patria. Secondo la
logica e nel rispetto della storia del popolo eletto sarebbe più giusto parlare prima di esodo e poi di
esilio per stigmatizzare col primo la faticosa ricerca d'identità e col secondo il rischio sempre
incombente del suo smarrimento. Idealmente però i termini si possono anche invertire o addirittura
sovrapporre. L’esilio allora indica la situazione di itineranza, di estraneità, di rischio, di
spersonalizzazione, cose tutte che divengono causa di sofferenza, mentre l'esodo ne diviene una
possibile rielaborazione, una trasformazione intrinseca, una certa qual soluzione. Trasformando
l’esilio in esodo, rimane pur sempre presente la “strada”, non cambiano le difficoltà, ma si
invertono i termini. L’esilio è avvertito come nostalgia nella quale ciò che conta sta alle spalle.
L’esodo è provvisorietà, ma viene affrontato con gli occhi rivolti in avanti, sorretti dalla speranza
5
che salva. In comune le due realtà hanno il senso della frammentarietà, percepiscono il rischio e
condividono l’emergenza che l'imprevisto dell'itineranza quasi sempre porta con sé.
Adoperare questi due termini esodo-esilio come coordinate per pensare e ripensare la fede e la
missione nell’oggi appare una scelta sicuramente feconda. Nel quadro liquido della postmodernità,
dentro il quale si sfaldano le certezze di un tempo, laddove i confini assurgono a spazi di possibilità
e di ubiquità e dove, di fatto, vengono smentiti i punti fermi in cui si confidava, è evidente anche la
crescente crisi della cristianità e una preoccupante asfissia della fede. Di fronte a tale situazione, la
tentazione della sfiducia diventa prepotente. Il rischio è quello di trasformare l’attuale stato di vita
della Chiesa in un esilio di nostalgie che guardano indietro o in un imbarazzante tentativo di
perpetuare scelte pastorali e visioni che non hanno più alcuna forza creativa. Anziché diventare un
esilio, la situazione attuale può essere trasformata positivamente in un vero e proprio esodo a
condizione che – come insegna papa Francesco – la Chiesa si metta in uscita e viva la situazione
dell'itineranza come una possibilità donata dalla creatività dello Spirito per l’oggi. Di certo
l'immagine dell'attuale pontefice che allude a un assetto da missione o arriva addirittura a
configurare la Chiesa come un ospedale da campo non ci conquista per la sua bellezza, tutt'altro! È
difficile da digerire, soprattutto quando siamo toccati sul vivo delle nostre comode certezze.
Alcuni maestri ebrei ritenevano che il vero esilio non fosse cominciato nel momento
dell’abbandono del suolo patrio, vale a dire con la deportazione, ma solo quando il popolo cominciò
a dimenticare la sua terra e ad accomodarsi alla nuova situazione, cioè quando questa realtà era
penetrata nel cuore. Allo stesso modo la fede oggi corre il rischio di perdere la propria luce e di
smarrire la gioia del vangelo se non si impegna in tutti i modi a vincere la tentazione di accomodarsi
al senso della resa e di commiserarsi per tutto quello che tristemente non c'è più.
INTERMEZZO… breve sguardo panoramico sulla missione nella Scrittura prima di
procedere nel nostro percorso:
Parlare di missione nella Sacra Scrittura vuole dire rintracciare le linee della recezione della
rivelazione da parte di uomini concreti che poi ne divennero testimoni.
Uno dei principali testi di riferimento per l’argomento che affrontiamo rimane in Italia E. TESTA, La missione e la
catechesi nella Bibbia, SU 14, Brescia 1981, 457-460. P. Rossano, «La missione nella Bibbia e nelle altre religioni.
Introduzione», RStB 1 (1990) 9-11. D. Senior – C. Stuhlmueller, I fondamenti biblici della missione, Bologna 1985. L.
Legrand, Il Dio che viene. La missione nella Bibbia, Roma 1989.
Si può parlare di missione nell’AT?
Alla domanda rispondiamo affermativamente, nella misura in cui si dà al termine l’accezione di
“missio ad intra”, come può essere quella di Mosè, chiamato a liberare i figli di Giacobbe9, oppure
quella del profeta mandato da Dio al suo stesso popolo per richiamarlo all’adesione all’alleanza e ad
un rapporto di fedeltà che è venuto meno10
.
9 Cfr. A. NEPI, Esodo, Dabar – Logos – Parola. Lectio Divina Popolare, I, Padova 2002.
10 Per capire questo particolare tipo di missione leggere R. VIRGILI, Geremia,l’incendio e la speranza. La figura e il
messaggio del profeta, Quaderni di Camaldoli 13, Bologna 1998; Ibidem, Ezechiele. Il giorno dopo l’ultimo, Quaderni
di Camaldoli 16, Bologna 2000; M. GRILLI, il Pathos della Parola. I profeti d’Israele, Milano 2000.
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Rispondiamo, invece, negativamente, se pensiamo alla missione come “missio ad extra”. Fin
dall’origine della sua fede, Israele ha inteso la sua “elezione” come separazione. Lungo il fluire
della sua storia – epoca patriarcale, esodo, conquista, monarchia – la religione d’Israele non tende
ad espandersi, ma a salvaguardarsi.
Quando, con i profeti, soprattutto in seguito all’esilio, vennero dissolti tutti gli elementi di
particolarità (la monarchia davidica – la terra – il tempio) e venne annunciato un tempo definitivo
(escatologico) di salvezza universale a cui le genti avrebbero preso parte, non si pensò mai a un
cammino cosciente e voluto verso gli altri.
In ogni caso, Gerusalemme, per il giudaismo, rimane il centro santo del mondo e il luogo in cui
dovrà manifestarsi il Messia. Qui, alla fine dei tempi, si raduneranno non solo gli Israeliti dispersi,
ma i popoli tutti, allo scopo di adorare il vero Dio»11
.
Si può parlare di missione nel NT?
Nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli troviamo i passi fondamentali sul mandato missionario
universale, affidato solennemente da Gesù ai suoi discepoli (Mt 28,16-20; Mc 16,9-20; Lc 24,46-
49; Gv 20,21; At 1,6-8).
Gesù adotta uno stile di ministero completamente opposto a quello di Giovanni Battista (cfr. Mt
11,18): abita a Cafarnao, sulle rive del lago, a contatto con molte persone; frequenta la sinagoga,
alla porta della città incontra la folla e guarisce i malati. Giovanni lascia che le persone vadano da
lui, Gesù si sposta per andare la dove vivono le persone12
: «Abbatte le barriere di ogni genere;
accoglie piccoli e grandi, poveri e ricchi, malati, lebbrosi, indemoniati, persone di cattiva
reputazione. In tal modo egli diventa l’ “archetipo del missionario cristiano” e il suo ministero
diventa modello di comprensione dell’opera di ogni comunità cristiana e di ognuno dei suoi
membri»13
.
Figure bibliche simboliche per individuare i fondamenti della missione:
Abramo: la fede è un uscire sulle vie di Dio. Abramo è il primo grande esempio di fede narrato
dalla scrittura14, si colloca nella storia d’Israele tra gli antenati del popolo e manifesta il valore
dell’alleanza conclusa da Dio con il popolo nella terra di Canaan. Nei racconti dei patriarchi sono
messi in evidenza i temi fondamentali della religione d’Israele: il culto di un unico Dio, la
rivelazione, l’elezione, la promessa, il dono della terra. Abramo domina questa storia “originaria”:
considerato dal profeta Isaia (51,2) il padre del popolo eletto; dai cristiani riconosciuto come padre
nella fede (Rm 4,11); chiamato dai Musulmani, El – Khalil, ossia, l’amico di Dio. Le qualità della
fede di Abramo vengono esaltate dalla tradizione successiva: “Egli custodì la legge dell’Altissimo,
con lui entrò in alleanza. Stabilì questa alleanza nella propria carne e nella prova fu trovato fedele”
11
M. GRILLI, Comunità e Missione, 226. Per ulteriori approfondimenti su aspetti particolari del periodo post-esilico e
del tardo giudaismo si possono consultare studi di G. BOCCACCINI, Prospettive universalistiche nel tardo giudaismo,
PSV 16 (1987) 81-100; M. PRIOTTO, Giuditta e Sapienza: due aspetti dell’atteggiamento dei popoli di fronte a Israele,
RStB 1 (1990) 45-70; D. PIATTELLI, Missione e proselitismo in Israele: effetti della insurrezione maccabaica nel
pensiero di Qumran e nella letteratura rabbinica, RStB 1 (1990) 87-100. 12
Cfr. A. VANHOYE, Le origini della missione apostolica nel Nuovo Testamento, in CivCatt 3372 (1990) 544-558. 13
M. GRILLI, Comunità e Missione, 290-291. 14
Cfr. A. DULLES, Il fondamento delle cose sperate, 11.
7
(Sir 44, 19-20). Anche per gli autori del Nuovo Testamento Abramo oltre ad essere riconosciuto
antenato del popolo d’Israele (Mt 3,9; Gv 53.56; At 7,2; 13,26) appare come progenitore del
sacerdozio levitico (Eb 7,5) e del messia (Mt 1,1). L’immagine del “seno di Abramo” richiamata da
Luca rimanda alla felicità ultraterrena (Lc 16,22-23), e il cielo è il luogo in cui si celebra il convito
con Abramo, Isacco e Giacobbe (Mt 8,11; Lc 13,28). Giacomo vede in Abramo, l’uomo giustificato
per le sue opere buone compiute (Gc 2,21-23). San Paolo nella lettera ai Galati ed ai Romani,
riprende l’esperienza di Abramo per provare che la giustificazione da parte di Dio verso l’uomo non
viene per mezzo delle opere, ossia dalle osservanze mosaiche, considerate sufficienti, ma attraverso
la fiducia nella parola e nell’opera di Dio, con una parola, per la fede, (Gal 3,6-18; Rm 4,1-25).
Tutta l’esperienza del patriarca è contrassegnata dalla fede e gravita intorno ad essa, come evidenzia
l’autore della Lettera agli Ebrei che invita ad alzare lo sguardo verso i grandi esempi di fede del
passato: “Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo […] per fede soggiornò nella terra
promessa […] per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco” (Eb 11, 8-18)15. L’affidarsi a Dio da
parte di Abramo (Gen 15,6) è espresso mediante la radice ebraica ‘mn presente nella forma he’mîn,
indica stabilità e sicurezza derivanti proprio dall’appoggiarsi a qualcuno. Dalla stessa radice deriva
‘emûnah che significa fedeltà (2Cr 20,20), retto comportamento (2Re 12,16; 22,7; 2Cr 31,18),
accettazione delle promesse di salvezza (Sal 106; cf. Sal 116; 119), obbedienza dei comandamenti
(Sal 78,22.32). Da cui la parola ‘emûn, risposta all’alleanza con riconoscimento dell’unico Dio (Dt
5,7), amore esclusivo e confidente (Dt 6,5), osservanza dei precetti (Dt 7,12); fino ad arrivare alla
parola più usata e conosciuta, ‘emet assumendo la sfumatura di sincerità del cuore, aprendosi al
significato della “verità” (Gs 2,14; Sal 26). È da dire che l’AT ha una grande varietà di termini che
indicano il vocabolo fede, qui ho indicato ciò che a me sembra più inerente al tema in questione16
.
Tale varietà trova un punto comune nel termine usato nel NT, pistéuō/pístis (credere/fede),
moltissime volte. Tali termini conservano il senso prevalente di fiducia. Credere è anche
riconoscere Gesù, il nuovo Abramo, come il messia (Mc 15,32) attraverso la sua morte e
risurrezione (At 2,14-36), così che il cristiano viene definito come “il credente” (At 2,44; 4,32;
11,21)17. Da quanto detto osserviamo che la fede veterotestamentaria pone l’accento sull’aspetto di
fiducia; mentre quella neotestamentaria risalta l’aspetto di assenso al messaggio cristiano18
. Tale
fede splende particolarmente in Abramo, per il quale fidarsi di Dio significa uscire dalla sua terra,
mettersi in cammino sulla parole di una promessa, affrontare l’incertezza e la debolezza, e gettarsi
verso un futuro di là da venire, il tutto segnato dalla gioia di un figlio nella vecchiaia e dalla
richiesta del sacrificio più grande, dello stesso unico figlio (Cfr. Gn 12 e 15). Da questo breve
percorso sulla fede di Abramo vogliamo adesso evidenziare le dinamiche e le caratteristiche di una
fede missionaria moderna, genuina, gradita, utile per noi oggi alla luce dell’Evangelii gaudium.
15
Cfr. TESTAFERRI, Il tuo volto Signore io cerco, 255; Per ulteriori approfondimenti rimando a Cfr. B.
COSTACURTA, Abramo e l’esperienza della fede, in H. ALPHONSO (a cura di), Esperienza e spiritualità, Roma
1995, 15-28; F. CASTRONOVO, Pellegrini nella fede. Sulle orme di Abramo e Sara, Paoline, Milano 2013. 16
Cfr. A. JEPSEN, ‘aman, in GLAT, I, 626-695; H. WILDERBERGER, ‘mn, in DTAT, I, 155-183. 17
Cfr. A. VANHOYE, Ebrei, 430-436; B. MARCONCINI, Fede, 536-552; S. VIRGULIN, Abramo, 3-10, in NDTB, a
cura di Pietro Rossano, Gianfranco Ravasi, Antonio Girlanda, San Paolo, Cinisello Balsamo Milano 2001. 18
Cfr. J. ALFARO, La fede come dedizione personale dell’uomo a Dio e come accettazione del messaggio cristiano, in
Concilium 3 (1967), 68; Ibidem, Fide in terminologia biblica, in Gregorianum 42 (1961), 463-505; interessante in tal
senso il contributo di M. BUBER, Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo Milano
1995, in cui l’autore presenta la fede ebraica come esistenziale che si differenzia dalla pìstis greca dai tratti di
un’impropria intellettualizzazione.
8
La fede è un uscire dalla propria terra, “Il Signore disse ad Abram: Vattene dal tuo paese, dalla tua
patria e dalla casa di tuo padre …” (Gn 12, 1). La fede si esprime qui come una risposta alla parola
di Dio che ti viene rivolta, e comanda in maniera imperativa ad uscire dalle proprie certezze19
. Essa
non è, un punto di arrivo, né un’opera umana, la conclusione di un ragionamento o un rapporto
costruito su ragioni convincenti: la fede è un “cominciamento” dell’esperienza di Dio20
. La
missione comincia proprio seguendo la voce di Dio. In questa prospettiva la missione è una realtà
attiva, aperta, dinamica e imprevedibile, fondata unicamente su Dio. Riecheggia in questo approccio
l’invito ad un “improrogabile rinnovamento ecclesiale” di papa Francesco nell’Esortazione
Apostolica Evangelii gaudium. Il pontefice indicando proprio Abramo, tra gli esempi di fede da
seguire, auspica la Chiesa in “uscita”, dalle porte “aperte”, che trova gioia nell’accettare “questa
libertà inafferrabile della Parola, che è efficace a suo modo, e in forme molto diverse, tali da
sfuggire spesso le nostre previsioni e rompere i nostri schemi”. In tale prospettiva la fede come
“inizio” si esplicita in modo efficace in una Chiesa dalle porte aperte, ri-volta fuori, declinata in una
pastorale con chiave missionaria, che abbandona il comodo criterio del “si è fatto sempre così”.
“Invito tutti, afferma papa Francesco, ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli
obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità (cfr. EG 20-33)”.
Questa immagine di “Chiesa aperta” è stata utilizzata già da Rahner in un suo famoso saggio21
, e
viene ripresa da Cosentino, significata nei termini di una comunità che si confronta con il rischio
del mondo, che si nutre di una fede che non ha paura della ragione, ma al contrario la cerca ed ha
fiducia in essa22, rifiuta l’immobilismo che genera la dimensione del “ghetto” e si rinnova non nel
compromesso con il secolo ma nel discernimento e ristabilimento dei caratteri essenziali della
Chiesa23
.
La fede è cammino, pellegrinaggio: è interessante notare come Abramo dinanzi al comando di Dio
non proferisce parola, ma immediatamente si mette in cammino: “Allora Abram partì, come gli
aveva ordinato il Signore, e con lui partì Lot. Abram aveva settantacinque anni quando lasciò
Carran” (Gn 12, 4). La fede viene a porre un movimento, un cammino, un pellegrinaggio nella gioia
di una promessa avvolta dall’oscurità. Credendo Abramo abbracciò la strada indicatagli da Dio,
lasciò le sue sicurezze e rese la sua disponibilità a Dio24
. La fede chiede di muoversi dal proprio
rifugio psicologico e razionale, di liberarsi dal peso della consuetudine, di abbandonare le sicumere
nelle quali la vita spesso si crogiola. In altre parole, è necessario liberare uno spazio in cui Dio trova
ospitalità e fissa dimora. Ecco il vero luogo su cui cammina il credente, non è più la propria terra,
ma Dio stesso che cammina a fianco dell’uomo25
. Dinanzi a ciò ci rendiamo conto che le strutture
ecclesiali non sono dei luoghi in cui si imprigiona la forza liberante della parola di Dio, il luogo
autocelebrativo e autoreferenziale delle fede, ma il luogo teologico in cui con Dio liberarsi da ogni
catena, immobilismo e formalismo. Le sicurezze fanno mettere le radici fisse, la fede mette le sue
radici in Dio che è sempre in cammino e in movimento: la Chiesa pone le sue radici soltanto nel
19
Cfr. CASTRONOVO, Pellegrini nella fede, 25-27. 20
Cfr. F. TESTAFERRI, Il tuo volto Signore io cerco, 257. 21
Cfr. K. RAHNER, Trasformazione strutturale della chiesa come compito e come chance, Queriniana, Brescia 1963,
114. 22
FRANCESCO, Evangelii Gaudium. Testo integrale e commento de “La Civiltà Cattolica”, Ancora, Milano 2014,
123-124. 23
Cfr. F. COSENTINO, Immaginare Dio, 95-104. 24
Cfr. CASTRONOVO, Pellegrini nella fede, 33-36. 25
Cfr. F. TESTAFERRI, Il tuo volto Signore io cerco, 258.
9
Dio di Gesù Cristo, quale “Dio con noi” e per noi, che ha scelto l’umano quale luogo in cui rivelarsi
e far conoscere il suo amore misericordioso a tutti i popoli (cfr. EG 20-24).
La fede fra l’oggi della storia e il domani di Dio: il racconto di Gen 12 mette in evidenza anche il
rapporto tra l’azione di Dio rivolta al futuro e l’azione di Abramo volta al presente. In effetti
l’esperienza di Abramo si muove tra un presente e un futuro. Per essere più precisi, dal testo si nota
che la fede è la risultante di una combinazione fra futuro aperto alla speranza e presente che
richiede un impegno immediato26
. Qui si colloca una caratteristica fondamentale della fede dalla
cifra moderna che è tutta da recuperare: il credere non è mai inteso come una sorta di spazio vuoto
dilazionato nel tempo, ma è un impegno concreto nell’oggi della storia con l’anelito al futuro carico
di speranza (cfr. EG 222). La fede in sintesi, richiede l’urgenza coraggiosa di attualizzare e attuare
la “Parola” ricevuta27
. Spesso la pratica credente è intrisa di incredulità perché vive il presente in
una sorta di dis-incarnazione della fede, nutrita anche di buone azioni, quali partecipare a messa,
praticare i sacramenti, ma senza una connessione ad un prima e ad un dopo, senza incidenza
concreta nella vita. Molti credenti vivono come in una gaia speranza apatica certi di aver compiuto
il proprio dovere di cristiano rispettando i precetti senza però compiere scelte immediate e decisive.
La fede come preghiera: nota interessante dell’esperienza di fede di Abramo è quella di manifestare
attraverso la costruzione di altari lungo tutto il suo cammino. Pratica già in uso presso i popoli della
terra di Canaan e del Vicino Oriente Antico, ma che nella storia di Abramo lascia trasparire il
carattere orante della fede. Non esiste fede se non per la forza che viene dall’alto. Il patriarca
Abramo sentiva il bisogno di rivolgersi a Dio e riconoscerne la presenza all’interno del suo
itinerario. Perciò si ferma a pregare, ringraziando e trovando la forza per proseguire il cammino. La
costruzione dell’altare indica l’atteggiamento di gratitudine del credente, fatto di colloquio intimo e
di liturgia28
. In questa caratteristica della fede si evince la dimensione del credere nutrita dalla
presenza viva di Dio che trova nella preghiera e nel rito liturgico la via per entrare in contatto con
Lui, fare memoria del patto di alleanza, esprime ringraziamento e gratitudine. L’altare è segno e
testimonianza che il cammino si compie per la mano di Dio e in realizzazione di un volere divino.
Afferma papa Francesco nell’Evangelii gaudium a proposito del valore della preghiera per la nuova
evangelizzazione al numero 264: “abbiamo bisogno di soffermarci in preghiera per chiedere a Lui
che torni ad affascinarci. Abbiamo bisogno d’implorare ogni giorno, di chiedere la sua grazia
perché apra il nostro cuore freddo e scuota la nostra vita tiepida e superficiale. Posti dinanzi a Lui
con il cuore aperto, lasciando che Lui ci contempli, riconosciamo questo sguardo d’amore che
scoprì Natanaele il giorno in cui Gesù si fece presente e gli disse: «Io ti ho visto quando eri sotto
l’albero di fichi» (Gv 1,48). Che dolce è stare davanti a un crocifisso, o in ginocchio davanti al
Santissimo, e semplicemente essere davanti ai suoi occhi! Quanto bene ci fa lasciare che Egli torni a
toccare la nostra esistenza e ci lanci a comunicare la sua nuova vita! Dunque, ciò che succede è che,
in definitiva, «quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo» (1 Gv 1,3). La migliore
motivazione per decidersi a comunicare il Vangelo è contemplarlo con amore, è sostare sulle sue
pagine e leggerlo con il cuore”. È solo nella preghiera, nello stare davanti a Dio con cuore aperto
che possiamo scoprire la bellezza affascinante di uno sguardo di amore che tocca e trasforma la
26
Cfr. CASTRONOVO, Pellegrini nella fede, 45-50. 27
Cfr. TESTAFERRI, Il tuo volto Signore io cerco, 259-260. 28
Cfr. Ibidem, 261.
10
nostra esistenza e ci spinge a proseguire il cammino lungo le strade della storia da credenti con la
lampada della fede accesa.
La fede come silenzio: il dialogo di Abramo con Dio è caratterizzato dal segno inequivocabile del
silenzio. Gen 12 nella sua parte iniziale, rispetto a Gen 15 in cui Abramo viene presentato come
l’amico che discute con Dio, è segnato dal “terribile” silenzio di Abramo. Un silenzio profondo che
indica la tragicità e la fatica di una scelta che necessita di essere interiorizzata e assimilata. Questo
tratto contrasta molto con l’atteggiamento del cristiano moderno poco incline al silenzio e molto
dedito a riempirsi di parole futili. Si fa molta fatica a rimanere soli con se stessi. L’uomo
contemporaneo teme il silenzio perché esso rimanda agli abissi della condizione umana e al mistero
che lo sovrasta. Abramo invece tace e medita dentro di sé la forza della parola udita. Non lascia che
altre parole lo distraggono dal cammino di fede che deve intraprendere. Qui emerge un aspetto della
fede che oggi è spesso frainteso e trascurato: al cammino esteriore corrisponde un cammino
interiore. La fede si coltiva e si esprime a partire da uno sguardo, prima dal sentire lo sguardo di
Dio rivolto sulla propria esistenza, e poi portare questo sguardo verso i fratelli e il mondo. Questa
dinamica si coglie nel silenzio delle labbra e dalla parola del silenzio (Cfr. EG 265-267).
L’equivoco a cui si assiste oggi è di coltivare l’interiorità come intimismo senza apertura alla parola
di Dio che coinvolge e trasforma tutta la vita. Abramo esteriormente abbandona le sue sicurezze e i
legami terreni, interiormente si distacca dalla confusione per concentrarsi sulla cosa necessaria: la
parola di Dio. Questa caratteristica esprime l’importanza della meditazione, della lectio divina e
della contemplazione per la fede. Assistiamo a troppe parole, troppi discorsi, e a poco silenzio per la
fede e l’interiorizzazione della Parola. Le conseguenze di questi atteggiamenti sono evidenti nella
diffusa superficialità e frivolezza che caratterizza certi cristiani. Il silenzio invece custodisce e
feconda la Parola come un seme nella terra fertile. Un silenzio evidentemente non da confondere
con il mutismo, bensì come azione attiva, il silenzio così inteso permette di cogliere l’ampiezza di
un cuore capace del mistero di Dio e di gustare la profondità del cuore di Dio amante della vita29
.
La fede tra dubbio e debolezza: Gen 15 ci presenta un Abramo sotto un’altra luce rispetto a quello
narrato da Gen 12. Non è più il pellegrino silenzioso, ma un interlocutore che parla con Dio in un
colloquio improntato alla familiarità. Dai colloqui con il suo Dio si scorge un Abramo che fa i conti
con una fede non scontata: si rende presente il dubbio dinanzi alla mancata discendenza. Dice
Abramo rivolto al suo Dio: “Io me ne vado senza figli e l'erede della mia casa è Eliezer di
Damasco” (Gn 15, 2). Si esprime in questa dinamica la resistenza della debolezza umana dinanzi al
piano di Dio che è sempre fedele alla sua promessa. La tentazione di non fidarsi di Dio è troppo
forte30. “Ed ecco gli fu rivolta questa parola dal Signore: Non costui sarà il tuo erede, ma uno nato
da te sarà il tuo erede (Gn 15, 4). Abramo comprende che le sue incertezze sono fasciate dalla
solidità della promessa e dalla grazia preveniente di Dio. La forza della fede di Abramo sta
nell’umiltà di fidarsi della parola di Dio anche dinanzi alle contraddizioni e la fatica del cammino31
.
L’atto della fede viene qui presentato più che come certezza teoretica, come fatica esistenziale di
affidarsi32. Questo approccio è molto in contrasto con l’idea di fede odierna ripiegata dalla continua
ricerca degli operatori ecclesiali di piani e progetti pastorali, pur necessari, per raggiungere gli
29
Cfr. Ibidem, 261-263. 30
Cfr. CASTRONOVO, Pellegrini nella fede, 63-64. 31
Cfr. Ibidem, 67-69. 32
Cfr. TESTAFERRI, Il tuo volto Signore io cerco, 264-265.
11
obiettivi sperati. Sarebbe bene mai dimenticare che la fede è sapere fidarsi di Dio anche dinanzi agli
insuccessi pastorali e che anche se noi non siamo sempre coerenti nell’impegno Egli è sempre
fedele alle sue promesse. Anche quando sembra che prevalgano le contrarietà e il fallimento il
credente confida che nell’economia dell’agire di Dio nessuno sforzo è vano e nessun atto di fede va
perduto (Cfr. EG 40-45).
Gli orizzonti immensi della fede: “Poi lo condusse fuori e gli disse: Guarda in cielo e conta le stelle,
se riesci a contarle, e soggiunse: Tale sarà la tua discendenza. Egli credette al Signore, che glielo
accreditò come giustizia” (Gn 15, 5-6). Il racconto ci presenta il passaggio successivo al dialogo che
Abramo ha avuto con Dio dentro la tenda. In questo quadro Dio conduce fuori Abramo e lo invita a
scrutare l’immensità del cielo stellato. In questo cambiamento di luogo, con un interpretazione
simbolica, possiamo scorgere l’invito rivolto ad Abramo di aprire le prospettive del suo sguardo
secondo l’ampiezza dello sguardo di Dio. Dinanzi alla ricerca delle sicurezze umane e
all’assalimento del dubbio, Dio chiede di uscire fuori dai propri stretti confini per alzare lo sguardo
e percepire gli infiniti orizzonti di Dio33
. Questo aspetto è molto suggestivo e lascia intravedere il
respiro della fede che sospinge il credente oltre i propri ragionamenti e i calcoli umani (Cfr. EG
222-225). Dinanzi alla promessa di una moltitudine stellata le garanzie umane diventano come
briciole. Viene qui consegnata una grande perla di saggezza per il credente: gli occhi della fede si
sforzano di guardare e organizzare la realtà dal punto di vista di Dio34
.
La fede provata nel sacrificio: questo passo ci presenta il terzo quadro della narrazione di Gn 15, il
momento angoscioso della paura che Dio sia venuto meno alla sua parola, che abbia tradito la
speranza. In un contesto di profonda incertezza la fede di Abramo viene provata al fuoco.
Evidenziamo tre elementi che ci consentono di cogliere la dinamica dell’atto di fede: “il sole stava
per tramontare”, simbolo del dominio del male nell’assenza di luce; “un torpore scede su Abramo”,
indice di stanchezza e di attesa, dell’incapacità di andare oltre; “un oscuro terrore lo assalì”, il
panico dinanzi all’assenza di Dio. Abramo resta in attesa, Dio giunge all’ultimo minuto per
consumare le vittime preparate. La fede passa attraverso il sacrificio della notte oscura e
dell’assenza di Dio (Cfr. EG 10-13). Abramo resta un esempio di fede perché ha avuto fiducia nel
suo Dio anche nel momento più difficile del suo cammino35
.
La fede come libertà dall’ansia di possesso: in Gen 22, 2-19 si presenta una situazione drammatica e
impensabile per Abramo. Nato Isacco, il figlio della promessa, Dio chiede la rinuncia del
discendente legittimo: Abramo è chiamato ad offrire Isacco in olocausto. Ci si trova sull’abisso, Dio
chiede di restituirgli quanto ha donato, sembra rinnegare le sue promesse36
. Senza voler qui
sviluppare un commento esegetico su un passo biblico che ha destato non pochi grattacapi agli
addetti ai lavori, si desidera soltanto mettere in evidenza come la fede nell’esperienza del patriarca
Abramo chiede di mettere al centro della vita soltanto Dio. Nessuno, nemmeno il figlio, può
adombrarne la centralità. Questa pagina biblica è divenuta il paradigma dell’atto di fede, infatti
nello svolgersi del racconto si capirà che Dio non vuole sacrifici umani ma desidera soltanto una
totale fiducia e obbedienza alla Sua Parola. In questa logica viene mostrato come anche i doni di
Dio gestiti come proprietà personale e privata possono diventare un ostacolo alla relazione con Lui,
33
Cfr. CASTRONOVO, Pellegrini nella fede, 65-66. 34
Cfr. TESTAFERRI, Il tuo volto Signore io cerco, 265-266. 35
Cfr. Ibidem, 266. 36
Cfr. CASTRONOVO, Pellegrini nella fede, 129-133.
12
fonte di ogni dono. Abramo, che ha sempre desiderato vedere il volto dalla cui bocca ascoltava
quella voce, al termine della sua vita ha visto, nel senso di fare esperienza, che il suo Dio è amico e
ama la vita, la protegge e mantiene le sue promesse37. In questa fede dell’assurdo di Abramo, dove
ogni calcolo era stato abbandonato Kierkegaard coglie la giovinezza dell’uomo che crede e che
spera in un futuro migliore38
. La fede non possiede ma libera i doni di Dio in una speranza che non
delude ma apre a qualcosa di più grande. La fede resta viva e giovane soltanto quando resta
ancorata alla Parola e non alle sicurezze umane, perché Dio desidera soltanto abbondanza di vita per
i suoi figli. Una fede declinata nel possesso geloso dei doni di Dio è destinata ad ammalarsi e
morire. Papa Francesco ci ha ricordato che: “quando la vita interiore si chiude nei propri interessi
non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si
gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene. Anche i credenti
corrono questo rischio, certo e permanente. Molti vi cadono e si trasformano in persone risentite,
scontente, senza vita. Questa non è la scelta di una vita degna e piena, questo non è il desiderio di
Dio per noi, questa non è la vita nello Spirito che sgorga dal cuore di Cristo risorto” (EG 2).
La riflessione sul racconto di Abramo ci permette di tracciare le caratteristiche di una fede dal
sapore antico e sempre nuovo, dal tratto provocatorio per il nostro tempo, appunto missionario, che
scaturisce nel cuore di una persona e si dissemina in vista di una grande discendenza. Si tratta della
fede che contagia e genera vita, che sa compiere scelte coraggiose e farsi cammino nel mistero della
verità che rende liberi. Una fede interessante, moderna, che implica una sorta di irrazionalità,
costringe ad abbattere il “muro di gomma delle certezze” e costringe a vivere in balìa delle
temperie, dove a vincere è l’esposizione alla vita, dove in nome di Dio “sa perdere anche terreno e
smontare le sue sicurezze, svestirsi delle sue vesti, dei suoi merletti e delle sue convenzioni”. Partire
confidando nella parola di un Dio che chiama per nome verso una terra promessa: non è questo
forse, l’insegnamento che la storia di Abramo, vuole trasmetterci nell’oggi della nostra storia? Un
esempio di fede genuina e gradita?39
Un esempio che sospinge ad essere uomini del “cammina-
cammina”, in viaggio, esposti ai sussulti della vita, il luogo dove conosciamo chi siamo veramente e
percepiamo di essere sulla strada giusta40
.
GIONA: UN PROFETA RILUTTANTE DELLA MISERICORDIA DI DIO
Testi di riferimento: DIOCESI DI VERONA, Giona, profeta riluttante della misericordia di Dio, a cura di don Tiziano
Brusco, Quarisma 2012. ERRI DE LUCA, Giona/Ionà, Feltrinelli, Milano 1995. P. SESSOLO, La salvezza dei popoli
nel libro di Giona. Studio sul particolarismo ed universalismo salvifico, Roma 1977.
Giona è il protagonista di un piccolo libro, un romanzo didattico del Primo Testamento, di soli
quattro capitoli, scritto probabilmente tra il 500 e il 400 a.C. E’ paradigma di un itinerario e di un
percorso di vita chiamato ad andare sempre oltre41
. Collocato tra i profeti minori il libro di Giona
non ha le caratteristiche di un testo profetico: il protagonista non ha le caratteristiche di una persona
reale ma rappresentativa di un popolo (o una parte di esso).
37
Ibidem, 134-136. 38
Cfr. S. KIERKEGAARD, Timore e tremore, Rizzoli, Milano 1995, 21; 211. 39
Cfr. TESTAFERRI, Credo, aiutami nella mia incredulità, 36-37. 40
Cfr. DOTOLO, Una fede diversa, 10. 41
Cfr. Interessante e originale traduzione di ERRI DE LUCA, Giona/Ionà, Feltrinelli, Milano 1995.
13
Il libro di Giona è il più breve della Bibbia ebraica dopo quello di Abdia; è una sorta di parabola
ricca di provocazioni e sfide rivolta ad una comunità, quella ebraica, che affrontava la situazione di
ritorno alla terra dopo il tempo dell’esilio. Era in atto una lenta riorganizzazione della vita in un
contesto segnato dal confronto con altri popoli e culture. Il popolo ebraico tendeva a mantenere la
propria specificità e peculiarità tra altri popoli, sottolineando la sua separatezza dai pagani al punto
che i matrimoni misti erano proibiti. Era una comunità preoccupata di perdere la propria identità
sociale, religiosa e cultuale, e proprio per questo tendente a rinchiudersi in una attesa del giudizio di
Dio sui pagani. Un libretto, che però è stato definito da qualcuno “la bomba atomica dell’Antico
Testamento… Il libro di Giona è scritto proprio per punzecchiare la comunità post-esilica … Ma il
libro di Giona è anche una grande provocazione per noi missionari che lavoriamo in Europa”42
.
Leggendo questi quattro capitoletti – scorrevoli, gustosi, ironici e infarciti di situazioni paradossali
che strappano un sorriso – si capisce che siamo di fronte ad una parabola, ad un racconto popolare,
ad una sacra rappresentazione in quattro scene che, usando nomi e vicende storiche conosciute dai
lettori, critica - con l’arma dell’ironia e del paradosso - una mentalità diffusa al suo tempo. Lo
stesso nome del profeta (Giona = colomba; Amittai = degno di fiducia) è ironico, perché la vera
colomba è Dio (il protagonista nascosto), mentre Giona fa la figura del corvo petulante o del gufo
malfidente. Nel libro parlano le situazioni paradossali, le immagini simboliche, più che le parole!
Come ogni parabola, anche questo racconto ha lo scopo di portare gli interlocutori a identificarsi nei
personaggi presentati; a riflettere su ciò che succede nella storia; a porsi delle domande sul proprio
modo di comportarsi e sull’idea che ognuno si è fatto di Dio: Ti sembra giusto fare così? È proprio
così, come tu pensi e credi, o la realtà della vita e il modo di agire di Dio sono diversi?
Il libro di Giona è uno dei frutti di quella minoranza ebraica (di ispirazione profetico-sapienziale)
che aveva iniziato a mettere in crisi le certezze del giudaismo dominante in Israele dopo l’esilio.
Giobbe e Qoèlet criticano la dottrina tradizionale della retribuzione e aprono il cammino ad una
nuova interpretazione del dramma della sofferenza e del male. Rut e Giona superano l’idea di un
Dio che ama solo gli Ebrei e aprono la strada a riconoscere la fede e il bene presenti in ogni popolo.
Il Cantico dei Cantici contesta il legalismo maschilista della società patriarcale per mettere al primo
posto la forza dei sentimenti e il primato dell’amore. Viene così ripreso quel messaggio profetico
che già al tempo della monarchia (con Osea e il Primo Isaia), ma soprattutto durante l’esilio (col
Secondo e Terzo Isaia) aveva fatto intravedere il volto di un Dio benevolo verso tutti i popoli,
compassionevole verso i malvagie paziente anche verso i suoi figli più capricciosi e testardi. La
nuova visione di Dio e del suo modo di agire, maturata da correnti profetiche, chiede un
cambiamento di mentalità agli Ebrei, come singoli e come popolo.
Il messaggio centrale del libro diventa, perciò, la conversione di Giona (cioè di Israele) a servire il
progetto di Dio che vuole la salvezza di tutti gli uomini, superando le ristrettezze della mentalità
religiosa tradizionale ebraica.
Ma Israele sarà disposto a fare questo passo di apertura al diverso, questo radicale cambiamento di
identità culturale e religiosa? Nella parabola i marinai si convertono; gli abitanti di Ninive anche. E
Giona? Il racconto lo descrive molto contrariato verso Dio e indispettito per il perdono accordato.
Non si sa se Dio sia riuscito a spuntarla con il suo profeta, con quel suo popolo dalla dura cervice.
42
A. ZANOTELLI, Alzati và a Ninive, in http://www.giovaniemissione.it/spiritualita/darteo2.htm.
14
La vicenda di Gesù di Nazareth – cresciuto tre secoli dopo nella rigida mentalità del giudaismo del
Secondo Tempio – confermerà che l’integralismo religioso è duro a morire e porta i suoi frutti di
morte in ogni epoca storica. Gesù porterà alla sua pienezza il cammino di rivelazione del volto di
Dio, annunciando un Padre che ama tutti gli uomini e tutti vuole salvare. Annuncerà che il modo di
fare giustizia di Dio è quello di usare misericordia, perché è buono, fedele e grande nell’amore.
Gesù darà molti segni del grande amore di Dio verso tutti, soprattutto verso i peccatori, i malati, gli
stranieri, gli impuri, gli emarginati dalla società legalista del suo tempo. Per questo si è richiamato
al libro di Giona per chiedere ai suoi contemporanei un cammino di conversione, interpretando i
segni che Dio dava loro attraverso la sua vita (Mt 12,38-42; Lc 11,29-32).
Oggi la lettura del libro di Giona pone gli stessi interrogativi alla nostra Chiesa: i cristiani, infatti, si
trovano a vivere e ad annunciare il Vangelo in una società fortemente secolarizzata e globalizzata,
dove il credente di religione diversa, l’indifferente, l’ostile, il diverso, è il vicino di casa e lavoro.
Così diventa viva e coinvolgente anche per noi questa perla di saggezza racchiusa nella Bibbia.
Il libro di Giona è diviso in due parti simmetriche: Capitoli 1 e 2: Giona disobbedisce a Dio, fugge,
ma poi inizia a pregare. Capitoli 3 e 4: Giona obbedisce a Dio, predica, ma poi si lamenta. Ogni
parte è costituita da due scene parallele: Prima parte: Giona e i marinai pagani nella tempesta;
Giona nel ventre del pesce e Dio. Seconda parte: Giona e gli abitanti di Ninive che si pentono;
Giona si lamenta con Dio. Nel testo si sente l’eco di alcuni Salmi: 55,1-8; 115,3; 135,6; 130; 139 e
di vari episodi biblici.
ISTANTANEE DELLA VICENDA DI GIONA PROFETA SUO MALGRADO:
Alzati và … Giona invece, scese … (Giona 1,1-12)
“Fu rivolta a Giona, figlio di Amittai, questa parola del Signore:“Alzati, va’ a Ninive, la grande
città, e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino a me”. Giona invece si mise in cammino
per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore. Scese a Giaffa, dove trovò una nave diretta a Tarsis.
Pagato il prezzo del trasporto, s’imbarcò con loro per Tarsis, lontano dal Signore. Ma il Signore
scatenò sul mare un forte vento e vi fu in mare una tempesta così grande che la nave stava per
sfasciarsi. I marinai, impauriti, invocarono ciascuno il proprio dio e gettarono in mare quanto
avevano sulla nave per alleggerirla. Intanto Giona sceso nel luogo più in basso della nave, si era
coricato e dormiva profondamente. Gli si avvicinò il capo dell’equipaggio e gli disse: “Che cosa
fai così addormentato? Alzati, invoca il tuo Dio! Forse Dio si darà pensiero di noi e non
periremo”. Quindi dissero fra di loro: “Venite, tiriamo a sorte per sapere chi ci abbia causato
questa sciagura”. Tirarono a sorte e la sorte cadde su Giona. Gli domandarono: “Spiegaci dunque
chi sia la causa di questa sciagura. Qual è il tuo mestiere? Da dove vieni? Qual è il tuo paese? A
quale popolo appartieni?”. Egli rispose: “Sono Ebreo e venero il Signore, Dio del cielo, che ha
fatto il mare e la terra”. Quegli uomini furono presi da grande timore e gli domandarono: “Che
cosa hai fatto?”. Infatti erano venuti a sapere che egli fuggiva lontano dal Signore, perché lo aveva
loro raccontato. Essi gli dissero: “Che cosa dobbiamo fare di te perché si calmi il mare, che è
contro di noi?”. Infatti il mare infuriava sempre più. Egli disse loro: “Prendetemi e gettatemi in
mare e si calmerà il mare che ora è contro di voi, perché io so che questa grande tempesta vi ha
colto per causa mia”.
Da questa prima analisi si comprende che le figure e le situazioni sono simboliche:
15
Giona è caratterizzato solo dall’essere figlio di Amittai, ma non si dice dove abita, cosa fa, quanti
anni ha, in che epoca vive… Di se stesso dice solo: Sono Ebreo e venero il Signore. È quindi una
figura simbolica che rappresenta il popolo ebraico e il suo modo di vivere la fede. Tutto infatti resta
nel vago: perché fugge precipitosamente senza contestare l’ordine ricevuto? Perché dorme
profondamente mentre infuria la tempesta? Perché non prega Dio e, pur sapendo cosa bisognava
fare, non ha il coraggio di buttarsi lui stesso in mare? Proprio perché Giona è una figura simbolica,
ogni lettore può identificarsi in essa, può renderla concreta con la sua realtà. Ogni persona e ogni
comunità, anche oggi, può essere Giona.
Ninive è presentata come la grande città, senza riferimenti al regno Assiro, di cui era la capitale, al
tempo in cui ci troviamo, alle atrocità di cui si è macchiata, a chi la governa... Qui richiama Babele
(la grande città con la torre alta fino al cielo) o Babilonia, la città che aveva distrutto Gerusalemme
e il tempio. Ninive diventa il simbolo di ogni potere assoluto che sfida Dio, perché vuole dominare
il mondo con la violenza e l’ingiustizia.
Tarsis è citata nella Bibbia come una città lontana, oltre le colonne d’Ercole, situata nella direzione
opposta a quella della Mesopotamia. Diventa simbolo di una fuga senza ritorno.
La missione affidata a Giona è quella di proclamare che Dio conosce il male che avviene a Ninive.
È un compito generico, senza accuse precise, fatti concreti, persone da ammonire. Esprime il dovere
per ogni credente di denunciare il male commesso dalle persone e dal potere dominante, di
proclamare che Dio non è indifferente a ciò che succede nel mondo. Agli Ebrei richiamava vari testi
biblici: il sangue di Abele che grida dalla terra (Gn 4,10); le accuse contro Sodoma e Gomorra
arrivate fino in cielo (Gn 18,20); il lamento degli Ebrei schiavi in Egitto ascoltato da Dio (Es 2,24);
il pianto degli esuli a Babilonia (Sal 137). Forse qui si riferisce ancora più direttamente alle parole
del profeta Naum (nelle Bibbie il suo libro è collocato vicino al libro di Giona), in particolare sulla
distruzione di Ninive, preannunciata nel capitolo terzo (3,1-11) ed avvenuta poi effettivamente nel
612 a.C.
I marinai della nave che compiono la lunghissima traversata fin oltre le colonne d’Ercole sono
descritti come persone di religioni diverse. Nonostante la loro fama, sono timorati di Dio, in ricerca
della verità, desiderosi di capire ciò che succede, attenti a ciò che dice Giona, onesti, laboriosi,
disinteressati, desiderosi della salvezza, pronti a credere nel Dio che quell’ebreo, suo malgrado, sta
loro annunciando. Sono troppo perfetti per essere veri! Simboleggiano i popoli pagani in mezzo ai
quali gli Ebrei vivevano e con i quali erano chiamati a rapportarsi, superando le paure che nutrivano
nei loro confronti.
Dal profondo a te grido Signore … (Giona 2,1-11)
Ma il Signore dispose che un grosso pesce inghiottisse Giona; Giona restò nel ventre del pesce tre
giorni e tre notti. Dal ventre del pesce Giona pregò il Signore, suo Dio, e disse: “Nella mia
angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha risposto; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai
ascoltato la mia voce. Mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare, e le correnti mi hanno
circondato; tutti i tuoi flutti e le tue onde sopra di me sono passati. Io dicevo: “Sono scacciato
lontano dai tuoi occhi; eppure tornerò a guardare il tuo santo tempio”. Le acque mi hanno
sommerso fino alla gola, l’abisso mi ha avvolto, l’alga si è avvinta al mio capo. Sono sceso alle
radici dei monti, la terra ha chiuso le sue spranghe dietro a me per sempre. Ma tu hai fatto risalire
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dalla fossa la mia vita, Signore, mio Dio. Quando in me sentivo venir meno la vita, ho ricordato il
Signore. La mia preghiera è giunta fino a te, fino al tuo santo tempio. Quelli che servono idoli falsi
abbandonano il loro amore. Ma io con voce di lode offrirò a te un sacrificio e adempirò il voto che
ho fatto; la salvezza viene dal Signore”. E il Signore parlò al pesce ed esso rigettò Giona sulla
spiaggia.
Alcune concretizzazioni per noi
Negli abissi del male: Il mare nella Bibbia è simbolo del male, del peccato, della disperazione,
dell’impotenza dell’uomo. È il regno della morte, il potere del maligno. Giona è arrivato a toccare il
fondo per la sua infedeltà a Dio e a se stesso, per aver cercato di fuggire dalle responsabilità della
vita e dalla coerenza con la fede. Gli abissi del mare, dove regnano le tenebre e l’assoluto silenzio,
richiamano quell’esperienza spirituale che i mistici hanno descritto come “la notte dello spirito”.
Molte persone la sperimentano quando il dolore, la tentazione, l’aridità dell’animo bussano alla
porta del loro cuore. È l’esperienza di Abramo di fronte al sacrificio del figlio Isacco; di Giacobbe
nella notte di lotta con l’angelo; di Mosé di fronte alla roccia; di Elia in fuga nel deserto; di Geremia
gettato nel pozzo; di Giovanni Battista nella prigione di Erode; di Gesù nell’orto e sulla croce; di
Paolo nei tanti anni di prigionia; di Francesco a La Verna; di Gandhi nei suoi digiuni; di Madre
Teresa a Calcutta… È l’esperienza, più o meno drammatica, di ogni persona nei momenti di prova,
di dubbio, di deserto. Ma anche negli abissi più profondi del male Dio si fa trovare! Nessun luogo,
nessun tempo, nessuna tempesta, disgrazia, prova o fallimento umano possono impedire a Dio di
amarci e di esserci vicino, come compagno di viaggio silenzioso ma fedele (Rom 8,35-39). Dio non
si dà per vinto di fronte al male e al peccato dell’uomo. Manda sempre dei segni (delle persone,
degli incontri, una parola che non ti aspetti, un gesto di tenerezza…) per far rinascere serenità e
fiducia. Spesso è proprio dagli abissi del male e della disperazione che fiorisce la speranza e la lode
gioiosa del credente.
Un canto di lode: La preghiera di Giona è il punto di arrivo di un cammino di conversione che
parte dalla richiesta di perdono (qui non espressa) e giunge alla lode per la salvezza sperimentata.
Così la pace ritorna nel cuore e, con essa, la forza di rialzarsi in piedi e credere. Nel silenzio e nel
dialogo con Dio anche la prova – se non ci si dà per vinti di fronte alla propria debolezza e si
continua a lottare per non lasciarsi travolgere dalla sua forza distruttiva - può diventare
un’occasione di salvezza, un tempo di crescita umana e spirituale: Tutto concorre al bene, per quelli
che amano Dio (Rom 8,28). Quale esperienza di fede (o di ribellione) viviamo nei tempi di prova?
Alcune persone cedono alla tentazione di chiudersi nel loro dolore o di scaricarne il peso sugli altri;
altre cercano di attenuare la sofferenza stordendosi nel fare o in mille forme di evasione; altre
ancora si rivolgono ai santi (o ai maghi) sperando di ottenere un miracolo, una grazia o almeno una
veloce consolazione che faccia sparire il male e liberi dalla prova. Noi abbiamo imparato a pregare
nei momenti di sofferenza del corpo e dello spirito? Da quali sentimenti nasce e come si esprime la
nostra preghiera? A chi ci rivolgiamo? È solo richiesta di aiuto, domanda di perdono, grido accorato
o sa anche diventare preghiera di affidamento, richiesta di luce, lode e gioia di una presenza vicina e
ritrovata?
Il segno di Giona: Mt 12,39-42 e Lc 11,29-32 parlano di Gesù che fa riferimento al segno di
Giona. Più precisamente: in Luca il segno di Giona riguarda tutta la vita di Cristo, che diventa un
segno di contraddizione per spingere gli Ebrei alla conversione, a riconoscere in lui il volto
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misericordioso del Padre. In Matteo, invece, il segno di Giona richiama in modo particolare la
morte-resurrezione di Gesù, simboleggiata dai tre giorni di permanenza nel ventre del pesce. In
ambedue gli evangelisti risalta l’affermazione: Ed ecco, qui vi è uno più grande di Giona. Giona,
infatti, è simbolo di Cristo più per opposizione che per somiglianza: la discesa (kenosi) di Giona è
per disperazione, mentre quella di Cristo è per condivisione; Ninive si converte, mentre
Gerusalemme rifiuta; Giona è un profeta recalcitrante, mentre Gesù è sempre stato pienamente
obbediente al Padre. Il messaggio però è uguale: accogliere l’annuncio dell’amore misericordioso di
Dio verso tutti gli uomini che lo cercano e si affidano a Lui con cuore di figli. Nella sua
testardaggine di ebreo tradizionalista, ma nella sua profonda umanità di credente tormentato, anche
Giona ha preparato la via a Gesù. Quello che però deve farci riflettere - come singoli credenti e
come Chiesa veronese - è il contesto dal quale nasce il riferimento al segno di Giona: Mentre le
folle si accalcavano, Gesù cominciò a dire: “Questa generazione è una generazione malvagia;
essa cerca un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona” (Lc 11,29). Anche
oggi la gente corre ad acclamare persone che hanno carisma, fama o ruoli di potere; si accalca per
vedere presunti miracoli, apparizioni, fatti straordinari; fa salire gli indici di ascolto di trasmissioni
che promettono emozioni forti o di svelare segreti… Il tanto decantato “ritorno della spiritualità”
nella società secolarizzata a cosa è legato? A quali bisogni risponde e che persone coinvolge? In
quali forme si esprime e verso cosa si indirizza? Da sempre gli uomini cercano miracoli, fatti di
potenza, eventi straordinari per credere al Dio Onnipotente e sperare di averne qualche beneficio
personale. Anche Gesù, Maria e i Santi a volte sono trasformati in talismani contro il male o in
messaggeri di lacrime e sangue. Se questa strada risponde a un bisogno profondamente umano di
sicurezza, di consolazione, di vicinanza e sostegno nella fatica di vivere, la proposta di Gesù è
diversa e molto più impegnativa: Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò
ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e
troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero (Mt 11,28-30).
Gesù ci invita a seguirlo sulla via della croce, sulla via del servizio umile e disinteressato. Seguire il
suo esempio nella scelta di spendere la vita nell’amore a Dio e ai fratelli, abbandonandoci con
fiducia nelle mani del Padre e attingendo da Lui la forza per superare tutte le prove, anche le più
tenebrose e angoscianti. Il segno di Giona indica ad ogni cristiano - e alla Chiesa nel suo insieme -
la via dell’abbassamento e del servizio, non quella dei miracoli e della gloria.
Ognuno di converta dalla sua violenza (Giona 3,1-10)
Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore: ”Àlzati, va’ a Ninive, la grande
città, e annunzia loro quanto ti dico”. Giona si alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore.
Ninive era una città molto grande, larga tre giornate di cammino. Giona cominciò a percorrere la
città per un giorno di cammino e predicava: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”. I
cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli.
Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si
mise a sedere sulla cenere. Per ordine del re e dei suoi grandi fu poi proclamato a Ninive questo
decreto: “Uomini e animali, armenti e greggi non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua.
Uomini e animali si coprano di sacco, e Dio sia invocato con tutte le forze; ognuno si converta
dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. 9Chi sa che Dio non cambi, si
ravveda, deponga il suo ardente sdegno e noi non abbiamo a perire!”. Dio vide le loro opere, che
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cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva
minacciato di fare loro e non lo fece.
Alcune concretizzazioni per noi
Una seconda volta: Dio rinnova la sua chiamata a Giona nonostante la fuga precedente. Dio ridà
sempre fiducia alle persone, al di là degli errori e delle debolezze, al di là dei limiti e dei tradimenti,
perché Dio ha fiducia nell’uomo ed è misericordioso sempre, verso tutti, anche verso i più riottosi.
La missione è sempre la stessa: denunciare il male; lanciare un invito alla conversione; dare una
possibilità di cambiamento (quaranta giorni); far intravedere una speranza per il futuro; fondare la
società sul primato dei valori dello spirito, sul rispetto di ogni persona e di ogni essere vivente. Dio
porta avanti il suo progetto di salvezza e non si lascia scoraggiare dalla pervicacia dell’uomo.
Quella di Giona è un’esperienza che si è ripetuta molte volte nella storia del Cristianesimo: gli stessi
apostoli hanno abbandonato Gesù, ma poi hanno continuato la sua missione; i primi cristiani, che
avevano tradito durante le persecuzioni, poi sono ritornati a dare testimonianza della fede. Così i
grandi convertiti della storia della Chiesa, di quella passata ma anche di quella più recente. È
un’esperienza che ritorna di attualità anche oggi e interroga le comunità cristiane sullo stile di
accoglienza e sui contenuti da privilegiare nell’impegno per un “secondo annuncio” del Vangelo ai
battezzati che hanno abbandonato da tempo la pratica religiosa e vogliono riprendere un cammino
di riscoperta della misericordia di Dio.
La grande città si converte: Giona annuncia quello che gli Ebrei si auguravano di vedere da tanto
tempo e che credevano fosse il compito del futuro Messia: la distruzione delle nazioni pagane e il
trionfo del regno d’Israele. Se Dio, Signore del mondo, è Giusto e Onnipotente non può non punire
chi fa il male e premiare chi gli è fedele. Questo dicono tutte le religioni e così Dio deve
comportarsi! Questo pensava Giona e si sentiva orgoglioso nell’essere il portavoce di un Dio giusto
e inflessibile. Altrimenti che vantaggio c’era a credere, ad essere membro attivo del popolo eletto?
La religione serve per tenere a freno il male con la minaccia del castigo e la promessa di un premio
eterno. Solo la paura e la sottomissione possono far vivere rettamente gli uomini. Chi fa il male, chi
adora falsi dèi, chi trasgredisce le leggi, chi rivendica autonomia di pensiero e di scelte in nome
della libertà di coscienza, si taglia fuori da ogni possibilità di salvezza. Solo i giusti meritano il
premio! Così la pensava Giona. Forse la pensano così anche molti cristiani e molte persone religiose
legate all’idea del Dio Giudice severo e implacabile; all’inferno pieno di dannati da tormentare; alla
giustizia come punizione del male fatto; alla condanna di chi ha sbagliato come rivincita per chi si è
comportato bene. Invece i peccatori incalliti si convertono; i simboli di ogni nefandezza fanno
penitenza e cambiano vita; i miscredenti propugnano la difesa dei valori morali; gli atei difendono
la libertà religiosa… Per alcuni la minaccia del castigo si trasforma in una benedizione e nella gioia
di un’esperienza nuova. Ma, cosa ancora più incredibile per un credente tradizionale, Dio stesso
cambia atteggiamento verso quei miscredenti e si mostra benevolo, magnanimo, mite,
misericordioso. Il paradosso è evidente nella prontezza e nella totalità di questa conversione, ma la
preghiera di intercessione di Abramo per Sodoma (Gn 18, 22-33) ci ricorda che Dio avrebbe
perdonato anche se solo poche persone si fossero convertite. Lui è Dio e perdona per
sovrabbondanza d’amore, non per i meriti dell’uomo.
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Ti sembra giusto essere così sdegnato? (Giona 4,1-11)
Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu sdegnato. Pregò il Signore: “Signore, non era forse
questo che dicevo quand’ero nel mio paese? Per questo motivo mi affrettai a fuggire a Tarsis;
perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore e che ti ravvedi
riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire
che vivere!”. Ma il Signore gli rispose: “Ti sembra giusto essere sdegnato così?”. Giona allora
uscì dalla città e sostò a oriente di essa. Si fece lì una capanna e vi si sedette dentro, all’ombra, in
attesa di vedere ciò che sarebbe avvenuto nella città. Allora il Signore Dio fece crescere una pianta
di ricino al di sopra di Giona, per fare ombra sulla sua testa e liberarlo dal suo male. Giona provò
una grande gioia per quel ricino. Ma il giorno dopo, allo spuntare dell’alba, Dio mandò un verme
a rodere la pianta e questa si seccò. Quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un vento
d’oriente, afoso. Il sole colpì la testa di Giona, che si sentì venire meno e chiese di morire, dicendo:
“Meglio per me morire che vivere”. Dio disse a Giona: “Ti sembra giusto essere così sdegnato per
questa pianta di ricino?”. Egli rispose: “Sì, è giusto; ne sono sdegnato da morire!”. Ma il Signore
gli rispose: “Tu hai pietà per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu
non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita! E io non dovrei avere
pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non
sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?”.
Concretizzazioni per noi
Ne sono sdegnato da morire!: La rabbia e lo sdegno di Giona nascono dal fatto che viene
confermato il suo timore su Dio e sulla nuova sensibilità religiosa maturata dopo l’esperienza
tragica dell’esilio: Dio è presente in tutti i popoli e ci sono dei veri credenti all’interno di ogni
cultura e religione! Gli Ebrei sono perciò chiamati a dialogare con ogni persona e a riconoscere il
bene presente in ogni tradizione religiosa. Per l’Ebraismo questa apertura universalistica diventava
una svolta epocale! Lo stesso cambiamento di mentalità è stato chiesto alla Chiesa Cattolica con la
riforma liturgica, l’apertura ecumenica, il dialogo interreligioso, l’attenzione ai valori della cultura
moderna portati dal Concilio Vaticano II. Come Giona, anche molti cristiani legati alla mentalità
tradizionale hanno reagito risentiti a queste novità e si chiedono: a cosa serve allora essere
battezzati, andare in chiesa regolarmente e osservare i comandamenti; predicare, fare catechismo e
invitare tutti a credere in Cristo; darsi tanto da fare per gli altri, mandare persone in missione e
insistere perché si viva rettamente? Se Dio è presente in ogni religione; se Lui salva tutti; se
perdona gratuitamente e non vuole che alcuno si perda… allora che vantaggio c’è a essere praticanti
devoti, a osservare con scrupolo le leggi, a seguire le direttive della Chiesa? Tanto vale fare la bella
vita, cercare i propri interessi, pensare solo a se stessi. Questo dicono molti cristiani e lo sostengono
con forza davanti a chi ha commesso qualche delitto, a chi trasgredisce le regole morali, a chi
pratica un’altra religione o è indifferente alla fede: qui in terra (ma poi anche in cielo) deve esserci
una chiara condanna per chi fa il male e un premio per chi fa il bene.
Un Dio diverso dai nostri schemi: Il vero protagonista del libro di Giona è Dio. È Lui che muove
le fila di tutta la storia e sue sono le parole con cui si conclude. Ma Dio è un protagonista nascosto,
che resta sempre dietro le quinte, perché Lui è più grande dell’uomo e non deve mai essere ridotto a
una delle comparse della sua storia di dannazione o di salvezza. Quando gli uomini hanno voluto
catturare Dio nei loro schemi filosofici, teologici, religiosi, lo hanno trasformato in un idolo, fatto a
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loro immagine e somiglianza. A Dio è stato dato il volto del potere ed è diventato causa di infinite
violenze e sofferenze, fonte di discriminazioni e privilegi, protettore dei ricchi e dei potenti, oppio
dei poveri e dei sofferenti. Un Dio piccolo e meschino, affamato di preghiere e di sacrifici,
ossessionato dal sesso e dalle eresie, smanioso di punire chi non si sottometteva docilmente al
giudizio sancito dai suoi rappresentanti. Un Dio rivestito d’oro e di drappi preziosi; acclamato come
un re e temuto come un tiranno; ridotto alla stregua di uno sponsor da esibire nelle dispute politiche,
economiche, scientifiche, morali… Il Dio che, discretamente, sta dietro le quinte, ma si preoccupa
della grande città e si prende a cuore la sorte dei suoi abitanti, è un Dio diverso da quello in cui
crede Giona e che predicano le istituzioni religiose teocratiche. È un Dio misterioso e invisibile, ma
insieme vicino alle persone; un Dio che è oltre ogni umana rappresentazione, ma che non disdegna
di mostrarsi con il volto di un padre e di una madre, di un fratello e di un ospite, di uno sposo e di
un amico, di un amante e di un amato, di un povero, di un sofferente, di un malato, di un carcerato,
di un servo e dell’ultimo degli schiavi. Giona rifiuta di cambiare idea su Dio, scalpita, si arrabbia.
Difende le sicurezze teologiche e lo stile di vita tradizionali del suo popolo. Vuole restare profeta
del castigo e delle sicurezze morali, del Dio della Legge e degli Eserciti, del Dio Re e Giudice.
Rifiuta di diventare il profeta gioioso del Dio del perdono, della pace, della fraternità universale.
Non è il vangelo che vuole portare, ma la spada! Noi, Chiese cristiane del terzo millennio, che Dio
stiamo annunciando agli uomini e alle donne del nostro tempo e alle nuove generazioni che stanno
crescendo? Rimaniamo chiusi nella torre d’avorio delle nostre certezze teologiche, dell’uniformità
centralista, delle nostre pratiche tradizionali, delle nostre chiese sempre più vuote, o ci facciamo
testimoni gioiosi del Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore che ci ha
testimoniato l’umanissimo e sorprendente libro di Giona?
GESÙ: LO STILE NUOVO DEL MISSIONARIO
È la sua figura, il suo modo di presentarsi e la sua metodologia che occupa adesso la nostra
attenzione: in Lui, infatti, sappiamo di trovare l’origine della missione apostolica (cf A.VANHOYE,
Le origini della missione apostolica nel Nuovo Testamento, in La Civiltà Cattolica 141 (1990) 544-
558).
Gesù non ha fatto il missionario all’estero: L’idea abituale di missionario ci porta a pensare ad
una persona che lascia la propria terra per andare in paesi lontani ad annunciare e testimoniare la
propria fede a popoli che ancora non la conoscono. In questo senso Gesù non è stato missionario.
Egli è sempre rimasto nel suo paese fra i suoi connazionali e non ha espresso la consapevolezza di
voler personalmente compiere la sua missione fra le nazioni pagane. Gli è accaduto qualche volta di
uscire dal territorio di Israele, ma in quei casi non predicava e cercava piuttosto di passare
inosservato (Mc 7,24: “Andò nella regione di Tiro e di Sidone e non voleva che nessuno lo
sapesse”). Un giorno, mentre si trovava nella regione di Tiro e di Sidone, secondo la narrazione di
Matteo, Gesù dichiarò ai suoi discepoli: “Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa
di Israele” (Mt 15,24). Una frase simile esclude decisamente un impegno di missione all'estero. In
un’altra occasione (Mt 23,15) Gesù, rimproverando scribi e farisei, fa allusione al loro grande
impegno per fare un solo proselito e non esprime affatto l’intenzione di imitarli.
Gesù è impegnato in un’attività missionaria: Tuttavia Gesù si è mostrato cosciente di un’urgenza
missionaria e ha vissuto nella propria vita l’impegno di raggiungere le persone e di annunciare loro
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l’intervento di Dio. A differenza di Giovanni Battista, Gesù ha concepito la sua missione
evangelizzatrice in modo molto dinamico.
Gesù, sebbene abbia iniziato anch’egli nel deserto, adotta uno stile di vita e di ministero
completamente diverso: egli va dove vive la gente. Abbandona la piccola Nazaret, per stabilirsi a
Cafarnao, un autentico porto di mare, cittadina ricca di movimento e visitata da un gran numero di
persone (Mt 4,13; Mc 1,21). Ed inizia la sua predicazione proprio là dove la gente si riunisce
abitualmente: al sabato in sinagoga (Mc 1,21). Ha molto successo, tutti lo cercano: Cafarnao
diventa ben presto un polo di attrazione, ma non si trasforma in un centro religioso. Gesù è chiaro
nel suo programma ministeriale: “Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi
anche là: per questo infatti sono venuto!” (Mc 1,38). Le folle rischiano di diventare possessive:
quando lo raggiungono, vogliono trattenerlo perché non se ne vada via da loro; ma Gesù è sicuro e
irremovibile: “Bisogna che io annunzi il regno di Dio anche alle altre città: per questo sono stato
mandato” (Lc 4,43). Gesù è cosciente di essere stato mandato, quindi di avere una missione: quella
di predicare e di annunciare il regno di Dio. Tale missione egli la svolge in modo itinerante,
accostando la gente proprio là dove abita, senza aspettare che accorra da lui. Così si esprimono i
sommari della sua attività: “Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro
sinagoghe, predicando la buona notizia del Regno e curando ogni malattia e infermità” (Mt 9,35).
Gesù annuncia il Regno di Dio con la vita: oltre al contenuto del ministero di Gesù, cioè l’oggetto
della sua predicazione, è importante il modo con cui annuncia il messaggio del Regno.
L’evangelista Marco presenta il messaggio di Gesù con una frase sintetica che riassume il contenuto
della sua missione: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al
Vangelo” (Mc 1,15).
L’annuncio fondamentale di Gesù è dunque la vicinanza del Regno di Dio. L’attesa di Israele sta
per essere soddisfatta; l'intervento di Dio, a lungo aspettato ed invocato, si sta realizzando. Gesù
annuncia che Dio, in quanto Re dell’universo, entra direttamente nella storia dell’uomo e la
trasforma dal profondo; nella persona stessa di Gesù Dio è all’opera per cambiare il mondo. Questa
è la buona notizia. Di fronte ad essa ognuno deve cambiare mentalità, fidarsi di questa parola ed
accoglierla con entusiasmo.
I gesti prodigiosi di benevolenza che Gesù compie nei confronti di chi è oppresso dal male e dalle
malattie sono i segni dell’irruzione del Regno. Gesù si mette per strada, incrocia i volti delle
persone, le guarda negli occhi, li tocca e piange con loro. Gesù nei suoi gesti pone l’efficacia del
Regno. Ai messaggeri del Battista, infatti, viene dato l’incarico di riferire ciò che essi stessi hanno
visto, cioè la realizzazione delle opere straordinarie annunciate dall'antico profeta (Gesù cita le
espressioni di uno splendido poema apocalittico contenuto nel libro di Isaia: Is 35,5-6; Cf Mt 11,2-6
e Lc 7,18-23) come la manifestazione gloriosa del giorno in cui Dio avrebbe compiuto il suo
intervento definitivo. I miracoli sono dunque il segno che il tempo è compiuto.
Gesù realizza la missione del “Servo”: Il messaggio di Gesù e le sue opere mostrano l’universale
apertura dell'intervento divino ed il suo comportamento rivela con chiarezza una volontà di
comunicazione e di comunione con tutti. A differenza dei farisei che predicano e difendono un
atteggiamento religioso all’insegna della separazione, Gesù abbatte coraggiosamente ogni tipo di
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barriera: accoglie piccoli e grandi, poveri e ricchi, malati, lebbrosi e indemoniati, stranieri e persone
di cattiva reputazione.
L’evangelista Matteo, presentando in sintesi il ministero di Gesù, cita due volte una frase tratta dai
poemi dell'AT che presentano la figura del “Servo di JHWH” e con tale sistema egli intende
mostrare come la missione di Gesù sia il compimento dell'antica profezia.
Nella sezione dei miracoli Matteo inserisce questo breve sommario: “Venuta la sera gli portarono
molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la sua parola e guarì tutti i malati, perché si
adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: Egli ha preso le nostre infermità e si è
addossato le nostre malattie” (Mt 8,16-17; citazione di Is 53,4).
Dato che sono i malati ad aver bisogno del medico ed il medico è all'opera, i miracoli sono dunque i
segni della redenzione e nello stesso tempo annunziano i tempi nuovi del dialogo tra Dio e l'uomo.
La figura del “Servo” mette in risalto la solidarietà di Gesù con i malati e i peccatori, la sua con-
divisione e la sua com-passione: autentico missionario, egli si è messo dalla parte degli ultimi e li ha
liberati soffrendo con loro. Poco più avanti Matteo ritorna su questo tema. In un momento critico
della sua missione, mentre i farisei tengono consiglio contro di lui per toglierlo di mezzo, Gesù si
ritira in disparte; la folla tuttavia lo segue “ed egli guarì tutti, ordinando loro di non divulgarlo,
perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta Isaia:
Ecco il mio servo che io ho scelto;
il mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto.
Porrò il mio spirito sopra di lui
e annunzierà la giustizia alle genti.
Non contenderà, né griderà,
né si udrà sulle piazze la sua voce.
La canna infranta non spezzerà,
non spegnerà il lucignolo fumigante,
finché abbia fatto trionfare la giustizia;
nel suo nome spereranno le genti” (Mt 12,15-21; citazione di Is 42,1-4).
La lunga citazione descrive ciò che Gesù, Servo di Dio, non intende fare: anziché presentarsi
potente e battagliero, prestigioso e influente, preferisce mostrarsi dolce e accogliente con tutti; non
vuole una vittoria conquistata con ingente quantità di mezzi, ma un'accoglienza ottenuta con la sola
forza dell'amore. Il suo stile è quello della valorizzazione di ogni persona, anche di chi è debole e
insignificante come una canna spezzata o uno stoppino che sta per spegnersi. Il riconoscimento del
valore positivo che è presente in ogni persona è il metodo missionario di Gesù (cf M. ORSATTI, Lo
stile e il metodo missionario di Gesù, in Parole di Vita 35 (1990) 166-173): in questo senso egli è
passato facendo del bene a tutti (At 10,38) e costituendo la migliore delle basi per la missione
apostolica che, dopo la Pasqua, sarà rivolta a tutte le genti.
Gesù sceglie i dodici e li invia per una missione permanente: L’intenzione di “inviare” i Dodici,
espressa al momento della loro istituzione, viene attuata da Gesù qualche tempo dopo. È un dato
sicurissimo della tradizione evangelica il fatto che Gesù abbia mandato gli apostoli in missione
prima della sua Pasqua: forse non fu un evento unico, ma potè tranquillamente ripetersi più volte in
diverse circostanze , divenendo quasi un metodo pastorale. Le tradizioni sinottiche conservano
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istruzioni molto arcaiche fornite da Gesù in occasione del primo invio: è chiaro infatti che
quell'esperienza assunse per gli apostoli un particolare risalto e fu conservata nella memoria e
tramandata alle nuove generazioni, anche se ormai gli eventi pasquali avevano cambiato
radicalmente la situazione (cf V. FUSCO, Dalla missione di Galilea alla missione universale. La
tradizione del discorso missionario (Mt 9,35-10,42; Mc 6,7-13; Lc 9,1-6; 10,1-16), in Ricerche
storico bibliche 2 (1990) 101-125).
Esaminiamo dapprima gli elementi comuni di questa tradizione. Si tratta di un discorso missionario
che offre direttive di comportamento secondo le varie fasi dell'attività, cioè la partenza, l’arrivo in
una determinata località e poi la partenza da essa. Gesù offre precise direttive sull'equipaggiamento,
con l’esclusione di ogni scorta, direttive sull'alloggio, con la proibizione di cambiarlo, ed infine
norme di comportamento in caso di accoglienza negativa, col gesto di scuotere via la polvere.
Agli inviati viene prescritta una serie di gesti e comportamenti alquanto vistosi e sorprendenti:
evidentemente riflettono la predilezione di Gesù per un linguaggio simbolico e gestuale e quindi
vogliono di sicuro significare qualche cosa. Necessariamente, però, devono essere rispettate alla
lettera. E nella situazione storica di Gesù erano praticabili. Esse presuppongono, infatti, un territorio
ben preciso: prevalentemente rurale, disseminato di piccoli centri abitati non molto distanti l'uno
dall'altro, tra i quali ci si può spostare a piccole tappe, sempre a piedi, puntando esclusivamente
sull'ospitalità, senza bisogno di rifocillarsi prima di giungere a destinazione.
Il comportamento richiesto ai missionari diventa una predicazione vivente e si inserisce
nell'annuncio escatologico del Regno, cioè nella proclamazione dell'intervento definitivo di Dio: si
passa dal futuro al presente; i profeti annunciavano la grande mietitura che Dio avrebbe compiuto
“in quel giorno” ed ora gli apostoli sono gli operai che la realizzano (Mt 9,37-38 e Lc 10,2; per
l’immagine della mietitura vedi Gl 4,13; Ap 14,14-16; Gv 4,35-38). Essi dunque devono
rappresentare drammaticamente l’urgenza della missione e l'assoluta fiducia in Dio che realizza il
suo Regno. Le direttive sull’equipaggiamento, infatti, non prevedono la rinuncia al superfluo, ma a
ciò che è più necessario; chiedono di far a meno proprio di quei beni che potrebbero essere d'aiuto
alla missione. Dal punto di vista di efficienza operativa, i sandali, il bastone, la borsa e la bisaccia
con un po' di cibo, non sarebbero affatto un impedimento, anzi potrebbero aiutare ad andare più
lontano, guadagnare tempo, raggiungere più gente.
Evidentemente nella missione di Galilea Gesù voleva che i suoi missionari fossero un “segno”.
Per ricostruire le origini della missione cristiana e per definire le sue caratteristiche essenziali è
fondamentale quindi lo studio del discorso missionario sinottico: Mt 9,35-10-42; Mc 6,7-13; Lc
9,1-6; 10,1-16. Un discorso che rivela la presenza di due fonti: quella rappresentata dal testo di Mc,
e quella che si può rintracciare in quello di Mt e Lc (la cosiddetta fonte Q), relativamente a quanto
presentano in aggiunta rispetto a Mc. Queste due fonti hanno alla base uno schema comune, con i
vari momenti dell’attività missionaria: partenza, arrivo in una località, congedo. Inoltre vi
ritroviamo alcune istruzioni sull’equipaggiamento, sull’alloggio, sul comportamento in caso di
accoglienza negativa. Sembra che Mc abbrevi e accomodi, rispetto alla fonte attestata da Mt-Lc,
certe norme a motivo dell’allargamento del campo missionario in cui lavora: è consentito portare le
calzature e il bastone. La versione attestata da Mt-Lc va ritenuta dunque più antica di quella
attestata da Mc. Dall’analisi dei quattro discorsi gli studiosi concludono che esiste un nucleo di
24
direttive risalenti allo stesso Gesù, che vanno ritenute valide e fondative sempre, in ogni contesto
missionario, proprio perché rimangono attestate nelle redazioni evangeliche. Sempre secondo V.
Fusco, il senso delle direttive del maestro nel contesto del suo ministero terreno si racchiude in tre
motivi fondamentali43
:
a) Il motivo simbolico-gestuale, la preoccupazione che nella vita del missionario venga
espresso uno stile evangelico, affine a quello dei profeti: come vestirsi ed equipaggiarsi per
il viaggio, come comportarsi negli incontri lungo la via, come salutare arrivano nelle case,
come congedarsi da chi lo respinge. I discepoli non parlano solo con la predicazione, ma col
loro modo di presentarsi, con la vita; tutta la loro azione assume una portata “testimoniale”.
b) Il motivo escatologico. La venuta del regno di Dio fa da orizzonte a tutto il discorso di
Gesù. C’è una profonda coerenza tra i contenuti dell’annunzio, le sue modalità concrete, le
esigenze che esso pone ai suoi portatori.
c) Il motivo teologico. È che Dio assiste con il suo equipaggiamento i missionari: l’efficacia
della parola; il dono di fare miracoli. Dio non abbandonerà i suoi inviati e per questo essi
non devono portare con sé qualcosa che serva per il futuro. Dio avrà particolare cura di loro,
perché la predicazione del vangelo è cosa sua e non potrà essere bloccata.
Maria di Magdala: l’apostola degli apostoli. La prima missionaria.
Da sempre icona della predicazione ascetica e della storia dell’arte, ai nostri giorni è diventata
protagonista anche della fiction cinematografica (Martin Scorsese) e della letteratura d’evasione
(Dan Bro n). Eppure Maddalena è citata solo dodici volte nei vangeli canonici e mai da san Paolo e
dagli altri agiografi neotestamentari: ma quei pochi versetti evangelici sono stati sufficienti per
scatenare l’immaginazione di teologi, predicatori, padri spirituali, eretici, pittori, romanzieri, registi,
costruendo un mito che acquista sempre più vigore.
A tale potenziamento ha contribuito di recente l’autorevole decreto della Congregazione per il culto
divino del 3 giugno scorso mediante cui la celebrazione di Maria Maddalena, fino ad allora solo
“memoria” viene elevata al grado di “festa”, il medesimo riservato ai dodici apostoli. Il motivo di
questa decisione, dietro cui ovviamente c’è l’esplicito volere di papa Francesco, è indicato dallo
stesso documento: “La decisione si inscrive nell’attuale contesto ecclesiale, che domanda di
riflettere più profondamente sulla dignità della donna, la nuova evangelizzazione e la grandezza del
mistero della misericordia divina”. In effetti già San Giovanni Paolo II aveva dedicato “una grande
attenzione non solo all’importanza delle donne nella missione stessa di Cristo e della Chiesa, ma
anche, e con speciale risalto, alla peculiare funzione di Maria di Magdala quale prima testimone che
vide il Risorto e prima messaggera che annunciò agli apostoli la risurrezione del Signore. Questa
importanza prosegue oggi nella Chiesa - lo manifesta l’attuale impegno di una nuova
evangelizzazione - che vuole accogliere, senza alcuna distinzione, uomini e donne di qualsiasi
razza, popolo, lingua e nazione, per annunciare loro la buona notizia del Vangelo”. Santa Maria
Maddalena viene dunque presentata come un esempio di “vera e autentica evangelizzatrice”, che
annuncia “il gioioso messaggio centrale della Pasqua”.
43
V. FUSCO, Dalla missione di Galilea alla missione universale, 111-119.
25
Spiega lo Schuster: «I Greci donano a Maria di Magdala il titolo glorioso di isapóstolos, perché essa
fu la prima che annunziò al mondo, anzi agli Apostoli stessi, la risurrezione del Signore. Per questo
nell’odierna messa si recita il Credo» (Liber sacramentorum, vol. VIII, Torino 1927, p. 94). Il titolo
di “apostola” in realtà è stato assegnato alla Maddalena già da Tommaso d’Aquino che la definisce
“apostola degli apostoli”, è sufficiente però dare un’occhiata alla vastissima iconografia per rendersi
conto che mai tale qualifica ha trovato finora un’applicazione reale nella concreta struttura
ecclesiastica. I dipinti infatti non la ritraggono mai nell’atto di annunciare agli apostoli rinchiusi per
paura l’avvenuta risurrezione di Cristo, ma in altre ben più tradizionali fattezze: piangente ai piedi
della croce, al sepolcro con il vasetto di mirra, mentre è tenuta a distanza dal Risorto che le dice
“Noli me tangere”, in estasi, in meditazione e soprattutto in veste di penitente con i lunghi capelli
disciolti e buona parte del corpo scoperto.
Il Papa ha preso questa decisione durante il Giubileo della Misericordia, spiega monsignor Roche
anch’egli firmatario del decreto, “per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande
amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata”. Maria di Magdala faceva parte del gruppo dei discepoli
di Gesù, lo aveva seguito fino ai piedi della croce e, nel giardino in cui si trovava il sepolcro, era
stata la prima testimone della resurrezione, ‘testis divinae misericordiae’, come la definisce
Gregorio Magno. Il Vangelo di Giovanni la descrive in lacrime, perché non aveva trovato il corpo
del Signore nella tomba: “Gesù ebbe misericordia di lei facendosi riconoscere come Maestro e
trasformando le sue lacrime in gioia pasquale”.
Si tratta, in altri termini, di una mossa per rafforzare il ruolo delle donne nella Chiesa. L’auspicio è
che tale promozione della Maddalena possa ispirare i più importanti cambiamenti nella struttura
ecclesiale aprendo la via a ciò che è il diaconato femminile: se infatti una donna è stata apostola,
anche le altre donne possono diventare per lo meno diaconesse!
Sguardo sintetico su Maria di Magdala
Una donna vicino a Gesù: Maria di Magdala è la discepola più vicina a Gesù. Colei che per prima lo
aveva riconosciuto come risorto ed è stata probabilmente la prima a credere alla risurrezione ed è
stata lei, una donna dal passato quantomeno tormentato ad annunciare agli apostoli il messaggio
dirompente del risorto. La vicinanza di Gesù alla Maddalena è comprovata dal fatto che in tutti i
quattro Vangeli canonici lei è sempre nominata per prima tra i pochi testimoni cui apparve il
Risorto. Maria però divenne famosa per la sua vita trascorsa e la redenzione ad opera di Gesù di cui
fu discepola: fu Gregorio Magno a identificarla come una ex prostituta convertita ma i Vangeli non
la descrivono così. Per la tradizione occidentale infatti, e ancora oggi per molte persone, Maria
Maddalena è la prostituta che bagna i piedi di Gesù con le sue lacrime e li asciuga con i suoi capelli.
I 12 versetti evangelici che ne parlano non consentono però tale identificazione, risalente a una
scorretta interpretazione di papa Gregorio Magno nel VI secolo e divenuta poi pressoché canonica.
Una donna che sostiene Gesù: Come si legge in Luca 8,2-3, si deve piuttosto ritenere che Maria,
detta Magdalena in quanto originaria della cittadina galilaica di Magdala, fosse una donna
benestante assuntasi il compito insieme ad altre di sostenere Gesù e i discepoli con i suoi beni come
riconoscenza per essere stata guarita da una grave malattia a cui il vangelo accenna dicendo che da
lei erano usciti sette demoni». Da allora la Maddalena seguì sempre Gesù, fino ai piedi della croce.
Il quarto vangelo giunge a dedicarle una scena tutta sua, nello struggente dialogo della mattina di
26
Pasqua in cui Gesù risorto per farsi riconoscere la chiama per nome: “Maria!” (Giovanni 20,16); e
poi la manda ad annunciare la risurrezione agli apostoli consacrandola per l’appunto “apostola degli
apostoli”.
Un provvidenziale scambio: la misericordia abilita sia la donna perbene che peccatrice: La
tradizione, ha scritto il cardinale Gianfranco Ravasi, ripetuta mille volte nella storia dell’arte e
perdurante fino ai nostri giorni, ha fatto di Maria una prostituta. Questo è accaduto solo perché nella
pagina evangelica precedente – il capitolo 7 di Luca – si narra la storia della conversione di
un’anonima “peccatrice nota in quella città”, colei che aveva cosparso di olio profumato i piedi di
Gesù, ospite in casa di un notabile fariseo, li aveva bagnati con le sue lacrime e li aveva asciugati
coi suoi capelli. Si era così, senza nessun reale collegamento testuale, identificata Maria di Magdala
con quella prostituta senza nome. Ora, questo stesso gesto di venerazione verrà ripetuto nei
confronti di Gesù da un’altra Maria, la sorella di Marta e Lazzaro, in una diversa occasione
(Giovanni 12, 1-8). E, così, si consumerà un ulteriore equivoco per Maria di Magdala: da alcune
tradizioni popolari verrà identificata proprio con questa Maria di Betania, dopo essere stata confusa
con la prostituta di Galilea».
Colei che lo ha seguito con amore, lo ha visto morire, lo ha cercato nel sepolcro e lo ha adorato
risorto:
Dal nuovo prefazio approvato in data 1 luglio 2016
Nel giardino Egli si manifestò apertamente
a Maria di Magdala,
che lo aveva seguito con amore
nella sua vita terrena,
lo vide morire sulla croce
e, dopo averlo cercato nel sepolcro,
per prima lo adorò risorto dai morti;
a lei diede l’onore di essere apostola per gli stessi apostoli,
perché la buona notizia della vita nuova
giungesse ai confini della terra.
Il corpo del prefazio fissa quindi l’attenzione su due azioni di Cristo: apparuit Mariae
Magdalenae… et honoravit eam apostolatus officio». Si dice, anzitutto, che dopo essere stato preso
per chi non è, Cristo si manifesta chiaramente a Maria nel giardino presso il sepolcro vuoto,
portandola a far memoria del passato alla luce dell’esperienza presente, riassunta in quattro verbi -
«dilexerat, viderat, quaesierat, adoraverat» - aventi per oggetto Colui che aveva amato da vivo, visto
morire in croce, cercato ormai deposto nel sepolcro, ed ora adorato risorto dai morti. Non sfugge la
scansione rimata dei riferimenti «viventem, morientem, iacentem, resurgentem». La fonte di tale
sequenza, con l’aggiunta nuova dell’ultimo termine, è un passaggio del De vita beatae Mariae
Magdalenae, attribuita a Rabano Mauro ma databile al sec. XII (unisce in una le tre Marie), che così
descrive lo sguardo credente della Maddalena: «crediditque indubitanter, quem videbat Christum
Filium Dei, verum esse Deum, quem dilexerat viventem; vere a mortuis resurrexisse, quem viderat
morientem; vere Deo Patri esse aequalem, quem quaesierat in sepulcro iacentem» (cap. XXVI, PL
112, 1474).
PAOLO DI TARSO “L’APOSTOLO DELLE GENTI”: UNA MISSIONE INTEGRALE E
UNIVERSALE
27
Paolo di Tarso, il più grande “apostolo” della Chiesa delle origini. Gli studiosi convengono che la
sua nascita si collochi tra il 5/10 d.C. Nel rivolgerci a lui vogliamo sfogliare, metaforicamente,
l’album fotografico della sua vita e riscoprire, attraverso dei flash, la vicenda di questo
impareggiabile testimone di Cristo. Paolo, un ebreo doc, appartenente alla tribù di Beniamino,
conosciuto inizialmente come Shaul, nome che ricorda la storia del primo re di Israele.
Successivamente, per le vie dell’impero si lascia incontrare come Paolo, nome dal suono più latino.
Infatti possiede la cittadinanza romana. È dunque un Ebreo, cittadino romano ma anche ellenista, di
cui utilizza il greco negli aeropaghi dove si raduna l’èlite e la gente di cultura per discutere. Molto
si è detto di lui, da alcuni definito secondo fondatore del cristianesimo, se non addirittura il primo,
filosofo ineguagliabile, per le sue famose lettere, al pari di Seneca, primo tra i grandi mistici e
primo grande missionario. Da altri liquidato come il “Lenin del Cristianesimo” e araldo di una
“cattiva novella”, causa dei principali difetti della teologia cristiana.44 Per noi, affermava
Benedetto XVI all’apertura dell’anno Paolino “non una figura del passato … ma nostro maestro,
apostolo … banditore di Cristo”. Due descrizioni iniziali, per avvicinarci all’Apostolo delle Genti:
Dante Alighieri nella Divina Commedia, ispirandosi al racconto di Luca negli Atti (cfr 9,15), lo
definisce semplicemente «vaso di elezione» (Inf. 2,28), uno strumento prescelto da Dio, mentre, San
Giovanni Crisostomo, primo grande innamorato della storia di San Paolo, in un famoso panegirico
afferma: “Una sola cosa cercava, l’Amore di Gesù”, e continuando, “Il cuore di Cristo era il cuore
di Paolo”. Noi che cosa cerchiamo? All’inizio di un nuovo anno, tutti si propongono degli obiettivi
da raggiungere. Cerchiamo con rinnovato entusiasmo l’Amore di Gesù, fondamento di ogni amore.
La prima fotografia che cattura la mia attenzione è il vedere il giovane Paolo assistere alla
lapidazione di Stefano, un discepolo di Gesù, predicatore della libertà dalla legge. Da questa
istantanea scorgiamo Paolo a Gerusalemme, educato alla scuola del grande Rabbì Gamaliele, nipote
del grande Rabbì Hillèl, secondo le più rigide norme del fariseismo nel grande zelo per la Toràh
mosaica (cfr. Gal 1,14; Fil 3,5-6; At 22,3; 23,6; 26,5). Dirà di sé stesso: “Nella fedeltà alla legge
ebraica superavo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel
sostenere le tradizioni dei miei padri” (Gal 1,14). Mosso da queste convinzioni avvertì nel nuovo
movimento suscitato da Gesù di Nazaret una minaccia per l’identità giudaica e la fedeltà ai Padri.
Da ciò si spiega il fatto che egli abbia fieramente “perseguitato la Chiesa di Dio”, come ammetterà
per ben tre volte nelle sue Lettere (1 Cor 15,9; Gal 1,13; Fil 3,6).
Sfogliando qualche altra pagina il mio sguardo si ferma su Paolo disarcionato da cavallo, sulla via
di Damasco. Una delle strade più famose della storia. Guidato dalla convinzione di difendere la
causa di Dio e custodire la verità della rivelazione, per contenere il diffondersi della nuova dottrina
cristiana. Accade qualcosa di sconvolgente. Dal Libro degli Atti degli Apostoli si apprende ciò che
è accaduto sulla via di Damasco: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” alla cui domanda: “Chi sei,
o Signore?” vien data la risposta: “Io sono Gesù che tu perseguiti” (At 9,4s). E’ l’incontro-impatto
con Gesù Cristo, fondatore dell’eresia che andava ricacciata e spenta. Paolo stesso ci rivela
l’esperienza vera e reale che lo ha colpito e di cui non potrà più far a meno: “Vivo nella fede del
Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). “Tutto ciò che Paolo fa parte
da questo centro – evidenziava Benedetto XVI nell’omelia dei Primi Vespri all’apertura dell’anno
Paolino – la sua fede è l’essere colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin
44
Cfr. G. RAVASI, Editoriale di Avvenire, 29 giugno 2008.
28
nell’intimo e lo trasforma. La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua
fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore. E così questa stessa fede è amore per Gesù
Cristo”. Tre volte gli Atti presentano questo episodio, evidentemente per sottolinearne l'importanza:
(At 9,1-19; 22,5-16; 26,9-18): per tutto il resto della sua vita egli si presenterà come uno che "ha
visto" il Signore. Paolo da quel momento, dall’incontro personale con Cristo, vive, soffre e muore
per il Vangelo e la sua Chiesa. Affermerà nella prima lettera a Timoteo: “Io ho ottenuto
misericordia”, da cui, dichiarerà la conseguente metamorfosi, “Per me vivere è Cristo, morire, un
guadagno” (Fil 1,21).
Andando più avanti, noto un’altra istantanea, Paolo seduto con i discepoli di Gesù, nell’atto del
dialogare. Paolo si siede insieme a Pietro e agli altri Apostoli. Si trova a Gerusalemme, nell’atto
di consultare i primi discepoli del Maestro, Pietro, Giacomo e Giovanni, che riconosce come “le
colonne della Chiesa” (Gal 1, 18-19; 2,9), e ricevere informazioni sulla vita terrena del Risorto, che
lo aveva "ghermito" sulla strada di Damasco e gli stava cambiando, in modo radicale, l'esistenza:
da persecutore nei confronti della Chiesa di Dio era diventato evangelizzatore di quella fede nel
Messia crocifisso e Figlio di Dio, che in passato aveva cercato di distruggere (cfr. Gal 1,23).
Colpisce il fatto che il persecutore della Chiesa si convertì, nel contempo, a Cristo e alla Chiesa. “A
Gesù si giunge – ricordava Benedetto XVI in un udienza del mercoledì – attraverso la Chiesa”. Sì,
perché la fede non nasce da una leggenda o una favola, ma dall’incontro reale con Cristo nella
Chiesa. È nella Chiesa primitiva che Paolo apprende ciò che sarà il nucleo del suo insegnamento
alle genti: morte e risurrezione di Cristo, il Kerigma, così definito dagli studiosi e l’Eucaristia, il
corpo di Cristo. La Chiesa per Paolo si edifica a partire da questo centro (cfr. 1Cor 11,23-25; 15,3-
5). Dalla consapevolezza che Cristo è morto per i nostri peccati, che per Paolo nell’Istituzione
eucaristica diventa il “per me” (Gal 2,20) ottenendoci la giustizia di Dio, si giunge al “per tutti”
(2Cor 5,14) cui è destinata la salvezza. E a cui ognuno deve sentirsi chiamato. Questa è la sorgente
dell’opera missionaria della Chiesa. Da ciò comprendiamo perché la Chiesa sia stata così presente
nella mente e nel cuore di Paolo, tanto da essere il fulcro della sua attività, suo centro e apice, tanto
da divenire fondatore e organizzatore di parecchie chiese (2Cor 11,28).
Un’altra istantanea ritrae Paolo davanti ad una decisione sofferta a favore della missione. Narra
Luca che, mentre i profeti e i dottori di Antiochia stavano celebrando il culto del Signore e
digiunando, lo Spirito Santo disse: “Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho
chiamati”. Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li accomiatarono (At
13,1-3). Il primo viaggio missionario di Paolo e Barnaba, secondo il libro degli Atti (13,4-14,28),
porta gli apostoli (è interessante notare che questo titolo non viene riservato ai Dodici mandati
direttamente da Gesù, ma è applicato anche ai grandi “inviati” della Chiesa primitiva: cf At 14,4.14)
in alcune cittadine dell’Asia Minore: in ognuna di esse si riproduce un analogo processo di
evangelizzazione. Dapprima l’incontro con gli ebrei in sinagoga e la presentazione di Gesù come il
Cristo partendo dal commento delle Scritture bibliche; di fronte all'abituale rifiuto di almeno una
parte della comunità giudaica, gli apostoli si rivolgono ai pagani e scoprono, ogni volta con
meraviglia, la grande disponibilità dei "lontani" ad accogliere la parola di Dio e la fede. In questi
paesi nascono delle piccole comunità cristiane, non più legate al mondo giudaico, ma ormai
autonome: si tratta di realtà nuove, i cui membri hanno le più disparate provenienze etniche e
religiose. Ciò che li accomuna è la fede di Gesù Cristo.
29
Una simile situazione preoccupa la Chiesa di Gerusalemme e fa nascere una violenta controversia
sulle condizioni da imporre ai pagani per la loro ammissione nella Chiesa. Paolo e Barnaba
chiedevano loro solo di credere in Cristo, di pentirsi dei loro peccati e di ricevere il battesimo. A
Gerusalemme, invece, un buon numero di giudeo-cristiani riteneva necessario diventare ebrei prima
di poter essere cristiani, cioè ricevere la circoncisione e sottomettersi alla legge di Mosè. Una tale
imposizione significava, nel ragionamento di Paolo, riconoscere che la fede nel Cristo non era
sufficiente per essere salvi e significava inoltre forzare i convertiti ad isolarsi dal loro ambiente di
origine per chiudersi in un sistema sociologico diverso. Una tale posizione avrebbe fatto della
Chiesa cristiana semplicemente una setta giudaica.
Scorrendo le pagine del particolare raccoglitore fotografico, non posso non soffermarmi
sull’immagine di Paolo in catene con il Vangelo tra le mani. Lo ritroviamo, da persecutore, a
prigioniero per Cristo e la sua Chiesa. Sì, da persecutore a perseguitato. Le catene sofferte per il
Vangelo: Cristo, il Vangelo di Paolo (cfr. Filippesi e 2Tm 2,8-9); Cristo il contenuto del suo
Apostolato. “La buona notizia della gloria di Cristo” (2Cor 4,4), ossia il messaggio di Cristo
risorto: “Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Gesù Cristo Signore” (2Cor 4,5). Non un libro,
ma una persona viva, che ha un nome e un volto. Paolo si riconosceva come “servo” del Vangelo
(Fil 2,22) consapevole di partecipare della stessa speciale grazia di apostolato dei dodici. Pensava di
essere stato scelto fin dal grembo materno (Gal 1,15; Rm 1,1), soggetto di affidamento del bene
prezioso (1Ts 2,4; gal 2,7) del vangelo da predicare e proclamare nell’offerta totale di sé a Dio (Rm
1,9; 15,16). Per cui anche la prigionia la vive come una “grazia” (Fil 1,7.16). Ha percorso circa
16.000 Km per annunciare il mistero nascosto nei secoli ed ora fatto conoscere a chiunque voglia
accoglierlo, Gesù Cristo Crocifisso e Risorto, in cui ogni uomo è reso giusto, di cui Paolo si fa
banditore. La buona notizia per tutti gli uomini. Meditando su San Paolo, il Vescovo Pietro Rossano
ha scritto “Mai sulla terra una vita fu spesa più generosamente per un ideale, mai, per quanto si
conosca, fu realizzata da alcuno una concentrazione così appassionata e rigorosa di tutte le energie
fisiche e spirituali al servizio di una causa, come avvenne in Paolo. Una causa che non era un’idea,
ma una Persona, amata, servita, vissuta, desiderata: Gesù Cristo”. Paolo morirà martire, tra il 64 e il
68 d.C. durante la persecuzione di Nerone. La sua sepoltura si dice sia avvenuta sulla via Ostiense,
dove sorge l’odierna Basilica di San Paolo fuori le Mura.
Noto ancora della pagine da sfogliare. Ne sfoglio una, un’altra, sono le ultime pagine, in bianco,
ancora da riempire. Mi domando, Perché? Paolo stesso mi suggerisce la risposta: “Io ho compiuto la
mia corsa, ho combattuto la buona battaglia, a te passo il testimone, corri anche tu per la via
dell’amore di Cristo. Non aver paura. Porta per le tue strade, quelle della tua città, l’amore di Dio.
Ne vale la pena.”
Alcune sottolineature: Considerato il primo grande animatore del cristianesimo, colui che ha
generato tanti uomini e donne alla fede. Costruttore ed edificatore delle prime comunità ecclesiali,
nella molteplicità vocazionali e armonizzazione dei carismi; convinto che Dio chiama al suo regno e
alla sua gloria (1Ts 2,12), dove la risposta dei credenti consiste nel percorso di santificazione (1Ts
4,3) che si esprime in una comunità in cammino. Il docente di Sacra Scrittura De Virgilio45
sostiene
che per Paolo “le conseguenze nella storia dipendono unicamente dalla libera iniziativa del Dio
«appellante» (1Ts 5,24) … [e che] la ragione ultima della presenza dei cristiani nella storia … [è]
45
G. De Virgilio, Personaggi e storie vocazionali nella Bibbia, Vocazioni, XXV, I, 2009.
30
nella risposta alla radicale «vocazione» … assunta nella responsabilità personale come «compito
da realizzare» … di fronte al progetto di Dio”.
L’AGIRE MISSIONARIO DI PAOLO: L’unica testimonianza personale diretta dell’antica
missione cristiana è quella dell’apostolo Paolo: dello stile e del metodo da lui seguito nel lavoro
missionario ne parlano gli Atti degli Apostoli e soprattutto le sue stesse Lettere, autentici strumenti
di evangelizzazione. Ne risulta una figura altamente significativa, il modello apostolico per tutta la
Chiesa (cf P. Iovino, Paolo: esperienza e teoria della missione, in Ricerche storico bibliche 2
(1990) 155-183; C. Ghidelli, Lo stile e il metodo missionario di Paolo, in Parole di Vita 35 (1990)
278-285).
Lo stile missionario di Paolo è esplicito nei suoi gesti personali che ne rivelano l’animo. All’inizio
della missione è caratteristica la sua docilità a Colui che gli chiede di cambiare strada: unita al
silenzio e alla fiduciosa attesa, questa docilità attiva e coraggiosa segnerà tutte le tappe del suo
ministero. Una volta inserito nella missione, Paolo manifesta uno stile forte e deciso, resistente ad
ogni attacco avversario, abile nell'evitare gli ostacoli, fiero delle sue prerogative umane messe al
servizio del Vangelo. Pur nella sua fermezza, lo stile di Paolo è segnato dalla massima generosità e
dalla massima disponibilità: si è fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero (1Cor 9,19).
Paolo si è messo in atteggiamento di ricerca e, come il suo Maestro, è andato a cercare gli uomini là
dove vivevano; a tutti quelli che ha avvicinato ha sempre rivolto la stessa proposta della vita nuova
in Cristo e dell'esperienza ecclesiale di questa novità possibile e gioiosa. Ma il suo metodo è stato
segnato dal dialogo e dalla disponibilità ad incontrare i suoi ascoltatori nel modo e coi mezzi a loro
più congeniali. Sempre però il suo annuncio è stato innovativo e talvolta anche dirompente: voleva
portare qualcosa di nuovo nella mentalità e nella vita dei suoi interlocutori; la novità di Cristo che
aveva sconvolto la sua esistenza irrompe continuamente nella sua predicazione ed entra nella vita
degli uditori e li coinvolge.
Il contenuto della sua grandiosa opera missionaria è proprio la condivisione della propria fede al di
là di ogni barriera nazionale e di ogni struttura ideologica o religiosa: la novità di Cristo che lo ha
trasformato lo ha reso capace di trasformare.
CAPACITA’ DI RELAZIONE: Inoltre Paolo è un missionario che ha capacità di relazione.
Incontra, ascolta, scrive, coinvolge, guadagna sempre nuove persone alla causa del Vangelo. Tutti
verbi, questi, che ci costringono a verificare la nostra capacità di relazione. Quanto e come noi
curiamo le relazioni con i giovani? Paolo rimprovera, incoraggia, si coinvolge pienamente.
Costruisce con i giovani relazioni calde, segnate dalla continuità e volte ad evidenziare sempre il
positivo, anche quando deve essere fermo. Tutti atteggiamenti che riflettono la libertà di Paolo. Si,
l’amore di Dio libera da ogni egoismo e interesse, ti apre al vero bene per il fratello. Paolo non ha
paura di farsi pro-vocatore di essi, con il suo stile di vita, proponendosi come modello da imitare,
“Fatevi miei imitatori come io lo sono di Cristo” scriverà ai Corinti (1Cor 11,1)46
. È noi sappiamo
proporci come modelli di vita alle persone che incontriamo senza scadere nello “scontato”?
SO IN CHI HO RIPOSTO FIDUCIA: La sua storia col Cristo è l’esperienza di chi ha dato
fiducia. Ha avuto fede in Dio proprio perché si è sentito amato in modo unico e personale da Dio.
46
Cfr. Ibidem.
31
La Seconda Lettera di Paolo a Timoteo, Lettera-testamento spirituale, di forte valenza vocazionale,
ci presenta l’Apostolo delle genti pronto a sopportare ogni tipo di prova, senza vergogna, perché “la
sua fiducia” è riposta unicamente nel Cristo Salvatore (2Tm 1,9-12). Testimonianza questa, che
costituisce un forte incoraggiamento per Timoteo affinché “con l’aiuto dello Spirito Santo” possa
trasmettere a sua volta il “bel deposito” del Vangelo che gli è stato affidato (2Tm 1,13-14).
Guardando Paolo il discepolo deve imparare a fidarsi di Dio, affinché diventi pastore attento e
premuroso per la comunità. L’espressione “So a chi ho dato la mia fiducia”, esprime la
consapevolezza a cui Paolo è giunto, di aver fatto la scelta giusta: “credere ed affidarsi a Cristo”. Il
verbo pisteuό (credere, avere/dare fiducia) utilizzato nel testo al perfetto, indica, si, una fede emessa
nel passato ma anche operante nel presente47
. La fede in quel Gesù da cui è stato ghermito sulla via
di Damasco lo sostiene nell’oggi della sua storia. Ne orienta i passi, gli dà forza. La fiducia e
l’abbandono in Dio è il fondamento della vocazione e della missione di Paolo. Il sentirsi amato
personalmente e unicamente da Cristo provoca la scelta di poggiare tutto il suo essere su di Lui e
affrontare con coraggio le prove che incontra.
Certamente è facile scoraggiarsi e cadere nella sfiducia dinanzi alle possibili e diverse
problematiche che il mondo presenta. Rischio che corre Timoteo ma anche il missionario del terzo
millennio. La tentazione è forte quando gli sforzi pastorali, come spesso accade oggi, non
producono i frutti sperati. La frustrazione incombe quando ci sembra fallire. Ma l’esperienza che
l’Apostolo ci propone scuote anche noi sulla necessità di riacquistare la fiducia e vivere l’oggi della
fede con l’entusiasmo di chi è chi-amato da Dio ad annunciare e testimoniare il vangelo della
vocazione. La nostra forza si fonda sull’incondizionata fedeltà di Dio che chiama (cfr. PdV 36) e
non sulla nostra capacità di fare e di programmare (cfr. NMI 38).
CRISTO VIVE IN ME: Paolo è abitato profondamente dalla passione per Cristo, scriverà ai
Filippesi: “Sono stato conquistato da Gesù Cristo” (3,12) e nella lettera ai Galati affermerà: “non
sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me. Questa vita che vivo nella carne io la vivo nella
fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (2,20). Paolo è consapevole di
essere amato gratuitamente da Dio. È il fatto che resterà impresso per sempre nella sua mente e nel
suo cuore. E che ne orienterà i passi. Benedetto XVI ha evidenziato che tutto quanto Paolo è e fa
parte da questo evento. La sua forza, suo centro e asse è qui. Scrive: “L’amore di Cristo ci spinge”
(2Cor 5,14). Ecco dove nasce la sua passione per l’uomo: “mi sono fatto tutto a tutti” (1Cor 9,22).
APOSTOLO PER VOCAZIONE: Il “servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione” (Rm 1,1),
Paolo, afferrato da Cristo sulla via di Damasco non riesce più a staccarsi da Lui e dalla Sua causa.
Si chiama “servo”, perché si lega in una totale e incondizionata appartenenza a Gesù. E si definisce
“apostolo per vocazione”, non per autocandidatura né per incarico umano, tantomeno per interessi
personali. ma soltanto per chiamata ed elezione divina. Lui che prima si vantava di essere un feroce
persecutore della Chiesa di Dio (Gal 1,13-14), ora è il suo inviato e banditore per le strade del
mondo. Paolo rivela nei suoi scritti la chiara coscienza di essere stato chiamato da Dio per divenire
l'"apostolo delle genti" (Rm 11,13; tale convinzione è espressa costantemente all'inizio delle sue
lettere: Rm 1,1.5; 1Cor 1,1; 2Cor 1,1; Gal 1,1; Ef 1,1; Col 1,1; 1Tim 1,1; 2Tim 1,1; Tt 1,1-3),
l'incaricato di portare ai pagani il Vangelo di Gesù Cristo. Egli sa che Cristo ha operato per mezzo
suo per condurre i pagani all'obbedienza della fede (Rm 15,18); è cosciente che il suo vangelo non è
47
G. De Virgilio, Proposta di Lectio Divina di 2 Tm 1,1-14, Vocazioni 2008, 6, XXV anno.
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modellato sull'uomo, giacché lo ha ricevuto per rivelazione diretta di Gesù Cristo (Gal 1,11-12); ed
è inoltre consapevole di essere stato scelto fin dal seno di sua madre e di aver ottenuto la rivelazione
del Figlio di Dio allo scopo di annunziarlo in mezzo ai pagani (Gal 1,15-16): come a Pietro è stato
affidato l'annuncio del Vangelo ai circoncisi, lo stesso Signore ha affidato a Paolo la missione verso
i non circoncisi (Gal 2,7-9). L'operato di Paolo corrisponde perciò esattamente all'immagine che
danno della missione apostolica le finali dei Vangeli di Matteo e di Marco: si tratta di un incarico
affidato direttamente dal Cristo risorto e rivolto a tutte le genti.
GUAI A ME SE NON PREDICASSI CRISTO: San Paolo toccato dalla Carità di Gesù si sente
responsabile del dono ricevuto: “guai a me se non predicassi il Vangelo!” (1 Cor 9,16). Una vita
toccata dall’Amore si trasfigura, cambia d’aspetto, illumina e riscalda i fratelli perché muove il
cuore. La vocazione cristiana trova nel dono sovrabbondante dell’Amore di Dio il suo senso e la sua
rotta. Santa Teresa del Bambino Gesù descrivendo la sua esperienza, afferma: “C’è soltanto la
carità che può dilatare il mio cuore, o Gesù! Da quando questa dolce fiamma lo consuma, corro
con gioia nella via del tuo comandamento nuovo! Voglio correre in essa fino al giorno beato in cui,
unendomi al corteo verginale, potrò seguirti negli spazi infiniti, cantando il cantico nuovo, che
dovrà essere quello dell’Amore.” (Storia di un’anima, 297). L’esperienza del sentirsi amata
personalmente da Dio mette le ali a Teresa di Lisieux, pur trovandosi in un convento di Clausura.
Don Giustino Russolillo in uno slancio mistico, d’amore verso l’Amato, ci rivela il cuore di ogni
apostolato: “O Amore che solo sei gioia, fammi seminatore di gioia nei cuori, diffusore di gioia nel
mondo perché tutti si volgano a vengano a Te che solo sei gioia” (Invitatorio Apostolico, Posizio
I,14). L’Amore vero non può essere trattenuto da nessuno. Si dona per sua natura. “Colui che ama,
vola, corre e gioisce, è libero, e non è trattenuto da nulla” (Imitazione di Cristo, libro III, cap. 5).
La via su cui il missionario corre è Cristo. La vita cristiana è vita in Cristo e la missione non può
che essere testimonianza di questa novità di vita. Sant’Agostino con profonda semplicità, afferma:
“Pigro, alzati! La via stessa è venuta a te, per svegliare dal sonno te che dormivi; e se egli ti ha
svegliato, alzati e cammina” (Commento al Vangelo di san Giovanni, 34,9). Anche tu, cristiano
battezzato, prete, suore, lasciati conquistare dall’Amore, vivi nell’Amore, testimonia l’Amore:
l’unica via che può rendere autenticamente felici.
Indicazione per i missionari del terzo millennio: a modo di conclusione
Da questi pochi cenni auto-biografici individuiamo alcuni insegnamenti per i missionari del terzo
millennio. Innanzitutto il missionario è una persona mossa dall’amore di Cristo, che inevitabilmente
riflette l’amore per l’uomo. Non potremo compiere nessuna opera missionaria se non ardessimo
della stessa passione di Cristo per l’uomo. Pronti a donare la nostra stessa vita. Altresì il rischio di
essere cembali squillanti e campane che tintinnano, nel solo atto di fare rumore e niente di più è
reale e presente. Paolo segue l’agire di Dio che in Cristo è sempre fuori dagli schemi. Sempre in
cammino e verso tutti pur di portare il Vangelo di Cristo e costruire comunità ecclesiali. Il
missionario è in movimento, potremmo dire, è attivo e non remissivo. Scrive Amedeo Cencini:
“Attenti ad essere missionari e non dimissionari”48
. Dobbiamo riconoscere onestamente che molte
nostre opere e movimenti sanno più di dimissionarietà che di missionarietà: hanno il sapore
48 A. Cencini, Missionari o dimissionari! La dimensione missionaria nell’accompagnamento vocazionale dei giovani,
Seminario del Centro Nazionale Vocazioni tenuto lo scorso marzo a Verona, Vocazioni, anno XXV, maggio-giugno
2008.
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dell’abitudine e della noia più che dell’entusiasmo e della gioia. Prima nel cuore e nel pensiero, poi
nella realtà. Prima di tutto nell’atto di andare verso Dio, nel rapporto intimo da cui trae la forza e la
gioia di mettersi in movimento verso i fratelli. Il suo spessore nasce dalla profondità della sua
relazione con Dio in Cristo Gesù. Non illudiamoci, i giovani cercano guide spirituali di una certa
solidità, e non dei semplici attivisti. Paolo coltiva e custodisce questo spessore, per questo non
aspetta che i giovani vanno da lui. È lui invece che li anticipa, sia nel pensiero che nel cuore. Corre,
cerca e chiama. Affinché ognuno possa trovare ciò che risponde alla sete del suo cuore. Correre,
cercare e chiamare sono tre verbi che definiscono l’impegno dell’apostolo delle “divine
vocazioni”. Per noi, sostiene Roberto Roveran49
“sono verbi che ci obbligano ad uscire dai nostri
schemi per andare e farci tutto a tutti superando paure e timori, condizionamenti e pregiudizi,
comodità e perbenismi”. Dobbiamo riconoscere che l’atteggiamento di tanti in questo campo è
quello attendista, di ritardo, spesso conformista alla mentalità del nostro tempo che gioca sempre
più al ribasso con Cristo. Paolo ci spinge a osare nuove scelte, che abbiano il coraggio di uscire dal
recinto solito dei nostri ambienti ovattati, e perbenisti, che abbiano il respiro lungo, capaci di
parlare, pur rischiando di perdere la faccia, a tutti della chiamata di Dio. Affermava Madeleine
Delbrel (1904-1964) mistica francese: “La fede per un cristiano o è vissuta con tutta la forza di
novità e la freschezza della buona notizia (missionaria dunque) o sarà inevitabilmente una fede
dimissionaria” 50
.
49
Formatore e psicologo della Società San Paolo, Itinerari vocazionali in San Paolo, Vocazioni, XXV, 6, 2008. 50
Cfr. L’analisi proposta da Mons. Sigalini, Allora assistente ecclesiastico generale dell’Azione Cattolica, al convegno
giovanile di Salsomaggiore di qualche anno fa..