Fino all'ultima fila
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Transcript of Fino all'ultima fila
C'è una corda sottilissima, tirata al massimo della
tensione per le tante affinità e lo stesso isolamento,
che congiunge la nostra scena teatrale
contemporanea e la nostra recente, bistrattata
poesia. Una corda che mi piacerebbe pizzicare in
questa rubrica, a ritmo sincopato, cogliendo singoli
libri e singoli spettacoli e provando a farli parlare, in
un dialogo teorico ma non teorizzante: senza la
pretesa e la sicumera dei sistemi comparatistici; ma
anche senza le velleità di certi impressionismi, perché
ci sono fin troppe parafrasi emotive che nascondono
il loro soggettivismo con boschi di citazioni e lessico
dotto, in entrambe le platee di riferimento.
Qualche tempo fa, Attilio Scarpellini è intervenuto in
un dibattito sulle possibili vie d'uscita dal post-
moderno nella scena contemporanea. Alcuni spunti
del suo testo sono ben applicabili, da un punto di vista
sia descrittivo sia propositivo, anche al microcosmo
della poesia, che Scarpellini, come vedremo, chiama
direttamente in causa. Userò qualche sua frase a mo'
di collante per il primo dei nostri dialoghi, facendo
qualche osservazione su temi trasversali come lo
stallo del post-moderno, la marcescenza della
condizione ironica, le difficoltà nella ricerca di nuove
soluzioni etico-estetiche.
Facciamo entrare in scena, allora, le due opere-attori,
entrambe firmate da artisti ex-emergenti ma ormai
conclamati da pubblico e critica: Sulla bocca di tutti di
Maria Grazia Calandrone e Bestiale improvviso del
collettivo Santasangre.
Sulla bocca di tutti è la pluripremiata (Premio Napoli,
premio città di Sassari, finalista premi Cetona, Sandro
Penna e città di Fabriano) ultima fatica della poetessa
e performer romana: è la raccolta, per dirla con uno
stereotipo, della definitiva affermazione. È senz'altro
quella con cui lo stile della Calandrone mostra,
ineludibilmente, la conquistata capacità di
sorreggersi da sé, di parlare una lingua propria e
indipendente: quella lingua altra che distingue lo stile
dalla maniera. L'analisi lessicale, vedremo, può essere
una buona strada da seguire per attraversare il
magma di questa grande opera.
Bestiale improvviso è stato tra gli spettacoli di
maggior successo del Romaeuropa Festival 2010:
anche in questo caso, segna la conferma di una
ricerca già ben avviata e già fruttuosa di risultati
convincenti, ma che proprio per questo rischiava
l'iperfetazione o il semplice passaggio a vuoto.
Santasangre è forse il gruppo di punta
dell'avanguardia performativa italiana: un approccio
geniale allo studio visivo, capace di coniugare arte e
scienza nella prospettiva di un'unica drammaturgia
della materia, allineando l'elettronica, il teatro danza
e gli effetti fotografici in progetti visionari e
apparentemente irrealizzabili. Santasangre ha
portato in tour un enorme blocco di ghiaccio sospeso
sopra il palco per uno spettacolo sui cambiamenti di
stato (Framerate 0), ha trasformato in teatro la
reazione nucleare alla base dell'energia solare (il
nostro Bestiale improvviso). Per avere un'idea
generale dello spettacolo in questione, se non lo si è
visto, sarebbe utile leggerne una recensione: ne
segnalo due, qui su Teatro e Critica e qui su
TeatroTeatro.
Parto da un presupposto, consapevole che si
potrebbe dire la stessa cosa per ogni prodotto
artistico, ma convinto che valga in particolare per
questi due lavori: leggere le poesie di Maria Grazia
Calandrone o vivere lo spettacolo di Santasangre
sono esperienze concluse e traducibili soltanto in sé
stesse; ogni tentativo di sintesi o di semiotica
artigianale avrebbe mesti risultati, perché in entrambi
i casi il ruolo della forma domina su quello del
significato, e in entrambi i casi si parla di forme non
illustrabili in termini canonici.
In tanti modi si potrebbe tentare una descrizione
dell'architettura mentale e poetica che sta alla base di
Sulla bocca di tutti. La centralità del corpo, la
pendolarità di amore e dolore, il pathos come anello
di congiunzione, il lirismo esterrefatto di una lingua
tanto cruda quanto tesa all'assoluto, capace di
costruire vuoti e pieni attorno a una partitura lucida
ma come in fuga, in costante nascondimento. Forse,
però, alla base di tutto questo c'è una caratteristica
non del tutto scontata: Sulla bocca di tutti non è, in
alcun modo, un'opera ironica. Non c'è un solo verso
dell'intera raccolta che abbia una sfumatura ironica:
non certo per banale sussiego, ma perché i valori
fondativi di questo testo sono la compassione,
l'adiacenza all'alterità (l'alterità dei morti, ad
esempio: non solo per i presupposti biografici
dell'opera, ma anche per la fortissima ascendenza di
Paul Celan, chiarissima nei contenuti, nella lingua, nel
procedere visionario), l'attualità dell'amore come
legame tra le materie declinate in corpi,
l'accettazione come scelta assoluta e finale (tema
centrale del ciclo mariano nella sezione Indizi sulle
fondamenta della luna nuova: "perché questo lasciare
che accada / è più dell'amore, questo dire / chi deve
andare vada"). Presupposti del genere non possono in
alcun modo coesistere con l'ironia, la cui matrice
sarebbe invece il distacco soggetto-oggetto e la
mancanza di empatia1. L'assenza del procedimento
ironico segna, a mio parere, la distanza fondamentale
della Calandrone dalla neoavanguardia e dai suoi
epigoni. Considerando la polarità tra ironia e lirismo,
l'autrice propende per il secondo. Si tratta, però, di un
lirismo molto diverso da quello tradizionale.
Lasciando un attimo da parte la componente più
strettamente linguistica (che però è fondamentale) di
questo lirismo, mi voglio prima soffermare sul suo
instancabile procedere metamorfico. Cito da Il corpo
tratto dalla leggenda: "ma le unghie crescendo
separavano il tempo / in due meditazioni: bucaneve (ciò
1 Ciò ovviamente non toglie che nel complesso del meccanismo ironico ci possa essere, a volte, perfino affetto. Basti pensare alla parodia: per Agamben, la dissacrazione è l'estremo tentativo di un'affermazione che l'epoca ha reso impossibile in altre forme.
che non teme / peso) e la seconda / arco (quanto viene
installato /sopra, per riparare)". Prima di tutto: questi
cinque versi, estrapolati dal testo, non sembrano poi
così lirici. Eppure basterebbe leggere la poesia cui
appartengono per accorgersi che lo sono eccome. La
Calandrone, insomma, non affida l'elemento lirico
alla forza evocativa di singole immagini o all'incidere
ritmico di una porzione testuale, ma all'ansia iconica e
soprattutto prosodica dell'intero brano. Proseguo con
un piccolo resoconto semantico: elemento umano
(unghie), naturale (bucaneve), tecnico-artificiale (arco,
installato, riparare), astratto (tempo, meditazioni,
peso). Ciò che mi sembra straordinario non è la
semplice compresenza di questi campi semantici, ma
la loro relazione: non sono l'uno la metafora dell'altro;
non c'è il passaggio tra diverse categorie mentali e
cognitive; nessuno scambio umano-naturale, basso-
alto, concreto-astratto; nulla serve ad esplicare
qualcos'altro. È tutto, assolutamente, sullo stesso
piano. Un esperimento democratico in cui alla
metafora si sostituisce l'essere subito e davvero ciò
che segue o ciò che precede. In questo caso, potrei
interpretare i versi così: l'autrice sta parlando
dell'ambiguità dell'uomo, del suo voler essere solo ed
ingenuamente un corpo (le unghie che crescono, il
bucaneve che spunta fuori dal manto bianco e non
teme il peso perché aderisce semplicemente alle leggi
naturali) ma allo stesso tempo la sua necessità di
intellettualizzare, di rispondere al caos con la sintesi
(l'arco che ripara e congiunge la contraddizione, che è
installato sopra la natura, cioè tramite astrazione).
Ma, come si può vedere, anche nel caso di
un'interpretazione che mi sembra convincente è
difficilissimo separare il segno dal referente, il
significato dal significante. Qualche altro esempio, in
cui i membri filosofici, umani e naturali dei versi
sembrano seguire criteri di perfetta equivalenza,
senza dilungarmi in commenti: "Qui niente è lieve,
siamo larve / dolorose - eppure / alla sventagliata di
schegge / segue l'istinto verso la salvezza / della testa",
"lontanissima / dai pilastri centrali delle loro ossa /
rivolte come assi / verso il centro perfetto / del cielo"
(Quando non eravamo); "Un volo / si rimboccava come
un lino bianco / su un sistema di organi vitali, inclinava /
alla lentezza della grazia tra le poche ossa / perché il
corpo si perde a poco a poco / e al suo posto incomincia
la grazia" (Questa probabile persona); "il compito / di
staccare parola per parola la stella morta / dalla volta
celeste del costato" (Una nominazione eterna); "Nel
legno resta l'eco del lavoro come io resto / chino nella
mia cenere / con il mantello azzurro e tutto splende al
posto del mio / cuore", "sei vestito / della luce dei golfi e
il tuo corpo / non ha domande, è un corollario /
preparato all'effimero" (Vittoria dei corpi sul rumore); "il
legname dei corpi / come navi avvistate al lume / della
candela lunare / mentre tutto si stacca senza rimpianto.
Le cose / sono bellissime" (Maria, Passione).
Ho usato, prima, l'espressione lirismo esterrefatto.
L'etimologia2 di questo aggettivo non potrebbe
essere più illuminante: ex terra factum, fatto di terra.
Il lirismo in Sulla bocca di tutti riesce a liberarsi
dell'ottica antropocentrica proprio attraverso questo
farsi terra, farsi natura, questa democrazia degli
elementi in relazione spontanea e paritaria, questa
filosofia quasi lucreziana per il perpetuo ribaltamento
del concetto astratto in materia e corpo. Diventa
possibile, allora, un lirismo che non sia schiavo del
narcisismo dell'io, perché in questo caso l'io include il
mondo, non è esclusivo. Alla base dell'inclusione c'è
un rapporto con la vita che, proprio perché così
tremendamente doloroso, splende di fiducia
nell'albedo più intimo. Fiducia nell'uomo: "Uomini e
donne sono alberi degni di innalzarsi nei boschi / colpiti
da immortali / raggi di sole [...] nonostante / l'epidemia
delle trincee" (Quando non eravamo). Fiducia nella
natura e nelle sue "formule", pur senza edulcorare
nulla della sua azione impersonale che travalica il
dolore umano: "Ma la natura conserva per noi / tanta
dolcezza e tanta / lungimiranza da non avere occhi per
il dolore e quasi / pazza d'amore perdutamente
2 Faccio riferimento ad un’ipotesi di Alberto Savinio. Secondo altri, la parola sarebbe invece riferibile al tema di terrere.
incatena / cellula a cellula sopra la circostanza. / Ogni
volta il suo ago ci ricrea mentre ci trafigge. La vita
cresce contro l'imme- / -diata / volontà" (Quando non
eravamo), "io, lo / sai, passo indenne attraverso ogni
scomparsa perché credo / alle formule / e ho fiducia
nelle attrezzature, negli scalpelli che hanno sca- / vato
nella coscienza e nell'abbandono / per comporre la
somma che siamo stati" (La chiara circostanza).
Fiducia nell'amore, cioè la relazione fortissima e
persistente, di pietas più che di vera e propria unione,
che congiunge le mille mutazioni della materia.
Fiducia. Non avrebbe molto senso la fiducia, se non
abbracciasse con le radici il concetto di autenticità, di
innocenza, di naturalità: proprio quell'autentico
deriso e contraffatto dal post-moderno, anche nella
sua versione teatrale, come dirò tra pochissimo. Solo
il tempo, prima, di lasciar emergere l'autentico (o il
sacro) di una piccola meraviglia di questa raccolta,
un'Arietta dei bambini quasi inaspettata per l'assenza
di lacerazioni, il linguaggio piano: "Il sole / ardeva
quieto nella sua onda / dalla finestra grande perché
grande / era il cuore / e disinteressato / come il sole che
appoggia la sua luce sulle acque del fiume [...] è bello
custodire / l'aria nuova sul viso di chi nasce, con mani /
umane conservare / sacro il sacro, fare l'aria più chiara
dove tocca / il cuore, perché il cuore sia semplice e
leggero / come un aquilone / e altre cose che vanno
dalla terra al cielo".
Anche nel teatro l'analisi del post-moderno non può
fare a meno di soffermarsi sulla questione dell'ironia.
Dice Scarpellini: "è così evidente questa ironia sulle
nostre scene, costituisce a tal punto il loro collante
formale e il loro presupposto affettivo, che citarla e
affrontarla è persino inutile, se non impossibile -essa
infatti non è più semplicemente una figura, ma una
condizione". La condizione ironica del performer di
oggi è ben visibile, per esempio, nel modo in cui
stabilisce l'intesa col pubblico: un'intesa basata
sull'ostentazione delle convenzioni teatrali e delle
illusioni sceniche, sullo smascheramento della
finzione narrativa, cioè sulla continua messa in
discussione della validità del messaggio. Non si evade
solo dal teatro borghese, dallo spettacolo come rito
di conferma sociale, ma anche dalla tentazione del
coinvolgimento emotivo dello spettatore, dalla
costruzione attiva di senso. Certo, le cose sono più
complicate, e anche qui si potrebbe dire che il senso
prende corpo proprio attraverso quest'opera di
disillusione e di erosione semiotica. Due punti, però,
mi sembrano fondamentali. Il primo: la sfiducia
sociale e politica dell'artista di teatro slitta in sfiducia
per il linguaggio scenico in sé. Mi sembra che ciò
somigli moltissimo a quella convinzione del Gruppo
63 di potersi opporre alla classe dominante
lacerandone la lingua borghese. Rifiutare il reale
tramite il mero sconvolgimento (e non la ri-
costruzione) della forma linguistica tramite cui più
spesso esso si presenta: già Fortini in Extrema Ratio la
definiva solo un'illusione. Secondo: anche volendo
riconoscere in un approccio artistico e conoscitivo
basato sulla sistematica negazione solo una forma
diversa e magari obliqua di costruzione di senso, alla
base di ciò non può che esserci il rifiuto -come già
detto, tipicamente post-moderno- del concetto di
autenticità. Ancora Scarpellini: "il drammatico è stato
violentemente espulso dall'ironia delle sue
metarappresentazioni, dei suoi processi demistificati e
privi di verità. E tuttavia [...] niente ci assicura che
proprio questa ironia non costituisca il dispositivo finale
grazie a cui il postmodernismo paralizza qualunque
istanza di alterità schiacciandola su una superficie di
indifferenza dove tutte le immagini, tutti i valori, si
equivalgono". Dunque l'ironia, da indispensabile
strumento polemico, può diventare, nel momento in
cui si sclerotizza in paradigma post-moderno, arnese
di un nichilismo depresso e reazionario. Sia in teatro
che in poesia, iniziano a sentirsi i cricchi e i cigolii della
certezza secondo cui la rinuncia al lirismo, al
drammatico, sia la base imprescindibile della
sperimentazione.
Così come la Calandrone, anche il collettivo
Santasangre non lavora sul metalinguaggio e sulla
scomposizione ironica: in che modo si potrebbe
essere ironici, d'altronde, se l'obiettivo è la creazione
di una nuova drammaturgia capace di rappresentare,
sul palco, i ritmi e le forme dei fenomeni naturali? Una
vera e propria"drammaturgia della materia", si legge
nelle note di regia di Bestiale improvviso. Il linguaggio
scenico di Santasangre vuol realizzare un intreccio
che sovrasti il piano umano della dialettica, per
cogliere la polifonia dell'evento cosmico: lo si capisce
bene fin dall'inizio di Bestiale improvviso, quando una
rapsodia fotografica ed elettronica, unita al fumo in
sala, offusca la vista degli spettatori. Per lungo tempo
gli unici segni semi-umani sul palco sono le ombre
sfrangiate di tre danzatori coperti dai pannelli sul
proscenio, immerse nel vapore a sua volta screziato
dagli effetti di luce e animato dai beat di sottofondo.
In questa vasta e magniloquente oscurità trovo le
stesse sensazioni della scrittura in continua
metamorfosi di Sulla bocca di tutti: una pletora di
corporeità simultanee, impossibili da razionalizzare,
impossibili da capire, ma anche disponibili
(diversamente dagli ermetismi più intellettuali) a
trascinarci nella positività di un caos fertile e vivace, a
patto di volersi lasciar andare. In Bestiale improvviso,
anche quando i pannelli si alzano e il pubblico inizia a
discernere i contorni dei danzatori, i movimenti dei
corpi non sono mai narrativi: certe torsioni fanno
pensare piuttosto allo spin degli elettroni, in certe
composizioni è possibile immaginare l'eco delle
interazioni tra gli ioni di idrogeno. Un enorme blocco
è rimasto sospeso sopra il palco per tutto il tempo
dello spettacolo. La danza finisce, la musica di fondo
va in crescendo. Un clangore improvviso e un faro
acceso alle spalle della platea, puntato al centro del
palco. La musica è finita: nel silenzio totale, il blocco
appeso ai cavi si spalanca, si apre in verticale,
scoprendo al suo interno un rivestimento in lamina di
rame. Il fascio del faro riflette sulla lamina e inonda di
luce l'intero teatro. Silenzio, un lungo silenzio
illuminato: dal difetto di massa dell'elio è nata la
stella, è nata l'energia, secondo la formula
einsteiniana. Quando gli applausi riempiono la sala,
c'è un fragore diverso dal solito: nell'atmosfera mi
sembra di sentire non solo emozione, ma qualcosa
che forse nasconde la qualità più autentica di Bestiale
improvviso. Si tratta di quel tacere subliminale, di quel
vuoto pienissimo che sfiora l'essere umano quando
l'infinità del cosmo schiude un brandello del suo
mistero. Più che un'emozione, è qualcosa di simile al
satori dello zen: contemplazione, più o meno, un'idea
del sublime meno romantica e più consapevole. Un
passo oltre la catarsi, un passo oltre lo straniamento
brechtiano: l'estetica dei Santasangre ha la possibilità
di arricchire il teatro di una categoria rivoluzionaria, la
dote più importante che la scienza possa donare
all'arte. Esattamente la stessa dote che s'intravede
nel lirismo esterrefatto della Calandrone, nella
capacità della poetessa romana di dar vita a mondi e
visioni che, nel loro dipanarsi orizzontale, disegnano
infine una linea verticale, un'aspirazione assoluta.
Due realtà artistiche che non hanno apparentemente
nulla a che vedere si sono incontrate sulla stessa
strada: quella dell'uscita dal post-moderno attraverso
la riformulazione di un lirismo meno antropocentrico,
all'insegna di una relazione emotiva tra arte e fruitore
declinata in termini radicalmente innovativi.
Ma forse quello di cui ho parlato finora è un incontro
impossibile: più che in un dialogo fra teatro e poesia,
magari mi ritrovo in una di quelle interviste
impossibili a Kafka, a Gogol o a qualche altro scrittore
morto da un pezzo. Allora chiamo di nuovo in
soccorso Attilio Scarpellini, che parlando di teatro
dice: "Come mai non si parla più, non si osa più parlare
di poesia? [...] La sua immediatezza non-dialettica
vorrebbe stabilire con noi un rapporto di credenza, di
confidenza, di fedeltà, ignorando che parole innocenti,
immagini innocenti, non ne possiamo ammettere:
qualunque compromissione sentimentale deve lasciarci
uno spazio in cui evadere dal suo spettro
gravitazionale, sottrarci alla sua stretta emotiva,
richiudere il più in fretta possibile l'orizzonte aperto
dalla sua alterità". Scarpellini parla proprio di fedeltà
e di innocenza, parla di poesia come qualità emotiva,
come orizzonte di alterità rispetto alla sordità, alla
frigidezza a cui il dogma dell'ironia e della disillusione
ci hanno abituati. Sulla bocca di tutti e Bestiale
improvviso allora possono davvero rappresentare, nei
rispettivi campi, quel bisogno di autentico di cui così
tanto c'è bisogno dopo il trionfo dell'estetica post-
moderna del palinsesto. Un autentico che, nella
Calandrone, nasce dalla comunione tra l'astratto,
l'umano e il naturale; in Santasangre invece sta tutto
nell'approccio scientifico e nell'entusiasmo
dell'indagine fisica e cosmica tradotta in
drammaturgia.
Altro punto di contatto tra le due opere, come ho
detto all'inizio, è l'importanza della forma, del
linguaggio. Andrea Pocosgnich, nella recensione che
ho segnalato, scrive: "se in Bestiale Improvviso il
linguaggio brutalmente scalcia via tutto il resto, proprio
in quel linguaggio risiede un pensiero concettuale e
meta-artistico talmente potente da diventare
“significato”". Il linguaggio di Santasangre (cioè una
drammaturgia priva di dialoghi e narrazione e tutta
basata sulla rapsodia di luci, ritmo, suono,
movimento) diventa esso stesso pensiero e
significato: perché è tremendamente potente,
senz'altro, ma soprattutto perché è un linguaggio che
vuole porsi come natura, come congiunzione tra la
prospettiva antropica e l'impersonalità delle leggi
fisiche. È grazie a questo anelito che riesce a
diventare forma e concetto assieme. Ma qualcosa di
molto simile succede anche nelle strategie
linguistiche di Maria Grazia Calandrone: un flusso
unico di linguaggi diversi; un plurilinguismo in cui è
impossibile sceverare le componenti e individuare,
punto per punto, i singoli scopi espressivi, proprio
perché le diverse qualità di lingua formano un unicum,
come se si fossero dimenticate, ormai in un unico
corpo, le loro origini differenti. Vediamo.
Pur coi difetti di ogni schematizzazione, provo ad
elencare le principali risorse lessicali di Sulla bocca di
tutti. Traccio delle categorie, anche se i confini sono
spesso labili, citando prima diversi sintagmi per
definire ogni singolo tipo di risorsa, e mostrando poi,
in porzioni più ampie di testo, come le diverse
componenti lessicali interagiscano.
È trasversale a tutta l'opera la frequenza della lingua
anatomica: "abissi / che si sono aperti / nel corpo con
filamenti rossi / e con la colla della granulazione", "la
carcassa non schianta per lo scherno i suoi lombi"
(Quando non eravamo); "cocci di mandibola nei seni
nasali: l'emorragia / vertebrale salita come bistro fino
agli occhi", "La clamorosa dolcezza delle clavicole, la
percussione ces- / sata / dei finimenti muscolari, le
valvole / che l'hanno finalmente abbandonata / sulla
terra" (La chiara circostanza); "la ferita d'amore era un
fascio striato di muscoli che cerca la / riva" (L'exercitium
che precede la festa).
Lingua geografica o minerale: "Sono catrame e calce
con la cassa e con gli abiti corrosi / da polveri d'amianto
e le endorfine che mi fanno ridere da / viva" (Una
nominazione eterna); "un creparsi ossidrico delle
conche del cuore" (L'exercitium che precede la festa);
"[...] tutta quell'erba che di notte sembra camminare /
verso un punto di profondità sotto i pilastri / che
reggono ponti / con fiori / e astri", "e il mercurio di
migliaia di lampadine / radiazioni e vanadio più che
nell'incendio / dei pozzi di petrolio e nella sordità dei
crematori" (Opera 9/11: la cecità amorosa); "sosta /
nella buca oceanica del giorno", "Alberi con piombosi e
disseccazioni. Siamo depositi di limature / a passeggio
tra gli alberi di questo bosco" (I bambini credono
all'innocenza dell'erba); "Il cuore è una pozza / di
varechina vergine con i piccoli impianti di irrigazione / in
tubicini neri e legamenti di cardo mariano" (Come
polvere).
Lingua astratta e filosofica: "il corpo è nulla che pensa
all'infinito" (Possiamo immaginarla luccicare nella luce
del mattino); "A bagno nell'equanime bellezza del
mondo" (I bambini credono all'innocenza dell'erba);
"solo / immediate reazioni di amore / come effetto del
male / grazia che si sviluppa" (Senza bagaglio); "prima
di te tra gli astri / non si era manifestata la perdita",
"Come tutto quel cielo sovrafluttuante / nella sua
onniscienza senza dolore / poteva avere compassione /
di noi, se non aveva pianto di solitudine?" (Sia fatto di
me).
Lingua poetica tradizionale: "sale al colmo calcinato
della Viola / Magna / celeste una lauda / su lontananza,
amore e tradimento", "il mondo era bellissimo / e
chiaro" (Quando non eravamo); "una rosa gli ride sulla
bocca" (Una nominazione eterna); "Ahi, [...] l'amore
aumenta / la mortalità: la bellezza / ci rende prede /
inaccessibili e vive, più grandi / del rumore del mare"
(Vittoria dei corpi sul rumore); "Oh!, tremenda /
meravigliosa semplicità dei sogni" (Come polvere)
Anche cercando di spigolare i sintagmi più distintivi,
si sarà notato quanto sia difficile separare le diverse
componenti, che sembrano come attratte da una
costante agglomerazione magnetica. Sta proprio qui
quella che mi sembra la grande novità della ricerca
stilistica della Calandrone: il linguaggio tecnico-
scientifico (soprattutto, secondo le mie arbitrarie
definizioni, la lingua anatomica e la lingua minerale)
smette di essere settoriale e diventa sostanza stessa
della lingua, assieme a quel sostrato poetico
tradizionale di cui la poetessa, poiché ha fiducia
nell'autentico, non vuole fare a meno. Sta
ovviamente qui anche il contatto con la
drammaturgia di Santasangre: il lessico scientifico
serve ad assorbire il reale nella struttura stessa del
linguaggio, a dare una rappresentazione non
simbolica ma corporea della natura, attraverso un
linguaggio che si pone come corpo naturale. Ma per
creare un linguaggio capace di essere naturale, o di
esserlo in modo credibile, si doveva compiere un
passo decisivo: aprire la poesia alla scienza, usare
l'armamentario tecnico-scientifico con la stessa (è
proprio il caso di dirlo) naturalezza con cui si usa
quello filosofico e letterario. Non più, come poteva
succedere in Gadda, ospitare i tecnicismi per
complicare il caos del pastiche, oppure per scopi
espressivi momentanei e chiaramente identificabili,
ma integrarli in un organismo che li assorbisse
compiutamente fino a non poterli più distinguere.
A questo punto serve una buona dose di esempi per
capire quanto in Sulla bocca di tutti questa fusione sia
già profonda, intima, introiettata: "La
sovraesposizione della schiena / netta come una roccia
e senza / ombra di perdizione sulle ginocchia che
pescano molecole / di sangue umano" (La chiara
circostanza); "nel clamore del buio corpi vicini / al
profitto inferiore / tra filamenti e druse / cristalline.
Dunque con quelle lingue / fresche e superflue stanno /
costruendo colonnati di aria / come sui muri di città di
mare vanno alianti e gioiosi / i rondoni, le albugini, i
miraggi" (Il parlato, il fiore delle acque); "sotto i
pavimenti / sontuosi / dell'epitelio, colpi di minatori
rimasti / come erosione / di sotterranei / affluenti sulla
parete verticale dei nostri corpi" (Perché l'oro non brucia
la terra...); "la voce / del salmista nel perno della pupilla
fissa nel canto / diametri solari" (Albergare, materia, il
cuore dei vivi); "il corpo è nulla che pensa all'infinito, /
melo nel sole / che si versa sul cuore della terra / a corpo
libero / con l'ossido dei rami" (Possiamo immaginarla
luccicare nella luce del mattino); "io sono un luogo
attraversato / da fulmini globulari ed erosioni / sono un
bosco d'ambra sotto i fenomeni / elettrici della luna / e i
serbatoi solari, sono una camera circolatoria e la
salvezza / dalla quale ti salvo" (Vittoria dei corpi sul
rumore).
Altre volte, alle sequenze in cui domina il lessico
scientifico si giustappongono momenti di lingua
piana e tradizionale, senz'alcuna apparente soluzione
di continuità: "la trazione vitale dei soldati / del sangue
su per la tavola del petto come metalli e masto- / donti /
ma tu piccola presa da pallore / ti orientavi / sul viso
umano quando va per spighe / e una rosa gli ride sulla
bocca. // Oh! gioia risate e tosse / come un dente di
mandorla la notte" (Una nominazione eterna).
Per concludere e riassumere: a mio parere, sia Sulla
bocca di tutti sia Bestiale improvviso sono due ottimi
esempi di come, in arti diverse ma in fondo simili, si
possa andare oltre il post-moderno. In entrambi i casi
si rinuncia a un meccanismo ironico ormai insterilito
dalle iterazioni e dai narcisismi nichilisti degli ultimi
anni, a favore di una nuova forma di lirismo basato su
uno sguardo meno antropocentrico: lo strumento
principale di questa rifondazione è l'apertura agli
stimoli della scienza. Un'apertura che è, in parte, una
ricongiunzione con il modello culturale
preilluministico, quando non si poteva essere letterati
senza conoscere l'astronomia o la matematica. Il
contatto con la scienza influenza, come abbiamo
visto, il piano del linguaggio: ma cambiare la forma
significa, mai come in questo caso, cambiare anche
l'atteggiamento dell'artista verso il mondo. Significa
scegliere una direzione diversa rispetto al distacco e
all'intellettualismo post-moderno. Cito per l'ultima
volta Scarpellini, che riguardo all'ironia
contemporanea e alla sua incapacità di aprirsi
davvero all'alterità, dice: "c'è sicuramente una
grandezza in questo deserto dell'amore. Ma nessuna
etica che possa apparirvi manifestandosi altrimenti che
come un disperante miraggio". Ecco, Maria Grazia
Calandrone e Santasangre mutuano dalla scienza un
concetto banalissimo: il mondo è complesso e
drammaticamente bello. Drammaticamente, perché
quasi certamente questo mondo non è fatto a misura
dell'unica specie capace di apprezzarne la bellezza.
Ma, come gli uomini di scienza e come le opere di cui
abbiamo parlato sanno, questo non toglie nulla,
assolutamente nulla, alla meraviglia del tutto.
Da questa banalità riconquistata partono i primi passi
sulla strada di una possibile etica alternativa, per
superare quei disperanti miraggi del post-moderno e
per dimenticare un lutto antropocentrico che, nelle
poetiche di troppi artisti, non è stato ancora
assorbito. Chiudo con dei versi significativi di
Reflecting absence: a volte, tutto quel che c'è da fare è
soltanto accettare quanto una verità possa essere
semplice.
"Io penso che è un peccato essere tristi
penso che basta guardare
i marmi dietro i quali c'è sangue di animali e respiro
e calzari indossati per il sacrificio
penso che basti pensare
a quanti millenni di canto come una striscia gialla ci
sono
voluti
per produrre la forma del tuo cranio e nel punto estremo
mettere il tuo sorriso."