Fino all'ultima fila

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poesia e teatro, di michele ortore

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Michele Ortore

Fino all’ultima fila

Poesia 2.0, 2011

C'è una corda sottilissima, tirata al massimo della

tensione per le tante affinità e lo stesso isolamento,

che congiunge la nostra scena teatrale

contemporanea e la nostra recente, bistrattata

poesia. Una corda che mi piacerebbe pizzicare in

questa rubrica, a ritmo sincopato, cogliendo singoli

libri e singoli spettacoli e provando a farli parlare, in

un dialogo teorico ma non teorizzante: senza la

pretesa e la sicumera dei sistemi comparatistici; ma

anche senza le velleità di certi impressionismi, perché

ci sono fin troppe parafrasi emotive che nascondono

il loro soggettivismo con boschi di citazioni e lessico

dotto, in entrambe le platee di riferimento.

Qualche tempo fa, Attilio Scarpellini è intervenuto in

un dibattito sulle possibili vie d'uscita dal post-

moderno nella scena contemporanea. Alcuni spunti

del suo testo sono ben applicabili, da un punto di vista

sia descrittivo sia propositivo, anche al microcosmo

della poesia, che Scarpellini, come vedremo, chiama

direttamente in causa. Userò qualche sua frase a mo'

di collante per il primo dei nostri dialoghi, facendo

qualche osservazione su temi trasversali come lo

stallo del post-moderno, la marcescenza della

condizione ironica, le difficoltà nella ricerca di nuove

soluzioni etico-estetiche.

Facciamo entrare in scena, allora, le due opere-attori,

entrambe firmate da artisti ex-emergenti ma ormai

conclamati da pubblico e critica: Sulla bocca di tutti di

Maria Grazia Calandrone e Bestiale improvviso del

collettivo Santasangre.

Sulla bocca di tutti è la pluripremiata (Premio Napoli,

premio città di Sassari, finalista premi Cetona, Sandro

Penna e città di Fabriano) ultima fatica della poetessa

e performer romana: è la raccolta, per dirla con uno

stereotipo, della definitiva affermazione. È senz'altro

quella con cui lo stile della Calandrone mostra,

ineludibilmente, la conquistata capacità di

sorreggersi da sé, di parlare una lingua propria e

indipendente: quella lingua altra che distingue lo stile

dalla maniera. L'analisi lessicale, vedremo, può essere

una buona strada da seguire per attraversare il

magma di questa grande opera.

Bestiale improvviso è stato tra gli spettacoli di

maggior successo del Romaeuropa Festival 2010:

anche in questo caso, segna la conferma di una

ricerca già ben avviata e già fruttuosa di risultati

convincenti, ma che proprio per questo rischiava

l'iperfetazione o il semplice passaggio a vuoto.

Santasangre è forse il gruppo di punta

dell'avanguardia performativa italiana: un approccio

geniale allo studio visivo, capace di coniugare arte e

scienza nella prospettiva di un'unica drammaturgia

della materia, allineando l'elettronica, il teatro danza

e gli effetti fotografici in progetti visionari e

apparentemente irrealizzabili. Santasangre ha

portato in tour un enorme blocco di ghiaccio sospeso

sopra il palco per uno spettacolo sui cambiamenti di

stato (Framerate 0), ha trasformato in teatro la

reazione nucleare alla base dell'energia solare (il

nostro Bestiale improvviso). Per avere un'idea

generale dello spettacolo in questione, se non lo si è

visto, sarebbe utile leggerne una recensione: ne

segnalo due, qui su Teatro e Critica e qui su

TeatroTeatro.

Parto da un presupposto, consapevole che si

potrebbe dire la stessa cosa per ogni prodotto

artistico, ma convinto che valga in particolare per

questi due lavori: leggere le poesie di Maria Grazia

Calandrone o vivere lo spettacolo di Santasangre

sono esperienze concluse e traducibili soltanto in sé

stesse; ogni tentativo di sintesi o di semiotica

artigianale avrebbe mesti risultati, perché in entrambi

i casi il ruolo della forma domina su quello del

significato, e in entrambi i casi si parla di forme non

illustrabili in termini canonici.

In tanti modi si potrebbe tentare una descrizione

dell'architettura mentale e poetica che sta alla base di

Sulla bocca di tutti. La centralità del corpo, la

pendolarità di amore e dolore, il pathos come anello

di congiunzione, il lirismo esterrefatto di una lingua

tanto cruda quanto tesa all'assoluto, capace di

costruire vuoti e pieni attorno a una partitura lucida

ma come in fuga, in costante nascondimento. Forse,

però, alla base di tutto questo c'è una caratteristica

non del tutto scontata: Sulla bocca di tutti non è, in

alcun modo, un'opera ironica. Non c'è un solo verso

dell'intera raccolta che abbia una sfumatura ironica:

non certo per banale sussiego, ma perché i valori

fondativi di questo testo sono la compassione,

l'adiacenza all'alterità (l'alterità dei morti, ad

esempio: non solo per i presupposti biografici

dell'opera, ma anche per la fortissima ascendenza di

Paul Celan, chiarissima nei contenuti, nella lingua, nel

procedere visionario), l'attualità dell'amore come

legame tra le materie declinate in corpi,

l'accettazione come scelta assoluta e finale (tema

centrale del ciclo mariano nella sezione Indizi sulle

fondamenta della luna nuova: "perché questo lasciare

che accada / è più dell'amore, questo dire / chi deve

andare vada"). Presupposti del genere non possono in

alcun modo coesistere con l'ironia, la cui matrice

sarebbe invece il distacco soggetto-oggetto e la

mancanza di empatia1. L'assenza del procedimento

ironico segna, a mio parere, la distanza fondamentale

della Calandrone dalla neoavanguardia e dai suoi

epigoni. Considerando la polarità tra ironia e lirismo,

l'autrice propende per il secondo. Si tratta, però, di un

lirismo molto diverso da quello tradizionale.

Lasciando un attimo da parte la componente più

strettamente linguistica (che però è fondamentale) di

questo lirismo, mi voglio prima soffermare sul suo

instancabile procedere metamorfico. Cito da Il corpo

tratto dalla leggenda: "ma le unghie crescendo

separavano il tempo / in due meditazioni: bucaneve (ciò

1 Ciò ovviamente non toglie che nel complesso del meccanismo ironico ci possa essere, a volte, perfino affetto. Basti pensare alla parodia: per Agamben, la dissacrazione è l'estremo tentativo di un'affermazione che l'epoca ha reso impossibile in altre forme.

che non teme / peso) e la seconda / arco (quanto viene

installato /sopra, per riparare)". Prima di tutto: questi

cinque versi, estrapolati dal testo, non sembrano poi

così lirici. Eppure basterebbe leggere la poesia cui

appartengono per accorgersi che lo sono eccome. La

Calandrone, insomma, non affida l'elemento lirico

alla forza evocativa di singole immagini o all'incidere

ritmico di una porzione testuale, ma all'ansia iconica e

soprattutto prosodica dell'intero brano. Proseguo con

un piccolo resoconto semantico: elemento umano

(unghie), naturale (bucaneve), tecnico-artificiale (arco,

installato, riparare), astratto (tempo, meditazioni,

peso). Ciò che mi sembra straordinario non è la

semplice compresenza di questi campi semantici, ma

la loro relazione: non sono l'uno la metafora dell'altro;

non c'è il passaggio tra diverse categorie mentali e

cognitive; nessuno scambio umano-naturale, basso-

alto, concreto-astratto; nulla serve ad esplicare

qualcos'altro. È tutto, assolutamente, sullo stesso

piano. Un esperimento democratico in cui alla

metafora si sostituisce l'essere subito e davvero ciò

che segue o ciò che precede. In questo caso, potrei

interpretare i versi così: l'autrice sta parlando

dell'ambiguità dell'uomo, del suo voler essere solo ed

ingenuamente un corpo (le unghie che crescono, il

bucaneve che spunta fuori dal manto bianco e non

teme il peso perché aderisce semplicemente alle leggi

naturali) ma allo stesso tempo la sua necessità di

intellettualizzare, di rispondere al caos con la sintesi

(l'arco che ripara e congiunge la contraddizione, che è

installato sopra la natura, cioè tramite astrazione).

Ma, come si può vedere, anche nel caso di

un'interpretazione che mi sembra convincente è

difficilissimo separare il segno dal referente, il

significato dal significante. Qualche altro esempio, in

cui i membri filosofici, umani e naturali dei versi

sembrano seguire criteri di perfetta equivalenza,

senza dilungarmi in commenti: "Qui niente è lieve,

siamo larve / dolorose - eppure / alla sventagliata di

schegge / segue l'istinto verso la salvezza / della testa",

"lontanissima / dai pilastri centrali delle loro ossa /

rivolte come assi / verso il centro perfetto / del cielo"

(Quando non eravamo); "Un volo / si rimboccava come

un lino bianco / su un sistema di organi vitali, inclinava /

alla lentezza della grazia tra le poche ossa / perché il

corpo si perde a poco a poco / e al suo posto incomincia

la grazia" (Questa probabile persona); "il compito / di

staccare parola per parola la stella morta / dalla volta

celeste del costato" (Una nominazione eterna); "Nel

legno resta l'eco del lavoro come io resto / chino nella

mia cenere / con il mantello azzurro e tutto splende al

posto del mio / cuore", "sei vestito / della luce dei golfi e

il tuo corpo / non ha domande, è un corollario /

preparato all'effimero" (Vittoria dei corpi sul rumore); "il

legname dei corpi / come navi avvistate al lume / della

candela lunare / mentre tutto si stacca senza rimpianto.

Le cose / sono bellissime" (Maria, Passione).

Ho usato, prima, l'espressione lirismo esterrefatto.

L'etimologia2 di questo aggettivo non potrebbe

essere più illuminante: ex terra factum, fatto di terra.

Il lirismo in Sulla bocca di tutti riesce a liberarsi

dell'ottica antropocentrica proprio attraverso questo

farsi terra, farsi natura, questa democrazia degli

elementi in relazione spontanea e paritaria, questa

filosofia quasi lucreziana per il perpetuo ribaltamento

del concetto astratto in materia e corpo. Diventa

possibile, allora, un lirismo che non sia schiavo del

narcisismo dell'io, perché in questo caso l'io include il

mondo, non è esclusivo. Alla base dell'inclusione c'è

un rapporto con la vita che, proprio perché così

tremendamente doloroso, splende di fiducia

nell'albedo più intimo. Fiducia nell'uomo: "Uomini e

donne sono alberi degni di innalzarsi nei boschi / colpiti

da immortali / raggi di sole [...] nonostante / l'epidemia

delle trincee" (Quando non eravamo). Fiducia nella

natura e nelle sue "formule", pur senza edulcorare

nulla della sua azione impersonale che travalica il

dolore umano: "Ma la natura conserva per noi / tanta

dolcezza e tanta / lungimiranza da non avere occhi per

il dolore e quasi / pazza d'amore perdutamente

2 Faccio riferimento ad un’ipotesi di Alberto Savinio. Secondo altri, la parola sarebbe invece riferibile al tema di terrere.

incatena / cellula a cellula sopra la circostanza. / Ogni

volta il suo ago ci ricrea mentre ci trafigge. La vita

cresce contro l'imme- / -diata / volontà" (Quando non

eravamo), "io, lo / sai, passo indenne attraverso ogni

scomparsa perché credo / alle formule / e ho fiducia

nelle attrezzature, negli scalpelli che hanno sca- / vato

nella coscienza e nell'abbandono / per comporre la

somma che siamo stati" (La chiara circostanza).

Fiducia nell'amore, cioè la relazione fortissima e

persistente, di pietas più che di vera e propria unione,

che congiunge le mille mutazioni della materia.

Fiducia. Non avrebbe molto senso la fiducia, se non

abbracciasse con le radici il concetto di autenticità, di

innocenza, di naturalità: proprio quell'autentico

deriso e contraffatto dal post-moderno, anche nella

sua versione teatrale, come dirò tra pochissimo. Solo

il tempo, prima, di lasciar emergere l'autentico (o il

sacro) di una piccola meraviglia di questa raccolta,

un'Arietta dei bambini quasi inaspettata per l'assenza

di lacerazioni, il linguaggio piano: "Il sole / ardeva

quieto nella sua onda / dalla finestra grande perché

grande / era il cuore / e disinteressato / come il sole che

appoggia la sua luce sulle acque del fiume [...] è bello

custodire / l'aria nuova sul viso di chi nasce, con mani /

umane conservare / sacro il sacro, fare l'aria più chiara

dove tocca / il cuore, perché il cuore sia semplice e

leggero / come un aquilone / e altre cose che vanno

dalla terra al cielo".

Anche nel teatro l'analisi del post-moderno non può

fare a meno di soffermarsi sulla questione dell'ironia.

Dice Scarpellini: "è così evidente questa ironia sulle

nostre scene, costituisce a tal punto il loro collante

formale e il loro presupposto affettivo, che citarla e

affrontarla è persino inutile, se non impossibile -essa

infatti non è più semplicemente una figura, ma una

condizione". La condizione ironica del performer di

oggi è ben visibile, per esempio, nel modo in cui

stabilisce l'intesa col pubblico: un'intesa basata

sull'ostentazione delle convenzioni teatrali e delle

illusioni sceniche, sullo smascheramento della

finzione narrativa, cioè sulla continua messa in

discussione della validità del messaggio. Non si evade

solo dal teatro borghese, dallo spettacolo come rito

di conferma sociale, ma anche dalla tentazione del

coinvolgimento emotivo dello spettatore, dalla

costruzione attiva di senso. Certo, le cose sono più

complicate, e anche qui si potrebbe dire che il senso

prende corpo proprio attraverso quest'opera di

disillusione e di erosione semiotica. Due punti, però,

mi sembrano fondamentali. Il primo: la sfiducia

sociale e politica dell'artista di teatro slitta in sfiducia

per il linguaggio scenico in sé. Mi sembra che ciò

somigli moltissimo a quella convinzione del Gruppo

63 di potersi opporre alla classe dominante

lacerandone la lingua borghese. Rifiutare il reale

tramite il mero sconvolgimento (e non la ri-

costruzione) della forma linguistica tramite cui più

spesso esso si presenta: già Fortini in Extrema Ratio la

definiva solo un'illusione. Secondo: anche volendo

riconoscere in un approccio artistico e conoscitivo

basato sulla sistematica negazione solo una forma

diversa e magari obliqua di costruzione di senso, alla

base di ciò non può che esserci il rifiuto -come già

detto, tipicamente post-moderno- del concetto di

autenticità. Ancora Scarpellini: "il drammatico è stato

violentemente espulso dall'ironia delle sue

metarappresentazioni, dei suoi processi demistificati e

privi di verità. E tuttavia [...] niente ci assicura che

proprio questa ironia non costituisca il dispositivo finale

grazie a cui il postmodernismo paralizza qualunque

istanza di alterità schiacciandola su una superficie di

indifferenza dove tutte le immagini, tutti i valori, si

equivalgono". Dunque l'ironia, da indispensabile

strumento polemico, può diventare, nel momento in

cui si sclerotizza in paradigma post-moderno, arnese

di un nichilismo depresso e reazionario. Sia in teatro

che in poesia, iniziano a sentirsi i cricchi e i cigolii della

certezza secondo cui la rinuncia al lirismo, al

drammatico, sia la base imprescindibile della

sperimentazione.

Così come la Calandrone, anche il collettivo

Santasangre non lavora sul metalinguaggio e sulla

scomposizione ironica: in che modo si potrebbe

essere ironici, d'altronde, se l'obiettivo è la creazione

di una nuova drammaturgia capace di rappresentare,

sul palco, i ritmi e le forme dei fenomeni naturali? Una

vera e propria"drammaturgia della materia", si legge

nelle note di regia di Bestiale improvviso. Il linguaggio

scenico di Santasangre vuol realizzare un intreccio

che sovrasti il piano umano della dialettica, per

cogliere la polifonia dell'evento cosmico: lo si capisce

bene fin dall'inizio di Bestiale improvviso, quando una

rapsodia fotografica ed elettronica, unita al fumo in

sala, offusca la vista degli spettatori. Per lungo tempo

gli unici segni semi-umani sul palco sono le ombre

sfrangiate di tre danzatori coperti dai pannelli sul

proscenio, immerse nel vapore a sua volta screziato

dagli effetti di luce e animato dai beat di sottofondo.

In questa vasta e magniloquente oscurità trovo le

stesse sensazioni della scrittura in continua

metamorfosi di Sulla bocca di tutti: una pletora di

corporeità simultanee, impossibili da razionalizzare,

impossibili da capire, ma anche disponibili

(diversamente dagli ermetismi più intellettuali) a

trascinarci nella positività di un caos fertile e vivace, a

patto di volersi lasciar andare. In Bestiale improvviso,

anche quando i pannelli si alzano e il pubblico inizia a

discernere i contorni dei danzatori, i movimenti dei

corpi non sono mai narrativi: certe torsioni fanno

pensare piuttosto allo spin degli elettroni, in certe

composizioni è possibile immaginare l'eco delle

interazioni tra gli ioni di idrogeno. Un enorme blocco

è rimasto sospeso sopra il palco per tutto il tempo

dello spettacolo. La danza finisce, la musica di fondo

va in crescendo. Un clangore improvviso e un faro

acceso alle spalle della platea, puntato al centro del

palco. La musica è finita: nel silenzio totale, il blocco

appeso ai cavi si spalanca, si apre in verticale,

scoprendo al suo interno un rivestimento in lamina di

rame. Il fascio del faro riflette sulla lamina e inonda di

luce l'intero teatro. Silenzio, un lungo silenzio

illuminato: dal difetto di massa dell'elio è nata la

stella, è nata l'energia, secondo la formula

einsteiniana. Quando gli applausi riempiono la sala,

c'è un fragore diverso dal solito: nell'atmosfera mi

sembra di sentire non solo emozione, ma qualcosa

che forse nasconde la qualità più autentica di Bestiale

improvviso. Si tratta di quel tacere subliminale, di quel

vuoto pienissimo che sfiora l'essere umano quando

l'infinità del cosmo schiude un brandello del suo

mistero. Più che un'emozione, è qualcosa di simile al

satori dello zen: contemplazione, più o meno, un'idea

del sublime meno romantica e più consapevole. Un

passo oltre la catarsi, un passo oltre lo straniamento

brechtiano: l'estetica dei Santasangre ha la possibilità

di arricchire il teatro di una categoria rivoluzionaria, la

dote più importante che la scienza possa donare

all'arte. Esattamente la stessa dote che s'intravede

nel lirismo esterrefatto della Calandrone, nella

capacità della poetessa romana di dar vita a mondi e

visioni che, nel loro dipanarsi orizzontale, disegnano

infine una linea verticale, un'aspirazione assoluta.

Due realtà artistiche che non hanno apparentemente

nulla a che vedere si sono incontrate sulla stessa

strada: quella dell'uscita dal post-moderno attraverso

la riformulazione di un lirismo meno antropocentrico,

all'insegna di una relazione emotiva tra arte e fruitore

declinata in termini radicalmente innovativi.

Ma forse quello di cui ho parlato finora è un incontro

impossibile: più che in un dialogo fra teatro e poesia,

magari mi ritrovo in una di quelle interviste

impossibili a Kafka, a Gogol o a qualche altro scrittore

morto da un pezzo. Allora chiamo di nuovo in

soccorso Attilio Scarpellini, che parlando di teatro

dice: "Come mai non si parla più, non si osa più parlare

di poesia? [...] La sua immediatezza non-dialettica

vorrebbe stabilire con noi un rapporto di credenza, di

confidenza, di fedeltà, ignorando che parole innocenti,

immagini innocenti, non ne possiamo ammettere:

qualunque compromissione sentimentale deve lasciarci

uno spazio in cui evadere dal suo spettro

gravitazionale, sottrarci alla sua stretta emotiva,

richiudere il più in fretta possibile l'orizzonte aperto

dalla sua alterità". Scarpellini parla proprio di fedeltà

e di innocenza, parla di poesia come qualità emotiva,

come orizzonte di alterità rispetto alla sordità, alla

frigidezza a cui il dogma dell'ironia e della disillusione

ci hanno abituati. Sulla bocca di tutti e Bestiale

improvviso allora possono davvero rappresentare, nei

rispettivi campi, quel bisogno di autentico di cui così

tanto c'è bisogno dopo il trionfo dell'estetica post-

moderna del palinsesto. Un autentico che, nella

Calandrone, nasce dalla comunione tra l'astratto,

l'umano e il naturale; in Santasangre invece sta tutto

nell'approccio scientifico e nell'entusiasmo

dell'indagine fisica e cosmica tradotta in

drammaturgia.

Altro punto di contatto tra le due opere, come ho

detto all'inizio, è l'importanza della forma, del

linguaggio. Andrea Pocosgnich, nella recensione che

ho segnalato, scrive: "se in Bestiale Improvviso il

linguaggio brutalmente scalcia via tutto il resto, proprio

in quel linguaggio risiede un pensiero concettuale e

meta-artistico talmente potente da diventare

“significato”". Il linguaggio di Santasangre (cioè una

drammaturgia priva di dialoghi e narrazione e tutta

basata sulla rapsodia di luci, ritmo, suono,

movimento) diventa esso stesso pensiero e

significato: perché è tremendamente potente,

senz'altro, ma soprattutto perché è un linguaggio che

vuole porsi come natura, come congiunzione tra la

prospettiva antropica e l'impersonalità delle leggi

fisiche. È grazie a questo anelito che riesce a

diventare forma e concetto assieme. Ma qualcosa di

molto simile succede anche nelle strategie

linguistiche di Maria Grazia Calandrone: un flusso

unico di linguaggi diversi; un plurilinguismo in cui è

impossibile sceverare le componenti e individuare,

punto per punto, i singoli scopi espressivi, proprio

perché le diverse qualità di lingua formano un unicum,

come se si fossero dimenticate, ormai in un unico

corpo, le loro origini differenti. Vediamo.

Pur coi difetti di ogni schematizzazione, provo ad

elencare le principali risorse lessicali di Sulla bocca di

tutti. Traccio delle categorie, anche se i confini sono

spesso labili, citando prima diversi sintagmi per

definire ogni singolo tipo di risorsa, e mostrando poi,

in porzioni più ampie di testo, come le diverse

componenti lessicali interagiscano.

È trasversale a tutta l'opera la frequenza della lingua

anatomica: "abissi / che si sono aperti / nel corpo con

filamenti rossi / e con la colla della granulazione", "la

carcassa non schianta per lo scherno i suoi lombi"

(Quando non eravamo); "cocci di mandibola nei seni

nasali: l'emorragia / vertebrale salita come bistro fino

agli occhi", "La clamorosa dolcezza delle clavicole, la

percussione ces- / sata / dei finimenti muscolari, le

valvole / che l'hanno finalmente abbandonata / sulla

terra" (La chiara circostanza); "la ferita d'amore era un

fascio striato di muscoli che cerca la / riva" (L'exercitium

che precede la festa).

Lingua geografica o minerale: "Sono catrame e calce

con la cassa e con gli abiti corrosi / da polveri d'amianto

e le endorfine che mi fanno ridere da / viva" (Una

nominazione eterna); "un creparsi ossidrico delle

conche del cuore" (L'exercitium che precede la festa);

"[...] tutta quell'erba che di notte sembra camminare /

verso un punto di profondità sotto i pilastri / che

reggono ponti / con fiori / e astri", "e il mercurio di

migliaia di lampadine / radiazioni e vanadio più che

nell'incendio / dei pozzi di petrolio e nella sordità dei

crematori" (Opera 9/11: la cecità amorosa); "sosta /

nella buca oceanica del giorno", "Alberi con piombosi e

disseccazioni. Siamo depositi di limature / a passeggio

tra gli alberi di questo bosco" (I bambini credono

all'innocenza dell'erba); "Il cuore è una pozza / di

varechina vergine con i piccoli impianti di irrigazione / in

tubicini neri e legamenti di cardo mariano" (Come

polvere).

Lingua astratta e filosofica: "il corpo è nulla che pensa

all'infinito" (Possiamo immaginarla luccicare nella luce

del mattino); "A bagno nell'equanime bellezza del

mondo" (I bambini credono all'innocenza dell'erba);

"solo / immediate reazioni di amore / come effetto del

male / grazia che si sviluppa" (Senza bagaglio); "prima

di te tra gli astri / non si era manifestata la perdita",

"Come tutto quel cielo sovrafluttuante / nella sua

onniscienza senza dolore / poteva avere compassione /

di noi, se non aveva pianto di solitudine?" (Sia fatto di

me).

Lingua poetica tradizionale: "sale al colmo calcinato

della Viola / Magna / celeste una lauda / su lontananza,

amore e tradimento", "il mondo era bellissimo / e

chiaro" (Quando non eravamo); "una rosa gli ride sulla

bocca" (Una nominazione eterna); "Ahi, [...] l'amore

aumenta / la mortalità: la bellezza / ci rende prede /

inaccessibili e vive, più grandi / del rumore del mare"

(Vittoria dei corpi sul rumore); "Oh!, tremenda /

meravigliosa semplicità dei sogni" (Come polvere)

Anche cercando di spigolare i sintagmi più distintivi,

si sarà notato quanto sia difficile separare le diverse

componenti, che sembrano come attratte da una

costante agglomerazione magnetica. Sta proprio qui

quella che mi sembra la grande novità della ricerca

stilistica della Calandrone: il linguaggio tecnico-

scientifico (soprattutto, secondo le mie arbitrarie

definizioni, la lingua anatomica e la lingua minerale)

smette di essere settoriale e diventa sostanza stessa

della lingua, assieme a quel sostrato poetico

tradizionale di cui la poetessa, poiché ha fiducia

nell'autentico, non vuole fare a meno. Sta

ovviamente qui anche il contatto con la

drammaturgia di Santasangre: il lessico scientifico

serve ad assorbire il reale nella struttura stessa del

linguaggio, a dare una rappresentazione non

simbolica ma corporea della natura, attraverso un

linguaggio che si pone come corpo naturale. Ma per

creare un linguaggio capace di essere naturale, o di

esserlo in modo credibile, si doveva compiere un

passo decisivo: aprire la poesia alla scienza, usare

l'armamentario tecnico-scientifico con la stessa (è

proprio il caso di dirlo) naturalezza con cui si usa

quello filosofico e letterario. Non più, come poteva

succedere in Gadda, ospitare i tecnicismi per

complicare il caos del pastiche, oppure per scopi

espressivi momentanei e chiaramente identificabili,

ma integrarli in un organismo che li assorbisse

compiutamente fino a non poterli più distinguere.

A questo punto serve una buona dose di esempi per

capire quanto in Sulla bocca di tutti questa fusione sia

già profonda, intima, introiettata: "La

sovraesposizione della schiena / netta come una roccia

e senza / ombra di perdizione sulle ginocchia che

pescano molecole / di sangue umano" (La chiara

circostanza); "nel clamore del buio corpi vicini / al

profitto inferiore / tra filamenti e druse / cristalline.

Dunque con quelle lingue / fresche e superflue stanno /

costruendo colonnati di aria / come sui muri di città di

mare vanno alianti e gioiosi / i rondoni, le albugini, i

miraggi" (Il parlato, il fiore delle acque); "sotto i

pavimenti / sontuosi / dell'epitelio, colpi di minatori

rimasti / come erosione / di sotterranei / affluenti sulla

parete verticale dei nostri corpi" (Perché l'oro non brucia

la terra...); "la voce / del salmista nel perno della pupilla

fissa nel canto / diametri solari" (Albergare, materia, il

cuore dei vivi); "il corpo è nulla che pensa all'infinito, /

melo nel sole / che si versa sul cuore della terra / a corpo

libero / con l'ossido dei rami" (Possiamo immaginarla

luccicare nella luce del mattino); "io sono un luogo

attraversato / da fulmini globulari ed erosioni / sono un

bosco d'ambra sotto i fenomeni / elettrici della luna / e i

serbatoi solari, sono una camera circolatoria e la

salvezza / dalla quale ti salvo" (Vittoria dei corpi sul

rumore).

Altre volte, alle sequenze in cui domina il lessico

scientifico si giustappongono momenti di lingua

piana e tradizionale, senz'alcuna apparente soluzione

di continuità: "la trazione vitale dei soldati / del sangue

su per la tavola del petto come metalli e masto- / donti /

ma tu piccola presa da pallore / ti orientavi / sul viso

umano quando va per spighe / e una rosa gli ride sulla

bocca. // Oh! gioia risate e tosse / come un dente di

mandorla la notte" (Una nominazione eterna).

Per concludere e riassumere: a mio parere, sia Sulla

bocca di tutti sia Bestiale improvviso sono due ottimi

esempi di come, in arti diverse ma in fondo simili, si

possa andare oltre il post-moderno. In entrambi i casi

si rinuncia a un meccanismo ironico ormai insterilito

dalle iterazioni e dai narcisismi nichilisti degli ultimi

anni, a favore di una nuova forma di lirismo basato su

uno sguardo meno antropocentrico: lo strumento

principale di questa rifondazione è l'apertura agli

stimoli della scienza. Un'apertura che è, in parte, una

ricongiunzione con il modello culturale

preilluministico, quando non si poteva essere letterati

senza conoscere l'astronomia o la matematica. Il

contatto con la scienza influenza, come abbiamo

visto, il piano del linguaggio: ma cambiare la forma

significa, mai come in questo caso, cambiare anche

l'atteggiamento dell'artista verso il mondo. Significa

scegliere una direzione diversa rispetto al distacco e

all'intellettualismo post-moderno. Cito per l'ultima

volta Scarpellini, che riguardo all'ironia

contemporanea e alla sua incapacità di aprirsi

davvero all'alterità, dice: "c'è sicuramente una

grandezza in questo deserto dell'amore. Ma nessuna

etica che possa apparirvi manifestandosi altrimenti che

come un disperante miraggio". Ecco, Maria Grazia

Calandrone e Santasangre mutuano dalla scienza un

concetto banalissimo: il mondo è complesso e

drammaticamente bello. Drammaticamente, perché

quasi certamente questo mondo non è fatto a misura

dell'unica specie capace di apprezzarne la bellezza.

Ma, come gli uomini di scienza e come le opere di cui

abbiamo parlato sanno, questo non toglie nulla,

assolutamente nulla, alla meraviglia del tutto.

Da questa banalità riconquistata partono i primi passi

sulla strada di una possibile etica alternativa, per

superare quei disperanti miraggi del post-moderno e

per dimenticare un lutto antropocentrico che, nelle

poetiche di troppi artisti, non è stato ancora

assorbito. Chiudo con dei versi significativi di

Reflecting absence: a volte, tutto quel che c'è da fare è

soltanto accettare quanto una verità possa essere

semplice.

"Io penso che è un peccato essere tristi

penso che basta guardare

i marmi dietro i quali c'è sangue di animali e respiro

e calzari indossati per il sacrificio

penso che basti pensare

a quanti millenni di canto come una striscia gialla ci

sono

voluti

per produrre la forma del tuo cranio e nel punto estremo

mettere il tuo sorriso."