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di Luca Acquarelli Etnografia del consumo del vino negli spazi pubblici Vino, identità e relazioni sociali Foglio N. 5

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Pubblicazione realizzata nell’ambito del Progetto ‘Vino e Giovani’ con il contributo del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali D.M. n. 13801 del 14.09.2009

Dipartimento di Scienze delle ComunicazioneUniversità degli Studi di Siena

Enoteca Italiana

di Luca AcquarelliEtnografia del consumo del vino negli spazi pubblici

Vino, identità e relazioni sociali

Foglio N. 5

vinoe gio

vaniart de vivre!

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di Luca AcquarelliEtnografia del consumo del vino negli spazi pubblici

Vino, identità e relazioni sociali

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© Enoteca Italiana, Siena 2010

Coordinamento editorialeSilvana Lilli

GraficaALSAbA Grafiche, Siena

StampaALSAbA Grafiche, Siena

In copertina“baccanale degli Andrii” di Tiziano Veccellio, 1520 ca. (particolare)

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Premessa di Rosa bianco Finocchiaro 5

Presentazione di Claudio Galletti 7

Introduzione di Omar Calabrese 9

Vino, identità e relazioni socialidi Luca Acquarelli 13

1. Presupposti metodologici e confini di analisi della ricerca 15

2. Ricerca empirica: la selezione dei dati e le prime riflessioni 23

3. Dai dati alle narrazioni relazionali 69

4. Conclusioni e prospettive 87

bibliografia 91

Indice

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Premessadi Rosa Bianco Finocchiaro, Coordinatrice Programma“Cultura che nutre”

“Art de vivre” per sviluppare un comportamento sano ed equilibrato, come elemento del vivere sano, come espres-sione di socialità tra i popoli, come connubio tra sé, la propria storia e la ricerca delle proprie radici: queste sono le finalità del progetto “Vino e Giovani”.Il vino deve essere piacere, gioia, convivialità, sobrietà, quindi un modo per addentrarsi nel mondo complesso della socialità, nei significati profondi del vivere e dell’im-maginario collettivo che coinvolge sia il nostro essere individuale sia il sociale. Pertanto, il rapporto con il vino è complesso, intimo, quotidiano, denso di significati simbolici e psicologici, richiama le radici del piacere e dell’identità, si definisce all’interno di una cultura, muove il senso dell’ap-partenenza, ha a che fare con l’immagine di sé e si misura con una ricca offerta di prodotti.Il progetto “Vino e Giovani” ha la precisa finalità di comunicare il vino ai giovani, nell’ottica di un’educazione sistemica con una comunicazione integrata tra cultura ali-mentare e valorizzazione storica delle tradizioni.Il vino rappresenta in tutte le civiltà un inno alla vita, all’amore, alla voglia di vivere ed è elemento importante nella vita dell’uomo; esso è presente in molti avvenimenti storici.La cultura del vino è legata alla storia dell’agricoltura.Il progetto “Vino e Giovani”, voluto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali e realizzato dall’Enoteca Italiana è ricco e molto articolato.Parte da indagini conoscitive per giungere ad azioni sul ter-ritorio nazionale, ad eventi culturali di grande significato.Si è cercato in questo progetto a tutto campo di eviden-ziare: le qualità alimentari del vino; il piacere di degustare i

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vini di qualità; di cogliere il legame tra produzione vinicola, storia, tradizione e cultura del territorio; di facilitare il rap-porto diretto tra produttori e giovani.Le ricerche, le indagini e le relazioni che vi presentiamo forniscono elementi significativi per promuovere progetti efficaci al fine di comunicare il vino ai giovani, per decodi-ficare il linguaggio del vino, per leggere il rapporto che le nuove generazioni hanno con il vino.Questa è la finalità fondamentale del progetto che si rivolge a produttori, consumatori, rappresentanti delle istituzioni e a tutti coloro che hanno occasione di educare i giovani nell’ambito dell’alimentazione corretta e dell’uso consapevole del vino.Tutti costoro troveranno nel progetto molte idee e tanti suggerimenti per costruire itinerari didattici sul tema del vino; suggerimenti e idee capaci di mettere in atto le potenzialità culturali. Di questo va dato atto all’Enoteca Italiana che con la sua esperienza ha realizzato un progetto nazionale molto apprezzato, ma anche al Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, che con la lungimiranza ne ha consentito la realizzazione in una prospettiva culturale di crescita e di rinnovato impegno nel settore dell’educa-zione alimentare e in particolare, dell’uso corretto del vino nelle nuove generazioni.

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Presentazionedi Claudio Galletti, Presidente Enoteca Italiana

“VINO E GIOVANI”. Un progetto di grande spes-sore culturale ed educativo, affidato ancora una volta ad Enoteca Italiana.Sicuramente difficile nel linguaggio e nella sua dimensione educativo-informativa: promuovere nei giovani una cultura del bere consapevole. Un progetto che fa parte della grande campagna comu-nicativa Europea “Wine in Moderation. Art de Vivre”, campagna del bere bene per vivere bene. Questa edizione ha visto coinvolte ancora Regioni ed Università, testimonial del mondo della musica e dello spettacolo e, soprattutto, ha visto coinvolti migliaia di gio-vani con il linguaggio tradizionale e con i moderni strumenti della comunicazione.Grande è stata l’attenzione dei mass media. La campagna di sensibilizzazione realizzata nel corso di questi due ultimi anni di lavoro, sicuramente apprezzata dai giovani, ha dimostrato che è possibile trasferire alle nuove generazioni il patrimonio di storia e di cultura che il vino rappresenta nel nostro Paese, la consapevolezza che esso sia parte di uno stile di vita e anche un moderno veicolo della qualità della vita, che conoscere ed apprezzare il vino, saperlo bere con moderazione, può rappresentare un status culturale, un momento di convivialità e di medi-tazione.Il messaggio forte è proprio questo. Far conoscere gli aspetti culturali, economici, storici ed identitari che il vino rappresenta. Un prodotto straordina-rio della nostra agricoltura, una delle punte più avanzate del made in Italy nel mondo.Voglio ringraziare tutti coloro che hanno collaborato alla riuscita di questo lavoro e tutti i giovani che hanno parte-

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cipato alle innumerevoli iniziative realizzate. La stessa gratitudine che, come Presidente dell’Enoteca Italiana, desidero esprimere a quanti con lungimiranza hanno sostenuto questo progetto, in primis il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali e le Regioni, e a quanti ci hanno creduto e hanno offerto appoggio e collaborazione nel corso di questo esaltante percorso.Un ringraziamento particolare va all’Università degli Studi di Siena, al Dipartimento di Scienze della Comunicazione che con questo ulteriore lavoro di ricerca, il quinto sin qui realizzato, mette in evidenza aspetti nuovi e favorevoli del rapporto vino e giovani.

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Introduzionedi Omar Calabrese, Università degli Studi di Siena

La ricerca che qui presentiamo mostra alcune interessanti novità dal punto di vista della metodologia impiegata, che non hanno mancato di indirizzare l’indagine verso risultati inattesi e originali. Per una volta, lo sguardo “diverso” sull’oggetto di analisi ha consentito di rinvenire elementi di contenuto altrimenti forse non individuabili.

Cominciamo, dunque, con l’elencare alcuni tratti speci-fici che la caratterizzano. Solitamente, gli studi di tipo etno-socio-antropologico si fondano su due principi fondamentali: l’osservazione partecipata (vale a dire il con-tatto ravvicinato con il corpo sociale in cui un fenomeno avviene) e la rilevazione statistica (cioè la preparazione di un questionario da sottoporre a un campione rilevante e ordinato di soggetti interessati, e il calcolo percentuale dei contenuti delle risposte). Nel nostro caso, invece, si è proceduto in maniera differente. Il tema del consumo del vino e delle forme di socializzazione che ciò comporta, è stato sottoposto a test in una situazione locale esemplare, quella della città di Bologna, che per definizione è stata ritenuta rappresentativa di un funzionamento più generale nel nostro Paese. Bologna, infatti, ha una tradizione molto particolare di organizzazione sociale del consumo enologi-co a causa della antica e consistente presenza delle osterie. Queste, oltretutto, hanno manifestato nel corso del tempo una capacità di crescita e di adattamento ai cambiamenti storici davvero significativa. Nate come fatto popolare, hanno avuto la capacità di attrarre pubblici nuovi: studenti e giovani, borghesia, stranieri, professionisti. E di modificare persino il loro aspetto in questa medesima direzione: da

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locali “popolari” anche nell’arredamento si sono evoluti in ambienti alla moda, in circoli giovanili, in luoghi d’incontro anticonformisti, e così via. La loro caratteristica è pertanto quella di offrire un panorama di comportamenti di consu-mo interclassista e assai trasversale.

A partire da questa prima scelta, si è poi proceduto a preparare non delle interviste a risposta fissa e a campione, ma dei veri e propri colloqui mirati con individui ritenuti rappresentativi di indirizzi di comportamento. Le interviste sono state considerate come dei testi (quasi dei “racconti” in forma orale), e di questi testi si è fatta un’indagine che rivelasse le strutture soggiacenti implicate dal discorso di volta in volta espresso. Il contenuto di un testo, infatti, si offre all’osservatore come la manifestazione superficiale di contenuti organizzati (indipendentemente dalla consape-volezza del soggetto produttore) secondo una architettura interna corrispondente a un sistema culturale più generale. Va da sé, ovviamente, che le interviste sono state più numerose di quelle effettivamente selezionate, in modo da evitare il rischio che il singolo soggetto interpellato esprimesse una troppo marcata singolarità. Il vantaggio della procedura è evidente. Invece di ottenere risposte più o meno esplicite a contenuti in qualche maniera pre-selezionati, si è potuto dar corso al “flusso” dei contenuti stessi, ottenendo così aperture che si sono rivelate assai fruttuose.

I risultati, come si diceva, sono di notevole interesse. In primo luogo va notato che il consumo del vino ha avuto una trasformazione importante. Come spesso è stato osservato, si nota in modo massiccio un cambiamento comportamentale orientato al “consumo critico”. Bere vino si sposa con l’attenzione alla qualità, sia dal punto di vista

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della naturalezza del prodotto (atteggiamento igienista), sia da quello dalla bontà del prodotto (atteggiamento valutativo ed esperienziale). Il secondo punto importante è che il vino viene ritenuto una componente essenziale della comunicazione intersoggettiva. Le occasioni di consumo sono per natura collettive, e nell’incontro fra i soggetti consentono la trasmissione di elementi cognitivi (sapere cosa si beve, distinguere i sapori, collezionare aspetti del gusto) ma soprattutto emotivi (favorire il contatto median-te la conversazione, l’atmosfera di allegria, la condivisione di piaceri).

Alcune interessanti novità sono manifestate dalle narrazioni analizzate. Dal punto di vista emotivo, ad esempio, riscon-triamo la rinascita di valori come quello dello scambio (sen-timentale: amicizia, simpatia, corteggiamento) e quello del dono (l’offerta come piacere e testimonianza). Ciò spiega, fra l’altro, anche le diversità di genere fra i tipi di esperienza enologica di uomini e donne. Dal punto di vista cognitivo, poi, una vera e propria sorpresa è costituita dal legame fra consumo del vino ed espressione di identità, non solo indi-viduali ma collettive. L’innovazione più rilevante mi pare essere quella – finora inedita – dell’associazione fra vino e politica. Non esiste un legame diretto fra ideologie e vino (bere vino non è di destra né di sinistra). Tuttavia, laddove si formino esperienze di gruppo costruite sul sentire politi-co comune, ebbene i rapporti sociali di questa natura sono con evidenza rafforzati dall’occasione del consumo.

Per concludere, la ricerca offre una fotografia estremamente dettagliata della natura intrinseca del consumo di vino nei luoghi pubblici come asse portante delle relazioni sociali e dei sistemi di valore ad esse collegati. Si dirà che Platone, oltre duemila e cinquecento anni fa, l’aveva già sottolineato

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nel Convivio. Vero. Ma quel che sorprende è la grande attualità del suo pensiero e la sua permanenza nel contesto contemporaneo, nel quale, rispetto alle democrazie urbane della Grecia classica, sembrerebbe che le relazioni e i valori di gruppo non siano più l’elemento portante della società globalizzata.

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Vino, identità e relazioni socialiEtnografia del consumo del vino negli spazi pubblicidi Luca Acquarelli

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1. Presupposti metodologici e confini di analisi della ricerca

Il vino ha una dimensione simbolica molto importante nella nostra cultura. Istituisce, cioè, delle assiologie, attribuendo determinati valori alle situazioni che lo vedono protagonista. Questa capacità di valorizzare gli spazi e le relazioni che in tali spazi prendono corpo, fa sì che il vino, come oggetto culturale, crei tangibili effetti comunitari. Il vino, quindi, può essere considerato alla stregua di un vero e proprio attore sociale, uno di quegli agenti culturali che contribuiscono a determinare le identità di una specifica comunità.La particolare dimensione del vino, come ben sottolineato dalla ricerca contenuta nel numero precedente di questa collana1, e di cui questo lavoro è un naturale prolunga-mento, sta nella capacità di questo oggetto non solo di mediare i rapporti tra gli uomini ma di farsi promotore di un vero e proprio agire, in alcuni casi di un far-fare, in altri di un far-essere. In alcuni casi, cioè, il vino è generatore di determinate azioni, mentre in altri crea vere e proprie attri-buzioni di ruolo sociale e di identità.In questo scritto si prosegue il lavoro proponendo lo stu-dio della costruzione di cultura attraverso la comunicazione e le relazioni che si strutturano attorno al consumo del vino, in particolare concentrandoci sugli effetti comunitari che si attivano intorno al vino, basando il lavoro principalmente su due direzioni.Da una parte sono stati raccolti dati dagli “utenti” stessi 1. Mengoni (2005).

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del vino, attraverso interviste qualitative basate su specifi-che griglie di conversazione. Dall’altra si sono fatti interagi-re questi dati con le osservazioni etnografiche degli spazi pubblici di consumo del vino. Rispetto al lavoro fatto da Mengoni, basato su dati raccolti da un questionario on line più indirizzato verso dati quantitativi, i nostri dati empirici sono quindi frutto di un lavoro di etnografia incardinato su due aspetti: interviste qualitative, analizzate come e veri propri testi che producono significati con le loro strategie di senso, e analisi etnografiche degli spazi pubblici di con-sumo del vino. Alcuni argomenti, quali quello dell’imma-ginario e delle questioni identitarie intorno al vino, come vedremo, andranno ad intrecciarsi con parti della ricerca di Mengoni. Del resto comprendere il lavoro di costruzione sociale dell’oggetto “vino” è molto importante per i nostri obiettivi, per capire così in quali contesti narrativi si inseri-scono le relazioni.Il luogo dove questa indagine si è svolta è la citta di Bolo-gna, attraverso un’attenta e differenziata selezione di locali, eventi e situazioni ibride dove il vino ha un ruolo importan-te. La scelta di Bologna è data dalla particolare attenzione che il lavoro dell’Enoteca Italiana dedica alla fascia giova-nile, quella circoscritta tra i 18 e i 30 anni. Bologna è infatti una delle città italiane con maggiore attrattiva per i soggetti che rientrano in tale fascia. I motivi sono da ricercare nella grande offerta di formazione universitaria, nella discreta of-ferta occupazionale, per poi andare ad aspetti più culturali come la sempre attiva produzione musicale fino all’idea di città percepita come ricettacolo delle varie culture under-ground che da sempre si rinnovano sulla base di originali

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influenze. Dalla ricerca abbiamo rilevato che le situazioni (utilizziamo questo termine ombrello per includere sia realtà permanenti come i locali, che occasioni più effimere come gli eventi estemporanei) che accolgono questa fascia di età e dove il vino è un attore non marginale, fanno convergere un settore sociologico più ampio di quello previsto, con gli utenti che si spingono anche oltre i trent’anni, a dimostra-zione che la fascia dei cosiddetti “giovani” ha subito da anni un’espansione in avanti e che la categoria sociologica imposta dall’osservatore esterno mal si adatta alla realtà2.Gli spazi scelti sono gli spazi pubblici di consumo del vino e, sebbene alcune delle domande cardine del questionario riguardino abitudini della sfera privata, abbiamo tralasciato gli spazi privati, rimandandoli ad un eventuale successivo studio. Più precisamente le nostre interviste, effettuate in luoghi pubblici, hanno dato luogo a risposte che considerano sfe-re relazionali attribuibili sia alla “ribalta” che al “retroscena”, per usare due termini mutuati da Goffman3. Utilizzando queste parole derivate dal lessico teatrale, il sociologo ca-nadese propone infatti una prima dicotomia fra gli spazi dove si mette in scena la propria identità, le “ribalte”, ap-punto, e quegli spazi privati dove invece le identità sono costruite, i “retroscena”.Gli spazi selezionati sono analizzati con un lavoro di etno-grafia descrittiva: si fa riferimento in generale all’etnometo-dologia4, in particolare al filone di studi che mette al centro la questione della riflessività, cioè “una caratteristica univer-sale dell’azione sociale, in virtù della quale le procedure utilizzate per rendere osservabile e descrivibile un evento finiscono per coincidere con quelle della sua produzio-

2. Sulla costruzione sociale del concetto di categoria si vedano gli studi sulle costruzioni delle categorie di età (in particolare quello sull’anzianità) di Paoletti (1997).

3. Goffman (1975).

4. Facciamo riferimento agli studi che si sono ispirati ai lavori di Harold Garfinkel che per primo introdusse l’etnometodo-logia nel dibattito socio-logico, partendo dal suo testo pioneristico Studies in Ethnomethodology, Cambridge, Polity Press (1984, I ed. 1967).

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ne […]. Con le loro azioni, gli esseri umani costruiscono soggettivamente (e inconsapevolmente) quella medesima realtà alla quale assegnano poi i caratteri dell’oggettività” (Marzano, p. 27). Pur partendo da presupposti diversi e da concetti come quello dell’atto linguistico piuttosto che da quello dell’azione, ci sembra che la visione di un semiotico come Landowski non sia molto lontana quan-do lo studioso francese, ne La società riflessa, scrive: “la comunità sociale si dà in spettacolo a se medesima e, così facendo, si dota delle regole necessarie al proprio gioco”5. Nello studio delle identità narrative legate a certe pratiche di fruizione o a certi “allestimenti” dell’oggetto vino non potremo non richiamare poi alcuni studi di Jean-Marie Floch6, prolifico analista della società a partire dagli oggetti e dalle immagini del marketing. Dal punto di vista dell’osser-vazione, per chiudere il cerchio, ci riallacciamo ulteriormente agli ultimi studi di etnosemiotica7, che, avvicinandosi alla comprensione delle pratiche, in parte condividono i pre-supposti della sociosemiotica e in generale dialogano con i metodi di osservazione di una certa etnografia. Abbiamo analizzato i luoghi del vino a partire dai campi relazionali (cfr. Bourdieu, 1992), cioè le strategie e le pra-tiche che gli attori che li frequentano mettono in scena. In questa ricerca sarebbe più appropriato utilizzare la parola “attanti”8 anziché attori, perché tra di essi c’è quello che noi consideriamo un attante oggetto, ed è proprio il vino che, declinato nei suoi vari immaginari, e consumato nelle varie tipologie culturali, come abbiamo già ricordato, è un trasformatore delle “modalità” dei soggetti. Del resto è uno dei presupposti della semantica narrativa (un impianto te-

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5. Landowski (1999, p. 16).

6. Si veda Floch (1992 e 1997).

7. Si veda Marsciani (2007).

8. Faremo riferimento alla sintassi attanziale di Greimas (si veda in par-ticolare Del Senso II, Mi-lano, Bompiani, 1985; ed. or. Du sens II, Paris, Seuil, 1983). In parole molto povere, mentre l’attore è manifestato in una data situazione, l’attante resta a livello virtualizzato, una posizione che può essere acquisita da diversi attori lungo un determinato arco di tempo.

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orico a cui spesso faremo riferimento) definire il soggetto proprio in relazione a determinati oggetti di valore e defini-re il valore di un oggetto proprio perché esso si costituisce come tale in quanto “voluto” dal soggetto.Nell’analisi degli spazi abbiamo cercato, tramite un’osserva-zione partecipante, assumendo a nostra volta la posizione del cliente/partecipante (un ruolo da “membro attivo” per utilizzare le categorie di Patricia e Peter Adler9), di rico-struire il campo relazionale determinato, “relazioni valoriali e narrative”10 che sembrano previncolate dallo spazio. Ov-viamente, dato che il senso si dà solo per differenza, le varie analisi saranno viste in una prospettiva di comparazione.Per quanto riguarda i dati raccolti dai soggetti, abbiamo strutturato l’intervista intorno ad alcune narrazioni fonda-mentali sul vino. Attraverso una serie di domande abbiamo composto una griglia conversazionale, cioè, “una guida mol-to flessibile nel quadro dell’intervista […] poiché l’ideale è innescare una dinamica di conversazione più ricca della semplice risposta alle domande, pur restando nel tema” (Kauffman, 2009, p. 47). Questa griglia comprende do-mande prevalentemente dirette al nostro focus di ricerca e altre questioni che servono maggiormente ad entrare in empatia con l’intervistato e focalizzare la tematica. è quella che lo stesso Kauffman chiama “intervista comprendente”11 cioè un’intervista che condivida una costruzione dialettica della realtà: in qualche misura è durante l’intervista che si costruisce la realtà che si va ad indagare, tramite un lavoro di comprensione del soggetto intervistato.La nostra raccolta di dati ha un approccio totalmente qua-litativo e il campione diventa un concetto più sfumato. Più

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9. Marzano (2006, p. 58).

10. Marsciani, (ibidem, p. 10).

11. Il termine compren-dente risale alla sociolo-gia di Max Weber, tra le prime a suggerire una me-diazione fra i poli della spiegazione (formalismo logico) e quello della comprensione. Scrive Kauffman: “l’approccio comprendente si basa sulla convinzione che gli uomini non siano sem-plici agenti portatori di strutture, ma produttori attivi del sociale, dunque depositari di un sapere importante che si tratta di cogliere dall’interno” (ibidem, p.27)

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che seguire i criteri abituali che definiscono la rappresenta-tività del campione (età, professione, genere), quindi, in questo caso “si tratta di scegliere bene i propri informatori” (Kauffman, ibidem, p. 46). Bisogna tener conto della se-lezione che quest’approccio determina a partire proprio dai suoi presupposti teorici. Innanzitutto come analisti dobbiamo essere consapevoli che “la propria domanda di intelligibilità ed esplicitazione determina una messa a fuoco sempre specifica ed orientata sulle salienze e sui tratti rileva-ti”. L’osservazione stessa, cioè, “dipende dalla prospettiva di senso adottata dallo sguardo che la esercita”. “L’osser-vazione è dunque del tutto chiaramente a sua volta una pratica che prende una certa posizione rispetto alla pratica osservata”12, sia nel caso che l’informatore sia un intervistato che in quello dove si consideri uno spazio da cui desumere delle strategie di consumo e di relazione.I nostri soggetti sono stati allora scelti direttamente in situ, nei locali selezionati per la ricerca, ritenendo un buon criterio per questa operazione descrittiva il vagliare i soggetti fra una popolazione già in qualche modo selezionata dal locale. è ovvio che abbiamo cercato di mantenere un certo equilibrio tra i generi, le professioni, e inoltre, come già accennato, ab-biamo indirizzato le nostre domande ad una fascia giovanile leggermente allargata. Oltre agli avventori della situazione le interviste sono dirette ai “professionisti del vino” (gesto-ri, produttori, organizzatori, esperti, ecc.) sempre contattati all’interno della situazione di osservazione stessa.Sappiamo che la degustazione del vino ha subito negli anni una forte lessicalizzazione e quella che è fondamentalmente una “performance estesica”13, cioè che coinvolge i sensi, è

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12. Marsciani (ibidem, pp. 11-13).

13. Grignaffini (2000, p. 218).

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stata fortemente cognitivizzata. L’intervistato viene preven-tivamente avvertito che le domande che gli saranno rivolte non saranno destinate a valutare la sua conoscenza di que-sto lessico e quindi si è tentato di spingere la contestua-lizzazione del dialogo più sulla parte estesica e relazionale che quella che prevede una competenza da connaisseur. In effetti in questo caso l’intervista non è altro che una sollecitazione verso il partecipante a dar senso alla propria esperienza di bere vino: di qui l’importanza di condurre le interviste negli stessi luoghi dove si consuma il vino.Essendo il vino un oggetto partecipe di molte quotidianità (almeno nella cultura del nostro Paese), questa ricerca etno-grafica sarà fra quelle che “defamiliarizzano il già noto”14, si riflette cioè su una pratica che pur risultando quasi naturale nella nostra cultura, prevede invece tutta una serie di strate-gie e di rituali che per riuscire a mettere a fuoco, dobbiamo guardare da una certa distanza. La difficoltà rispetto alla ricerca che “rende familiare l’ignoto” è proprio data dal fat-to che noi analisti siamo immersi nella cultura che tentiamo di analizzare e che dobbiamo doppiamente sforzarci di assumere la giusta distanza propria dell’etnografo.Una precisazione va fatta inoltre sull’arco di tempo dell’os-servazione, parametro che fa rientrare questa ricerca in una cosiddetta “short term ethnographies”, cioè quelle osserva-zioni che non coprono tutte le stagioni dell’anno (come suggeriva di fare Malinowski): la maggiorparte dei dati sono stati raccolti infatti tra gennaio e marzo 2010, un inverno bolognese segnato da inusuali nevicate anche di grandi entità.è importante rimarcare questa dimensione temporale perché,

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14. Marzano (ibidem, p. 4), citando i lavori di Dal Lago e De Biasi.

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come avveniva nella seconda metà di marzo, molti locali stavano aprendo il cosiddetto dehors, un prolungamento esterno con dei tavolini su una piattaforma che si trova tra i portici e il limite pedonale della strada. Una dimensione che influisce in maniera determinante le possibilità di consumo del vino.Faremo riferimento, ovviamente, a tutti quegli studi che si sono occupati della dimensione sociale del vino15 anche se constatiamo che l’etnografia delle pratiche sembra dover ancora lavorare molto su questo ambito. Infatti, nonostante negli ultimi anni alcune ricerche abbiano avvicinato questo campo (soprattutto per quanto riguarda la sfera più ampia del cibo e della pratica del pasto), gli studi sul vino riguar-dano spesso l’ambito tecnico, meramente storico oppure molti lavori si vanno “a concentrare sul modello medico dei problemi collegati al consumo di alcool”16.

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15. Fra i più recenti ri-cordiamo la raccolta a cura di Cottino e Prina (1997) che, seppur la-sciando molto spazio alla sociologia della devianza per analizzare i proble-mi dell’abuso di alcool, contiene anche saggi di più ampia analisi del consumo delle bevande alcoliche fra i giovani.

16. Gefou-Madianou (1992, p. 4, traduzione mia).

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2. Ricerca empirica: la selezione dei dati e le prime riflessioniCome già detto nella sezione precedente, il luogo relazio-nale del vino sarà qui indagato con interviste ai protagonisti (professionisti o clienti/partecipanti) e analisi degli ambien-ti/locali. Terremo conto anche della localizzazione geogra-fica delle situazioni prese in considerazione all’interno del perimetro cittadino bolognese.Tra i contesti esaminati riportiamo in questo volume i casi di studio di otto situazioni fra ambienti permanenti, situazioni effimere e spazi ibridi come una via di un quartiere parti-colarmente frequentato da giovani. Terremo conto delle risposte di una ventina di intervistati, intercettati nei diversi luoghi che qui descriveremo. Questa scelta rappresenta una selezione del lavoro empirico svolto, considerando il grado di differenziazione all’interno del materiale presentato. Per quanto riguarda la città di Bologna, ovviamente, questo lavoro non può considerarsi esaustivo: tuttavia, soprattutto nel prossimo capitolo, forniremo alcuni paradigmi su cui po-ter intessere una struttura di ricorrenze narrative che magari possono risultare utili anche a successivi studi che riguardino in generale il rapporto dei giovani con la città. Come succede in ogni ricerca, ad ogni selezione, in effetti, corrisponde un residuo non scelto che, in questo caso, oltre a riguardare alcuni locali e situazioni simili a quelle scelte, cioè vicine ad un pubblico giovane, non tiene conto delle situazioni di socializzazione dove, ad esempio, il vino non è fruito oppure quei casi in cui il vino crea socializzazione

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fra soggetti in età più adulta (casi di studio che potrebbero dare utili nozioni nella dinamica di differenziazione sociale).Tra le interviste, della durata media di mezz’ora ciascuna, selezioneremo le risposte che riteniamo più pertinenti e che vanno ad aggiungere nuovi tasselli alla nostra ricerca. Al-cune risposte, seppur interessanti, restano fuori dal nostro focus di ricerca che vuole puntare maggiormente alle rela-zioni e agli effetti comunitari. In questo capitolo quindi si troveranno organizzati alcuni dei dati qualitativi che sono stati raccolti nell’arco del periodo gennaio-marzo del 2010, dando priorità alle valutazioni che più ci aiutano a rispon-dere alle domande base di questa ricerca: in che modo il vino può creare relazione? Come si forma un’identità attraverso il rapporto con il vino? Quali sfondi narrativi costruisce il vino attorno agli aspetti relazionali?Nel capitolo seguente cercheremo invece di intrecciare i risultati e offrire uno sguardo d’insieme.

I luoghi, le persone, le domande

Come già detto nella parte introduttiva, abbiamo selezio-nato i nostri intervistati intervenendo sulla selezione già ef-fettuata dall’offerta dei luoghi pubblici di consumo del vino nella città di Bologna. I luoghi sono stati scelti cercando di coprire alcune aree geografiche del centro storico, soprat-tutto quelle ad alta frequentazione di giovani, inoltre, analiz-zando alcuni dati indicatori come i prezzi delle consumazio-ni, l’orario di apertura e di maggiore affluenza di pubblico, nonché le varie estetiche proposte dai locali che vanno a

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valorizzare in maniera differente la fruizione del vino.Come già detto nel capitolo precedente, l’intervista si basa su una griglia conversazionale imperniata su una serie di do-mande che mirano ad aprire degli ulteriori spazi di riflessione da parte dell’intervistato. Normalmente, una volta che l’inter-vistato ha accettato di aderire alla nostra richiesta, preannun-ciamo un impegno di circa mezz’ora, in modo che il soggetto sia consapevole dell’entità dell’inchiesta e non la scambi per un questionario a cui rispondere in tutta fretta. Questa la serie di domande su cui è incardinata la conversazione:

Dove preferisci comperare del vino? C’è qual-1. cuno che ti consiglia in particolare? Quando compri del vino quali elementi tieni presente per indirizzare la tua scelta?Con chi hai iniziato a bere vino?2. In che occasioni preferisci il vino rispetto ad altre 3. bevande? Se dovessi suggerire la pubblicità-video per il tuo 4. vino preferito quali ambientazioni proporresti? E quali ambientazioni relazionali?Quale particolare momento della tua vita non 5. sarebbe stato lo stesso se non ci fosse stato il vino?Raccontaci un’esperienza in cui un vino ti ha par-6. ticolarmente colpito (negativamente o positiva-mente) e perché. Ti sei mai ubriacato con del vino? Con chi? Rac-7. contaci l’esperienza.Descrivi il tipo di locale ideale dove consumare vino. 8.

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Descrivi il tipo di situazione relazionale ideale nel-9. la quale consumare vino.Come è cambiato il tuo consumo del vino negli 10. ultimi anni?

Lungo lo svolgimento dell’intervista, questa sequenza non è stata sempre rispettata ed è stata comunque sempre utilizzata con l’obiettivo-guida di riuscire a comprendere meglio la vita relazionale del soggetto attorno al vino. Ad esempio, quando il soggetto racconta delle situazioni da lui direttamente vissute, sollecitiamo l’intervistato con altre domande formulate sul momento per capire più a fondo le sue abitudini di consumo del vino insieme agli altri o per-lomeno il modo in cui ce le vuole rappresentare. L’ordine con il quale qui vi presenteremo i dati selezionati per que-sta pubblicazione corrisponde all’ordine cronologico con il quale sono stati raccolti.

Cominciamo la nostra esposizione dei dati empirici dall’Alto Tasso, un’enoteca che si affaccia su una delle piazze più importanti di Bologna, Piazza S. Francesco, uno dei luoghi di ritrovo prediletto dai giovani soprat-tuto durante la primavera. Questa piazza si congiunge ad una delle vie dell’incontro giovane per eccellenza, via del Pratello: una lunga zona pedonale, case basse con l’intonaco del tipico color mattone di Bologna e molti locali per lo svago notturno. è un divertimento, quello proposto dai locali che si affacciano in questa strada, che, pur essendo molto variegato, punta costantemente sull’articolazione fuori/dentro: innanzitutto perché i por-

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tici, presenti quasi lungo tutto il percorso da entrambi i lati della strada, costituiscono una fase intermedia fra il polo interno ed esterno e poi perché, in un certo modo, il Pratello si configura come un grande “interno” dove le dinamiche di incontro e di passeggio tra un locale e l’altro, un evento culturale e artistico e l’altro, si defini-scono nello spazio ibrido di tutta la via (una situazione che riprenderemo successivamente per l’analisi). L’Alto Tasso si trova proprio all’angolo tra questa via e Piazza S. Francesco. è un’enoteca rivolta ad un pubblico giovanile e offre un’ampia programmazione di eventi che spaziano su più campi, anche di un certo rilievo culturale17. Il locale è spartano e il vino è segnalato in più punti. Nella stanza dove si consuma seduti, in bella vista ci sono due cisterne di vino da 300 litri ciascuna. L’immaginario ricorda quello della cantina sociale con tavoli disposti con una certa approssimazione: atmosfera sobria, servizio fai da te, e ambiente caloroso. Tra i clienti di questo locale abbiamo intervistato Mauro, 31 anni, dottore di ricerca in Scienze Umane all’Università di Bologna.L’intervistato evidenzia da subito l’importanza del luogo dove comperare vino, come se, in un certo senso, la pratica dell’acquisto fosse resa importante dal luogo stesso prima che dal prodotto:

Compro il vino al supermercato, ma è il cosiddetto “vino di servizio”; è molto più invitante comperare vino in una cantina. Ad esempio, recentemente, mi è capitato di andare all’Enoteca Regionale dentro il castello di Dozza, una sorta di tempio del vino, e lì ho comprato e speso volentieri.

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17. Nei mesi di gennaio e febbraio, ad esempio, sono stati ospitati nu-merosi incontri sui grandi nomi dell’architettura, un’iniziativa in collabo-razione con il centro di cultura tedesco di Bologna.

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Questa attenzione sul luogo si scopre poi essere corrispo-sta da un legame fra il tipo di vino acquistato e la zona in cui si acquista.

Normalmente compro del vino legato al posto dove vivo e quindi qui compro vini emiliano-romagnoli; ma se andassi a Roma penso che comprerei vino romano... come, allo stesso modo, non comprerei san-giovese, che reputo una tipologia di vino più vicina alle nostre parti, se andassi in Toscana. Il vino è una di quelle cose con cui riacquisti il legame con il territorio.

L’intervistato quindi sottolinea che preferisce normal-mente bere del vino in situazioni collettive come una cena ben fornita tra amici, piuttosto che in una situazione di coppia. Uno degli aspetti più interessanti dell’inter-vista, tuttavia, riguarda i contesti di relazione formali, e in particolare il ruolo che il vino può assumere in queste situazioni.

Il vino aiuta a negoziare un po’ la formalità delle situazioni. Ad esem-pio mi è capitato in una situazione di lavoro, un pranzo con alcuni professori... con alcuni dei quali ho un rapporto anche distaccato. Ma essendo a Bologna, di fronte al vino non ci si può tirare indietro! Il vino ha riscaldato la situazione e rispetto alle prime battute abbastanza tiepide, è venuta fuori un po’ di autenticità. Ma c’era anche un altro aspetto. Davanti alla domanda del cameriere “Chi sceglie il vino?” si è riproposto il problema della gerarchia, a chi la competenza di scegliere? Il peso della gerarchia professionale si riverberava sulle competenze delle scelte. Il rituale del pranzo in un contesto formale definisce più strettamente i ruoli… il sapere intorno

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al vino crea gerarchia. Un sapere pratico più che scientifico, perché normalmente siamo tutti dilettanti del vino davanti ad un sommelier.

Il vino ridispone gli attori sociali della situazione del pranzo di lavoro, non solo rendendoli passionalmente più disposti a rompere le formalità dovute al ruolo, ma paradossalmente facendo sì che si verifichi una possibile situazione oppo-sta: i ruoli gerarchici sono infatti rinforzati nell’esibizione del sapere sul vino, pratica relazionale che negozia ma sostan-zialmente ribadisce la gerarchia professionale nel percorso che poi porta a stabilire chi sceglie il tipo di vino tra quelli offerti dal ristorante.L’intervistato ci racconta successivamente qual è la sua ambientazione ideale per sorseggiare vino con uno sguar-do alle sue ultime esperienze, buone o cattive che siano state.

L’ambientazione? Vorrei una roba molto folk, una cena in un prato nelle vicinanze di un bosco con un illuminazione di candele; conviviale e romantico allo stesso tempo. Il parco di una villa con giardino all’ita-liana, bucolico e sofisticato allo stesso tempo, con molta attenzione ai dettagli raffinata ed elegante.Ho un bel ricordo di un pranzo con la mia famiglia (l’intervistato è sposato con una figlia, Nda) in un ristorante toscano. Il vino cattivo, purtroppo, l’ho bevuto nei centri sociali: un vino magari buono alla fon-te ma spesso conservato male (il soggetto conosce anche i retroscena perché a lavorato in un centro sociale, Nda).Secondo me in generale c’è una certa informazione sul vino; la gente per la maggiorparte beve vino comune […] nei casi in cui vuoi ce-lebrare un particolare momento o vuoi fare un po’ il “patacca” allora

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compri e porti il gran vino. In Italia è una delle poche cose di cui si può parlare senza farti venire il nervoso!

L’intervistato ci introduce una delle valenze ricorrenti del vino: oggetto di valore da poter esibire come dono in una situazione celebrativa particolare. Fare il “patacca” in roma-gnolo sta a significare fare lo “spaccone”, avere un comporta-mento un po’ vanaglorioso, tutt’altro che sobrio. Esibire una bottiglia costosa, che richiama l’estetica dei vini pregiati e di altà qualità (almeno sulla carta), può quindi avere l’obiettivo di questa rappresentazione di status ancor prima dello scopo del vino come dono per una successiva esperienza condivisa (vedremo più a fondo nel capitolo successivo l’importanza dell’esperienza del dono nei rapporti sociali).A differenza di molti intervistati, inoltre, Mauro vede nel vino quasi un collante nazional-popolare dove più o meno ci si può trovare d’accordo anche sui valori e sulle qualità che veicola.

Continuiamo la nostra indagine allo Zammù. In siciliano questo termine sta ad indicare una bibita rinfrescante a base di anice, ma in realtà allo Zammù, un locale aperto da circa due anni, la bevanda principe è il vino. Il locale si situa in una zona centrale ma lontana dagli usuali punti di aggregazione giovanile. Tuttavia, passando per le vie strette tra i portici, in pochi minuti, si arriva alla zona di “movida” del Pratello (quella già menzionata per l’Alto Tasso).è un locale che offre un reale abbinamento fra libri e vino: il cliente, infatti, può bere, mangiare, leggere e comprare libri. Unisce quindi le funzioni di un’enoteca, di una piccola

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biblioteca e di una libreria; inoltre, il luogo offre un pro-gramma piuttosto vario di eventi culturali: intime situazioni di teatro, cabaret e presentazioni musicali di giovani autori. Ha una clientela molto giovane, ma vuole essere aperto ad una fruizione eterogenea. Il locale è organizzato in tre sale denominate, nell’ordine, caffetteria, vineria e libreria. L’iso-topia narrativa è quella dello spazio casalingo: le tre stanze rispecchiano una disposizione domestica con uno spazio ad “effetto cucina” che in qualche modo fa da facciata all’intero locale (vi si accede appena si entra); attraverso un piccolo passaggio si entra poi in quello che può essere metaforizzato come il salotto (la vineria) e successivamente ancora in un luogo più intimo, la libreria, che possiamo far corrispondere alla camera. Il tutto è organizzato in modo infomale ma con un’estetica ben precisa e non lasciata al caso: una casa molto sognante con pareti ricoperte di viola e di cartapaglia (i colori del vino, ci ha detto Laura, una dei responsabili del posto) e con un oggetto ricorrente: pu-pazzi di cartapesta appesi al muro come attori di un teatro onirico, simili ai personaggi di molti quadri di Chagall. Inizialmente abbiamo intervistato Laura, 30 anni laureata in lettere, la gestrice del locale insieme a Massimo, salumiere e sommelier, chiedendole di descriverci meglio la sua idea di vino e del suo locale.

Questa per noi è come una casa aperta a chiunque voglia venire: un locale semplice, caldo, senza troppe pretese, che crei aggregazione. Viviamo in una società molto sovrastrutturata e qui ti puoi togliere la maschera come se fossi a casa. Questo locale ha questa funzione (corsivo nostro).

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Abbiamo un target di età molto varia dai ragazzi molto giovani ai signori e alle signore di sessant’anni. Facciamo da vetrina alle piccole case editrici italiane e facciamo delle serate di presentazione. Percepi-sco il vino come dissetante dell’anima e della mente, nonché, è giusto ricordarlo, della pancia! […] Leggere è andare in un altro mondo e il vino ti accompagna in questo viaggio. Il vino fa fluire i pensieri: viene, addirittura, gente sola e si mette a leggere.

Chi gestisce conferma quindi le nostre impressioni nell’ana-lisi degli spazi: ad un clima di calore casalingo, che vor-rebbe includere un’eterogenea tipologia di persone, dove tutti siano portati a spogliarsi delle loro facciate personali18, corrisponde un’atmosfera di viaggio fantastico, letterario, in cui potersi abbandonare grazie al potere ispiratore del vino.L’altro aspetto interessante è il consumo del vino in soli-tudine. Normalmente andare a bere del vino da soli in un locale non è un comportamento con una sanzione sociale positiva. Qui le condizioni lo permettono senza troppo imbarazzo sociale: tuttavia, con molta probabilità, è il libro piuttosto che il vino l’oggetto che predispone questa atto-rializzazione di una solitudine socialmente accettata. L’intervistata ci dà poi indicazioni più precise della sua idea di vino e delle sue aspettative relazionali intorno a questo oggetto:

L’unico alcolico che consumo è il vino, ma non amo berlo da sola: meglio tra amici o in famiglia […] in una cena tra amici una bottiglia di vino non può mancare; se non ci fosse mancherebbe un pezzo importante della serata, uno degli invitati più attesi.

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18. Per facciata Goffman intende “l’equipaggia-mento espressivo di tipo standardizzato che l’indi-viduo impiega intenzio-nalmente o involontaria-mente durante la propria rappresentazione” (Gof-fman, 1975, p. 32). La facciata personale è, più in specifico, quella stret-taemente legata all’indi-viduo come il vestiario, l’aspetto, il portamento, la gestualità, ecc.

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L’attante-oggetto vino viene trasformato in un attante sog-getto, parificando il ruolo attivo che la bevanda o un atto-re può avere nella dinamica delle situazioni esperienziali. Il ruolo del vino come aggregatore tra persone anche scono-sciute ritorna in una delle esperienze ricordate da Laura.

Mi ricordo un anno fa, una festa organizzata da un partito politico: una campagna all’aperto e molte brocche sfuse di sangiovese. Il vino ha avuto un evidente ruolo aggregante: siamo arrivati in quattro ma ci siamo ritrovati in cinquanta attorno ad un tavolo, a parlare, discutere, ridere. Poi siamo finiti tutti a ballare, ridere e fondamentalmente a co-noscersi.

Il vino qui si afferma come uno dei più classici oggetti trasformatori che permette ai soggetti di una narrazione - una festa in campagna - di “poter fare”, di raggiungere l’obiettivo che si pone per definizione l’ambiente di festa: la convivialità anche tra persone sconosciute attraverso, ad esempio, l’adesione a rituali collettivi come il ballo.Tra i clienti dello Zammù abbiamo intervistato Raffaele, stu-dente di 25 anni. Era venuto nel locale da solo e aspettava degli amici a cui aveva dato appuntamento, confermando l’atteggiamento di tranquilla accoglienza offerta dal locale.

Di solito preferisco sempre il vino, sia nei pasti che negli aperitivi, e preferisco di solito consumarlo a casa perché mi restituisce un’intimità maggiore. Non nascondo che lo preferisco anche per un motivo di prezzo.

Mi viene di accostarlo ad una situazione amicale, una taverna (sia

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pubblica ma anche uno spazio privato) dove si trovano amici a festeg-giare... o anche un incontro galante. Quello che associo sostanzialmente al vino è o un’allegria edonista (nel caso di una festa) oppure la gioia dell’intimità nel caso di un incontro a due. […] A dir la verità i locali mi sembrano spesso dei contesti troppo formali, mi riesce meglio ap-prezzare il vino a casa di amici.

è difficile per me descrivere l’esperienza di degustazione del vino e sinceramente tutto il lessico che è stato costruito per farlo a me fa un po’ sorridere.

Si sottolinea dunque questa isotopia narrativa tipica di un certo modo di bere vino: la domesticità e in generale il basso grado di “istituzionalizzazione” dei luoghi e delle re-lazioni che si allestiscono intorno al vino. Anche il discorso sul vino deve, secondo l’intervistato, utilizzare dei termini semplici, diretti e rifiutare il complicato lessico dei critici enologici. L’approccio sensibile al vino, quello esperien-ziale, deve cioè prevalere rispetto a quello più cognitivo. Allo stesso tempo però l’intervistato afferma che questo approccio spontaneo, in realtà, non è il miglior modo di apprezzare il vino.

Nel vino guardo spesso la gradazione alcolica […] Ho un cugino sommelier e mi spiegava che fino ad una certa età è difficile gustare a pieno il vino e che fino a questa soglia di maturità la bevanda viene vissuta quasi brutalmente, come un momento di puro edonismo. E io in questa descrizione un po’ mi ci riconosco...

Raffaele, primo fra i nostri intervistati a farlo, introduce suc-

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cessivamente una di quelle esperienze legate al vino che vedremo ritornare anche in altre interviste: la sbronza.

Un ricordo negativo sul vino? Quando è successo che mi sono sbron-zato: è un modo di fruire del vino molto sbagliato, si perde il controllo della situazione e non mi piace. Anche perché dopo sono costretto a stare lontano dal vino per un po’ e visto che normalmente a me piacerebbe pasteggiare a vino. […] Tuttavia devo dire che ubriacarmi con il vino lo accetto, ci può stare. Ubriacarmi con le altre bevande mi mortifica di più. E poi è un’esperienza più facile da condividere con gli amici.

Date queste premesse, con l’intervistato torniamo sullo spa-zio pubblico ideale per la fruizione del vino. Oltre a riba-dire l’ambientazione informale, viene evidenziato un altro aspetto interessante: la possibilità del vino di far convergere al dialogo anche persone sconosciute. Il vino, come nelle parole della precedente intervista, viene qui descritto infatti come il mediatore sociale per eccellenza.

Penso subito alle osterie vecchio stampo. Assocerei il vino a momenti teatrali, presenza di libri, dove ci sia comunicazione effettiva e un par-ticolare tipo di musica che non assorda... come quella, non so, di un cantautore come Guccini. Ci sarebbe da mangiare, non si può conce-pire il vino senza mangiare. […] In breve l’antitesi di una serie di pub, locali, dove l’alta musica impedisce il fatto di parlare.

Proporrei un’idea per il mio locale ideale: servire vino su grandi tavo-late sulle quali mettere più persone per invogliare alla comunicazione anche chi non si conosce... senza farsi troppi “pipponi” intellettualoidi.

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Fra amici appunto, ma anche fra persone che non si conoscono da molto tempo; comunicare effettiva umanità senza la necessità di una confidenza già acquisita altrove. Ripeto: un contesto informale dove la gente si sente accolta e avverta calore umano.

è interessante, infine, sentire come Raffaele differenzi il vino dalle altre classi di bevande alcoliche all’interno della sua ri-stretta classificazione delle stesse: birra, vino e superalcolici.

La birra mi addormenta: è un alimento vero e proprio, come il vino del resto, ma a differenza del vino mi addormenta. I superalcolici non li amo. Il vino è un amplificatore che gioca con le sfumature, gli altri alcolici sono più banali.

Informalità, esperienzalità diretta, non troppo mediata dall’aspetto cognitivo del gusto e gradualità delle sensa-zioni. Da questo intervistato, ma in generale dallo Zammù, sembrano essere queste le caratteristiche relazionali che il vino porta nelle pratiche di consumo.

Dallo Zammù passiamo ad un locale che sembra organizzarsi sotto un’estetica completamente diversa. Il Bravo Caffè, sep-pur anch’esso abbia una clientela variegata, si presenta infatti come un locale molto ricercato e con prezzi medio alti. Si trova in via Mascarella, una delle vie limitrofe alla zona uni-versitaria, caratterizzata da una forte eterogeneità dei locali aperti al pubblico. Basti pensare che davanti al Bravo Caffè c’è una discoteca notturna, poco lontano un ristorante di lusso e cinquanta metri più in basso il Modo Infoshop, uno dei prossimi casi di studio, che si rivelerà molto differente.

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Seppur si caratterizzi per lo più come locale che propone concerti ed eventi dal vivo, il Bravo Caffè vuole presentarsi anche come raffinato ristorante ed enoteca: sull’home page del sito possiamo trovare: “[…] avete appetito e pensate a un ristorante? Se non foste davanti allo schermo a leggerci forse scartereste subito il Bravo considerandolo solo un club in cui ascoltare musica dal vivo... sbagliato... il Bravo Caffè è da considerarsi, oltre che club, ristorante a tutti gli effetti con una cucina ricca (piu’ sotto la conoscerete meglio) e una cantina importante. […] La carta dei vini conta ormai piu di trecento etichette provenienti da tutte le regioni d’Italia”19.Un luogo ibrido, quindi, molto interessante per le nuove forme di offerta al pubblico e che, se da una parte può rientrare in un locale dedicato ad una fascia di età più alta rispetto al focus della nostra analisi, in realtà esercita una forte attrattiva sui giovani per la foltissima programmazione di concerti dal vivo. Per questa sua ibrida collocazione ab-biamo deciso di selezionare maggior materiale rispetto alle altre esperienze qui presentate.Il colore dominante del locale è il rosso delle pareti, un rosso crèmisi che investe quasi tutta la superficie. La sua dominanza è rinforzata dalle tende di velluto pesante di un color rosso più acceso che fanno da sfondo al piccolo palco ribassato dove si esibiscono i musicisti. Le linee delle forme degli arredamenti sono rette (bancone, sedie, tavoli) e le luci sono con colori caldi e soffusi ma intercalate nei punti nevralgici da luci celesti, fredde, che provocano un forte contrasto. All’entrata, sebbene siamo subito immersi in un ambiente “color vino”, le bottiglie di vino non sono immediatamente visibili: le mensole dietro il bancone infatti

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19. Tratto da www.bra-vocaffe.it

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risultano defilate mentre le altre due scansie incassate nei muri rimangono sottratte alla vista. Le bottiglie del bancone sono illuminate dall’alto con una luce anche troppo forte se si considera che in generale il vino deve essere al riparo dalla luce. Esposte come in una vetrina, però, una volta scoper-te dall’osservatore, creano un bell’effetto visivo. Su questo aspetto il gestore, Massimiliano, 38 anni, ci dice una cosa importante, che spiega come le strategie di presentazione del locale si stabilizzino per differenziazione: “alla Cantina Bentivoglio20, la cantina per antonomasia, hanno le bottiglie impolverate per dare un’idea di autenticità e di tradizione, noi abbiamo fatto una scelta diversa. Siamo un po’ minimal.” Per il caso delle bottiglie impolverate evocato dal gestore, si può parlare a ragione di patina (cfr. Appadurai, 2001, p. 104), quella “capacità di certi oggetti di evocare nostalgia”, che sappiamo essere una delle strategie di marketing più diffuse al mondo.Il Bravo Caffè persegue un’altra strategia rispetto alla patina: si organizza spazialmente come un teatro, con una parte rialzata che affaccia su una platea, il salone più grande, detto salone concerto, dove sullo sfondo è posizionato il pal-chetto per le esibizioni. Come per un teatro, durante lo spettacolo, le luci sono molto basse tranne che sullo stage di esibizione, ricreando così una condizione di contemplazione ordinata. Quando il concerto inizia, normalmente il vino si affianca all’attività contemplativa del fruitore, mentre chi vuole continuare a parlare si sposta nella parte più lontana dal palco con il proprio bicchiere; la musica dal vivo viene ascoltata allora come sottofondo alla propria discussione. Nell’intervista al gestore notiamo anche dei diretti collega-

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20. La Cantina Bentivo-glio è un locale situato nei vecchi sotterranei del Palazzo Bentivoglio, una voltà di proprietà di una delle famiglie nobili di Bologna. Per certi aspetti è un locale simile al Bra-vo Caffè, con frequenti concerti jazz con musici-sti di fama mondiale. Tra l’altro i due locali sono situati a poca distanza l’uno dall’altro. Ma l’at-mosfera è praticamente agli opposti.

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menti fra l’estetica del locale e la sua idea di vino e delle situazioni relazionali preferite per consumare vino. Il vino è associato a luoghi chiusi, che ci riparano dal “freddo” esterno nutrendoci di un calore condiviso.

Durante la cena è imprescendibile il vino, sono un grande carnivoro quindi vino rosso. Il vino ha un valore comunitario e spesso lo associo ad una cena in un ristorante con amici […] amo molto il rosso, quello forte. Il Sangiovese di Romagna, quello dell’entroterra piuttosto che quello rivierasco. Lo associo alla carna cotta al sangue, quindi vino rosso.Mi viene in mente l’ambientazione di un noto amaro (le famose pubblici-tà degli amici che si ritrovano dopo un’impresa bevendo l’amaro davanti al fuoco, Nda). In generale atmosfere calde. Il vino può essere bevuto in compagnia ma anche in due. Un’ambientazione da baita. Infatti mi ricor-do una sera in una baita con un Teroldego, è un vino che veniva esaltato dall’arrendamento interno, di legno, ero con la fidanzata, i gestori erano accoglienti. Se in una serata così il vino sapesse di tappo già ci sarebbe qualcosa di fuori posto.Il mio locale ideale è un posto che sappia di legno. Fuori è freddo e dentro è caldo. Quest’idea di calore e di comunità. Però credo anche che il vino lo si possa bere ovunque, la bontà del vino è proprio questa: ha una personalità talmente forte che si impone dappertutto.

è interessante vedere come si possa avanzare un parallelismo fra i colori del locale (caldi per la maggiorparte con accenni di luce fredda) e i colori di una baita che fa spuntare la luce fredda della neve esterna dalle finestre. Queste ultime parole di Massimiliano ci evidenziano inoltre l’importanza del vino come modalizzatore di una situazione, più impor-

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tante rispetto ad altri attanti in gioco. E il vino, dunque, viene a modificare anche il ritmo della relazione:

Una cena, una cena lunga. L’idea del vino è legata anche all’idea di tempo. Comunque un buon vino richiede tempo, un ritmo lento che non ammette nevrosi. E di solito ci vuole tempo anche per raggiungere delle buone osterie, fuori città, perché qui a Bologna si fa fatica a trovare vini fuori dalle mode.

Oltre ad essere un vero e proprio operatore del tempo, il vino è associato ad una ricerca di rarità, normalmente fuori dal centro della città: un buon vino va scovato nelle zone meno battute della periferia. L’oggetto vino si carica quindi di aspetti spaziali e temporali, che determinano le condizioni ambientali per una relazione.

Tra i clienti abbiamo intervistato Michelangelo, 30 anni, dipendente pubblico, addetto alla comunicazione turistica, che quella sera era in compagnia di un amico per una cena. Alcune risposte di questo intervistato ci hanno restituito un chiaro collegamento fra il vino e il territorio, già riscontrato nell’intervista del cliente dell’Alto Tasso:

Preferisco sempre il vino rispetto ad altre bevande alcoliche perché nei confronti del vino possiedo più elementi per giudicarne la qualità, l’origine, la storia, ecc. Lo lego a un territorio a cui a mia volta mi legano ricordi o progetti. Se bevo un Aglianico o un Fiano torno ai miei anni napoletani, se bevo un Sangiovese alle notti di parole nelle colline estive riminesi, un Fendant alla Svizzera in cui prima o poi mi trasferirò […] Forse un rum dice le stesse cose a un centramericano, ma io, per

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fortuna o purtroppo, sono italiano. All’estero, bevo altro. O anche la sera, da solo, d’inverno. Ecco, forse è questo il discrimine: la compagnia. In compagnia preferisco il vino.

Territorio e compagnia, due elementi fondamentali per attivare a pieno l’oggetto vino. Si intravede anche quel sapere intorno all’oggetto vino, che lo va a caratterizzare come oggetto di relazione sul quale parlare, condividere conoscenze, e non come oggetto semplicemente da fruire fisicamente. Molto eloquente la risposta relativa all’imma-ginario, che si lega anche alla situazione relazionale migliore dove bere vino: “ad una buona tavola a casa di amici”, una situazione che idealmente, se la dovesse pensare per una pubblicità, l’intervistato ci descrive così:

Una casa affollata di persone di generazioni diverse arredata con dei mobili veri, non prodotti in serie. Facce altrettanto vere, alcune sorri-denti, leggermente sopra le righe. Qualche elemento che riconduca al luogo di origine, magari un piatto tipico, necessariamente fatto in casa. Banditi piatti quadrati e sottopiatti in vetro satinato!

Insomma, il vino veicola una disposizione anche estetica che è legata ad un fattore di autenticità e che, a quan-to pare, si oppone alla generalizzata idea che il soggetto dell’intervista ha rispetto ai mobili funzionali ma standardiz-zati e (probabimente) privi di storia. Un’idea che traspare anche da parte della risposta relativa ad una descrizione metaforica del vino preferito: “Di sostanza. In grado di reg-gere una storia. Assomiglia più ad Anna Magnani che non a Claudia Schiffer”.

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Un’ultima nota importante che riportiamo di questa intervista concerne ciò che rappresenta il vino adesso per l’ambiente sociale che l’intervistato frequenta, che si collega al processo di maturazione nel consumo evocato dal cliente dello Zammù.

Per i miei amici che hanno fatto l’università a Bologna il vino è il naturale approdo a un consumo di alcol più consapevole, dopo gli anni della birra a fiumi e dello spritz alla moda. Per mia mamma, che non ha stu-diato e ha lavorato una vita, sono le gote subito rosse al primo sorso e una risata a tavola con la famiglia, due o tre volte all’anno.

L’altra intervistata è Monica, 28 anni, veterinaria: è venuta al locale a concerto già iniziato con altre due amiche per bersi un bicchiere di vino nel dopo-cena. Per lei l’idea del vino è legata a quella dell’incontro, anche fra persone che non si conoscono - vedremo poi che è lei stessa ad orga-nizzare eventi.

Un locale ideale dove bere vino? Un locale intimo, luci soffuse, tavolini piccoli, candele... tipo questo (riferendosi al Bravo Caffè, Nda), ma mi piace più un contesto antico. L’idea di incontrare persone è importan-te... ci sarebbero molte serate di incontro, di speed date come nel film di Verdone, “L’amore è eterno finché dura”... una campanella scandisce i tempi del dialogo fra le coppie. In effetti questa cosa la organizzo nella cantina di mio padre, una cantina antica dove mio padre vende due giorni alla settimana al dettaglio... lo chiamo speed de gustibus, tavolini in fila con un numero, le persone si fronteggiano e al suono della campanella si cambia di interlocutore. Ognuno ha un calice di vino che viene riempito se è vuoto; a metà c’è un break con un buffet a base di pietanze tipiche.

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Con un’altra bevanda verrebbe peggio... solo il bicchiere, guarda che forma diversa (indicando un calice). No secondo me, l’incontro ga-lante è legato al vino.

Questa felice coincidenza (una cliente è allo stesso tem-po un’organizzatrice di eventi dove il vino è protagonista) mette in evidenza un processo di traduzione di pratiche di socializzazione nate al di fuori della cultura del vino (lo speed date è nato negli Stati Uniti): ecco che la nuova versione enologica dello speed date viene addirittura a migliorare la percezione di quella originale: “con un’altra be-vanda verrebbe peggio”. Possiamo notare come la pratica speed sia in netto contrasto con la temporalizzazione slow del vino più volte evocata dai precedenti intervistati.Monica poi insiste sul vino come facilitatore passionale e evoca la scena di un film molto significativa.

Mi viene in mente un locale, una cena intima... c’è un film Tom Jones di Henry Fielding, una scena meravigliosa: una donna rotondetta, in due mangiano del pollo con le mani, e poi mangiano uva e poi bevono vino... chiaramente è una scena metaforica ma è eloquente.

Viene evocato un’immaginario del vino molto vicino ai pia-ceri carnali. La scena evocata dal film Tom Jones è in effetti più che passionale quasi comica per come i due divorano gli alimenti e tracannano vino, pensando ovviamente ad un rapporto sessuale.Oltre a questo aspetto l’intervistata ci introduce quello che sarà un altro dei temi dominanti della nostra riflessione nel capitolo seguente: la ritualità del vino intesa come necessità

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della presenza del vino per compiere certi atti o celebrare ricorrenze.

[…] il vino si presta per tante situazioni... ti dirò che lo associo di più ai locali. Alla cena in gruppo in un locale. Ma del resto è anche perfetto per una cena in due a casa... comunque il vino senza mangiare non esiste e forse anche viceversa! Un brindisi si fa con il vino, non con la birra. […] Ad esempio, una cena di natale non può essere senza vino. (corsivo nostro)

In conclusione l’intervistata ci fa riflettere su un dato che re-centemente è entrato a normare più rigidamente il rapporto delle persone, dei guidatori in maggior modo, con il vino.

Devo dire che adesso con i divieti legati al controllo del tasso alcolico nella guida, adesso con i divieti il vino ha preso nuovi significati in un certo modo è diventato più proibito, quindi è sempre un’occasione speciale.

Dall’altra parte della città si trova l’enoteca Zampa che ha un carattere decisamente più rustico e familiare rispetto al Bravo Caffè, associato ad una scelta di vini molto varia. è forse la più classica delle enoteche che abbiamo inseri-to nella nostra selezione di analisi. Ha una clientela molto diversificata e l’orario più frequentato è indubbiamente quello dell’aperitivo che spesso si prolunga in quello della cena grazie ai ben forniti spuntini o taglieri che si possono acquistare. Si trova appena fuori le mura, dove, soprattutto dopo l’orario lavorativo, non si registra quella frenesia di scambi sociali che caratterizza più il centro storico nelle sue

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vie strette e porticate. Rappresenta dunque una scelta di tranquillità, un po’ defilata rispetto al centro delle attività del tempo libero (cinema, teatro, luoghi principali di incon-tro e di passeggio).Tra la clientela di un fine giornata infrasettimanale abbiamo intervistato Paola, 26 anni, laureanda in chimica farmaceu-tica. Paola conferma alcuni programmi narrativi del vino già visti in precedenza; aggiunge però una sfumatura importan-te, cioè quella di pensare ai locali pubblici di divertimento più adatti al consumo di altri tipi di alcolici.

La birra la posso bere da sola mentre il vino preferisco berlo in com-pagnia. Preferisco il vino d’inverno e vicino al pasto serale prima o dopo... in tarda serata preferisco altri tipi di bevande alcoliche. Il vino comunque si adatta ad una situazione tranquilla, e magari in una situa-zione di campagna, bucolica; ti dico una casa in campagna la preferirei ad un locale. I locali li associo più ad un periodo tardo della serata, magari in luoghi dove si balla e dove si bevono altri alcolici.. cocktails, superalcolici.

L’intervistata, a differenza dei casi visti sinora, non pro-viene da una cultura familiare del vino. D’altra parte adesso trova molto importante per i suoi rapporti sociali la presenza in generale delle bevande e specificatamente del vino.

Sono molto timida. Quando sono insieme alle altre persone sento quasi l’esigenza di bere del vino perché mi aiuta ad avere un rapporto sociale. E devo dire che la maggiorparte dei rapporti in questa città è legata alle bevande, ai bar e quindi non se ne può fare a meno. Certo

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da quando c’è quell’ordinanza che vieta di bere del vino all’esterno dopo le nove le cose21 sono un po’ cambiate.

La concezione del vino è però molto disincantata e forse la formazione professionale della nostra intervistata la spinge a queste conclusioni:

Bere un bicchiere di vino durante i pasti fa bene? Secondo me è uno stereotipo che non corrisponde alla realtà. Pur essendone consapevole, io bevo vino perché mi piace perché ha un effetto benefico nei miei rapporti sociali […] ma non sul fisico: lo posso testimoniare!

Questa intervista ci fa riflettere anche sul fatto che in gene-re il pubblico giovane ha un rapporto svincolato dalle varie valorizzazioni che un determinato locale o ambiente può mettere in scena. L’intervistata, pur dicendo di essere at-tratta dall’enoteca-tipo come Zampa, in realtà rivendica di avere un buon rapporto generale con il bere nei locali, una pratica che vede come alla base delle relazioni sociali nella realtà di Bologna, forse, a ben vedere, in maniera anche ab-bastanza indipendente dal tipo di bevanda consumato.

Via del Pratello. Abbiamo già accennato a questa via nel descrivere la localizzazione dell’Alto Tasso. Ripetiamo che questo spazio ibrido si caratterizza per una forte contami-nazione fra il dentro e il fuori attraverso quello spazio di graduale attraversamento da un ambiente all’altro, quella soglia tra intimità e pubblicità, che è il portico. In una serata di week end ho intervistato Julia, 19 anni, studentessa a Lettere e Filosofia, frequentatrice assidua di questo quar-

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21. Si veda nota n. 24.

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tiere che, come detto, generalmente offre il divertimento notturno ad un pubblico di giovani e dove forse il vino è la bevanda più consumata22.L’intervistata afferma subito di scegliere di comprare il vino dove costa meno; tuttavia quando si parla di vino miglio-re l’intervistata fa subito riferimento al vino della sua terra, l’Umbria, dove ha imparato ad apprezzare questa bevanda anche insieme ai suoi genitori.

Il motivo vero che mi spinge a bere vino? Raggiungere lo stato mentale che ti permette di essere allegra, spensierata, che ti permette di parlare più facilmente con le persone. E il vino è la mia bevanda alcolica preferita.

L’intervistata, in un certo senso, rompe le cautele della fac-ciata goffmaniana, maschera culturale che anche nell’inter-vista (forse a maggior ragione) è inesorabilmente presente. Julia infatti non nasconde un obiettivo preciso legato al vino: la ricerca del mero effetto di ebbrezza che, come noto, ha una sanzione sociale negativa.

Non sono una bevitrice di qualità. Mi capita che quando bevo l’obiettivo è ubriacarmi e quindi guardo alla gradazione alcolica piut-tosto che altri elementi. La cena a casa di amici è la situazione ideale, magari qualcuno si mette a suonare la chitarra. Non potrei farlo con altri alcolici […] Il vino, tra l’altro, viene dall’uva e ha un legame con la terra, anche ideologicamente mi piace di più.

Potremmo però pensare che il rivendicare la pratica dell’ubriachezza possa invece rientrare proprio nelle prati-

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22. Non ci riferiamo a statistiche ben precise ma all’impressione generale, corroborata dal fatto che la maggiorparte dei locali, enoteche, wine bar, trattorie e contesti ibridi che hanno luogo in questa via offre quasi sempre delle ampie scel-te di vino.

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che di facciata perché ubriacarsi è ritenuto un rito di pas-saggio per l’età adulta e l’autonomia (tipici obiettivi dello studente fuori sede), al di là della condizione di genere. In effetti Julia ci dice esplicitamente che nel passaggio alla vita studentesca, quindi fuori dall’ambiente familiare, il modo di fruire del vino è cambiato.

Qui a Bologna il vino ha un’altra funzione. A casa lo bevo per piace-re, con più tranquillità; qui spesso c’è un po’ lo scopo primario della facilitazione dei rapporti e del raggiungimento di un buon stato di ebbrezza, ovviamente per conoscere nuova gente e per ricostruirmi un po’ un nuovo spazio sociale. Ho sostanzialmente due modi di bere il vino: con tranquillità in un aperitivo oppure in una situazione di festa caotica, spesso a casa di amici, dove il vino resta un po’ su uno sfondo funzionale, quasi quanti-tativo […] Altre bevande alcoliche, soprattutto i superalcolici non mi sembrano molto buoni per stare con le persone.

Interessante è il racconto di una recente esperienza nella quale, sostiene l’intervistata, il vino ha avuto una funzione di conservazione di uno stato di allegria e di affermazione della personalità a seguito di un’esperienza artistica di gruppo:

Ho recentemente terminato un laboratorio di teatro con il Living Theatre che è finito con un saggio: una cosa molto intensa che ci ha impegnato molto. Alla fine dello spettacolo c’è stato l’aperitivo con del buon vino. Ecco […] mi sembra che il vino abbia fatto sì che man-tenessi quella grinta che avevo acquisito durante il saggio e che avevo paura di perdere: una sensazione di sicurezza di me stessa. Ubriaca

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di vita per il percorso di emozioni e facilitata dal vino, sono riuscita a parlare con le persone in un contesto diverso da quello studentesco, un gruppo molto etereogeneo con persone più grandi e anche persone di altre nazionalità.

Per Julia teatro e vino quindi vanno ad assumere una fun-zione simile, due ambientazioni passionali nelle quali si può far fronte allo stato della timidezza.

[…] Teatro che ho iniziato per far fronte alla mia timidezza - timidezza che ho scoperto di avere qui a Bologna - quando abitavo nel mio paesino ho forse idealizzato troppo il futuro in città - e che forse in qualche maniera mi ha aiutato come mi può aver aiutato il vino. […] Mi sembra di avere un rapporto buono con il vino anche se, le volte che capita, mi pento di passare un certo limite e magari di avere un comportamento istintivo.

Il passaggio da una situazione protetta come quella dell’adolescenza nell’ambiente familiare all’età delle respon-sabilità e, in un certo senso, dell’affermazione sociale in una nuova situazione che richiede continue “performance” di attestazione del sé, vede il vino come un importante fonte di congiunzione narrativa con i vari oggetti di valore. Que-sto valore positivo è però velato dal timore del compor-tamento istintivo indotto dal vino. L’intervistata aggiunge qualcosa sull’ambiente di fruizione:

Vorrei rendere il vino “alternativo” anche se capisco che è difficile visto che è un oggetto molto legato alla tradizione. Un luogo alter-nativo che però rispetti l’immaginario di questa tradizione. è difficile

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immaginarlo... ora non mi viene in mente, forse il Pratello è la via giusta per realizzarlo.

Julia poi ci dirà che sì la nostra è una cultura del vino, ma non crede che il vino faccia bene: “fa meno male di altre cose e mi piace molto […] ma non le metterei fra le abitu-dini salutari, almeno per il fisico”.

Ritorniamo in un locale chiuso: l’Antica Drogheria Calzolari. è un luogo dove il vino principalmente si vende in bottiglie per l’asporto, ma dove si può consumare anche al banco. è forse il locale meno “giovane” dove si consuma vino a Bologna. è però posizionato nella zona più frequentata da studenti universitari, Via Petroni, adiacente a Via Zamboni dove sono situate la maggiorparte delle facoltà, da Giurisprudenza a Lettere ad alcune aule di Fisica. Una via molto densa di locali e molto eterogenea: ci sono molti fast food, molti bar o spac-ci alimentari aperti anche dopo cena e gli studenti popolano i portici di questa strada da mattina a sera inoltrata. Una via molto discussa da chi la abita permanentemente perché considerata degradata e chiassosa. In effetti c’è un grande movimento fino a sera tardi e l’Antica Drogheria Calzolari sembra resistere come un’enclave del ritmo lento, delle cose tradizionali, insomma una bottega “come quelle di una volta”. La “drogheria” non vende solo vino ma anche altri alimenti e offre un servizio di degustazione al banco. Abbiamo intervistato Elisa, 28 anni, maschera nei cinema e studente in una scuola serale alberghiera. Da subito nella nostra conversazione è centrale la questione del vino legato alla tradizione.

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Mia nonna mi ha educato al vino fin da quando ero bambina, perché era ritenuto un toccasana; in Sicilia (regione dalla quale l’intervistata proviene, Nda) c’è ancora la credenza che i bambini quando nascono vadano bagnati nel vino: buon vino fa buon sangue! […] Ci sono ricordi legati al mare a Cefalù, a mio padre, a mia nonna, al vino del contadino che si usa per le grigliate perché è molto forte […] mi pare che tutte queste cose le ho ricercate di tradurre qui, in questa nuova città dove vivo da quasi dieci anni.

è interessante (ci torneremo nel prossimo capitolo) questo tentativo di esportare i rituali della terra di provienenza traducendoli in qualcosa di nuovo nella città di approdo, tenendo fermo l’attante-oggetto vino.

Il vino è indispensabile per suggellare la fine di una giornata: la sera caschi il mondo il vino ci deve stare; diventa spunto di con-vivialità. Il momento dell’aperitivo mi piace molto e deve esserci il vino; siamo arrivati alla fine della giornata adesso ci si rilassa, magari si fa il bilancio delle cose fatte e così inizia la parte ludica della giornata. La cena poi è proprio legata al vino; se vado a casa di amici mi preoccupo sempre di chiedere se c’è il vino e se non c’è lo porto io.

Sotto casa mia a Palermo c’è una delle migliori vinerie (dove vado a fare l’aperitivo con mio padre); una vineria simile a questa ma è un posto più grande. La figura dell’oste competente che ti consiglia è fondamentale per un buon acquisto.Se arriva oggi mio padre lo porto qui da Calzolari, perché mi consiglia e mi consiglia sempre bene. Vado anche in altri locali ma in effetti qui è un luogo molto adatto per il vino.

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è vero che certe abitudini sono difficile da tradurre:

Un vino che mi piace tantissimo è un catarratto siciliano, ghiacciato sulla spiaggia con pesce crudo: questo è il mio ideale di vita felice. Più piacevole in compagnia ma lo farei anche da sola!

L’intervistata ribadisce il tema del cambiamento del rap-porto con il vino durante gli anni e adesso dice senza mezzi termini: “con i vini cattivi sento proprio di avve-lenarmi”. Altro tema pertinente alla nostra ricerca riguar-da il vino come elemento culturale sul quale intessere un discorso tipico di acculturazione, anche quando è legato all’esperienza del viaggio.

Ho un’amica con cui condivido questa passione del vino e con la quale ci scambiamo consigli; alla stregua dei consigli che si danno sui libri o sui film, noi lo facciamo sul vino. è un vero e proprio piacere che condividiamo, insieme a quello per il cibo in generale.

Ogni viaggio che ho fatto, c’è sempre un vino che è stato protagonista. è successo in Liguria oppure la prima volta che sono andata a Parigi. Il fatto di andare in un posto nuovo provare le cose tipiche da mangiare e ovviamente anche da bere. Ho scoperto vini buoni anche in posti dove non ce lo si aspetta, come ad esempio, Berlino.

Alla luce di queste risposte è conseguente l’assoluta incor-porazione della pratica del bere vino entro i confini della normalità e non come qualcosa di trasgressivo. Non ho mai pensato al vino come elemento di trasgressione (nono-

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stante mia madre sia astemia)... ma il mio versare il vino nel bicchiere non ha mai voluto dire “guarda come sono indipendente”.

Riportiamo anche l’ultima notazione dell’intervistata, interes-sante anche perché ricorrente riguarda le possibilità di bere vino a Bologna.

Qui a Bologna ci sono buone occasioni di bere buon vino. Certo questa recente ordinanza comunale che limita la degustazione del vino all’esterno ha limitato la mia liberta... è un po’ una scocciatura!23

Ritorniamo dalle parti del Bravo Caffè e troviamo il Modo Infoshop: una libreria ed un bar-enoteca. Si sviluppa in due spazi adiacenti e distinti: il passaggio tra i due ambienti avviene sotto il portico, in una zona pubblica24. La libreria offre un ampio catalogo di libri e in particolare ha una se-zione molto fornita di fumetti; praticamente ogni settimana organizza eventi gratuiti di diverso tipo: presentazioni di libri e di riviste, proiezioni, piccoli concerti, dibattiti, costi-tuendo un vero e proprio centro di attrazione per le occa-sioni di fruizione culturale a Bologna, soprattutto dedicato alla fascia giovanile. Il bar-enoteca apre nel pomeriggio e va avanti fino a notte tarda coniugando l’attività con la libreria, offrendo una discreta varietà di vini. è una delle poche realtà che permette di fruire di una libreria molto fornita (molto più importante rispetto a quella dello Zam-mù) sorseggiando un bicchiere fino a sera tarda. Il Modo è dunque molto frequentato e nell’ambiente universitario, soprattutto per quanto riguarda i corsi di laurea umanistici, ma non solo, sta diventando un luogo quasi di culto.

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23. Si veda nota n. 24.

24. Non è stato ri-cordato prima ma in questo caso è un tratto fondamentale perché la comunicazione fra la libreria e il locale di de-gustazione avviene sotto i portici. Da alcuni anni il Comune di Bologna ha emesso un’ordinanza che proibisce ai locali che si trovano entro le mura storiche di vendere alcolici da asporto dalle 21.00 in poi. Questo ha effetto su molti locali che si sviluppano anche all’esterno dove l’oste è costretto a far rispetta-re alcuni limiti esterni ai clienti che hanno in mano un bicchiere. Durante la stagione invernale la so-glia del locale è l’unico luogo esterno permesso, mentre con la buona sta-gione si può sostare en-tro il dehors. Ricordiamo che questa ordinanza va ad influenzare le posizio-ni del cliente all’interno dello spazio di degusta-zione insieme alla legge Sirchia, emanata alcuni anni fa, che vieta il fumo all’interno dei locali.

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Abbiamo intervistato due clienti agli estremi del nostro inter-vallo di fascia di età: Paolo, un ricercatore non strutturato al Di-partimento di Sociologia di Padova (ma che abita a Bologna), e Alessandra, una studentessa matricola di Antropologia.Paolo, 31 anni, acquista vino un po’ dove gli capita (super-mercato, enoteca, ecc.) ma a volte lo compra direttamente dal produttore (se avesse tempo lo preferirebbe perché “umanizza la transazione commerciale”) magari effettuando l’acquisto insieme ad un amico. Anche Paolo conferma la tendenza che abbiamo già riscontrato di acquistare vini che provengono da territori dove si ha già un contatto (luoghi di origine, luoghi di attuale residenza, luoghi di lavoro).

L’estate bevo molto più birra, l’inverno il vino. Comunque in un pasto, orientativamente, c’è il vino. Se vado a cena da qualcuno, se porto da bere a cena, porto vino, 90% delle occasioni. Il mio vino preferito? Non saprei. Mi ricordo un vino quando, in positivo, dico “Che strano sapore!”, che magari si distanzia dalla mia aspettativa media sul vino25.

L’intervistato ci parla molto dettagliatamente del rituale che è legato al vino e di quale importanza possa avere nella relazione.

Mi accorgo sempre quando una bottiglia di vino è trattata male: quan-do ad esempio una bottiglia di vino buono è trattata come un normale vino da tavola […] messo a tavola senza troppi accorgimenti, bevuto con un bicchiere dove c’era già stato versato qualcos’altro, oppure tracannato in tutta velocità. è uno spreco. Il vino è un prodotto che ha tutto un lavoro dietro e d’altronde costa tanto: è una cosa pregiata! Non c’è un vero e proprio vademecum di buone maniere per il vino,

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25. Interessante notazio-ne per una etnografia del gusto: è la sorpresa rispetto all’orizzonte di aspettative a determinare una sanzione (in questo caso sembra essere posi-tiva). Della sur-prise come esperienza del gusto si veda anche Hennion, Teil (2004).

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ma ti accorgi sempre quando non lo si sta trattando in modo appro-priato. Se sei alticcio, va be’, fai quello che vuoi ma...D’altro canto, però, la super-ritualizzazione del vino è ridicola. Le litur-gie eccessive del vino sono puerili e costruire tutto questo apparato simbolico non è un granché.

Un rituale senza vere e proprie cerimonie dunque, ma con precisi accorgimenti. In una parola, un rituale quotidiano. Infatti sembra che l’intervistato veda il vino come un fedele compagno dei rapporti routinari.

Il miglior modo per gustare vino è un pasto (a casa o al ristorante): situazione dove c’è intimità, non troppe persone per far sì che le chiac-chiere siano veramente condivise.Come si prende il caffè, si deve prendere il vino: in modo abbastanza routinario. Questo posto mi piace (riferendosi al Modo, Nda), ma l’enoteca Zampa forse mi piace di più perché la scelta è maggiore. L’enoteca troppo ritualizzata per noi giovani (sorride) non è di grande attrattiva, ci vogliono locali meno istituzionalizzati. Deve seguire i ritmi del dopolavoro, dell’aperitivo prolungato.

La sanzione negativa di una certa istituzionalizzazione è del resto allargata anche alle forme di commercio.

Le guide e le ferie istituzionali non mi sembrano un granché: sono strumenti di marketing e non indirizzano bene sul vino. D’altronde è un mercato che fa diventare il vino un prodotto di lusso. E va a finire che chi fa vino investe più sul marketing che sul fare vino. Il vero vino sta sulle guide come la realtà sta sulla tv. Vedo con molta felicità la rivalutazione del vino sfuso.

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Ritorna anche in questo intervistato il ruolo forte del vino nei momenti di dono, legati in questo caso al periodo del regalo per eccellenza, il Natale. Ritorneremo più ampia-mente su questo aspetto nel capitolo seguente ma alcu-ni elementi importanti sono già offerti dalle parole stesse dell’intervistato.

A Natale ho regalato sia a mio padre che a mia madre una bottiglia di vino. A mia madre perché normalmente lei ha del vino cattivo: le ho regalato una bella bottiglia di vino siciliano comprata qui a Bologna (l’intervistato è siciliano, Nda). A mio padre, che praticamente è un collezionista di bottiglie ma è quasi astemio, ho regalato una bottiglia di un vino piemontese di fascia alta sui 30 euro (un vino che ten-denzialmente non aveva mai visto). A mio padre gliel’ho regalato per riconoscergli questo ruolo da collezionista di vino e a mia madre invece per un fine più pragmatico (ce lo siamo bevuti insieme).

La seconda intervistata è Alessandra, 20 anni: è al suo primo anno di Antropologia e ha quindi da poco vissu-to lo spostamento dal piccolo paese alla città, dalla fa-miglia alla vita da studentessa. Anche Alessandra, come molti soggetti della nostra inchiesta, ribadisce il legame del vino alla regione d’origine, ritenendo proprio il vino uno di quegli oggetti che nel nuovo scenario cittadino le ricordano le terre toscane che adesso vede un po’ meno.

Prendo il vino dell’Umbria e della Toscana, per affetto più che altro, ...vedo scritto “vini di Toscana” e... mi colpisce al cuore. Da noi c’è molto la cultura del vino. Devo dire che in generale quando compro cibo ho

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in mente la mia terra ma forse il vino, in questo senso, viene prima di tutti gli altri alimenti.Associo il vino alla cena al ristorante e non a casa. Ad esempio, ab-biamo fatto recentemente, una cena “tra donne” e ci siamo conosciute meglio e un bicchiere in più aiuta. Son venuti fuori argomenti più intimi che non è così facile affrontare in altre situazioni. E per me questi momenti sono importanti soprattutto in una città dove sto creandomi un ambiente sociale nuovo.

Una delle esperienze di socialità nuove che si estrapolano dall’intera intervista è sicuramente l’ambiente del lavoro del-la vigna. L’intervistata parte da una riflessione sull’immagina-rio per poi arrivare ad un episodio realmente vissuto.

Uno sfondo per una campagna pubblicitaria visiva per il vino? Sicura-mente l’ambiente di lavoro del vino, in particolare la vendemmia: aziende agricole che ancora hanno i “vecchietti” che vanno a raccogliere l’uva, stare sotto il sole, tagliare i grappoli... Del resto mi ricorda un’esperienza che ho vissuto... sì ho vendemmiato, a casa di mia zia, con mio padre, mio fratello e altri parenti, una giornata faticosa ma che mi ha fatto apprezzare le cose semplici e il fatto di stare a contatto con i miei familiari in modo diverso. Da quella vendemmia è venuto fuori un vino che poi abbiamo bevuto.

Generalmente, però, in famiglia non bevo vino. Talvolta infatti di fronte ai miei parenti sono un po’ in imbarazzo. Lo associo, come ti ho detto, più a una cena al ristorante. Anche adesso a casa, in questa che con-divido con altri studenti, il vino più che per il pasto c’è per le feste... e lì il vino non importa quale sia, l’importante è che ci sia!

Nonostante dunque il vino faccia parte di una cultura

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condivisa da tutto l’ambiente familiare, in questo caso ha una valenza diversa se consumato nella famiglia di origine o in altre situazioni, compresa quella di vita attuale. Una visione simile a quella del soggetto intervistato in via del Pratello.

L’esperienza che prendiamo adesso in esame riguarda un’associazione, Gusto Nudo e in particolare una delle sue attività. Si tratta di un’associazione che si propone di distribuire e far conoscere il vino dei piccoli produttori che seguono determinate pratiche di coltivazione della vite e di produzione del vino.Purtroppo l’evento annuale più importante di Gusto Nudo, la fiera dei vignaioli indipendenti, si svolge in aprile e per questioni di tempo non abbiamo potuto inserirlo nella nostra ricerca. Ma l’associazione organizza molti altri eventi sociali legati al vino. Abbiamo allora intervistato i due promotori di questa iniziativa e in più abbiamo ana-lizzato più da vicino l’esperienza del corso di formazione sul vino. Andrea, 29 anni, laureato in economia aziendale con una tesi sul Barolo, recentemente ha preso il titolo di sommelier: ecco come intende l’idea di vino promossa in Gusto Nudo.

Vino come un modo per viaggiare in Italia, nel mondo, capire attraver-so la cucina le differenze fra le persone e le culture. E quindi scoprire e promuovere vitigni e produzioni autoctone è per me un discorso molto interessante.D’altro canto, il vino è convivialità, com’è scritto nello statuto di Gusto Nudo. Bisogna stemperare un po’ questo culto del vino, demitizzando

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soprattutto quei vini che vengono ritenuti oggetti quasi divini e da contemplare come scimmie intorno ad un monolite.

La maggior parte degli agenti di distribuzione trattano il vino come qualsiasi altro prodotto; qui a Gusto Nudo c’è una passione diretta-mente legata al vino e alla gente che lavora nel vino. E con i produttori c’è un rapporto che va al di là di una semplice mediazione produttore/distributore.

Una visione condivisa e approfondita anche da Teo, 32 anni, primo ideatore e fondatore dell’iniziativa e professio-nista del vino, visto che da qualche anno il suo lavoro prin-cipale è proprio quello della distribuzione di vini naturali.

Gusto Nudo nasce da Critical Wine come idea di base: promuovere produttori che fanno vino in modo tradizionale senza troppi inter-venti chimici in vigna o successivamente sul vino, magari cambiando la peculiarità di un certo vino legato al territorio per meglio adattarlo al gusto imposto dal mercato. Poi Gusto Nudo ha preso anche una parte commerciale e quindi si è sviluppato anche come progetto di distribuzione.

Quest’esperienza, come quella che osserveremo successi-vamente negli ambienti del Teatro Polivalente Occupato, nasce dunque da una importante radice, il Critical Wine. Critical Wine è un’iniziativa nata nel 2003 per mettere in luce un rapporto più diretto con la dimensione enogastro-nomica, incoraggiando un approccio critico al mercato e ai prodotti di grande distribuzione e promuovendo un’at-tenta rivalutazione del lavoro della terra e dei prodotti

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della terra. Tra i promotori di questa importante campagna, fatta oggi di eventi distribuiti in tutto il territorio, il più importante è lo scrittore/enologo Luigi Veronelli, venuto a mancare nel 2004 ma ormai assurto a primo ideologo di questa realtà26. Per dovere di cronaca bisogna aggiungere che gli organizzatori di Gusto Nudo vedono nell’evento del Critical Book and Wine (quello di cui parleremo nelle prossime pagine) un uso un po’ strumentale dell’esperienza critical. In ogni caso ci sembra importante come in generale questo movimento di pensiero ispirato da Luigi Veronel-li possa coinvolgere svariate tipologie di persone giovani. Ecco come continua l’intervistato sulla propria attività di divulgatore di vino, indubbiamente consapevole che una gran parte della sua clientela è giovane e pensando che il gusto è innanzitutto un effetto sociale:

Da un distributore normale ci differenzia un fatto culturale, perché facciamo un lavoro di divulgazione e perché non ci poniamo solo un fine di profitto commerciale. è vero che il vino naturale e il vino biodinamico hanno qualche resistenza tra i bevitori perché il loro gusto non è quello tipico del mercato: quello che vogliamo fare, però, è anche offrire un’opportunità di conoscenza, di rapporto diretto con il produttore per capire cos’è il lavoro del vino.

Il corso di degustazione organizzato dall’associazione si è svolto nel periodo di gennaio-febbraio 2010 e si dava un titolo molto ludico: “Corso di degustazione per amanti, mogli e mariti del vino”. Queste erano le lezioni previste:

“la degustazione”: analisi visivo-olfattiva-gustativa di ciò che ci ritroviamo

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26. Per maggiori ap-profondimenti si veda Tibaldi (2004). Sia per la presenza di Gusto Nudo che di altre inizia-tive, questa “ideologia” del vino è molto diffusa a Bologna.

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nel bicchiere; “abbinamento cibo-vino”: cosa mangio insieme a un vino che tengo in cantina da 33 anni? Scuola francese-inglese-italica; “dalla vite al vino”: come si arriva dal grappolo d’uva alla divina bevanda...?; “stili di produzione”: agricoltura biologica, biodinamica, convenzionale... quali le differenze e come scegliere un vino; “cena finale”.

è evidente che, anche se il primo obiettivo resta la forma-zione sulla cultura del vino, a partire dalla descrizione delle lezioni la valenza ludica sembra molto importante. I due organizzatori ci spiegano cosa hanno inteso fare in questo corso, giunto ormai alla quinta edizione.

Facciamo capire la differenza fra un vino naturale e un vino da agricoltura convenzionale, che spesso può essere costruito con edi-ficanti (l’acido tartarico, la gomma arabica), perfetto per un wine bar “fighetto”.La caratteristica del nostro corso è affrontare anche come avviene la produzione del vino e allo stesso tempo alcuni aspetti economici. Ca-pire che mentre uno sceglie un vino fa un piccolo atto politico: sono un consumatore al supermercato, sono un consumatore-coproduttore quando mi rivolgo a un piccolo produttore.

Come vediamo, viene ribadito l’aspetto politico dell’inizia-tiva, un’idea che sembra ispirarsi a quella nuova figura cul-turale-politica del prosumer, un neologismo dei primi anni ’80, ribadito con grande efficacia teorica più di recente, che sta indicare un consumatore che si impegna a trovare una via attiva al consumo, informandosi e congiungendosi più da vicino con il produttore. Andrea ritorna anche sulla natura conviviale del corso:

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Insegnare il vino senza barriere e senza preconcetti […]. Promuovere una cultura enogastronomica a tutto tondo ed insegnare ad apprezzare il vino in una chiave di lettura più attenta all’aspetto politico-economi-co rispetto agli standard degli altri corsi di degustazione. Centrale è la caratteristica conviviale: viene prevista infatti, compresa nel costo, una cena finale tesa proprio a far socializzare meglio il gruppo a seguito di un’esperienza di cultura vinicola.

E come se, secondo gli organizzatori, non si potessero imparare le competenze sul vino se non lo si fa in una dinamica di socializzazione. Un aspetto che viene ribadito dalle stesse parole di Andrea che mette la socializzazione proprio come uno degli obiettivi del corso:

Il pubblico è stato sempre molto eterogeneo in tutti i corsi: mi ricordo di un corso in particolare dove c’erano dei dirigenti di banca e dei ragazzi con piercing in bella vista. Il vino che abbatte le barriere sociali: quando ho visto che parlavano la stessa lingua e farli uscire “abbraccia-ti” la sera della cena è stato l’esito più felice delle nostre aspettative.

Nell’intervista a Teo, al di là del suo ruolo di promotore di Gusto Nudo, troviamo delle nuove indicazioni impor-tanti su come questa artigianalità e socialità del vino venga tradotta nelle interazioni sociali, menzionando i rapporti di vicinato.

Il mio vino preferito è molto contadino e molto profumato. Dispettoso, magari anche con una confezione un po’ artigianale. Colorato ma sem-plice. Quest’anno il mio vino preferito è Les Poires Mouilles, un vino francese, e la prima bottiglia che mi son riuscito a procurare l’ho aperta

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una sera in una cena con i miei vicini. Ho un rapporto forte con i miei vicini, tra l’altro abbiamo fatto il vino insieme (l’intervistato vive in una campagna vicino alla città, Nda) ma non è ancora pronto e non posso dirti come è venuto! […] Queste cene con i vicini sono momenti di socialità importante dove ognuno porta qualcosa da mangiare o da bere: questo scambio di cibo e vino sicuramente favorisce e consolida la nostra amicizia.

Altro ambiente di socializzazione del vino ricordato dall’in-tervistato è la fiera di degustazione che scopriamo essere non solo per addetti ai lavori.

Le degustazioni sono per lo più frequentate da professionisti del set-tore ma anche da amanti del vino. Come quella che organizziamo noi (la fiera dei vignaioli indipendenti di Gusto Nudo, Nda): un giusto equilibrio fra la parte conviviale e la parte commerciale. Queste degu-stazioni sono veri e propri momenti di socialità.Il vino è un prodotto a cui ti affezioni e che magari ti dovrebbe spin-gere ad informarti a capire come è fatto e dove è fatto. L’ambiente è semplice, è quotidiano anche se poi il vino è un oggetto che si presta a mille narrazioni... io e Nicole Kidman che beviamo champagne nel ristorante sulla torre Eiffel! Ma io preferisco togliere la sovrastruttura, vorrei diminuirne l’importanza rispetto all’oggetto stesso.

Abbiamo inoltre intervistato una delle frequentatrici del corso, Giusy, 32 anni, occupata nel settore del marketing, spinta a seguire il corso anche perché ne aveva riconosciuto la parte ludica ed ironica. Ad accompagnarla in questa esperienza, un’amica. E in effetti la parte ludico-sociale sem-bra essere quella riportata con maggiore enfasi.

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Un gruppo molto eterogeneo, come non mi capita spesso, dai 22-23 anni fino ai 40 anni. E devo dire che il gruppo ha legato molto e, anche se ancora non l’abbiamo fatto, vogliamo presto ritrovarci. Non tutto ha risposto alle aspettative, ad esempio, se devo essere sincera, la mia amica non è rimasta troppo felice sul vino biodinamico, perché dice che ha un odore troppo forte... Per me invece è stata una felice scoperta. Tuttavia abbiamo scoperto la cosa più importante del vino: la sua sincerità... quella che porta anche nelle relazioni umane.

Prendi ad esempio la cena finale del corso: ci siamo molto divertiti perché ognuno si era un po’ tolto la maschera; del resto c’è chi aveva aveva portato la ragazza o il ragazzo, ognuno insomma portava una fetta di vita personale.Mediamente le persone che frequentiamo non conoscono molto di vino e quindi adesso possiamo dimostrare una certa confidenza con alcuni termini e certe volte i nostri amici restano stupiti.

Lo stupore degli amici di Giusy verso la sua competenza enologica recentemente acquisita ci ricorda che il sapere sul vino, in prevalenza, è considerato, nell’enciclopedia comu-ne, un sapere associato al genere maschile. Nell’intervista infatti emerge una cosa molto importante: il vino come og-getto che modalizza i generi rinforzandoli.

Quando sono al ristorante in un incontro a due, un incontro galante... lascio che sia l’uomo a prendere l’iniziativa sul vino. Insomma quando c’è la carta dei vini è lui che deve scegliere. E io un po’ lo assecondo... ora forse conosco meglio il vino, non so se questa cosa cambierà...

Quest’ultima battuta dell’intervistata ci ricorda come in al-

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cuni casi le competenze vengono taciute per favorire la stabilizzazione dell’identità altrui. Goffman (1975, p. 50) cita a questo proposito un caso paradigmatico emerso da una ricerca sociologica nella quale si notava come le ragaz-ze dei college americani, nei colloqui con i loro colleghi maschi, spesso fingevano di avere meno competenza sulle materie studiate con l’obiettivo di riconfermare il ruolo di esperto dell’uomo.

L’ultima realtà che prendiamo in considerazione è l’even-to estemporaneo del Critical Book and Wine, anch’esso, come già accennato, improntato sull’esperienza critical. Un’iniziativa culturale che nasce nel 2006 a Roma e che da allora ha portato quest’evento in altre città italiane: una fiera itinerante per le aziende vinicole e le case edi-trici cosiddette “indipendenti”, cioè che non seguono le tendenze mainstream dettate dal grande mercato di distribuzione.L’edizione bolognese del 2010 si svolge a fine febbraio e vede coinvolte 36 case editrici e 15 aziende pro-duttrici di vino. L’organizzazione parla di “iniziativa per valorizzare la bibliodiversità e la enodiversità”. L’evento si svolge in un centro sociale storico di Bologna, il Teatro Polivalente Occupato, meglio noto come TPO, nella sua nuova sede recentemente affidata dal Comune. La realtà dei centri sociali è stata e continua ad essere, forse ades-so con meno forza, una basilare realtà di aggregazione per i giovani che vivono a Bologna. Sono spesso centri orientati politicamente ma offrono una delle più ampie e variegate programmazioni culturali dell’intera città con un

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alto grado di accessibilità per ciò che riguarda i prezzi. La sede del TPO è adesso un grande capannone non molto lontano dalle mura del centro storico.Abbiamo sentito le due organizzatrici che, allo stesso tem-po, sono delle giovani fruitrici di vino e che dunque abbia-mo invitato a rispondere anche alle domande dell’intervista etnografica. Flavia, 32 anni, professione giornalista e organizzatrice di eventi, ci parla così delle sue esperienze relazionali attorno al vino:

A cena con amici o in occasioni particolari, con un amico che non vedo da tanto tempo piuttosto che compleanni, situazioni un po’ più intime in generale. Momento particolare da celebrare, curare l’acquisto di una bottiglia di vino. Quando organizzo una cena è imprescindibi-le... Principalmente lego il vino all’affettività.

Preferisco consumare vino in un ambiente molto caldo (un po’ come siamo adesso) dove si possa chiacchierare amabilmente. Forse, non lo nascondo, la situazione ideale è un incontro galante e ti bevi del buon vino; sono anche una grande amante dei passiti e quindi anche dopo cena, un momento ti siedi sul divano, fai delle chiacchiere in tranquillità. Mi fa piacere bere del vino insieme ad un amico/a cui sono affezionato/a.

Se penso alla situazione tipica è il bar De Marchi di Bologna, un posto molto alla buona dove trovi dai pensionati a tutti i personaggi del Pratello, quartiere famoso per la convivialità.

Nelle parole dell’intervistata, le tendenze narrative domi-

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nanti che abbiamo sin qui riscontrato sembrano tutte gene-ralmente confermate. L’altra fautrice dell’evento è Serena, 32 anni.La sua visione del vino è molto legata all’ambiente urbano e rivaluta for-temente la fruizione del vino nei centri sociali soprattutto da parte dei giovani. Consumo critico e consumo giovanile sembrano quindi essere legati da un doppio filo sia cultu-rale che politico. Serena ci specifica meglio la valenza unica dell’indipendenza sia che si tratti di vini o di libri.

Indipendenza, sia nel campo della produzione che in quello della distribuzione, sia del vino che dei libri. La produzione di libri e di vino hanno delle caratteristiche comuni... sono entrambi lavori cogniti-vi... specificità, competenze, prodotti che si realizzano perché una certa affettività viene messa nella produzione […] insomma stanno bene insieme, entrambe sviluppano socialità, sapere, cultura.

Un rapporto, quello fra vini e lettura, che è soggiacente a molte delle situazioni protagoniste della nostra etnografia. Tra i partecipanti a questo evento abbiamo intervistato Sara, 25 anni, fisioterapista. è tra le intervistate che più di-rettamente lega il vino ad un evento specifico, in particolare un evento gioioso.

Quando devo festeggiare qualcosa il vino non può mancare: un suc-cesso non può non essere coronato da un vino. Ad esempio, quando mi son laureata, quando ho trovato lavoro, quando sono andata ad abitare in una nuova casa.

Il rosso lo associo agli amici, il bianco a qualcosa di più elegante. Perso-

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ne sedute, non in festa scatenata ma in una situazione di tranquillità. Ri-spettare l’intimità dell’ambiente. Il volume della musica deve permettere di potersi sentire. E ovviamente si deve poter mangiare qualcosa.

Il viaggio turistico a base di vino è ancora una volta esem-plificato come una delle esperienze più ricorrenti di socia-lizzazione.

Una delle esperienze che mi ha più colpito è stata a S. Gimignano. Ero andata via con altre otto amiche per andare per cantine e andare alle terme: quindi relax totale. è stato un fine settimana che ci ricorderemo a lungo perché ci siamo proprio divertite.

Mettendo in relazione il racconto di quest’esperienza con quello dell’intervistata del Modo Infoshop, notiamo anche come il vino possa essere un felice aggregatore per gruppi “monogenere”, per rinsaldare e rinegoziare l’appartenenza alla femminilità, escludendo volontariamente l’altro genere (un meccanismo forse già più noto fra gli uomini). Sara chiude la sua intervista con un’osservazione generale sul vino come facilitatore passionale.

Insomma, credo che la gente vuole che il vino agisca da disinibitore e quindi provocare euforia e festa... ed è in fondo terapeutico.

Con quest’ultimo evento estemporaneo legato al vino chiu-diamo l’esposizione dei dati della nostra ricerca etnografica. Nel prossimo capitolo tenteremo dunque di tracciare uno sguardo più di insieme sui dati raccolti.

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3. Dai dati alle narrazioni relazionali

Tipologia degli spazi e attorializzazioni

Come abbiamo visto il vino evoca scenari di relazione mol-to diversi. Ci sono però delle ricorrenti trasversali anche rispetto al tipo di locale e al tipo di clientela/pubblico, di degustatori/partecipanti.I locali generalmente rispecchiano quella che è la di-visione più generale rispetto agli spazi di interazione: pubblico/privato. In un certo senso alcuni locali mirano a differenziare il loro ambiente da un ambiente casalingo (si veda il Bravo Caffè), mentre altri mettono in gioco proprio la narrazione domestica (si veda in particolare lo Zammù). Due costruzioni con due diverse isotopie figurative27 e che generalmente sottintendono spazi d’interazione e attorializzazione diversi. Possiamo dire che nel primo caso, la soglia tra gestore e cliente è marcata, mentre nel secondo c’è una sostanziale ambiguità. In effetti, se nel primo caso ad esempio chi serve ha normalmente una divisa, nel secondo caso chi sta al banco o chi serve ai tavoli si mimetizza con la clientela. Anche l’oggetto vino ha un trattamento diverso: nel primo caso le bottiglie esposte sono attentamente lucidate, presentate ordina-tamente e illuminate da una luce dedicata, un po’ come fossero oggetti da contemplazione. Nel secondo, il vino affolla le pareti in maniera più disordinata e senza luci dedicate. Anche gli spazi, in quest’ultimo caso, sono

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27. Per isotopia figura-tiva si intende, a livello discorsivo, la ricorrenza di una certa tipologia di elementi. Per isotopia domestica, ad esempio, si fa riferimento alla ricor-renza, in quel determi-nato ambiente, di alcuni tratti della domesticità, sia come organizzazione dello spazio che come attorializzazione dei sog-getti. Per una definizione più ampia di isotopia si veda Greimas, Courtés (2007, p. 171).

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fruibili dal cliente in maniera più libera (un po’ come si farebbe a casa propria in compagnia di amici).Questo però non vuol dire che c’è una valorizzazione positiva o negativa in termini assoluti: siamo di fronte unicamente a due forme narrative (intese a persuadere un certo pubblico) che prendono corpo in uno spazio aperto al pubblico, uno spazio che determina e previn-cola (anche attraverso le strategie dei custodi di questo spazio) tipi di comportamenti e di interazioni. Il Bravo Caffè ha in genere, al di là di margini di tolleranza so-prattutto nella zona dell’ingresso, degli spazi rigidamen-te previncolati. Nello Zammù, invece, lo spazio si lascia vivere e “abitare” più liberamente dal cliente. Potremmo dire, per riassumere, che il grado di istituzionalizzazione della pratica del bere vino è maggiore nel caso del Bra-vo Caffè piuttosto che nel caso dello Zammù. Tuttavia in entrambi i locali le pratiche hanno un certo grado di ritualizzazione.Un’ulteriore luogo modello da evocare invece riguarda la tipica cantina sociale, una narrativa molto presente nell’enciclopedia culturale degli utenti del vino. Questa evocazione avviene tramite svariati elementi metonimici: le cisterne di conserva del vino in bella vista (l’Alto Tas-so) oppure il soffitto ad arcate (si tratta della Cantina Bentivoglio, un locale solo marginalmente preso in esame perché in genere accoglie una clientela di una fascia di età superiore) oppure ancora gli scaffali di legno che, sulle pa-reti tutto intorno, ospitano centinaia di bottiglie creando un vero e proprio ambiente di immersione nel significante vino (enoteca Zampa).

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L’altro ambiente preso in questione è quello della strada, in particolare Via del Pratello (ma anche in un certo senso il Modo Infoshop che vede collegati la libreria e l’enoteca attraverso il passaggio sotto il portico). Come abbiamo già detto la particolare conformazione con ampio marciapiede a portico di quasi tutte le strade del centro di Bologna fa sì che questo spazio di soglia sia spesso utilizzato da-gli utenti dei locali. E come, nel caso di una via come il Pratello, questo luogo finisca per diventare una sorta di spazio limite che collega la strada, in questo caso anch’esso spazio pedonale, con la serie di locali. Una dinamica che è centrale durante i mesi primaverili ed estivi ma che ha la sua importanza anche in quelli più freddi. Il caso del Critical Book and Wine, infine, rompe queste categorie associando e mescolando un po’ tutte le tipo-logie; come succede spesso in ambienti polivalenti quali i centri sociali.Riassumendo le tipologie di spazio possiamo elencare:

Spazio con effetto di realtà domestico - Spazio locale istituzionalizzato- Spazio con effetto cantina - Spazio limite tra il locale e la strada: il por-- ticoSpazio ibrido (- Critical Book and Wine)

Da quello che possiamo vedere, nella fascia di età conside-rata dalla ricerca, c’è alta mobilità nella scelta della tipologia di spazio dove utilizzare vino. L’unica vera barriera può essere costituita dalle tariffe di consumo ma in generale non c’è un’ideologizzazione da parte del giovane consumatore

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che è aperto a nuove esperienze di socializzazione intorno al vino. è pur vero che gli spazi dove c’è una maggiore istituzionalizzazione del consumo sono frequentati da una fascia di età superiore; il Bravo Caffè, pur rientrando in questa tipologia, offre l’attrattiva di una stagione di concerti e quindi richiama un pubblico mediamente giovane. Si può avanzare una prima ipotesi generale che vede la fascia giovanile più attratta da luoghi dove il vino è socia-lizzato in maniera meno istituzionale, con una grammatica degli usi e dei consumi più rarefatta e disponibile ad essere trasformata continuamente.Ultima notazione va fatta sulla mostrabilità del vino tra l’interno e l’esterno: normalmente il vino non è esposto in vetrina (ovviamente anche per cause di conservazione). Si può intravedere dalle porte vetrate solo nel caso della An-tica Drogheria Calzolari, che rappresenta la tipica vineria, solo con uno spazio di degustazione in piedi, intorno al bancone, e in quello della già citata enoteca Zampa. Come abbiamo visto nelle interviste, inoltre, sono gli spazi privati ad essere richiamati molto frequentemente e spesso competono con quelli pubblici per il consumo della be-vanda. La cena fra amici e la festa casalinga sono due tra le situazioni maggiormente evocate dagli intervistati. Inoltre quando il vino diventa oggetto di scambio (lo vedremo meglio successivamente) modula i rituali privati della socia-lizzazione; non solo fra amici ma anche tra vicini di appar-tamento entrando a pieno titolo in uno degli oggetti che può normare i rapporti di vicinato. Questa importanza degli scenari domestici per il consumo del vino fa sì, come cercheremo di riassumere nelle pagine

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seguenti, che il vino sia molto radicato al concetto di intimi-tà e di interazione sociale libera dalle formalità.

Rapporti, territorio, identità sociali e politiche

Abbiamo più volte visto come in una città come Bologna, che accoglie studenti e lavoratori fuori sede, il vino diventi uno di quegli oggetti culturali che più di altri ricorda la terra di appartenenza, colmando un vivo senso di nostalgia. Allo stesso tempo esso diventa un oggetto per una messa in scena della propria cultura di provenienza, ad esempio quando viene portato in regalo nell’occasione di una cena fra amici. Il vino, viene ribadito nelle interviste, è definitiva-mente uno degli oggetti più importanti per fissare le identità incorporate.Questo è in parte dovuto al fatto che la maggiorparte degli intervistati ha iniziato a bere vino in famiglia, nei territori di origine, vivendo quest’oggetto come un attante fondamen-tale della propria narrazione identitaria, magari attraverso la mediazione dei genitori. è importante sottolineare, però, che, quasi sempre, il bere vino in famiglia ha un significato diverso dal bere il vino nella nuova situazione in cui si è scelto di vivere. Emblematico, ad esempio, è stato il caso dove si è parlato di una necessità di “tradurre” i rituali legati al vino nella terra di appartenenza in nuovi rituali della situazione urbana che accoglie la crescita durante questa fase in cui si passa all’età adulta. Senza dubbio il vino appartiene ad un vissuto importante nella vita familiare delle persone intervistate e sembra uno

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di quegli oggetti che fa capo ai rituali parentali e che viene riattivato per ricostruire i legami della nuova “famiglia” di approdo. Il vino, in maniera implicita, viene dunque a san-cire un legame di complicità e di mutua solidarietà, caratte-ri tipici dei rapporti parentali. Allo stesso modo, acquisire una certa confidenza con i vini del territorio bolognese, quando questo rappresenta una “seconda patria”, è un modo per radicarsi in questa nuova realtà. Al vino delle proprie terre è poi affidato un surplus di fiducia, un po’ come si fa verso una persona che condivide le nostre origini. Lo si carica di un carattere di conterraneità. Un ele-mento, del resto, già sottolineato dal lavoro di Mengoni28, cogliendo il valore locale del vino rispetto ad altri prodotti standardizzati tra i quali, ad esempio i cibi proposti dal-le grandi catene di fast food. Rispetto al libro di Ritzer (1997), che profetizzava la “macdonaldizzazione” del mondo, dobbiamo dire però che sono anche i localismi ad avere imposto una certa linea al mercato, in un doppio movimento fra mondializzazione ed etereogeneità dei pro-dotti del territorio. Ovviamente il vino è uno degli oggetti che è fortemente al centro di questo doppio movimento e l’Italia è proprio uno dei paesi dove più forte è questa doppia valenza: a fronte di una mercificazione del gusto del vino (il gusto del vino è determinato dal mercato più grande come ci insegna il documentario Mondovino del 2004) è anche vero che nel 2003 l’Istituto Nazionale di Economia Agraria (INEA) contava ben 450 denomina-zioni nel settore vitivinicolo. Nonostante questa certifica-zione territoriale così diffusa, d’altro canto, c’è ancora un livello maggiore di localizzazione: possiamo vedere come

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28. Si veda Mengoni (2005, in particolare pp. 39-50).

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per l’esperienza di Gusto Nudo è il vino stesso che ge-nera un vero e proprio pensiero politico che si espande più in generale al pensiero economico, al rapporto con il territorio e al rapporto consumatore/produttore. In questo caso il vino attiva un’aggregazione di tipo critica, con forte valenza politica: abbiamo già citato la figura del prosumer che, oltre agli effetti di “resistenza” critica, crea un nuovo sfondo narrativo di confronto dando vita a nuove dimen-sioni di socializzazione. Un caso analogo è quello dell’evento itinerante Critical Book and Wine che associa il vino al libro: non solo perché entrambi possono elevare lo spirito e, in un certo modo, sono antiutilitaristici, ma proprio perché sono prodotti che mettono in evidenza la questione dell’indipendenza. Indi-pendenza della produzione e quindi del gusto (o delle tematiche dei libri) rispetto alla produzione e alla distribu-zione regolata dalle logiche di mercato.Quest’idea di incorporazione dell’identità territoriale da parte del vino ha quindi più di una valenza sociale. Que-sto aspetto, ad esempio, è dimostrato ulteriormente anche quando è l’esperienza del viaggio ad essere associata alla scoperta di nuovi vini come oggetti culturali di fatto inseriti nell’itinerario turistico.In generale possiamo dire che sull’oggetto vino si condivi-de un sapere e che, come tutte le forme di conoscenza, crea una comunità di intenditori e un discorso su cui con-frontarsi. Questo sapere ha ovviamente a che fare con il territorio di origine ma non solo: comprende cognizioni di vario genere tra le quali le varie tradizioni di consumo e socializzazione del vino.

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Rituale sociale attorno al vino

Il vino viene spesso preferito ad altre bevande per cele-brare dei rituali, sia di tipo istituzionale come un anniver-sario, una laurea, ma anche nel caso del conseguimento di un’occupazione o per la partenza di un caro amico29. Questo rituale ha a che fare, oltre che con la bevanda stessa, anche con l’atto di condividere una bottiglia di vino. Un rituale che prevede molti elementi scanditi lungo l’estesia dell’intera operazione. Elementi come, ad esem-pio, l’estetica visiva della bottiglia che induce dei signifi-cati spesso ben codificati; oppure la fase dello stappare, un’azione non secondaria in generale e del tutto centrale nel caso di vini spumanti; e ancora l’atto dell’odorare e di tutte le varie sinestesie legate direttamente al vino ma anche ai suoi accessori, uno fra tutti il bicchiere, in particolare il calice. è vero che il rituale della degusta-zione, il bere per giudicare da conoscitori, è molto più codificato e più rigidamente normato rispetto a quello del bere fra amici. Potremmo anche stilare una tipologia di utenti del vino che vanno dal semplice bevitore, per passare all’amatore del gusto del vino fino al vero e pro-prio degustatore30. Tuttavia possiamo pensare che un certo sintagma narrativo si ripeta nelle diverse occasioni31: avremo comunque una ritualizzazione dell’oggetto della bottiglia di vino.Questo rituale sembra quindi avere i suoi precisi oggetti, tempi e azioni, e credo che non sia fuori luogo parlare di efficacia simbolica, richiamando l’espressione usata da Levi-Strauss32 e utilizzandola in questa sede per indicare come il

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29. Si tratta del caso evidenziato in un’intervi-sta che non è rientrata fra quelle selezionate.

30. Hennion, Teil (2004) descrivono un continuum del grado di organizzazione del bere vino che va dalla cena fra amici fino alla degu-stazione alla cieca. Due poli che vanno da “un affioramento percepito durante il flusso di altre interazioni ordinarie […] fino alla costruzione for-malizzata e controllata di un contatto organizzato per produrre dei giudizi motivati” (traduzione mia, p. 115).

31. Si veda a proposito di questa differenza il saggio di Galofaro (2006, pp. 159-174).

32. La terminologia viene teorizzata in Levi-Strauss (1958) con riferimento alla cultura della popo-lazione centroamericana dei Cuna e ad un par-ticolare rituale condotto da uno stregone che coinvolge una donna partoriente per facilitarle il parto.

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vino e il rituale legato alla sua degustazione (intesa in senso ampio) induca dei significati e delle modalizzazioni affetti-ve dei soggetti coinvolti: la serie di azioni simboliche sono efficaci perché modalizzano passionalmente i soggetti, con-tribuendo a fare delle loro realtà distinte una realtà sociale, dei loro corpi dei corpi sociali trasformati passionalmente e somaticamente33.Del resto il vino, e, ripetiamo, gli specifici accessori che gravitano attorno a questa bevanda, già di per sé attorializ-zano i soggetti che si apprestano ad “utilizzarlo”: vediamo, ad esempio, come nella situazione tipica di un incontro galante in un ristorante, il vino viene a rinforzare le identità di genere (caso raccontato dall’allieva del corso di Gusto Nudo) o le identità gerarchiche di un ambiente lavorativo come del caso della scelta del vino nel pranzo di lavoro (racconto dell’intervistato dell’Alto Tasso).Prendiamo il caso dei ruoli di genere. Del vino come facilitatore passoniale è stato già detto: in particolare qui si evidenzia il vino come oggetto protagonista dell’in-contro galante. Anche in questo caso molti hanno detto di preferire la sfera privata di consumo ma per contrasto altri invece preferiscono i luoghi altamente istituzionaliz-zati come i ristoranti. Dei locali presi in esame nessuno è un vero e proprio ristorante (solo il Bravo Caffè è quello che presenta una carta di pietanze più ampia, sottoline-andolo sull’home page del sito). Tuttavia la situazione del ristorante è stata più volte evocata dagli intervistati: il ristorante finisce ancora per essere il luogo principe della ritualizzazione dell’incontro galante a base di vino e cibo. Per alcuni è anche il luogo dove la galanteria

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33. Si veda in Marrone (2001, p. XXXV) la stessa dinamica dell’effi-cacia simbolica applica-ta ai testi prodotti dai media.

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ristabilisce i suoi valori tradizionali e i ruoli di genere più netti. Non importa se questi valori siano poi accettati o ironizzati (quest’ultima forse la scelta più diffusa nel nostro campione), quello che ci interessa è che il vino e l’ambiente del ristorante possono avere questa capacità di stabilire o ri-stabilire i ruoli di genere tradizionali. Del resto, sul consumo di alcool legato alla rappresen-tazione di genere è stato dedicato più di uno studio (si veda il già citato Gefou-Madianou, 1992). Si può riassumere dicendo che ove i rapporti di genere siano già fortemente connotati, le relazioni attorno al vino possono servire per reiterare e rinforzare questi rapporti. La fascia di età prescelta dallo studio però si avvicina ad una situazione dove le soglie di negoziazione fra i generi sono in continuo movimento e ridefinizione, una fascia di età normalmente incorniciata da situazioni più definite: quella della famiglia di origine, come abbiamo già analizzato, e quella che sarà la famiglia più stabile di approdo, che mediamente nella società italiana odierna si comincia ad intravedere intorno ai trent’anni. Un’ipo-tesi che sancisce definitivamente lo stretto legame fra il vino e le relazioni parentali.Il vino, inoltre, è fonte di relazioni importanti non solo nel momento del consumo ma anche in quello dell’acquisto. è ricorrente negli intervistati la fiducia accordata a chi sa con-sigliare del buon vino, come nel caso della cliente dell’An-tica Drogheria Calzolari.Un altro aspetto ricorrente nelle interviste è quello del dono. è noto come l’antropologia abbia dedicato molta letteratura allo studio del dono a partire soprattutto da

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Marcel Mauss34, ritenendolo una forma di organizzazio-ne sociale molto importante e alla base della dinamica dello scambio, attività centrale della società umana. Il vino gioca un ruolo particolare perché essendo un og-getto effimero (una volta bevuto difficilmente la bottiglia viene conservata) di solito non resta nelle mani del de-stinatario come memoria del soggetto che ha effettuato il dono. Inoltre il vino regalato è il più delle volte con-sumato nel momento immediatamente conseguente: un oggetto dunque che viene offerto e poi subito fruito. Più che un oggetto si regala dunque un’esperienza da condividere, che spesso fa il paio con la cena offerta da chi riceve l’ospite. Un caso particolare dunque di dono che sembra non generare debito e lo squilibrio tipico nel rapporto fra donatore e chi riceve il regalo. Ovvia-mente regalare vino può spesso funzionare alla stregua di ogni altro oggetto (si veda l’esempio dell’intervistato dell’Alto Tasso); tuttavia, nelle nostre interviste, sia che si tratti di vino regalato ad amici che, ad esempio, ai ge-nitori, l’obiettivo più partecipato sembra essere il dono dell’esperienza condivisa.

L’esperienza sociale della “sbronza”

La fascia di età intervistata, soprattutto nella sezione più giovane ammette di far spesso uso di vino con l’obiet-tivo ben preciso di raggiungere lo stato di euforia pro-vocato dall’ebbrezza. Parla di questa esperienza come una pratica condivisa soprattutto in situazioni di festa.

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34. Il suo Essai sur le don appare per la prima vol-ta nel 1923, uno studio sulla pratica del dono in diverse organizzazioni sociali.

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A posteriori tutti ne parlano in modo negativo e spesso indicano nella “sbronza”, lo stadio avanzato dell’ebbrez-za nel quale normalmente ci si accorge di aver supera-to un certo limite di autocontrollo: viene definita senza eccezioni come una fruizione sbagliata del vino. è però senza dubbio un’esperienza che molti intervistati dicono di aver provato e spesso ricercato intenzionalmente, as-sociandola il più delle volte ad un vino qualsiasi, normal-mente ricordato per i suoi aspetti quantitativi piuttosto che qualitativi.Nelle risposte è evidente la percezione della sanzione so-ciale negativa della “sbronza” e il rischio che essa contiene di poter causare danni alle relazioni amicali (piuttosto che rinforzarle). Sappiamo però come nelle interviste sia difficile am-mettere comportamenti negativi, tradire cioè la facciata (per utilizzare un termine goffmaniano35). In verità, il timore della negatività della sbronza a livello relazionale è forse meno forte dell’idea che vuole la condivisione di un’ubriacatura come un felice consolidamento delle amicizie. La disposizione degli intervistati sembra allora quella di vivere lo stato di alterazione euforica in grup-po come una vera e propria avventura, comprendendo in tale avventura persino i postumi fisici di questa espe-rienza, spesso tema di discussione nei giorni successivi. Anche in questo che a prima vista può sembrare il rapporto meno culturalizzato con il vino, il più istintivo e dionisiaco (e in fondo il più pericoloso), in realtà c’è una narrazione rinforzata dal grande discorso, normal-mente occultato alle ricerche sociologiche e preso in

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35. Si veda Goffman (1975).

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causa solo da quelle mediche, che verte sull’esperien-za dell’ebbrezza. Sono convinto, anche se spesso non emerge direttamente dalle interviste, che l’esperienza condivisa della sbronza è un vero e proprio rito di passaggio di gruppo, su cui le relazioni talvolta basano i propri legami di fiducia. Normalmente questa pratica definisce le relazioni ma-schili ma in questa fascia di età, abbiamo visto, si può riscontrare di frequente anche nelle relazioni fra ragazze. Si verifica, forse ovviamente, che con l’avanzare dell’età si fa sempre più fatica a parlare della sbronza al presen-te. Gli intervistati intorno alla soglia dei trenta, infatti, hanno parlato di queste esperienze riferendosi sempre ad un tempo passato. In questo senso la fascia di età è infatti rappresentata molto disomogeneamente e so-stanzialmente divisa in due parti (da 18 a 25 e da 25 a 35 anni).Contestualmente all’esperienza sociale della “sbronza”, quasi a confermare questa nostra ipotesi, c’è l’affermazione che per saper apprezzare il vino ci vuole una certa maturi-tà. Da un approccio istintivo, dato da un obiettivo total-mente edonista, si passa ad una culturalizzazione del vino stesso, con una vera e propria acquisizione di competenza che fa “riconoscere” il gusto, ne articola il senso in un discorso e quindi ne determina le differenziazioni. Questa competenza non è quella istituzionale del connaisseur e ci fa pensare che è piuttosto una norma imposta socialmente al rapporto “maturo” con il vino, una competenza che incorpora socialmente la sanzione negativa dell’ebrietà del vino, diminuendone l’estraneità.

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In ogni caso tra gli intervistati nessuno vede il vino come bevanda trasgressiva, come magari viene più considerato, dagli stessi intervistati, il superalcolico in genere. Il vino è una bevanda accettata e inclusa nei termini della no-stra cultura e nessuno ne vede un agente trasgressore di regole, perché, anche quando ne viene fatto un abuso, quest’esperienza rientra maggiormente nella narrativa sociale in cui siamo immersi.C’è da dire che un’intervistata ci fa notare come le ultime norme restrittive del codice della strada fanno sì che per chi guida ci sia notevole attenzione nel bere anche un bicchie-re di vino, dando vita così a nuove forme di socializzazione che nel gruppo devono individuare il soggetto destinato a non bere e a guidare.

Adesione ai valori e identità

Fra i nostri intervistati, l’autenticità del vino è un terreno di discussione molto frequentato e risente della attua-le tendenza del consumatore critico che legittimamente richiede di conoscere la filiera produttiva dell’alimento che acquista e che consuma. Abbiamo potuto notare un continuum molto ampio che va da chi afferma che il vino è per definizione “sincero” fino a chi invece sospet-ta sulla bontà valutativa delle denominazioni e ritiene la conoscenza diretta del produttore uno dei pochi ele-menti validi per certificare l’autenticità del vino. Anche in questo caso, però, dobbiamo ricordarci che l’auten-ticità funziona come effetto di senso e quindi ha le sue

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strategie veridittive alle quali un soggetto può aderire o meno. Ad esempio, c’è chi, appunto, vede nella cono-scenza della filiera il certificato di tale autenticità e ac-cetta anche l’imperfezione di una confezione artigianale; c’è chi invece rifiuta questo tipo di segnali e accetta invece solo una certificazione più standard del vino che si associa ad una confezione curata anche esteticamente. Generalmente quindi nel consumo giovanile l’autenticità è un concetto importante ma gli indici che garantiscono questa autenticità sono vari e spesso oppositivi. Più proficuamente dovremmo richiamare a questo pro-posito gli studi sull’identità del consumatore che ri-sponde a determinate sollecitazioni di marketing e che ricordiamo qui in conclusione di scritto per offrire un ulteriore sguardo epistemologico. Il semiotico francese Jean Marie Floch36 propone le categorie dell’assiologia del consumo proiettando sul quadrato semiotico l’arti-colazione semantica della valorizzazione di un prodotto. L’oggetto può quindi avere una valorizzazione pratica (valore utilitario), valorizzazione utopica (valori più le-gati all’identità), valorizzazione ludica (quella che nega i valori utilitari) e infine quella critica (i rapporti qualità/prezzo, innovazione/costo). Queste categorie oltre che a definire delle modalità di approccio al prodotto (sia da parte del consumatore che da parte del produtto-re), possono suggerirci gli sfondi narrativi delle ambien-tazioni sociali di relazioni che si instaurano attorno ad un prodotto, in questo caso attorno al vino. Il discorso sull’autenticità diventa quindi più ampio e possiamo dire che le adesioni agli effetti di senso dell’“oggetto vino”

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36. Si veda Floch (1992 e 1997).

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da parte del consumatore o da parte di una comunità di consumatori possono essere organizzate secondo il modello proposto da Floch.Avremo allora una lista di questo tipo (in maiuscolo sono segnate le valorizzazioni):

PRATICA; vino di “servizio”, che assolve il suo - carattere più diretto, cioè accompagnare senza protagonismi un pasto; oppure un vino destinato più che altro a far raggiungere l’ebbrezza. Il vino è visto come un aiutante del proprio programma narrativo base associato a questa bevanda.UTOPICA; il vino assolve una funzione iden-- titaria, un effetto di senso che guarda all’identità profonda del soggetto bevitore, legata spesso (ma non solo) al territorio.LUDICA; si sceglie un vino rifiutando i para-- metri razionali; ad esempio per l’estetica lussuosa dell’etichetta o della bottiglia.CRITICA; scelgo quel vino perché costa poco - rispetto alla quantità e alla qualità, oppure perché è più sano anche se magari imbottigliato con un estetica meno persuasiva.

è indubbio che queste categorie possono essere ritrovate non solo nelle forme di comunicazione strettamente legate all’oggetto vino ma anche negli ambienti dove si può bere vino e di cui abbiamo visto in questo studio una prima categorizzazione. In ogni caso queste articolazioni possono aiutarci a pensare e descrivere meglio le pratiche di consu-

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mo e quindi anche le pratiche relazionali che si intessono intorno al vino. Quello proposto da Floch è ovviamente un modello che non vedrà mai pratiche di consumo per-fettamente allineate su una sola categoria: il più delle volte siamo di fronte a descrizioni ibride. Lo stesso Floch intende le posizioni del quadrato come un percorso di senso in una narrazione: può essere quello contenuto da un catalo-go per la vendita di mobili37, dell’esperienza estesica della degustazione del vino (nel nostro caso), piuttosto che in riferimento ad un intero percorso di vita.Aderire ad un certo tipo di valorizzazione del vino del resto implica un certo orizzonte narrativo nelle esperienze relazionali ad esso legate. Ad esempio chi vuole sbron-zarsi in compagnia probabilmente avrà una visione pratica del vino ma ne potrà valorizzare anche gli aspetti utopici come chi ne sancisce un valore rituale; in un certo tipo di dono o nella fruizione di vino in un certo tipo di locale, si costruirà meglio un’adesione ai valori ludici; nella valu-tazione critica possono rientrare molte fruizioni del vino, da quella di analisi costi/benefici sia in termini di qualità che di rispetto per l’ambiente. Ma queste categorie, come già detto, possono rendere più intelleggibile la realtà solo se sovrapposte, se applicate e sperimentate nelle diverse sfaccettature dell’analisi.

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37. Si veda Floch (1997, pp. 163-192).

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4. Conclusioni e prospettive

L’approccio di questa ricerca nella descrizione degli effetti comunitari del vino ha cercato di modulare l’osservazio-ne etnografica con la riflessione sui dati raccolti attraverso un’analisi del senso testuale vicina alla metodologia semio-tica. Questo lavoro ha portato ad alcune ipotesi che abbiamo riassunto nel capitolo precedente, cercando di organizzare e schematizzare le analisi dei dati empirici, già selezionati ed esaminati nel secondo capitolo.In queste ultime righe vogliamo soffermarci brevemente sull’idea di comunità e su quella di trasformazione delle identità che questa ricerca ha sollevato sia in rapporto al vino ma anche in maniera più generale.Bisogna innanzitutto ricordare l’isotopia parentale che il vino sembra evocare come sfondo narrativo in quasi tutte le interviste. Alla luce di questa evidenza si può ipotizzare che nella nostra cultura il vino sia uno di que-gli oggetti che più di altri favorisce la creazione di una comunità, nell’accezione di Gemeinschaft, cioè di un gruppo legato più che da spinte di interesse personale, da legami di interesse più collettivo e solidale, tipici, ap-punto, di quelli che caratterizzano un’aggregazione come quella familiare.Detto questo, vorremmo ritornare su un’altra caratteristica del campione della ricerca, come noto formato da una fa-scia di popolazione giovane che generalmente socializza in locali pubblici e che abita la città di Bologna. Questo soggetto collettivo infatti corrisponde anche ad un per-

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corso di identità in trasformazione: si tratta per lo più di persone che iniziano e perseguono un’acquisizione di com-petenze in vista di una carriera lavorativa; spesso arrivando da altri luoghi e comunque, in generale, sperimentando la città senza la continua mediazione familiare del periodo di vita precedente. Questo periodo corrisponde il più delle volte ad una trasformazione delle relazioni sociali in vista di un’affermazione del sé. E questa identità si struttura su degli stili di vita che non sono altro che congiunzioni o di-sgiunzioni del soggetto a determinati altri soggetti, oggetti, situazioni, ambienti: in una parola, narrazioni. Ecco allora che il vino, in questo periodo della vita, senza distinzioni di genere pertinenti, viene dunque ad “alimentare” una grande narrazione identitaria, diventa cioè un attivo interlocutore per la negoziazione di un’identità in forte trasformazione. Ricoeur, nel suo Sé come un altro38, teorizza l’identità come una costruzione narrativa che si incardina sui due poli del discorso identitario stesso, l’idem, cioè il carattere perma-nente nel tempo, e l’ipse, qualcosa di più mutevole che ha a che fare con il rapporto con l’altro. Ora nella fascia di età presa in considerazione, in un contesto urbano di identità più mobili e anonime rispetto al piccolo centro, l’innova-zione identitaria ha più peso rispetto al mantenimento del sé e quindi il carattere mutevole dell’ipse va a ristrutturare notevolemente l’idem.In questo contesto allora il vino può assumere un ruolo centrale proprio per come lo abbiamo visto essere presente nella vita sociale delle persone, nei rapporti con l’altro, nel polo dell’ipse, per dirla ancora con Ricoeur. Come ca-talizzatore di più versanti dell’identità, in quanto oggetto

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38. In questa sede Ri-coeur è ripreso in ma-niera molto semplicistica. Per una trattazione del problema della narrativa identitaria si veda diret-tamente Ricoeur (1993).

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profondamente inscritto nella nostra cultura di riferimento, il vino è perciò un oggetto di studio molto proficuo in una ricerca sulle interazioni sociali e sui lori orizzonti narrativi in una determinata situazione culturale. Un oggetto che ci dice molto di più rispetto a quello che può sembrare di essere, soprattutto se si osserva ciò che succede nel suo intorno. Un oggetto antropologicamente fecondo che potrebbe dar vita (e in parte lo ha già fatto) a tutto un filone di studi che vedono al centro il vino come oggetto fonte di rituali e interazioni sociali, a partire proprio dalla quotidianità contemporanea. Un genere di ricerca al quale, si spera, questo studio possa dare il suo contributo.

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Finito di stampare nel mese di maggio 2010

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Pubblicazione realizzata nell’ambito del Progetto ‘Vino e Giovani’ con il contributo del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali D.M. n. 13801 del 14.09.2009

Dipartimento di Scienze delle ComunicazioneUniversità degli Studi di Siena

Enoteca Italiana

di Luca AcquarelliEtnografia del consumo del vino negli spazi pubblici

Vino, identità e relazioni sociali

Foglio N. 5

vinoe gio

vaniart de vivre!