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1 Giovanni Piana Filosofia della musica 1991

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Giovanni Piana

Filosofia della musica

1991

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Questo volume è stato pubblicato dall’Editore Angelo Guerinie Associati nel 1991. Si ringrazia l’Editore per la gentile

autorizzazione a questa versione digitale (2005).

Copertina di G. P.

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Indice

5 Introduzione

1. Breve riflessione sulla musica del secolo scorso – 2. Pro-spettiva semiologica e filosofia empiristica dell’esperienza –3. Musica e linguaggio – 4. Abitudini uditive e sentimentodella tonalità. Primi sviluppi critici – 5. Digressione sullamusica degli altri. Le ultime parole di Curt Sachs – 6. Ri-presa delle considerazioni critiche. Inconsistenza degli ar-gomenti convenzionalisti. Elogio dei preconcetti – 7. Tem-po, senso e struttura. Il passo indietro da cui una filosofiadella musica può avere inizio. Tematica della possibilità edella scelta. Fenomenologia e dialettica dell’espressione – 8.Nuova riflessione sulla musica novecentesca. L’esperienzadel suono.

71 Capitolo primoMateria

1. I due aspetti del silenzio – 2. La voce in eco – 3. I suonisenza mondo – 4. Suoni e segnali – 5. La cosa sonora – 6.Origine della voce – 7. Il suono nell’immaginazione mitica– 8. La musica e il suo significato perduto – 9. Rumori esuoni – 10. Masse sonore, suoni-oggetti e suoni inoggettivi– 11. Timbro – 12. La macchina sonora.

153 Capitolo secondoTempo

1. La musica, il tempo e i vissuti – 2. Nozioni della du-rata. Il suono come fenomeno di evenienza – 3. La formadel trascorrere e le dinamiche dell’articolazione materiale –4. Ritmo – 5. Cenni sulla storia della parola – 6. Teoria delsuono-evento – Scandire il tempo – 8. Temporalità del flus-

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so e temporalità del cammino – 9. Schema – 10. Schematiz-zazione temporale e forma dell’accadere – 11. Il ritmo statra lo schema e l’evento.

207 Capitolo terzoSpazio

1. I suoni che cantano – 2. Suoni giusti e suoni sbagliati – 3.L’unità del suono-processo: lo spazio sonoro – 4. Sue carat-teristiche notevoli: progressività e chiusura – 5. Ciclicità – 6.Tematica dell’alterazione. La differenza tra il grande e il pic-colo intervallo. Continuità e discontinuità. Cromatismo –7. Avviamento di uno studio filosofico sulla consonanza esulla dissonanza – Le indeterminatezze della sensibilità e ilproblema della giustificazione uditiva di questa distinzione –9. Somiglianza e dissimiglianza tra suoni – 10. Interpreta-zione della consonanza e della dissonanza come caratteristicastrutturale dello spazio sonoro – 11. Considerazioni conclu-sive – 12. La questione di una teoria generale della musica.

297 Capitolo quartoSimbolo

1. La musica basta a se stessa – 2. Dubbi se ciò sia vero – 3.La musica e la forma del sentimento – 4. La musica el’ineffabile – 5. Nuovo avviamento del problema: la scopertaontologica che sta all’origine della musica. La musica hamolte origini – 6. Senso e direzione immaginativa – 7.L’immaginazione musicale e il piacere della struttura sensi-bile. La musica consta di suoni risonanti – 8. La musica èun serbatoio di immagini inesplose – 9. L’immaginazionemusicale e la memoria del mondo.

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Introduzione

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§ 1

Non possiamo fare a meno di notarlo: la musica del nostrosecolo che così spesso ha meritato e vantato, secondo le piùvarie formulazioni e accentuazioni, soprattutto il suo esserenuova è ormai diventata, nell’ineluttabilità del tempo che pas-sa, la musica di un secolo che ora volge al suo termine. Franon più di una decina d’anni avremo tutti i diritti di rivolger-ci ad essa con quel senso di passato che viene realmente av-vertito forse soltanto quando possiamo parlare riferendoci alsecolo scorso, per quanto un simile schema temporale possaessere ritenuto arbitrario e irrilevante.

Ma richiamare l’attenzione su questa circostanza nonvuole affatto essere la premessa, peraltro inconsistente, per undiscorso sull’invecchiamento, ma al contrario per fissare questanovità come una delle caratteristiche interne della musica nove-centesca. Di essa è del resto possibile fornire un’interpreta-zione che ha ben poco a che vedere con la dimensione pu-ramente temporale, con l’avvicendarsi del vecchio al nuovo.

Gettiamo dunque uno sguardo d’insieme, già installatinel secolo appena futuro, alla musica del secolo XX. E alloraavremmo forse ragione di notare: al di là della grande com-plessità intrinseca delle vie intraprese, della differenza dei pro-getti e dei pensieri che stanno alla loro base, vi sono certa-mente tratti comuni che in qualche modo sono in grado ditipicizzare la vicenda musicale novecentesca, ed a questo pro-posito proprio il parlare di novità coglie nel segno.

Tuttavia occorre subito precisare: parlando di novità co-me una caratteristica della musica novecentesca, non voglia-mo semplicemente ribadire ciò che essa ha continuato a direed a ridire di se stessa, ma vogliamo piuttosto – e qui natural-mente i termini e il senso del problema mutano profonda-mente – cogliere un atteggiamento verso il nuovo come un at-teggiamento peculiare, che caratterizza la musicalità novecente-sca, il modo d’essere del Novecento nella musica e per la musica.

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Certo, siamo consapevoli di come sia arrischiata già lastessa pretesa di rintracciare qualcosa di simile a dei tratti ca-ratteristici e come si possa, nel tentare di soddisfare questapretesa, pervenire a formulazioni che possono apparire astrattee ben poco significative. Eppure abbiamo la sensazione che,annoverando tra essi l’atteggiamento verso il nuovo, non siabbia a che fare con una vuota generalità, ma con uno deipunti di vista che possono essere utilmente assunti per vedereda una diversa angolatura cose mille volte già viste, comincian-do a scorgere problemi ricchi di senso e difficoltà inavvertite.

Intanto dobbiamo essere in grado di afferrare tutto ciòche si chiama realmente in causa chiamando in causa il nuovo– è nuovo ciò che non appartiene alla cerchia delle cose fami-liari e note, andare verso il nuovo significa in qualche modo al-lontanarsi da casa, addentrarsi in un paese straniero. Novitàvuol dire dunque anche estraneità, differenza, sradicamento eviaggio. Perciò non è affatto interessante chiedersi se e quan-do vi sia stata novità nella musica novecentesca – domandache diventerebbe forse ben presto oziosa – quanto riconoscerein essa un’esigenza fondamentale che la caratterizza in profon-dità. Ovunque, nelle più diverse e diversamente motivateproposte musicali, sembra potersi applicare l’immagine di uncerchio come delineazione di un confine che deve essere ol-trepassato. Ovunque si scorgono limitazioni, barriere che cistringono da ogni parte e che esigono di essere superate, eproprio in esse consiste il vecchio a cui si contrappone il nuo-vo, nell’abbattimento di queste barriere consiste soprattuttol’innovazione.

Ciò vale naturalmente per il superamento del linguaggiotonale – il primo passo decisivo. Per quanto si possa mostrarela continuità di un processo in cui questo superamento puòapparire come il suo esito coerente, è più interessante per noiportare ora l’attenzione piuttosto sul momento della rottura, equindi, se mai, su un processo di erosione progressiva cheproduce alla fine un varco dal quale si può uscire all’aperto.

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Ciò che la pratica musicale ha sempre mostrato di sapere –che nessun privilegio intrinseco spetta al linguaggio della to-nalità dal punto di vista espressivo – arriva infine alla piùchiara consapevolezza teorica, e con ciò viene a cadere l’ideadi un sistema fondamentale prossimo più di ogni altro all’es-senza stessa della musica, come anche l’idea di un finalismointerno capace di operare la subordinazione di ogni forma diespressione musicale entro una prospettiva unitaria.

L’apertura al nuovo si rivela così fin dall’inizio essere un’a-pertura al molteplice. Non solo vi sono molti modi di interve-nire nella crisi del tonalismo e di operarne un superamento –una circostanza che ancora oggi si tende a trascurare immise-rendo con falsi schematismi la ricchezza di dimensioni dellamusicalità novecentesca – ma questo superamento va compre-so e integrato in un più ampio processo di acquisizione delleesperienze musicali extraeuropee, dall’altra musica, che puòperciò essere considerata anch’essa musica nuova. Come ab-biamo osservato poco fa, l’idea della superiorità della musicaeuropea, laddove non ha come conseguenza il puro e semplicedisinteresse, comporta una sorta di distorsione finalistica, co-me se il linguaggio musicale europeo fosse anche situato al li-vello finale di uno sviluppo a cui non potevano che tendereanche le altre culture con maggiore o minore successo. Solol’effettivo venir meno di una simile idea può consentire unapproccio che preservi l’autonomia dell’altra musica da quellepratiche assimilatrici che ne annientano l’alterità e che,all’interno di un simile finalismo, potevano essere ritenuteplausibili e senza problemi.

Lo stesso si può dire per il modo in cui riemerge nellamusica novecentesca ai suoi inizi il problema della musica po-polare e della sua relazione con la musica colta. Questo pro-blema fa parte della musica di sempre: ma solo nel nostro se-colo la musica popolare viene assunta come un altro linguag-gio da scatenare contro o da innestare come elemento esplosi-vo all’interno della musica colta. Il cerchio che chiude è qui

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rappresentato proprio dall’idea che il nuovo sia acquisitosemplicemente esplicitando e dispiegando tensioni apparte-nenti al passato, in una sorta di logico sviluppo di una tradi-zione che pretende di bastare a se stessa e di attingere da sestessa l’energia per andare più avanti. Rompere il cerchio po-trebbe allora significare acquisire di salto forme di espressionemusicale nuove, che sono tali non già perché superano il pas-sato prossimo, promuovendo un passo dopo l’altro il futuro,ma perché appartengono a un’altra dimensione storica, nellaquale esse sono del resto ricche di passato.

Diventa così sempre più chiaro in che modo sia possi-bile fare riferimento al nuovo in un senso più ampio, più ric-co e profondo di quanto lo sia quello che vincola la parola allapura dimensione temporale.

Si consideri da questo punto di vista il problema dellenuove sonorità. In realtà, ogni epoca, ogni cultura musicale haoperato le proprie scelte anche sul terreno della materia sono-ra, manifestando preferenze verso certi tipi di sonorità piutto-sto che verso altri. Eppure è certamente una caratteristicaesclusiva della nostra epoca l’entusiasmo – così spesso manife-stato – per la pura e semplice idea della possibilità di scoprireuna suono nuovo, un suono mai prima udito. Ciò sembra ri-portare l’accento sull’aspetto temporale, prospettando un’e-sperienza di ascolto che dovrebbe essere considerata in via diprincipio eccezionale proprio per questa assoluta novità. Ma auno sguardo appena un poco più penetrante appare inveceche anche questo tema merita piuttosto di essere consideratoalla luce delle nostre osservazioni precedenti.

Veramente importante è infatti, anche in questo caso, lapercezione di una limitazione che deve essere trascesa. Nuovinon sono solo i suoni inauditi, ma anche quelli che non ap-partengono alla chiusa cerchia di quelli che la nostra tradizionemusicale ci ha reso familiari, dunque anche quei suoni che siodono ogni giorno, facendoci più o meno caso, integrati comesono nelle immediate circostanze della nostra vita quotidiana.

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La ricerca di nuove sonorità tende così a fare tutt’unocon l’idea di un ampliamento del campo dei suoni utilizzabiliall’interno della composizione. La concezione secondo la qua-le vi sarebbero suoni predestinati ad un impiego musicale deveessere giudicata come priva di fondamento. Questa idea si ri-presenta in numerose varianti che del resto esplicitano la ric-chezza del suo contenuto. Intanto si tende a ribaltare o co-munque a modificare le «gerarchie» tradizionali degli stru-menti, si promuove e si degrada; si propongono modifiche ealterazioni delle pratiche strumentali tali da produrre effettirari e inusitati. E anche in questi casi non dobbiamo dimenti-care l’area dei sensi entro cui si agita questa tensione alla no-vità: ciò che ora si esalta o che si pone al centro dell’interessemusicale sono sonorità reiette, lontane, marginali.

Che importanza hanno avuto, ad esempio, le percussio-ni nella tradizione musicale europea? Solo una nuova consa-pevolezza di altre civiltà musicali e quindi della necessità dioperare un superamento dei limiti imposti al materiale sonorodella nostra tradizione può portare ad una valorizzazione deglistrumenti percussivi. Di contro si sa come il pianoforte,punto culminante ed emblema di una civiltà musicale, vengaspesso «degradato» a ciò che di fatto esso è innanzitutto, e cioèuno strumento percussivo.

Si assiste così a operazioni di particolare complessità,nelle quali spesso le dimensioni temporali e le dimensioniculturali tendono a intrecciarsi. È il caso qui di rammentate inun lampo come in Ionisation di Varèse all’arcaismo dei suonipercussivi, appartenenti a civiltà lontane ed a paesaggi deserti-ci, si contrapponga il suono perforante di una sirena che ci ri-porta di colpo al centro della città operaia, al presente dellafabbrica metropolitana.

All’ambito della problematica delle nuove sonorità ap-partiene naturalmente la riflessione musicale sulla produzioneelettronica del suono – benché naturalmente il suo raggio diazione sia molto più ampio. In realtà questa riflessione è stata

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guidata per un buon tratto dall’idea di poterci liberare unavolta per tutte dagli strumenti non solo della tradizione euro-pea, ma dagli strumenti, come dire? – umani in genere: dallepesantezze, rigidità, incapacità, dai limiti derivanti non solodalla costituzione meccanica e materiale dello strumento, masoprattutto dal fatto che esso può produrre suoni solo attra-verso l’azione dello strumentista educato in un lungo eserci-zio. E per quanto quell’esercizio sia stato perseguito ostinata-mente, per quante abilità siano state in esso acquisite, il flauti-sta dovrà pure, almeno una volta, tirare il fiato, e il violinistanon potrà arrampicarsi sulla tastiera più velocemente diquanto lo consenta l’osso delle sue dita. Per non dire poi dellarozzezza, approssimazione, grossolanità delle capacità psicolo-giche, dei limiti invalicabili che rendono impossibile, adesempio, una suddivisione temporale realmente fine, il man-tenimento esatto delle durate e la differenziazione dei piccoliintervalli. All’improvviso tutti gli strumenti in genere ci appa-iono invecchiati, anzi ci appaiono vecchi cadenti. Rammentan-do ancora Varèse. Contro il violino: «gracile, misero, peno-so»1. «Il violino non esprime la nostra epoca»2. «Con le attualipossibilità di amplificazione del suono è stupido mettere ventiprimi violini in un’orchestra»3. Contro gli strumenti a fiato:«E nonostante che nella vita quotidiana abbiamo scopertoqualcosa di più efficace e di più conveniente della pompa amano, siamo ancora lì a soffiare come matti negli strumenti afiato»4.

Qualunque cosa oggi si possa pensare di affermazioni

1 E. Varèse, Il suono organizzato, Ricordi-Unicopli, Milano 1985, p. 105.2 Ivi, p. 106.3 Ivi. Ancora recentemente K. Stockhausen: «Purtroppo debbo ancora

adeguarmi all’uso dei violini e delle viole sebbene siano strumenti di cui mi servosempre meno. Penso ai poveri violinisti, ai violisti che di solito se ne stanno se-duti in trenta a fare la stessa cosa, tutti insieme» (Intervista sul genio musicale, acura di Mya Tannenbaum, Laterza, Bari 1985, p. 48).

4 E. Varèse, , p. 115.

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come queste, esse fanno certamente parte della storia del pro-blema. Ed è sempre all’interno di questa storia che si va af-fermando la convinzione non solo di possedere un mezzo perprodurre suoni mai prima uditi, e nemmeno soltanto di rea-lizzare un ampliamento dei materiali della musica, ma so-prattutto di poter dominare l’intero campo dei fenomeniuditivi in generale possibili. Un atteggiamento verso il nuovoche è essenzialmente caratterizzato dall’esperienza di un limitecontiene indubbiamente nelle sue pieghe il pensiero di undominio e di un controllo che ha di mira la totalità stessa. Edè il caso forse di attirare l’attenzione sul fatto che si tratta diun pensiero che in passato non è mai stato formulato, nem-meno in una prospettiva utopica.

Annotazioni

1. A. Schönberg, Manuale di armonia, Il Saggiatore, Milano 1963,vol. II, p. 302: «Credo invece al nuovo, credo che il nuovo siaquanto di buono e di bello noi bramiamo involontariamente e ir-resistibilmente con il nostro essere più interiore, così come ten-diamo al futuro: ci dev’essere nel nostro futuro una perfezione so-vrana, a noi ancora ignota, dal momento che tutto il nostro essereassocia ad essa le sue speranze. Forse questo futuro è uno stadiod’evoluzione superiore del nostro genere in cui si adempie quellostruggimento che oggi non ci dà pace; forse esso è solo la morte,forse però è anche la certezza di una vita superiore dopo la morte:il futuro reca con sé il nuovo, e per questo il nuovo è per noi cosìspesso ed a ragione identico al bello ed al buono».

2. E. Varèse, op. cit., p. 70: «In ogni opera d’arte, ciò che conta è lanovità».

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§ 2

Cerchiamo ora di precisare la direzione in cui sono volti que-sti nostri primi appunti. Anzitutto è bene avvertire fin d’orache, né in questa sede introduttiva, né nelle nostre discussionifuture, avremo propriamente di mira la contemporaneità –soprattutto non saremo guidati dall’intento di proporre inrapporto ad essa schematizzazioni interpretative che avanzinoal tempo stesso la pretesa di giudicare e di distinguere, di for-mulare apprezzamenti e valutazioni. La nostra vuole proprioessere soltanto una riflessione filosofica sulla musica in genere, eperciò siamo interessati soprattutto alle questioni di principioche non si sviluppano a contatto di problematiche particolaribenché debbano certamente offrire in rapporto ad esse orien-tamenti e strumenti per la comprensione e l’interpretazione.

Prendere l’avvio da poche, sommarie considerazioni sul-la musica novecentesca è tuttavia per noi opportuno in questasede introduttiva proprio per cominciare con il delineare ilquadro teorico nel quale si svolgeranno le nostre discussionifuture. Abbiamo così cercato anzitutto di mostrare come iltema della novità possa essere proposto secondo un’angolaturanon banale, e anzi ricca di significative implicazioni. In esso ècontenuta anzitutto l’idea della molteplicità delle forme pos-sibili di espressione musicale, un’idea che assume una parti-colare radicalità dal momento che investe non solo i modi diorganizzazione del materiale sonoro, ma il materiale sonorostesso. L’importanza e la portata di questa idea naturalmentepuò essere colta soltanto sullo sfondo di una tradizione chepoteva considerare il proprio stesso sviluppo come un movi-mento, tortuoso e tormentato fin che si vuole, ma pur sempresvolgentesi all’interno di un alveo chiaramente delineato. Nes-sun musicista del passato ha certo ignorato la possibilità delmovimento, nessuna convinzione profonda dell’esistenza diun’essenza del musicale ha impedito e ostacolato lo sviluppo,così come il riconoscimento di regole la loro infrazione. Ma

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ora il tema della molteplicità richiede certamente la negazioneesplicita dell’essenza.

Delle varie forme di espressione musicale noi possiamodire, come del resto così spesso si dice, che esse sono dei lin-guaggi. Questa non è altro che un’estensione metaforica deltermine, anzitutto impiegato per le forme di espressione ver-bale degli uomini. Gli uomini parlano in molti modi, in moltimodi alle cose vengono associati nomi, e infinitamente variesono le regole per la loro connessione. Ma allora dovremmotrarre dall’estensione metaforica ciò che sembra chiaramenteimplicato nell’impiego originario: e subito nulla appare piùinsensato dell’idea di ridurre la molteplicità delle lingue ipo-tizzando un’essenza a cui commisurare la loro maggiore o mi-nore perfezione. Con altrettanta chiarezza appare qui l’assenzadi vincoli intrinseci nella forma di rapporto tra il nome e lacosa – esso ha origine nella convenzione, cioè nel patto ideal-mente stipulato dalla comunità linguistica. Anche se la parola«convenzione» può essere considerata come non del tutto ade-guata rispetto alla processualità storica concreta che presiedealle formazioni linguistiche e alle loro trasformazioni, tuttaviaessa richiama efficacemente l’attenzione sull’accidentalità diprincipio dei rapporti istituiti. La processualità sta in luogodel sigillo del patto – ad essa spetta il compito di sancire ilvincolo fino a farlo apparire necessitante.

Tutto ciò può essere trasposto al campo della musica.Per lungo tempo questo campo è stato considerato come uncampo circoscritto, anzitutto per ciò che riguarda la sua mate-ria. Ancor prima di ogni messa in forma musicale, vi è lagrande distinzione tra suoni e rumori, nella quale la parola suo-no, che può naturalmente essere impiegata in un’eccezionegenerale per indicare qualsiasi fenomeno uditivo, rimanda piu-ttosto a considerazioni di eufonia e di gradevolezza percettiva,in opposizione ai rumori che generano fastidio e insofferenza.Si può forse rinunciare ad una distinzione tanto ovvia e chesembra appartenere alle condizioni più elementari della musi-

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ca stessa? Eppure sappiamo già che proprio la musica ha deci-so altrimenti. Questa decisione effettuata sul campo, nel vivodell’azione musicale, sembra poter ora cominciare con l’esseresostenuta da elementi di teoria. Se considerazioni di eufoniapossono essere ammesse già in rapporto alla selezione del ma-teriale musicale come tale, allora potranno essere richiamateanche per giustificare livelli e distinzioni più evolute, che co-minciano a mettere in questione il piano dell’articolazioneformale. Si pensi soltanto alla distinzione tra consonanza edissonanza, in rapporto alla quale si sono sempre fatte valereconsiderazioni di eufonia che a loro volta stanno alla base diuna precisa regolamentazione compositiva. Ora, l’inconsisten-za di questa regolamentazione mostrata dalla prassi musicalesembra poter essere ribadita e confermata sul piano della ri-flessione teorica: la sua validità sarebbe puramente intralin-guistica, quelle regole nascono e muoiono con il gioco lingui-stico che esse stesse contribuiscono ad istituire. Ed il richiamoal linguaggio è naturalmente qui ancora il richiamo alla con-venzione. Ad essa potremo appellarci regredendo dal temadelle regole sino alla distinzione tra suoni e rumori, in rappor-to alla quale non mancheranno certo argomenti per metterein evidenza la fondamentale vaghezza, l’essenziale relatività, ilsuo riferirsi al piano delle impressioni psicologiche più labili.Questa indeterminatezza di ordine concettuale potrà a suavolta essere appoggiata dall’esibizione dell’enorme varietà diimpiego della vocalità o delle timbriche strumentali nelle di-verse culture quando esse siano considerate senza pregiudizi.In che cosa consiste allora l’eufonia? Ciò che importa è la so-lidità di una pratica musicale nel quadro di un riconosci-mento e di un’accettazione intersoggettiva. Ed è chiaro che néquesta solidità né questo riconoscimento possono essere otte-nuti fin dall’inizio e in una volta sola. Essi richiedono tempo.La solidità giunge nel corso di un processo di consolidamento.

Vogliamo caratterizzare la prospettiva che stiamo cosìdelineando e che non solo prende le mosse, ma assume come

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proprio centrale punto di riferimento l’idea della musica comelinguaggio, con il termine di prospettiva semiologica. In essa sitenderà dunque a dare il massimo rilievo alla componentetemporale, e dunque alla componente soggettiva e intersog-gettiva. Un brano musicale è eminentemente un «oggetto cul-turale» – la musica è anzitutto una prassi sociale che va consi-derata nella sua integrazione con la cultura a cui essa appar-tiene. Ciò significa che su di essa si fa sentire il peso di unatradizione che determina non solo le modalità dell’azione mu-sicale, ma naturalmente anche le modalità dell’ascolto: deter-minati moduli compositivi si impongono sempre più con ilpassare del tempo, generando consuetudini di ascolto e dun-que schematismi di attese nella successione di eventi di cuiconsta il brano musicale. Una prassi che certamente poteva es-sere all’inizio instabile tende via via a stabilizzarsi assumendola dignità di una regola, al punto da poter avanzare la pretesadi una giustificazione obbiettiva, insita nella stessa natura delfenomeno sonoro. Per molto tempo non si è forse ritenutoche la «risoluzione» della dissonanza nella consonanza – perrichiamarci ancora all’esempio precedente, con un luogo co-mune così spesso ripetuto – fosse una regola intrinsecamenteconnessa con la nozione di dissonanza e con il modo del rap-porto tra consonanza e dissonanza? Invece essa avrebbe il suosostegno solo nelle pratiche dell’arte e di queste pratiche nonsi può dare nessuna giustificazione al di fuori del loro essere inuso. Sullo sfondo di un’apparente necessità vi è inveceun’accidentalità di principio. Ed è naturalmente questa circo-stanza che sta alla base della possibilità del nuovo, della criticadella tradizione come critica del pregiudizio, della rottura dellatradizione o semplicemente del suo continuo movimento.

Tutto ciò può essere ripresentato nel modo di concepireil materiale della musica: considerato indipendentemente daun processo attivo di musicalizzazione esso sarà in se stesso sen-za regole, amorfo e privo di differenze.

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L’analogia con il linguaggio verbale può forse dare parti-colare evidenza ad una simile affermazione. Nella parola noidistinguiamo il suono dal senso, ma il suono – il materiale so-noro che funge da veicolo del senso – è certamente neutrale ri-spetto all’istituzione di questo o quel riferimento all’oggetto,non vi è nulla in esso che prospetti o suggerisca un determi-nato legame di senso piuttosto che un altro qualsiasi. Secondoquesta analogia, anche al materiale musicale spetterebbe un«senso», solo attraverso un’immissione estrinseca al materialestesso benché, come del resto può accadere anche nel caso del-la parola, senso e materiale possano apparire come reciproca-mente e inestricabilmente connessi l’uno all’altro. Con ciò,oltre a ribadire in altra forma tutti i temi precedenti, si prendeposizione sui simbolismi che talora si attribuiscono alle qua-lità sonore come tali e alle loro possibili differenze: in essi sideve cogliere niente altro che l’azione della facoltà associativasulla quale ancora una volta la tradizione esercita tutto il suopeso. Non vi è dunque alcun posto, all’interno di una pro-spettiva semiologica, per una nozione pregnante di simbolo,cioè per una nozione di rapporto simbolico che non si risolvainteramente in un meccanismo psicologico caratterizzato danessi associativi occasionali più o meno solidamente stabiliz-zati, così da poterne operare in via di principio la riduzionealla convenzionalità del rapporto di segno.

Ma come avevamo preannunciato, il terreno del nostrodiscorso ha subito uno spostamento. Ora lo vediamo conchiarezza. Esso si è sviluppato da una tematica sia pure moltogenerale, ma in ogni caso interna al problema musicale, etuttavia il suo andamento, le forme argomentative che inco-minciamo ad intravedere, la stessa terminologia che abbiamoutilizzato mostrano la presenza di istanze filosofiche volte inuna direzione ben determinata: in tutto ciò che siamo andatidicendo sono diventati sempre più riconoscibili i tratti di unafilosofia empiristica dell’esperienza. Tutti i suoi temi principali

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sono stati chiamati in causa, in tutta la coerenza dei loro nessi.A cominciare da quello dell’amorfismo che deve essere attri-buito ai dati di un’esperienza considerata nella condizione delsuo primo giorno: il pensiero di un passato soppresso conducealla postulazione di contenuti in via di principio instabili, diconnessioni precarie la cui regola è il caso, ed è questo pensie-ro che deve dare evidenza all’idea che ogni formazione di sen-so, inizialmente caratterizzata da una contingenza di princi-pio, si stabilizza sempre più nella ricorrenza temporale ed èperciò, in questo senso, una formazione essenzialmente stori-ca. Ciò fa tutt’uno, naturalmente, con il grande tema dell’abi-tudine. Nonostante l’amplificazione e la diversa inclinazioneche questo termine riceve nel suo impiego filosofico, in essoviene mantenuta e persino fortemente accentuata una sfu-matura di senso che appartiene anzitutto all’impiego quoti-diano. L’abitudine non è qualcosa che mi appartiene e di cuiposso disporre a piacimento, non è appunto – nonostantel’affinità dell’etimo – come un abito che io posso togliere omettere quando voglio o una casa dalla quale possiamo ognigiorno entrare o uscire. Noi siamo in possesso di abitudini. Leabitudini ci consentono di sentirci in un mondo familiare enoto, in esse e attraverso di esse si realizza lo stesso processo diformazione della soggettività. Esse non hanno ragioni che nonsiano il dato di fatto di un inizio occasionale e di una reiterataconferma nella successione temporale. Eppure proprio in que-sta contingenza e nel modo della loro istituzione temporalesta tutta la loro potenza. Come le nostre azioni normali sonosostenute e compenetrate di abitudini, così esse compenetranoin generale il nostro modo di rivolgerci al mondo, dal mo-mento che ogni cosa viene sempre intesa secondo un senso euna direzione in forza di sensi provenienti dal passato. Ciòvale già in rapporto agli strati più elementari delle significa-zioni percettive – ciò che appare come semplicemente percepito,come dato nell’esperienza considerata nella sua attualità, è in-vece per lo più sotto la presa di una connessione di senso

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istituita e fondata nell’abitudine. Ciò che può apparire comeun giudizio «spontaneo» emesso all’istante e puramente fon-dato in ciò che ora vedo oppure odo, si dimostra invece comeun pregiudizio nel quale hanno un’incidenza determinanteabitualità che sono cresciute con me, che mi appartengononella stessa misura in cui io appartengo ad esse, così come ap-partengo al contesto storico-sociale nel quale sono immerso.

Nell’atteggiamento intellettuale che sta alla base di unasimile posizione non vi è tuttavia soltanto il richiamo alla ca-pacità formatrice dell’abitudine. Infatti, quanto più si insistesu contingenze che sembrano, sulla base di dinamiche psico-logiche, assumere carattere di necessità, tanto più si mostra lapossibilità inversa di ricondurre il necessario a pura apparenza.

Il filosofo dell’abitudine ci mette anche in guardia con-tro le abitudini. Attira la nostra attenzione sulla tradizione, ein questo modo ci fa notare che essa è soltanto tradizione.

Questi motivi di carattere generale ci riportano certa-mente alle nostre considerazioni precedenti: l’apertura al nuo-vo sembra infatti esigere in via di principio l’abbandono diconsiderazioni centralizzate, cioè di considerazioni fondatesulla convinzione dell’esistenza di criteri e di regole che possa-no pretendere di occupare una posizione centrale all’internodell’universo musicale. Questo universo consta unicamentedei fatti della musica e in esso non vi è alcun centro. A queifatti dunque occorre soprattutto guardare, e con quell’assenzadi pregiudizi che diventa effettiva solo quando essa è accom-pagnata dalla piena consapevolezza della forza del pregiudizio,della resistenza che l’«abitudine» oppone al «nuovo».

Annotazione

Come accade in genere in un campo così incertamente definitocome è quello della semiologia, anche nel caso della semiologiamusicale si ha a che fare con una grande varietà di posizioni, siaper ciò che concerne i compiti affidati alla ricerca semiologica, sia

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per ciò che riguarda i presupposti filosofici di carattere più gene-rale. Il parlare genericamente di «prospettiva semiologica» intendein un certo senso rispettare questa indeterminatezza, mentre il ri-chiamo ai possibili legami con una filosofia empiristica dell’espe-rienza e ai temi convenzionalistici ad essa connessi intende identi-ficare una più precisa linea di tendenza all’interno degli studi disemiologia musicale. Questa linea di tendenza è tipicamente rap-presentata da J. J. Nattiez, Fondements d’une sémiologie de la musique,Union Générale d’Editions, Paris 1975. Si veda anche, dello stessoautore, Il discorso musicale, Einaudi, Torino 1987 e Musicologia gene-rale e semiologia, edizione italiana (a cura di Rossana Dalmonte),Edt, Torino 1989.

§ 3

Abbiamo così mostrato connessioni e rapporti che sembranocontenere premesse incontrovertibili per ogni discussione sul-l’argomento e che del resto si ripresentano di continuo nellariflessione critica come ovvietà ormai da tempo acquisite.

Tuttavia la messa in chiaro di uno sfondo filosofico dicui talvolta non si sospetta nemmeno l’esistenza dovrebbemettere in guardia da un’adesione troppo ingenua all’evidenzadi quelle connessioni. È possibile che quelle prese di posizioneche ci sembra di dover subito far nostre siano in realtà propo-ste in un falso contesto e che il loro senso sia fin dall’iniziosvisato proprio dalla loro, apparentemente naturale, integra-zione all’interno di una filosofia dell’esperienza fondamental-mente erronea.

Ciò che merita un approfondimento è infatti proprio ilpassaggio dalla rivendicazione di un punto di vista dal quale lamusica stessa possa essere abbracciata nell’effettiva moltepli-cità delle sue forme all’idea della totale accidentalità di ognirapporto, dalla critica dell’essenza al dominio della convenzione,dall’affermazione dell’inesistenza di un luogo centrale dell’u-niverso della musica ad una concezione di questo universo co-

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me un puro agglomerato di fatti dispersi. Queste opposizionihanno un effettivo fondamento oppure è necessario dare aquesta stessa problematica un’articolazione e un orientamentointeramente diversi?

Che ci siano buoni motivi per queste perplessità e perrichiedere una considerazione più approfondita che non sifermi alle prime ovvietà, lo si comincia a intravedere non ap-pena cerchiamo di considerare ad una distanza un poco piùravvicinata e con maggiore attenzione critica il richiamo allinguaggio di cui ci siamo in precedenza avvalsi. Abbiamo no-tato che l’applicazione della parola «linguaggio» alla musica,così come del resto alle arti in genere, deve essere intesa comeun’estensione metaforica a partire da un’accezione propria chefa riferimento al linguaggio fatto di parole, al linguaggio verbale.Una simile affermazione, coerentemente sviluppata nelle sueconseguenze, è assai più ricca di significato di quanto possasembrare ad un primo sguardo.

Anzitutto, in base ad essa possiamo senz’altro sostenereche non vi è nessuna necessità intrinseca che ci induca ad asse-rire il carattere «linguistico» della musica. Benché possa appa-rire singolare l’esprimersi in questo modo, il parlare della mu-sica come linguaggio non significa affatto asserire che essa loè, ma così facendo si mostra soltanto un’angolatura dalla qua-le la musica può essere considerata. Più precisamente: si mo-stra, richiamandosi al linguaggio, che la musica può essereconsiderata da una delle molteplici angolature che sono im-plicate nella nozione di linguaggio. E con ciò si ribadisce cer-tamente quanto sia importante il poter disporre di una nozio-ne primaria di linguaggio. Di questa nozione primaria fannoparte numerosi caratteri, e ciascuno di essi può rappresentarel’appiglio per la determinazione di un punto di vista da cuiguardare alla musica.

Attraverso il linguaggio si realizza la comunicazione tragli uomini – attraverso il linguaggio si dà espressione a senti-menti ed emozioni; si formulano ordini e desideri. Attraverso

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il linguaggio si può dare una descrizione fedele di come stan-no le cose; senza il linguaggio non si potrebbero costruirestrade, macchine, ecc.5 Inoltre il linguaggio è fatto di parole, equeste sono emissioni foniche di tipo particolare, dal mo-mento che, ad esempio, non consideriamo come appartenential linguaggio gemiti e lamenti, urla di gioia o di dolore. La pa-role hanno a loro volta caratteri diversi, che la grammaticacorrente ha classificato e tipicizzato, elaborando e formulandonello stesso tempo quelle regole alle quali noi, parlando, in-consapevolmente – e cioè senza esplicita mediazione riflessiva –ci atteniamo. Dalla concatenazione delle parole, nel rispettodelle regole, deriva l’unità della frase e dalla concatenazionedelle frasi l’unità del discorso.

Ciascuno di questi caratteri, ed altri ancora, possonoformare, come abbiamo osservato, l’appiglio per la posizionedi un’analogia e dunque per conferire senso ad una possibileestensione metaforica del termine.

Perciò quando si parla della musica come linguaggionon solo non si è affatto deciso che essa lo è, ma nemmenol’angolatura dalla quale si suggerisce di considerarla. Di con-seguenza la domanda se la musica sia o non sia un linguaggioè una domanda malposta alla quale non ha senso dare una ri-sposta affermativa o negativa; mentre potremmo trovare inte-ressante considerare la musica alla luce della molteplicità diaspetti presenti nell’analogia in essa suggerita.

Un’analogia può essere illuminante. Attraverso il puntodi vista che essa istituisce diventano accessibili aspetti della co-sa che prima erano nascosti o solo sullo sfondo: ora mi pongointerrogativi che sono indotti proprio dal riferimento analogi-co. L’analogia mette in moto un processo della riflessione cheè guidato non tanto dalla cosa stessa, quanto da ciò a cui lacosa stessa è posta come analoga.

Ma può anche essere vero l’inverso. L’analogia può esserfuorviante proprio perché comporta uno spostamento dell’at-

5 Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche Filosofiche, oss. 491.

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tenzione verso qualcosa di altro dalla cosa stessa, proprio per-ché viene effettuato il tentativo di riportare su una cosa ca-ratteri, distinzioni e problemi che sono invece propri diun’altra. Può così accadere che una metafora, che appare ini-zialmente efficace, si riveli poi, quando sia spinta troppo oltreo troppo ostinatamente tenuta ferma, fonte di fraintendimen-ti e di impostazioni problematiche interamente false. Oppureche l’efficacia si limiti ad alcuni aspetti della cosa richiamata eche per altri invece il richiamo sia del tutto inopportuno eintroduca null’altro che confusione.

Tutto ciò è chiaramente illustrato proprio dall’idea dellamusica-linguaggio. Si tratta di una connessione in realtà mol-to antica, da sempre operante nella riflessione sulla musica enella storia della sua terminologia. Su di ciò ha certamenteavuto un peso il rapporto effettivo con la parola attraverso ilcanto. Ma se per certi versi la musica può essere vista alla lucedel linguaggio, per altro invece questo richiamo può condurread una vera folla di questioni malposte.

Ad esempio: tutti i motivi che possiamo addurre per so-stenere l’interesse di questa relazione, possono convincerci an-che che il problema della convenzionalità del rapporto desi-gnativo tra i nomi e le cose possa essere trasposto tal quale nelcampo del «linguaggio» musicale? In proposito dovremmo in-vece richiamare l’attenzione anzitutto sul fatto che nella musi-ca non ci sono nomi.

Oppure: da sempre si è trovato interessante considerareil brano musicale come un discorso – ma questo interesse nonpuò che essere circostanziato, cioè limitato ad alcuni aspettinotevoli che un brano musicale può, e non necessariamentedeve, avere: la pretesa di poter ridurre la musica intera a di-scorso musicale è interamente priva di fondamento. Inoltre,come dicevamo or ora, può essere rischioso lasciarsi guidareda ciò a cui la cosa stessa è posta come analoga – e in realtà sa-rebbe certamente erroneo trarre dalla considerazione di unbrano musicale come un discorso l’idea che in esso si debba

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ricercare una «comunicazione» o un «messaggio» come accadeogni giorno nei nostri discorsi. Si possono così avere buoneragioni in quantità per affermare che «le identificazioni musi-ca-messaggio, musica-comunicazione, musica-linguaggio sonoschematizzazioni che conducono all’assurdità ed all’inari-dimento»6.

L’idea della musica-linguaggio deve perciò essere man-tenuta nella mobilità di una discussione che non ha per nulladeciso fin dall’inizio di impiegarla senza condizioni e che siserve di essa come uno dei tanti strumenti utili, non solo con-siderata in positivo, ma anche in negativo, per circoscrivere,arricchire e movimentare la trattazione.

Ma non è tutto ciò fin troppo ovvio? In quale altromodo mai potrebbe essere proposto di parlare della musicacome di un linguaggio se non attraverso un impiego esplici-tamente o implicitamente analogico-metaforico?

In realtà vi è anche un altro modo: e le nostre considera-zioni precedenti assumono la forza di una presa di posizioneproprio tenendo conto di questa prospettiva interamente di-versa di porre il problema. Naturalmente non si tratta di ne-gare la possibilità di un impiego analogico-metaforico dellaparola «linguaggio», ma di sostenere senza mezzi termini chequando ciò accade, allora la questione perde gran parte, senon tutto il suo interesse.

È forse interessante poter parlare del «linguaggio» degliuccelli oppure del «linguaggio» dei fiori, e dunque anche del«linguaggio» della musica in un vago senso metaforico come èil caso – evidentemente – degli esempi or ora menzionati aiquali certo ne potremmo aggiungere molti altri a piacere? Ciòsembra assai poco seducente. Invece potremmo avanzare un’i-stanza molto più forte: l’idea della musica-linguaggio è vera-mente ricca di implicazioni e ha una effettiva portata solo sein essa non è messa in questione un’immagine, ma il concetto

6 I. Xenakis, Musica. Architettura. Spirali Edizioni, Milano 1962.

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stesso di linguaggio. Ciò che importa non è la determinazionedi un’angolatura, del resto mobile e provvisoria, efficace esat-tamente fino al punto in cui è in grado di dimostrarsi tale, mala possibilità di effettuare, come potremmo dire servendocidella terminologia logica tradizionale, una vera e propria ope-razione di sussunzione. Sotto una luce interamente diversa do-vrà allora essere proposto il tema del linguaggio verbale e dellasua priorità. A esso potremo forse riconoscere una particolaree indiscutibile rilevanza proprio per via della funzione che as-solve nella vita degli uomini; e tuttavia anch’esso dovrà essereconsiderato come un linguaggio tra i molti, cosicché il riferi-mento alla parola, la qualifica di linguaggio verbale dovrà esse-re considerata come un tratto distintivo che differenzia specifi-camente questo linguaggio da ogni altro. Ciò significa postula-re un’unità concettuale che deve valere come genere rispettoalle specie sottostanti. I linguaggi in generale sono sistemi di se-gni e la nozione stessa di segno, in un’accezione molto ampiama sperabilmente non così ampia da renderla inadoperabile,sembra potersi assumere la responsabilità di rappresentarequesta unità sovrastante. Parlare della musica come linguaggioha ora un senso ben più impegnativo di prima, dal momentoche la domanda intorno alla natura linguistica della musicaha, in questa prospettiva, perfettamente senso e nella rispostadeve essere deciso se anche ad essa la nozione generale di se-gno debba esserle sovraordinata.

È appena il caso di notare che nei confronti della conce-zione del rapporto musica-linguaggio come un rapporto disubordinazione concettuale noi assumiamo una netta presa diposizione critica, come appare del resto dal modo in cui èstata condotta la nostra esposizione. E questa netta presa di po-sizione critica si rivolge anche in direzione della prospettiva se-miologica, per il fatto che questa, pur oscillando con scarso ri-gore tra l’una e l’altra impostazione del problema, deve ri-vendicare in ultima analisi le proprie giustificazioni nella na-tura intrinsecamente linguistica della musica e dunque ricol-

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legarsi in via di principio alla concezione più forte di questorapporto. La convinzione della pertinenza rispetto al campomusicale di nozioni e categorie tratte dalla linguistica e gettatedi peso nella ricerca musicologica – convinzione così radicataai tempi dei primi entusiasmi semiologici – non avrebbe cer-tamente potuto imporsi se non fosse stata sostenuta da qual-cosa di più di una semplice relazione metaforica, considerataper di più come interamente aperta nei suoi esiti e nei modidella sua applicazione.

§ 4

Tutto ciò rappresenta naturalmente per noi una premessa perulteriori sviluppi critici. Fin qui si è soltanto operata una pro-blematizzazione dell’ovvietà con la quale sembra potersi effet-tuare il passaggio da una considerazione della musica comelinguaggio o addirittura dalla posizione della natura linguisti-ca della musica a tutto un complesso di prese di posizionenelle quali abbiamo ritenuto di poter individuare i tratti piùcaratteristici di un atteggiamento empiristico nell’ambito dellafilosofia dell’esperienza in genere. Ma ora vogliamo portarepiù a fondo l’attenzione proprio su questi tratti per cogliere,sia pure solo di scorcio, le conseguenze che ne discendono esoprattutto per delineare, a partire da questo sfondo critico,l’orientamento di principio sul quale vogliamo impiantare itemi della nostra riflessione futura.

In realtà ciò che abbiamo detto in precedenza su questolato del problema non basta forse nemmeno a giustificare l’op-portunità di una critica. Tutto sembra infatti essere coeren-temente ordinato nell’unità di una posizione fondamental-mente plausibile e addirittura emergente dagli sviluppi dellamusica novecentesca come un orizzonte teorico necessario.

Questa plausibilità può tuttavia cominciare a incrinarsigià nel momento in cui richiamiamo l’attenzione, evitando di

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impostare la discussione in, grande, su alcuni fraintendimentiindotti da quello schema teorico che appariranno inizialmenteanche troppo minuti, ma che invece sono in grado di fornirciun orientamento critico già chiaramente indirizzato.

Vogliamo dunque ricollegarci all’esempio a cui in pre-cedenza abbiamo fatto cenno e che in realtà risulta efficaceproprio per il suo carattere di luogo comune. Alludo natural-mente alla distinzione tra consonanza e dissonanza e in parti-colare al tema della risoluzione della dissonanza. In precedenzasi è accennato a esso proprio per fornire un esempio partico-larmente evidente di regola strettamente relativa ad un deter-minato linguaggio musicale, il linguaggio della tonalità nell’e-poca che precede la sua crisi. La validità della regola sta, po-tremmo dire, nella sua stessa applicazione, e quindi nella de-cisione di attenersi all’interno di quel linguaggio. Ciò è quan-to deve essere ammesso senza problemi.

Ora, è della massima importanza rendersi conto delpunto in cui una simile ammissione, entrando in un orizzonteteorico di tipo empiristico, muta interamente di senso e incli-na in una direzione che non è per nulla contenuta in essa.

Rammentiamo in primo luogo che chi volesse accingersiad una giustificazione di quella regola comincerà probabil-mente a richiamare l’attenzione sul fatto che la consonanza,già sul piano puramente percettivo, e quindi al di fuori diconsiderazioni «linguistiche», sarebbe caratterizzata da unasensazione di stabilità e di quiete, la dissonanza, all’opposto,sarebbe avvertita come instabile e inquieta. La regola che alladissonanza faccia seguito la consonanza avrebbe in ciò il pro-prio fondamento.

Secondo uno schema teorico di tipo empiristico si tente-rà, non tanto di contestare la caratterizzazione percettiva pro-posta della distinzione e dunque anche del rapporto tra con-sonanza e dissonanza, quanto piuttosto di fornire di essa unaspiegazione che avanza la pretesa di sciogliere una circolaritàinterna.

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Nel linguaggio della tonalità l’accordo dissonante è sem-pre trattato come un accordo che opera una transizione chetermina nella consonanza. Vi è dunque una connessione dicontiguità tra due eventi sonori, la frequenza con la quale essasi ripresenta e la formazione, su questa base, di un’attesa, datoun certo accordo dissonante, di un accordo consonante di undeterminato tipo. Si forma dunque quella che potremmochiamare un’abitudine uditiva. Se l’attesa non è soddisfatta,allora l’accordo dissonante se ne resta in sospeso, con il suo«bisogno di risoluzione», ed esattamente a questa circostanza èdovuta la caratterizzazione secondo la quale alla dissonanzadovrebbe essere attribuita una sorta di instabilità. Questa ca-ratterizzazione non sta dunque prima del linguaggio, ma sorgeinsieme a esso e come conseguenza delle sue regole. Mentre inprecedenza si pretendeva che la regola fosse in qualche modogiustificata nella stessa sensazione sonora, ora si mostra inver-samente che questa sensazione è già sotto la presa di quel-l’abitudine uditiva che è andata formandosi con il linguaggiostesso.

Ciò che chiamiamo rapporto di risoluzione e che ci ap-pare a sua volta determinato da uno specifico carattere per-cettivo, che farebbe pensare ad una relazione intrinseca tra idue eventi sonori, deve essere in realtà ridotto ad una merarelazione di contiguità. Tutto ciò può infine ricevere la suaformulazione più forte nell’affermazione seguente: per qua-lunque coppia di accordi, temporalmente contigui, è possibilela formazione di una sensazione di una relazione interna percui il secondo venga percepito come risoluzione del primo,purché la loro successione sia ripetuta un numero di voltesufficiente a formare un’abitudine.

Le spiegazioni che forniamo per questa regola e le lineeentro le quali ne configuriamo il problema hanno natural-mente una validità che si estende all’intero sistema di regole dicui consta il linguaggio tonale stesso. Nella ripetizione fre-

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quente dell’ascolto di opere che di continuo ripropongonodeterminate forme di sequenze sonore, determinati tipi dirapporti intervallari, con la preponderanza di alcuni rispettoad altri, eventualmente secondo particolari gerarchie costan-temente riconfermate – tutte queste forme e complessi rela-zionali generano nell’ascoltatore un vero e proprio «senti-mento della tonalità». La parola «sentimento» sembrerebbealludere ad un piano che sta al di qua o al di là della dimen-sione culturale; e invece si chiarisce, parlando della sua genesi,che esso è da parte a parte un prodotto dell’acculturazione,che esso è niente altro che un fascio di abitudini uditive che sisono stabilizzate al punto da tradursi in un vero e propriomodo di sentire. Ed è subito chiaro che qui si innesta anche iltema del pregiudizio e della resistenza che questo «sentimento»non può non opporre all’ascolto di altri linguaggi.

Ma ripensiamo ora alla nostra considerazione conclusi-va, e in particolare alla formulazione alla quale abbiamo rite-nuto di poter ricondurre l’intero problema. In essa si impone-va, in realtà come assunto di principio, l’idea che non vi siaalcuna differenza caratteristica tra la contiguità e la risoluzio-ne, dal momento che questa non è altro che un risultato tem-porale, una modificazione di senso che la contiguità ricevenella costante ripetizione. Ciò riproduce fedelmente lo sche-ma dell’argomentazione critica di Hume in rapporto alla no-zione di causa. Ma come quell’argomentazione critica può es-sere efficacemente contestata quando sia considerata comerinviante ad un problema di fenomenologia della percezione,così è certamente legittimo manifestare perplessità rispetto aun’operazione di riduzione di situazioni percettive che sono inogni caso profondamente differenti dal punto di vista descrit-tivo. Certamente, vi è la ripetizione – ed essa può senza dub-bio generare l’attesa che ad un accordo ne segua un altro. Maciò che viene chiamato rapporto di risoluzione non può essereconcepito come un’attesa in senso puramente temporale. Af-fermare, come abbiamo fatto, che un rapporto di risoluzione

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sorga dalla pura e semplice iterazione, significa ammettere chequel rapporto possa anche affermarsi nella direzione inversa,come se la dissonanza potesse assolvere il compito di accordonel quale la risoluzione viene effettuata. Questa pretesa sor-prendente è in realtà contenuta nella formulazione conclusivaproposta nella quale si parla di contiguità e di iterazione peruna qualunque coppia di accordi.

In realtà, sullo sfondo di tutto ciò vi è la messa in que-stione della consistenza percettiva della distinzione tra conso-nanza e dissonanza – questo è un passo rasentato di continuoe che solo la mancanza di rigore e, ad un tempo, il lontanobarlume dell’evidenza impedisce di realizzare a piede fermo.

«L’accordo dissonante – scrive Francés – è diventatonon tanto l’equivalente dell’accordo consonante sul pianodella qualità sensibile (ciò che non è mai stato), ma nella co-scienza percettiva (conscience perceptive) dei musicisti educatiun equivalente concettuale (equivalent conceptuel) che ha per-duto tutti i suoi attributi negativi»7.

In questa frase, nella sua imbarazzata terminologia, èleggibile l’esitazione dovuta ad un nodo concettuale irrisolto.Da un lato non si può non ammettere che sul piano dellaqualità sensibile la differenza resti – nonostante tutto! Qualesia questo piano tuttavia non lo si comprende affatto, dalmomento che esso viene nettamente distinto dalla coscienzapercettiva dei musicisti nella quale dissonanza e consonanzasarebbero concettualmente equivalenti: frase e terminologiacontorta, dal momento che, dopo aver scisso la qualità sensi-bile dalla coscienza percettiva, quasi che i musicisti percepisse-ro qualcosa di diverso da qualità sensibili, si parla poi di unacomponente concettuale che caratterizzerebbe questa coscien-za percettiva. Di passaggio: questa affermazione è material-mente falsa – basti pensare al divieto di impiego della conso-nanza nella musica dodecafonica, cosa che mostra a meraviglia

7 R. Francés, La perception de la musique, Vrin, Paris 1984, p. 364.

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che non vi è, per Schönberg in particolare, proprio nessunaequivalenza, né percettiva né concettuale, anzi la massima co-scienza della differenza, tra consonanza e dissonanza8. E già lasi sente, la protesta: la consonanza è qui vietata proprio per ilfatto che essa ridesta un complesso di associazioni abituali, peril fatto che basta una sola consonanza per risvegliare quel«sentimento della tonalità» che guasterebbe ogni cosa!

Cerchiamo allora di renderci conto meglio di che cosasia questo «sentimento della tonalità». La difficoltà della di-scussione – difficoltà che crea anche fastidiose possibilità difraintendimento delle nostre intenzioni critiche – sta nel fattoche l’esistenza di condizionamenti e di pregiudizi uditivi èsemplicemente incontrovertibile. La storia della ricerca etno-musicologica è in grado di portare in proposito una docu-mentazione quanto mai significativa. E non vi è affatto biso-gno di difficili ricerche empirico-psicologiche per prevedereche la maggior parte delle persone di nostra conoscenza realiz-zeranno continuazioni tonali di motivi eventualmente propo-sti. Ma quando si parla di «sentimento della tonalità» si vuolecertamente (e sperabilmente) andare oltre rilievi così ovvi. Siintende soprattutto negare l’esistenza di rapporti interni tra leformazioni sonore che sono organizzate secondo le regole dellinguaggio della tonalità: questi rapporti non si trovano nellacosa stessa, ma fanno parte, appunto, di un «sentimento» chesi va formando all’interno di una pratica musicale, la quale vaa sua volta concepita come operante sopra un materiale che èin se stesso «privo di senso». Il sentimento porta così sullaconvenzione, piuttosto che su ciò che viene colto origi-nariamente presso la percezione e alla pratica musicale vieneaffidato il compito di istituire un sistema di relazioni che iltempo si incaricherà di fissare sul materiale sonoro come se ap-partenesse ad esso.

8 Almeno nei fatti. Per ciò che riguarda la teoria, le cose stanno un po’

diversamente. Si vedano le precisazioni contenute nelle Annotazioni a questo pa-ragrafo.

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Ora stiamo dicendo qualcosa di molto diverso che rile-vare l’esistenza di abitudini uditive: stiamo invece prospettan-do il problema dell’abitudine uditiva secondo una formula-zione particolarmente forte, dalla quale si possono trarre con-seguenze così pesanti da non poter essere tollerate dalla sem-plice affermazione dell’esistenza di pregiudizi uditivi. Bastinotare subito che la formazione di un sentimento della tona-lità diventa nientemeno che una condizione per lo stesso ap-prezzamento del linguaggio tonale, dal momento che, comeabbiamo detto or ora, ogni rapporto viene istituito solo inquanto quel sentimento comincia a prendere forma. Ma secosì stanno le cose non è difficile sviluppare coerentementequeste considerazioni portandole ai margini del controsenso.

Riconsideriamo, ad esempio, l’intera questione alla lucedella molteplicità dei linguaggi musicali. Ciò che abbiamodetto per il linguaggio tonale deve valere in rapporto a qua-lunque altro linguaggio. Dovremmo allora postulare un sen-timento dell’atonalità, della politonalità, della dodecafonia ecosì in genere un «sentimento» per ogni forma linguistico-espressiva? In tutta serietà dovremmo rispondere affermati-vamente. Ma il peggio è che questi «sentimenti» sono tantopoco compatibili tra loro quanto lo sono i linguaggi in que-stione.

E allora le cose si complicano ancor più. Parlare di unapluralità di «sentimenti» non è affatto facile quando si assumeche essi siano generati dall’abitudine. Richiamandoci ancorauna volta al senso corrente del termine, un’abitudine è in ge-nerale un modo di comportamento al quale noi ci atteniamo«istintivamente», senza riflessione esplicita: e si intende che es-sa può essere acquisita e anche perduta. Ma una nuova abitu-dine, nell’ambito dello stesso genere di cose, scaccia la vecchia– questo è ovvio. Non posso essere abituato a levarmi il cap-pello come saluto ed a non levarlo affatto.

Cosicché non posso possedere il «sentimento dell’atona-lità» ammesso che questa espressione abbia senso, e deve aver-

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lo! – senza aver perso le abitudini uditive legate alla tonalità.Solo che questa perdita, come si comprenderà, non significaper nulla essere liberi dai condizionamenti del linguaggio to-nale, ma significa più radicalmente non essere più in grado dioperare quelle sintesi uditive da cui sorge l’opera tonale stessa.

Sarebbe interessante considerare con quali argomenti cisi potrebbe opporre a esiti così apertamente paradossali. Ma ilpunto del problema non sta nella pura e semplice esasperazio-ne teorica della questione: essa assolve il compito di richiama-re vivacemente l’attenzione sul fatto che proprio uno schemateorico di tipo empiristico, a cui va riconosciuto il merito diun’apertura di principio verso ogni «novità», conduce tutta-via, in uno sviluppo coerente, ad una considerazione degliuniversi linguistici come universi chiusi, ciascuno con il pro-prio sfondo di passato come unica origine delle loro forma-zioni di senso. La molteplicità viene fin dall’inizio senz’altroposta: e rischia subito di diventare un enigma.

Annotazioni

1. Il testo citato di R. Francés, La perception de la musique (Vrin,Paris 1958, 19842) mostra ovunque con particolare chiarezzal’azione di presupposti vetero-empiristici nell’ambito di una ricer-ca di psicologia della musica. In particolare si parla di sentiment detonalité come un sentimento che è istituito nella répétition fréquente,e dunque attraverso la mémoire e in forza di liaisons constamment ex-périmentées. «Il rapporto 3/2 tra due frequenze (con la leggera ap-prossimazione del temperamento) diventa per il soggetto unaquinta, , , , con tutti i significati culturali che vi si ricollegano, conl’insieme delle particolarità strutturali che ciò comporta, come ilfatto di contenere due terze, l’una minore e l’altra maggiore, dideterminare da sola una tonalità, di essere indeterminata quantoal modo e di richiamare una determinazione attraverso la media-zione della terza, ecc. Tutte queste proprietà degli intervalli nonrestano sul piano concettuale, esse sono implicitamente pensate inatto, cioè associate alla ricezione uditiva dell’intervallo come se

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fossero virtualità sonore concrete. In quanto esse sono state ‘spe-rimentate’ nella semplice frequentazione delle opere, possono ac-quisire una certa evidenza anche prima di essere state isolate cometali in un rapporto astratto e generale» (pp. 41-42). «Così l’incom-pletezza di una melodia che termina su un grado diverso dal pri-mo, terzo e quinto è sentita emotivamente come una tensione cherichiede un completamento non di ordine logico, ma di ordinesensoriale. Questa componente emozionale non poggia su un sa-pere rappresentato, ma su un’accumulazione di percezioni ante-riori» (p. 105). La sintassi tonale «è un fatto sociale di grandeestensione, di origine storica abbastanza indeterminata, ma abba-stanza antica da giustificare l’imporsi in rapporto ad essa dell’illu-sione naturalistica (che ha imperversato soprattutto fino al secoloscorso quando le nozioni del relativismo socio-culturale non eranoancora venute a tormentare il sonno dogmatico dei musicologi)»(p. 64). Di un simile punto di vista fa naturalmente parte inte-grante il rifiuto dell’impostazione teorica della psicologia dellaforma e della fenomenologia filosofica. «La Gestalttheorie, in parti-colare, che ha conosciuto in psicologia successi positivi, può essereripresa in estetica solo a condizione di importanti riserve;l’adattamento delle leggi che essa ci ha lasciato deve per lo piùconsistere nel relativizzarle all’interno della storia dell’arte edell’individuo. [...] Per la loro tendenza a misconoscere il caratterestorico delle forme fisiche (qui, delle forme acustiche) a partiredalle quali si costituisce l’esperienza dei soggetti, gli psicologi diquesta scuola, le cui acquisizioni presentano ad un certo livello unvalore incontestabile, hanno finito con il dare un tono innatista alleloro spiegazioni. La forma e l’informe sembrano spesso, stando aloro, dei dati immediati della coscienza che essi non colgono nénel loro divenire individuale come momenti di uno sviluppo psi-cologico, né nella loro evoluzione sociale come prodotti di un lin-guaggio transitorio fissato da istituzioni che tendono a farlo appa-rire come ‘naturale’ fino al giorno in cui ad esso si sostituisce unnuovo linguaggio generatore di ‘forme’ sconosciute che, un secoloprima, sarebbero passate per informi. [...] Qualunque tentativo dicomprensione ‘ingenua’ è escluso, qualunque ‘riduzione fenome-nologica’ che ‘metta tra parentesi’ il mondo istituzionale dellacultura per tentare di ritrovare il vissuto nelle sue manifestazioni è

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senza oggetto. L’elemento non è semplice se non in quanto lo sisradica dall’insieme di cui esso fa parte e nel quale è rivestito diproprietà specifiche, ciò che si chiama il dato è in realtà costituitoa partire da una sfera oggettiva che è necessario conoscere (quelladelle opere e delle tecniche che esse presuppongono) prima diesplorare il contenuto di coscienza» (p. 9). – Va infine notato chele ricerche di R. Francés rappresentano un fondamentale punto diriferimento a cui si richiama spesso la semiologia musicalenell’intento di dare alle prese di posizione convenzionalistiche unsupporto psicologico. In questo quadro è utile rammentare leformulazioni, a dire il vero un po’ strampalate, ma in ogni casomolto indicative, che si possono trovare in M. Pagnini, Lingua emusica. Proposta per un’indagine strutturalistico-semiotica, , , , il Mulino,Bologna 1974 e in rapporto alle quali si rimanda al testo di Fran-cés: «Il materiale eletto dalla musica tonale consta di determinatefissazioni a coppia dette ‘intervalli’, riconosciuti validi in quantoacquisiti mediante una profonda acculturazione, e con radici sto-riche così remote e imprecisabili da darci l’illusione di una vera epropria ‘naturalità’ (mentre si potrebbe, se mai, parlare solo di ‘se-conda natura’ o di ‘natura acquisita’). L’impiego assiduo di certiintervalli ha prodotto una specie di sedimento memoriale, che asua volta costituisce un sistema di attese automatiche (su cui si ba-sano le cosiddette esigenze dell’orecchio e le regole di composizio-ne che s’insegnano nei manuali). Oggidì le teorie naturalistichesono state sostituite dalla visione relativistica, sollecitata in modoparticolare dai vari studi di antropologia musicale. Una nota sin-gola suonata nel vuoto, non è in realtà nel vuoto, né è propria-mente singola. Essa va automaticamente ad inserirsi in un sistemaprobabilistico inconscio, per cui il suo possibile rapporto con altrenote non è che relativamente libero... E il concetto è valido ancheper quanto concerne i rapporti gerarchici delle varie note di uncomponimento nei confronti di quella nota fondamentale verso laquale le varie note di un dato complesso provano una specie di at-trazione. Si sa che il sistema tonale consiste proprio di questa spe-cie di centro calamitato, attorno al quale si distribuiscono, in rap-porti vari, le altre note della scala. Perciò il suono unico di cuiparlavamo viene spontaneamente interpretato come elementofondamentale di una serie melodica. Il ‘sentimento tonale’ dunque

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è un fenomeno di condizionamento, ed ha natura ontogenetica enon filogenetica» (pp. 15-16). «L’opera singola concreta suscitanell’ascoltatore acculturato un’inconscia rete di possibilità di so-luzione, un’inconscia rete probabilistica, che provoca nel processodi comprensione un’alacre attività di richiami memoriali, di con-fronti, fra le varie forme del componimento, in stato di equivalen-za o no, che sono alla ricerca di una specie di modello interno, oarchetipo» (p. 22).

2. Dal punto di vista teorico, nel suo Manuale di armonia (Il Sag-giatore, Milano 1963), Schönberg cerca di mostrare che, assu-mendo che la disposizione degli armonici abbia rilevanza nellaistituzione della differenza tra consonanza e dissonanza (assunzionedi cui per altro egli stesso segnala la discutibilità), quella differenzapuò essere riportata a quella tra armonici «più vicini» e armonici«più lontani» dalla nota fondamentale, cosicché l’opposizione nonavrebbe alcuna giustificazione sulla base della fisica del suono. Diconseguenza «le espressioni ‘consonanza’ e ‘dissonanza’ che indi-cano un’antitesi, sono errate: dipende solo dalla crescente capacitàdell’orecchio a familiarizzarsi anche con gli armonici più lontani,allargando in tal modo il concetto di ‘suono atto a produrre uneffetto d’arte’ in modo che vi trovi posto tutto il fenomeno natu-rale nel suo complesso. – Quello che oggi è lontano domani potràessere vicino: basta essere capaci di avvicinarsi. Nella via che lamusica ha percorso essa ha introdotto nell’ambito dei suoi mezziespressivi un numero sempre maggiore di possibilità e di rapportigià insiti nella costituzione del suono» (op. cit. , p. 24). In Stile eidea Schönberg rammenta che «a distinguere le dissonanze dalleconsonanze non è una maggiore o minore bellezza, ma una mag-giore o minore comprensibilità. Nella mia Harmonielehre ho soste-nuto la teoria che i suoni dissonanti sono meno familiari all’orec-chio di quanto appaiono tra gli ultimi armonici, e che perciò nonsi giustificano termini così violentemente contraddittori comeconsonanza e dissonanza. Una maggiore familiarità con le conso-nanze più remote, ossia le dissonanze, eliminò gradatamente la diffi-coltà di comprensione...» (Feltrinelli, Milano 1975, p. 107).Quanto al divieto di impiego delle consonanze, altrove si precisa:«L’esclusione degli accordi consonanti non posso giustificarla con

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un motivo fisico, ma con uno artistico, ben più decisivo. E infattiuna questione di economia – . Secondo la mia sensibilità della forma(ed io sono tanto immodesto da rimettere ad essa l’unico diritto dicomandare, per quel che riguarda le mie composizioni), l’inser-zione anche di un unico accordo tonale avrebbe conseguenze tali ereclamerebbe per sé un tale spazio, quale non ho a disposizioneentro l’ambito della mia forma. Un accordo tonale accampa prete-se riguardo a quel che segue e, retroattivamente, riguardo a tuttoquel che precede; e non si vorrà dunque esigere che io butti all’ariatutto ciò che precede perché un accordo tonale, sfuggito inavver-titamente, vuol essere reintegrato nei suoi diritti... Tuttavia, nono-stante il mio punto di vista odierno, non ritengo escluso di poterusare insieme anche gli accordi consonanti, qualora si trovi la pos-sibilità di soddisfare oppure di paralizzare le loro esigenze forma-li» (Analisi e pratica musicale, Einaudi, Torino 1974, p. 59).

§ 5

«In tutto il mondo, dagli Esquimesi agli abitanti della Terradel Fuoco, dai Lapponi ai Boscimani, la gente canta, urla,mugola con voci selvagge o monotone; grida e mugola, nasa-lizza e vocalizza; squittisce e ulula; scuote sonagli e percuotetamburi. La gamma dei suoni è limitata, gli intervalli diversi,le forme di respiro brevi, la capacità inventiva apparentementeridotta e i limiti assai marcati. È possibile chiamare tutti que-sti rumori con il nome di musica, se la parola musica è la stes-sa che designa la sacra arte di Bach e di Mozart?».

Con questa domanda si apre l’ultimo capitolo del librodi Curt Sachs, Le sorgenti della musica, che è anche l’ultimasua opera, pubblicata postuma nel 19629. Il grande camminodella sua ricerca e della sua riflessione si conclude così sul te-ma dell’altra musica, della molteplicità dei linguaggi e deiproblemi posti dall’assunzione di un punto di vista unitario.

9 Boringhieri, Torino 1979, p. 224.

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In realtà, la discussione verte inizialmente sulla nozionedi progresso, ma i dubbi subito accumulati, e con buoni moti-vi, sull’applicabilità di questa nozione alla musica e alle arti ingenere, rivelano ben presto che il vero obbiettivo sta nel co-minciare a contestare la possibilità di un ordine temporale cheriproponga un modello teleologico che vede nell’altra culturaal più uno stadio arcaico della propria, per giungere a metterein questione la stessa possibilità di una considerazione unita-ria. Una melodia esquimese, ad esempio, nonostante la suaelementarità e rudimentalità, non è qualcosa di meno progre-dito di qualunque capolavoro della cultura musicale europea,ma è anzitutto una musica che presuppone una modalitàdell’esperienza musicale interamente diversa. Il dubbio postosul tema del progresso riporta l’accento sulla molteplicità deilinguaggi della musica, ma secondo un’inclinazione nella qua-le avvertiamo fin dall’inizio emergere come un problema lapossibilità di stabilire un nesso tra «giochi linguistici» che so-no radicati in «forme di vita» interamente diverse.

Anzitutto la musica non è una lingua universale10, non èuna lingua che parla immediatamente e in modo eguale atutti gli uomini. Questa formulazione di Sachs può far venirein mente, per contrapposizione, il fatto che nella sua Teoriadella visione, Berkeley aveva parlato del linguaggio della visio-ne, appunto, come una lingua universale, volendo con ciò in-dicare, ad un tempo, che i fatti visivi sono segni e dunquedebbono essere interpretati, ma anche che il loro significato èsubito lì, a portata di mano, lo stesso per tutti gli uomini:quelle manifestazioni percettive che significano per me un al-bero, significano un albero anche per un aborigeno australia-no come per chiunque11.

La stessa cosa non si può dire per la musica, essa non èun linguaggio che parla direttamente e spontaneamente a tutti

10 Ivi, p. 234 e p. 236.11 G. Berkeley, Teoria della visione, tr. it. a cura di P. Spinicci, Guerini,

Milano 1995. Cfr. par. 147.

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gli uomini. E in rapporto a questo problema deve essere con-siderato particolarmente significativo il fatto che essa debbaessere appresa, sia che l’apprendimento venga realizzato attra-verso un vero e proprio insegnamento scolastico12, sia che essoconsista in una trasmissione diretta di pratiche musicali in-sieme alle altre pratiche della vita comunitaria.

E tuttavia, quando si parla qui di apprendimento non sideve pensare soltanto a qualcosa di simile all’apprendimentodi una tecnica, all’acquisizione di un’abilità che può essere tra-smessa come tale. Del senso di queste tecniche infatti fa parteintegrante l’orizzonte storico nel quale esse hanno potuto af-fermarsi ed essere elaborate. Questo orizzonte non se ne sta là,a disposizione di chiunque lo voglia afferrare. Esso si è ap-punto concretizzato in «abitudini», in «sentimenti», in orien-tamenti del vissuto. Perciò può sorgere il dubbio che questoorizzonte non possa affatto essere «appreso» o che possa es-serlo soltanto in modo superficiale, situandosi all’esterno dellacultura a cui esso fa da fondamento. E in che modo è possi-bile situarsi al suo interno se non apparteniamo ad essa findall’inizio?

Nel campo particolare dell’esperienza e della praticamusicale sembra così prospettarsi un problema che è ovunquepresente nella ricerca antropologica: una difesa effettiva del-l’alterità sembra comportare difficoltà di principio nell’istitu-zione di un rapporto abbastanza profondo da condurre ad unacomprensione autentica. Si postula la possibilità di un incon-tro, senza individuarne il luogo o addirittura affacciando ildubbio che esso esista o in generale possa esistere. Natural-mente, per chi come Sachs ha così lungamente e appas-sionatamente indagato le culture musicali «lontane», questodubbio assume un senso peculiare: esso intende non soltantoribadire un motivo relativistico, ma soprattutto la possibilevalidità di altri modelli di valutazione profondamente diversi

12 C. Sachs, op. cit., p. 234.

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da quelli europei. In questo spirito sono anche da intendere isignificativi aneddoti narrati da Sachs e che da soli possonosostituire un lungo discorso. Si tratta – una volta tanto! – diesempi clamorosi di «incomprensione» della musica colta eu-ropea da parte degli «altri».

Si narra, ad esempio, di un «eccellente musicista popola-re albanese» che, condotto ad ascoltare per la prima volta laNona Sinfonia di Beethoven, commenta perentoriamente:«Lepo ali preprosto». Che in albanese vuol dire: «Bello, matroppo semplice»13.

In realtà ciò che si vuole rilevare qui non è tanto la que-stione della comprensione o dell’incomprensione, e nemmenosi vuoi portare l’accento sul «condizionamento» di cui valuta-zioni come queste sono indubbiamente il risultato, quantopiuttosto si vuole rivendicare in positivo una differenza di va-lori, sottolineando ad un tempo la profondità con la qualel’ascolto è radicato nella tradizione culturale e nell’atteggia-mento spirituale ad essa sottesa.

E tuttavia, già nell’atmosfera nella quale fin dall’inizio simuove la discussione e poi sempre più nel suo sviluppo, nonpuò sfuggire la presenza di un disagio teorico che si avverte sianel pessimismo di chi guarda alle altre culture musicali comeculture che appartengono in ogni caso al passato, sia nel con-flitto interno che qui si sta delineando.

Entrambi questi temi sono contenuti emblematicamen-te nella frase con la quale Sachs dichiara, dopo tutto, di nonessere affatto disposto a scambiare la messa bachiana in si minorecon una melodia esquimese14. E lo si dice, si badi bene, con uncerto non so qual senso di rammarico. Mi dispiace ma nonposso. Vorrei, ma è ormai troppo tardi.

Sarebbe certamente un inammissibile fraintendimentointerpretare quell’affermazione come una sorta di inatteso ri-

13 Ivi.14 Ivi, p. 237.

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gurgito di eurocentrismo. Al contrario: essa è pienamente coe-rente con l’intera impostazione precedente.

Infatti, si tratta non tanto di porsi sul piano di una va-lutazione assoluta, ma al contrario di non potersi sottrarre aduna valutazione condizionata, a quella valutazione che il tem-po stesso mi impone. Il tempo infatti viene qui in questionedue volte, sempre come passato, e in una duplice forma: comeappartenenza al passato, ad un passato per così dire di princi-pio, di quelle formazioni di senso che si trovano al di fuoridella tradizione europea; come passato di questa stessa tradi-zione a cui noi stessi apparteniamo e dalla quale siamo posse-duti.

La ragione profonda per la quale non possiamo scambia-re la grande messa bachiana con una rozza melodia esquimese,non sta né nella grandezza della prima né nella rozzezza dellaseconda.

Si tratta invece di questo: «Non possiamo sfuggire allacultura che noi stessi abbiamo costruito»15.

Queste sono le ultime parole di Curt Sachs.Non c’è dubbio che in tutto il percorso che conduce a

questa conclusione si sentano nuovamente echeggiare, certoda diverse angolature e all’interno di una peculiare atmosferaintellettuale, i motivi sui quali ci siamo soffermati in prece-denza avviando il nostro riesame critico, e soprattutto sembraaffiorare qui quello schema teorico al quale abbiamo imputatodi non riuscire a districare l’idea della molteplicità degli uni-versi linguistici da quella della loro chiusura di principio. Eciò è tanto più significativo per il fatto che questi temi si pre-sentano proprio in un autore la cui intera attività di ricerca èper lo più caratterizzata dalla tensione verso sintesi di ampiorespiro, che richiedono, volenti o nolenti, criteri unitari e filiconduttori ideali capaci di stabilire nessi significativi tra i fattie che proprio per questo potrebbe soggiacere alle critiche di

15 Ivi, p. 238.

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un orientamento di ricerca che fa della particolarità la propriavocazione esclusiva.

Vogliamo ora riconsiderare la conclusione a cui pervieneSachs alla luce delle intenzioni critiche che abbiamo già mani-festato in precedenza. In quella conclusione, come del restonelle considerazioni che la preparano, affiora di continuo co-me un problema la possibilità di vivere tra linguaggi differen-ti, la difficoltà di mantenere la presa sull’uno e sull’altro – equindi anche, benché questo tema si presenti solo di sbieco,di pervenire ad una comprensione autentica di un altro lin-guaggio. Il richiamo al linguaggio verbale del resto potrebbeinsegnarci proprio questo: la possibilità di apprendere più diuna lingua si fonda sul fatto che in lingue diverse possiamodire la stessa cosa, dall’una all’altra possiamo entro limiti ra-gionevolmente larghi, operare una traduzione, mentre un si-mile problema è semplicemente privo di senso nel caso dellediverse forme di espressione musicale. L’accenno poi, fatto daSachs, all’impiego della parola «neve» e alla ventina di terminiqualificativi con i quali gli esquimesi differenziano vari modidi essere della neve, tende a collegare a tal punto il linguaggioverbale alla forma di vita da estendere la difficoltà al linguag-gio verbale stesso. Potremmo arrivare a sostenere che nessunatraduzione autentica può essere data della parola «neve» cosìcome è impiegata dagli esquimesi: debbo essere stato laggiù dasempre, mio padre e mia madre debbono essere andati a mo-rire sulla neve perché io possa dire di comprendere che cosasignifichi quella parola per un esquimese!

Emerge così nuovamente un problema anche troppogenerale nel quale vorremmo evitare di immergerci più diquanto sia strettamente indispensabile alle nostre esigenze cri-tiche. A tale scopo converrà indugiare sui nostri aneddoti mi-nimi che tuttavia, come abbiamo già sottolineato, possonosvolgere un’efficace funzione di sintesi. La frase del cantore al-banese ci consente un breve commento che potrebbe fare pas-sare in secondo piano la funzione prevalente che assolve qui di

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illustrare clamorosamente la differenza di modelli e di abitu-dini di ascolto. Sachs stesso rammenta infatti l’importanza cheriveste nella musica popolare albanese l’elemento ritmico e lasua particolare complessità sotto questo riguardo16. L’«abi-tudine» dunque ha certamente orientato l’ascolto verso l’a-spetto ritmico, ed è indubbiamente con implicito riferimentoad esso che egli si esprime così: è troppo semplice. Ma non èaffatto lecito ritenere, solo per questo, che l’estraneità verreb-be in questo modo ribadita ovvero che una simile valutazionedocumenterebbe unicamente l’inesistenza di un luogo d’in-contro. Infatti il punto essenziale è che in ogni caso, a partireda un ascolto «pregiudicato», viene qui colto qualcosa che ap-partiene all’opera stessa – e voglio proprio dire questo: anche ame, ora che ci penso, la Nona Sinfonia sembra troppo semplice....

Cosicché è vero, ma è anche falso che quella valutazionemanifesti un’incomprensione, ed è senz’altro falso ritenere cheessa dipenda in tutto e per tutto dalla «cultura» dell’ascol-tatore. Altrimenti non sarei in grado di farla mia propria.

Forse si osserverà: finora non è stato determinato in chesenso si parli di «comprendere» e di «comprensione». Ed a ciònoi controbattiamo: qualunque cosa si intenda con compren-sione, questa nozione deve comunque essere una nozione pra-ticabile. Infatti potrebbe accadere che essa sia invece impiegatain modo tale da rendere irrilevante affermare che la compren-sione mi sia consentita o preclusa; oppure che io non riescanemmeno ad afferrare che cosa propriamente mi chieda – didire? di fare? – quale penitenza mi imponga chi mi chiede seio abbia veramente compreso, non dico una melodia esqui-mese, ma quell’opera beethoveniana, addirittura.

Supponiamo ora che si dica: nessuno può apprezzare in-sieme la messa bachiana in si minore e una melodia esquime-se: perché nessuno può essere nello stesso tempo un europeodel secolo XX e un esquimese di un’epoca indeterminata.

16 Ivi, p. 234. 42

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Formulata in questo modo, forse nessuno accetteràun’affermazione come questa. È importante tuttavia rendersiconto di che cosa comporti il suo rifiuto.

Nemmeno Sachs del resto compie esattamente questaaffermazione. Egli afferma soltanto di non essere disposto ascambiare la messa in si minore con una melodia esquimese.

Ma nessuno gli ha chiesto di farlo!

§ 6

Si va così imponendo a poco a poco la necessità di una pro-fonda revisione di quell’atteggiamento di principio che in unprimo tempo poteva sembrare addirittura scaturire dall’inter-no della stessa problematica da cui abbiamo preso le mosse. Irichiami relativistici, le pretese di un convenzionalismo radi-cale che non conosce limiti nemmeno nella cosa stessa, l’ideache basti evocare il linguaggio per aver chiaro di fronte agliocchi come stanno le cose – tutto ciò si rivela ben presto fontedi difficoltà e di confusione.

Particolarmente erronea è l’idea che a porci su quella viasia la riflessione sulle vicende più recenti della musica. Alcontrario è necessario rendersi conto fino in fondo che quan-do, a partire da considerazioni sulla musica, assumiamo quel-l’orientamento e quell’impostazione non facciamo altro cheapplicare un vero e proprio schema filosofico già pronto, lacui adeguatezza ed efficacia per gli scopi di una filosofia dellamusica non può affatto essere accettata come un’ovvietà, madeve essere messa alla prova. E le nostre prime prove, i nostriprimi sondaggi suggeriscono certo di orientare la ricerca intutt’altra direzione.

Essi mostrano soprattutto la necessità di spingere la cri-tica sino a cogliere quello che può essere considerato il princi-pale presupposto di una prospettiva semiologica che intenda,più o meno consapevolmente, incontrarsi con lo schema em-

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piristico nell’ambito della filosofia dell’esperienza: si trattadell’idea che ogni formazione di senso abbia origine da unapura attività del comporre materiali che sarebbero in sé prividi articolazioni e di differenze interne. A partire da essa pos-siamo ritrovare tutti i motivi che abbiamo già delineato inprecedenza, così come tutti i luoghi comuni che sono a essicollegati.

Stando a questo presupposto, ogni richiamo ad un pia-no dell’esperienza che non sia da subito soggiacente ad inter-pretazioni sembra quasi attrarre su di sé la critica mille volteriproposta della pretesa che si dia un «occhio innocente» alquale i dati si danno, appunto, nella loro irrelatività, così co-me essi sono. Non si è ancora forse abbastanza ripetuto che,già sul piano percettivo più elementare, e poi a maggior ra-gione nell’apprensione percettiva di prodotti caratterizzati dauna particolare ricchezza nella stratificazione dei sensi comesono in generale le opere d’arte, il momento della «ricezione»non è separabile da quello dell’«interpretazione» – e quindidalle proiezioni di senso che derivano dallo sfondo delle no-stre abitualità?

Anzi: lo si è ripetuto anche troppe volte, e per lo piùsenza rendersi conto che questa inseparabilità, che è una purae semplice ovvietà in rapporto a decorsi percettivi di fatto,non significa e non può significare l’improponibilità della di-stinzione tra l’una e l’altra componente. Al contrario: la pos-sibilità di operare questa distinzione è una condizione per po-ter asserire l’inseparabilità di fatto, altrimenti non sapremmoche cosa viene giudicato inseparabile. Ciò è quanto basta permostrare come siano fuori luogo le troppo facili polemichecontro la pretesa di datità assolute che vengano colte daun’esperienza «innocente». Questa pretesa non ha affatto bi-sogno di essere avanzata o qualora lo fosse essa si ridurrebbein ogni caso alla pretesa, del tutto legittima, di poter distin-guere le componenti «interpretative» da quelle puramente «ri-cettive» – cioè, tra gli aspetti della formazione globale di senso

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appartenenti al lato temporale-soggettivo e gli aspetti appar-tenenti all’oggettività considerata nella sua struttura fenome-nologica. L’enfasi posta sull’«interpretazione» – intendendoquesto termine nell’accezione che sempre è presupposta inquesto genere di discorsi, con gli accenti posti sulle accidenta-lità e sulle relatività culturali – rende invece privo di oggetto ilcompito di un’indagine volta al campo della ricettività. Que-sto compito può essere posto e cominciare ad essere assoltosolo se questo campo viene concepito come attraversato datensioni e distinzioni interne che formano la base per possibiliconfigurazioni di senso.

Ad una concezione puramente proiettiva, si contrappo-ne così una concezione più complessa che considera il sensocome una formazione che ha bisogno di presupposti non solodal lato soggettivo, ma anche da quello oggettivo.

Si consideri, per illustrare questa opposizione, un esem-pio ricorrente tratto dal campo della visione: la rappresenta-zione della profondità in un dipinto. Si potrebbe in propositosostenere che la rappresentazione della profondità poggerebbesu un modo di «interpretare» contorni e cromatismi il cuiprincipio non sta per nulla in essi, ma in abitudini visive ac-quisite; di conseguenza le regole secondo le quali la rappre-sentazione viene in fin dei conti costruita non avrebbero alcu-na necessità interna e sarebbero puramente «convenzionali»;oppure che queste regole abbiano a che fare con la cosa stessa,nel senso che la loro applicazione consente la realizzazione diconfigurazioni percettive sulla cui base è in generale possibilela visione della profondità, qualunque cosa ne sia poidell’azione, in circostanze determinate, dello sfondo di abi-tualità visive acquisite.

Si tratta di formulazioni profondamente diverse, di unavera e propria alternativa che non ammette alcuna soluzioneintermedia.

Nella sua opera intitolata I linguaggi dell’arte, un libro acui è utile fare riferimento proprio per la chiarezza con laquale mostra il nesso tra una prospettiva semiologica e una fi-

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losofia empiristica dell’esperienza, Goodman osserva in pro-posito, facendosi sostenitore aperto ed estremo della conven-zione, che «i quadri in prospettiva, come tutti gli altri, debbo-no essere letti; e la capacità di leggere deve essere acquisita»17.Una simile formulazione merita certo qualche parola di com-mento. Anzitutto si noterà il rinvio metaforico alla lettura, chepropone senz’altro la connessione analogica tra un dipinto eun testo. Negli intenti di Goodman, questa connessione è ope-rante nelle sue implicazioni più forti. Intanto, un testo deveessere riconosciuto come tale, e questo riconoscimento non èsenz’altro ovvio dal momento che è necessario che certe con-figurazioni grafiche vengano apprese come «segni provvisti disignificato»; e in secondo luogo, il testo debbo saperlo leggere,a quei segni debbono essere attribuiti quei significati che com-petono a essi, e naturalmente a leggere si impara andando ascuola.

La pittura – anch’essa dunque, che pure si fonda sullavisione, non è per nulla una lingua universale: anche la rap-presentazione visiva della realtà che si pretende più fedele po-trebbe dunque non essere «compresa», poiché è costruita sullabase di regole che non hanno alcun fondamento oggettivo eche, come le regole della scrittura e della lettura, si apprendo-no solo attraverso un processo di «addottrinamento»18.

Con chiarezza veramente esemplare si arriva qui a enun-ciare esplicitamente la tesi – spesso prudentemente sottaciutae che trapela solo come una tendenza – che stabilisce unasorta di equivalenza tra l’affermazione della molteplicità delleforme della rappresentazione e la pura e semplice soppressione

17 N. Goodman, I linguaggi dell’arte, a cura di F. Brioschi, Il Saggiatore,Milano 1968, p. 19. L’espressione «occhio innocente» è tratta di qui, p. 13, eviene impiegata con riferimento esemplificativo alla posizione empiristica espres-sa da E. Gombrich in Arte e illusione, Einaudi, Torino 1965. Goodman per altroritiene che il convenzionalismo di Gombrich non sia abbastanza radicale, inparticolare proprio sul problema della prospettiva (cfr. pp. 15 sgg.).

18 N. Goodman, op. cit, p. 38.

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dell’oggettività: «La rappresentazione è relativa – qualsiasi qua-dro può rappresentare qualsiasi oggetto»19.

In un simile contesto non può mancare, e in effetti nonmanca, l’esempio del solito etnologo che mostra una fotogra-fia al solito selvaggio, il quale, non essendo andato alle nostrescuole elementari, non sa «leggere», e dunque gira e rigira quelpiccolo pezzo di carta tra le mani, lo guarda per diritto e perrovescio, e perfino ne osserva attentamente il retro, restituen-dolo infine con l’aria interrogativa di uno che non ci ha capitoproprio nulla20.

Poiché nessuna rappresentazione può essere più somi-gliante all’originale di una normale fotografia scattata in con-dizioni normali, quello strano caso sembra fornire la provapalmare non solo dell’importanza della componente «cultu-rale» – cosa che in generale non sarà affatto contestata – mache essa ha una tale importanza da rendere del tutto irrile-vante il fatto che la configurazione percettiva sia costruita se-condo certe regole piuttosto che secondo altre.

Invece qui c’è soltanto la prova palmare di un equivocoparticolarmente urtante, che ha origine dal misconoscimentodi una distinzione assolutamente necessaria. In considerazionidi questo genere si assume che se esistono direzioni di sensoappartenenti alla cosa stessa, esse debbono essere immediata-mente riconosciute in ogni tempo e in ogni luogo. La reazio-ne dei singoli di fronte ad una data configurazione assume co-sì il carattere di una vera e propria prova sperimentale; e puòallora apparire ovvio che a prove sperimentali debba essere de-mandata ogni decisione in questo ambito di problemi. Que-sto stesso motivo sta naturalmente anche alla base della con-vinzione che qualora una qualche forma di addestramento sianecessaria per l’afferramento di relazioni e connessioni, questostesso fatto sia a sua volta una dimostrazione che queste rela-zioni e connessioni siano di natura meramente proiettiva.

19 Ivi, p. 47. 4620 Ivi, p. 19 in nota.

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Così nella frase precedentemente citata a proposito delproblema dell’afferramento di una rappresentazione prospet-tica si sottolinea come argomento in ultima analisi decisivo ilfatto che «la capacità di leggere deve essere acquisita», dunqueche l’afferramento stesso è risultato di un addestramento esat-tamente come lo sono le regole di costruzione del disegno.

Ora, la distinzione da cui sorge l’equivoco può esseresemplicemente formulata dicendo: ciò che importa non è pernulla se questa o quella determinata persona di fronte ad undipinto realizzato secondo certe regole percepisca o non per-cepisca la profondità, ma se le regole in conformità delle qualiquel dipinto è stato costruito siano tali da rendere possibile perqualcuno la percezione della profondità.

L’un problema viene ora nettamente separato dall’altro:anzitutto vi è una possibilità che è mostrata da considerazioniattinenti alla struttura del campo percettivo. E poi vi sonocomportamenti di fatto, e in particolare vi è la varietà delle re-azioni dei singoli, in circostanze determinate, accertabili me-diante prove.

Il modo in cui questi livelli problematici entrano inrapporto è completamente diverso da quello in precedenzaipotizzato. In primo luogo le reazioni dei singoli non possonoavere forza dimostrativa in rapporto alle tensioni di senso in-terne al campo percettivo: al contrario queste tensioni rappre-sentano nel loro insieme un criterio per districare la compo-nente «proiettiva», e quindi per valutare l’incidenza e il pesodell’«esperienza passata». Ed è appena il caso di notare come,in questa diversa impostazione del problema, venga toltoqualunque fondamento all’idea che il solo dato di fatto dellanecessità di un addestramento implichi l’indifferenza del ma-teriale di base. Tanto meno si potrà pretendere che questa in-differenza sia provata dalla molteplicità delle «interpretazioni».

In realtà gli argomenti relativisti spesso non sono affattoargomenti, ma si riducono ad una pura e semplice esibizionedella molteplicità. Restando al nostro esempio della rappre-

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sentazione prospettica, si pretende che la molteplicità dei me-todi per la creazione di un effetto di profondità sia come talesufficiente a mostrare la convenzionalità di quei metodi, pas-sando al di sopra del fatto che questa molteplicità non è af-fatto indefinita, ma ha il proprio limite in quegli aspetti delfenomeno globale che partecipano alla costituzione percettivadella profondità e sui quali del resto i diversi metodi rappre-sentativi hanno il loro fondamento.

Questo atteggiamento è del resto connesso con la ten-denza ad attestarsi ai fatti stessi come se la ricerca avesse in essiil suo termine, come se essi non fossero al tempo stesso ancheproblemi. Non è forse un problema che qualcuno, posto difronte ad una fotografia di una persona o di un luogo a luiben noto, non afferri la somiglianza e non realizzi la sintesinecessaria per istituire il rapporto di immagine? Il dato difatto sembra proporre da sé la necessità del suo oltrepassa-mento verso un’interpretazione che sia in grado di renderneconto. Ma ciò richiede che si riconosca uno scarto tra il com-portamento accertato e ciò che sarebbe lecito attendersi, prima diogni accertamento, stando ai dati della situazione percettiva. . . . Inaltri termini, dobbiamo essere in grado di dire: ciò che avreb-be dovuto accadere non si è invece verificato e questo fatto ri-chiede una spiegazione. Un tale non vede la profondità nel di-segno, mentre esso è fatto in modo tale che egli dovrebbe ve-derla. Vi sono condizioni per un’apprensione che tuttavia nonsi verifica. E questo è appunto un problema.

Se invece non riteniamo che sia lecito parlare di condi-zioni, se si sostiene che non vi è nulla nella configurazionepercettiva che possa giustificare l’idea di un senso possibile, edunque l’impiego di espressioni come «dovrebbe» o «avrebbedovuto» sarebbero solo il segnale di opinioni pregiudiziali,allora si impone la tendenza a bloccare ogni movimento versol’interpretazione, ritenendosi soddisfatti della pura e semplicefissazione e documentazione della differenza.

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Vogliamo spiegarci ricorrendo ancora una volta ad alcu-ne esemplari formulazioni di Goodman – questa volta con-cernenti la tematica dell’espressione. Il contesto polemico ri-guarda ora «la diffusa convinzione che suscitare emozioni siauna funzione primaria dell’arte»21 – una frasetta nella qualeegli ritiene (sua bontà) di poter riassumere la filosofia «ro-mantica» dell’arte; e ovviamente la polemica è rivolta anche indirezione di una concezione che assegna all’arte il compitonon solo di suscitare emozioni, ma anche soltanto di espri-merle. Si comprenderà allora che questo compito critico possacominciare con alcune riflessioni dedicate all’espressione delvolto, alla mimica e alla gestualità espressiva in genere. I trattidel volto, nella loro mobilità «esprimono» sentimenti – così sidice di solito. E va da sé, tenendo conto dell’obbiettivo perse-guito, che si tratterà allora anzitutto di indebolire al massimoil nesso per il quale un dato esteriore viene inteso come unamanifestazione immediata di un determinato stato interiore.

A questo proposito, ciò che abbiamo in precedenza os-servato in rapporto al nesso raffigurativo o al problema dellarappresentazione prospettica dello spazio dovrà essere soltantoripetuto, quasi senza modificazioni. In generale siamo portatia ritenere che vi sia una qualche connessione intrinseca trasentimento ed espressione, quasi che, ad esempio, un certomodo di atteggiarsi del volto che noi intendiamo come ma-nifestazione di un sentimento di ira sia l’ira stessa stampata sulvolto. Invece, anche l’afferramento dell’espressione va consi-derato come una «lettura», nel senso e con le implicazioni cheabbiamo illustrato in precedenza. Potremmo infatti sostenereche le espressioni facciali siano ovunque senz’altro comprese?Al contrario. Subito potremo addurre una grande varietà difatti che mostrano la necessità di una vera e propria decifra-zione, o inversamente di un vero e proprio processo di adde-stramento al controllo della mimica. Che le espressioni fac-

21 Ivi, p. 47.

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ciali siano «plasmate dal costume e dalla cultura» non è forsemostrato in maniera esemplare dalla mimica dell’attore giap-ponese che è del tutto indecifrabile per un occidentale? Delresto è sufficiente ricordare il lungo e difficile studio a cui sisottopongono gli attori in genere per imparare a esprimere isentimenti in tutte le loro varietà e sfumature22.

Neppure in questo caso si dimenticherà di approfittaredella citazione dell’antropologo, il quale ci assicura che «... nonci sono movimenti fisici, espressioni facciali o gesti che provo-chino risposte identiche in ogni parte del mondo... Un sorriso inuna società indica amicizia, in un’altra imbarazzo e, in un’altraancora, può avvisare che, se non viene meno la tensione, può se-guire ostilità e aggressione»23.

Anche questa osservazione verrà senz’altro inserita traquella documentazione della differenza che dovrebbe bastare asostenere la tesi secondo la quale «tanto nel caso della rappre-sentazione, quanto dell’espressione certe relazioni si fissanostabilmente per un certo popolo attraverso l’abitudine, ma innessuno dei due casi esistono relazioni assolute, universali eimmutabili»24.

Peraltro proprio l’osservazione intorno al riso attira lanostra attenzione critica, essendo l’esempio dell’attore sen-z’altro indiscutibile, ma anche incapace di provare alcunché inrapporto al nostro problema. Ciò che invece ci appare singo-lare in quella frase è che essa può assumere il senso e assolverelo scopo che ad essa gli attribuisce il nostro autore solo se vie-ne intesa nel senso più letterale possibile, come se ci fosse unpopolo per il quale il riso esprime solo amicizia, un altro soloimbarazzo e un altro ancora solo ostilità e aggressione latente.Noi europei, ad esempio, sorridiamo ad un amico perchésiamo lieti di incontrarlo. Siamo abituati a fare così. E il no-

22 Ivi, p. 48.23 Ivi.24 Ivi.

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stro amico che vede il nostro sorriso, lo interpreta come unamanifestazione di letizia, perché anche lui è abituato a fare co-sì. Ma c’è forse un qualche legame interno tra l’una e l’altracosa? Per nulla affatto. Si tratta solo di un’associazione occa-sionale – venuta fuori chissà come e chissà perché. E infatti senel nostro sorriso si imbattesse un uomo di un’altra tribù, for-se se ne scapperebbe a gambe levate sospettando una grave ag-gressione di lì a poco.

Qui diventa evidente la miseria teoretica di tutte questeconsiderazioni relativiste. Occorre forse essere osservatori raf-finati e psicologi esperti per cominciare con il notare che ilriso in generale può esprimere di volta in volta gioia, imbaraz-zo, amicizia, ostilità, disprezzo, e molte altre cose ancora?

Tutti sanno questo. Io, ad esempio, rido quando vinco;ma rido anche quando perdo. E come talvolta si piange di fe-licità, talaltra si ride per non piangere.

Vi sono poi comportamenti connessi al riso molto parti-colari. Ad esempio, i sardoni, preistorici antenati dei nostrienigmatici sardi, ammazzavano i loro vecchi ridendo. Sardoni-camente25..

Di fronte a ciò potremmo allora limitarci al rilievo delladifferenza, come se la prima e l’ultima parola fosse concen-trata nel ben noto detto: Paese che vai, usanza che trovi?

Commenteremmo allora: ecco qui una tribù per la qualel’uccisione dei vecchi è abitualmente connessa al riso. Guardacome è vario e relativo il senso delle espressioni facciali umane!

La concezione che sta sullo sfondo di un simile com-mento considera la mimica come se in essa fosse in giocol’impiego a piacere di un repertorio di movimenti facciali anostra disposizione, di una collezione di smorfie in rapportoalle quali si tratta semplicemente di decidere a quale senti-mento esse debbano essere associate. L’idea, di origine lingui-

25 Ne parla V. S. Propp nel saggio «Il riso rituale nel folclore», in Edipoalla luce del folclore, , , , a cura di C. Strada Janovic, Einaudi, Torino 1975, p. 59.

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stica, dell’arbitrarietà del segno si rispecchia ora nella conce-zione secondo la quale una smorfia qualunque potrà essere as-sociata ad un sentimento qualunque.

Dell’esistenza di questa o di quella connessione non fac-ciamo poi altro che prendere atto. Il gesto, tipicamente empiri-sta, del prendere atto è, in questa impostazione, ovunque do-minante, in coerenza del resto con il timore, anch’esso tipi-camente empirista, della formulazione di opinioni che tende-rebbero subito a presentarsi, per il modo stesso in cui è deli-neata la problematica, con la caratteristica negativa del pre-giudizio. Mentre le nostre considerazioni e osservazioni criti-che vorrebbero mostrare che, in uno sviluppo coerente, si cor-re qui il rischio di un vero e proprio blocco della ricerca. Af-finché questo blocco venga superato è necessario un atteggia-mento interamente diverso: fin dall’inizio, per attenerci anco-ra al nostro esempio, dobbiamo avvertire, dietro la possibilitàdel riso di connettersi a sentimenti diversi e anche contrastan-ti, un nodo di problemi che debbono essere dipanati e chechiamano in causa, vorremmo proprio dire, la natura del riso.E ciò vale a maggior ragione nel caso del riso dei sardoni. Nonesiteremmo qui a osservare che l’ingenuo pensiero «non si do-vrebbe affatto ridere quando si uccidono dei vecchi» abbia unasua necessità per mettere in moto le domande necessarie allosviluppo della ricerca. Di quel fatto non dobbiamo soltantoprendere atto, ma anche rendere conto, dobbiamo portare la no-stra attenzione in direzione di quella complessa trama di rap-porti nella quale quel comportamento ha le sue ragioni26. E sicomincia allora forse a sospettare che la critica del pregiudizionon sia sempre e necessariamente incompatibile con l’elogiodel preconcetto.

26 Ivi, p. 59: «L’espressione ‘riso sardonico’ attualmente è usata come si-nonimo di riso crudele e maligno. Ma alla luce del materiale esaminato la cosaassume un significato diverso. Abbiamo visto che il riso crea la vita e favorisce lanascita. Se così stanno le cose, il riso durante l’atto dell’uccisione trasforma lamorte in una nuova nascita e annulla l’omicidio. Di conseguenza questo riso èun atto di pietà che trasforma la morte in una nascita nuova».

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§ 7

Vogliamo ora mettere in secondo piano i motivi polemici perraccogliere insieme le linee emerse in positivo all’interno dellanostra discussione. Credo intanto che risulti chiaro dal modostesso in cui essa si è andata sviluppando che l’insofferenza piùvolte manifestata nei confronti del relativismo e dei temi a es-so connessi non può affatto essere interpretata come una sortadi preludio verso la riacquisizione di posizioni che possono es-sere considerate da gran tempo superate. Fin dall’inizio, delresto, la nostra critica è stata sviluppata nel presupposto chealcuni punti fermi fossero in ogni caso ben determinati. Il no-stro vero problema è tuttavia in che modo possiamo muoverciintorno a questi punti fermi.

Tutte le nostre considerazioni precedenti mostrano an-zitutto quanto sia fuorviante contrapporre al dogmatismo del-le giustificazioni assolute un atteggiamento di apertura cosìincondizionata da rivelare difficoltà quanto meno singolari edesiti più o meno nascostamente paradossali. Ed è naturalmen-te disponendoci al di fuori di quest’alternativa che comincia-mo con l’affermare l’erroneità di una concezione che riduceogni determinazione del materiale della musica a dati di fattodi ordine psicologico e socio-culturale.

Anche nelle nostre riflessioni filosofiche intorno allamusica dobbiamo invece lasciarci guidare da una presa di po-sizione che ha naturalmente una portata più generale: la com-ponente soggettiva che interviene nella produzione delle for-mazioni di senso ha di fronte a sé un campo di sensi latenti, didirezioni di senso possibili; e il senso stesso, nella sua realtà edeffettività, sorge come un risultato dei dinamismi che entranoin gioco in questo rapporto.

Nell’ambito di questi dinamismi interviene certamenteanche la problematica dell’abitudine, ma solo come parte diuna tematica più ampia e d’altronde orientata in una manierainteramente diversa. Perciò sembra, più opportuno richiamar-

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si alla dimensione temporale in genere, che è la dimensione an-zitutto propria della soggettività, così da implicare non sol-tanto i motivi dell’educazione e dell’apprendimento, degli a-biti mentali e dei pregiudizi, dei sensi sedimentati e social-mente validi ed ogni altro motivo che può essere raccolto sot-to il titolo dell’abitudine, ma anche tutte le tensioni che ap-partengono alla soggettività come soggettività attiva e attiva-mente operante con le sue scelte e l’intero sfondo di pensieriche la motivano.

Di fronte a tutto ciò vi sono tuttavia anche quei dinami-smi che si impongono alla soggettività stessa come apparte-nenti al suo campo di azione che deve essere concepito comeuna totalità internamente strutturata. Alla potenza dell’abitu-dine, e più in generale delle forze che hanno il loro fonda-mento nella dimensione storico-temporale dell’esperienza,contrapponiamo così la potenza della struttura. Dall’una e dal-l’altra scaturisce ogni formazione di senso, l’origine del sensosta nell’incontro tra queste due potenze. Tutto ciò potrebbeessere schematizzato così:

Vogliamo ora delineare la prospettiva problematica che unasimile presa di posizione suggerisce nel momento in cui co-minciamo a concretizzarla sul piano dei problemi di una filo-sofia della musica. Le formazioni di senso con cui abbiamo ache fare sono allora specificamente formazioni musicali, sonoin generale le opere di cui consta la musica stessa – si trattadunque di oggettività culturali integrate in una tradizione e

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che debbono essere colte e afferrate in questa integrazione, inquesta loro essenziale storicità. Ma queste opere di cui constala musica constano a loro volta di suoni, esse sono alcunché direale in quanto sono costituite di questo determinato materialepercettivo, che ha in se stesso, come noi stiamo sostenendo,prima che una qualunque elaborazione lo faccia rivivere all’in-terno dell’opera musicale, le sue determinazioni e differenzecaratteristiche, le proprie qualità specifiche che stanno a fon-damento di molteplici modalità possibili di connessione e dirapporto. In queste stesse qualità e caratteri e nella rete di re-lazioni che sorgono sulla loro base si innestano direzioni etensioni immaginative che conferiscono al materiale sonorostesso la sua molteplice latenza espressiva. E tutto ciò fa na-turalmente parte del lato della struttura.

Proprio il fatto che questo termine viene impiegato quiin primo luogo in rapporto ad un campo di manifestazionipercettive, considerate puramente come tali, mostra che essonon intende fare riferimento anzitutto a reticoli logici da rin-tracciare ad un grado di maggiore o minore profondità al di làdelle manifestazioni percettive stesse, ma al contrario a distin-zioni ed a relazioni che sono rilevabili interamente all’internodi una considerazione fenomenologica. Inoltre il suo impiegoè libero da implicazioni obbiettivistiche, dal momento che illegame con l’elemento soggettivo in generale deve essere ne-cessariamente e ovviamente mantenuto all’interno di conside-razioni che non hanno di mira oggetti in generale, ma ogget-tività percepite. Ciò che invece viene posto da parte, comeappartenente ad un ambito problematico essenzialmente di-verso, è la connessione con la soggettività considerata nellasua determinazione empirico-psicologica.

Una simile impostazione del problema ci consente di fa-re un impiego della metafora del linguaggio in modo da illu-minare un nuovo e fondamentale aspetto che in precedenzanon poteva che restare oscuro.

Abbiamo già rilevato che le nostre critiche in direzione

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di una prospettiva semiologica non ci precludono affattol’impiego della metafora del linguaggio, ma ci consentono an-zi di fare di essa un impiego liberamente illustrativo, di voltain volta calibrato al contesto e con tutti gli adattamenti allenecessità del caso in discussione. Ora, se vogliamo, come delresto si è già fatto in precedenza, parlare dei linguaggi dellamusica per indicare i modi in cui sono realizzate le sue opere,se in generale portiamo l’accento sulla loro varietà e mol-teplicità, è chiaro che qui viene implicata anzitutto la dimen-sione temporale: le differenze che istituiscono questa moltepli-cità rimandano infatti a validità socialmente sedimentate, alledifferenze delle tradizioni e delle culture. Ma allora si imponeanche la distinzione tra piano linguistico, essenzialmente legatoalla dimensione temporale, e piano prelinguistico, al qualedebbono anzitutto essere riferite le considerazioni fenomeno-logico-strutturali. All’interno di una prospettiva ernpiristico-semiologica questa distinzione sarebbe improponibile per ilsemplice fatto che, in rapporto al problema dell’origine delsenso, il piano prelinguistico non sarebbe altro che un puronulla. Tutto accade, appunto, dentro un gioco linguistico, delquale certamente fa parte l’esperienza stessa, ma in ogni casocome un’esperienza essenzialmente determinata dalle regoleche istituiscono quel gioco.

Ciò che ora ci apprestiamo a sostenere è invece propriola pregnanza di quella distinzione, già naturalmente da unpunto di vista generale, e poi specificamente sul terreno diuna riflessione filosofico-musicale.

In realtà non è forse molto importante stabilire i confinientro i quali questa riflessione dovrebbe attenersi e dunquel’ampiezza del campo che essa abbraccia: questi confini pos-sono ben restare aleatori, come sembra giusto nel caso di ogni«disciplina» della filosofia. È invece importante per determinarel’orientamento di una filosofia della musica fissare il punto dacui essa ha inizio. . . . E noi sosteniamo allora che una filosofiadella musica comincia e può cominciare soltanto facendo un

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passo indietro: essa non si rivolge da subito alla musica stessaconsiderata nella molteplicità aperta delle sue forme espressi-ve, ma regredisce al piano dell’esperienza del suono come un’e-sperienza che forma ad un tempo il presupposto e il fonda-mento di ogni progetto compositivo.

Ma proprio su questo punto bisogna intendersi: che visiano dei presupposti o dei fondamenti di ogni progetto com-positivo è, in fondo la rivendicazione di ogni concezione «es-senzialistica» della musica, di ogni concezione, cioè, che ritie-ne di poterne circoscrivere il concetto in modo non arbitrario,e quindi di poter ritrovare, al di là della varietà delle sue for-me di manifestazione, una radice unitaria. In che modo siprospetta ora questo problema alla luce delle nostre conside-razioni precedenti? Qual è propriamente la direzione in cuiagisce l’idea che ogni progetto compositivo abbia dei presup-posti e dei fondamenti?

Intanto muta il modo di concepire il progetto stesso: inquesta parola è contenuta l’immagine della proiezione. Maquesta proiezione non può essere considerata secondo loschema elementare dell’occhio che anima una materia senzavita, come se il colore delle cose dipendesse dalla luce del no-stro sguardo. E in realtà non è nemmeno pertinente l’oppostaesemplarità della scultura, così spesso citata per rammentare lavittoria dello scalpello sulla durezza della materia inerte.Nell’uno come nell’altro caso si ha a che fare con un’opposi-zione troppo elementare, nella quale il momento soggettivo èin ogni caso dominante. E lo è proprio nel senso, in entrambii casi, di un sopravanzamento soggettivo sulla materialità stes-sa – la soggettività essendo sede di ogni «forma» e ogni pro-dotto il risultato della sua «attività formatrice».

Più coerente con le nostre considerazioni è invece l’ideadi una progettualità che ha le sue origini nella soggettività,che in essa comincia oscuramente a formarsi, ma che può di-ventare realmente produttiva solo quando si incontra con unmateriale concepito come ricco di vita e animato da autono-

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me tensioni interne. Certamente, questa vitalità interna è an-cora da attribuire al nesso con la soggettività – il materiale co-sì considerato, il suono, non è proposto secondo un’obbiet-tività che può essere garantita solo dall’adozione di un puntodi vista fisicalistico. Si tratta, lo ripetiamo, pur sempre delsuono percepito, del suono in quanto esso è dato in un’espe-rienza del suono. Ma ciò che è prodotto nella relazione con lasoggettività in generale si impone alla soggettività nella suaeffettività e concretezza come qualcosa che appartiene al suo-no stesso, alla sua interna vitalità della quale siamo anzituttopercettivamente partecipi.

Perciò è perfettamente lecito parlare di sensi predeter-minati, di differenze precostituite, di forme relazionali e di re-gole in esse fondate che stabiliscono vincoli e condizioni chesono da subito poste non appena avviene l’incontro con lamateria sonora. Potremmo parlare addirittura di veri e propria priori fenomenologico-strutturali, e non soltanto per eccitarela repulsione empiristico-semiologica di fronte alla parola, ac-centuando così la differenza dell’una e dell’altra posizione: maanche per richiamare l’attenzione sul fatto che su quella for-mulazione non vi è nulla da ridire se la parola «a priori» vienestrettamente intesa nel quadro della tematica esposta.

Sarà allora difficile fraintendere il nostro problema comese si trattasse di proporre schemi di giudizio di cui non si è ingrado di indicare il fondamento – questo è all’incirca il sensoin cui si parla negativamente di «apriorismo». Si tratta invecedi penetrare nella natura della materia sonora e di indagarnele peculiarità fenomenologiche in modo da dispiegare ed esi-bire il campo di possibilità aperto all’azione compositiva.

Questo tema del possibile, già affiorato in precedenza,deve essere richiamato con forza a questo punto per indicarnela portata e le implicazioni. Ed in particolare deve essere sot-tolineato il fatto che esso deve essere pensato dinamicamente –le possibilità dell’universo dei suoni sono possibilità in tensio-ne, le tendenze da cui esso è attraversato possono divergere

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variamente ed entrare variamente in contrasto tra loro. Ora, ilparlare di possibilità non solo richiama l’idea di una potenzia-lità non realizzata, ma propone soprattutto l’azione realizzati-va come un’azione che decide. Quando parliamo di sensi pre-costituiti dunque intendiamo affermare che ciò che viene pre-costituito è soltanto l’ambito delle alternative possibili per unadecisione.

Per ciò che concerne la relazione con la soggettività sia-mo dunque ben lontani da una concezione che vede nei mate-riali sonori delle pure «cifre» da rendere significanti e che con-cepisce dunque la soggettività stessa come una soggettività, cheproietta «interpretazioni». Viene invece subito in primo pianoil tema della «ricettività» e si avanza la proposta di un’inda-gine rivolta alle modalità strutturali dell’esperienza del suonoin quanto esse formano presupposti e condizioni appartenentiad un piano che precede le differenze dei linguaggi della mu-sica. Ma sullo sfondo di questa indagine vi è fin dall’inizio ilproblema di una considerazione volta in direzione di una sog-gettività attiva, cioè di una soggettività che prende decisioni.

Infatti, finché si rimane sul piano di un’esplorazione diciò che sta dalla parte della struttura, l’elemento soggettivoviene posto ai margini e deve dunque essere dato il massimorisalto ai dinamismi interni della materia sonora: ma sono poiproprio questi dinamismi che chiamano in causa l’azione sog-gettiva, esigendo essi di continuo che venga operata una scelta.La composizione può allora essere considerata come un risultatodei dinamismi del materiale quando essi siano concretamenteentrati nel gioco delle scelte. Qualunque realizzazione musicalenon può che sostenersi sulle legalità interne del materiale,sulle sue differenze fenomenologiche, sui caratteri che gli ap-partengono strutturalmente. Ma quelle legalità interne resta-no pure possibilità finché in rapporto a esse non siano stateprese delle decisioni. Linguaggi differenti sorgono da decisionidifferenti.

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Perciò il fatto che si possa parlare di natura (fenomeno-logica) del suono non implica la legittimazione di un linguag-gio come più o meno naturale di un altro. Qui sta tutta la ve-rità del convenzionalismo. Ma le nostre considerazioni mo-strano anche quanto poco una concezione convenzionalistica,coerentemente sviluppata, possa essere considerata soddisfa-cente. Essa rappresenta, oltre che un misconoscimento pro-fondo degli aspetti strutturali, anche un impoverimento e unimmiserimento sul versante temporale.

Su questo versante non troviamo certamente soltanto iltema dell’abitudine, per di più inteso in modo riduttivo, maquesto stesso tema deve essere ampliato, arricchito e infinesuperato nella concretezza della dimensione storica. A questadimensione storico-concreta rimanda certamente la tematicadella decisione e della scelta: le decisioni non sorgono dalnulla – di esse noi possiamo limitarci a prendere atto, ma suquesta presa d’atto resta in ogni caso sospesa la domanda in-torno ai motivi. Cosicché in via di principio non ci si può ar-restare al dato di fatto, alla pura constatazione e alla registra-zione di una differenza, ma si è subito stimolati alla messa inprimo piano dell’orizzonte dei pensieri, di fatti, di interpreta-zioni, di prese di posizione che formano l’orizzonte dei motiviche orientano la scelta in una direzione piuttosto che inun’altra. In base a questi motivi è stato deciso così, è stato de-ciso di usare queste regole e queste possibilità piuttosto che al-tre regole, altre possibilità. Di conseguenza ciò che è statomusicalmente realizzato ha assunto questo aspetto, questo ca-rattere. Ma allora è importante anche richiamare l’attenzionesul fatto che, per l’afferramento dell’aspetto e del carattere del-l’opera e per la stessa comprensione dei motivi, è necessarioche ci si renda chiaramente conto delle regole e delle possibi-lità escluse.

Che nella scelta tra possibilità alternative insieme all’a-zione del porre vi sia anche quella del negare deve essere inrealtà considerato come qualcosa di più o di diverso di una

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pura ovvietà logica. Nella musica, e nell’arte in genere, è sem-pre importante intravedere nell’opera le scelte effettuate, edunque avvertire in ciò che esse hanno positivamente posto ilpeso di ciò che da esse viene implicitamente negato.

Dal campo dei problemi di una fenomenologia dell’espres-sione, più determinatamente rivolta a considerazioni di ordinestrutturale, vorremmo allora distinguere quello di una dialetti-ca dell’espressione – un titolo che si addice certamente ad unadimensione essenzialmente caratterizzata dai temi del tempo,della soggettività e della negazione. Tra questi due campi vi ètuttavia anche, e necessariamente, reciprocità e connessione:le considerazioni fenomenologico-strutturali debbono, nel lo-ro pieno sviluppo, essere superate in direzione di considera-zioni dialettiche, mentre una dialettica dell’espressione, senzauna fenomenologia, non potrebbe nemmeno avere inizio.

§ 8

Il senso e la portata di questa nostra discussione, ed in parti-colare la praticabilità e l’interesse della via tratteggiata nellenostre ultime considerazioni, potrà essere valutata solo in se-guito, quando le grandi tesi di principio potranno specificarsie anche risultare più chiare attraverso le applicazioni e gli e-sempi. I nostri intenti sono stati fin qui puramente introdut-tivi, e ciò significa soprattutto che il nostro compito è statoquello di indicare l’inclinazione della nostra problematica ge-nerale, in modo da rendere conto dell’andamento degli svi-luppi successivi e del piano entro cui essi vanno sin dall’iniziochiaramente situati. Ed è naturale che questi sviluppi potran-no portare una luce retrospettiva su questo stesso schizzo in-troduttivo, chiarendo aspetti problematici forse ancora oscu-ramente formulati, operando estensioni, approfondimenti, ar-ricchimenti.

Tuttavia, vogliamo intrattenerci ancora un poco in que-

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sto ambito introduttivo per riprendere, alla luce della discus-sione svolta, i motivi che ad essa hanno dato l’avvio.

Pensiamo naturalmente al problema di una caratterizza-zione della «musicalità» novecentesca, e all’interno di essa altema del «nuovo» che abbiamo ritenuto di poter ricondurresoprattutto a quello dell’esperienza di un limite e dell’istanzadel suo oltrepassamento.

È difficile, io credo, negare la pertinenza di quelle nostreprime considerazioni: esse colgono indiscutibilmente aspettirilevanti della situazione effettiva. E tuttavia la presenza di unelemento problematico si è manifestata ben presto nel fattoche, almeno in parte, quella visione delle cose poteva soggia-cere al peso di una «filosofia» – di un orientamento dell’in-terpretazione – e proprio su questo punto abbiamo spostatol’attenzione.

Ora, il risultato della nostra discussione critica, che mo-strava, se non altro, l’unilateralità di quell’orientamento e lasua incapacità ad andare realmente oltre alcune ovvietà di su-perficie, non contiene forse dei suggerimenti anche in dire-zione, non tanto di una revisione, quanto di un approfondi-mento di quelle considerazioni iniziali? Naturalmente non sideve perdere di vista la differenza di piani, la netta distinzionedi ordini problematici: al centro della nostra attenzione sta inogni caso la questione dell’impianto possibile di una filosofiadella musica, del modo in cui essa può cominciare, dell’areadei problemi che sono ad essa pertinenti. Su un piano com-pletamente diverso si situa invece una discussione che ha dimira il «carattere» della musica novecentesca.

Eppure non vi è dubbio che i temi che abbiamo via viaprospettato non siano senza conseguenze anche su questopiano, qualora si voglia accettare lo slittamento che la discus-sione tende a subire. Non appena infatti ripensiamo nei ter-mini dei nostri motivi teorici il quadro precedentemente deli-neato, esso mostra una maggiore densità problematica, unacrescente tensione interna.

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Prendiamo il tema del pregiudizio che ha certamente,come vogliamo ribadire ancora una volta, le sue buone ragio-ni. Ma queste ragioni si indeboliscono se poi si fa di esse unuso falso, esse tendono anzi a fuorviare l’attenzione da quelloche è il centro effettivo della questione. Fino a che punto, adesempio, possiamo considerare il processo di estensione e diampliamento dei materiali della musica come se si trattassesoltanto di un processo liberatorio, come un processo diemancipazione progressiva nel quale vengono a cadere tabù epregiudizi che non sembrano avere alcuna giustificazione in-trinseca? Questo modo di presentare le cose rischia in realtà dicancellare la complessità della problematica che la musica no-vecentesca propone nella varietà delle sue forme. L’erroremaggiore è qui quello di assumere implicitamente un modellodi sviluppo che è anzitutto applicabile ai processi conoscitiviin genere, che possono essere frenati da pregiudizi oppurepromossi e stimolati da una scoperta tecnologica capace diaprire nuove possibilità alle verifiche e alle sperimentazioni.Naturalmente questo problema si presenta anche nel campodell’arte: ma esso deve in ogni caso essere considerato subordi-natamente ad un punto di vista che pone l’accento anzituttosul fatto che l’arte in genere, e la musica in particolare, ri-sponde a determinate esigenze di carattere espressivo che ap-partengono al musicista e alla sua epoca.

Rammentiamoci allora della problematica delle scelte edei loro motivi su cui abbiamo insistito in precedenza. In basead essa noi tenderemmo ad affermare senza esitazione: il cade-re di un pregiudizio non rappresenta affatto un motivo. Do-vremmo dire piuttosto che vi sono esigenze di carattereespressivo che fanno apparire qualcosa come un pregiudizio epongono quindi il problema del suo superamento. Sarebbe al-quanto singolare e riduttivo, ad esempio, ritenere che nel no-stro secolo ci si sia accorti di poter fare un impiego musicaleautonomo della dissonanza purché ci si emancipasse da alcuneopinioni sbagliate intorno ad essa. E possiamo ora realmente

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sostenere che si sia con ciò dimostrata una maggiore libertàmentale che nel passato? Per quanto ne so, non vi sono ragio-ni di ritenere che il musicista del Novecento sia più libero dapregiudizi di quanto lo fosse il musicista del Settecento odell’Ottocento. Si sono prese semplicemente altre decisioni.

Già il fare notare esplicitamente questo punto sembraspostare in modo per nulla irrilevante il luogo di osservazione.Questa problematica delle scelte è inoltre connessa stretta-mente ad un modo di concepire la riflessione filosofico-musicale che rivendica la necessità di disporsi ai margini delmusicale, sul piano della pura esperienza del suono, assumen-do una forma di rapporto tra il musicale e il sonoro più com-plessa di quella proposta all’interno di una prospettiva empiri-stico-semiologica. In questo senso abbiamo parlato della rile-vanza che assumeva per noi la distinzione tra piano «linguisti-co» e piano «prelinguistico».

Ora, se acconsentiamo a operare quello slittamento dasimili considerazioni di carattere generale alle pratiche com-positive novecentesche, non possiamo fare a meno di notareche un aspetto certamente presente in varie forme all’internodi queste pratiche sta proprio nella consapevolezza di quelladistinzione e nello stesso tempo della complessità di questorapporto. Si può anzi dire di più: fra i movimenti caratteristicidella musica novecentesca dovremmo certamente annoverareun movimento in direzione dei margini del musicale – come sevenisse accettato scientemente, e nello stesso tempo temuto, ilrischio di cadere al di fuori della musica stessa. Da questo puntodi vista può persino essere interpretata, almeno in parte,l’insistenza con la quale musicisti tutt’altro che tradizionalistiamano richiamare il legame con la tradizione – talvolta questainsistenza sembra assumere il senso di una vera e propriaprotezione contro quel rischio, come se indicando un antece-dente si volesse fornire una sorta di garanzia o di prova indi-retta di essere all’interno del grande fiume della musica.

Ma come ci si può esprimere in questo modo, parlare di

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un simile rischio, senza presupporre dogmaticamente un’es-senza della musica? Si può. Anzi lo si può proprio perchéun’essenza della musica non c’è – questo è stato assodato. Losi può, per manifestare il malessere di questa circostanza, co-me se il fatto che un’essenza non ci sia ci imponesse il com-pito di porla ogni volta in essere. E proprio la condizione in-dicata dal rischio, ad un tempo voluto e temuto, di cadere aldi fuori della musica, rappresenta uno dei tratti caratteristicied esclusivi dell’esperienza musicale novecentesca.

Tra questi tratti dobbiamo allora annoverare certamenteanche il fatto che la distinzione tra il musicale e il sonoro di-venta instabile e ciò che or ora abbiamo chiamato movimentoin direzione dei margini del musicale si può manifestare comeuna vera e propria regressione verso il materiale come tale, chenon deve essere obbligatoriamente messo in una forma, mache può essere invece duramente contrapposto a ogni tenden-za ordinatrice.

In questa prospettiva il mobile richiamo analogico allinguaggio riceve un significato ancora diverso. Il lato che de-termina ora il «punto di vista» è rappresentato – nel linguag-gio verbale – dalla presenza di regole rigorose, di condizioninecessarie che debbono essere soddisfatte affinché un com-plesso di parole esibisca un senso. Si attira dunque l’atten-zione sull’elemento strutturale, dove la parola «struttura» nonallude tanto ad una rete relazionale che deve essere senz’altromanifesta, ma ad un’impalcatura logica interna, ad una rela-zionalità intrinseca capace di conferire un ordine di principio.

Per quanto poco si sia messo in rilievo questo punto, èpossibile sostenere che nel linguaggio della tonalità ciò che viè in esso di logicamente strutturato arriva a manifestarsi sulpiano percettivo – la relazione logica si traduce senz’altro inuna relazione esperita. Ciò suggerisce l’idea di cogliere nella«crisi della tonalità» – tra le molte altre cose – anche la rotturadi questo equilibrio tra l’elemento logico e l’elemento fenomenolo-gico.

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Si comprende allora che questa rottura possa manifestar-si nell’estrema divaricazione di questi due poli: anzituttonell’esasperazione dell’elemento «linguistico» nell’accezione cheabbiamo or ora rammentata e che conduce all’accentuazionedei motivi dell’ordine, del controllo, dell’organizzazione for-male, ad un’elaborazione strutturale che non si cura di appu-rare quanto di essa possa essere effettivamente colto attraversol’udito.

Di fronte a ciò, e con non minore insistenza, si imponein modi diversi la tendenza ad allentare la strutturazione lin-guistica, a indebolire l’azione della regola e della norma, la suafissità e stabilità – e ciò può naturalmente essere interpretatocome un movimento verso il materiale sonoro, , , , verso la varietàdelle sue dimensioni fenomenologiche e delle loro potenzialitàespressive. L’atonalismo in contrapposizione alla sistematicitàdodecafonica contiene già interamente l’annuncio esemplaredi questo problema, che si sviluppa poi lungo un arco estre-mamente complesso di posizioni e di pratiche compositiveconseguenti, e naturalmente secondo linee che si intreccianovariamente superando questo semplice schematismo oppositi-vo. La sua presenza si può avvertire ogni volta che viene ri-vendicata la «musicalità» di un’esperienza del suono non mo-dificata linguisticamente, quindi di ciò che, dal punto di vistaprecedente, verrebbe prospettato come appartenente ad unapremusicalità amorfa. Il problema si gioca infatti, ad un tempo,come ampliamento della sfera del musicale e come problematiz-zazione della distinzione tra musicale e premusicale, come in-quietudine che sorge dalla messa in tensione di questi due piani.

Al suono costruito, con i suoi caratteri di piena controlla-bilità, può così contrapporsi il suono trovato e gettato cometale nella composizione, all’evento sonoro consegnato al na-stro magnetico e dunque fissato nella sua identità come unevento definitivo e rigorosamente ripetibile, una concezionedell’evento sonoro di cui viene esasperata la precarietà e l’irri-petibilità. All’attività soggettiva che in ogni caso determina

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l’evento, anche quando affida la sua generazione al calcolo elascia che un’impalcatura logica predisposta in anticipo stabi-lisca ogni suo dettaglio, si contrappone l’idea di un’azione delcomporre che non è un’azione affatto, ma una passionedell’ascolto di fronte all’effervescenza di un materiale che hagià nel suo interno le proprie forme di movimento. I suonisono in se stessi troppo significativi perché il compositore possapensare di aggiungervi qualcosa.

Nel quadro di queste opposizioni estreme che fannoparte di un unico problema si definisce una ricerca che con-tiene in sé, più o meno oscuramente, l’aspirazione ad una verae propria rifondazione del musicale. In realtà è questo il sensopiù profondo della novità nello spirito della musica novecen-tesca; ed in questo senso è certamente contenuto il pensiero diun ritorno a ciò da cui la musica in generale trae la sua origi-ne. «Mi ricordo di aver amato il suono prima di aver presouna sola lezione di musica»27. Questa frase di John Cage for-mula quel pensiero e nello stesso tempo indica, per noi, ilpunto da cui una filosofia della musica può avere inizio.

27 «Conferenza su niente», in Silenzio, tr. it. a cura di R. Pedio, Feltri-nelli, Milano 1971.

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Capitolo primo

Materia

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§ 1

Vi è una semplice analogia visiva che può servire a illustrare, oanche soltanto ad introdurre, il tema del rapporto tra suono esilenzio: si pensi ad un foglio di carta bianca sul quale sia statopraticato un intaglio con una lama bene affilata. Il silenzioviene qui prospettato come una superficie opaca, continua,perfettamente omogenea, che viene lacerata dall’apparire delsuono. Il silenzio viene rotto – il suono è una irruzione nelsilenzio. Il rompere, l’irrompere, il lacerare sono parole che illinguaggio assegna anche all’ambito dei fenomeni sonori e cherichiamano, in questo ambito, il rapporto tra il suono e il si-lenzio.

Eppure si potrebbe osservare che una simile immaginesolo in parte aderisce alla concretezza di questo rapporto. Essasembra subito troppo semplice, troppo unilaterale. Soprattut-to si può sospettare che in essa faccia sentire il suo peso ilpensiero del silenzio come pura assenza di suoni, come un con-cetto puramente negativo. E allora si può obbiettare che forse almondo non si dà e non può darsi una condizione nella qualenon vi sia una benché minima manifestazione sonora.

Dovremmo allora concludere che qualcosa come il si-lenzio non ci sia affatto e che esso si riduca solo a quel pensie-ro? In realtà l’immagine proposta potrebbe essere difesa no-tando che essa, forse, non prende le mosse da quell’astrazione,ma piuttosto dalla dimensione del silenzio a cui ci richiamia-mo, ad esempio, quando parliamo di un silenzio profondo.Contrapporre ad esso l’onnipresenza del suono, e per di piùcome una sorta di dato di fatto, appare allora meno significa-tivo di quanto potrebbe apparire a prima vista. Per renderequesta onnipresenza ricca di senso noi dobbiamo infatti daredi essa una reinterpretazione, ed ancora a partire da quell’im-magine. Essa non è sbagliata ma, come abbiamo detto, è sol-tanto unilaterale. La carta infatti potrebbe anche non essereperfettamente omogenea, ma increspata da ogni genere di im-

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purità, benché queste piccole discontinuità non impediscanodi cogliere un disegno eventualmente tracciato su di essa. Ciòsignifica che il silenzio stesso, da cui un suono singolo si sta-glia, nella sua precisione e determinatezza, può essere conce-pito come una sorta di texture sonora, come una trama di pic-coli suoni, come un brulichio e un mormorio.

Questo silenzio mormorante è l’altro aspetto del silenzio:esso consta di un formicolare di suoni che stanno sulla sogliadella consapevolezza, che sono avvertiti appena o che sono deltutto inavvertiti, nel senso delle cose che stanno sullo sfondo eche perciò non vengono notate.

Il mormorio è lontano. Quando esso si avvicina, quandooltrepassa la soglia della consapevolezza cessa di essere un a-spetto del silenzio, assumendo invece il carattere di un’oppres-siva pienezza sonora così da apparire come una vera e propriaocclusione dell’orizzonte entro cui sono possibili i suoni.

Il parlare soltanto di onnipresenza dei suoni, il limitarsia constatare che ovunque vi sono manifestazioni sonore, nonci pone di fronte al silenzio mormorante e al silenzio profondocome due aspetti del silenzio.

La relazione che vi è tra l’uno e l’altro aspetto la si coglieriflettendo sul tema dello sfondo. Ne possiamo parlare quicome si parla del fondale di una scena teatrale, dello scenarioche apre e chiude lo spazio scenico, sul quale è dipinto ungiardino, un paesaggio, una forma architettonica. Ora, noiparliamo del silenzio mormorante come di un fondale sonorodisposto per così dire oltre il fondale visivo, un poco più lon-tano, appena avvertito o non avvertito affatto. Questo secon-do fondale, apparentemente privo di qualunque importanza,realizza invece anch’esso, come il fondale visivo, una delimita-zione della scena che è essenziale per conferire ad essa la suavitalità interna. Proprio in forza di questo remoto avvolgi-mento sonoro ciò che accade sulla scena ci appare vivamentepresente.

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Immaginiamo infatti che questo sfondo già lontanovenga spinto ancora più lontano. Allora certamente subentraun radicale mutamento: la scena subisce uno svuotamento in-quietante, una singolare sospensione. Potremmo dire: ora ilsilenzio è divenuto profondo. Saremmo anzi quasi tentati didare di questa espressione una spiegazione tutta nostra: il si-lenzio si dice profondo perché quel secondo fondale che chiu-deva la scena è stato tolto, e dunque essa non è più avvolta, ein certo senso anche protetta e custodita, da quel mormoriovivente, ma si è aperta da tutti i lati, come se si protendessenel vuoto e restasse in esso sospesa.

Mentre scrivo, la penna non fruscia più sul foglio dicarta – prima quel fruscio certamente non lo udivo: ora inve-ce odo che non c’è. Camminando non si ode più lo scalpicciodei miei piedi e la porta che si apre scivola silenziosamente suisuoi cardini, come se non avesse peso.

Al silenzio mormorante che si è fatto troppo avanti, almormorio che ha cessato di essere tale trasformandosi in unaocclusiva pienezza che toglie ogni spazio ai suoni, impedendola chiarezza e la distinzione attraverso cui essi possono prende-re rilievo, si contrappone così, nell’allontanamento del fonda-le sonoro, il silenzio come vuotezza che viene concretamenteavvertita.

Il silenzio profondo viene talvolta detto silenzio mortale.Vi è forse bisogno di rammentare la connessione tra il silenzioe la morte? Eppure vi è anche l’altro aspetto del silenzio inrapporto al quale il silenzio è esso stesso una realtà vivente – aciò alludevano parole come brusio, mormorio, brulichio: inparole come queste vi è l’idea di una vita germinante, come sesullo sfondo ci fossero miriadi di piccoli animali in movi-mento. Ma questa realtà vivente è anche ciò che fa vivere larealtà stessa. La nostra esistenza ha bisogno di un mormoriodiscreto, e così vi è anche una condizione sonora per la perce-zione della vitalità stessa della vita.

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§ 2

In questo silenzio, ora si odono suoni. Essi si fanno notare, aessi prestiamo attenzione. Di passo in passo cerchiamo così dimettere in rilievo concisamente le prime ed elementari distin-zioni necessarie. Nell’udire suoni, infatti, questi debbono esse-re posti come oggettività che in qualche modo mi stanno difronte e alle quali siamo uditivamente rivolti. Ma allora è quigià presente una prima distinzione di fondamentale impor-tanza, per quanto possa passare inavvertita. Tra i suoni in ge-nere vi sono anche le nostre voci, ed è chiaro che occorre quimarcare una differenza non tanto come se essa fosse attinentealla manifestazione sonora come tale, quanto piuttosto nelmodo di avere esperienza della voce, e anzitutto di quella voceche è la mia. In altro modo: dobbiamo anzitutto indugiare suun piccolo dettaglio della grammatica filosofica del verbo«udire»: la frase «egli udì quel suono» non ha affatto subitosenso se quel suono è la sua voce. Ad essa dobbiamo dare uncontesto che sia in grado di conferirle un senso che in se stessanon possiede.

Cominciamo allora con il dire: la voce è il suono origi-nariamente soggettivo, è il suono che sorge dalla soggettività –con la voce essa si esprime. Di espressione si parla qui nel sensoampio del termine: voce significa anche parola, essa pone findall’inizio il problema del linguaggio. Con la voce dico quelloche penso, comunico i miei pensieri. Ma la voce non è solosuono linguisticamente articolato. Con espressione si intendeanche, ad esempio, il gemito e il grido, la manifestazioneinarticolata del dolore o della gioia. Richiamare l’attenzionesulla voce come suono originariamente soggettivo significasottolineare le peculiarità di un modo di rapporto che ciascu-no intrattiene con la propria voce, e solo con essa, a differenzadi tutti gli altri suoni da cui siamo raggiunti da ogni parte.Più precisamente: questa peculiarità è tale da rendere a mala-pena tollerabile il fatto stesso che si parli di un rapporto o di

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un modo di rapporto. Tra la soggettività che si esprime e ilsuono della sua voce vi è una relazione così interna da nonconsentire quasi la distanza necessaria perché si possa parlaredell’esistenza di un rapporto. L’atto del parlare, per colui cheparla, non è preceduto dall’intento di emettere suoni provvistidi senso. E chi prova dolore non pensa che potrebbe dare a es-so espressione impiegando nel modo giusto le sue corde voca-li. Semplicemente parla. Oppure grida.

Per questo la domanda che interroga intorno al rapportocon la propria voce è tanto singolare quanto lo sarebbe ilchiedere: che rapporto hai con i tuoi occhi? Oppure: che rap-porto intrattieni con le tue mani? Infatti potrei rispondere:con le mie mani afferro un frutto dall’albero – e così ora parlo,come afferro e guardo.

Ma tutto ciò ci riconduce certamente al problema a cuiabbiamo accennato all’inizio: la mia voce è caratterizzata daun modo peculiare di restare inavvertita, di non essere maialla mia presenza. Ciò che manca qui è l’indugio pressol’udire, così come quella messa a distanza che rende possibilela dimensione dell’ascolto.

È interessante notare che un simile rilievo potrebbe esse-re presentato come un modo di prendere posizione nei con-fronti del tema ricorrente dell’origine della musica dal canto.Come gli uomini hanno prima agito con le loro mani e poihanno costruito strumenti, così dovremmo ammettere che leprime manifestazioni musicali fossero quelle realizzate conquesta capacità originariamente soggettiva e immediatamentecorporea di emettere suoni. Il suono strumentale non può chesituarsi ad un grado più evoluto dello sviluppo.

Eppure la relativa ovvietà di una simile osservazione nonè affatto esente da obiezioni: e non tanto sulla questione me-todologica dell’origine, un tempo così controversa. Che nonsi tratti di un problema storico-fattuale, e quindi che in essonon si formulino autentiche ipotesi empiriche, questo può es-sere dato per acquisito. Tuttavia l’interesse del porre il pro-

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blema dell’origine consiste nel fatto che esso può essere consi-derato come una proiezione che assume forma genetica di ciòche si pensa sia la musica stessa – ciò che la musica è alle sueorigini è anche ciò che essa è nel suo fondo.

Non è certo difficile cogliere quali possano essere le te-matiche fondamentali sollecitate dall’«ipotesi» dell’originedella musica dal canto. Si tratterà qui certamente di porrel’accento sul momento dell’espressione come manifestazionedel sentimento, di dare dunque il massimo risalto alla relazio-ne con la vita affettiva ed emotiva: dal canto si risale ancorapiù indietro all’urlo e al lamento, al pianto e al riso. Il suonoprodotto per mezzo della cosa verrà più tardi. Prima di tutto,alle origini della musica vi è il suono come espressione direttadi un corpo vivente.

Di fronte a ciò abbiamo già avanzato lo spunto di unacritica.

È noto che le numerose forme di melodia che possiamoattribuire alle fasi più arcaiche della civiltà sono a struttura di-scendente e questa può essere interpretata come un’elabo-razione di una forma ancora più elementare, la forma dellamelodia a picco.

Così la descrive Curt Sachs: «Il suo carattere è selvaggioe violento: dopo un passaggio brusco alla nota più alta possi-bile, in un fortissimo quasi urlato, la voce precipita verso ilbasso con salti, cadute o slittamenti verso un pianissimo can-tato su una o due note bassissime, appena udibili; poi, con unbalzo vigoroso, la melodia recupera la nota più alta per ripete-re il movimento a picco ogni qualvolta è neccessario»28.

La forma della melodia a picco è dunque appena un po-co oltre la forma di un urlo, ed anzi noi vogliamo fare proprioquesto ulteriore passo indietro a cui del resto questa descri-zione ci invita: «Nella sua forma emozionale e meno melodio-sa, questo stile richiama le esplosioni incontenibili, le grida

28 C. Sachs, Le sorgenti della musica, Boringhieri, Torino 1979, p. 71.

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quasi inumane di gioia selvaggia o i mugolii di rabbia da cuiprobabilmente deriva»29.

Elaboriamo così filosoficamente questa fantasia dei primordi:una volta il bestione urlò di dolore nella sua caverna ed essane rimandò l’eco. Fu allora che egli udì la propria voce. Di-mentico del dolore e delle sue cagioni, ora ascolta attonito. Epoi ripete quell’urlo, senza il dolore, variamente modifican-dolo.

Perciò, se ci venisse chiesto che cosa distingue il cantodall’urlo noi risponderemmo semplicemente che il canto nonè altro che l’eco di un urlo. E in questa risposta vorremmocondensare le nostre considerazioni precedenti. Abbiamoparlato infatti della necessità che si stabilisca una distanza, chesi operi una desoggettivazione che sia capace di liberare dallavoce il suo suono in modo da rendere possibile la dimensionedell’ascolto. Ed è questo anzitutto che realizza la voce in eco:il fatto che di essa io mi possa riappropriare, che io possa inqualche modo assumerla ancora come «mia» è diventato orairrilevante. In essa né io stesso né un altro si esprime: la vocein eco è invece una voce senza soggetto, una voce impersonale,e anzi, non più voce, ma suono che io ora finalmente ascolto.

29 Ivi.

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Annotazione

Nei giochi linguistici correnti l’udire rappresenta una condizionenecessaria, ma non sufficiente, dell’ascoltare, essendo l’ascoltareniente altro che un indugiare presso l’udire che può assumeremolte forme. E poiché quei giochi linguistici non sanno nulla delladifferenza tra il fisiologico e lo psicologico, l’inizio della voce«Ascolto» di R. Barthes e R. Hadas nell’Enciclopedia Einaudi(Torino, vol. I, 1977, pp. 982 sgg.) che dice perentoriamente:«Udire è un fenomeno fisiologico; ascoltare è un atto psicologico»non sembra affatto un buon inizio, benché siano certamente ricchidi interesse gli sviluppi successivi.

§ 3

Vogliamo ora muoverci di un altro piccolo passo. Come si sa-rà ormai compreso, noi non disdegniamo le domande mini-me, o più precisamente: quelle domande che certamente im-pegnerebbero diversi fronti del sapere vengono subito da noiricondotte entro un ambito dominabile da riflessioni moltosemplici, per quanto anche in esso sia necessario procederecon cautela e metodo. Così alla condizione dell’udire suonipuò seguire la domanda intorno alla natura di questo udire edi ciò che viene udito. Ad essa possiamo certamente cercareuna risposta nella fisiologia dell’udire e nella fisica del suono.Ma vi è anche un altro modo di intendere la domanda, chenon si contrappone al precedente, ma muta soltanto il suosenso, facendo di essa un’altra domanda: ci si interroga allorasulle caratteristiche del suono come concreto fenomeno uditi-vo, caratteristiche che possono essere messe in evidenza mo-strando analogie e differenze rispetto agli altri ambiti dell’e-sperienza percettiva in genere.

Si dice di udire un suono, così come di vedere una cosa,di afferrarla o di toccarla. Ma è appena il caso di notare che ilsuono è un’entità di tutt’altro genere della cosa materiale che

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mi sta di fronte, che vedo in un determinato luogo dello spa-zio circostante, che io posso afferrare con le mie mani edeventualmente riporre in un altro luogo. Come la voce in eco,il suono aleggia nell’aria diffondendosi nello spazio intorno. Ilsuo essere «qualcosa» non può non apparire già per questo ric-co di problemi, dal momento che se da un lato sembra giusti-ficato, come suggeriscono gli impieghi linguistici correnti, farriferimento al suono come ad un «oggetto» autentico, dall’al-tro mancano qui quella determinatezza e quella stabilità chepotrebbero forse essere poste a condizione dell’oggettività stessa.

Ma se i suoni non sono assimilabili alle cose, non lo so-no nemmeno a proprietà delle cose, come è invece stato as-sunto da un’antica tradizione. Come nel caso dei colori, an-che ai suoni si è attribuito lo statuto di «qualità secondarie» –quindi di qualità che non ineriscono alla cosa obbiettivamen-te, ma che comunque sorgono in inerenza ad essa nel rap-porto con la soggettività percettiva30. Si ammette così che co-lori e suoni siano da annoverare tra le proprietà che appar-tengono alle cose, comunque venga poi intesa questa relazionedi appartenenza.

Eppure proprio su questo punto il confronto tra colori esuoni, così ricco di suggestioni interne e sul quale la riflessio-ne si è sempre esercitata con profitto, sembra piuttosto segna-lare una profonda differenza. Come si parla di una cosa colo-rata, così si può forse parlare di una cosa sonora, ma subito siavverte una modificazione di senso. Il suono sta nella cosacome una potenzialità che ha bisogno di essere attualizzata.Esso c’è in forza di un’azione esercitata sulla cosa. Ma possia-mo forse affermare per questo che il suono sia impensabilesenza la cosa attraverso cui è stato prodotto? Più precisamen-te, e riprendendo il confronto con il colore: un colore, ad

30 La questione è discussa da R. Casati e J. Dokic, Sounds, in TheStanford Encyclopedia of Philosophy, Ed. 2005, http://plato.stanford.edu/-archives/fall2005/entries/sounds/.

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esempio l’azzurro, può essere soltanto pensato senza il riferi-mento a cose, mentre il suono può essere anche percepito.

Proprio questa possibilità di percezione autonoma chepotrebbe attribuire al suono una singolare solidità, è invececiò che ci fa esitare tra lo statuto della proprietà e quellodell’oggetto e che conferisce al suono la sua essenziale inconsi-stenza. Il suono è sempre sul punto di dileguare e questa eva-nescenza può essere ricondotta all’assenza di vincoli rispettoalla cosa materiale alla cui costituzione, del resto, l’udito nonsembra svolgere un ruolo paragonabile a quello della vista odel tatto., Queste operazioni percettive sono subito coinvoltenon solo nell’istituzione di quella forma di rapporto che fa deldato fenomenico la proprietà di una cosa, ma anche nei pro-cessi che operano la discriminazione tra la cosa posta comeeffettivamente sussistente e la parvenza illusoria. Nel giocodelle reciproche conferme, ciò che si dà anzitutto come sem-plice visione, e dunque come fantasma puramente visivo – adesempio, una forma colta di lontano – può ricevere una con-ferma pratico-tattile, cosicché questa fantomaticità si attenuasempre più lasciando avanzare la cosa nelle sue determinazioniobbiettive. Sullo sfondo del problema vi è del resto la stessaobbiettività del mondo, il fatto che il mondo non è una miarappresentazione, ma mi sta fermamente di fronte come se lecose, nella loro durezza e solidità, fossero i nuclei su cui esso sisostiene.

Di fronte a tutto ciò vi è la fluidità acquorea del suono,la sua mobilità ignea, la sua aerea evanescenza. Solo la terra,nella quale si concentra la materia con tutto il suo peso, sem-bra estranea al suono. In rapporto a esso il tema dell’obbiet-tività e dell’esserci obbiettivo può affermarsi solo in modoestremamente debole.

Occorre notare a questo proposito che non esiste alcunaccertamento intrafenomenico al di là dell’udito che possafarci decidere intorno all’esserci effettivo di una manifestazio-ne sonora. Il dato uditivo come tale si impone senz’altro nel

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suo esserci al di là di operazioni di sintesi più complesse – co-sicché viene qui a mancare la possibilità di una conferma, co-me accade nel caso del rapporto tra dati visivi e dati tattili. Eciò non significa affatto un rafforzamento della posizione d’es-sere, ma al contrario massima prossimità dell’esserci effettivodel suono alla pura apparenza, difficoltà di principio nella di-scriminazione tra il suono come qualcosa che effettivamentec’è nel mondo circostante e la pura allucinazione uditiva.

I suoni sono entità eminentemente fantomatiche. Ma di-cendo ciò non attiriamo soltanto l’attenzione sul fatto che isuoni sono anzitutto fantasmi uditivi la cui sussistenza obbiet-tiva può essere considerata ambigua in via di principio. Allabase di ciò vi è un problema più generale: il modo d’essere delsuono sembra mettere in questione la stessa necessità di inte-grazione del suono tra gli eventi del mondo.

Da che cos’altro deriva questa fantomaticità se non dalfatto che il suono può apparire come interamente disciolto davincoli rispetto ad un qualunque contesto di cose, e dunquedal contesto del mondo stesso? Su questa possibile assolutezzadel suono ha potuto certamente trovare se non un fonda-mento, almeno un appiglio, l’idea, che si ripresenta di conti-nuo e in varie forme nella riflessione intorno alla musica, del-l’essenza extramondana del suono. Il suono si presta sempread una sopravvalutazione metafisica. E ciò non accade soltantoper un arbitrio dell’immaginazione che non può trovare alcu-na giustificazione nella fenomenologia dei dati esperiti. Si po-trebbe invece sostenere che la percezione stessa suggerisce ilpensiero che il suono potrebbe esserci anche se il mondo non cifosse: nel suo modo di manifestarsi vi è qualcosa che rimanda aquesta negazione latente.

Annotazione

Che la musica sia «del tutto indipendente dal mondo fenomeni-co» e che essa potrebbe dunque «in certo modo continuare ad esi-

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stere anche quando il mondo non ci fosse: cosa che non si può diredelle altre arti» è opinione espressa da Schopenhauer, motivatanaturalmente nel quadro e in coerenza con quell’«unico pensiero»che sta alla base del Mondo come volontà e rappresentazione (cfr.Mursia, Milano 1985, par. 52, p. 299).

§ 4

Questi nostri primi sviluppi procedono anche troppo rapida-mente in un’unica direzione, lasciando per via motivi e temiche meriterebbero forse di essere riconsiderati più da vicino.Così si è accennato alla produzione del suono mediante cose,ma solo per passare subito oltre, quasi che le tematiche quiimplicate fossero di secondaria importanza. E invece, controtutto quanto precede, si potrebbe sostenere che se si considerala modalità normale dell’udire, il modo in cui quotidiana-mente percepiamo suoni, dovremmo avviare un genere diconsiderazioni profondamente diverse: dovremmo infatti por-tare l’attenzione anzitutto sul fatto che i suoni entrano con lecose in una relazione tanto stretta da poter essere consideraticome segni della loro stessa esistenza. Quando si ode un suo-no, l’istanza di identificare la cosa la cui esistenza è in qualchemodo implicata in esso è tanto immediata e spontanea da farpensare che essa sia radicata in profondità nel tessuto percetti-vo. Se poi l’identificazione fallisce, se dal suono non si riesce aeffettuare questo passaggio alla cosa, ciò basta a generare unasorta di ansiosa inquietudine – come se nell’apprensione per-cettiva fosse impressa la tesi filosofica: non può esserci alcunsuono assoluto. La mancata identificazione può inquietare co-me inquieta una lacuna nel reale, un dettaglio che deve esserecompletato e che non riesce a completarsi. Ma ciò mostranello stesso tempo fino a che punto i suoni facciano partedella connessione e della compattezza della realtà stessa, fino ache punto dunque siano solidamente integrati nel mondo.

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Dobbiamo dunque ricrederci rispetto a ciò che abbiamosostenuto poco fa? È il caso piuttosto di mostrare lo stessoproblema da nuove angolature.

Non c’è dubbio che faccia parte della struttura della si-tuazione percettiva quotidiana dell’udire la forma del rinvioche dal suono orienta verso la cosa che deve essere stata la suafonte – il suono viene avvertito come segnale, e perciò nonsolo si assume senz’ altro che esso c’è, ma questo esserci è vei-colo di una posizione d’esistenza ulteriore. Proprio l’esame diquesta situazione percettiva mostra tuttavia come la domandasull’udire suoni possa non essere affatto ovvia. Ciò che si hapropriamente di mira nell’udire il suono come segnale non èil suono stesso, ma ciò che da esso viene designato. L’udirenon si arresta dunque presso il suono, ma da esso lascia la pre-sa per attivare quelle funzioni che subito si tendono per affer-rare la cosa che nel suono si annuncia. Così, ciò presso cui in-dugia il nostro sguardo non è la mano tesa a indicare, e anchel’udire del suono che è soprattutto un segnale è un udire sfug-gente, come lo sguardo dalla mano nella direzione che essaindica.

Si rammenti ora ciò che abbiamo osservato a propositodella voce in eco. La voce soltanto, come pura manifestazionesoggettiva, viene risucchiata dalla soggettività stessa – non rie-sce dunque a proporsi come oggetto per l’udito. Ma anche orapotremmo osservare che, nelle condizioni descritte, manca ladimensione dell’ascolto. Ora è la cosa che risucchia interamenteil suono, è essa che è propriamente alla nostra presenza.

Affinché il suono ci appaia è necessario che questo le-game venga rescisso, e ciò significa che nell’apprensione uditi-va non deve farsi valere il rapporto di segno e così non deb-bono farsi valere le posizioni di esistenza eventualmente im-plicate nella manifestazione sonora: è necessario dunque re-stituire al suono la sua pura essenza fantomatica sciogliendolodai vincoli che lo integrano nel contesto del reale. Ed a questopunto naturalmente ci imbattiamo nuovamente nel tema dei

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suoni assoluti. Lo scioglimento di questi vincoli può infatti es-sere proposto come una sorta di ideale annientamento delmondo – come se il mondo scomparisse dalla nostra visuale enon potesse più essere polo di riferimento di una rete di inte-ressi e di azioni nella quale il suono stesso è solo un momen-taneo nodo. È interessante notare, inversamente, che in quan-to siamo immersi in questa rete, il venir meno della possibilitàdella visione opera nella direzione di un’attivazione dell’uditocome funzione costitutiva del reale – al buio prestiamo atten-zione ai suoni, e precisamente come segnali di ciò che accadenello spazio intorno; ma nel momento in cui si impone l’i-stanza di un’apprensione dei fantasmi sonori come tali e quin-di di mettere fuori gioco quella rete, allora il vedere rammentasempre che il mondo c’è, cosicché il chiudere gli occhi difronte ad esso è un modo di simbolizzare la necessità dell’o-blio. L’annientamento del mondo è un abbuiamento del mondo.Il suono si manifesta in un mondo obliato.

Ciò spiega perché la figura della cecità sia una figura es-senzialmente musicale, così come il fatto che Pitagora – comesi racconta – fosse solito parlare ai suoi discepoli nascosto dauna tenda è certamente da interpretare come una meditazioneimplicita intorno al suono stesso che ci rammenta il temadella voce in eco.

Annotazione

Il racconto di Pitagora è rievocato da Pierre Schaeffer nel suoTraité des objets musicaux (Ed. du Seuil, Paris 1966) in occasionedell’introduzione della nozione di campo acusmatico. Questo termi-ne «caratterizza la realtà percettiva del suono come tale, distin-guendolo dai modi della sua produzione e della sua trasmissione:il fenomeno nuovo delle telecomunicazioni e della diffusione dimassa dei messaggi si esercita soltanto a proposito e in funzione di undato radicato da sempre nell’esperienza umana: la comunicazionesonora naturale. Per questo noi possiamo, senza anacronismo, ri-tornare ad un’antica tradizione che, non diversamente da ciò che

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fanno oggi la radio e la registrazione, restituiva soltanto all’uditol’intera responsabilità di una percezione di solito appoggiata sualtre testimonianze dei sensi. Una volta il dispositivo era rappre-sentato da una tenda; oggi la radio e il nastro magnetico, median-do l’insieme delle trasformazioni elettroacustiche, ci ricollocano,come ascoltatori di una voce invisibile, nelle condizioni di un’espe-rienza simile» (p. 91). Questo problema è connesso con quellodell’ascolto ridotto (écoute réduite) ed entrambi possono essere ri-collegati alla tematica dell’epoché fenomenologica, e dunque dellaWeltvernichtung di cui parla Husserl in Idee I. Questo riferimento èreso esplicito da Schaeffer alle pp. 262-272. Va tuttavia segnalatol’equivoco a cui un simile collegamento è esposto: l’epoché feno-menologica come tale non recide affatto la relazione del suono conla cosa, in quanto questa relazione fa anch’ essa parte della rete deirapporti intrafenomenici.

§ 5

Con tutto, ciò non possiamo affatto ritenere di poter mettereda parte l’intera tematica del rapporto del suono con la cosamateriale come se essa fosse esaurita dalle poche annotazionisulla capacità dei suoni di fungere come segnali. Questa fun-zione poggia del resto sulla circostanza, di cui certamente nonpossiamo dimenticarci, che vi è una produzione del suono nel-la quale la cosa, nella sua materialità, interviene come una me-diazione necessaria.

Ritorniamo dunque sui nostri passi: seguendo questa oquella via abbiamo più di una volta ribadito la possibilità delsuono di essere senza mondo. Ma non potremmo, contro diciò, richiamare l’attenzione, più vivacemente di quanto ab-biamo fatto fin qui, sul fatto che i suoni non sbucano dalnulla, ma sono risultati di processi causali e appartengonocome tali alle connessioni che sono costitutive della realtàstessa?

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Diciamo subito che una simile domanda non può essereassunta così com’è, ma deve essere rielaborata tenendo contodel contesto metodico al quale intendiamo attenerci. Stando aesso, non possiamo attribuire al richiamo alle cause e ai pro-cessi causali un senso troppo evoluto, e dunque in particolareun senso che contenga l’idea di una concatenazione di eventiche siano sottratti in tutto o in parte alle evidenze fenomeno-logiche e che forniscano il supporto teorico per rendere contodell’esistenza di una manifestazione sonora. La messa da partedi considerazioni di ordine fisico rappresenta un assunto me-todologico che non crediamo qui di dover giustificare.

Ma ciò rende certamente più mossi i lineamenti del no-stro problema. In rapporto ad esso non è tanto importanteaffermare che in generale i suoni sono risultati in cui termina-no processi causali, quanto piuttosto sottolineare che la parola«causa» deve essere vincolata nel suo senso ad un modo dirapporto tangibile e percepibile – cosicché l’accento dovrà ca-dere piuttosto sul fatto che non ogni manifestazione sonorapropone questo vincolo. Ad esempio, l’immediatezza con laquale la voce appartiene alla corporeità che in essa si esprimenon consente nemmeno la formulazione della domanda in-torno ai processi reali della sua produzione. Ma nemmenoun’operazione di estraneazione e di oggettivazione, come èquella che è stata riassunta dall’esempio della voce in eco, ètale da proporre l’interrogativo intorno alle «cause». È necessa-rio invece che si dia anzitutto uno stato di cose nel quale la stessamanifestazione sonora si mostri come un prodotto mostrandonello stesso tempo il modo della propria produzione.

Difficilmente possiamo vedere vibrare la superficie di untavolo che pure, percosso, emette suoni. Possiamo invece ve-dere vibrare una piastra metallica abbastanza sottile e possia-mo vedere come essa, vibrando, produce suoni. Se pizzicandocorde ben tese un suono viene udito, questa manifestazionesonora viene strettamente integrata nella situazione comples-siva, e non come se tra essa e l’azione della mia mano ci fosse

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un rapporto di pura contiguità. L’azione stessa appare comeun’azione efficiente che produce il suono mettendo le cordein vibrazione. Occorre sottolineare con particolare forza ilfatto che queste vibrazioni sono un fenomeno visivo piena-mente evidente, così come la loro connessione con il suonoche viene emesso. Per questo possiamo affermare che la nostramano, con il suo movimento, fa vibrare le corde e che questevibrazioni stanno all’origine di quel suono. Nella particolaritàdel caso è tuttavia già implicato il pensiero di una generalizza-zione. La possibilità che essa porta alla massima evidenza puòessere prospettata come una necessità che sta in generale allabase di ogni manifestazione sonora, e nell’elaborazione diquesto pensiero non ha più alcuna rilevanza il fatto che laconnessione possa essere operata direttamente all’interno delleapparenze percettive. Tuttavia, affinché questa generalizza-zione possa avere luogo, è necessario che le nozioni implicatedivengano dei concetti autentici, e non formazioni il cui sensoè strettamente commisurato alla situazione percettiva che de-termina la loro istituzione primitiva.

Ciò vale anzitutto per la nozione di vibrazione. Attiran-do l’attenzione, come abbiamo fatto or ora, sul fatto che la vi-brazione può entrare nel campo dell’esperienza percettiva,intendiamo anche vincolare il senso della parola a quel terre-no, come se esso fosse riempito unicamente dalla visione ef-fettiva delle piastre o delle corde vibranti. Dobbiamo dunqueassumerci l’intera responsabilità dell’impiego di quel terminein un’accezione tanto rozza. Già la consueta illustrazione dellanozione di vibrazione attraverso il riferimento ad un motopendolare, per quanto possa implicare marginalmente e inmodo del resto non significativo una condizione concre-tamente percepibile, mostra chiaramente la tendenza ad al-lontanarsi – a giusta ragione – dalla dimensione fenomenolo-gica, a superare dunque il terreno dell’esperienza, per il fattostesso che propone di considerare la vibrazione come un par-ticolare tipo di movimento inteso come spostamento di luogo.

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Un processo di concettualizzazione ha in sé necessariamente latendenza ad oltrepassare la particolarità traendo il massimoprofitto dai tratti comuni, mentre un pensiero libero da im-pegni teorici e vincolato nelle sue determinazioni concettualia riempimenti intuitivi marcherà piuttosto la differenza, ri-conducendola alla profonda diversità delle situazioni percetti-ve di sostegno.

Abbiamo ora percosso una piastra metallica e la vediamovibrare. Forse si è mossa? In realtà è rimasta esattamente do-v’era. La nozione di movimento come spostamento di luogonon può trovare subito un’applicazione a quel fremito che noichiamiamo vibrazione. La cosa non si è mossa. Essa ha trema-to. Ha mostrato un dinamismo che tenderemmo ad attribuirenon tanto al momento spaziale, quanto alla materia stessa.Nello spostamento da luogo a luogo, la cosa che si muovepermane nella sua identità sostanziale. Saremmo tentati di di-re: il dinamismo è qui soltanto esteriore. Mentre la cosa chediventa vibrante e che pure resta dove si trova sembra perdererigidità e compattezza: se vogliamo parlare di movimento, do-vremmo forse osservare che non ci troviamo di fronte ad unpercorso della cosa che attraversa lo spazio, ma è piuttosto il mo-vimento stesso che attraversa la cosa e la percorre scuotendolanelle sue fibre. La vibrazione, intesa così, introduce un princi-pio di dinamicità interno alla materia stessa.

Per quanto si possa portare l’accento sull’inconsistenzadel suono e sulla sua essenza fantomatica, esso mantiene unlegame originario con i momenti che costituiscono la materia-lità. Il suono comincia dalla cosa, e proprio in quanto essa ètutto meno che una entità evanescente, ma in quanto è alcontrario, concreta pienezza.

Una cosa sonora sarebbe forse rappresentata da unbambino con dei raggi tutt’intorno – così da rammentarci cheil suono è materia che si irradia e che, irradiandosi, si espandenello spazio profondo con il quale il suono, quando c’è, entrasubito in relazione.

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Annotazioni

1. Il suono (Klang), dice Hegel, è «il tremito interno del corpostesso» (das innere Erzittern des Körpers in ihm selbst) (Enciclopedia§§ 299-302). Ma questa caratteristica è già tutta sotto la presa delproblema, così caratteristico della filosofia hegeliana della musica,dell’adeguatezza del materiale sonoro alla manifestazione dell’in-teriorità soggettiva. Si veda l’accurato commento di Adolf Nowak,Hegels Musikästhetik, Gustav Bosse Verlag, Regensburg 1971, pp.41-47. Nowak rammenta in particolare che il verbo erzittern (mi-seramente tradotto da Benedetto Croce con tremolare e tremolio) ri-compare in Hegel «là dove si fa valere una conversione dialetticadecisiva» (p. 46), come accade nella problematica del superamentodella coscienza servile nella Fenomenologia dello spirito: tale coscien-za «non è stata in ansia per questa o quella cosa e neppure durantequesto o quell’istante, bensì per l’intiera sua essenza; essa ha infattisentito paura della morte, signora assoluta. E stata, così, intima-mente dissolta, ha tremato nel profondo di sé, , , , e ciò che in essa vi eradi fisso ha vacillato» (tr. it., Nuova Italia, Firenze 1967, vol. I, pp.161-162).

2. Sugli argomenti qui trattati è interessante leggere R. Casati,«Considerazioni critiche sulla filosofia del suono di Husserl», Ri-vista di Storia della Filosofia, n. 4, 1989, pp. 725-743, basate su mate-riale husserliano inedito e arricchito da osservazioni su Brentano,Schapp e Conrad-Martius. Non possiamo tuttavia condividere lacritica, condotta nelle pp. 730-732, dell’impiego della metaforadell’irraggiamento e dell’analogia con i fenomeni termici che rap-presentano un punto significativo della posizione espressa daHusserl. In discussione non è peraltro il problema preso nella suasingolarità, quanto una più generale questione di metodo: è natu-ralmente possibile citare casi in rapporto ai quali quell’immagine sirivela inappropriata, ma il primo problema di una ricerca fenome-nologica è quello di individuare come oggetto effettivo e interes-sante per una descrizione quei casi che rivestono caratteri di esemplaritàin quanto rappresentano il fenomeno nella sua forma più pregnante. Se siè realmente in chiaro su questo punto, si comprenderà subito cheil fruscio di una camicia sfiorata dalla punta delle mie dita cessa di

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valere come «controesempio» rispetto all’irradiazione sonora pro-vocata da un colpo di gong.

§ 6

In queste nostre considerazioni è certamente implicito che ilpassaggio al suono strumentale rappresenti una sorta di con-dizione per l’istituzione del nesso che mostra il suono comeun prodotto. Il suono cessa allora di essere un’entità passiva-mente ricevuta e sussistente in sé e per sé, e diventa qualcosache la mia azione è capace di porre in essere esercitandosi invari modi sulla «cosa sonora». Dei suoni ora posso essere pa-drone. Il suono strumentalmente prodotto sta tutto nelle miemani, per quanto resti inafferrabile, e questa padronanza nonè nulla di simile ad un astratto processo o alla libera dispo-nibilità di entità preesistenti. La nostra insistenza sul nesso tral’azione della mano, la vibrazione della corda e il suono emes-so non ha solo il senso di sottolineare che questo nesso è visi-vamente manifesto. Se ci disponiamo dalla parte dello stru-mentista, il produrre è inestricabilmente connesso con l’espe-rienza del produrre – e ciò significa: il suono c’è già nel gesto chelo crea.

Ma che ne è di questo problema dell’origine e della pro-venienza del suono in rapporto a quei suoni che sono le no-stre voci? È subito chiaro che esso non può ripresentarsi neglistessi termini.

Vi sono forse qui corde vibranti? Di ciò non sappiamonulla. Solo un orientamento conoscitivo nel quale si sia giàattestata la possibilità di spiegazioni unitarie per fenomeni af-fini e l’idea di una concatenazione causale iscritta dentro unquadro teorico sufficientemente evoluto può farci sospettareche il problema possa essere posto all’incirca nello stessomodo. Ma finché ciò non accade, la questione dell’originesembra fissare una opposizione.

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La voce ha origine dalla bocca. Essa, dunque, non proviene dauna cosa, dalla pienezza: vi è qui il richiamo al vuoto, piutto-sto che al pieno. Il suono risuonante nella caverna provienedalla caverna, e così la voce ha origine da una vuotezza attra-versata dal respiro. Se prima abbiamo parlato di un’irradia-zione del suono dal nucleo materiale della cosa, ora forse po-tremmo parlare della voce fluente dalla bocca come materia-lizzazione di un respiro.

Si delinea così un’opposizione tra suono vocale e suonostrumentale nella quale si rinnova l’opposizione più ampia trail corpo che vive, e dunque respira e canta, la cui soggettivitàconsiste proprio in quel vuoto interno che può dare spazio alrespiro, e la cosa che emette suoni in forza della sua stessapienezza. Ma proprio nel punto in cui la distanza tra questidue poli appare massima si comincia a scorgere la possibilitàdi una dialettica elementare tra l’uno e l’altro polo. Questapossibilità è del resto già suggerita da quella che è intanto unapura osservazione empirica: le cose sonore possono giovarsi dellacavità. Ciò che qui si osserva è che il suono, laddove prevale ilvolume e lo spessore, la densità e la solidità, è un suono sordo– com’è singolare il fatto che un suono possa essere chiamato

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così! Il suono deve udirsi, e dunque risuonare vivacementecome quando risuona nel vuoto e attraverso il vuoto. Al cen-tro della cosa sonora, da cui il suono comincia a irraggiarsi,potrebbe non esserci nulla, null’altro che una cavità. E di quiinizia certamente una proiezione di sensi soggettivi nel cuicorso lo strumento diventa sempre più strumento-corpo, , , , quan-to più il senso della corporeità vivente si sovrappone a quellodella cosa sonora. Del suono che da essa proviene si potràparlare come della sua voce. Ma vi è anche un movimento cheprocede nella direzione inversa – il corpo vivente diventa sem-pre più corpo-strumento: : : : esso deve infatti essere appreso comeuna cosa capace di emettere suoni, affinché si dia, anche per lavoce, un’esperienza del produrre suoni e del padroneggiarli.

Annotazione«Non ricordo cosa ho sognato, / ma solo il vuoto che quel sognom’ha lasciato, / il vuoto in me / quel vuoto da cui vengono i suoni/ e che ora tace». Così canta Prospero, all’inizio di Un re in ascoltodi Luciano Berio su libretto di Italo Calvino (Universal Edition,1983, p. 2).

§ 7

Riconsiderando tutto ciò che siamo venuti esponendo intornoalle determinazioni fenomenologiche del suono non possiamonon avvertire che esse sembrano già predisposte per entrareall’interno dei dinamismi dell’immaginazione, esse sono incerto modo sospese su questi dinamismi, pronte a essere so-spinte nell’una o nell’altra direzione dalla gentle force dell’asso-ciazione delle idee.

Naturalmente non avrebbe alcun senso tentare di de-durre astrattamente quei percorsi associativi di cui intrave-diamo la possibilità: mentre può certamente contribuire adarricchire la nostra tematica il mostrare con pochi esempi in

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che modo il mito si impossessi di quelle determinazioni e lesviluppi nel quadro dei propri problemi fondamentali.

Per questo scopo ci possiamo liberamente sostenere, al-meno per un certo tratto, sulle ricerche di Marius Schneider,tra i cui molti meriti vi è certamente quello di aver dato ilmassimo risalto ai riferimenti musicali e in generale sonoriche sono rinvenibili nelle narrazioni e nei comportamentimitici, accentuando la portata di questa presenza con un radi-calismo che è in ogni caso fonte di punti di vista di grandeinteresse31.... Il discorso soggiacente è che quella sorta di pre-dominio dei puri significati verbali e, ad un tempo, di queimomenti gestuali e mimici riconducibili agli interessi della vi-sualità, che si fa sentire nei campi più diversi, ha agito e con-tinua ad agire nello studio del folclore e del mito, con conse-guenze particolarmente gravi sia nella selezione che nell’inter-pretazione del materiale documentario. Riportando vivace-mente l’accento sul fenomeno sonoro, Schneider realizza unoscambio di piani attraverso il quale persino figurazioni simbo-liche ben note possono essere proposte sotto una luce intera-mente nuova.

A questa ricerca di Schneider, che è in realtà orientatada intenti speculativi da cui tra breve prenderemo le nostre di-stanze, noi siamo interessati soprattutto perché nei documentidell’immaginazione mitica che in essa vengono richiamati sia-mo in grado di ricostruire una rete di connessioni immagina-tive che superano certamente il piano al quale ci siamo in pre-cedenza attenuti, ma che anche lo presuppongono. Potremocosì effettuare per la seconda volta il percorso che abbiamo finqui compiuto, riepilogando ogni suo passo come punto di in-nesto di coerenti sviluppi immaginativi.

Consideriamo anzitutto il tema dei suoni senza mondo.Come abbiamo visto, l’«incorporeità» del suono, la sua «im-materialità» può essere interpretata come una indipendenza

31 M. Schneider, Il significato della musica, Rusconi, Milano 1970.

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del suono dai contesti di cose, e dunque dalla realtà stessa. Maquesto motivo ci porta in prossimità del tema cosmogonicocentrale secondo Schneider: di continuo si ribadisce che è o-vunque presente nell’immaginazione cosmogonica, nonostan-te la varietà di aspetti che essa può assumere, l’idea dell’originedel mondo dal suono. E noi saremmo tentati di commentare: ilsuono senza mondo può certamente essere immaginato comese esso fosse prima di esso – e allora si fanno avanti quei ra-gionamenti bastardi che fanno subito presa: se il suono nonha bisogno del mondo per esistere, allora è il mondo che deveal suono la sua stessa esistenza. Ciò che appare senza origine,può fungere esso stesso come origine.

A questo stesso motivo – intrecciato tuttavia con il temadel silenzio – ci riconduce la riflessione sull’acquaticità dellamusica, secondo un epiteto ricorrente nella trattatistica me-dioevale32. Schneider rammenta in particolare il tentativo direndere conto di questa qualificazione immaginativa attraver-so una riduzione all’empiria che assume il carattere di una ra-zionalizzazione: il nesso tra la musica e l’acqua sarebbe stabi-lito sulla base del «rumore che fa la pioggia sui tetti e sullepietre»33. Lo spunto che fa dell’acqua qualcosa che appartieneal campo dei fenomeni sonori è qui completamente fraintesonel suo senso e nella sua portata. Il suono dell’acqua, il suo flui-re gorgogliante e mormorante deve essere inteso come imma-ginativamente trasfigurato, e noi sappiamo già che nel suomormorio possiamo cogliere niente altro che una figura del si-lenzio ricco di vita latente34.

32 Ivi, p. 275.33 Ivi.34Ivi, p. 274: «Che cosa sono dunque queste acque primordiali? Nul-

l’altro che i ritmi dello scorrere del tempo. Il mondo primordiale non ha spazio,esiste cioè unicamente nel tempo e, nel tempo primordiale, il suono sostanzialepresente più o meno percettibilmente in ogni oggetto creato è l’unica dimensio-ne esistenziale dell’oggetto stesso; di conseguenza le stesse acque primordiali —così spesso definite protoelemento della creazione — non possono essere acquereali bensì unicamente un mormorio».

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Da questo silenzio si sta per levare un urlo, una risata,un grido – e di qui cominceranno a scaturire ed a dispiegarsiforme, piante, animali e tutte le altre cose del nostro mondo:dio stesso è tutto in questo grido, in esso egli comincia a pren-dere forma, poiché dio non è altro, all’inizio, che un soffio,un alito, un vento divino che spira sopra le acque silenziosa-mente mormoranti facendole sollevare e turbinare finchéesplode la voce tonante che crea l’universo.

Tutti questi temi si trovano unificati in uno splendidoracconto cosmogonico degli indiani Yuki35. Anche in questomito l’acqua c’è prima di tutte le cose, e sul pelo dell’acquavolteggiava una piuma. In essa comincia a esistere, cantando,il dio Taoicomol. Cantando egli prendeva forma, dai piedialla testa, e così prendeva forma anche il mondo intero, men-tre l’acqua «emise un forte suono».

La storia dell’origine del mondo è la storia del passaggiodall’acqua spumeggiante alla sonorità dispiegata di una voceche canta. La piuma rappresenta il centro in cui si incontranodiverse direzione immaginative: essa è ad un tempo spumeg-giare dell’acqua e alitare del vento, è silenzio, respiro e canto:«La terra non esisteva ancora... allora questo padre, sotto lesembianze di una piuma, apparve sull’acqua affacciandosiall’esistenza, ed entrò nella schiuma; entrò nella schiuma comeuna piuma, e Taoikomol nella schiuma cantava continua-mente il canto con cui voleva creare se stesso e venire all’e-sistenza...»36.

Il suono primordiale è anzitutto voce, ma non voce per-sonale; talvolta si impone anche l’idea dell’eco per indicare ilmodo in cui quella voce risuona37: su questo punto si innesta

35 Ivi, pp. 119-12036 Ivi.37 Ivi, p. 119: «Il suono sacrificale non è però ciò che noi intendiamo

comunemente per suono, bensì una ‘eco’, cioè il sacrificio del suono stesso qualesi può percepire particolarmente bene da una campana oscillante». Ivi, p. 121:«Si dice anche che gli dei sonori cominciarono, dormendo, a sognare un corpo

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subito il motivo della cavità nella grande varietà dei suoi ri-chiami immaginativi – bocca spalancata nell’urlo canoro,vuotezza nella quale il suono rimbomba, l’interno dei corpiviventi così come l’interno delle cose sonore in forza del qualeesse hanno una voce. Questi sensi, e altri ancora, confluisconoinsieme nell’unità solidale e fluente delle sintesi immaginative.

Talvolta i flauti vengono detti affamati. Il dato di fattoconcreto, l’esperienza vissuta della fame, che può certo esseredescritta come una sensazione di vuoto interno, entra in unacatena di sensi immaginativi diventando a sua volta un sensoimmaginativo. La bocca spalancata è ad un tempo figura dellafame e del canto: i flauti vengono detti affamati perché sonobocche che cantano38.

Secondo questa stessa chiave interpretativa, Schneiderrammenta che fra le pratiche ricorrenti di ascesi dello stregonevi è anche il digiuno, un digiuno reale il cui senso sta tuttaviainteramente sul piano immaginativo, dal momento che essodeve preparare lo stregone ad impossessarsi con il canto deisuoni della natura, delle voci degli animali e delle cose: essoha lo scopo di trasformare il corpo dello stregone in cosa sono-ra: «Il fine ultimo è quello di trasformare l’intero suo corpo inun risuonatore»39.

La cosa cava può comparire infine all’interno del temacosmogonico o nelle forme palesi di una cassa di risonanza,come nel caso del tamburo considerato come un grande con-tenitore da cui emergono le cose del mondo40; oppure in for-me indirette e intrecciate con altri sensi, come nel caso del-l’uovo cosmico che dovrà essere considerato non solo come

concreto, vollero cioè, in contrasto con la loro natura di eco, diventare visibili eacquistare rilievo plastico». Ivi, p. 171: «... il ritmo sonoro creatore non risiedenella parola comune bensì nella ‘parola’, e che non oscilla nella parola espressa,bensì nell’eco».

38 Ivi, pp. 79 sgg.39 Ivi, p. 86.40 La molteplice e complessa simbologia del tamburo è illustrata alle pp.

231-243.

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uovo, con il suo ovvio rimando alla generazione, ma soprat-tutto come cavità sonora41.

Nella stessa direzione potrà allora essere interpretata laricorrente descrizione mitica del sole che, dapprima nascostoin una grande caverna si affaccia alla sua imboccatura nell’au-rora e poi illumina di luce piena il paesaggio del mondo.L’aurora non può forse essere descritta come un risveglio an-nunciato da mille e mille piccoli suoni, quindi come un fe-nomeno essenzialmente sonoro? E oltre l’aurora esplode infi-ne la luce squillante del sole a mezzogiorno42.

Eppure, il suono, che contiene il richiamo alla vita na-scente, può essere circondato da immagini di morte. Talvoltail dio che canta è un dio morente: il suo canto è un lamento,oppure è insieme riso e lamento43. Sono morti che cantano glistrumenti in genere, e soprattutto il tamburo – uno scambio euna fusione tra il morto e il vivo che assume una inquietanteconcretezza, quando il mito narra di tamburi fatti con la pelledi nemici uccisi44.

In realtà in questi motivi siamo ancora alla presenza diun’elaborazione del tema della cavità e della vuotezza. In que-sta elaborazione affiora il pensiero del nulla – un pensiero chenon può attestarsi sul piano di un’astratta negazione dell’es-serci in generale di qualcosa, ma che deve assumere le fattezzedella morte. Prima di tutto cos’altro poteva esserci se non abis-sale vuotezza e profondissimo silenzio? E prima della vita,cos’altro se non la morte – la morte stessa, affamata, che into-na un canto, «desiderando un corpo»?45

«Al principio c’era il nulla, poiché il mondo era avvoltodalla morte, dalla fame, essendo la morte fame»46.

41 Ivi, p. 119.42 Ivi, p. 24.43 Ivi.44 Cfr. p. 41 e p. 53.45 Ivi, p. 22.46 Ivi. Cfr. anche, sul senso del tamburo come cavità vuota, p. 242.

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Questa fame della morte ribadisce anzitutto il suo essereun puro nulla, ma rappresenta nello stesso tempo il punto incui può avvenire una conversione della direzione immaginati-va, non più verso le oscure profondità della caverna, ma versol’imboccatura, dunque verso quel canto che è l’origine stessadell’universo.

§ 8

La nostra digressione potrebbe concludersi a questo punto, es-sendo ormai soddisfatto lo scopo che abbiamo fin dall’inizioesplicitamente dichiarato, se non fosse invece utile per evitarepossibili equivoci, ma anche interessante in se stesso, prenderein considerazione il contesto nel quale sono inseriti quei mo-tivi che tracciano intorno al suono una rete di rapporti imma-ginativi che noi abbiamo trovato significativa per ragionistrettamente interne ai nostri sviluppi precedenti. È chiaro in-fatti che abbiamo operato una sorta di isolamento e di dislo-cazione di quei motivi, tacendo anche su intere tematiche chehanno una fondamentale importanza per delineare la posizio-ne vera e propria di Schneider.

Quei rapporti e quelle connessioni che siamo venuti il-lustrando costituiscono invece il supporto per una concezionedella musica che è a sua volta profondamente integrata in unacornice filosofica più ampia. Del resto, il titolo sotto il qualesono stati raccolti i saggi a cui abbiamo fatto riferimento pre-valente, Il significato della musica, non è affatto fuori luogo: intutte le interpretazioni proposte, sempre penetranti e ricche disuggestioni, l’argomento effettivo che sta al loro fondo, affron-tato in realtà con esasperata decisione speculativa, è proprioquello della natura e del significato della musica. Sono dun-que i nostri interessi in direzione di una riflessione filosoficasulla musica, oltre che motivi di chiarezza critica e polemica, a

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suggerirci di impostare i termini di una discussione anchesotto questo riguardo.

Ricollegandoci al tema del suono e della morte sul qualeci siamo intrattenuti al termine del paragrafo precedente entre-remo subito nel vivo dell’argomento. Abbiamo fatto notare chequesto motivo può essere introdotto a partire dalla condizioneoriginaria del nulla, che questo nulla deve assumere 1’imma-gine concreta della morte, e dunque che il canto divino da cuisorge l’universo può essere proposto come canto della morteoppure come canto di un dio morente.

Si tratta di un motivo che riceve in Schneider un ap-profondimento nel quale tuttavia diventa particolarmente dif-ficile districare la pura e semplice esibizione dei nessi immagi-nativi dalla loro integrazione diretta dentro il problema del-l’essenza del musicale.

Questo approfondimento può comunque ancora conta-re su uno spunto fenomenologico iniziale. Il modo d’esseretemporale del suono può essere inteso come un progresso ver-so la fine, come estenuazione ed estinzione. Il canto si va fa-cendo, e facendosi si consuma. Cosicché il canto divino checrea il mondo e lo mantiene in essere è anche un canto mo-rente, dunque il canto di un morente.

In questo motivo si può allora subito mettere in eviden-za il tema del sacrificio: «Questo dio-cavità «canta o suona aritmo di tamburo se stesso; poiché egli stesso è l’inno. Peròmentre egli si canta o si suona, il suo canto, cioè egli stesso,svanisce nel nulla, sacrifica se stesso per ricavare un inno dasuoni che subito si spengono»47.

Ma da ciò sorge una nuova relazione dal lato umano, dallato dei sacrifici che gli umani offrono ai divini. Anche in rap-porto a questo tema Schneider mostra l’unilateralità di unmodo di lettura del materiale mitico che descrive il sacrificiocon gli occhi piuttosto che con le orecchie. Si offrono vittime

47 Ivi, p. 151.

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agli dei, accompagnandole con canti, quasi che esse, comenutrimento autentico, dovessero corrispondere ad un’auten-tica fame, mentre un simile realismo non è altro che la proie-zione di una connessione incompresa che mostra un sensoben più profondo. L’uccisione della vittima va infatti intesacome regresso alla condizione che prepara i canti che accom-pagnano l’offerta – autentico nutrimento è il canto stessodegli uomini che si incontra con il canto di un dio esausto, re-stituendogli vita e forze. Con il loro canto, che è certamenteancora un canto di morenti, gli uomini riempiono la golaspalancata di dio, colmando «questo dio caverna esausto conil canto della loro vita»48.

Vogliamo lasciare da parte il fascino di una simile inter-pretazione; e nemmeno vogliamo indugiare sui problemi in-terni che suggestioni interpretative come queste indubbia-mente sollevano sullo sfondo di complesse questioni di meto-do. Quel che più ci preme invece è mostrare che cosa accadequando una simile connessione immaginativa viene assuntacome se essa cogliesse il centro stesso del problema del signifi-cato della musica, ciò che la musica è nella sua essenza. In talcaso, ciò che abbiamo detto or ora per il canto sacrificale do-vrà valere per la musica in genere: è la musica che rappresentail punto che congiunge cielo e terra, che stabilisce un vincolo,nell’eterno ciclo della vita e della morte, tra umani e divini.Da questo rapporto con il sacro la musica non può essere sepa-rata se non rimettendoci il suo significato più autentico. Inquesto modo la musica giunge al centro stesso dell’esistenza:certo, purché si sia disposti ad ammettere che questo centronon sia dentro il mondo, ma altrove, «fuori di noi», «fuori deltempo»49.

A questo punto abbiamo ormai oltrepassato il terreno alquale ci siamo attenuti in precedenza e ci stiamo avviando in

48 Ivi, p. 82.49 Ivi, p. 140.

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direzione di una vera e propria speculazione sul musicale dicui cominciamo ad intravedere i possibili sviluppi. Appare an-zitutto chiaro in che modo le considerazioni precedenti sul-l’extramondanità e sulla fantomaticità del suono possano esse-re integrate in un quadro filosofico generale che opera unasublimazione della musica proponendola come massima ma-nifestazione dell’essenza spirituale della realtà.

Di questo in effetti si tratta se volessimo, senza troppiproblemi, tradurre in termini filosofici il tema dell’origine delmondo dal suono o dal nucleo sonoro delle cose. La parvenzaè materialità, solidità, inerzia. L’essenza invece è suono, dun-que respiro e vita vivente. Proiettando questi motivi sul pro-blema del significato della musica non si ottiene soltantol’affermazione del legame intrinseco tra la musica e il sacro,ma anche, coerentemente, si attribuisce alla musica il carattereeminente di un’arte che più di ogni altra è connessa con unadimensione assoluta, dunque di arte metafisica per eccellenza.Una tesi certo non nuova!

Eppure, sarebbe un errore sbrigarsi troppo rapidamentedella posizione di Schneider come se essa fosse portatrice ditemi e motivi profondamente estranei alle vicende e al pensie-ro musicale della nostra epoca. Invece, proprio l’esasperataostinazione con la quale Schneider, facendo ricorso alle operedell’immaginazione mitica, sostiene l’idea di una connessioneinterna tra la musica e l’essenza della realtà, proprio il fattoche questa idea sia elaborata nel quadro di una polemicaaperta contro la modernità che non teme affatto di apparirefortemente regressiva, fa sì che essa assuma un carattere permolti versi esemplare e persino, a suo modo, esemplarmentemoderno.

Intanto, è ormai tempo di notarlo, questa teoria del si-gnificato della musica, elaborata sulle fantasie del suono pri-mordiale e dell’essenza sonora del mondo, è costretta a essereuna teoria del significato perduto. Le ragioni di ciò sono prestodette. Nella misura in cui la ricchezza di senso del musicale è

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vincolata internamente al rapporto con il sacro, l’allenta-mento di questo rapporto rappresenta un impoverimento euna perdita del senso. Quanto meno si cantano le lodi di dio,tanto più la musica subisce un progressivo svuotamento, tantopiù essa diventa estranea ad un’esistenza divenuta a sua voltadimentica delle proprie radici nella trascendenza.

Con ciò l’intero problema del significato della musicariceve un rimando al passato che in realtà gli appartiene an-zitutto sotto il profilo concettuale, prima ancora che sottoquello «storico». La stessa domanda che chiede quando questoprocesso di decadenza abbia avuto inizio non può pretenderealcuna determinatezza nella risposta, che tenderà a rinviarequesto inizio a tempi sempre più remoti. In realtà, se parlia-mo del significato della musica non possiamo che richiamarcial suo significato originario, e basta questo a far sì che esso siaproposto come significato perduto.

La polemica contro la laicità del presente si accompagnacosì ad una polemica non meno esplicita contro un modo dipensare secondo ordini e procedure razionali, alle quali si con-trappongono le produzioni immaginative del mito come ca-paci di dare contenuto e fondamento alle istanze che stannoalla base di quella polemica.

In tutto ciò si ripresentano i luoghi comuni di tutta unalinea di pensiero tipicamente novecentesca: ma ciò che rendel’esposizione di Schneider particolarmente istruttiva è l’estre-mismo con il quale questi luoghi comuni vengono riproposti,ribaditi e riversati nell’ambito della riflessione filosofico-mu-sicale.

Ciò vale in particolare per la problematica del simboli-smo. Questa problematica ricorre di continuo nella filosofiadella musica, e in una grande varietà di forme e di orienta-menti. In Schneider essa forma addirittura il centro intorno alquale possono essere fatte convergere le sue prese di posizioneconclusive. Non solo il simbolo è connesso all’essenza del mu-

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sicale, ma esso ha nella musica il suo luogo di formazione, lasua forma di manifestazione primaria ed eminente.

Ma di quale nozione di simbolo si tratta? In che senso siparla di un pensiero simbolico che viene duramente contrap-posto ad un pensiero dominato dai principi della razionalità?La risposta è subito a portata di mano non appena viene e-nunciato il «presupposto» di questo pensiero, che consistereb-be nella «convinzione che dietro ogni parvenza esteriore stiaun principio creatore, il quale pur essendo intangibile può es-sere intravisto dall’intuizione umana»50. Il simbolo può alloraessere caratterizzato come «una realtà materiale la cui configu-razione permette ad una realtà spirituale e dinamica di mani-festarsi. Un elemento sovratemporale e sovraspaziale tralucefugacemente in una materia che è estranea alla sua natura»51.L’assunzione che ci sia realmente una forza intesa come prin-cipio creativo ed ultima sostanza delle cose rende conto delfatto che la sua manifestazione nel simbolo non possa essereridotta ad un puro e semplice modo di intendere, ad unaforma di apprensione: l’esistenza del rimando trascendente èperciò indipendente dalla capacità o incapacità dell’uomo diafferrarlo52. Ci troviamo dunque di fronte ad una concezione

50 Ivi, p. 91.51 Ivi, p. 92: il simbolo «non è che un mezzo di esteriorizzazione, che

permette ad una forza, non raffigurabile sensibilmente e come nascosta nell’om-bra, di rendere palese la sua attività, così come l’anima umana, ad esempio, puòmanifestarsi nel corpo o nel linguaggio. Poiché tale forza possiede un carattereattivo, il simbolo è l’autorealizzazione di tale essere in un altro essere. Ora, que-sta autorealizzazione determina una presenza; e in base a tale presenza si istituisceuna relazione tra le due componenti del simbolo. Non si tratta dunque mai diuna identificazione, perché entrambi, il campo e l’energia che si irradia in talecampo, conservano la loro natura propria. La realtà simboleggiata non si con-fonde mai con la materia che ne è veicolo. Ma in tale incontro la forza spiritualesimboleggiata si esterna sensibilmente, mentre il campo della sua azione, comepurificato, tende all’universalità dell’astrazione. Ovviamente, tale trasparenzanon dipende dalla percezione umana. La sua esistenza è autonoma, e importapoco che l’uomo sia capace o incapace di discernerla».

52 Ivi.

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ontologica del simbolo esplicitamente e anche troppo elemen-tarmente formulata.

Se poi ci chiediamo perché proprio il suono debba esse-re considerato come un materiale simbolico per eccellenza alpunto da potersi parlare di «nascita musicale del simbolo» sirisponderà che la forza trascendente che tende a un’autorea-lizzazione simbolica può trovare nell’immaterialità del suono enella sua natura non rappresentativa la sua manifestazione piùadeguata poiché essa stessa è una forza «dinamica» e «spiri-tuale». La strada maestra attraverso cui la «potenza creatrice»arriva a manifestarsi simbolicamente è dunque proprio la mu-sica, perché nella musica essa non appare «vincolata ad unaforma concreta o ad un’immagine determinata»53.

Il «veicolo più adeguato», affinché «un elemento tra-scendente possa giungere a trasparire in una realtà del nostromondo concreto» sarà un ritmo sonoro «poiché tale ritmo èspoglio di ogni forma o immagine concreta che potrebbero es-sere un ostacolo alla natura immateriale e dinamica di unasimile manifestazione»54.

Proprio al fine di valutare meglio l’operazione che noiabbiamo compiuto nei confronti di Schneider, isolando daquesto quadro ideologico la pura trama delle connessioni im-maginative, è opportuno sottolineare quanto poco l’imma-ginazione venga qui in questione come una pura capacità sin-tetica, come, un operare che, per quanto non si risolva nel-l’«associare idee», ha tuttavia nell’«associazione delle idee» unodei suoi essenziali fondamenti. Ed è certamente significativoche quando in Schneider si parla di analogia e di apprensionedi analogie si tenda subito ad allontanare da questa nozionequalunque riferimento in qualche modo positivo, che potreb-be far pensare ad una relazione anzitutto semplicemente os-servabile, per richiamarsi invece all’apprensione «intuitiva»,

53 Ivi, p. 95.54 Ivi.

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intendendo quest’ultima espressione come oscuro avvertimen-to dell’elemento ritmico come elemento che accomuna tuttele cose nella loro profonda unità vitale e spirituale.

Si potrebbe allora sostenere che la nostra esposizioneprecedente si arresti al livello più superficiale, ignorando quel-lo più profondo, ignorando cioè che l’immaginazione suben-tra al fallimento del pensiero puro nel compito metafisico as-sumendo su di sé questo compito e che dunque ad essa deveessere attribuita, se non una portata propriamente conoscitiva,almeno la capacità di far trasparire verità in via di principioinafferrabili al pensiero razionale. Dal nostro punto di vista,invece, qui non si fa altro che fraintendere come profonditàmetafisica quella profondità che certamente deve essere ri-conosciuta alle operazioni immaginative in quanto rimandanoal campo dei sensi e dei valori.

Tutto ciò è più che sufficiente per spiegare l’adesionesimpatetica con la quale Schneider segue le narrazioni miti-che, un’adesione che talora è tanto intensa da farci sospettareche egli creda realmente, per dirla in breve, che il suono sial’essenza del mondo, che il mondo abbia un’essenza vibratile.Si tratta di un sospetto fondato? Risponderemmo volentieri disì, se potessimo essere certi di capire che cosa realmente credechi dice di credere che l’essenza del mondo sia un’essenza vi-bratile. È vero soltanto che siamo costretti a rammentarci ditanto in tanto che questo autorevole studioso, questa perso-nalità eminente e singolare, «apprese dai tamburini del Ma-rocco l’arte di incantare i serpenti»55.

Nel testo si dice una volta: «Chi scrive non è il solo adavere visto con i propri occhi come scorpioni, serpenti e ancheuomini siano immobilizzati e resi rigidi in virtù di certe sillabeo note di flauto»56. Altrove si cita con apprezzamento un vo-lume nel quale si tenta di mostrare l’esistenza di una relazione

55 Se dobbiamo credere al prefatore, E. Zolla, p. 87.56Ivi, p. 58.

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tra i valori numerici connessi alla crescita delle piante e laprogressione dei suoni armonici57; e così si guarda con interes-se alla possibilità di stabilire nessi misteriosi tra questi suoni ei pianeti58.

In luogo di soffermarci su questo imbarazzante magismoe sul suo sfondo solidamente e stolidamente irrazionalistico,sulla critica del presente e sui motivi «tradizionalistici» che lainformano, in una parola, sui tratti esplicitamente regressividella concezione di Schneider, sembra più interessante avviar-ci ad una conclusione rammentando una contrapposizioneche da un lato è strettamente dipendente dall’impostazioned’insieme, dall’altro prospetta in forma nuova il tema del si-gnificato perduto.

Si tratta della contrapposizione tra musica naturale emusica d’arte. La musica che Schneider chiama naturale consi-sterebbe nei «suoni che l’uomo emette spontaneamente, siacome espressione del ritmo interiore della propria persona siacome imitazione dei rumori della natura. Si tratta dunque diuna musica essenzialmente improvvisata o conforme alle ma-nifestazioni acustiche abituali di un individuo»59. Una similedefinizione tuttavia è lontana dal rendere conto del modo incui questa nozione viene impiegata. La «naturalità» della mu-sica non è data soltanto dalla sua spontaneità e immediatezzao dall’improvvisazione, ma soprattutto dall’organicità con laquale essa si integra in un rapporto armonioso tra l’uomo, lasocietà e la natura. In realtà, accanto alla sublimazione delmusicale attraverso il nesso con il sacro, si presenta anche, se-condo una connessione solo apparentemente necessaria, l’i-stanza dell’acquisizione di una dimensione di naturalezza del-l’esistenza umana che ha come sua prima condizione un rap-porto di rasserenato equilibrio con la natura. Accanto all’esa-

57 Ivi, p. 62.58 Ivi, pp. 205 sgg.59 Ivi, p. 97.

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sperazione religiosa del problema del ritmo, vi è l’idea dellanecessità del recupero nei modi dell’esistenza umana di unapulsazione che coincida con le pulsazioni della natura60. Lamusica naturale si situa all’interno di questo problema e si ri-chiama d’altro lato alla densità della relazione simbolica che inessa trova espressione. Così il fatto che qui si parli di «imita-zione dei rumori della natura» non deve essere frainteso: ilrumore naturale stesso, il tuono, la pioggia, il grido di un ani-male non sono soltanto fatti acustici, ma hanno a loro voltauna portata simbolica, cosicché la loro imitazione non ha ilsenso della pura riproduzione di un dato e nemmeno soltantoquello connesso con le pratiche di dominio magico, ma rap-presenta un modo di partecipazione al simbolismo.

Alla musica naturale si contrappone la musica d’arte, lamusica artistica. In questa contrapposizione risulta subito chia-ro che arte significa soprattutto artificio: la musica d’arte nonsarà dunque spontanea e immediata, non sarà musica impul-siva: si tratterà invece di una musica meditata, «cosciente-mente costruita»61, per la cui elaborazione ha certamente partedominante il pensiero razionale – tutti segni, secondo Schnei-der, di un indebolimento del rimando simbolico, di una suadegradazione. Così nella musica d’arte l’imitazione ha tut-t’altro senso, non è una riproduzione che riprende la portatasimbolica del fenomeno sonoro ampliandola e potenziandola,ma è piuttosto un «dipingere con i suoni», cioè un trasferi-mento di un’immagine visiva sul piano acustico, dal qualeverrà poi nuovamente trasferita dall’ascoltatore sul piano dellesensazioni quasi-visive62. La presenza dell’arte è in generalepresenza dell’artificio, e ciò ci riporta al problema del signifi-cato della musica e della sua perdita. Non vi è dubbio infattiche la contrapposizione tra musica naturale e musica d’arte

60 Ivi, pp. 138 sgg.61 Ivi, p. 109.62 Ivi, p. 97 e p. 109.

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possa essere ridotta alla contrapposizione elementare tra musi-ca da un lato e arte dall’altro. La teoria del significato perdutoè anche una teoria della musica perduta.

Nello spirito delle considerazioni di Schneider possiamocertamente dire: la musica è morta, molto tempo fa. A noi restasoltanto l’arte dei suoni.

In questa opposizione e in questa formulazione conse-guente, la musica di cui parla Schneider si perde veramentenelle nebbie di un puro ideale filosofico. E tuttavia, nono-stante il fatto che proprio su questa conclusione intendiamoriposare, c’è ancora qualcosa che fomenta la nostra inquietu-dine teorica: si arriva qui a dire in negativo esattamente ciòche teorici e musicisti del Novecento, guidati da orientamentiopposti, hanno detto e ridetto in positivo come un’acquisi-zione importante e nuova: finalmente siamo arrivati a render-ci conto del fatto che la musica è niente altro che arte dei suoni.

§ 9

La distinzione tra suoni e rumori merita certamente la massi-ma attenzione all’interno di uno sviluppo interessato alle di-stinzioni elementari tra i fenomeni sonori con particolare ri-guardo dal problema musicale. Talora la musica è chiamatacosì direttamente in causa che il riferimento ad essa sembraintervenire come criterio di discriminazione, come se si trat-tasse di distinguere tra fenomeni sonori che appartengono invia di principio alla musica e fenomeni sonori che non vi ap-partengono e che non possono appartenervi. Non è forse veroche dalla musica dovrebbero essere esclusi i rumori?

Impiegata in opposizione a «rumore», la parola «suono»ha evidentemente un significato speciale, mentre essa può esse-re impiegata in modo generale per indicare un fenomeno so-noro qualsivoglia. Ed è proprio a quest’accezione generale checi siamo in precedenza attenuti. Con ciò intendevamo tacita-

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mente liberarci di quella distinzione contestando la sua effet-tiva consistenza e in particolare la sua attinenza alla delimita-zione del campo del musicale? Anche se così fosse, sarebbe unerrore evitare di passare attraverso una discussione approfon-dita, sbrigandosi di essa in quattro parole. L’intera questioneha le sue ovvietà e anche le sue difficoltà interne, e le une e lealtre meritano di essere chiaramente esposte.

Anzitutto l’opposizione tra suono e rumore è propria dellinguaggio corrente. Ciò non significa certo che in esso siaimplicito un criterio rigoroso di distinzione: significa inveceche vi è un’inclinazione del linguaggio corrente a impiegarequesti termini in contesti differenti, una tendenza a ritenerepiù appropriata, all’interno di un gioco linguistico determi-nato, l’una parola piuttosto che l’altra, implicando un richia-mo non tanto al possesso di questa o quella proprietà distinti-va, ma ad aree di senso differenti.

Il punto del problema sta nello stabilire se queste con-suetudini linguistiche abbiano una qualche dignità teoricaoppure se non siano altro che usanze del linguaggio sorte allacieca e senza alcuna possibile giustificazione.

Un bambino parla del rumore prodotto da un flauto e ilmaestro corregge quella espressione. Così facendo lo educa adun pregiudizio? Suggerisce, attraverso la differenziazione deitermini, una differenziazione concettuale che in realtà nonsussiste nella cosa stessa? Chiunque esiterà a rispondere inmodo nettamente affermativo.

E tuttavia, anche se fossimo dell’opinione che quella di-stinzione avesse un qualche fondamento nell’esperienza deifenomeni sonori, non sarebbe del tutto facile convalidarla econfermarla contro le numerose obiezioni che possono esseread essa rivolte.

Intanto sorgono diverse perplessità già nel momento incui cerchiamo di cogliere il criterio del modo di impiego delleparole nel discorso corrente. All’inizio tutto sembra abbastan-za chiaro: rumori e suoni sono fenomeni uditivi che si distri-

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buiscono su due poli – al suono spettano qualificazioni positi-ve, del rumore invece si può dire tutto il male che si vuole.Ciò significa che parleremmo di rumori quando il fenomenouditivo genera urto e fastidio, quando esso ci respinge e ci al-lontana, mentre parleremmo di suoni quando il fenomenouditivo è piacevole per l’orecchio e attira per questo la nostraattenzione percettiva. Dobbiamo senz’altro concludere che ilcriterio della distinzione consista nella gradevolezza e nellasgradevolezza? In realtà, non si tratta tanto di prenderesenz’altro una decisione in proposito, quanto di chiarire se,proposta in questo modo, cioè attraverso un riferimento giusti-ficativo al gradevole ed allo sgradevole, la distinzione tra suonie rumori abbia un’effettiva tenuta concettuale. Non è difficileallora mostrare come ben presto, proprio su questo punto, cisi potrebbe trovare in difficoltà. Parlare di gradevolezza o disgradevolezza significa parlare di un’ impressione psicologicache può essere proposta o in termini introspettivi, come unaspeciale sensazione interiore peraltro difficile da descrivere inparole, oppure in termini di reazioni comportamentali – adesempio, ci si ritrae dal rumore con una qualche reazione ca-ratteristica, come quando si accenna al gesto di tapparsi leorecchie.

Sia che si consideri l’una o l’altra possibilità, il criteriodella distinzione sarebbe di carattere empirico e inoltre nonavrebbe nessun sostegno nella cosa stessa, ma riguarderebbeunicamente la soggettività percettiva. Cosicché si fa subito a-vanti un’obiezione relativistica che mostra come all’eventualerilevanza psicologica faccia da contrappeso la totale inconsi-stenza concettuale. In breve: ciò che può apparire gradevolead alcuni, appare sgradevole ad altri; e così può accadere chequalcuno si tappi le orecchie udendo i suoni troppo acuti diun violino o dichiari il proprio fastidio nei confronti dei suonitroppo gravi di un contrabbasso. Se il criterio fosse quello dellagradevolezza, ciò che è suono e ciò che è rumore dovrebbe esse-re accertato di caso in caso, subordinando la decisione alla pre-senza di determinate reazioni comportamentali caratteristiche.

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Tuttavia un simile relativismo non è seguito con filoso-fica coerenza dal discorso corrente: infatti, mentre possonodarsi passaggi dal gradevole allo sgradevole per lo stesso con-tenuto uditivo non solo per persone diverse, ma anche per lastessa persona in tempi e circostanze diverse, non siamo af-fatto autorizzati a dire, ad esempio, che ciò che prima era pernoi suono, ora è diventato rumore. Nonostante tutto sembrache la distinzione sia proposta come inerente al contenuto u-ditivo e non come se essa fosse riempita dalla pura «impres-sione» momentanea che il suono ci fa e liberamente fluttuanteinsieme a quella impressione. Ciò ci fa pensare che forse lagradevolezza e la sgradevolezza, benché certamente apparten-gano all’area del nostro problema, non si trovino al suo cen-tro, e soprattutto non assolvano quella funzione di condizionee di criterio che poco fa ci sembrava così ovvia. Lo stesso im-piego corrente mostra esempi significativi nei quali la grade-volezza non è affatto implicata o non è comunque rilevante. Ilfruscio del vento tra le foglie o la pioggia battente sarannopreferibilmente chiamati rumori senza che in questa designa-zione sia implicata necessariamente una reazione negativa diurto e di fastidio. Mentre il suono di una tromba che ci è sta-to scortesemente soffiato in un orecchio, lo chiameremo an-cora suono nonostante il massimo fastidio che ci reca.

Dobbiamo allora andare alla ricerca di un altro criterioche sia in grado di fornire una giustificazione più completa epersuasiva? Oppure non sarebbe più giusto assumere l’esistenzadi impieghi differenti come un puro dato di fatto respingendocome priva di senso la ricerca di una ragione? In non minoridifficoltà ci imbatteremmo implicando nella discussione il rife-rimento all’ambito musicale. A tutta prima, potrebbe sembrareche la musica presupponga la distinzione tra suoni e rumori.Nel vasto mondo dei fatti uditivi, la musica opera una selezio-ne – da essa è esclusa un’immensa varietà di fenomeni sonori,cosicché si potrebbe sostenere che quella distinzione si impo-ne prima e indipendentemente da ogni progetto espressivo.

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Contro di ciò vi è subito una buona obiezione a portatadi mano: la musica, al singolare, è una pura astrazione e seconsideriamo la molteplicità dei sistemi musicali ci troviamoalla presenza di una grande varietà di modi di selezionare ilmateriale uditivo, cosicché non solo si ribadisce quanto sianolabili e mobili i confini tra rumori e suoni, ma si fa avanticome più ragionevole l’ammissione inversa: che semmai siaquesta distinzione a presupporre l’esistenza della musica, al-meno nel senso che nell’impiego corrente di quei termini as-solve una parte importante il riferimento diretto o indirettoad una determinata cultura musicale. Così quando parliamodel «suono» del flauto in contrapposizione a un’ altra manife-stazione sonora che chiameremmo invece «rumore», non a ca-so facciamo riferimento ad uno strumento e ad un modo disuonarlo che fa parte integrante di una tradizione musicale.La selezione operata tra i fenomeni sonori della musica di tra-dizione europea non può pretendere alcuna validità intrinse-ca, come mostra anche solo uno sguardo in direzione delleculture musicali extraeuropee. Perciò pretendere che la distin-zione tra suoni e rumori sia una distinzione rigida e che la suagiustificazione poggi sulla natura del fenomeno sonoro, piut-tosto che sulla sua elaborazione culturale, significa niente altroche educare al pregiudizio: di fatto un determinato sistemamusicale, una determinata tradizione verrà presupposta più omeno implicitamente come modello e canone della valutazio-ne, e ciò rappresenta certamente un ostacolo frapposto allacomprensione della musicalità in tutta la complessità e la ric-chezza delle sue manifestazioni.

Contro questo pregiudizio parla infine tutta la musica deinostri giorni.

L’aver fatto giustizia di questa opposizione è uno degliaspetti che essa ascrive a proprio merito. Non esistono suoni erumori, ma soltanto suoni nell’ accezione generale della paro-la, e tutti i suoni, nessuno escluso, appartengono di diritto allepossibilità della musica. Proprio facendo riferimento a questa

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circostanza, che va certamente considerata come una circo-stanza storica della musica del Novecento, avremmo potutoscegliere una strada molto breve per venire a capo di tuttaquesta faccenda dei suoni e dei rumori. Si dovrebbe dunqueconcludere: questa distinzione è pura convenzione: e non vi ènulla nella natura dei fenomeni acustici che possa giustificarla .

§ 10

Nel corso di questa nostra discussione si presentano certoconsiderazioni in se stesse giustificate, ma l’impostazione pro-blematica nella quale esse sono inserite cela fin dall’inizio pro-fonde ambiguità, ed esse permangono e anzi si approfondi-scono in uno sviluppo che conduce a conclusioni apparente-mente provviste della massima forza di convinzione. Che inesse ci sia invece qualcosa che non va traspare proprio dalmodo in cui viene chiamata in causa la musica novecentescaper assestare la botta decisiva: quasi si trattasse di esibire, dopotante argomentazioni, un dato di fatto che avrebbe una forzadimostrativa assai maggiore di qualunque sviluppo argomen-tativo. Ciò su cui si tace è che questo dato di fatto è innestatoin una selva di problemi e non vi può essere appiattimentomaggiore del pensiero musicale novecentesco che presentare lecose come se tutto fosse cominciato perché ci si è resi contoche distinguere tra suoni e rumori è un pregiudizio infondatoa cui i nostri antenati ingenuamente soggiacevano.

Eppure molte affermazioni intorno alla convenzionalitàdella distinzione tra suoni e rumori, nonostante le più sofisti-cate apparenze, non vogliono dire altro che questo. Su questopunto non faremo altro che rimandare alle considerazioniconclusive della nostra Introduzione. Il parlare di convenzio-nalità di quella distinzione può al massimo essere consideratocome un modo profondamente equivoco di sottolineare l’a-pertura delle decisioni musicali – il che significa, in particola-

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re, che nulla deve essere considerato come deciso una volta pertutte e che se vi sono motivazioni per una decisione, vi possonoessere buone motivazioni anche per la sua messa in questione.

Dopo di ciò vogliamo forse avviarci a contestare puntoper punto gli argomenti che abbiamo ordinatamente espostoin precedenza? In realtà si tratta piuttosto di chiarire quale sial’oggetto vero e proprio della discussione e di delinearne nuo-vamente i termini. Essa era stata aperta con alcune considera-zioni sull’impiego delle parole «suono» e «rumore» nel discor-so corrente. Il nostro compito tuttavia non può essere quellodi passare in rassegna i modi e i contesti in cui queste parole sipresentano correntemente ricercando per esse una giustifica-zione. Nemmeno si tratta di pretendere di scoprire, all’inter-no delle indeterminatezze degli impieghi, una qualche precisadelimitazione concettuale. In linea generale, il riferimento agliimpieghi correnti è utile – quando lo è! – per segnalare la pre-senza di un problema il cui sviluppo non può essere affattoracchiuso all’interno di considerazioni di «grammatica filoso-fica»; ed eventualmente per raccogliere indizi che potrannofornire un primo orientamento attirando l’attenzione in unadirezione piuttosto che in un’altra. La riflessione filosofica nonfarebbe altro che aggirarsi senza scopo e senza guida tra insi-gnificanti barlumi se si dovesse esercitare esclusivamente suimpieghi linguistici di fatto o addirittura speculando su im-pieghi fittizi «possibili», più o meno astutamente escogitati.

Ora, nell’inclinazione del discorso corrente a impiegarele parole «suono» e «rumore» in contesti differenti riteniamodi poter cogliere l’indizio di una differenza il cui senso e la cuiportata può forse essere esibita portando ad un maggiore ap-profondimento gli spunti precedenti volti alla ricerca delledeterminazioni fenomenologiche del suono. La presenza diquella distinzione terminologica suggerisce subito che si deb-bano prendere in esame le possibili differenze interne di unanozione di suono proposta come abbracciante ogni manifesta-zione sonora in generale. Gettando un rapido sguardo indie-tro, cominciamo allora a renderci conto che ciò che abbiamo

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a suo tempo sostenuto non può che rappresentare un livellodel problema che richiede di essere perfezionato e arricchito.Abbiamo parlato infatti dell’evanescenza del suono, della suainconsistenza. Ma con ciò veniva senz’altro presupposta l’op-posizione con le modalità costitutive della cosa materiale. Ri-spetto ad essa qualunque manifestazione sonora ha un caratte-re fantomatico. Ora ci possiamo chiedere che ne è di questoproblema se esso viene sottratto a questo riferimento opposi-tivo, effettuando uno spostamento di angolatura e dunqueanche una modificazione dei suoi termini. Parleremmo forsedi evanescenza o di inconsistenza per il rumore di una valangao di una frana, per il mare in burrasca o anche per un tutti or-chestrale di particolare densità e intensità?

In questo spostamento diventa subito visibile un aspettoche in precedenza non era nemmeno affiorato ai margini dellenostre considerazioni, o era affiorato forse soltanto nel mo-mento in cui ci è parso di poter parlare del suono come di unamateria irradiata: non si attribuiscono talvolta ai suoni agget-tivazioni che chiamano in causa la materia stessa, come quan-do si parla, ad esempio, di suono metallico, avendo di mira pe-raltro la pura manifestazione sonora? Infatti, vi può certa-mente essere qui il rinvio al modo di produrre il suono e allacosa con la quale esso viene prodotto, ma come qualcosa chepermane nel carattere del suono senza che sia implicata alcunapresa di posizione sulla provenienza di fatto del suono o sulmodo effettivo della sua produzione. Da questo povero esem-pio dobbiamo tuttavia essere in grado di intravedere una di-mensione problematica nuova.

Occorre anzitutto rammentare che dal punto di vistadella costituzione percettiva, sono i momenti pratico-tattili,piuttosto che quelli legati alla visualità, a fornire la nozioneprimaria della materia: infatti tutti gli attributi che sono si-gnificativi per circoscrivere questa nozione si ricollegano adazioni compiute sulla cosa o ad operazioni tattili. Nella visio-ne la cosa si offre nella sua forma e nei suoi colori, ma essa si

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manifesta come cosa materiale solo se, ad esempio, la superfi-cie che io vedo non viene subito attraversata dalle dita dellamia mano protesa per afferrarla, solo se dunque essa resiste aquesta mia azione. E così quelle proprietà che noi attribuiamoalla cosa, al materiale di cui è fatta, la sua maggiore o minoredurezza, la sua ruvidezza, il suo peso, il suo volume, sono an-zitutto rilevate all’interno di operazioni pratico-tattili. Inoltre,la nozione primaria di materia costituita in questo modo vaconsiderata come una nozione che rimanda ad un modello nelquale confluiscono insieme le proprietà determinanti conside-rate nella loro massima intensificazione. Per questo viene pro-spettata fin dall’inizio una nozione di immaterialità che giocaanzitutto su determinazioni oppositive elementari e che vapertanto intesa non già come un astratto annullamento dellamateria, ma come un’attenuazione dei suoi momenti costi-tutivi63.

Assume allora per noi particolare significato il fatto chegli orientamenti sintetici che si fanno valere per qualificare lasonorità dei suoni siano spesso nettamente indirizzati verso gliattributi specifici della materia, e dunque in particolare versole operazioni che sono propriamente costitutive della materia-lità. Noi non diciamo, ad esempio, che un suono è quadrato orettangolare, e nemmeno diciamo correntemente che esso ègiallo, mentre diciamo, e con un intento fondamentalmente de-scrittivo nonostante la presenza dell’immagine, che un suono èpastoso, implicando l’azione dell’impastare insieme alla cede-volezza e alla resistenza del materiale; oppure lo chiamiamotagliente, implicando non tanto la forma, quanto la sottigliez-za, la durezza, l’acuminatezza della cosa che taglia; e così an-che parliamo di sonorità ruvide, aspre, morbide, vellutate, levi-gate, ecc. – tutte qualificazioni che rimandano a operazionipratico-tattili di conferma.

63 In rapporto a questo problema, che ha anche un particolare rilievo dalpunto di vista metodologico, si possono trovare indicazioni un poco più diffusein G. Piana, La notte dei lampi, Guerini e Associati, Milano 1988, pp. 167-172.

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Ecco dunque che non ci possiamo affatto contentare diasserire la fantomaticità dei suoni in generale: infatti, non ap-pena tentiamo di andare un poco oltre questa generalità e difissare le prime differenze, subito ci imbattiamo nella materici-tà fenomenologica dei suoni, nel fatto cioè che i suoni si ma-nifestano corposamente, come masse sonore i cui caratteri pos-sono essere avvertiti come una trasposizione sul piano uditivodelle proprietà delle sostanze materiali come il legno o il me-tallo. E naturalmente con questo problema si pone anchequello strettamente conseguente dell’opposizione tra sonoritàche esaltano questo rapporto con la materialità al massimogrado e sonorità nelle quali prevale invece la tendenza ad atte-nuarlo ed a indebolirlo. All’interno della fantomaticità chespetta in generale ai suoni possiamo ancora distinguere trasuoni che prendono le massime distanze dalla cosa come sevolessero liberarsi dal peso della sua materia; e suoni inveceorientati nella direzione opposta, invischiati nella materia, neiquali è prevalente l’elemento corporeo e massiccio, il peso e lospessore.

È dunque in questo modo che intendiamo riprendere edeterminare la distinzione tra «rumori» e «suoni»? Diciamopiù propriamente che l’indizio suggerito da quella distinzioneha avuto qui un primo e significativo sviluppo. In questo svi-luppo è certamente implicito che nell’impiego corrente diquei termini si faccia sentire talvolta questo problema: sechiamiamo la sonorità di una frana «rumore» e non «suono»,ciò accade anche per via di tutta quella terra che in esso si tra-scina; e se chiamiamo suono e non rumore la sonorità di unflauto, ciò accade anche per il fatto che la sua sostanza sonoraè tanto esigua e sottile da apparire piuttosto come un che diinsostanziale. Ma ciò che più importa è il fatto che possiamocominciare con il rendere conto di una differenza tra i suoniin genere senza aver bisogno di ricorrere al motivo della gra-devolezza e della sgradevolezza eludendo così interamente ledifficoltà da esso comportate e che sono state in precedenzariconosciute e ammesse una volta per tutte.

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A partire di qui dobbiamo subito procedere oltre. Tra lemasse sonore in genere dobbiamo distinguere quelle masse chehanno un nucleo oggettivo e che potremmo chiamare suoni-oggetti e quelle che sono prive di un simile nucleo e che po-tremmo chiamare invece suoni inoggettivi.

La parola «oggetto» non ha qui un senso generico, ma sirichiama piuttosto a quegli impieghi filosofici secondo i qualiessa può essere applicata soltanto a cose che hanno un’indi-vidualità autentica e che perciò possono essere riconosciutecome identiche a ogni loro ripresentarsi. Parlare di masse so-nore che hanno un nucleo oggettivo significa ammettere cheesse possano essere concepite come se avessero un centro sem-plice e dunque essere designate da un nome proprio che colpi-sce puntualmente quel centro come una freccia il suo ber-saglio.

Sullo sfondo della distinzione proposta vi è ancoraquella tra suoni e rumori. In effetti, volendo fornire esempi disuoni inoggettivi citeremmo quelle manifestazioni sonore chenel discorso corrente verrebbero chiamate «rumori» piuttostoche «suoni». L’angolatura da cui ora guardiamo al problemasuggerisce in particolare di prestare attenzione ai modi delladesignazione. Se, ad esempio, parliamo di cigolio, con questaparola non intendiamo certamente denominare quel suonoche è ora risuonato come entità individuale, ma dare di essouna caratterizzazione che ne metta in rilievo la tipicità, e quin-di la sua appartenenza ad una classe di suoni per altro solo ge-nericamente delimitata. Il problema di una designazione pro-pria non si pone neppure e il tentare di porla non sarebbe al-tro che una stravaganza filosofica priva di senso.

Talvolta il carattere indiretto della denominazione di unrumore è manifestato anche dal fatto che in essa è implicato ilmodo in cui esso viene prodotto – dunque la cosa o l’azione, ol’una e l’altra insieme. Così c’è fracasso nel fracassare (e inver-samente) e vi sono ferrosi ingranaggi in movimento nel suonodi un treno sferragliante.

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Infine può essere ritenuto significativo il fatto che possaessere talvolta giustificato in rapporto a parole che indicanorumori il sospetto di un effetto onomatopeico (p.es. fruscio).Ciò che importa è infatti la nozione di somiglianza piuttostoche quella di identità, e in ciò è già implicita la possibilitàdell’imitazione.

Tutte queste circostanze noi riteniamo di poterle ricon-durre all’inoggettività di queste manifestazioni sonore, al fattocioè che esse non hanno carattere di oggetti, ma di agglome-rati sonori più o meno densi o compatti, ma in ogni caso prividi una identità soggiacente.

Come esempi di suoni-oggetti citeremo invece, è appenail caso di dirlo, le nostre «note». Che esse siano qualcosa di di-verso dai suoni inoggettivi appare subito chiaro se conside-riamo il modo di denominarle: in realtà la possibilità delladenominazione propria nell’accezione stretta che abbiamoprecedentemente delineata può essere ammessa come purapossibilità di principio. La denominazione usuale di una notanella sua singolarità assegna invece ad un nome che può esserecomune a più suoni un indice che rimanda alla posizionedella nota all’interno di un ordinamento sistematico che deveessere presupposto (p. es. do3, la2, ecc.). Analogamente, nellanotazione musicale corrente la designazione non è assoluta,ma puramente relazionale. Questi metodi, che aderiscono allacircostanza secondo la quale le note non sono individualità asé stanti, ribadiscono tuttavia quello che per noi è in ogni casola questione essenziale: suoni come questi possono essere con-cepiti come punti, più precisamente come centri puntuali(semplici) di masse sonore; e vi sono dunque metodi in gradodi designarli colpendo direttamente questi centri. L’usuale de-signazione delle note mediante punti può essere così conside-rata non solo come una convenzione, ma come una conven-zione adeguata a questo lato della cosa stessa.

Tutto il resto viene di conseguenza. A differenza deisuoni inoggettivi, non ha senso qui il problema di una carat-

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terizzazione «tipologica», così come non ha senso implicarenella designazione il modo in cui il suono è stato prodotto.Alle «note» non si possono dare denominazioni onomatopei-che, proprio perché ciò che è in questione è l’identità, e nonla somiglianza. Esse non possono dunque essere imitate, masolo «intonate».

Infine appare particolarmente rilevante per istituire ladifferenza la possibilità di una determinazione relazionale.Come abbiamo osservato or ora, questa possibilità è legata allapuntualità – con la nozione del punto entra all’interno dellenostre considerazioni quella dell’intervallo tra punti, e conquesta la possibilità di un ordinamento seriale. I suoni chehanno carattere di oggetto possono essere certamente serializzati.

A ciò si potrà forse obbiettare che anche nel campo deisuoni inoggettivi non solo sono possibili classificazioni, maanche ordinamenti che potremmo chiamare seriali in sensodebole, almeno là dove si può contare sensatamente su diffe-renze del più e del meno: ma si vede subito che il problemapuò essere posto qui con un margine troppo ampio di arbitra-rietà e di indeterminatezza e soprattutto non vale ciò che in-vece vale per i suoni-oggetti in genere: dati due suoni qualun-que, l’intervallo fra essi è sempre perfettamente determinato.Nel caso dei suoni inoggettivi vale invece che dati due suoniqualunque non è nemmeno determinato se abbia senso il par-lare di un intervallo tra essi.

Annotazioni

1. La nozione di oggetto deve essere qui intesa nel senso in cui neparla Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus come nozionecorrelativa a quella di nome. Inversamente questo rapporto, e inparticolare la determinazione puramente relazionale degli oggettipuò essere illustrata efficacemente facendo riferimento all’usualemetodo di notazione musicale mediante punti sul rigo, come ho

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mostrato nella mia Interpretazione del «Tractatus» di Wittgenstein, IlSaggiatore, Milano 1973, pp. 13-15.

2. Il modo in cui qui si parla di identità e di oggettività in rapporto aisuoni potrà sembrare forse troppo semplice e perentorio se lo siconfronta con la sottile e complessa discussione che P.S. Strawsonconduce, proprio sulla questione dell’identificazione, nel capitolosecondo, intitolato «Suoni», in Individui. Saggio di metafisica descrit-tiva (tr. it., Feltrinelli, Milano 1978, pp. 50-71). Tuttavia le do-mande a cui egli vuol dare una risposta passando attraverso la fin-zione di un’esperienza puramente uditiva mostrano un orienta-mento e un intento complessivo così diverso dal nostro da renderedifficile persino un confronto.

3. È appena il caso di richiamare l’attenzione sul fatto che le flut-tuazioni oggettivamente riscontrabili nell’apprezzamento dell’iden-tità delle note non possono rappresentare un’obiezione rispettoall’impostazione proposta, poiché l’accertamento avviene in ognicaso all’esterno della situazione fenomenologica. Ciò che importaè infatti la convinzione percettiva che il suono sia lo stesso e che ingenerale una simile identificazione abbia senso, mentre rappre-senta un altro interessante problema il fatto che un’identificazionepossa verificarsi in rapporto a fenomeni acustici caratterizzati dadifferenze di frequenza relativamente ampie. Si noti infine chel’intera questione dovrà essere interamente ripensata alla luce delleconsiderazioni sulla processualità del suono che svilupperemo in se-guito.

§ 11

La nostra esposizione ha lasciato chiaramente trasparire già daun buon tratto, l’autentico obbiettivo che essa persegue: la di-stinzione tra suoni e rumori è tanto poco irrilevante che la di-scussione intorno ad essa può fungere da introduzione a duefondamentali «parametri» del suono: l’altezza e il timbro.

In tutto il gran parlare che abbiamo fatto dei suoni-og-

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getti, in questione era niente altro che la nozione di altezza –abbiamo soltanto evitato di impiegare questa espressione percomprensibili ragioni di metodo: sembra difficile parlaredell’altezza senza chiamare in causa la nozione di frequenza,quindi senza travalicare il campo delle determinazioni feno-menologiche.

Ma le nostre considerazioni indicano anche con chiarez-za la via per operare la connessione tra la tematica del rumoree quella del timbro. Questa connessione è spesso presente nel-la discussione intorno al timbro, di continuo essa affiora comeuna connessione di cui si avverte l’importanza – e tuttavia an-che come una connessione profondamente oscura che non saa che cosa appigliarsi per raggiungere un’effettiva evidenza egiustificazione.

Vogliamo soffermarci un poco su questo punto, anzi-tutto con qualche considerazione intorno all’impiego della pa-rola «timbro» nella terminologia musicale corrente. Essa vieneanzitutto applicata alle altezze in quanto esse vengono emesseda strumenti diversi e per caratterizzare questa diversità. Il si-gnificato della parola potrà dunque essere introdotto ostensi-vamente facendo risuonare la stessa nota, ad esempio, me-diante una tromba, un pianoforte, un violino. Ciò che varianell’identità dell’altezza è appunto il timbro. È appena il casodi notare che questa differenza chiama in causa la materia dicui lo strumento è fatto, il modo concreto in cui il suono vie-ne prodotto e le forme dell’azione che lo produce. Per questomotivo la parola «timbro» può essere riferita, oltre che al suo-no, anche allo strumento che lo produce. Si dirà così che sonotimbricamente affini strumenti che hanno un modo affine diproduzione del suono e perciò si potrà anche parlare di suonitimbricamente differenti quando si tratta di suoni emessi dallostesso strumento, ma mediante azioni di tipo differente. In unostrumento ad arco, le corde possono anche essere pizzicate oppu-re si possono ottenere, attenuando la pressione delle dita, suoni«flautati» e diversi effetti timbrici possono essere ottenuti me-diante sordine e con particolari tecniche nell’uso dell’arco.

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Attenendoci ancora alla terminologia musicale correnteva segnalato un altro modo di impiego della parola – anche senon è affatto chiaro se questa diversa accezione, del resto assaimeno nettamente definita, sia con maggiore o minore diffi-coltà riportabile alla precedente. Infatti non si parla soltantodella timbrica di uno strumento o di una famiglia di stru-menti e di effetti e variazioni timbriche ottenibili con l’im-piego di tecniche particolari: in tal caso ci si riferirebbe altimbro come ad un carattere che contraddistingue tipi diversidi sonorità. Oltre a ciò si ammette anche la possibilità di unimpiego relativo, secondo il quale ha senso, almeno fino adun certo punto, stabilire connessioni e relazioni del più e delmeno, cosicché ci si riferisce al timbro come una qualità chepuò appartenere in misura maggiore o minore all’uno o all’al-tro strumento, come se potessimo dire che il suono dell’unosia più o meno timbrato di quello dell’altro. Alla pura diffe-renza nel carattere del suono, ad esempio del violino rispetto aquello della tromba, si aggiunge, considerando il terminenella seconda accezione, la possibilità di un ordinamento sca-lare, e in effetti questa seconda accezione è in ogni caso pre-supposta ogni volta che si allude ad una simile possibilità.

Naturalmente il riferimento esemplificativo allo stru-mento e alle pratiche strumentali, che fornisce un ausilio es-senziale per rendere sufficientemente determinato il criteriodell’impiego della parola, dovrebbe poter essere evitato dal mo-mento che ciò che si vuol cogliere parlando di differenza tim-brica è in ogni caso una differenza che riguarda la «sonorità»del suono, e non la pura differenza di fatto nei modi della suaproduzione. Prescindendo da questo riferimento tuttavia lecose si complicano un poco e la nozione di timbro sembranon tollerare un’attenzione rivolta ad essa con troppa insi-stenza.

Consideriamo le espressioni correnti che si riferisconoall’aspetto timbrico. Molte di esse si richiamano all’ambitodella tattilità, e quindi in generale al momento della materia-lità (come morbido, vellutato, ruvido, pieno, sottile, duro,

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metallico); e molte anche all’ambito della visualità, soprat-tutto per ciò che riguarda l’area di senso della luminosità(chiaro, cupo, trasparente, velato, opaco). Questi richiamipossono essere intesi come già orientati in direzione psicologica– come se ad esempio parlando di un timbro cupo oppure diun timbro vellutato venisse già prospettata una determinataatmosfera emotiva. Di conseguenza talvolta si consideranocome attinenti all’aspetto timbrico parole nettamente orien-tate in senso psicologico, con richiami culturali più o menosommersi. Perché non parlare ad esempio di una timbrica e-stroversa e introversa per caratterizzare la differenza tra la trom-ba e il fagotto? O addirittura del timbro «pastorale» dell’oboee «romantico» del corno?

Attraverso considerazioni sul carattere del suono lostrumento viene in qualche modo personalizzato – il suo suo-no è appunto una voce dal cui timbro si intravede un caratte-re e che è capace di tradire con minime variazioni la presenzadi una tensione emotiva.

Ora, ammettiamo pure che si tratti in questi casi diun’estensione dipendente da una sua riconsiderazione alla lu-ce del problema dell’espressione e che in questa estensioneabbiano una parte determinante modi di impiego musicali ra-dicati all’interno di culture musicali particolari: tuttavia èchiaro che la possibilità di queste estensioni può ampiamentesostenere il dubbio che un elemento ineliminabile di soggetti-vità sia inerente, non solo a queste estensioni, nelle quali essoappare del tutto evidente, ma nelle caratterizzazioni iniziali. Inaltri termini, non appena si tenta di formulare in parole ladifferenza acustica, ci troveremmo di fronte a proiezioni in-terpretative – questo punto di vista generale sembra avere pro-prio nel caso del timbro un’applicazione particolarmente evi-dente.

Ripensiamo ora alle considerazioni svolte intorno alladistinzione tra rumori e suoni. Esse agiscono anzitutto comefiltro e criterio di selezione per rendere realmente significative

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le caratterizzazioni dell’aspetto timbrico che abbiamo in pre-cedenza richiamate. Dall’angolatura della nostra tematica delrumore, diventano immediatamente rilevanti quelle caratte-rizzazioni che mettono in questione il suono come massa sono-ra. E possiamo stabilire perciò con quella tematica una con-nessione immediata. Vogliamo infatti, riprendendo la nostraprecedente terminologia, chiamare corpo del suono la massasonora di un suono-oggetto. Il timbro è allora null’altro che ilcorpo del suono.

Si tratta naturalmente di una prima accezione, più ri-stretta, di timbro che viene introdotta nel presupposto del-l’altezza: la massa sonora gravita qui intorno ad un centrosemplice. Di questo centro il timbro è l’involucro «rumoro-so». Ma dalla formulazione dell’accezione ristretta risulta su-bito la possibilità di una seconda accezione, più lata. In base adessa, potremo impiegare la parola «timbro» per indicare unaqualunque massa sonora – con o senza nucleo oggettivo.

In questo modo potremo fare a meno di parlare di «rumo-ri», restituendo finalmente la parola ai suoi impieghi ordinari.

Era dunque necessario un lungo giro per arrivare a dareuna formulazione perspicua della connessione interna tratimbro e rumore: in essa è inoltre condensato un complesso diprese di posizione che non sono affatto contenute nelle fre-quenti e generiche affermazioni sulla prossimità tra queste duenozioni.

Consideriamo in primo luogo più da vicino l’accennoche abbiamo compiuto or ora sulla necessità di disporre di uncontesto interpretativo che possa assolvere una funzione diorientamento in rapporto alle qualificazioni linguistiche. Co-me abbiamo già notato, le parole impiegate per indicare ilmomento timbrico non saranno considerate alla rinfusa, edunque come prive di indicazioni significative: tutte le nostreconsiderazioni precedenti fanno sì che la nostra attenzione siaattirata dalle parole puntate verso l’area di senso della «corpo-sità». Ma queste stesse considerazioni ci consentono di rende-

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re conto di entrambi gli aspetti del problema del timbro. Nonsoltanto infatti il carattere del suono è collegato al momentomaterico, ma in esso si fa valere anche l’opposizione che deri-va dalla sua attenuazione e intensificazione. Le qualificazionipratico-tattili, che rendono conto della pura differenza tim-brica, ammettono delle differenze del più e del meno, cosic-ché un suono potrà essere considerato tanto più «timbrato»quanto più quelle caratteristiche confluiscono coerentementein un’immagine che esalta la voluminosità, la densità, l’a-sprezza, lo spessore. Al polo opposto vi è la timbrica «immate-riale», e cioè, seguendo la nostra delimitazione concettuale,l’idea del suono atimbrico, del suono senza corpo, del suonotendenzialmente privo delle impurità della materia.

Si presti attenzione al modo in cui siamo pervenuti aproporre affermazioni come queste che potrebbero certo ap-parire alquanto singolari. Tutta la nostra discussione è statasvolta nella convinzione della possibilità di operare una de-terminazione della differenza tra rumori e suoni che fosse es-senzialmente qualitativa, cioè fondata sulla manifestazionepercettiva come tale; e che al tempo stesso non potesse essereimpugnata come meramente empirico-psicologica. Se le no-stre considerazioni hanno mostrato in concreto questa possi-bilità, allora dobbiamo portarle alle loro conseguenze imme-diate sul terreno della questione del timbro. E non deve natu-ralmente sorprendere che fra queste conseguenze vi sia unasorta di messa da parte delle caratterizzazioni visuali in genere,quasi che si potesse parlare di una maggiore o minore appro-priatezza di un’espressione che ha in ogni caso le sue radici inassociazioni. Eppure le cose stanno proprio così, lo abbiamospiegato fin dall’inizio: i richiami alle espressioni linguisticheentrano all’interno di una riflessione filosofica come momentidi quella riflessione, e non dunque come dati di cui essa deb-ba semplicemente prendere atto. Così ci troviamo nella posi-zione singolare di dover mettere in questione, con le caratte-rizzazioni visuali in genere, una tipica espressione di lingua

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tedesca che viene di continuo citata per il modo della sua for-mazione come un’efficace espressione illustrativa dell’aspettotimbrico. In tedesco, timbro si dice Klangfarbe – letteralmentecolore del suono ed è sempre sembrato che questa analogia conle differenze cromatiche fosse particolarmente adeguata allafenomenologia delle differenze timbriche.

Naturalmente sarebbe puro nonsenso, al di fuori di unpercorso argomentativo che abbia di mira una precisa chiarifi-cazione concettuale, contestare la possibilità di assimilare unavariazione timbrica ad una variazione cromatica, così come lamolteplicità timbrica ad una tavolozza ricca di colori nellesfumature più varie. Ma laddove, come nel nostro caso, stia-mo seguendo proprio un simile percorso argomentativo, e te-nendo conto degli scopi che in esso si perseguono, ha invecesenso cogliere in queste espressioni illustrative la presenza diun problema. Del resto quando abbiamo parlato del timbrocome corpo del suono – dunque come Klangkörper, questa ri-flessione su Klangfarbe era certamente già implicata.

Conclusivamente converrà rammentare almeno un altroaspetto del problema. Spesso nelle discussioni intorno al tim-bro, sia per sottolineare il carattere relativamente sfuggentedella nozione, sia per mostrare come sia difficile contraddi-stinguere tra loro i «parametri» del suono, e il timbro in modoparticolare, si fa notare che una componente timbrica deve es-sere ammessa anche in rapporto all’altezza, all’intensità, e per-sino agli accordi considerati puramente come agglomerati so-nori. Naturalmente ciò può avere un significato relativamenteovvio: in quanto si intende con timbro l’effetto sonoro globa-le, la «sonorità» complessiva di una manifestazione sonora, ècomprensibile che qualunque elemento costitutivo della ma-nifestazione eserciti una qualche azione nella determinazionedi questo effetto. Tuttavia la nostra impostazione suggerisceanche considerazioni diversamente orientate. Infatti alla diffe-renza tra regioni sonore può essere riconosciuto un latenteeffetto timbrico per il semplice fatto che è possibile contrap-

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porre lo spessore dei suoni gravi all’esilità dei suoni acuti. Equalcosa di simile può essere notato in rapporto alle differenzedi intensità. Naturalmente un suono forte non dovrà necessa-riamente apparirci aspro e ruvido: e tuttavia chiunque trove-rebbe di poco buon senso l’indicazione esecutiva «pp e aspra-mente». Ciò significa che un pianissimo potrebbe essere con-siderato soffice e vellutato, puramente per il fatto che è un pia-nissimo, cosicché sarebbe giustificato riconoscere un effettotimbrico in rapporto alla dinamica come tale. Infine non vi èdubbio che suoni simultaneamente risuonanti abbiano unvolume maggiore rispetto ad un suono singolo e siano dunquepiù spostati di esso verso la polarità materica. Ma si potrebbeanche sostenere che questo spostamento è più accentuato nelcaso degli accordi dissonanti che in quelli consonanti, per ilfatto che in essi tende ad attenuarsi la presenza aggregante diun suono che funge come centro di gravità, ripresentandosicosì in una nuova forma l’altro aspetto del problema che chia-ma in causa l’esistenza o meno di un nucleo oggettivo dellamassa sonora.

La possibilità di rendere conto di questi impieghi comeestensioni motivate e coerenti della nozione di timbro a parti-re da un significato primario rappresenta certamente un’inte-ressante conferma della correttezza del nostro impianto delproblema.

Annotazioni

1. Già Carl Stumpf attira l’attenzione sull’affinità tra la nozione ditimbro e quella di rumore di cui egli dà una trattazione unitaria nellaTonpsychologie, Leipzig 1883-1890 (rist. anast. Hilversum, Am-sterdam 1965) vol. II, par. 28, pp. 497-549. Questa affinità vienegiustificata facendo notare che in generale si mette in rilievo comequalcosa che è essenziale a entrambi la loro natura composta el’indistinzione delle parti costitutive. Inoltre «i timbri sono spessocaratterizzati dalla presenza di rumori, mentre alcuni rumori po-trebbero essere chiamati altrettanto opportunamente suoni brevi

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di timbro cupo» (p. 497). Ma a nostro avviso la sua esposizionemantiene tuttora un interesse da un punto di vista fenomenologi-co soprattutto per il rilievo che in essa viene conferito, ai fini dellaformazione dell’effetto timbrico, a ciò che Stumpf chiama Tongros-se (cfr. pp. 535 sgg.), insieme all’altezza (Höhe) e all’intensità (Stär-ke). Si tratta di una nozione caratterizzata dall’impiego di parolecome grande (gross), ampio, (breit), spesso (dick), pieno (voli), massiccio(mässig) così come anche, naturalmente, delle parole di senso con-trapposto come piccolo (klein), sottile (dünn), acuminato (spitzig), fine(fein), etereo (ätherisch), ecc. Si sottolinea inoltre che «anche predi-cati come morbido (weich) e dolce (mild) non sono privi di nessi conla ampiezza del suono. Ciò che noi chiamiamo morbido al tatto,presuppone sempre una certa estensione spaziale» (p. 539). Ilfatto che il suono del corno sia più spesso di quello dell’oboe «non èuna pura associazione» (p. 539). È infine interessante per noi notareche all’interno di queste considerazioni si fa avanti una certa per-plessità per il termine Klangfarbe di cui si rileva l’origine relativa-mente recente, rammentando che questa parola non è ancora pre-sente nella Acustica di Chladni del 1802, nella quale si usa Timbrecome neologismo proposto per compensare una carenza della lin-gua tedesca «che non ha ancora una parola per indicare propria-mente queste modificazioni del suono» (cfr. nota l, p. 514); e so-prattutto si osserva che «sotto Klangfarbe dovremmo annoveraresolo quei predicati che sono determinati unicamente dalla gran-dezza (Gro:sse). Una tale restrizione del significato usuale conferi-rebbe alla parola un concetto unitario, ma sarebbe certamentescomoda dal punto di vista pratico. Perciò ci atteniamo al vecchiouso, dopo aver messo in salvo la nostra coscienza teorica» (p. 540).

2. Secondo Xenakis, l’idea schönberghiana di una Klangfarbe sitrova in contraddizione con il prevalere dell’elemento puntuale elineare del suono nella musica dodecafonica, dal momento che conquella espressione si deve intendere «la dispersione delle note tragli strumenti dell’orchestra», alludendo dunque ad una nozione ditimbro essenzialmente caratterizzata come massa sonora (cfr. I.Xenakis, Musica. Architettura, Spirali Edizioni, Milano 1982, p.23).

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§ 12

In realtà non possiamo prendere congedo da questi nostri ar-gomenti per passare oltre, senza formulare finalmente quellaobiezione che sarà già affiorata, e forse a ogni pagina, nellamente del lettore. Fin dalle nostre prime battute e poi in se-guito, in ogni sviluppo particolare, nei cenni sul suono nel-l’immaginazione mitica, così come nella discussione sulla no-zione di timbro, abbiamo sempre presupposto i suoni nellaloro «naturalità» così come li possiamo reperire nel nostromondo circostante oppure come li possiamo emettere im-piegando la voce e agendo in svariati modi su strumenti. L’e-lemento tecnico che qui è certamente presente, sia nel fattoche gli strumenti sono forgiati e predisposti in modo confor-me allo scopo, sia nel fatto che le pratiche di produzione vo-cale e strumentale sono appunto pratiche autentiche che deb-bono essere apprese e che richiedono studio ed esercizio, for-nisce una mediazione che tuttavia è in grado di mantenerel’unità vivente di un processo che conduce dall’intenzione sog-gettiva dell’emissione sonora alla sua realizzazione. La tecnicadel produrre è così null’altro che un momento interno di un’e-sperienza del produrre – come ci siamo espressi in precedenza:il suono sta nelle nostre mani, ed esattamente nel senso in cuiciò può essere detto per il chitarrista che trae suoni dalla suachitarra.

Abbiamo così preso le mosse dal suono originariamentesoggettivo, dalla voce, per poi passare a considerare nellamolteplicità dei suoi aspetti il rapporto tra il suono e la cosa,sino alle nostre ultime osservazioni sulla distinzione tra rumo-ri e suoni e sulla nozione di timbro, e non vi è stato argo-mento la cui trattazione non fosse strettamente determinatada questo presupposto. Anche le variazioni immaginative delmito di cui abbiamo dato una traccia con l’ausilio di Schnei-der si innestano sui sensi immaginativi che possono sorgeresolo all’interno di una relazione tutta dominata dal rimando

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alla soggettività considerata nella sua corporeità concreta. Maproprio questo interesse verso motivi arcaici, lontani e di-menticati, non è forse significativo di un limite intollerabiledelle nostre considerazioni? Alludiamo naturalmente al fattoche fin qui non abbiamo speso ancora nemmeno una parolaintorno alla produzione elettronica del suono nelle sue diversemodalità così come alle varie possibilità di manipolazione tec-nica del suono che i progressi della ricerca scientifica e tecno-logica hanno messo a disposizione della musica e che la musi-ca novecentesca ha integrato nelle proprie produzioni comeun momento essenziale del proprio sviluppo. Qui siamo cer-tamente lontani da qualunque motivo teorico che possa valeresolo nel presupposto di un modo di produrre il suono «con lemani e con i piedi», così come non si vede che cosa potrem-mo farcene di tutti i richiami alla soggettività che danno sensoalle nostre considerazioni precedenti così come dell’interadialettica che gravita intorno al tema della «cosa sonora». Laquestione dell’origine e della provenienza del suono dovrebbesuggerire presumibilmente considerazioni di tutt’altro genere,e ciò significa in realtà che forse saremmo tenuti, nel mo-mento in cui la questione viene sollevata, a prendere atto dellanecessità di una radicale modificazione nell’atteggiamento difronte al suono e forse anche, di conseguenza, dei metodinell’approccio teorico ai nostri problemi.

Naturalmente non è possibile qui discutere, o anchesoltanto illustrare, la problematica molto ricca che è sottesa aduna simile obiezione, ma è necessario proporre. qualche an-notazione conclusiva tendente a limitare gli effetti devastantiche essa sembra avere sull’impostazione proposta e sui suoisviluppi.

Non vi è dubbio intanto che le prospettive aperte dallapossibilità di elaborazione elettronica del suono abbiano agitopotentemente in direzione fisicalistica, abbiano cioè stimolatoad una considerazione del suono interamente obbiettiva, cheha subito di mira ciò che il suono è in se stesso, come evento fi-sico, e quindi i processi che stanno a fondamento delle sue

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forme di manifestazione. Alle spalle dell’opposizione tra mi-crostrutture e macrostrutture non vi è tanto l’opposizione, in sestessa ben poco significativa, del piccolo e del grande quanto diciò che, appartiene al livello fisico piuttosto che al livello fe-nomenologico. Si comincia così a prospettare che il pensierocompositivo debba spostarsi interamente «a basso livello» nelsenso che gli informatici conferiscono a questa espressione. Epuò forse la teoria della musica ignorare questa modificazioneed evitare di adeguarsi ad essa? Sembra così che si imponga lanecessità di una riformulazione di tutti i concetti e le nozionifondamentali della teoria musicale e della sua vecchia termi-nologia che dovrebbe forse essere rinnovata modellandosistrettamente sui metodi e sui risultati delle più recenti ricer-che elettroacustiche.

Naturalmente, l’ostinazione con la quale ci siamo atte-nuti nella nostra esposizione precedente alle pure manifesta-zioni percettive contiene una chiara presa di posizione propriosu questo punto: non vi è nessuna coerente linea di sviluppodall’interesse verso problemi connessi alla produzione elettro-nica del suono, in tutta la ricchezza delle tematiche in essaimplicate, e la pretesa di una radicale modificazione di atteg-giamento nei confronti dei fenomeni sonori che comporte-rebbe come conseguenza necessaria una riforma in senso fi-sicalistico della teoria musicale.

Vorrei sottolineare vivacemente questo punto, qualorave ne fosse bisogno: dei numerosi problemi che abbiamo pre-cedentemente discusso avremmo potuto venire a capo inquattro parole, o in ogni caso con formule definitorie piutto-sto semplici e del resto ovunque reperibili, se invece di osti-narci nel tentativo di commisurare i concetti ai dati esperitiavessimo voluto fare riferimento ad una considerazione fisica-listica. È allora evidente che la strada che abbiamo voluto se-guire contiene anche una presa di posizione piuttosto precisache deve essere valutata in tutta la sua portata: ciò che restafuori discussione è soltanto la circostanza ovvia secondo laquale all’impiego di determinate tecniche debbono corrispon-

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dere cognizioni a esse adeguate. Ed è ormai tempo di dire atutte lettere che il grado di questa adeguatezza è in gran partedeterminato dal grado di sviluppo delle attrezzature o, ancorapiù chiaramente, che queste cognizioni sono costrette a man-tenersi tanto più «a basso livello» quanto più sono arretrate leattrezzature a disposizione. Anche da questo punto di vistal’analogia con i linguaggi informatici si attaglia perfettamente.

Tuttavia, con tutto ciò ci siamo soltanto aggirati intornoal problema dal quale abbiamo preso le mosse – il nostro que-sito iniziale non era soltanto di ordine metodologico, ma ave-va un senso più preciso. Ci siamo chiesti infatti che ne è dellenostre considerazioni sulla questione della provenienza delsuono dalla cosa e di tutti gli sviluppi problematici che ad essasono collegati se facciamo riferimento alle sonorità prodotteelettronicamente e questa domanda può certamente essereproposta anche se è stato correttamente individuato il luogodelle considerazioni obbiettive, evitando confusi intrecci conil piano delle considerazioni fenomenologiche. Ma una similedomanda può assumere la forma di un’obiezione – quasi cheavessimo fin dall’inizio imboccato una strada sbagliata – solose si dimentica che queste nuove sonorità sono venute per ul-time e che le nostre apprensioni originarie dell’universo sonoro sistrutturano su una rete di sensi e di connessioni che formano unpresupposto anche rispetto a esse. Cosicché tutte le considerazioniche abbiamo sviluppato in precedenza hanno una precisa portataanche sotto questo riguardo, benché puramente negativa.

Non dovremmo forse trovare interessante il fatto che, adesempio, nel caso della generazione elettronica del suono nonha senso parlare di un’esperienza della sua produzione, come loha invece nel caso del suono prodotto attraverso lo strumen-to? Ma ciò implica naturalmente che si parli di una tecnica diproduzione del suono in un senso profondamente diverso chenon può affatto contare sull’apprensione di un processo uni-tario nel. quale si mostri con l’apparire del suono anche ilmodo in cui viene prodotto. Assume così particolare risalto

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l’assenza di quella relazione con il corpo e la cosa che hasvolto una funzione così importante in tutti i nostri sviluppiprecedenti. A quel singolare oggetto che è un altoparlante,luogo necessario di materializzazione del suono elettronica-mente prodotto, non possiamo in ogni caso attribuire le ca-ratteristiche della cosa sonora, almeno nell’accezione in cui inprecedenza abbiamo impiegato questa espressione, benchéudiamo i suoni provenire propri di lì e addirittura possiamovedere le vibrazioni della membrana e il loro modificarsi inconnessione con l’emissione sonora. Sviluppare il problema inquesta direzione significa tuttavia null’altro che attirarel’attenzione sul fatto che – mettendo da parte le sintesi pura-mente riproduttive, le imitazioni più o meno buone di ciò chec’è già – i suoni prodotti elettronicamente, nella loro molte-plicità e varietà, sembrano manifestare al massimo grado quelcarattere extramondano che del resto abbiamo riconosciutocome tratto caratteristico di ogni fenomeno sonoro. Potrem-mo dire che questo tratto sia da essi rappresentato tipicamente,che essi siano tipicamente suoni senza mondo.

Suono elettronico vuol dire scienza. E stranamente vuolanche subito dire: fantascienza, anzi, metafisica, tout court, dalmomento che questo suono eminentemente «fisico» sembraprestarsi più di ogni altro a speculazioni metafisiche alla buona.

Tutto ciò lo possiamo dire senza timore di sopravvaluta-re il suo utilizzo nell’effettistica e nella giocattoleria «extrater-restre». Sappiamo infatti che nessuna specie di suono è prede-stinata ad alcunché, e dunque anche i suoni prodotti elettro-nicamente o in generale elaborati attraverso apparecchiatureelettroacustiche sono soltanto, come oggi si tende sempre piùa sottolineare, materiali della musica, sono una possibilità chesta a disposizione della pratica musicale all’interno della qualedeve essere giocata nel suo senso e nella sua portata.

Ciò che tuttavia ci sembra di dover notare è che quellapratica comincia con il misurarsi proprio con quelle determi-nazioni negative che ci hanno consentito di caratterizzare i

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suoni prodotti elettronicamente come suoni sradicati dallarealtà stessa, come suoni che non possono essere in nessunmodo «afferrati», e di cui siamo padroni senza che essi stianonelle nostre mani: come suoni infine che appaiono separatidal gesto e appellarsi invece direttamente al pensiero di un’a-stratta rete di rapporti che è tuttavia capace di generare questemeraviglie dell’udito64.

Da questa angolatura sarebbe interessante ripensare allastoria del problema, ai suoi sviluppi e al modo di interpretarli,senza cedere alle ovvietà delle spiegazioni insignificanti chesono sempre già pronte. È opportuno soprattutto riflettere suimomenti superati di questa storia perché molto spesso il supe-ramento è sopravvenuto senza che fosse chiaro che cosa esat-tamente fosse stato superato e verso che cosa esso fosse orien-tato. Idee grandemente caldeggiate – si pensi all’emargina-zione degli strumenti come antiquati utensili di un’epocaormai trascorsa, a cui abbiamo accennato nell’Introduzione –hanno all’improvviso perso di interesse, come accade per unentusiasmo malposto che inaspettatamente si spegne e di cuisi mantiene malvolentieri persino il ricordo. Per una riflessio-ne come la nostra sarebbe invece importante poter coglierecon chiarezza insieme ad un percorso di posizioni raggiunte evia via oltrepassate le ragioni che stanno alla loro base.

In realtà, proprio la storia del problema della musicaelettronica è ricca, dal punto di vista teorico, di numerosipunti interrogativi ai quali non è affatto facile dare una rispo-sta che non si arresti alle prime ovvietà. Intanto la dizione«musica elettronica», – a cui oggi non si tenderà a dare unparticolare peso – non è affatto stata una dizione priva di pre-cise e impegnative intenzioni teoriche. In essa erano latentialmeno due idee particolarmente grevi: in primo luogo, par-

64 J. Chabade: «L’elettronica e gli strumenti sono estensioni differenti dinoi stessi. Gli strumenti sono un’estensione delle braccia e della voce e l’elettro-nica è un’estensione del pensiero», in La musica elettronica, a cura di H. Pousseur,Feltrinelli, Milano 1976,p.284.

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lando di musica elettronica, per il fatto stesso di richiamareuna possibilità di generare suoni certamente insospettata e in-sospettabile nel passato, si sollevava il problema di un nuovogenere musicale, accanto ai generi della musica vocale e dellamusica strumentale. Ma a questa prima idea se ne associavasubito un’altra, che traeva la propria forza dalla convinzioneche un controllo effettivo sulla sintesi del suono comportassela padronanza sulla totalità dei fenomeni sonori in generalepossibili. Alla luce di questa convinzione la nozione di musicaelettronica non può tollerare di essere considerata come ungenere accanto agli altri generi, ma deve proporsi come l’au-tentica musica del futuro, nella quale i generi non possono cheessere dissolti e superati in linea di principio. L’idea di unnuovo inizio, di cui abbiamo già rilevato l’importanza per lar-ga parte della musica novecentesca, si ripresenta anche in rap-porto alla musica elettronica in quanto essa presuppone l’ideadella macchina sonora capace di dispiegare, senza limiti,l’universo dei suoni nella prospettiva di una totale artificializ-zazione.

A questo punto cominciano ad affiorare interrogativiche meriterebbero certo di trovare una chiara risposta. Di fat-to, ci si è mossi ben presto in direzione ben diversa da quellasuggerita da queste idee più o meno latenti. Stando ad esse, edanche senza accordare troppo peso a quelle «infinite possibi-lità» della musica elettronica di cui oggi nessun musicistaparlerebbe più65, non avremmo dovuto forse attenderci unosviluppo di musica elettronica pura tanto imponente come èstato in passato quello della musica puramente strumentale?O forse non dovremmo nemmeno porci questo problema? Eperché non dovremmo farlo? Forse non abbiamo ragione diconsiderare la musica elettronica come un genere? E perchémancano queste ragioni?

In realtà, fin dall’inizio ci si è mossi prevalentemente in

65 L. Berio, Prefazione a La musica elettronica, cit. , p. VII.

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direzione della creazione di impasti tra queste sonorità e le so-norità vocali e strumentali – ed è proprio questa linea di ten-denza che ha operato di fatto una «sdrammatizzazione»,un’attenuazione delle enfasi iniziali e dunque anche la messada parte di quelle assunzioni particolarmente forti che faceva-no parte integrante di quelle enfasi. Ma questa linea di ten-denza non va forse a sua volta interpretata? Per quali motivi cisi è mossi in questa direzione e non in quell’altra che non eracertamente priva di plausibilità? Naturalmente, rispondere ri-chiamandosi al fatto che ogni fenomeno sonoro è omogeneoad ogni altro in quanto è appunto un fenomeno sonoro, sa-rebbe un modo di non rendere giustizia alla complessità e allaricchezza di idee che caratterizza questo ambito della ricercamusicale. In luogo dell’omogeneità di principio, certamenteincontrovertibile, ma anche, in rapporto al nostro problema,relativamente insignificante, sembra invece più interessanteattirare l’attenzione sul tema della differenza, facendo notarenello stesso tempo non solo che questo nuovo inizio non ba-sta a se stesso e non è in grado di assorbire l’inizio più antico,ma anche che con questo inizio più antico esso ha invece an-zitutto bisogno di misurarsi – cosicché se una voce risuona, adesempio, in una compagine di suoni elettronicamente pro-dotti, si possa dire: «qui si ritorna alle sorgenti elementaridell’espressione musicale»66, un ritorno che viene avvertitocome provvisto di una sua propria necessità interna.

In questo contesto – e cioè dopo il rilievo della differen-za, si ripropone indubbiamente, ma come un problema, il temadell’omogeneità, che poi non è un’omogeneità senz’altro data,ma via via acquisita in una sperimentazione della possibilitàdell’avvicinamento e dell’allontanamento, della fusione e delladistinzione.

La cosa sonora è qualcosa di profondamente diverso dal-la macchina sonora, è diverso il modo di produrre i suoni, è

66 H.Pousseur, La musica elettronica, cit., p. 120.

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diverso il rapporto che si istituisce con queste modalità diffe-renti di produzione, e dunque l’area dei sensi che sono impli-citamente richiamati. Ma questo riconoscimento esclude forsela possibilità che queste differenze vengano messe concreta-mente in gioco e una simile possibilità non mostra anche inche senso si possa intravedere nuovamente una prospettivaunitaria?

Henri Pousseur osserva una volta: «Non dimentichia-mo, prima di tutto, che l’altoparlante che è, per lo meno sino-ra, la vera sorgente, il vero corpo sonoro della musica elettro-nica non è un niente, non è una cosa qualsiasi. Una mem-brana tesa non è forse la realizzazione dell’idea di quei tambu-ri parlanti di cui le tablas indù offrono probabilmente damillenni un esempio così straordinario? E le correnti elettri-che che noi inviamo ad esso non sono forse i nostri «modi diattacco» che sostituiscono le dita o il fiato, i plettri o le bac-chette dei più antichi strumenti?»67. In realtà non lo sono. Maè interessante la pretesa di dire che lo siano, una pretesa nellaquale il tema della cosa sonora, dello strumento non viene piùripreso per denunciarne la mediocrità di fronte alla potenzadella macchina, ma al contrario per rivendicare l’applicabilitàdella nozione alla macchina stessa. E così è anche interessantel’idea che, come il pianoforte interpone dei nuovi intermedia-ri rispetto al liuto, così un intero studio per l’elaborazioneelettronica del suono con tutti i suoi apparecchi possa essereconcepito «come un vero e proprio strumento di musica checomporta qualche intermediario supplementare fra l’intenzio-ne produttrice e il risultato sonoro»68.

L’interesse di queste frasi non sta tuttavia nel pensiero,che pure è in esse contenuto, e che è destinato a restare soloun pensiero, «di una correlazione intima fra i fenomeni vibra-tori che noi avremo suscitati (per esempio nei tubi elettronici)

67 Ivi, p. 245.68 Ivi.

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e gli oggetti e i materiali di cui crediamo di percepire la riso-nanza, con le loro strutture molecolari (particolarmente re-sponsabili della loro capacità vibratoria), la loro coerenza, laloro elasticità, il loro spessore»69. Esso sta piuttosto nel fattoche questa unità profonda deve di continuo farsi valere, dicontinuo essere rimessa in gioco attraverso le differenze chestanno alla superficie della manifestazione sonora.

69 Ivi.

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Capitolo secondo

Tempo

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§ 1

La grande importanza che ogni riflessione sulla musicaassegna alla tematica temporale ha certamente la propria ori-gine elementare nel modo di esserci del suono.

Il suono c’è quando c’è.Il richiamo alla temporalità si impone subito come ri-

chiamo ad una caratteristica distintiva: in base ad essa anzi-tutto il suono o una sequenza di suoni si contraddistinguedalle cose e dalle configurazioni di cose. Da essa sembrano di-pendere per l’essenziale non solo i modi e le forme di aggrega-zione dei suoni, ma anche il tipo di rapporto che noi intratte-niamo con essi. Come potrebbe una riflessione sulla musica,che porta questo rapporto alla massima elaborazione, evitaredi porre questo tema al centro dell’attenzione?

Eppure possono esservi dei buoni motivi per ritenereche talora l’importanza del problema sia sopravvalutata, o piùprecisamente che il richiamo al tema della temporalità si ar-ricchisca di significati che non sono afferrabili senz’altro allasua superficie e che potrebbero dunque essere il risultato diuna mediazione argomentativa tenuta nascosta. In realtà, nonappena si tenta di andare un poco oltre l’indicazione elemen-tare della temporalità del suono, ci si impiglia ben presto innodi particolarmente aggrovigliati che impongono di operareuna netta distinzione tra ciò che può essere direttamente ri-collegato a quell’origine elementare e ciò che invece rappre-senta un’elaborazione che implica un tacito mutamento dipiani.

Consideriamo, ad esempio, l’idea ricorrente che fa delmomento temporale la dimensione più profonda della musi-ca, alla quale dovrebbero essere riportate le sue determinazionipiù ricche di senso. Non di rado questa idea è accompagnatadall’affermazione secondo la quale proprio in forza di questolegame intrinseco con la temporalità la musica sarebbe, inmodo meno mediato di ogni altra arte, connessa alla vita sog-

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gettiva in genere, alla vita degli affetti e dei sentimenti. Lasoggettività qui in questione non è naturalmente, in primoluogo, la soggettività corporea, la soggettività in quanto vivenel suo mondo circostante al quale essa è da subito rivoltanella totalità delle sue manifestazioni attive. Il richiamo allatematica temporale sembra invece orientare l’attenzione versouna soggettività essenzialmente riflessiva, che vive di se stessapiuttosto che del mondo che le stadi fronte.

Il primo impulso in una simile direzione proviene cer-tamente dalla tradizionale contrapposizione con la pittura, equindi dal riferimento, considerato senz’altro come un riferi-mento oppositivo, all’ambito della visualità.

Lo abbiamo una volta già notato: la riflessione sulla mu-sica può essere attratta da immagini di cecità, mentre un elo-gio della pittura tende subito a trasformarsi in un elogio del-l’occhio, come finestra aperta sull’esteriorità del mondo, comeciò che ci consente di guardare fuori e attraverso cui, sprofon-dati come siamo nel carcere oscuro dei nostri corpi, possiamoessere raggiunti dallo sfolgorare delle luci e dal trascoloraredelle ombre, godendo di tutte le belle forme.

Così Leonardo: «L’occhio, dal quale la bellezza dell’u-niverso è specchiata dai contemplanti, è di tanta eccellenzache chi consente alla sua perdita si priva della rappresentazio-ne di tutte le opere della natura, per la veduta delle qualil’anima sta contenta nelle umane carceri, mediante gli occhiper i quali essa anima si rappresenta tutte le varie cose di na-tura»70.

In Leonardo tuttavia l’opposizione tra esterno e internonon viene resa esplicita e portata a elaborazione, essendo ap-pena adombrata dalla figura di quel filosofo – «Pazzo ful’uomo, e pazzo il discorso»71 che si accecò per meglio scrutare

70 Leonardo, Trattato della pittura, Le Bibliophile, Neuchâtel 1970, par.20, p. 20.

71 Ivi, par. 12, p. 14

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nel profondo. Ciò dipende in realtà dal fatto che un modellografico pittorico è proposto come criterio per la valutazionedella stessa composizione musicale, cosicché si fa avanti un’in-clinazione a considerare il momento della temporalità più co-me un limite intrinseco che come una caratteristica essenzialesu cui si gioca l’espressione musicale. È interessante notare aquesto proposito che la famosa immagine del corpo umanoracchiuso da una circonferenza rappresenta per Leonardo unbuon modello anche per la musica dal momento che an-ch’essa, come la pittura, «compone un corpo di molte mem-bra», realizzando un’armonia «non altrimenti che faccia la li-nea circonferenziale per le membra di che si genera la bellezzaumana»72

Ma se la composizione è orientata a produrre belle for-me, che sono belle in quanto sono fondate nelle perfette pro-porzioni, allora la temporalità della musica rappresenta il suolimite, anzi la sua sventura73. In primo luogo infatti le formeche essa ricrea non possono che essere effimere e caduche – lamusica «si va consumando mentre ch’ella nasce»74. Nella pit-tura invece può essere conservato «il simulacro di una divinabellezza di cui il tempo o morte in breve ha distrutto il natu-rale esempio»75. E il fatto poi che la bella forma musicale deb-ba necessariamente presentarsi all’interno di uno sviluppotemporale rappresenta un ulteriore limite, dal momento chela musica è così costretta a mostrare il suo disegno pezzo apezzo come «un bel volto, il quale ti si mostra membro amembro, che così facendo rimarresti mai satisfatto della suabellezza»76.

Ma l’opposizione tra esterno e interno che affiora in ge-nerale nel confronto con la pittura comincia ad assumere un

72 Ivi, par. 25, p. 2473 Ivi.74 Ivi, par. 27, p. 25.75 Ivi, par. 26, p. 2576 Ivi, par. 28, p. 26

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profilo più netto solo nel momento in cui le considerazionisulla temporalità della musica vengono prospettate sullo sfon-do del problema della soggettività. In breve: ogni vissuto è an-zitutto un processo e così le relazioni tra i vissuti sono relazio-ni tra processi: più propriamente, i vissuti e le loro relazionisono da considerare come momenti interni di un processounitario che è la soggettività stessa. Sullo sfondo di questoproblema, la natura temporale della musica non appare piùcome un limite, ma come una caratteristica essenziale che fadella musica, eminentemente, un’arte della vita interiore. Perritornare alle fonti soggettive da cui è scaturita essa non ha bi-sogno di compiere un giro tortuoso tra colori e forme, mal’interiorità è subito raggiunta per il fatto che il suo materialeavrebbe già una forma ad essa omogenea. Da un lato vi è in-fatti la temporalità del suono, dall’altro la temporalità del vis-suto, cosicché il tempo sembra fare da termine medio tra ilsuono e il vissuto. E come se il vissuto trovasse nel suono unmodo di apparire senza mediazione alcuna: incontrandosi conesso, il vissuto, anziché mirare al mondo, fuori di sé, ripiegasu se stesso e si appaga in questo ripiegamento.

Nella dinamica temporale dei suoni può così rispecchiarsi ladinamica degli affetti e dei sentimenti. Spesso si insiste pro-prio su questo punto: la vita interiore è caratterizzata daun’estrema mobilità, che tuttavia non è una mobilità inde-terminata e caotica, ma presuppone quegli ordini che puresono presenti nelle forme dei conflitti.

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Le tensioni interne crescono e si sviluppano secondomolteplici intrecci fino a punti culminanti ai quali non pos-sono che seguire fasi di allentamento e di attenuazione chepreparano del resto nuovi conflitti e nuove risoluzioni. Lacoppia tensione-distensione ricorre al continuo negli sviluppirelativi alla tematica del ritmo e l’animazione ritmica dei suonimusicalmente organizzati sembra riproporre l’immagine sono-ra di quel ritmo da cui la stessa vita soggettiva è permeata. Epoiché i vissuti nel loro avvicendarsi temporale non sono giu-stapposti gli uni agli altri, ma si integrano reciprocamente es-sendo essi stessi costituiti dell’unità soggettiva che si va facen-do, un simile concetto della totalità sembra valere come natu-rale modello dell’unità di un brano musicale. Tutti quei pro-cessi di integrazione percettiva, di connessione interna tra isuoni che vengono realizzati nell’ascolto potranno così essereintesi come una vera e propria apparizione della compaginedei vissuti dentro la compagine dei suoni.

Ora chiediamoci: possiamo realmente sostenere chetutto ciò sia senz’altro contenuto proprio in quel primo rilie-vo elementare del modo d’esserci temporale del suono? Inrealtà, nel percorso che è stato delineato la mèta è findall’inizio predisposta ed a ogni suo passo vengono celate dif-ficoltà e problemi che lo renderebbero certo molto più acci-dentato e malsicuro. Cosicché le connessioni operate resistonoappena al primo tentativo di demolizione critica.

Perché mai saremmo tenuti ad aderire, a partire da unaconstatazione tanto elementare come è quella della tempora-lità dei suoni, ad una concezione della musica certamente im-pegnativa come è quella che le assegna il compito privilegiatodi manifestazione della vita interiore? E prima ancora: perchémai l’apertura del problema della temporalità dovrebbe vin-colarci ad una decisione sul terreno della problematicadell’espressione musicale in genere?

E non è forse sospetta la rapidità con la quale viene gio-cato per opposizione il riferimento alla visualità? Intanto po-

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tremmo affermare più che legittimamente che l’udito è prote-so verso il mondo ad afferrare ciò che accade «fuori di me»esattamente come le mie mani e in generale i miei organi disenso. Del resto, se parlando di interiorità, intendiamo la miavita affettiva, le mie emozioni e le mie passioni, che cosa ha ache fare tutto ciò con le mie orecchie?

Altrettanto poco convincente è la pretesa «mediazione»operata dalla temporalità. In realtà possiamo trovare ricca disenso la possibilità di considerare la temporalità come trattocomune del suono e del vissuto solo se siamo già in qualchemodo convinti che il «significato della musica» si debba ricer-care proprio in questa direzione. I vissuti in generale sonoprocessi e la soggettività come compagine di vissuti è essa stes-sa un’unità costituita processualmente. E allora la soggettivitàsi rispecchia nel flusso sonoro. Ma perché dovrebbe farlo?

Si pensi infine al modo in cui viene messa in questioneuna nozione di totalità che sembra addirittura assumere ca-rattere normativo; oppure al modo in cui si accenna al temadel ritmo, come se questa nozione fosse del tutto ovvia e nonavesse bisogno di essere accuratamente introdotta e opportu-namente delimitata nel suo senso.

Converrà dunque mettere da parte sviluppi tanto equi-voci per cominciare a fissare la nostra attenzione su quella cheabbiamo riconosciuto essere l’origine del problema. I suonisono oggetti temporali. Ma qual propriamente il senso di que-sta affermazione e quale differenza si intende marcare con essa?

§ 2

Sembra anzitutto che affermando la temporalità dei suoninon si dica gran cosa. Vogliamo forse sottolineare che qualun-que manifestazione sonora accade in un determinato mo-mento del tempo? Che essa è nel tempo? Ma con ciò non siformulerebbe certamente alcuna caratteristica distintiva –

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qualunque accadimento è temporale in questo senso, e persi-no delle cose concrete si può dire che esse non solo sono nellospazio, ma anche nel tempo.

Cominciamo comunque con il prendere nota del fattoche si parla qui del tempo in un’accezione del tutto ovvia ecomune, in rapporto alla quale il tempo è una nozione ob-biettivabile anzitutto in funzione ed entro i limiti delle prati-che quotidiane. In un’accezione altrettanto consueta converràanzitutto impiegare il termine di durata che, liberato da pe-santezze filosofiche, avrà semplicemente il senso di un trattodi tempo concepito come un segmento del tempo obbiettivo.

Potremmo allora cominciare con il dire che i suoni sonooggetti temporali in quanto hanno una durata, cioè occupanoun determinato tratto di tempo, tra il momento del loro ini-zio e quello della loro fine.

Ma ciò non basta ancora. Il nocciolo della questionenon sta qui. Nulla ci impedisce infatti di parlare di durata an-che in rapporto a cose, anche di esse si può dire che hanno uninizio e una fine. Ad esempio, il tavolo su cui scrivo ha inqualche modo cominciato a esserci, e prima o poi andrà inpezzi – e si potrà certamente parlare della sua durata traquell’inizio e quella fine. Ma proprio questo esempio ci è utileper operare quella distinzione di cui si avverte subito la neces-sità. Tra quell’inizio e quella fine, la cosa si consuma, e ciò si-gnifica: essa invecchia, si logora, si modifica nella sua consi-stenza materiale e nella sua forma, cosicché prima o poi nonsarà più in grado di assolvere le funzioni per le quali essa èstata fatta. Tutto ciò non riguarda, in primo luogo, la tempo-ralità. Iniziare e finire non hanno qui un senso primariamentetemporale. Quando si parla di durata del suono si proponeinvece un rapporto con la temporalità interamente diverso:ciò che si consuma, nella durata del suono, è proprio la durata,l’inizio e la fine hanno un senso primariamente temporale.

Il suono passa, ma non invecchia. Finisce, ma non si di-strugge. Il tempo è condizione, nel senso più forte, del suo es-

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serci, come se il suono contenesse in se stesso il bisogno deltempo – saremmo quasi tentati di dire: come se il suo stessoesserci fosse fatto di tempo.

Tutto ciò, in ogni caso, non lo si può dire per le cose. Losi può dire, invece, per le parole che si avvicendano in un di-scorso, per le fasi di un movimento, per i processi in genere.Cosicché parlando della temporalità del suono intendiamocertamente attirare l’attenzione sul fatto che il suono è anzi-tutto un processo – e lo è, beninteso, già il suono singolo, enon soltanto una sequenza di suoni, perché anche il suonosingolo c’è solo nella forma del trascorrere77.

Ora incominciamo a intravedere i lineamenti del nostroproblema, per quanto essi siano ancora incerti. In effetti ab-biamo fatto notare che gli oggetti temporali sono propriamentedei processi, che la differenza qui in questione è quella tra co-se e processi. Ai processi che hanno «bisogno di tempo» dob-biamo poter contrapporre l’intemporalità delle cose, ma que-sta opposizione non diventa forse labile e indeterminata se sicerca di dare di essa una determinazione obbiettiva? Anche ilparlare di intemporalità non sembra avere alcun senso chiara-mente determinato benché l’espressione sia apertamente sug-gerita da quella opposizione. Di fatto tutto il problema deveessere ripensato mettendo interamente da parte l’ambito delleconsiderazioni obbiettive e riconducendolo invece all’internodella relazione di esperienza. Parlare di intemporalità delle cosesignifica allora null’altro che far notare che la durata non ap-pare nelle apparenze percettive delle cose, che essa non può esse-re considerata come una tra le loro determinazioni fenomenolo-giche.

77 J. Cage: «Un suono non possiede nulla, non più di quanto io lo pos-sieda. Un suono non ha il suo essere, esso stesso non è certo di sopravvivere, secosì si può dire, al secondo che seguirà. Ciò che è strano, è precisamente che siaapparso, adesso, in questo preciso secondo. E che dopo sia sparito. L’enigma è ilprocesso» (Per gli uccelli, tr. it. di W. Marchetti, Multhipla Edizioni, Milano1977, p. 156).

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Vogliamo spiegarci con un semplice esempio. Suppo-niamo di aver sott’occhio quattro segmenti e che ci venga ri-chiesto di dare una sommaria descrizione della loro disposi-zione. Per indicare le posizioni reciproche ci serviremo certa-mente delle qualificazioni spaziali correnti (sotto, sopra, vici-no, ecc.) così come di parole che rimandano a configurazionigeometriche tipiche (parallelo, ortogonale, convergente, ecc.).Non diremo invece che essi sono simultanei l’uno all’altro. Eperché no? Non dovremmo, prima di ogni altra considerazio-ne, premettere la constatazione di questo rapporto di simulta-neità? I lati di un quadrato non sarebbero certamente tali senon fossero anzitutto simultanei tra loro. Dovremmo alloradire che i lati di un quadrato, oltre a essere ortogonali tra loro,debbono anche essere simultanei, anzi, dovremmo prima pro-porre la condizione della simultaneità e poi quella dell’ortogo-nalità?

È chiaro invece il luogo dell’errore: la simultaneità o lasuccessione non possono essere attribuite ai segmenti, maeventualmente al modo in cui essi si presentano alla percezio-ne. Ad esempio, può darsi il caso che il disegno sia parzial-mente coperto e che le sue parti vengano proposte successi-vamente, l’una dopo l’altra, mentre la copertura viene gra-dualmente tolta. Alla fine possiamo ben dire: ora i segmentisono simultaneamente presenti – ma questa affermazione hasenso solo tenendo conto del modo in cui essi venivano pre-sentati in precedenza. Ciò che qui viene chiamato in causa èdunque la relazione soggettiva con l’oggettività piuttosto chel’oggettività come tale: il modo in cui la configurazione si pre-senta è ad essa inessenziale. Analogamente non ha senso af-fermare che una certa proprietà di una cosa sia simultanea aogni sua altra proprietà, oppure che siano simultanee tra lorole sue parti. Nemmeno avrà senso attribuire alle cose un inizioe una fine in senso propriamente e primariamente temporali.

Solo a questo punto l’affermazione della temporalità deisuoni è diventata realmente pregnante. In rapporto a essi non

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si può dire soltanto che occupano un tratto di tempo, ma so-prattutto che questo tratto di tempo viene effettivamentecolto, nella loro apprensione, come decorso temporale. Quan-do parliamo di inizio e di fine del suono, parliamo di un ini-zio e di una fine direttamente sperimentati; e ha senso parlaredi suoni simultanei e successivi proprio per il fatto chenell’esperienza del suono è implicata l’esperienza della simul-taneità e della successione. Perciò è opportuno parlare quinon di durata soltanto – richiamandosi così al puro tratto ditempo inteso come nozione obbiettiva – ma di durata feno-menologica, cioè di durata che si manifesta concretamentenella percezione.

Per orientarsi nel percorso intricato del dibattito teoricointorno al problema della temporalità nella musica è dellamassima importanza cominciare a intendersi anzitutto. sulsenso e sulla portata di queste prime considerazioni elementa-ri. Ed è importante anzitutto comprendere per quale motivocosì spesso i filosofi, sia pure con intenti diversi, richiaminol’ambito musicale ogni volta che la discussione verte sul pro-blema del tempo. Questo stesso fatto potrebbe far pensare chei suoni, e dunque la musica in genere, si trovino in una rela-zione eccezionale e misteriosa con la temporalità, mentre lenostre precedenti considerazioni portano a particolare chia-rezza almeno questo punto: il tempo non è qualcosa che possaessere direttamente afferrato, non vi è un modo speciale dicoglierlo in se stesso, una particolare «intuizione» della tempo-ralità. Come non può darsi una percezione «pura» dello spazioche non si sostenga sulla percezione di cose, così solo l’espe-rienza di processi può far apparire un decorso temporale, ed èper questo che da quell’esperienza debbono prendere le mossei difficili problemi della costituzione temporale. Ora, i suonisono anzitutto materiali percettivi attraverso i quali la tempo-ralità arriva a manifestarsi e i riferimenti musicali – in generedel resto assai poco approfonditi – che ricorrono nel dibattitofilosofico sulle questioni temporali sono certamente dovuti in

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primo luogo all’efficacia esemplificativa con la quale una se-quenza di suoni può illustrare una processualità data in con-creto, efficacia a cui contribuisce, non essendo implicati mo-menti spaziali, la possibilità di un più netto isolamento e diuna più chiara delimitazione del momento propriamente atti-nente alla temporalità. In certo senso, noi dobbiamo appro-fittare di questa efficacia, ma anche dobbiamo mutare l’ango-latura da cui consideriamo l’intero problema. Infatti qui nonsiamo interessati alla tematica della costituzione temporalecome tale, ma piuttosto a ciò che possiamo cominciare con ildire dei suoni in quanto considerati dal punto di vista dellaloro forma temporale.

Ciò che fin qui ci sembra di aver accertato a questo pro-posito è che in rapporto alla caratterizzazione del suono come«oggetto temporale» è significativa anzitutto la durata fenome-nologica, quindi non tanto il fatto che il suono occupi untratto del tempo obbiettivo, secondo una concezione nellaquale risulterebbe certamente accentuato l’elemento statico,quanto che il suo esserci ci appaia nella forma del trascorrere.Dobbiamo ora integrare queste nostre prime considerazionifacendo notare che questa forma fa tutt’uno con una condi-zione di continuità. Ciò non significa banalmente che il suo-no che io ora odo e continuo a udire è appunto un suono inin-terrotto. Significa invece sottolineare che questo suono inin-terrotto si propone percettivamente come un succedersi di fasiche trapassano l’una nell’altra, come un venire-da-andando-subito-oltre, come un avanzare sopravanzando. Per indicarequesta circostanza vogliamo parlare di fenomeno sonoro comeun fenomeno di evenienza: il suono considerato nella sua du-rata fenomenologica è suono eveniente.

Si consideri ancora una volta l’istruttivo esempio delmovimento. Tutti sanno che alla base di un’impressione dimovimento può esservi una successione discreta di immaginidello stesso oggetto, purché siano soddisfatte alcune condi-zioni, ad esempio, le immagini debbono presentarsi a inter-

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valli temporali e spaziali abbastanza piccoli. Queste condizio-ni mirano infatti a dissolvere la discretezza obbiettiva, fornen-do il presupposto essenziale affinché si dia una percezione dimovimento. Ora, volendo descrivere la struttura del movi-mento installandosi all’interno della situazione percettiva equindi mettendo da parte il problema delle sue basi, sembraopportuno parlare di una sequenza di fasi, nella quale ogni fa-se è caratterizzata da un avanzare sopravanzante.

Ma lo stesso esempio è istruttivo anche da un altro pun-to di vista. Si osservi un punto luminoso che si muove su unoschermo scuro. Il movimento si va facendo e noi lo vediamoin questo suo farsi. Ma questo vedere e questo osservare ha uncarattere interamente diverso dal vedere e dall’osservare riferitiad una cosa in quiete. Il nostro punto luminoso sullo schermocattura il nostro sguardo e lo trascina nel suo corso proprio inforza del sopravanzare del movimento, in forza del fatto chenon appena l’occhio si posa sul punto che si muove, esso ètratto subito oltre.

Ciò è interessante proprio in rapporto al suono, e piùprecisamente in rapporto alle modalità elementari dell’ascolto.Ora infatti possiamo dire: l’ascolto del suono è teso, ed esso loè in quanto è attratto dalla tensione temporale che appartiene alsuono stesso.

Lo sguardo è catturato dal movimento. L’orecchio dal suo-no. Il suono attrae. La nostra tesi di apertura della tematicadella temporalità potrebbe essere formulata così: i suoni sonoattraenti.

Annotazione

Nel suo lavoro intitolato The Temporal Structure of Recent Music: aPhenomenological Investigation (Dissertazione di dottorato, StateUniversity of New York, 1982), nel quale si propongono nuovistrumenti per l’analisi musicale ispirati alle tematiche fenomeno-logiche, Judith Irene Lochhead fa un uso del termine «oggettotemporale» che ha un’inclinazione di senso e un modo di impiego

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essenzialmente diverso dal nostro e di cui si rivendica in ogni casol’origine in Husserl. Oggetto temporale (Temporal Object) vieneinfatti definita «una qualunque struttura (structure) che noi ap-prendiamo come un intero successivo (successive whole). Gli oggettitemporali sono caratterizzati dall’estensione temporale (temporalextension)» (p. 168). Sulla base di una simile definizione e del restotenendo conto del modo in cui il termine viene impiegato, con og-getto temporale si intende dunque un’unità strutturale complessi-va, così come ogni sua componente che possa valere essa stessacome unità strutturale, per quanto subordinata: cosicché il termi-ne può anzitutto sostituire termini come «motivo», «anteceden-te», «conseguente», «frase», ecc. nell’analisi di brani tonali; mapuò anche e soprattutto essere impiegato in modo più generaleper unità prive di organizzazione tonale, per segmenti di branimusicali a cui si possa in qualche modo attribuire un carattereunitario. L’occasione per un simile impiego è fornita dal fatto che,nelle sue Lezioni sulla coscienza interna del tempo, Husserl indicacome esempio di oggetto temporale genericamente una «melo-dia». «Benché Husserl consideri soltanto una melodia nella de-scrizione della coscienza del tempo, la sua nozione di oggettotemporale può essere applicata ad altri tipi di strutture musicali»(p. 163). Ora, occorre notare che in Husserl il richiamo alla melo-dia ha la funzione di fornire, come abbiamo spiegato, una situa-zione esemplificativa per illustrare la durata fenomenologica, so-prattutto in ordine al tema della continuità, piuttosto che quelladi dare un esempio di Gestalt, la cui unitarietà d’altronde non ècerto dovuta alla pura forma temporale. Ciò che invece caratteriz-za l’esempio di Husserl lo si comprende con chiarezza proponen-do la sua sostituzione, perfettamente possibile, con un suono sin-golo che dura. Questo aspetto è certamente presente nella defini-zione della Lochhead, là dove si sottolinea che «gli oggetti tempo-rali sono caratterizzati dall’estensione temporale», ma la defini-zione sembra escludere significativamente 1’ applicabilità del ter-mine di oggetto temporale ad un suono preso nella sua singolarità.Si tratta dunque di un’utilizzazione dell’esempio husserliano chene modifica il contesto, per altro proponendo una problematicaricca di interesse.

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§ 3

Veniamo ora ai commenti. Si sarà notato che nella nostraesposizione abbiamo fatto riferimento illustrativo prevalenteal suono considerato nella sua singolarità, piuttosto che aduna sequenza di suoni – sequenza che naturalmente è essastessa un oggetto temporale e che dunque può essere descrittacome un fenomeno di evenienza che si realizza in una conti-nuità ritenzionaleprotenzionale. Tuttavia il riferimento al suo-no singolo ci consente di proporre una distinzione di partico-lare importanza con maggiore evidenza di quanto si possa farenel caso della sequenza a causa della sua maggiore complessità.

Come esempio di suono singolo converrà anzitutto pen-sare ad un suono-oggetto che permane nella sua identità og-gettiva e nell’identità della sua qualità timbrica – che dunquenon muta tra il suo inizio e la sua fine nelle sue determinazio-ni caratteristiche. Talvolta per indicare questa assenza di mu-tamenti si parla, nella terminologia musicale, di suono «te-nuto fermo» espressione che diventa ora per noi particolar-mente significativa proprio per il fatto che in essa si sottinten-de l’idea che si possa parlare di movimento in senso pieno eproprio, nell’ambito musicale, solo là dove vi siano differenzeinterne, e in particolare là dove vi sia una pluralità di suonimaterialmente differenti. Ora, nelle nostre considerazioni noiabbiamo in certo senso spostato un poco più indietro l’iniziodi questo problema, dal momento che sulla loro base possia-mo certamente cominciare con il parlare di movimento avendodi mira unicamente la forma del trascorrere, e dunque in unsenso puramente temporale. Come abbiamo spiegato, vi è unatensione del suono per il fatto stesso che ha una durata.

Consideriamo ora il caso di una sequenza di suoni. I suo-ni sono chiaramente differenziati l’uno dall’altro, abbiamo ache fare non già con un suono che dura ininterrottamente,ma con una pluralità di suoni che si susseguono. Spesso èstato messo in rilievo che, dal punto di vista percettivo, questa

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successione non viene appresa nel senso di uno statico alli-neamento, ma come passaggio dall’uno all’altro suono, cosicchédeve essere in ogni caso presupposta la continuità temporalecosì come il tipo di dinamismo che è ad essa inerente. Si trattadi un’osservazione corretta, che tuttavia non è esente dal ri-schio di equivoci e fraintendimenti. Il suo senso effettivo stanella considerazione che noi abbiamo già anticipato secondola quale qualunque sequenza di suoni, come il suono singolo,può essere considerata temporalmente come «protesa in avan-ti», come caratterizzata da quest’unica direzione di movi-mento. La sequenza stessa, come ogni momento in cui essa ècostituita, ha la forma del trascorrere, e dunque quella del-l’avanzare sopravanzando.

Anche in rapporto alla sequenza possiamo dunque riba-dire gli spunti già in precedenza emersi.

L’osservazione di una cosa in quiete è certamente, con-siderata dal lato soggettivo, un processo, ed esso può avereinizio da una «chiamata» che proviene dalla cosa stessa: essa ciincuriosisce oppure ci incuriosisce un suo dettaglio, e così puòaccadere che fino ad un certo punto siano i suoi momenti e lesue determinazioni a guidare il nostro sguardo. Ma certa-mente nello stesso fatto di dire che la cosa ci incuriosisce è giàimplicito che il richiamo proveniente da essa deve ricevereuna risposta attiva, che questo richiamo può sempre conver-tirsi in uno spontaneo interesse soggettivo che si rivolge allacosa liberamente esplorandola in ogni suo lato. Si pensi ad undisegno che sta tutt’intero di fronte a noi. Ora lo possiamocogliere nel suo insieme, ora il nostro sguardo segue le lineedel disegno e questo indugiare presso il disegno è essenzial-mente caratterizzato dalla possibilità di percorrerlo con losguardo in lungo e in largo, ora partendo da un punto, oradall’altro, ora facendo un certo percorso, ora il percorso inver-so. E ciò è possibile perché il disegno semplicemente c’è, in-temporalmente, là di fronte a noi.

Si noti l’impiego che abbiamo fatto or ora del verbo «se-

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guire». Di un disegno, di una figura si può dire che si seguonoi contorni; oppure si può parlare di un ascoltatore che segue losviluppo di un discorso. E si dice infine anche che si segue unbrano musicale, una «melodia».

Se stiamo al problema che abbiamo finora posto di unatensione connessa alla pura forma temporale, questa parola sipresta certamente a qualche equivoco. Con essa allora si vuoleindicare qualcosa di diverso sia dal movimento dello sguardoche si aggira liberamente intorno alla cosa in quiete, sia dal-l’attenzione attivamente rivolta ad afferrare lo svolgersi deimotivi argomentativi o narrativi che vengono via via propostiall’interno di un discorso. Poiché una sequenza di suoni nonc’è fin dall’inizio, ma diviene, poiché essa si va facendo, sareb-be più giusto dire, non tanto che noi la seguiamo, quanto cheessa si fa seguire. Perciò non possiamo affatto percorrerla inlungo e in largo e nemmeno possiamo sceglierci questa oquella via di accesso, ma dobbiamo attenerci all’ordine che ciimpone. Come su una barca senza remi, non possiamo che«seguire» la corrente del fiume che ci trascina.

Con tutto ciò facciamo ancora una volta notare: l’udiresuoni non è un analogon uditivo di un atto di contemplazione.Non si contemplano suoni così come si contemplano forme ecolori. Si impone piuttosto l’analogia con la visione del mo-vimento, e tanto più questa analogia può essere efficace quan-to più essa è accompagnata dal pensiero della soppressionedella cosa che si muove così come dello sfondo immobile sucui si muove, dunque dal pensiero certamente paradossale, etuttavia ricco di senso, di qualcosa che è soltanto movimento,di movimento puro. Rendendo inconsistenti nella misura delpossibile la cosa e lo sfondo, l’esempio di un punto luminosoche si muove su uno schermo scuro conteneva già questo pen-siero.

Eppure tutta questa tematica non avrebbe affatto sensose non ci affrettassimo a sottolineare che essa ricopre solo unaparte del problema e che essa deve essere integrata da conside-

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razioni concernenti dinamismi che non sono affatto dipen-denti dalla forma temporale. Vi è, come accennavamo in pre-cedenza, un margine piuttosto ampio di equivocità quando siporta l’accento sulla continuità temporale e sull’apprensionedella successione dei suoni come passaggio dall’uno all’altro.Si osserva allora che una «melodia» non è una semplice «giu-stapposizione» di suoni, ma che nel suono attuale è ritenuto ilsuono precedente e che vi sono in generale attese suscitatedall’intero decorso anteriore. Ma in simili formulazioni non èmai abbastanza chiaro se con «melodia» si intenda una se-quenza qualunque di suoni, in modo da dare ad essa la neces-saria generalità, oppure (come per lo più è il caso) se si pre-supponga la nozione di «melodia» nel senso più ovvio e co-mune richiamandosi tacitamente ad un ordinamento tonale.In tal caso quelle formulazioni sono applicabili solo ad unparticolare tipo di esempi ed a questa limitazione si aggiungeanche la mancata distinzione, che si impone naturalmente an-che in rapporto a essi, tra dinamismi dipendenti dalla puraforma temporale e dinamismi che dipendono invece dallaconcreta articolazione delle sequenze sonore.

Una simile distinzione può essere chiaramente messa inevidenza, restando all’interno di quest’ambito esemplificativo,ricorrendo al confronto con il discorso, al cui andamento me-lodie tonalmente organizzate vengono così spesso assimilate.

Sappiamo già che anche un discorso, e precisamenteconsiderato nel rapporto concreto dell’ascolto, può rappresen-tare un esempio di fenomeno di evenienza. Anch’esso presup-pone la continuità del flusso temporale, continuità che va in-tesa come continuo sopravanzamento. Supponiamo ora chel’oratore che stiamo ascoltando si interrompa bruscamente inun punto qualunque della frase che sta pronunciando, presoalla sprovvista da una singolare amnesia. La parola che dovevavenire non è venuta e l’oratore se ne sta ora attonito di frontea questa lacuna. Per i suoi ascoltatori la situazione potrebbeessere ben diversa dal momento che essi hanno attentamente

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seguito il suo argomentare: per essi l’ultima parola udita si ol-trepassa, sulla base delle parole precedenti, verso un’area dialtre parole o anche, addirittura, verso una parola assoluta-mente determinata che potrà infine essere generosamente sug-gerita all’oratore in imbarazzo.

Vi è qui certamente un’azione ritenzionale-protenzialeche sarebbe erroneo riferire alla pura forma temporale. Ciòche udiamo in una successione temporale è una sequenza diparole provviste di senso e organizzate secondo una gramma-tica che ci è nota perché è la grammatica del linguaggio chenoi stessi pratichiamo. L’anticipazione non è un’anticipazionevuotamente temporale, ma è un’anticipazione di un contenutoben determinato che diventa possibile proprio in rapporto allastruttura sintattica del discorso e ai significati in esso espressi.Ma ciò non ha peculiarmente a che fare con la temporalità. Lacontinuità temporale, e cioè l’estensione ritenzionale-proten-zionale del presente, è certamente una condizione per la rea-lizzazione dei nessi tra le parole che fanno della loro semplicesuccessione un discorso – un termine del resto che non indicaun puro e semplice dispiegamento temporale, benché necontenga certamente il motivo, ma uno sviluppo in cui ognipasso consegue organicamente dai passi precedenti, come se diquei passi fosse l’esplicitazione o l’estensione coerente e neces-saria. E naturalmente, come si è già osservato, seguire significaqui soprattutto cogliere di passo in passo quello svolgimentointerno nei suoi nessi logici e concettuali. È interessante inol-tre notare che, per ciò che riguarda il contenuto appreso,l’ordine temporale in cui è stato esposto potrebbe essere mu-tato entro limiti piuttosto ampi, esso potrebbe essere varia-mente riassunto, parafrasato, variando i punti di accesso senzamodificazioni realmente essenziali.

Accanto alle differenze, vi è certamente qui qualche in-teressante analogia. Ancheuna melodia tonale ha uno sviluppoin un’accezione che non è certo riportabile ad una pura suc-cessione di suoni, vi è in essa una coerenza interna che fa sì,

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nel caso di una interruzione improvvisa, che possa essere sug-gerita una continuazione entro un ambito sufficientemente de-terminato. Ma queste attese, così come gli eventuali richiamiretroattivi, sono fondati sulla proprietà dei suoni che la co-stituiscono e sulle relazioni di cui esse stanno a fondamento. Isuoni, per l’appunto, non sono fatti di tempo.

Ora tuttavia abbiamo bisogno di prospettare questostesso problema nella sua generalità, e non già puramente al-l’interno di una tematica che presuppone un modello di «me-lodia». Perciò abbiamo preferito parlare di sequenza sonorasenza pregiudicarne la struttura. Assumendo questo punto divista più generale si comincia certamente con il piede sba-gliato se si pretende di portare subito l’attenzione sul temadella continuità, sulle varie forme possibili di integrazione, diorganicità e di sviluppo. Intanto andrebbe subito notato chein una sequenza di suoni abbiamo a che fare con una pluralitàdi suoni, e dunque con una condizione di discontinuità. Que-sta discontinuità può essere attenuata o rafforzata in varimodi, «staccando» o «legando» i suoni tra loro, interpolando«pause» tra essi, riducendo o aumentando l’ampiezza degli in-tervalli tra l’uno e l’altrosuono, facendo giocare le differenze ele affinità timbriche, ecc. In generale, in forza dei dinamismiche sorgono dalle differenze tra i tratti caratteristici della ma-teria sonora e dai modi in cui esse sono giocate per operareconvergenze e divergenze, per unificare e segregare, si pone ilproblema di una tipologia molto ampia di possibili articola-zioni che rimanda ad una grande varietà di situazioni descrit-tive. Il tema della continuità si presenta costantemente comecondizione soggettiva dell’apprensione percettiva e, dalla partedell’oggettività percepita, come forma del trascorrere – ma que-sta forma deve ora misurarsi con le dinamiche dell’articola-zione materiale, così come inversamente queste dinamichedebbono entrare con quella forma in relazioni più o menocomplesse. Il fatto che abbiamo parlato di un movimento so-pravanzante, da un punto di vista puramente temporale, non

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significa che esso sia senz’altro assecondato dall’articolazionedella sequenza, oppure che non possano darsi momenti retro-attivi o che lo stesso carattere di movimento sia messo in que-stione ad esempio da una struttura fortemente ripetitiva op-pure da una discontinuità particolarmente accentuata.

Si noterà che in queste nostre considerazioni si ripropo-ne, certamente in tutt’altro senso, la polarità tempo/strutturache aveva già assolto un ruolo significativo nella formulazionedel nostro progetto complessivo. E anche in questo caso, perquanto siano mutati i termini del problema, avendo ora dimira unicamente le dinamiche interne di un brano musicale,portiamo l’accento piuttosto sull’interazione e sull’azione re-ciproca che sulla semplice opposizione. A questo proposito èinteressante notare come talvolta si insista a tal punto sullacomponente architettonica del brano musicale da mettere inte-ramente in secondo piano la componente temporale. La fraseben nota di Lévi-Strauss secondo la quale la musica avrebbebisogno del tempo soltanto «per infliggergli una smentita»78

formula efficacemente un atteggiamento secondo il quale ladimensione temporale dovrebbe essere considerata come undispiegamento di configurazioni che non sono intrinseca-mente temporali. Nello stesso senso deve essere interpretata lafrase di De Schloezer secondo la quale «organizzare musical-mente il tempo significa trascenderlo»79.

In realtà come illustrazione, e nello stesso tempo comespunto per una critica, può valere proprio quel richiamo allapresentazione parziale di un disegno che si era già proposto,da un’angolatura diversa, nei commenti alle nostre citazionileonardesche: assumendo questo punto di vista, un brano mu-sicale può essere paragonato ad un disegno che, in luogo di es-sere mostrato tutt’intero e in un colpo solo, è parzialmente

78 C. LéviStrauss, Il crudo e il cotto, tr. it. di A. Bonomi, Il Saggiatore,Milano 1966, p. 32.

79 B. de Schloezer, Introduction à J. S. Bach, Gallimard, Paris 1947, p. 31.

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coperto diventando visibile a poco a poco. Cosicché dovrem-mo dire non tanto che il senso dei dettagli si va chiarendoman mano che il disegno viene messo allo scoperto, ma cheun’effettiva chiarezza sulle connessioni può essere raggiuntasolo quando il disegno ci appare nella sua integrità, quandodunque il brano è giunto al suo termine. La temporalità sa-rebbe allora veramente una circostanza accessoria che deve es-sere trascesa, un modo di rivelarsi della struttura, di una tota-lità che è in se stessa intemporale

A tutto ciò è in realtà sufficiente obiettare che nell’espe-rienza dell’ascolto non può trovare nessun appiglio l’imma-gine del brano musicale come disegno che viene di passo inpasso messo allo scoperto. In nessun modo possiamo afferma-re che, in un punto qualunque del decorso di un brano musi-cale, qualcosa si manifesti e qualcos’altro ci venga tenuto na-scosto. In quelle formulazioni si eleva la singolare pretesa chequando il brano c’è, sia a esso inerente un’essenziale mancan-za di chiarezza, mentre l’evidenza sarebbe raggiunta soltantoquando esso ha semplicemente cessato di esserci: come se soloallora il brano ci stesse realmente davanti e ogni sua parte fos-se colta nella sua autentica relazione con l’intero.

Annotazioni

1. Lo stesso problema è certamente presente nella distinzioneproposta da Xenakis tra «fuori del tempo» e «nel tempo» – ed ècaratteristica dell’intera sua posizione l’idea che si possa dire deibrani musicali che «si tratta di immissioni nel tempo di costruzio-ni fuori del tempo» (Musica. Architettura, Spirali Edizioni, Milano1982, p. 36). «Quando si costruisce una melodia si agisce nel tem-po, si mette infatti una nota dopo l’altra e quello che ne risulta èun evento calato nel tempo. Le note che hai scelto appartengonoperò ad una scala o ad un modo e questi elementi non sono im-messi nel flusso temporale vero e proprio; sono piuttosto dellestrutture che esistono fuori del tempo, indipendenti. Anche il la-voro teorico che fai a tavolino, disponendo le note o calcolando i

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tempi, avviene in un certo senso fuori del tempo; solo la messa inopera, l’esecuzione, cala nel flusso del tempo tutto questo. Ac-canto a quella che ti ho descritto c’è però una realtà più complessa:tutto quello che ci accade intorno viene catturato dalla memoria,dove diviene qualcosa di simile ad un’impronta che si erode, sicancella a poco a poco, ma sempre in una dimensione sottratta alflusso reale del tempo. In fondo tutta la musica si basa su questoprincipio di costruzione, che attinge i suoi materiali da una di-mensione fuori del tempo perché vengano successivamente pro-iettati nella prospettiva del tempo, e qui il nostro potere di con-trollo viene meno». (Xenakis, a cura di E. Restagno, EDT, Torino1988, p. 41). «Il tempo non esiste, probabilmente si tratta di unadelle nostre illusioni, un’illusione di trasformazione dello spazio.Senza lo spazio non può esserci tempo»(Ivi, p. 25). – Su un pianointeramente diverso si situano le «testimonianze» di Mozart e diBeethoven, rammentate da A. Collisani (Musica e simboli, Sellerio,Palermo 1988, p. 149), nelle quali è presente l’idea di una appren-sione globale dell’opera caratterizzata da esplicite analogie visive.Si dice in Mozart che, anche nel caso di un brano piuttosto lungo,«io lo vedo tutto in un’unica occhiata, come se fosse un quadromeraviglioso o un bellissimo essere umano; in questo modo nellamia immaginazione non lo sento affatto come una successione»; eBeethoven: «... l’idea fondamentale non mi abbandona mai. Essasorge, si espande, ed io vedo e odo il quadro prendere forma comeun tutto unico ed ergersi dinanzi a me come fuso in un sol getto».

2. Un miraggio è invece, per Jankélévitch, proprio l’idea di uno«sviluppo» inteso non già in senso temporale, ma avendo di miral’unità argomentativa di un discorso. A esso corrisponde, dal latodell’ascolto, la forma di un «seguire» che assume coerentemente ilsenso di afferrare il bandolo e tenerlo fermo. «Una sinfonia è undiscorso? La sonata è paragonabile ad una arringa? La fuga ad unadissertazione, l’oratorio ad un sermone? I temi svolgono nellasinfonia lo stesso ruolo delle ‘idee’ nella lezione del conferenziere?»(La Musique et l’Ineffable, Seuil, Paris 1983, p. 26). Ma ogni discor-so presuppone un piano, un termine nel quale certamente si intra-vede un ordine spaziale, e dunque, per Jankélévitch che assumel’opposizione dello spazio e del tempo secondo l’impostazione di

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Bergson, una strutturazione di ordine intellettuale che si allontanadalla dimensione del vissuto. La stessa ritenzione uditiva del giàtrascorso, che è certamente una condizione per l’afferramento deirapporti strutturali, può essere considerata come derivante da unatensione caratteristicamente intellettuale: «Là dove l’intelligenzaassociativa e spazializzante, sorvolando sul divenire, distingue piùparti inquadrate fra un esordio ed una perorazione, l’orecchio,aderendo con genuina immediatezza alla successione vissuta, nonsi accorge di niente: senza la visione retrospettiva del cammino per-corso il puro ascolto non noterebbe il piano della sonata. Giacché ilpiano è cosa concepita, non cosa udita né tempo vissuto» (Ivi).

§ 4

Volendo cominciare con il delineare la specificità che la musi-ca trae dalla temporalità dei suoi mezzi espressivi, come nonrammentare – e proprio all’interno di uno sviluppo che sem-bra voler mettere in primo piano il suo potere trascinante – lasingolare relazione che la musica può intrattenere con il mo-vimento corporeo, relazione che trova la sua massima manife-stazione nella danza? Il dire che una sequenza di suoni si fa se-guire avendo di mira la possibilità della danza assume alloraun nuovo senso che tuttavia non è affatto estraneo all’ambitodei motivi precedentemente sollevati. Il tema della soggetti-vità che certamente aleggia nel campo delle considerazionitemporalistiche si ripresenta qui secondo un’altra delle suemolteplici sfaccettature: sembrava in precedenza che l’accentocadesse proprio su un ascolto che si abbandona, e dunque an-che su una soggettività catturata dal suono e portata via nelsuo decorso. Queste stesse formulazioni assumono ora un sen-so persino più nitido e chiaro. La tensione del suono sopra-vanzante ci appare ora come una sorta di leggera vertigine, disquilibrio, di oscillazione della verticalità del corpo che famuovere il passo.

Con il notare questa possibilità di una relazione internacon il gesto e con il movimento non solo riceve evidenza la

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peculiarità dell’ascolto e la sua non assimilabilità di principioad un atto di pura contemplazione, ma con altrettanta evi-denza si mostra la presenza di un legame diretto e immediatocon la soggettività intesa non tanto come flusso di vissuti,come soggettività «psicologica», ma soprattutto come vitalitàprorompente nel movimento corporeo. Le nostre considera-zioni precedenti suggeriscono certamente anche questi possi-bili sviluppi. E tuttavia si avverte subito che essi non offronoancora una base sufficiente per un autentico approfondimen-to in questa direzione.

Facendo riferimento alla danza, l’attenzione viene subitoportata sul tema del ritmo come un tema che deve certamenteoccupare una posizione centrale nell’ambito di considerazionirivolte all’aspetto temporale. È allora il caso di chiedersi fino ache punto questa nozione possa essere adeguatamente intro-dotta e circoscritta nell’ambito di una discussione tutta gravi-tante intorno al suono inteso come fenomeno di evenienza.Fin d’ora è lecito almeno sospettare che la questione del ritmonon possa essere affrontata come un lineare sviluppo della te-matica del suono eveniente.

Vogliamo dunque muoverci con la cautela richiestadalla portata e dall’importanza dell’argomento. E anche dallasua oscurità.

Infatti, benché per certi versi si possa rivendicare allanozione di ritmo, rispetto alle altre nozioni base della musica,una particolare semplicità ed evidenza, tuttavia non appena sitenta una qualche delimitazione essa sembra perdere consi-stenza e precisione, sembra diventare una nozione profonda-mente oscura.

Ciò si rispecchia clamorosamente nella questione dellaricerca di una definizione.

Se parliamo così frequentemente di ritmo, all’internodella problematica musicale o al di fuori di essa, saremo purin grado di fornire di esso una definizione soddisfacente.Quanto meno dovremmo ritenere di trovarne qualcuna giàelaborata nella lunga storia del problema.

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E naturalmente ne troviamo non una, ma più d’una;troviamo molte definizioni di ritmo; anzi, ne troviamo trop-pe. Sembra addirittura che qualcuno, sorpreso dalla difficoltàe dalla varietà dei modi della sua teorizzazione, si sia accinto arecensire le definizioni di ritmo, riuscendo a esibirne circaquattrocento. Altre stime più prudenti segnalano almeno cin-quanta significati della parola chiaramente distinguibili. «Rit-mo», dice Sachs, è anzitutto una parola priva di significato ge-neralmente accettato: sottolineando in proposito che la confu-sione è semplicemente «terrificante»80.

Sarebbe tuttavia sbagliato considerare questa situazione,così sconcertante, come se la parola «ritmo» alludesse a un’es-senza ineffabile che nessuna definizione riuscirebbe ad afferra-re. Le molte definizioni proposte non sono affatto da intende-re come tentativi senza speranza di cogliere un’essenza pro-fondamente nascosta. Si tratta invece di una molteplicità disensi che, se da un lato certamente può essere fonte di confu-sioni e di incertezze concettuali, dall’altro mostra che la que-stione del ritmo può essere considerata da vari lati, secondopunti di vista e angolature diverse, avvalendosi della possibi-lità di operare restrizioni e delimitazioni o all’inverso amplia-menti ed estensioni di senso. Il vero problema non consisteaffatto nella ricerca della definizione giusta all’interno dellamolteplicità delle definizioni proposte: infatti ciascuna di essepotrebbe essere interessante non in se stessa, ma in rapportoalla discussione che presuppone. E necessario invece disporredi alcuni criteri sufficientemente solidi per intervenire in essa.

In vista di ciò è necessario in primo luogo richiamarel’attenzione sulla possibilità di un impiego molto generaledella parola che va oltre il piano specificamente musicale: sipuò parlare di ritmo, ad esempio, in rapporto a configurazioni

80 C. Sachs, Rhythm and Tempo, New York 1953, p. 12. Cfr. anche J. J.Nattiez, Il discorso musicale, Einaudi, Torino 1987, p. 113. Sullo stato del pro-blema dal punto di vista storico: W. Seidel, Il ritmo, il Mulino, Bologna 1976.

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visive – ad una cancellata, ad un colonnato, ad una strutturaarchitettonica in genere. La connessione tra la tematica tem-porale e la nozione del ritmo tende qui a indebolirsi o almenoa diventare problematica. Lo stesso rilievo può essere fatto perquegli impieghi che chiamano in causa i «movimenti» dellanatura – basti rammentare qui il «ritmo» delle stagioni oppuredel battito cardiaco.

Appare particolarmente chiaro in questi esempi, cosìspesso ripetuti, uno dei punti nodali della difficoltà: se par-liamo del ritmo delle stagioni non vogliamo evidentementealludere alla loro pura e semplice successione temporale. E co-sì se qualifichiamo come ritmico il battito cardiaco intendia-mo dire qualcosa di più e di diverso da una pura successionedi battiti. Ma la difficoltà sta appunto nel determinare conchiarezza in che cosa consista questo «di più» che sarebbe ingrado di trasformare 1’ avvicendamento puro e semplice in unavvicendamento che merita di essere chiamato «ritmico».L’idea che questa differenza sia una differenza «irrazionale» –cioè una differenza difficile, se non impossibile da concettua-lizzare – tende a farsi avanti già da questi esempi. Il richiamoal ritmo sembra qui voler sottolineare la presenza di un’or-ganicità interna, di un momento vitale che si contrappone almorto meccanismo: la pura alternanza temporale – questo suc-cede a quello – appartiene all’ordine estrinseco dei meccani-smi, mentre se parliamo del ritmo delle stagioni connettiamola loro ricorrenza alle necessità interne della vita stessa. Analo-gamente, il battito del cuore sembra predestinato a ricevereuna qualificazione ritmica per il solo fatto che esso è addirit-tura condizione della vita e può quindi valere come suo sim-bolo eminente.

Tutto ciò è particolarmente interessante proprio in rife-rimento alla musica. In effetti, quando nella discussione filo-sofica il discorso cade sull’aspetto ritmico, sembra quasi che ilfilosofo si riscuota dal suo compassato torpore per seguire glislanci che il tema stesso sembra suggerire. In luogo di essere

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un momento specificamente e primariamente musicale il rit-mo appartiene a tutto ciò che nell’universo è vivo, ed è dun-que da un lato il momento al quale la musica è debitrice dellapropria vitalità interna, dall’altro, attraverso il ritmo, essa siapre e si integra nella totalità della natura vivente.

Queste enfasi filosofiche non sono affatto necessarie, co-sì come non è necessario un modo di approccio al problemache prenda le mosse dalla massima generalizzazione della no-zione. Del resto i motivi che stanno alla base di quelle enfasi siripresentano spesso anche nel quadro di impostazioni che ten-dono a vincolare il problema all’interno del campo specifica-mente musicale. Il riferimento al di fuori dell’ambito musicalesembra necessario al più per una sommaria introduzione dellanozione, soprattutto per illustrare attraverso esempi persuasivie apparentemente evidenti la differenza che può essere consi-derata come. costitutiva del ritmo stesso: la differenza delbattere e del levare.

In certo senso questa differenza deve essere sottratta allaterminologia insignificante del solfeggio che rimanda alla for-ma convenzionale di un gesto escogitato a scopi meramentepratici: in essa dobbiamo invece cogliere un’animazione in-terna in cui consiste l’autentica essenza del ritmo. Quando siparla di ritmo è certamente in questione anzitutto il movi-mento: ma non un movimento qualunque! Dobbiamo piutto-sto pensare ad un movimento pulsante, che avanza in un coe-rente alternarsi di momenti di slancio e di riposo. Perciò pos-siamo certamente riprendere nuovamente le analogie ram-mentate in precedenza: che cosa può illustrare meglio una si-mile animazione ritmica se non, ad esempio, il processo vitaledella respirazione con la sua articolazione in inspirazione edespirazione? E forse cominciamo ora a capire meglio per qualeragione si parli così spesso di ritmo per i battiti cardiaci, sepensiamo non tanto alla loro monotona successione, quantopiuttosto alla sistole e alla diastole, al loro carattere di pulsa-zioni. Del resto, al di là di ciò, basterà richiamare l’attenzione

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sulla differenza tra il movimento di un meccanismo e la natu-ralezza e la scioltezza del passo umano – già qui c’è ritmo, quelritmo da cui la musica è compenetrata.

Forse possiamo ancora una volta ricollegarci all’esem-plarità della danza? Forse. Ma intanto dobbiamo tuttavia se-gnalare che l’approccio alla tematica del ritmo attraverso ladanza viene talora sentito come tendenzialmente riduttivo,come se venisse suggerita una angolatura dalla quale non puòche sfuggire in linea di principio il modo in cui la ritmicità siradica nella dimensione più profonda della musica.

La nozione di ritmo così come può essere proposta apartire dalla danza non è in fin dei conti la più povera, sarebbeproprio il caso di dire, la più pedestre? Il momento ritmico sipresenta qui anzitutto come suddivisione e articolazione delladurata, quindi in stretta connessione con la temporalità. Inquestione è perciò un particolare «parametro» del suono checontribuisce, insieme ad altri fattori, al risultato complessivo.Esso potrà in via di principio essere separato dal contesto emesso in evidenza in se stesso: come quando il ritmo vienematerialmente fatto risuonare a colpi di tamburo accompa-gnando il brano musicale nel suo corso. Dovremmo forse at-tenerci ad una nozione di ritmo tanto parziale e tanto mode-sta? Tutto è stato predisposto in vista di un rifiuto.

Eppure sulle motivazioni del rifiuto è bene fare la mas-sima chiarezza, proprio in vista degli sviluppi, volti in tutt’al-tra direzione, che il nostro argomento riceverà tra poco.

In realtà; nella riflessione filosofica intorno alla musica,l’idea che nel ritmo si abbia a che fare con la musica intera enon semplicemente con una delle sue componenti, per quan-to possa essere considerata importante, si ripresenta di conti-nuo. Ciò richiede che la nozione di ritmo non solo possaestendersi al di fuori dell’ambito specificamente musicale, mache essa possa ricevere una generalizzazione tutta interna a questoambito: solo in questo modo si può pretendere che essa possavalere come nozione che interessa l’essenza stessa della musica.

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Che cosa significa infatti affermare che tutta la musica èritmo, che nel ritmo deve essere ricercato il fondamento dellacostruzione musicale? Affermazioni come queste, proprionella loro generalità, e del resto per la stessa indeterminatezzadella nozione di ritmo, sembrano non comportare un impe-gno teorico troppo preciso, e talvolta la sensazione della lorovacuità e inconsistenza è in realtà più che giustificata. Tutta-via non sempre esse cominciano e terminano nell’entusiasmoche manifestano. Spesso il portare l’accento sulla fondamen-talità della dimensione ritmica rispetto alla musica intera im-plica prese di posizione significative, e non solo sul terrenodella pura speculazione filosofica.

Come abbiamo visto, il primo passo che viene effettua-to, aprendo questa prospettiva di discorso, consiste nel foca-lizzare l’attenzione sul dinamismo del battere e del levare – c’èritmo ogni volta che c’è questa relazione e questa differenza.Ma un’illustrazione di questo dinamismo attraverso le diffe-renze nell’accentazione può valere al più come avviamento delproblema. Ciò che importa è infatti il momento di generalitàimplicato in questo inizio, un momento che richiama lo sche-ma dell’intenzione vuota e del suo riempimento; di un’istanzache chiede di essere soddisfatta; oppure della domanda a cuisegue una risposta, di uno slancio a cui subentra il riposo. C’èlevare ogni volta che c’è tensione che deve scaricarsi, un sensosospeso che deve essere deciso, valenze aperte che debbono es-sere chiuse.

Non può forse un «motivo» essere posto in relazionecon un altro in modo tale che essi possano essere intesi secon-do una simile modalità di rapporto? All’indecisione del «pia-no» si contrappone la decisione affermativa del «forte» – dun-que c’è ritmo nei rapporti tra le configurazioni sonore, dovesono in gioco altezze e differenze di intervallo; ma c’è ritmoanche nel gioco dei rapporti di intensità, c’è ritmo nella riso-luzione della dissonanza nella consonanza, c’è ritmo ovunque,come dicevamo in precedenza, si possa rilevare la differenza

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del battere e del levare considerata nel suo senso generale. O piùprecisamente: ogni possibilità compositiva, che rimanda a suavolta ai diversi parametri del suono, contribuisce al risultatocomplessivo, ed è questo risultato che è propriamente ritmo daparte a parte.

Si comprende allora in che senso abbiamo in precedenzaosservato che sono qui in questione idee che non riguardanosolo un modo generale di concepire la musica, ma anche pro-blematiche più specificamente attinenti alla «forma» della co-struzione musicale. Sullo sfondo vi è certamente l’idea che lacostruzione musicale debba essere una totalità compiuta, orga-nicamente articolata, idea che può essere elaborata badando inparticolare alle condizioni interne di questa organicità e diquesta articolazione. In questo modo, il principio del ritmo –dunque la differenza del battere e del levare – può diventareprincipio di unità e di organizzazione. La tematica del ritmo siincontra e si sovrappone così alla tematica della forma, inquanto in essa si chiede una logica interna nella connessionedelle parti. Questa logica interna deve tener conto del fattoche la totalità qui in questione è una totalità diveniente. Ed èper questo aspetto che il problema del ritmo resta – nono-stante tutto – collegato alla tematica temporale. Anzi è possi-bile sostenere che il suo principio sia da interpretare proprioin stretto rapporto con l’idea di una totalità che si va facendonel decorso temporale. Essa non c’è fin dall’inizio: ma allora ènecessario che essa si presenti anzitutto in un’essenziale in-completezza – ecco lo slancio – e non come una incompletezza«morta», ma come un’incompletezza che si manifesta esigendo lapropria integrazione. L’idea della forma che sembra imporsicon evidenza è dunque l’idea di una forma-che-si-chiude – edecco il riposo. L’opera è nel suo insieme niente altro che unacadenza. Questo principio dell’organizzazione che riguardal’insieme è ovunque attivo nel corso dello sviluppo rifrangen-dosi in molteplici modi all’interno dei rapporti tra le parti. Èil caso di rammentare in proposito, solo di sfuggita, le vecchie

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analisi formali delle connessioni motiviche tutte tese alla ri-cerca di «frasi» articolate in «domande» e «risposte»: in esse,più profondamente dell’analogia linguistica che può certo in-teressare per il suo richiamo ad un senso poggiante sulla coe-renza interna, agisce proprio una simile idea della ritmicità81.

Eppure se riconsideriamo con attenzione questi sviluppinon possiamo affatto dire che le oscurità e le difficoltà delproblema si siano realmente attenuate. Nessuna proposta èstata infatti avanzata per un impianto preliminare della que-stione del ritmo che ci consenta poi di dare una risposta sod-disfacente agli interrogativi che possono essere sollevati nelcorso della nostra esposizione. Che ne è, ad esempio, dopotutto quanto si è detto, del rapporto tra il tema del ritmo equello della temporalità? In che modo questo rapporto puòancora essere considerato centrale alla luce di una nozione ge-neralizzata della dimensione ritmica, sia pure mantenuta al-l’interno dell’ambito musicale? Qual è il senso effettivo dellenostre osservazioni sull’organicità della costruzione musicale esull’idea della forma a cui essa rimanda? Non traspare forse daesse l’azione di modelli strutturali particolari che potrebbe li-mitare la loro portata fuorviando da una corretta impostazio-ne dei termini del problema?

In realtà si tratta di problemi che attendono ancoraun’effettiva elaborazione.

81 Si veda esemplificativamente il Trattato di forma musicale di GiulioBas che risale al 1913 e che è stato fino a oggi continuamente ripubblicatodall’Editore Ricordi. Per un breve aggiornamento in rapporto a questa proble-matica, si veda J.J. Nattiez, op. cit. , p. 123

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§ 5

Nel corso della nostra esposizione, e in particolare nei nostriesempi, ogni volta che si è sottolineata la «vitalità» del ritmo,si sarebbe certamente potuto rammentare che già nel coniostesso della parola è impresso il rimando ad una fluente mo-bilità. Etimologicamente la parola riconduce al verbo grecor(e/w, scorrere, fluire.

Eppure la nostra rimessa in discussione della nozionepuò cominciare proprio facendo notare che gli stessi esempi –contenendo per lo più l’idea della ripetizione – segnalano an-che la presenza di un elemento di rigidità, e persino di mono-tonia, come quando si tende a chiamare ritmiche, sequenzenelle quali lo stesso «motivo», in una cancellata o in una pa-vimentazione, viene più volte ripetuto senza variazioni oppurevariato appena, e non in modo casuale, ma secondo una re-gola fissa. Identità, fissità, monotonia, ripetizione – tutto ciòpuò forse appartenere senza problemi al fluire del ritmo? Sem-bra anzi che si debba essere colpiti da una dura opposizione,che tanto più diventa evidente quando, messi da parte gliesempi organicistici, facciamo notare che la parola ritmo puòessere applicata anche nel caso di movimenti inequivocabil-mente meccanici: non si può forse parlare di ritmo per il ru-more di una pressa, di un orologio, di un treno in corsa?

Sarebbe in realtà un errore cercare di attenuare la por-tata di questa opposizione, magari tentando di suggerire chela rigidità «meccanica» possa essere soggettivamente appresanella forma «organica» della pulsazione. Ci sembra invecemolto più interessante aumentare il peso di questa opposizio-ne gettando uno sguardo sulla storia della parola che mostracon singolare chiarezza fino a che punto essa faccia parte dellesue vicende interne.

Abbiamo accennato or ora all’appartenenza della parola,dal punto di vista etimologico, a un’area semantica a cui ap-partiene il verbo r(e/w. Questo etimo viene rammentato di

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continuo nella manualistica corrente, in realtà con scarso di-scernimento e senza effettiva cognizione di causa, come subitovedremo. Stando a esso, l’accento viene a cadere sulla coesio-ne di un movimento privo di interruzioni e di lacune. Latemporalità sembra dunque venire in questione anzitutto co-me temporalità continua – ciò è direttamente suggerito dall’im-magine acquorea del ritmo. Talvolta questa connessione eti-mologica viene sostenuta anche da una sorta di ingenuo natu-ralismo nella formazione dei concetti, come se il pensiero ce-lato nella parola fosse sorto anzitutto dalla contemplazione delmoto delle onde marine che si infrangono sulla battigia.

Ma il fatto è questo: il collegamento tra r(uqmo\j er(ei=n tra il nome ritmo e il verbo scorrere proposto in unasimile immediatezza, la pura e semplice constatazione di unaradice comune non fornisce di per sé alcuna interpretazione epuò essere addirittura fuorviante se non viene integrata da piùcomplesse considerazioni riguardanti i contesti effettivi di im-piego delle parole.

Su tutto ciò ha richiamato l’attenzione Emile Benvenistein un breve e notevole saggio intitolato La nozione di ritmonella sua espressione linguistica82.

Possiamo prendere le mosse – osserva Benveniste – pro-prio da questo vecchio luogo comune che vede ritmo nell’on-da marina: ma anzitutto il mare non «scorre» – non si usa maiil verbo r(e/w per le onde del mare. Ciò che scorre è, se mai, ilfiume, e potremmo stabilire con effettiva convinzione un le-game tra questo modo dello scorrere e il concetto di ritmo? Inrealtà, r(uqmo/j, nei suoi impieghi più antichi, non si applicamai nemmeno allo scorrere dell’acqua in genere. «Tuttal’interpretazione si basa su dati inesatti»83.

Prima di Benveniste la questione era già stata segnalata

82 E. Benveniste, Problemi di linguistica generale, tr. it. di M.V. Giuliani,Il Saggiatore, Milano 1971, pp. 390-399

83 Ivi, p. 391.

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con particolare decisione da Werner Jaeger, ed è assai singola-re che nel saggio di Benveniste non vi sia traccia di un antece-dente così importante84. In Jaeger la questione si pone nelcommento di un verso di Archiloco, nel quale il poeta rivolgea se stesso l’esortazione a non menare troppo vanto delle pro-prie vittorie ed a non lamentare le proprie sconfitte, dal mo-mento che dobbiamo ben conoscere «quale ritmo tenga vin-colati gli uomini»85.

Commentando questo passo, Jaeger non ritiene di dovermettere in evidenza il motivo di un’alternanza riferita allesorti umane come ciò che potrebbe giustificare l’impiego dellaparola «ritmo», quanto piuttosto l’idea che questa alternanzarappresenti per l’uomo un vincolo. Di conseguenza egli sotto-linea il fatto che non bisogna vedere nel senso della parola«quel fluire che per la concezione moderna deve esser conse-guenza naturale della ritmicità e che suole appoggiarsi ad unaderivazione linguistica da r(e/w, scorrere»86.

Si tratta invece di ricercarne il senso proprio in direzionedell’idea di un freno, di un impedimento, idea che è presentenell’applicazione della parola in contesti non musicali ai qualid’altronde occorre riferirsi, secondo Jaeger, anche per illustra-re in che senso deve essere intesa la nozione propriamentemusicale. Questa linea interpretativa poggia naturalmente suvari esempi, alcuni dei quali particolarmente netti. Così inEschilo, Prometeo dice di se stesso: «io sono qui serrato inquesto ritmo», alludendo alle catene dalle quali è «tenuto im-mobile»; mentre di Serse si dice, nei Persiani, che egli preten-deva di dare un ritmo alle acque dell’Ellesponto, significando

84 W. Jaeger, Paideia, tr. it. di L. Emery, La Nuova Italia, Firenze 1953,vol. I, pp. 239-241.

85 Ivi, p. 239. (Le parole di Archiloco nel frammento 67a, sonogi/gnwske dÚoi(=ouj r(usmo/j a)nqrw/pouj e/)xei)

86 Ivi, p. 240

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con ciò l’idea di imbrigliarle, frapponendo al loro scorrere unabarriera87.

Commenta Jaeger: «Evidentemente non si tratta diun’immagine presa dalla musica quando i greci parlano delritmo di un edificio o di una statua e l’intuizione prima chesta a fondamento della scoperta greca del ritmo nella danza enella musica non è del pari il fluire, ma all’opposto la saldezzae la rigorosa limitazione del movimento»88.

Non flusso dunque, ma barriera al flusso; non fiume, madiga. Non poteva forse essere maggiormente marcata l’ideache con la nozione di ritmo non si ha tanto a che fare con laliberazione di energie, quanto con il loro controllo.

Le considerazioni svolte da Benveniste, pur prendendole mosse dalla critica di una riconduzione ovvia del ritmoall’idea dello scorrere e dal riconoscimento della necessità diun’interpretazione più profonda, assumono tuttavia un’incli-nazione sensibilmente diversa.

In primo luogo, Benveniste dà il massimo rilievo al sen-so che la parola «ritmo» riceve in un contesto filosofico, e pre-cisamente nella filosofia atomistica di Leucippo e di Demo-crito89. Il primo punto interessante da mettere in rilievo è chequesta parola non contiene, almeno in apparenza, alcun rife-rimento diretto al movimento. Piuttosto essa sembra riferirsiad un tratto distintivo o ad un insieme di tratti distintivi chedifferenziano e contraddistinguono le cose (e gli atomi) –quindi essa va annoverata tra le parole indicative della forma.Così una lettera alfabetica si contraddistingue da un’altra – illoro schema è diverso, e proprio questa parola sch=ma è impie-gata da Aristotele per indicare il ritmo di cui parlano gli ato-misti.

87 Ivi. Aesch. Prom. 241 (e)rru/qmismai); Pers. 747 ( po/ron meter-ru/qmize).

88 Ivi, p. 241.89 E. Benveniste, op.cit., p. 391.

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Questo significato viene messo alla prova da Benveniste,a partire da questo impiego filosofico specifico che egli consi-dera particolarmente importante, sino a un’esemplificazionepiù ampia e varia. L’idea del ritmo come «forma distintiva»,come «assetto caratteristico delle parti in un tutto»90 sembra po-ter essere considerato come centro delle fluttuazioni di signifi-cato che consentono di fare riferimento sia all’aspetto esterno,richiamando eventualmente le configurazioni visive, e in essele proporzioni e i rapporti, sia ai tratti psicologici personali,quando la parola si richiama piuttosto a inclinazioni e disposi-zioni che formano il carattere, che del resto può essere intesocome lo schema psichico di una persona91.

Ciò non significa tuttavia che la nozione di ritmo sia daconsiderare come totalmente priva di rapporti con il tema delmovimento. Secondo Benveniste occorre infatti rendere inogni caso conto della sfumatura di senso che suggerisce indeterminati contesti l’impiego della parola «ritmo» in luogo dialtre parole che indicano anch’esse la forma. Proprio in rap-porto a questa sfumatura il legame tra r(uqmo/j e r(e/w ched’altronde «non si presta di per sé a nessuna obiezione», es-sendo la critica rivolta piuttosto «al significato inesatto dir(uqmo/j che ne era stato dedotto», può nuovamente essere ri-preso e diventare significativo92.

Si pensi allora non già alla forma come una figura sta-bilmente riferita ad un oggetto e che ha a sua volta la fissità ela stabilità di una cosa, quanto alla forma assunta da qualcosadi mobile e di fluido quando questa mobilità viene fissataall’istante. Per un simile concetto della forma è appunto par-ticolarmente adatta la parola r(uqmo/j. Così possiamo dire di

90 Ivi, p. 393.91 Ivi, p. 394. Si noti che la frase precedentemente citata di Archiloco

viene resa da Benveniste: «Impara a conoscere le inclinazioni che dominano gliuomini». E gli esempi precedentemente citati tratti da Eschilo vengono intesi inmodo tale da far cadere l’accento sulla tematica della forma (cfr. Ivi, p. 394).

92 Ivi, p. 395-96.

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un mantello gettato per avvolgere il corpo che esso assumeuna forma che è subito pronto ad abbandonare. La forma nonè qui altro che movimento rappreso, essa è ad un tempo rigidae precaria, immobile e sospesa nel movimento da cui provienee in cui subito può sciogliersi.

Secondo Benveniste, questa sfumatura di senso rendeconto da un lato dell’applicazione del termine nel quadrodella filosofia atomistica nella quale si è interessati a «descrive-re delle ‘disposizioni’ o ‘configurazioni’ prive di stabilità o ne-cessità naturali o derivanti da una sistemazione sempre sog-getta a cambiamento»93; dall’altro prepara l’applicazione deltermine nel campo musicale sancita da Platone che, con la suafamosa definizione del ritmo come «ordine del movimento»,riprende e rinnova il significato tradizionale94.

§ 6

Dopo aver tanto girovagato nei dintorni del problema, vo-gliamo ora tentare di chiarire entro quali termini esso potreb-be essere proposto in coerenza con la nostra impostazione diprincipio e rendendo esplicite le prese di posizione che eranocertamente già presenti nella discussione che abbiamo con-dotto fino a questo punto. È appena il caso di dire che questochiarimento, seguendo del resto lo stile complessivo del no-stro lavoro, non può andare oltre il progetto di stabilire unmodo di approccio al problema, una sorta di preparazione adesso, aperta ad ogni approfondimento e miglioramento.

Anzitutto converrà mettere in ombra gli impieghi ex-

93 Ivi, p. 396.94 Ivi, p. 398. Secondo Benveniste, da un lato è ancora presente in Pla-

tone l’impiego della parola nel senso di «forma distintiva», dall’altro egli operaun’innovazione «applicandola alla forma del movimento che il corpo umanocompie nella danza e alla disposizione delle figure nelle quali si risolve il movi-mento».

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tramusicali della parola «ritmo», o in ogni caso la presenza,anche nell’impiego in ambito musicale, di analogie che rin-viano ad un piano che si trova al di fuori di esso. Per quantoquesti impieghi possano essere ricchi di idee, non è affattochiaro in che modo potremmo trarre profitto da essi, ed èperciò opportuno sperimentare la possibilità di un riesameche abbia fin dall’inizio di mira il problema del ritmo comeun problema specificamente musicale. Debbono dunque esse-re messe da parte tutte quelle impostazioni gravitanti su moti-vi organicistici e vitalistici così come anche quelle concezioniche, riprendendo il tema dell’organicità, tendono a ricondurrela questione del ritmo nel quadro dei problemi della formamusicale in genere.

Siamo invece interessati a portare in primo piano unaspetto che, in tutte le nostre considerazioni precedenti, erasolo sullo sfondo, se non addirittura respinto ai margini.

Fin dall’inizio, e poi qui e là nei nostri sviluppi, è affio-rata, ma in negativo, una nozione di ritmo a tambur battente,che ci siamo affrettati a definire povera e modesta, quasi cheun simile riferimento nuocesse allo sviluppo delle nostre con-siderazioni. Ma forse era già chiaro allora che una rimessa indiscussione del problema deve, a nostro avviso, prendere lemosse proprio di qui. Ora dobbiamo dire a tutte lettere: sevuoi sapere qualcosa intorno all’essenza del ritmo, chiedilo allepercussioni.

Del resto non si dice forse che le percussioni sono stru-menti ritmici per eccellenza? Si tratta di un’opinione comuneche deve tuttavia essere apertamente rivendicata, dal mo-mento che, nella riflessione filosofica, non riceve affatto inrapporto al problema del ritmo quell’importanza che sembraessere ad essa garantita in via di principio. D’altra parte, se civenissero chieste le ragioni di quell’opinione, la risposta nonsarebbe forse tanto pronta quanto lo è l’accettazione di quelluogo comune. Che cosa implica o che cosa insegna intorno alconcetto di ritmo l’affermazione che fa delle percussioni stru-

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menti ritmici per eccellenza? E vi è persino un modo di frain-tendere, in una direzione inversa, questo nostro punto di av-vio, avanzando il sospetto che esso sottintenda la sottovaluta-zione, caratteristicamente europea, delle straordinarie poten-zialità espressive delle percussioni, che solo la produzione mu-sicale più recente ha cominciato a porre in rilievo: come seaffermando la loro eccellenza ritmica si affermasse anche unloro limite essenziale95.

E invece non è così: si tratta semplicemente del fatto chese ci venisse chiesto di indicare uno strumento particolar-mente «capace» in rapporto al ritmo, non indicheremmo ilflauto, il corno o il violino, ma proprio il tamburo dalla pelled’asino: e ancora meno.

Se crediamo di avere ragione a rispondere così, do-vremmo essere in grado di fornire le motivazioni da cui sipossa trarre il filo conduttore principale per i chiarimenti dicui siamo alla ricerca.

In che cosa dunque consiste quella peculiarità, quelladifferenza che suggerisce questa risposta? Un primo punto èsubito chiaro: noi attiriamo l’attenzione non tanto su questa oquella peculiarità timbrica, anzi da queste peculiarità, che so-no attinenti alla materia sonora, noi vogliamo esplicitamenteprescindere: ma sulla possibilità del suono percussivo di essereanzitutto battito e colpo. Questa possibilità chiama in causa,

95 G. Rouget, Musica e trance, Einaudi, Torino 1986, p. 108: «Nelle re-gioni in cui si parlano le lingue toniche, il linguaggio tambureggiato permette altamburo di servire da strumento melodico e di sostituirsi al canto. Indipenden-temente da questo caso particolare, lo si può suonare in modo così espressivo cheil tambureggiamento può divenire... melodia di timbro, di accento e di intensità.D’altro canto, se il tamburo appare come lo strumento maggiormente utilizzatoper la musica di possessione, è perché può essere tanto melodico quanto ritmi-co...», G. Kubik, «Capire la musica nelle culture africane», ne Il senso in musica,Clueb, Bologna 1987, p. 285: «Se il punto di vista è quello della cultura musi-cale del ricercatore, si tenderà a vedere nelle altre culture soprattutto quegliaspetti che trovano un equivalente in essa. Così la musica di tamburi africana èstata a lungo studiata nell’ottica del ‘ritmo’, trascurando le sequenze timbriche etutto ciò che esse comportano».

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ancora una volta, il tema della temporalità, ma secondo un’an-golatura interamente diversa rispetto a quella dalla quale queltema è stato considerato sino a questo punto. Si è parlato inprecedenza soprattutto della durata – e proprio per questo iltema della temporalità è stato proposto prevalentemente se-condo l’angolatura da essa suggerita: si è parlato dunque delsuono eveniente e del modo di intendere il suo trascorrere. In-vece il suono che è un colpo contiene una tendenza ideale all’i-stantaneo e ad esso possiamo attribuire un’importanza esem-plare proprio per la sua contrapposizione al suono come feno-meno di evenienza.

Prendiamo attentamente in esame questo punto. Il temadell’evenienza, lo abbiamo sottolineato più di una volta, èstrettamente connesso con quello della continuità. Ma all’unoe all’altro è certamente connesso anche il tema del silenzio.Naturalmente non avrebbe senso parlare del silenzio come diun fenomeno di evenienza, ma esso potrebbe indubbiamenteessere concepito come il suo calco negativo, come una puratemporalità fluente vuota che il suono eveniente non fa altroche saturare senza lacune. Il tema della continuità era del restogià presente nell’immagine del foglio bianco, indifferenziato eperfettamente omogeneo, con cui sono cominciati tutti i no-stri discorsi. A quell’inizio converrà ricollegarsi anche per illu-strare ciò che abbiamo chiamato or ora l’esemplarità del colpo.

Riportare il problema del ritmo al suono percussivo nonsignifica soltanto ribadire l’appartenenza del problema all’areadelle considerazioni attinenti alla forma temporale – apparte-nenza così spesso riconosciuta e altrettanto spesso attenuata eindebolita: con i loro colpi le percussioni ci avvertono, conuna chiarezza che riusciamo a ottenere solo a questo punto,del fatto che una discussione sul ritmo non può nemmenoavere inizio se si misconosce l’importanza che riveste, per cir-coscrivere quella nozione, la discontinuità temporale. Il suonoche rompeva il silenzio nelle nostre pagine iniziali era certa-mente anzitutto un colpo.

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Nella continuità non c’è ritmo, non c’è ritmo nel silen-zio, naturalmente – ma nemmeno nel suono soltanto fluente.Dovremmo dire allora che c’è ritmo nel colpo, e addiritturanel singolo colpo che risuona nel silenzio? Siamo tentati di ri-spondere che il problema del ritmo comincia esattamente aquesto punto. Il senso di questa risposta ha tuttavia bisogno diuna precisazione: nel suono che è un colpo noi non vediamoun modo d’essere qualunque del suono. Nell’istantaneità delsuono percussivo, nel suo sbucare dal silenzio spezzando lacontinuità di un flusso temporale vuoto, noi vediamo essen-zialmente l’accadere del suono, vorremmo poter dire: nel colpoun suono accade e contrapporre dunque al suono eveniente ilsuono che è caso ed evento. Infatti, tutto ciò che accade comin-cia e finisce – proprio in questo consiste l’essenza temporaledell’accadere. Qualunque suono è allora un accadimento, diqualunque suono possiamo dire che è anche un suono-evento.Eppure questa essenza temporale deve certo trovare la suamassima espressione nel colpo, in quel suono che si contraenell’istante, che appena cominciato è subito finito: cosicché essonon solo è soprattutto un evento, ma può valere come imma-gine concreta dell’accadere stesso96.

Invece, il suono eveniente, che pur comincia e finisce,potrebbe essere tuttavia da sempre cominciato e non finiremai. Il suono che dura contiene nel suo senso quella libertàdal vincolo con l’accadere che conduce al pensiero filosoficodella sublime e inudibile armonia delle sfere: questo pensieroinsegna che se un suono appartiene all’eterno, allora certa-mente esso è un flusso perfetto, è continuità pura, e anche pro-fondo silenzio.

E così, quando nel silenzio si leva il braccio del percus-sionista, questo gesto è permeato da sensi che vanno oltre il

96 G. Rouget, op. cit. , p. 167: «La musica indica che qualcosa sta succe-dendo; che il tempo è occupato da un’azione in svolgimento, oppure che uncerto stato regna sugli esseri. Ne è un esempio il rullo di tamburo che risuona nelcirco mentre il trapezista esegue un salto mortale».

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realismo della produzione pratica del suono. Peraltro, tutte lenostre considerazioni ci tengono in qualche modo legati aquesto realismo: ciò significa che non siamo affatto dispostiad ignorare che il battere e il levare di cui abbiamo prima di-scorso accennando ad un dinamismo che farebbe parte dell’es-senza del ritmo si possono illustrare anzitutto rammentandol’atto percussivo. Indipendentemente dalle pratiche gestualidel solfeggio, che potrebbero essere molto varie, il gesto cheproduce il suono assume a sua volta l’esemplarità che possia-mo attribuire al suono che viene prodotto. Nella tensione enel dinamismo del gesto si possono cogliere una tensione e undinamismo che riguarda il rapporto tra il suono e il silenzio –essi non sono l’uno accanto all’altro come stati meramentesuccessivi: ma la mano sembra levarsi ad eccitare il silenzio,preannunciando che qualcosa sta per accadere. In questo esse-re del suono nella tensione del silenzio e poi ancora, nel levar-si della mano dopo il colpo battuto, del silenzio nella tensionedel suono, cominciano a delinearsi i contorni del problemadel ritmo.

§ 7

Non è affatto facile allontanarsi da uno strumento a percus-sione dopo aver battuto soltanto un colpo. Si sperimenta in-fatti una singolare coazione a ripetere, come se l’iterazionefosse implicata nella stessa forma del gesto e il resistere all’im-pulso a rinnovare i colpi, al gioco dell’«ancora una volta», ri-chiedesse un autocontrollo troppo severo.

Rinnoviamo, dunque, i colpi! Ma vogliamo farlo realiz-zando una successione nella quale essi si avvicendano mono-tonamente, a intervalli eguali, anziché in modo vario e mute-vole, modificando a piacere ora l’intensità ora la grandezzadegli intervalli.

Ora infatti vorremmo illustrare in che senso si dice che

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il tempo può essere battuto, che con i colpi possiamo scandire iltempo – ed a tale scopo quella forma della successione rappre-senta naturalmente la situazione elementare di riferimento. Adire il vero, il verbo «scandire» è caratterizzato da una certafluttuazione del suo senso in rapporto alla varietà dei suoi im-pieghi correnti e poiché non intendiamo impegnarci in unadiscussione intorno a essi il riferimento a quella situazioneelementare ci serve anche per determinarne l’impiego, e quin-di per operare su di esso una convenzione restrittiva. In se-guito, a questa prima accezione ristretta, e in coerenza con es-sa, si potrà aggiungere una seconda accezione, più ampia.

Naturalmente, espressioni come battere il tempo o scan-dire il tempo hanno un significato del tutto chiaro e privo diproblemi per il musicista e ci si può chiedere persino se sia ilcaso di indugiare su di esse. La riflessione filosofica sulla mu-sica, del resto, ha molto spesso e del tutto a torto trascurato leevidenze che possiamo trarre dalla pratica musicale, benchéqueste evidenze abbiano bisogno di essere riconsiderate conattenzione critica. Le domande che chiedono in che modo siparla del tempo in quelle formulazioni, che cosa significhipropriamente scandire il tempo, se la scansione appartengaall’area del problema del ritmo e in che modo, oppure non viappartenga affatto, richiedono in realtà di essere affrontatecon cautela e contengono più problemi di quanto possa appa-rire ad un primo sguardo.

In realtà possiamo ottenere le indicazioni essenziali co-minciando con il differenziare l’operazione che noi abbiamoconvenuto di chiamare scansione da un’operazione di misura-zione, con la quale essa rischia di continuo di essere confusa.

Non vi è dubbio intanto che scansione e misurazione sia-no nozioni molto prossime l’una all’altra, e in particolare chesia possibile operare una misurazione attraverso una scansio-ne, e dunque attribuire allo scandire il senso del misurare.Proprio a partire da questa prossimità, possiamo tuttavia ri-chiamare l’attenzione sulla differenza.

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Non disponendo di un orologio potremmo valutare unadurata battendo con una bacchetta a intervalli eguali e con-tando i battiti. Vi è qui una unità di scansione che serve diret-tamente come unità di misura del tempo: il fatto che si trattidi un’unità di misura meno affidabile di quella di un orolo-gio, questo può essere considerato come un dettaglio privo diimportanza. In ogni caso disponiamo in questo modo di unapossibilità di valutazione, e potremo effettuare su questa baseconfronti quantitativi tra durate, ad esempio valutare il tempoimpiegato da due corridori per compiere lo stesso percorso. Lascansione è qui interamente prospettata all’interno di un pro-blema di misurazione, ma questa possibilità non toglie laprofonda differenza di principio. Essa la si coglie anzituttobadando al senso dell’una e dell’altra operazione e alle posizio-ni in esso implicite, cioè al modo in cui è intesa l’oggettivitàche esse hanno di mira.

Nella misurazione la temporalità è posta essenzialmentecome quantità e totalità chiusa. Questa totalità viene intesacome suddivisa secondo l’unità di misura prescelta. Si trattadunque, nel misurare, di determinare il numero di questeunità – ed a questo risultato finale è esclusivamente interessatauna procedura di misurazione.

Nel caso della scansione, invece non c’è la posizione dialcuna totalità chiusa, non vi è la posizione di un tratto ditempo la cui quantità debba essere determinata. Di conse-guenza, l’unità di scansione, benché possa fungere da unità dimisura, non è affatto considerata essa stessa come una quan-tità determinata che può essere presa singolarmente e ripor-tata come tale su una quantità più ampia altrettanto determi-nata. Ciò che è l’unità di scansione lo si comprende dal modoin cui essa è proposta: l’unità di scansione non è mai sempli-cemente indicata indicando la grandezza di un intervallotemporale preso nella sua singolarità, ma attraverso la ripeti-zione ecceterata dell’intervallo che deve fungere da unità,dunque dando alla scansione il suo corso.

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Ma se la misurazione mette capo ad una determinazionequantitativa, qual è il risultato di una operazione di scansionequando essa non si trova sotto la presa di un intento misurati-vo? Che cosa si fa quando si scandisce il tempo? In certo sen-so, si tratta qui proprio di afferrare che cosa accade nellamente del direttore d’orchestra in quel momento così caricodi tensione nel quale sta per levarsi il gesto che dovrà dare av-vio all’esecuzione. Se una simile formulazione può sembraretroppo «psicologica», diciamo allora che vorremmo sapere checosa avviene, in rapporto al problema temporale, proprio inquel momento – qual è la condizione da cui quel gesto ci se-para e quale quella a cui essa dà inizio. Ponendoci domandecome queste, appare ben presto chiaro che la temporalità pre-supposta è proprio la temporalità del flusso, il tempo che scen-de a valle con tutti i suoi detriti – il tempo che passa. Quel ge-sto ha allora il senso di un gesto che imperiosamente si frap-pone a questo flusso, quasi ordinandone l’arresto: ma è ancheun gesto che annuncia che quell’andare senza andatura sta perdiventare un cammino.

Il tempo passa. Ora bisogna determinarne il passo.Ed è proprio questo che anzitutto fa la scansione. Essa

non misura il passare del tempo e nemmeno lo suddivide, malo fa diventare un cammino.

Annotazioni

1. Forse la distinzione proposta da Boulez tra tempo pulsato e tem-po amorfo nel saggio «Tecnica musicale», in Pensare la musica oggi,Einaudi, Torino 1979, pp. 87 sgg. può essere interpretata nel qua-dro delle nostre considerazioni, benché essa sia ottenuta in ognicaso seguendo una via ben diversa. Mentre il nostro filo condutto-re è rappresentato dall’esperienza della temporalità e dal gestoconcreto dello scandire, in Boulez quelle nozioni sorgono per tra-sposizione analogica all’interno di una riflessione su ciò che eglichiama «spazio delle frequenze». In rapporto ad una suddivisioneregolare di esso, ottenuta attraverso l’iterazione di un’unità cam-

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pione, Boulez parla di spazio striato – nozione che, trasposta analo-gicamente al tempo, dà luogo all’idea del tempo pulsato, nel quale«le strutture della durata si riferiscono al tempo cronometrico infunzione di una localizzazione, di una assegnazione di rotta – sipotrebbe dire – regolare o irregolare, ma sistematica...» (p. 87);mentre allo spazio liscio, costituito a partire da una suddivisione ir-regolare dello spazio sonoro, può essere fatto corrispondere iltempo amorfo, che è appunto ciò che noi chiamiamo temporalitàdel flusso in opposizione alla temporalità scandita. «La pulsazioneè per il tempo striato quello che il temperamento è per lo spaziostriato» (p. 90). «Il vero tempo liscio è quello il cui controllo sfug-girà all’interprete» (p. 93). «Nel tempo liscio si occupa il temposenza contarlo; nel tempo striato, si conta il tempo per occuparlo.Queste due relazioni mi paiono primordiali nella valutazione teorica epratica delle strutture temporali; sono leggi fondamentali del tempo in mu-sica» (p. 94). Cfr. Cap III par. 5, Annotazione 4.

2. Anche il problema della misurazione può assumere un signifi-cato importante in rapporto al modo di intendere il tempo dellamusica. Basti pensare alla nozione di mensura che riconduce natu-ralmente più alla problematica generale della misurazione che aquella della scansione (cfr. W. Seidel, Il ritmo, il Mulino, Bologna1987, pp. 45 sgg.).

§ 8

Cominciamo ora a intravedere il giusto modo di impostare ilproblema della specificità del «tempo musicale», un problemache non può per nulla trovare un’effettiva elaborazione, comecosì spesso si pretende, dalla contrapposizione del «tempomusicale» al cosiddetto «tempo degli orologi», al «tempo ob-biettivo». Sembra allora subito naturale avviare una sorta dielogio nei confronti del «tempo musicale» che andrà senz’altroricollegato o ad una dimensione «ontologica» su cui si adden-sano molti misteri oppure al tempo degli affetti e della vitainteriore; mentre l’abominevole «tempo degli orologi» verrà

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denunciato come tempo «meccanizzato» e «spazializzato»,come una pura astrazione eventualmente utile dal punto di vi-sta dei bisogni pratici e conoscitivi, ma irrimediabilmentelontano dall’autentica temporalità vissuta. Verso una simileimpostazione abbiamo già mostrato di essere ostili: essa non faaltro che cogliere l’esistenza di differenze senza identificarnel’origine e il senso, e anzi proponendole in un contesto di di-scorso troppo semplice e fuorviante.

Uno dei modi di affrontare questo problema, senza farpesare sulla sua impostazione iniziale concezioni precostituite,è probabilmente quello di mettere in rilievo queste differenzea partire da considerazioni sulla terminologia musicale in uso.In essa la parola «tempo» ha una grande varietà di impieghi espesso una grammatica così particolare da risultare priva disenso o in ogni caso del tutto intollerabile in rapporto alla pa-rola «tempo» nei suoi impieghi correnti.

Un maestro, ad esempio, può chiedere all’allievo di ese-guire un esercizio in tempo più lento o più veloce – questa èun’espressione di senso ovvio nella pratica musicale: l’allievosa perfettamente che cosa deve fare, e anche l’ascoltatore puòrendersi conto di che cosa è avvenuto una volta che quella ri-chiesta è stata assolta.

La terminologia sembra così suggerire che il tempo dellamusica sia diventato qualcosa che può essere liberamente mo-dificato, qualcosa di plastico, di malleabile. Nel discorso cor-rente, invece, non ha affatto senso parlare di un tempo piùlento o più veloce, e un orologio che accelera è semplicementeun orologio guasto. Un metronomo, d’altra parte, è qualcosadi molto simile ad un orologio. Tuttavia esso ha la singolareproprietà di essere guasto se, ad esempio, non mi è possibilefarlo andare «avanti» o «indietro». E allora è certamente qual-cosa di molto diverso da un orologio, o meglio, è impiegato (einteso) in modo diverso. Ma non vi è forse in queste osserva-zioni qualcosa di molto simile ad un sofisma? Guardiamo in-fatti che cosa veramente accade!

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Se ci atteniamo a ciò che risulta da una descrizione ob-biettiva, allora non c’è dubbio che non diremo che il tempo èdiventato, ad esempio, più veloce, ma soltanto, e più ragione-volmente, che sono state abbreviate le durate delle singolenote. Un suono che durava un secondo, ora dura solo mezzosecondo: l’allievo esegue ora in sei secondi ciò che prima ese-guiva in dodici, e noi udiamo lo stesso numero di note in untempo minore.

Questo è tutto: numero di suoni e quantità obbiettiva ditempo sembrano essere gli unici elementi obbiettivamente im-plicati nel problema. Di conseguenza, tutte le espressioni che,alludendo alla malleabilità del tempo, sono certamente in-compatibili con la grammatica corrente della parola, sarebbe-ro da intendere come metafore inessenziali, dal momento cheesse non colgono alcun elemento che appartenga alla realtàdella situazione.

Eppure si tratta di un modo di argomentare profonda-mente sbagliato. Non già che non sia lecito fornire una de-scrizione obbiettiva, e nemmeno si può sostenere che quelladescrizione sia scorretta: obbiettivamente accade proprio così.Ogni brano musicale occupa un segmento del tempo obbiet-tivo che può essere ovviamente misurato dai nostri orologi: isuoni che fanno parte di esso sono di numero determinato eciascuno ha la propria durata obbiettiva.

Tuttavia fa parte della realtà della situazione anche ilfatto che, quando odo ventiquattro suoni non odo che sonoventiquattro, così come quando odo un suono che dura quat-tro secondi non odo che esso dura quattro secondi, anche se po-trei, udendo, pormi il problema del numero dei suoni, cosìcome potrei tentare una valutazione della durata di una notaespressa in secondi. La conseguenza di ciò è che la richiestadel maestro non è affatto formulata in termini impropri, co-me se essa potesse essere meglio formulata in termini obbietti-vi: invece la formulazione obbiettiva sopprime il punto essen-ziale, e precisamente il riferimento implicito alla scansione, so-

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stituendo ad essa il problema del tutto diverso di una misura-zione. E mentre facendo riferimento alla scansione si proponesoltanto il compito perfettamente determinato di un muta-mento dell’unità di scansione, con quella sostituzione il com-pito stesso diventa indeterminato e impraticabile: la relazionesoggettivamente istituita con la temporalità non può esseresoppressa, anzitutto perché in essa è in questione il temposcandito.

Per tutti questi motivi si può fondatamente affermareche il «tempo musicale» non è il «tempo obbiettivo», che vi ètra l’uno e l’altro una profonda differenza di principio. Ma sa-rebbe anche erroneo risolvere l’intera tematica del «tempomusicale» come se fossimo alla presenza di due nozioni ditempo che non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra e il«tempo musicale» fosse caratterizzato da proprietà e attributispecialissimi. In questione è infatti essenzialmente la distin-zione tra una temporalità pensata nella sua obbiettività comepassibile di operazioni di misurazione e ciò che della proces-sualità temporale arriva a manifestarsi nella concreta proces-sualità della musica.

§ 9

Nelle nostre considerazioni intorno alla scansione si effettuaun passaggio particolarmente importante al fine di delinearela nozione di ritmo.

Colpo dopo colpo, a intervalli eguali, abbiamo comin-ciato a scandire il tempo. Quest’azione così elementare superainteramente il terreno del semplice accadere dei suoni, deglieventi sonori «casualmente» risuonanti, e ci pone direttamentedi fronte all’altro polo del nostro problema: attraverso la mo-notonia dell’iterazione si realizza una vera e propria schematiz-zazione della temporalità. Ora i colpi non fanno altro che ma-terializzare uno schema proiettato sul decorso temporale.

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Il percorso che abbiamo seguito rappresenta così unmodo elementare per introdurre le nozioni dell’evento e delloschema che possono essere considerati come casi estremi checircoscrivono l’area della problematica del ritmo. Nel ritmoabbiamo a che fare con eventi sonori e schematizzazioni tempo-rali.

Il compito su cui si può concludere la nostra discussioneè ora quello di illustrare il senso effettivo di questa formula-zione, richiamando attraverso di essa i motivi principali chesono in precedenza emersi.

Vogliamo anzitutto notare che la parola «schema», cheappartiene del resto, come abbiamo visto, alla storia del pro-blema, è stata da noi impiegata anzitutto in rapporto allascansione; ma non è certamente vincolata ad essa. Consideratasotto questo riguardo, la scansione assolve la funzione di for-nire una situazione esemplificativa estrema, una situazionedunque che, dando la massima evidenza alla nozione di sche-ma, si presta particolarmente alla sua introduzione. Conschema vorremmo infatti intendere semplicemente qualcosache viene ripetuto e per il fatto che viene ripetuto.

Ad esempio, la lettera alfabetica

H

verrà detta schema qualora venga coimplicata, nel modo diintenderla, la possibilità della sua iterazione:

HHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH

Uno schema ha dunque carattere di modulo nel senso in cui

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gli architetti usano talvolta questa espressione (e qui intrave-diamo nuovamente debordare la nozione di ritmo al di fuoridel campo musicale).

Questa nozione è esemplificata nel modo più stretto edelementare proprio dalla scansione, nella quale l’unità sche-matica di base, il modulo, è proprio null’altro che l’unità discansione. Ma è naturalmente importante notare che possonodarsi schemi più complessi, che potranno eventualmente so-vrapporsi alla schematizzazione indotta dalla scansione, cosìcome un grafema più o meno complesso può sovrapporsi ite-rativamente ad una quadrettatura uniforme. È interessanteinoltre sottolineare che, dopo aver introdotto la nozione gene-rale di schema sulla base esemplificativa della scansione nel-l’accezione ristretta del termine, è possibile proporre una se-conda accezione nella quale viene operata coerentemente lasua generalizzazione. Con scansione potremmo allora intende-re, in generale, un’operazione tesa a dare rilievo ad una qualun-que modalità di schematizzazione del decorso temporale.

Annotazione

Proprio per il fatto che in tutto il corso della nostra esposizioneabbiamo scientemente evitato di sollevare il problema, di grandeimportanza storica e teorica, dei rapporti tra ritmo e «prosodia» etenendo conto dell’accezione generale di scansione ora introdotta,è forse utile richiamare l’attenzione sulla definizione di scansioneproposta da Mario Ramous in La metrica, Garzanti, Milano 1984,pp. 221-222, nella quale si accenna anche, al termine, ad un pro-blema che può essere considerato come parallelo al problema mu-sicale del fraseggio: «scansione, tipo di esecuzione che mette in lu-ce la legge di distribuzione degli ictus o degli accenti e tutti gli altrifenomeni e figure che compaiono nel verso, permettendo il rico-noscimento dei fatti metrici e ritmici, che, per la ragione di porsi afondamento della sua metricità, gli sono pertinenti... Per quantoartificiale e con ufficio strettamente propedeutico... questa scan-sione non è operazione arbitraria, perché si limita a rendere palesi

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le regole di costruzione insite nei versi. Va tuttavia da sé che nonsi deve intendere la scansione come la lettura concreta di un verso,né tanto meno l’unica lettura ‘corretta’. Al contrario, l’esecuzionecomporta il rispetto di altri fattori (sintattici, semantici, eufonici,di legatura o spezzatura, ecc.), che assumono spesso rilevanzamaggiore, e in ogni caso può variare, entro certi limiti, da soggettoa soggetto».

§ 10

Vogliamo ora mostrare che le forme fondamentali di schema-tizzazione sono riconducibili al duplice aspetto temporale delsuono come evenienza e come evento.

Come sappiamo, parlando di evenienza abbiamo so-prattutto a che fare con il tema della durata, cosicché una se-quenza qualunque di suoni, uditivamente dominabile nellasua identità in modo da poter avvertire la sua iterazione, puòessere considerata come un esempio di schema, e precisa-mente di uno schema che poggia sui rapporti tra le durate deisuoni da cui la sequenza è costituita.

In questione è qui soprattutto la quantità di tempo, ilfatto dunque che un suono può essere più lungo o più brevedi un altro, può durare la metà, il doppio, un terzo, ecc. diuna determinata unità assunta come unità di scansione. Ineffetti, mentre il parlare di quantità di tempo sembra attirarel’attenzione in direzione della misurazione, è opportuno ram-mentare le ambiguità già messe in evidenza nella discussioneintorno al problema dello scandire e del misurare: anche glischemi di durate vengono colti processualmente e le conside-razioni che abbiamo richiamate in precedenza per contraddi-stinguere scansione e misurazione si possono ripetere qui sen-za modificazioni. Sottolineare questo punto è evidentementeimportante anche per richiamare l’attenzione sul fatto cheuno schema di durate non è qualcosa di simile alla suddivi-

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sione di uno spazio dato in parti che intrattengono tra lorodeterminati rapporti, ma le strutture degli schemi ed even-tualmente il loro vario avvicendamento sono componenti es-senziali del dinamismo musicale. L’elemento tendenzialmentestatico non sta evidentemente nella struttura dello schema,ma nell’attualizzazione del carattere di schema, cioè nella suaiterazione.

Ma una forma fondamentale di schematizzazione puòessere ricollegata anche al tema del suono come evento. In es-sa si tratta proprio della differenza tra il battere e il levare nellaquale si è così spesso voluto scorgere la quintessenza del rit-mo, la dimensione ritmica per eccellenza. Questa differenzasembra tuttavia opporsi con tenacia e con successo a ognitentativo di illustrarne con chiarezza i termini ed è esposta,come abbiamo già visto, a un’estensione e ad una generalizza-zione tale da rendere problematica la sua stessa consistenza.Attestandoci sul versante della pratica musicale, probabil-mente non si incontrerebbero troppe obiezioni qualora siproponesse di caratterizzare la differenza del battere e del leva-re ricorrendo, con qualche spiegazione integrativa, alla nozionedi accento. Ma proprio nel momento in cui dovremmo accin-gerci a quella spiegazione integrativa che dovrebbe evitareogni malinteso, cominciano le difficoltà: ciò che si deve in-tendere con «accento», quando questa espressione viene im-piegata in rapporto alla dimensione propriamente ritmica, re-sta profondamente oscuro dal punto di vista concettuale.

Possiamo forse trarre in proposito qualche utile indica-zione dalla sua applicazione nell’ambito del linguaggio verba-le? Non ne siamo troppo convinti. Certamente, tutti sappia-mo che cosa fare quando dobbiamo porre l’accento sulla vo-cale di una parola: eppure non è affatto facile stabilire che co-sa realmente facciamo quando operiamo così. Da un lato siaffaccia subito l’idea che la differenza tra vocale accentata enon accentata possa essere ridotta ad altri parametri obbiettiviindiscutibili, come l’altezza, la durata o l’intensità, dall’altro

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dobbiamo anche riconoscere che una simile riduzione appar-terebbe eventualmente all’ordine delle assunzioni ipotetico-esplicative, dal momento che la vocale accentata viene coltacome vocale accentata, e non dunque come suono più lungo,più intenso o più acuto, oppure come il risultato di un’intera-zione complessa di questi fattori.

Potremmo allora fare riferimento al linguaggio verbalesolo per attingere da esso la nozione di accentazione, tantochiara quanto lo è a scopi pratici, domandandoci in che modopotrebbe essere concepita la sua trasposizione in ambito musi-cale. Volendo dare un senso alla differenza tra suono accen-tato e suono non accentato non potremmo forse semplice-mente riportarla ad una differenza di intensità? Una similedecisione non mancherebbe certo di evidenza. E anche di in-genuità – come si osserverà subito. Ciò che infatti deve subitoessere insegnato è che l’accento «in senso ritmico» è qualcosadi diverso dall’accento «intensivo», cioè dall’accento ottenutoattraverso una qualunque pratica di aumento dell’intensità delsuono. Il primo riguarda la forma di movimento di una se-quenza di suoni internamente strutturata, il secondo invece lapura e semplice differenza del forte e del piano.

Si affaccia così l’idea che all’«accento» in senso ritmicosia affidato ad una differenziazione eterea, evanescente, legatapiù al modo di intendere una sequenza che al modo in cui es-sa è fatta. È significativo a questo proposito il richiamo esem-plificativo, ripetuto infinite volte e diventato una sorta di luo-go comune, all’onomatopea del tichettio dell’orologio: questaonomatopea che istituisce una differenza tra i battiti («tic-tac») manifesterebbe una sorta di tendenza dell’orecchio adanimare ritmicamente, attraverso la posizione di una differen-za soggettivamente indotta, una sequenza di suoni di per séinanimata.

Noi vogliamo invece guardare quell’ingenuità con rin-novato interesse filosofico. A ciò siamo del resto indotti dallarisposta che forse darebbero alla nostra questione le percus-

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sioni: con le percussioni, se mettiamo da parte la possibilità dioperare sulla pura differenziazione timbrica, l’accento lo si ot-tiene soprattutto con la forza del colpo. In ciò dovremmo for-se vedere un’ulteriore conferma di quella pretesa incapacità difraseggio che sarebbe di per sé sintomo evidente di una no-zione grossolana e triviale di ritmo di cui esse sarebbero por-tatrici? Al contrario: si pone qui la necessità di una riconside-razione del problema dell’accentazione come intensificazioneda un punto di vista interamente nuovo. Occorre del restonotare che, mentre è certamente giusto non confonderel’accentazione «ritmica» con il puro e semplice aumento diintensità, sarebbe tuttavia sbagliato affermare che l’una cosanon ha nulla a che vedere con l’altra. Vi è invece tra differen-ziazione ritmica e differenza di intensità una qualche impor-tante forma di rapporto, come del resto è attestato dal fattoche un accento «intensivo» può rafforzare un accento «ritmi-co» oppure può entrare con esso in conflitto svolgendo in en-trambi i casi un’importante funzione ritmica.

Per avviare una simile riconsiderazione, è opportuno an-zitutto dare il massimo rilievo ad un aspetto che, per ragioniinterne alla nostra esposizione, è rimasto fin qui un poco inombra: si tratta della doppiezza dei suoni percussivi, che da unlato sono autentiche sostanze sonore, concrezioni sonore pie-ne e complete, nell’enorme varietà delle loro differenze mate-riali, dall’altro, proprio in questa loro materialità e concretez-za, possono essere intesi come rappresentativi di una tramaastrattamente temporale. Ma allora una simile doppiezza si ri-fletterà anche nell’ambito del nostro problema. Perciò quandosi suggeriscono la forza e la debolezza del suono come fattoriche caratterizzerebbero la differenza dell’accento e della man-canza di accento, e proprio in rapporto alla dimensione ritmi-ca, in ciò dobbiamo essere in grado di cogliere non già la puradifferenza di intensità, ma il suo senso rappresentativo.

Nel suono forte dobbiamo vedere un’enfasi posta sulsuono, così come nel suono debole un’allusione al silenzio.

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A questo punto diventa chiaro in che modo possiamofornire un’interpretazione del battere e del levare in terminiessenzialmente temporali e in che modo una simile interpre-tazione può essere ricollegata al tema del suono-evento. Que-sto legame era naturalmente già presente quando abbiamo ri-portato quelle espressioni al gesto del colpire, inteso a suavolta non tanto come gesto concretamente effettuato, ma co-me gesto rappresentativo del rapporto dinamico ed energeticonel quale accadono suoni. Tutto ciò si ripresenta ora in unaprospettiva interamente nuova. Abbiamo mostrato che il par-lare di accenti e di una schematizzazione corrispondente nonbasta e che occorre invece cogliere nell’accentazione la presen-za dell’opposizione e della tensione tra il suono e il silenzio.La nozione del suono come evento può allora essere richia-mata per il fatto che la schematizzazione temporale che ha alsuo fondamento il battere e il levare è costituita, nella suamodalità più generale ed elementare, dalla forma stessa dell’ac-cadere. È come se la verticalità del gesto del colpire venisseproiettata sull’orizzontalità del decorso temporale, prospet-tandolo come alternanza possibile di suono e silenzio. Parlaredi alternanza è per altro equivoco dal momento che suggeriscel’idea di un puro avvicendarsi di stati che si susseguono l’unoall’altro, mentre la stessa impostazione di principio del pro-blema richiama l’attenzione piuttosto sul fatto che si tratta dimomenti dinamicamente protesi l’uno verso l’altro. Si ripre-senta così nuovamente la tematica fondamentale del movi-mento temporale inteso come un avanzare sopravanzante. Que-sta espressione può ora essere utilizzata con riferimento nontanto al concetto della durata, quanto al modo in cui glieventi sonori trascorrono avvicendandosi tuttavia temporal-mente secondo il dinamismo di una forma che richiama pro-prio l’immagine del flusso e del riflusso dell’onda marina sullabattigia.

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Annotazione

Nella terminologia musicale corrente, per indicare le diffe-renze del battere e del levare si parla di tempi forti e tempi deboliche si susseguono secondo la regola di una semplice alternan-za. Sulla base delle nostre ultime considerazioni queste e-spressioni non possono non sembrarci particolarmente signi-ficative. Quelle aggettivazioni infatti non si riferiscono certoprimariamente al tempo, ma al suono, ed è seducente per noipensare che questo impiego sia dovuto proprio ad uno scam-bio tra suono e tempo, uno scambio che ci riconduce appuntoal tema dell’alternanza suono/silenzio.

§ 11

Sono ora necessari alcuni chiarimenti, prima ancora che sultema del ritmo, sulla distinzione fondamentale che ad esso fada sfondo. Si tratta naturalmente della distinzione tra tempo-ralità del flusso e temporalità del cammino in rapporto allaquale va segnalata la possibilità di un fraintendimento a cuipuò indurre il nostro stesso riferimento al gesto del direttored’orchestra che dà l’avvio all’esecuzione. In quanto avevamoallora di mira il problema della scansione, era certamente giu-sto cogliere in esso il gesto che separa una temporalità pura-mente trascorrente da una temporalità scandita. Ma è certa-mente estraneo al senso del nostro discorso ritenere che solo latemporalità scandita appartenga al «tempo musicale», come sein esso non avesse alcuna funzione il puro «passare» del tem-po. Tutte le nostre considerazioni sono invece attraversatedalla convinzione che non vi sia, in realtà, alcun «tempo mu-sicale» a sé stante, ma che il problema del tempo nella musicafaccia tutt’uno con il problema dei molteplici modi in cui lamusica, nelle concrete differenze delle opere, subordina alle

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proprie esigenze espressive le forme fenomenologiche dellatemporalità.

È bene attirare l’attenzione sul fatto che in queste nostreconsiderazioni ci si dispone nettamente dal punto di vista del-l’ascolto, cosicché parleremmo di tempo scandito solo, adesempio, se la scansione è effettivamente data sulla base delmodo in cui la sequenza sonora è strutturata – cosa che natu-ralmente non significa che sia data anche un’effettiva succes-sione di battiti. Ma non ogni sequenza deve essere strutturatain modo tale da esibire una scansione: essa può certamenteanche essere caratterizzata, in rapporto all’ascolto, in qualchesua parte o nella sua totalità, dalla forma di un flusso tempo-rale nel quale accadono eventi sonori a loro volta variamentestrutturati dal punto di vista del problema della continuità edella discontinuità. Ciò significa semplicemente che non è av-vertibile nessuna scansione in corso, che le «pause» sono intesepiuttosto come «silenzi»97 – una determinazione puramentenegativa che lascia aperte numerose possibilità di situazionidescrittivamente differenti. Di conseguenza, non ha particola-re rilevanza ciò che accade, per così dire, alle spalle della ma-nifestazione sonora, nel modo della sua produzione. Ad esem-pio, un singolo suono tenuto «a lungo» è in ogni caso coltonella temporalità del flusso, anche se lo strumentista lo realiz-za «contando». Un simile «contare» non è per nulla uno scan-dire, ma una semplice determinazione quantitativa di una du-rata. Analogamente non ha nessuna importanza il fatto cheuna determinata sequenza sonora sia realizzata facendo ricorsoa parametri temporali obbiettivi, quindi al «tempo degli oro-logi», come nel caso delle composizioni al calcolatore, dal

97 Nella terminologia musicale si usa preferibilmente il termine di pausain modo generale, mentre sarebbe forse opportuno riservare questa parola a queicasi in cui l’ascolto mantiene la presa sulla scansione. Nelle pause il tempo conti-nua a camminare e questo cammino lo puoi avvertire nel processo stesso dell’a-scolto. Con «silenzio» invece si può intendere la mera durata silenziosa, nellaquale il tempo puramente fluisce.

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momento che essa avrà un certo risultato percettivo nel qualepuò essere o non essere implicata la scansione, e ciò unicamentesulla base della struttura della sequenza e quindi del modo incui essa appare all’ascolto.

Se poi si rammenta che la nozione di schema è stata in-trodotta a partire da quella scansione, dando luogo del resto aun’estensione di quest’ultima nozione, le considerazioni pre-cedenti possono essere riferite alla questione della schematiz-zazione in genere. In effetti non abbiamo mai detto che iltempo deve essere schematizzato, ma soltanto che lo può e chequesta possibilità può essere realizzata in molti modi, possonodarsi schematizzazioni temporali più o meno complesse, va-riamente stratificate, e anche schematizzazioni parziali, lacu-nose, variazioni improvvise e graduali dei moduli, eguaglianzeimperfette, simmetrie e asimmetrie, trasformazioni di variogenere, secondo regole più o meno rigide, e così via. Ciò valein particolare per lo schema del battere e del levare: benchéabbiamo proposto un’interpretazione che mostra come il di-namismo in esso implicato faccia parte della forma stessadell’accadere del suono, di cui esso può essere considerato –naturalmente situandosi al necessario livello di astrazione filo-sofica – come una proiezione, tuttavia sarebbe sbagliato in-tendere una simile interpretazione come se essa alludesse aqualcosa di più e di diverso da una pura possibilità che può es-sere fatta valere in molti modi sul piano espressivo.

Tutto ciò è utile per richiamare gli scopi che abbiamoperseguito nel complesso della nostra discussione sul tema delritmo. L’intento che ci siamo proposti è stato quello di deli-neare un modo di approccio al problema del ritmo che riu-scisse a enucleare, al di là della ricchezza delle problematichespeciali che una teoria del ritmo effettivamente sviluppata de-ve essere in grado di dominare, i motivi generali che sono aesse soggiacenti, così come i concetti fondamentali che dallanozione di ritmo sono chiamati in causa. Secondo la nostraesposizione, che ha operato una prima restrizione della tema-

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tica all’ambito musicale, e quindi un’ulteriore restrizione al-l’ambito delle considerazioni temporalistiche, i concetti intor-no ai quali gravita la nozione di ritmo sono quelli di evento,evenienza e schema. A loro volta questi concetti contengonouna duplice opposizione interna. Anzitutto quella dell’eventoe dell’evenienza, che fa tutt’uno con l’opposizione tra conti-nuità e discontinuità.

Il ritmo sorge dalla rottura della continuità temporale equindi da un gioco vario e complesso tra continuità e discon-tinuità. A questo proposito abbiamo cercato di mostrare comela complessità di questa problematica tenda a sfuggire nell’ac-centuazione dei motivi «organicistici» per il fatto che da essipuò essere tratto un sospetto di principio nei confronti diogni momento di rigidità, di meccanicità, di semplice egua-glianza, che sembra contraddire l’elemento «vitale» al quale ilritmo dovrebbe sempre e soprattutto dare espressione. L’enfasicosì spesso posta sul «fluire» tende per lo più ad avere questosenso, e così anche a confondere i termini del grande proble-ma della continuità e della discontinuità.

Ma a questo punto abbiamo in realtà già indirettamenteimplicata l’altro opposizione presente nella triade dei nostriconcetti fondamentali. Si tratta dell’opposizione tra l’evento elo schema. Tutta la nostra esposizione poggia sull’idea che at-traverso questa opposizione si fissino i margini di applicabilitàdella nozione di ritmo: essa tende a diventare inapplicabilequando gli elementi di rigidità attinenti alle schematizzazioniricevono la massima accentuazione o quando, inversamente,non è più afferrabile uditivamente alcuna forma, per quantodebole, di schematizzazione.

A questo proposito è il caso di richiamare nuovamentel’attenzione sul modo in cui è stata introdotta la nozione discansione, ed a partire da essa, quella di schema. Dal colpoalla successione dei colpi si effettua il passaggio da ciò che èsoltanto evento, e dunque puro accadimento, irruzione casua-le, e ciò che è invece soltanto schema, e dunque vuoto ordi-

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namento, forma necessaria – il passaggio dal caso alla neces-sità, come se ciò che separa l’uno dall’altra fosse la sempliceripetizione. All’interno di questa impostazione possiamo ren-dere conto della tendenza così diffusa a considerare la temati-ca della scansione, nel senso ristretto del termine, come unatematica che cadrebbe interamente al di fuori della problema-tica autentica del ritmo. Come abbiamo osservato or ora, que-sta tendenza non può trovare giustificazione in una pretesafluidità del ritmo che sfugge alla presa. Possiamo invece sot-tolineare che il colpo costantemente rinnovato, una sequenzauniforme di battiti può essere considerata ai margini del-l’applicabilità della nozione di ritmo, benché in questi margi-ni si possa cogliere il profilo delle sue nozioni fondamentali,per il fatto che essa è costituita dalla pura ripetizione dell’iden-tico, perché dunque si presenta soltanto come una schematiz-zazione. Nell’iterazione dei colpi possiamo veramente direche, in realtà, non accade proprio nulla (così come non accadenulla nel silenzio), mentre basterebbe una minima differenzia-zione interna affinché si possa dire che qualcosa è accaduto.L’assunto di mantenere la discussione intorno al ritmo entrol’ambito delle considerazioni temporalistiche potrebbe essereformulato anche dicendo che ciò a cui si dà ritmo è il tempostesso, ma dare ritmo al tempo non significa mettere in operasoltanto procedure di schematizzazione, poiché, come ci sia-mo espressi, il ritmo consta di schematizzazioni temporali e dieventi sonori. Inversamente l’attenuazione dell’elemento sche-matico conduce alla dispersione casuale, alla singolarità isola-ta, alla pura differenza, alla frantumazione della discontinuitàestrema alla quale la nozione di ritmo diventa di nuovo ten-denzialmente inapplicabile.

In questo senso possiamo dire che il ritmo sta tra l’eventoe lo schema, volendo con ciò non tanto indicare una dimen-sione media che riproporrebbe in altro modo l’idea di unpunto ottimale, e dunque di un’essenza autentica della ritmi-cità, quanto confermare l’appartenenza all’area del problemadel ritmo di tutto ciò che sta dentro quegli estremi.

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Capitolo terzo

Spazio

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§ 1

È osservazione spesso ripetuta che uno dei tratti caratteristicidella musica novecentesca, è la reazione al peso prevalente at-tribuito in passato alle «altezze», a cui subentra invece unapropensione verso la pura sostanzialità materiale del suonoche comincia come tendenza a lasciarsi afferrare dal fascinodei timbri, per spingersi coerentemente alla rilevazione diqualunque massa sonora, sia essa caratterizzata o meno dallapresenza di «nuclei oggettivi». Le «note» sono diventate sem-pre meno importanti.

La nostra riflessione deve ora riprendere l’avvio proprioda questo punto: è qui in questione solo il tratto caratteristicodi una tradizione, una sua inclinazione di cui possiamo libe-ramente modificare il verso oppure il problema è radicato piùin profondità, e addirittura nell’essenza stessa della musica,come certamente una volta si sarebbe sostenuto?

Forse potremmo affermare: la musica è essa stessa sortada una selezione all’interno dell’universo sonoro, essa haavuto origine dalla scoperta di suoni che si sono imposti allanostra attenzione uditiva emergendo dalla congerie dei mate-riali sonori da cui siamo raggiunti da ogni parte, proprio inforza del loro carattere di «oggetti».

Fino a quando questa scoperta non è ancora stata effet-tuata, i suoni in genere, pur nelle loro differenze, possono alpiù formare un godimento passeggero, nel momento in cui sioffrono occasionalmente all’orecchio, ma nessuna attenzionecostruttiva può indugiare presso di essi accennando alla possi-bilità di un progetto. Che cosa posso farmene del fruscio delvento o del rombo della valanga che precipita a valle?

Nessuna cosa come la musica avrebbe forse potuto sor-gere se fin dall’inizio ci fossimo attestati sul terreno su cui ora,dopo uno sviluppo millenario, ci siamo infine attestati: se cifossimo disposti di fronte all’universo sonoro nell’atteggia-mento di chi vuole impossessarsene per intero. Verrebbe fatto

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di dire: questa decisione della musica può essere presa soltantonell’età della sua vecchiaia. Essa deve essere ricca di un passatoche la motivi.

Per questo osiamo affermare che non con i suoni in ge-nere, ma con i suoni-oggetti ne va della musica stessa. Tutta-via ciò significa per noi soltanto questo: qualcosa di moltoimportante per la musica è chiamato in causa quando essi so-no chiamati in causa. Chi potrebbe negarlo?

Ciò che si impone allora non è affatto il gesto di appro-priazione dell’universo sonoro come possibile totalità deglieventi sonori semplicemente esistenti, ma proprio l’idea dieventi sonori privilegiati che in qualche modo più degli altrimeritano di essere chiamati suoni e che si offrono da sé, nellaloro differenza e nella loro distinzione, come se formassero ununiverso sonoro a sé stante.

Naturalmente è il caso di soffermarsi un poco sulla por-tata di queste affermazioni. In che cosa consiste propriamentel’importanza dei suoni-oggetti? In che modo si può parlare, inrapporto ad essi, di eventi sonori «privilegiati» ed è realmentegiustificato affermare, come abbiamo fatto or ora, che essi sioffrono da sé nella loro differenza e nella loro distinzione?

Prima ancora merita tuttavia qualche commento la no-stra stessa terminologia che certamente si adatta solo ad unaspetto, per quanto essenziale, del fenomeno sonoro. Parlandodi suoni-oggetti si attira indubbiamente l’attenzione, comeabbiamo spiegato a suo tempo, sulla stabilità, sulla fissità,sulla permanenza di un nucleo che può presentarsi immutatoin «corpi» differenti. Stando all’interno di questo ordine diidee, abbiamo anche potuto proporre l’immagine di un centropuntuale, connettendo così il tema dell’identità a quello dellasemplicità. Ma già nella discussione svolta in precedenza ab-biamo accennato entro quali limiti debbono essere intese que-ste nostre caratterizzazioni. Non si tratta affatto di evocare,con una simile terminologia, una dimensione di staticità e difrantumazione atomistica. Perciò abbiamo rammentato il ri-

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lievo che assume in rapporto ai suoni-oggetti la nozione diintervallo. Questa nozione non può essere proposta nella suapiena determinatezza di senso in rapporto a qualunque feno-meno sonoro, ma essa è applicabile nel suo senso più strettoanzitutto in rapporto ai suoni-oggetti. Solo là dove ci sonosuoni-oggetti si può parlare in senso pieno e proprio di unintervallo tra essi. Ciò significa, in modo più pregnante, chedati due suoni-oggetti essi possono essere considerati comeestremi di un intervallo, cosicché la nozione di intervallo puòessere senz’altro proposta come prioritaria ed i suoni comepunti che lo delimitano. A partire da questa possibilità fon-damentale, i punti non sono prospettati in una pura separa-zione e assenza di rapporti, ma al contrario essi sono stretta-mente integrati all’interno di un sistema di relazioni.

Ciò significa che la molteplicità dei suoni è fin dall’i-nizio attraversata da un principio di organizzazione e che ilsuono singolo è sempre inteso come integrato in quella mol-teplicità sulla base di quel principio. La possibilità di un ordi-namento scalare esemplifica anzitutto questa circostanza fon-damentale: in un simile ordinamento ciascun suono occupaun luogo perfettamente determinato. Essa esemplifica anchein che modo, sul fondamento di questi suoni, nella loro sem-plice successione, cominci a delinearsi un percorso sonoro ri-spetto al quale i «punti» sono in realtà momenti che sosten-gono il suo sviluppo e ne tracciano la forma.

Considerando la questione da questo lato, il parlare disuoni-oggetti o l’impiego dell’immagine del punto può appa-rire forse inappropriata e persino fuorviante, in particolarequando le osservazioni precedenti siano integrate nel quadrodel problema temporale. Dobbiamo allora anzitutto distin-guere nettamente almeno due modi di parlare della puntualitàdel suono – la puntualità intesa come determinazione pura-mente temporale, che è connessa all’istantaneità e che si con-trappone alla durata, e la puntualità che invece può essere at-tribuita al suono in quanto nucleo semplice di un corpo sono-

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ro. Proprio per via di questa possibile equivocità, abbiamofatto riferimento alle altezze parlando preferibilmente di suo-ni-oggetti piuttosto che di suoni-punti98.

Nella durata il suono si sviluppa in linea sonora – lo stessosuono in una linea che resta sempre uguale, mentre la lineasonora andrà variamente mutando il proprio andamentoquando essa prende forma sulla base di suoni di altezza diffe-rente.

La vistosa durezza della nostra terminologia – gli ogget-ti, i punti – deve allora attenuarsi, deve sciogliersi nella mobi-lità della concreta figurazione temporale, e ciò significa che intutto questo parlare di punti o di oggetti abbiamo in realtà dimira una nozione del suono che sta a fondamento della possi-bilità della melodia. I suoni di cui parliamo qui, che sonotanto importanti per la musica da poter essere proposti allasua origine, sono quei suoni attraverso i quali un canto di-venta possibile – essi sono suoni che cantano.

Perciò si comprende da sé che, alle prime origini, gliuomini non potevano che essere colpiti dalla loro natura sem-plice ed elementare, che subito li contraddistingue rispettoalla dilatazione informe di masse sonore, alle colate di superfi-

98 La figura che segue è tratta da W. Kandinsky, Punto, linea e superficie,Adelphi, Milano 1968.

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ci e volumi di suono, ai confusi intrecci e agli oscuri groviglisonori del mondo circostante: non potevano che esser colpitidall’incantevole chiarezza e nitidezza del disegno sonoro. Per-ciò si narra spesso dell’origine della musica dal canto degli uc-celli: opera qui il fascino della voluta fantomatica, libera e or-dinata ad un tempo, che sembra sottrarsi all’universo dei suo-ni subito integrati nelle forze della natura. Si comprende da séche si possa distinguere tra il fruscio del vento e il canto deltordo eremita.

Questi suoni che cantano sono anche incantevoli – loabbiamo detto or ora. E di ciò vorremmo precisare il senso:quando il suono risuona, quando il disegno comincia a trac-ciarsi nell’aria, allora l’orecchio che lo coglie non può disto-gliersi da esso, ma viene afferrato e trattenuto nel suo movi-mento. Questo è l’incanto. Incantevoli sono i suoni che gene-rano incanto, e dunque ti obbligano ad ascoltarli.

§ 2

Vogliamo ora metterci nei panni di docili scolaretti alle primearmi.

Ad essi il maestro insegna che ci sono note principali enote secondarie, che le note principali sono sette, che esse sichiamano così e così. Insegna inoltre che vi sono alcuni inter-valli particolarmente importanti, insegna a distinguere la con-sonanza e la dissonanza, ad ordinare i suoni in successioniscalari di un determinato tipo, e molte altre cose ancora.

I primi passi di questo insegnamento consisteranno cer-to nell’addestrare l’allievo a «intonare» i suoni (gli intervalli),ad esempio con la voce oppure su uno strumento, e dunque adistinguere tra suoni giusti, «intonati», e suoni «stonati», equindi falsi.

«Calante» – dice il maestro. Oppure: «crescente». E ildito cerca sulla tastiera del violino – più avanti, più indietro –la giusta posizione.

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Questo è importante: i suoni debbono occupare la lorogiusta posizione, e proprio in questa giusta posizione consiste illoro esserci autentico. Un suono è ciò che è solo se occupaesattamente quel luogo. Altrimenti è un suono falso. È unsuono musicalmente inesistente.

Ma è molto importante anche che il giovane allievo nonfaccia troppe domande, se vogliamo che impari qualcosa. Lecose stanno proprio così.

Eppure le domande potrebbero essere molte: perché sidistingue tra suoni più importanti e meno importanti, trasuoni principali e secondari, e perché i principali sono propriosette? E come mai si tratta proprio di questi suoni disposti se-condo questo ordine di intervalli? In che cosa poggia la possi-bilità di distinguere un suono buono da uno cattivo? Che cosaci fa capire che siamo in presenza di un suono falso? Forse lasmorfia del maestro? Ed imparare a compiere questa distin-zione significa imparare a fare questa smorfia da noi stessi almomento giusto?

Domande in realtà molto serie. A ben pensarci vi è cer-tamente qualcosa di molto singolare nell’idea della giusta po-sizione e in tutte le altre nozioni ad essa connesse. Conside-rando la questione dal punto di vista degli intervalli, questasingolarità balza agli occhi con particolare evidenza. L’inter-vallo, che è certamente, in se stesso, un rapporto. deve essereinvece considerato percettivamente come qualcosa di analogoalla distanza spaziale tra due cose; e tuttavia questa analogianon può in nessun modo essere estesa al problema degli inter-valli accettabili e inaccettabili. Lo stesso parlare, come abbia-mo fatto or ora, di suoni musicalmente inesistenti, richia-mandoci di conseguenza ad una nozione di esistenza che siappella alla validità, può apparire come un enigma. Eppurenon solo nella pratica e nell’addestramento musicale corrente,ma anche in tutta una lunga e complessa tradizione teorica siè imposta con particolare forza la tendenza a considerare lenote come entità determinate, come sette magnifici oggetti

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che esistono in se stessi e che debbono in certo modo esserescoperti e identificati nella loro posizione oggettiva. Le note cisono veramente, e sono esattamente quelle – né più né meno.Ci sono come ci sono i pianeti. E così è anche dato e deter-minato il modo della loro successione.

Se le cose stessero proprio così, tuttavia, non ci accon-tenteremmo certo del dato di fatto puro e semplice ma, difronte a circostanze assunte come obbiettive, cercheremo didare una giustificazione altrettanto obbiettiva. Vi deve esserequalcosa nella natura del suono che è in grado di rendereconto della selezione effettuata all’interno della molteplicitàdei suoni possibili a disposizione, e quindi dell’intero sistemadi relazioni che si viene in questo modo a istituire.

Una simile tendenza ad una giustificazione naturalistica èd’altronde presente ogni volta che ci si richiama all’orecchiocome ciò a cui spetta in ultima analisi la responsabilità di que-ste decisioni. Nell’orecchio dobbiamo cercare le risposte allenostre domande. È l’orecchio che sa quale sia la giusta posi-zione. Come nel caso del gusto e dell’odorato, anche l’orec-chio ha le proprie preferenze, e perciò può accettare o rifiuta-re, accogliere o respingere.

Tuttavia questo richiamo non intende semplicementeappellarsi ad un altro dato di fatto, come se ci si limitasse aprendere atto di una sorta di istinto o di tendenza innata: si as-sume invece, esplicitamente o tacitamente, che questa tenden-za, che è essa stessa innestata in un processo naturale, si troviin stretta connessione con il suono stesso, con la natura delsuono. Solo se consideriamo la manifestazione sonora nellasua immediatezza, può sembrare che abbiamo a che fare conuna pura reazione istintiva non ulteriormente analizzabile: es-sa deve invece poter trovare motivo in ciò che sta al di là dellamanifestazione sonora e, al tempo stesso, a suo fondamento.Perciò il richiamo all’orecchio non ha tanto lo scopo di tenta-re una giustificazione mantenendosi sul piano delle caratteri-stiche percettive, ma sembra al contrario esigere un’integra-

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zione fisicalistica. Esso preannuncia spiegazioni naturalisticheadeguatamente elaborate.

Mentre tracciamo il profilo di un simile modo di consi-derazione, attraverso di esso si intravede anche la possibilità diseguire un percorso interamente diverso, si intravede un’op-posizione che è del resto ovunque presente e che ci accompa-gna, con poche varianti, lungo tutto il nostro cammino.

Abbiamo parlato or ora di validità musicale, e abbiamofatto riferimento a determinati intervalli ed a modalità rela-zionali determinate: ma in che cosa consiste questa determi-natezza se non nel richiamo a ciò che vale all’interno dellamusica di tradizione europea? Secondo la precedente linea didiscorso, le validità di fatto inerenti a questa tradizione riceve-rebbero una legittimazione transculturale e tenderebbero dun-que ad assumere la forma di una validità di principio in quan-to adeguate alla cosa stessa, e pertanto sottratte a ogni relati-vità.

Si delinea così una possibile opposizione tra natura ecultura e conseguentemente tra un punto di vista assolutistico,connesso con l’ambito delle giustificazioni naturalistiche e unpunto di vista relativistico che invece, senza negare l’interesseintrinseco delle spiegazioni naturalistiche, attira l’attenzionesull’autonomia del piano propriamente musicale, un pianoche appartiene già fin dall’inizio al versante della cultura.

Assumendo quest’ultimo punto di vista, si mette in evi-denza l’attribuzione indebita al sistema scalare europeo del ca-rattere di un modello rispetto al quale ogni altro sistema deveessere inteso come un’approssimazione più o meno rozza; alcontrario, contro una simile concezione, alla cui base vi ècertamente l’idea dell’unicità in via di principio del sistemascalare, assume una portata esemplare proprio la varietà dellescale assunte come valide all’interno di tradizioni musicali di-verse. Del resto già la storia complessa di questo problemanello sviluppo della stessa musica europea contiene indizi si-gnificativi che suggeriscono di non enfatizzare al di là del le-

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cito l’orecchio – che non sembra affatto veicolo di determina-zioni assolute, ma al contrario mostra di essere esso stesso am-piamente soggiacente a ciò che è stato culturalmente conve-nuto.

L’assunto di base deve dunque essere che tutte le scelte,quando siano state realmente effettuate all’interno di unacultura musicale, sono ammissibili, e dunque tutti i suoni so-no di eguale valore, tutti gli intervalli altrettanto buoni. Diconseguenza non ha affatto senso parlare di una giusta posi-zione, o lo ha solo relativamente ad una tradizione musicale. Eallora, se non vi è una giusta posizione, non vi è nemmenoqualcosa come una «tendenza innata»: l’orecchio non ha in sestesso alcuna speciale virtù, e soprattutto non ha la virtù di fa-re valere ciò che il suono è nella sua fisicità profonda. Il temadell’abitudine potrà qui essere nuovamente richiamato. L’ac-cettazione e il rifiuto dipenderebbero non tanto dalle caratte-ristiche uditive come tali, ma dal modo secondo cui queste ca-ratteristiche sono strutturate in una rete di significati che pos-sono determinare a tal punto la ricezione stessa da apparirequasi come una tendenza innata – come una seconda natura.Rappresenta invece un compito critico essenziale il mettereallo scoperto la costituzione di questa seconda natura attraver-so l’abitudine.

Si tratta di un dibattito il cui schema ci è ampiamentenoto e sul quale ci siamo già a lungo intrattenuti nelle nostreconsiderazioni introduttive. In esse, in particolare, abbiamomostrato in che modo in quel dibattito si può innestare il te-ma della musica come linguaggio. La varietà delle scelte inter-vallari, l’eventuale apposizione, all’interno di un sistema mu-sicale, di indici di validità a determinate forme strutturali apreferenza di altre, tutto ciò non può certo sorprendere sel’accento viene portato sul carattere «linguistico» della musica.L’orecchio, a sua volta, l’orecchio teso verso il musicale, nonode soltanto, ma soprattutto ascolta comprendendo e respingeciò che sfugge alla sua comprensione in quanto appartenente

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ad una rete di significati che gli è estranea: come quando sia-mo alla presenza di una lingua che ci è sconosciuta.

Abbiamo anche notato in quelle considerazioni intro-duttive che l’efficacia polemica del punto di vista relativisticoè così vistosa che esso sembra senz’altro cogliere nel segno an-che al di là di eventuali miglioramenti e approfondimenti ar-gomentativi. Mentre non appena ci accingiamo a esporre, siapure sommariamente, il punto di vista obbiettivistico e natu-ralistico, abbiamo subito l’impressione di narrare una storia dialtri tempi.

E tuttavia proprio il fatto che possiamo senza sforzo da-re l’alternativa per risolta in rapporto a ciò che appare superfi-cialmente evidente, ci consente forse di esigere che l’argomen-to non venga senz’altro abbandonato e si ponga invece la do-manda se la stessa problematica non possa ripresentarsi secon-do una diversa angolatura, capace di guardare più nel profondocon esiti che non sono affatto già scontati in anticipo.

§ 3

Riconsideriamo dunque i termini della nostra discussioneprecedente. Vi era in essa un presupposto che sembra avere amalapena bisogno di essere formulato e che resta alla base diimpostazioni anche molto diverse di proporre il problema.Questo presupposto consisteva nell’assunzione della stessa esi-stenza dei suoni (ovvero degli intervalli). Ciò su cui si discuteè eventualmente se abbia senso o che senso possa avere il par-lare di suoni giusti o sbagliati, se vi siano intervalli notevoli,se, tenendo conto della varietà dei sistemi scalari esistenti, sialecito, o non lo sia affatto, operare tra essi una differenziazio-ne in ordine ad una maggiore o minore aderenza alla naturadel suono. Ma il presupposto apparentemente ovvio è che cisiano entità come i suoni puntualmente intesi, ovvero, in unaformulazione equivalente, che ci siano intervalli delimitati da

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suoni. È come se fosse a nostra disposizione un’intera costella-zione di punti (e di possibili distanze tra punti) e che tutti iproblemi siano in realtà riducibili alla questione di quali traessi debbano assumere validità.

Del resto la nostra discussione ha preso l’avvio propriodall’accento posto sulla discretezza. La nostra stessa termino-logia – la metafora del punto, in particolare – attira l’atten-zione proprio su una molteplicità discreta, come se ogni deci-sione dovesse essere presa in rapporto ad essa. Non è difficiletuttavia rendersi conto che questo modo di presentare le cose,mentre può certo essere utile tanto per cominciare, non puòportarci oltre una delineazione preliminare del problema e inrealtà fuorvia dal suo centro effettivo. In effetti l’esistenza stessadei suoni-oggetti deve essere messa in questione.

I suoni, le note non ci sono senz’altro e fin dall’inizio.All’inizio c’è soltanto lo spazio sonoro. E il nostro tema fon-damentale in rapporto al quale debbono essere nuovamentegiocati i termini della nostra discussione non è la molteplicitàdiscreta dei suoni, ma l’unità e la continuità originaria dellospazio sonoro che sta alla sua base.

Naturalmente ci proponiamo di mettere in evidenza apoco a poco il senso e la portata di una simile presa di posi-zione. E anzitutto merita certo qualche chiarimento l’espres-sione di «spazio sonoro». Essa può essere impiegata, nell’am-bito musicale, in contesti e in sensi diversi nei quali tuttavia èsempre implicata l’idea di una totalità e in connessione più omeno stretta con essa l’idea di una struttura relazionale dallaquale la totalità stessa è attraversata e costituita. La nozione dispazio sonoro sarà inoltre tanto più pregnante quanto piùforte è il richiamo all’elemento relazionale, poiché proprio aquesto elemento si deve l’interesse della ripresa della metaforadello spazio.

In realtà, l’accezione più ampia, ma anche nello stessotempo meno pregnante, di spazio sonoro comprende la tota-lità dei fenomeni uditivi in genere. La possibile istituzione di

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nessi non è qui tuttavia tale da assegnare a qualunque feno-meno uditivo un luogo determinato così da poter entrare inuna relazione altrettanto determinata con qualunque altroelemento della totalità. Il mondo dei suoni, nell’accezione latadel termine, è un mondo aperto sia verso l’esterno, quindi in-definito nei suoi confini, sia verso l’interno, quindi fonda-mentalmente privo di un’articolazione unitaria.

Sappiamo già che le cose stanno diversamente nel casodei suoni-oggetti. Infatti vi è in rapporto ad essi la possibilitàdi far valere un criterio di ordinamento. Questa possibilità èconnessa anzitutto con la nozione di intervallo e con la diffe-renza del grave e dell’acuto. Ciò significa, come abbiamo giàsottolineato, che una qualunque successione di suoni-oggettipuò in via di principio essere riordinata scalarmente.

Notiamo ora che dati due suoni distinti – e dunque per-cettivamente caratterizzati dall’essere l’uno più grave e l’altropiù acuto – è certo immaginabile e anzi concretamente pro-ducibile un percorso sonoro che conduca dall’uno all’altro at-traverso suoni intermedi, scalarmente ordinati.

Si consideri allora che cosa accade qualora gli intervallitra essi vengano progressivamente ridotti: al di là di un certolimite della riduzione, l’intera configurazione percettiva assu-merà un aspetto interamente diverso.

Alla successione scalare puntiforme subentrerà una varia-zione continua delle altezze, mentre quei suoni che prima era-no estremi di un intervallo hanno ormai assunto il carattere disuono iniziale e terminale di un vero e proprio processo sonoro.

Più precisamente: il suono iniziale è un suono che co-mincia a modificarsi e che di modificazione in modificazionesi risolve nel suono terminale.

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Dai punti siamo così passati al segmento e potremmo alloracominciare con il dire che la retta a cui questo segmento ap-partiene è ciò che chiamiamo spazio sonoro, in una seconda ac-cezione, più ristretta, del termine. Vogliamo esaminare concura ciò che accade in questo passaggio. Anzitutto è impor-tante portare l’attenzione sul fatto che qui e stata introdottauna vera e propria nuova nozione di unità sonora – l’unità co-stituita dal glissare del suono iniziale fino al suono terminale.La continuità percettiva con la quale qui abbiamo a che faredeve essere intesa come una situazione qualitativamente diver-sa da una successione di punti – cosicché occorre evitare inparticolare di sovrapporre ad essa interpretazioni orientate insenso obbiettivo tendenti a ridurre la differenza tra continuo ediscontinuo. Si pensi in proposito all’analogia della linea a cuici siamo or ora richiamati.

Dal punto di vista percettivo, una linea è una configura-zione visiva essenzialmente diversa da una successione dipunti, anche se questa, vista di lontano, può apparire comeuna linea – i punti si confondono allora l’uno con l’altro. Mail problema è che questa confusione non è affatto una confu-sione mia, non sono io che mi sbaglio, non compio un erroreintellettuale, e nemmeno la mia percezione si sbaglia. Ciò che iovedo è il confondersi dei punti, cosa che mi fa dire: qui non cisono punti affatto, ciò che vedo è proprio una linea. Allonta-nando lo sguardo, veniamo posti alla presenza di una formazio-ne nuova che è irriducibile ad una successione di punti, benchévi sia qui obbiettivamente una simile successione e in generaleuna linea possa essere pensata come una successione di punti.

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L’analogia con la linea ci è inoltre già servita per illustra-re l’idea del movimento, e anche questa idea è naturalmentepresente in rapporto ai suoni glissanti, ma in un’accezioneprofondamente diversa dai casi rammentati in precedenza.Abbiamo infatti parlato di movimento, in modo che si potreb-be anche ritenere improprio, già per il suono singolo sempli-cemente perdurante, quindi in un’accezione riguardante lapura forma temporale. Inoltre si può parlare di movimento peruna sequenza di suoni singoli, così da coinvolgere non solo lapura e semplice forma di sviluppo temporale, ma anche le re-lazioni tra i suoni appartenenti alla sequenza. In un senso in-teramente diverso da questi casi già richiamati in precedenza,si può parlare di movimento in rapporto al suono glissante. Inesso non dobbiamo senz’altro cogliere la molteplicità di suoniche pure potrebbe esserne estratta, quanto piuttosto un pro-cesso di continua modificazione che riguarda il nucleo dellasostanza sonora, cosicché potremmo parlare, in opposizione alsuono-oggetto di suono-processo: all’identità immodificata delsuono-oggetto subentra ora il movimento del suono intesocome alterazione continua, come metamorfosi e trasmutazione.

Ora, come abbiamo già anticipato, la nozione del suonocome segmento fluente che satura l’intervallo tra suono e suo-no ci serve anche per operare il passaggio alla nozione di spa-zio sonoro. Tutto ciò che abbiamo detto in rapporto al seg-mento lo possiamo riferire alla linea a cui esso appartiene, co-sicché anche e anzitutto in rapporto allo spazio sonoro pos-siamo parlare di una mobilità interna, di un dinamismo in-terno alla sostanza sonora. In rapporto allo spazio sonoro pos-siamo anzi proporre formulazioni particolarmente radicali.Possiamo affermare, ad esempio, che i suoni nella loro distin-zione e nelle loro differenze, e così gli intervalli intesi comedelimitati da suoni puntuali, di tutto ciò si fa tabula rasa nellospazio sonoro. Alla molteplicità soppressa dei suoni subentral’unità del Suono stesso come unità del divenire e attraverso ildivenire, la sostanza sonora come sostanza trasmutante.

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Si intravede così una complessa dialettica tra l’unità e lamolteplicità, tra l’oggetto e il processo, che rimanda alla con-trapposizione e alla relazione tra continuità e discontinuità.Questo problema, di cui abbiamo già messo in rilievo la por-tata nell’ambito della questione della temporalità, si ripresentaqui nuovamente come un problema fondamentale di ogni fi-losofia della musica. Ad esso dovremo dedicare di qui inavanti tutta la nostra attenzione.

§ 4

Si comprende certamente, alla luce di queste considerazioni,l’affermazione dell’apparenza tanto singolare secondo la qualeè l’esistenza dei suoni e degli intervalli che deve essere anzi-tutto messa in questione. Il nostro problema ha infatti un or-dine interno e stando ad esso la priorità spetta certamente alcontinuo piuttosto che al discreto, nonostante il fatto che, peropportunità di carattere espositivo, abbiamo fatto riferimentoanzitutto alla molteplicità discreta per operare di qui il pas-saggio al suono glissante e allo spazio sonoro. Come abbiamomesso in evidenza, quest’ultimo deve essere inteso come mo-vimento del Suono stesso che contiene nelle sue mutazioni latotalità dei suoni (note) in generale possibili, cosicché ognisuono può essere considerato come fissazione puntuale di unafase di questo movimento.

Si noti come a tutta prima l’idea di un flusso continuoche sta alle spalle della molteplicità dei suoni sembri assecon-dare l’istanza convenzionalistica. All’incauto che ci insegnache ci sono suoni giusti e sbagliati, e dunque anche successio-ni scalari privilegiate e che istituisce a partire di qui ulterioridifferenze, pretendendo che esse siano radicate nel fatto sono-ro stesso, potremmo controbattere puntando il dito sullo spa-zio sonoro.

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Vedi forse qui

SPAZIO SONORO

punti o intervalli privilegiati? Nel continuo non c’è questa oquella scala – o meglio: c’è sia questa sia quella, insieme atutte le altre possibili. Ciò che abbiamo osservato in prece-denza, quando abbiamo parlato di tabula rasa di tutte le diffe-renze, può ora essere interpretato come se con ciò si volesseanche dire: tutte le differenze sono imposte dall’esterno. E setu chiedi in che modo lo spazio sonoro debba essere suddivi-so, allora io ti mostrerò in quanti modi puoi suddividerlo. U-na suddivisione qualunque può essere fatta valere nel tuo lin-guaggio.

Sappiamo già del resto, dal momento che un motivoanalogo era già emerso all’interno della nostra discussionedella tematica temporale, che quanto più stretta diventa lanozione della continuità, tanto più si attenuano i momenti disostegno per un’articolazione possibile. Questa stessa parolarimanda ad una connessione di parti, e dunque anche alla lorodistinzione e separazione, richiamando l’idea di un corpo cheforma un’unità attraverso i propri arti, insieme connessi neipunti nodali. Nello spirito delle osservazioni precedenti, sipotrebbe sostenere che nella continuità mancano quelle diffe-renze che stanno necessariamente alla base di un’articolazione,cosicché solo la posizione, in via di principio, arbitraria, diquelle differenze rende possibile qualcosa come un discorsomusicale.

L’errore non troppo difficile da mettere in evidenza èqui quello di assumere la continuità come se chiamasse incausa unicamente la perfetta eguaglianza e omogeneità, comese essa non potesse implicare invece anche, come certamente èil nostro caso, la transizione e la differenza di grado.

Ciò che ci apprestiamo a sostenere è che lo spazio sono-

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ro, pur essendo indubbiamente una nozione prima che undato, presupponendo così elementi di costruzione intellettua-le, ha tuttavia il proprio fondamento nei suoni glissanti, edunque in manifestazioni uditive concrete e che facendo rife-rimento ad esse è possibile mettere in evidenza alcune sue ca-ratteristiche notevoli che smentiscono l’idea di una continuitàindifferenziata e informe circoscrivendo invece una strutturafenomenologica ben determinata.

Una prima caratteristica notevole è subito a portata dimano e del resto non abbiamo in precedenza potuto fare ameno di accennarvi. In effetti noi abbiamo parlato della diffe-renza del grave e dell’acuto e della possibilità di un ordina-mento scalare, possibilità che ha naturalmente le sue radicinella forma ascendente o discendente del suono glissante. Essosale – dal grave verso l’acuto; e scende – dall’acuto verso il gra-ve. Questa caratteristica potrà naturalmente essere estesa al-l’intero spazio sonoro ed essere dunque indicata come una suacaratteristica strutturale. Potremmo parlare a questo propositodi progressività dello spazio sonoro, indicando con ciò ovvia-mente entrambe le possibili direzioni di movimento.

La rappresentazione dello spazio come una semplice li-nea orizzontale potrebbe allora essere considerata fuorvianteanzitutto per via della sua orizzontalità. In essa non si rendeconto dello scendere e del salire e dunque di ciò in cui consistepropriamente, dal punto di vista percettivo, la variazione con-tinua dell’altezza. La considerazione della progressività sembrainvece contenere il suggerimento della verticalità dello spaziosonoro, intesa non già in un senso astrattamente geometrico,ma proprio nel senso che essa riceve nella spazialità concretadell’esperienza, nella quale insieme alla verticalità viene subitoprospettata la differenza tra il sopra e il sotto, tra ciò che sta inalto e ciò che sta in basso. Attraverso il tema della progressivitàsi annuncia così una sorta di geografia dello spazio sonoro, inesso si può sommariamente distinguere una regione mediache sta tra una regione inferiore e una superiore.

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Naturalmente sappiamo già come potrebbe essere conte-stata la fondatezza di una simile geografia. Si farà infatti su-bito notare quanto sia singolare pretendere che la progressi-vità, e quindi differenze come quella del grave e dell’acuto, delsopra e del sotto, e così via, siano inerenti allo spazio sonoroquando la nostra stessa terminologia mostra un’inclinazioneimmaginativa che tradisce l’intervento soggettivo necessarioper operare quel determinato conferimento di senso. Possia-mo invece supporre fondatamente che l’allievo alle prime ar-mi non possa trarre nulla dal fenomeno uditivo come tale: ditutto ciò sarebbe responsabile proprio il maestro che non solomostra una successione, ma nello stesso tempo parla e dice ora«scala», ora «salire» e «scendere», suggerendo in questo modoagganci per associazioni che sempre più andranno rinsaldan-dosi nella mente dell’allievo al punto da stabilire un modo diintendere il fenomeno uditivo a cui egli non sarà più in gradodi sottrarsi. Quelle poche e semplici parole costituisconobrecce in cui irrompe tutta una tradizione.

Una simile osservazione potrà essere eventualmente ap-poggiata richiamando l’attenzione sulle differenze terminolo-giche presso le diverse lingue che attesterebbero di per sé, co-me del resto sembra accadere nelle nostre coppie alto/basso egrave/acuto, modi profondamente diversi di «sentire» il suono.

Dal nostro punto di vista, invece, proprio quella incli-nazione metaforica che può fornire il pretesto per uno svilup-po convenzionalistico può diventare una sorta di punto diforza per procedere in direzione opposta. Cosicché non sitratta affatto di attenuarne la portata oppure di tentare inqualche modo di celarla o mascherarla, ma al contrario di atti-rare l’attenzione su di essa conferendole la massima evidenza:la descrizione non può essere neutra per il fatto che non èneutro il campo su cui essa verte. Nella terminologia il mo-mento immaginativo deve intervenire per rendere conto diuna direzione interna di senso.

L’espressione «acuto», ad esempio, potrebbe essere as-

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sunta in fin dei conti come una pura espressione tecnica checaratterizza convenzionalmente una certa regione dello spaziosonoro, reprimendo ciò che in essa sembra richiamarsi al ca-rattere specifico dei suoni appartenenti a quella regione. Inve-ce noi non solo mettiamo in evidenza la sua inclinazione me-taforica, ma avanziamo anche la pretesa che in essa si manife-sti il fenomeno stesso. Più precisamente: che l’espressione ap-partenga a quell’area di sensi immaginativamente coerenti neiquali può manifestarsi una tendenza che appartiene al feno-meno stesso.

Perciò non ha nessuna importanza l’esistenza di fatto diuna certa terminologia piuttosto che di un’altra. Ciò che im-porta è che si possa parlare in rapporto ai suoni «acuti» nonsolo della loro acuminatezza, ma anche della loro sottigliezza,snellezza, rapidità, e così via, secondo un’apertura e mobilitàche si attiene tuttavia alla logica delle sintesi dell’immagina-zione. A questa logica appartiene naturalmente anche il fattoche i suoni acuti si trovino in alto e non in basso, che essi sia-no sopra e non sotto e che dunque lo spazio sonoro intesocome flusso possa essere caratterizzato come movimentoascendente e discendente. Con tutto ciò non si vuole eviden-temente fissare qualcosa di simile ad una pura determinazioneoggettiva come se non fosse implicato un ineliminabile ele-mento di soggettività, quanto piuttosto si vuole segnalare lacircostanza che qui quelle immagini fanno presa, esse suggeri-scono qualcosa, e il suggerimento cadrebbe nel vuoto se nontrovasse un solido appiglio nella superficie fenomenologicadella cosa stessa.

Sarebbe tuttavia certamente un errore affidarsi alle im-magini alla cieca: esse attendono sempre di essere riordinateall’interno di un filtro interpretativo. Si rammenti in propo-sito ciò che si era detto nel corso della discussione sul proble-ma del timbro. Riconducendo l’elemento timbrico al corpodel suono, dunque in generale all’ambito della materialità,avevamo da un lato messo in ombra la consueta associazione

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tra timbro e colore e dall’altro avevamo richiamato l’atten-zione sul fatto che proprio chiamando in causa la corpositàdel suono era possibile rendere conto della presenza di unavalenza timbrica anche in rapporto alle altezze. Ma il tema quidominante della variazione continua delle altezze, della me-tamorfosi del suono stimola certamente ad una ripresa del ri-chiamo al colore.

In realtà questa relazione tra colori e suoni ha semprestimolato la speculazione musicale, secondo direzioni comun-que ricche di interesse anche là dove sfociavano in pura fanta-sticheria. Per quel che riguarda il nostro tema attuale, deve es-sere subito sottolineata l’evidenza con la quale si riproponequi il problema della continuità: un determinato colore sem-bra proporsi senz’altro come sfumatura di colore all’interno diuna possibile sequenza di sfumature.

Mentre nel caso dei suoni abbiamo a che fare anzituttocon una condizione di discretezza e la priorità del continuodeve in qualche modo essere esplicitamente teorizzata, nel ca-so del colore invece questa priorità si propone subito con lamassima evidenza ed è semmai la puntualità che tende ad ap-parire come una costruzione teorica. Da questo punto di vistaè certamente significativo il fatto che Newton ritenne di poterdistinguere nella sequenza continua dello spettro cromaticoesattamente sette colori unicamente in quanto guidato dallanorma dei sette suoni della scala che gli era familiare99. Ciòche rende interessante questo famoso errore non è solo la for-za del pregiudizio di un fondamento assoluto di una succes-sione scalare certamente relativa, ma soprattutto l’assunzioneimplicita della discretezza dei suoni come situazione fonda-mentale, assunzione che propone subito il falso problema diun conteggio del numero dei colori. Il rimando paradigmatico

99 Cfr. A. Wellek, «Farbenharmonie und Farbenklavier. Ihre Entste-hungsgeschichte im 18. Jahrhundert», Archiv für die gesamte Psychologie, 94,1935, pp. 347-375.

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dal suono al colore sembra allora imporsi per il fatto che nelcampo del colore abbiamo fin dall’inizio a che fare con sfu-mature, piuttosto che con punti. Naturalmente per noi unasimile circostanza diventa motivo di riflessione in quanto, in-versamente, attira l’attenzione sul problema della continuitàdello spazio sonoro: anche nel campo dei suoni abbiamo an-zitutto a che fare con sfumature. Lo spazio sonoro, così comelo abbiamo inteso, è un dispiegamento di sfumature sonore. Ein particolare converrà pensare soprattutto alle differenze delchiaro e dello scuro, non solo dunque ad esempi di sequenzecromatiche nelle quali un colore trapassa nell’altro, come ilgiallo nel rosso attraverso le sfumature di arancione. Propriouna sequenza di sfumature chiaroscurali, nella quale, è appenail caso di notarlo, la chiarezza appartiene all’area di senso deisuoni acuti, così come l’oscurità a quella dei suoni gravi, èparticolarmente adatta a illustrare l’idea dello spazio sonorocome variazione continua dell’altezza e ci consente soprattuttodi portare in primo piano un’altra caratteristica notevole dellospazio sonoro, strettamente connessa con la sua progressività,di cui fin qui tuttavia non si è fatto cenno.

Infatti non è ancora stato esplicitamente notato che ilflusso sonoro non può procedere indefinitamente nell’una onell’altra direzione, cosicché la progressione deve essere consi-derata come una progressione chiusa. Rispetto a questa carat-teristica l’elementare rappresentazione lineare dello spazio so-noro – orizzontale o verticale che sia – è del tutto inappro-priata dal momento che non è in grado di rendere conto diquesta chiusura e anzi suggerisce l’idea della prolungabilitàinfinita.

Vogliamo cercare di spiegarci meglio. In primo luogooccorre mettere in guardia dal fraintendere la nozione di chiu-sura con l’esistenza di soglie di frequenza che delimitano ilcampo dell’udibile. Al di sopra o al di sotto di queste soglienon si verifica alcun fenomeno uditivo, cosicché possiamo di-re che il campo dei fenomeni uditivi è compreso tra valori

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frequenziali determinati, e in questo senso è un campo certa-mente limitato.

Quando parliamo di chiusura dello spazio sonoro inten-diamo qualcosa di interamente diverso: essa non riguarda ilrapporto tra fenomeno uditivo ed evento fisico corrispon-dente, ma il fenomeno uditivo come tale. La chiusura deve es-sere intesa allora come chiusura fenomenologica, e dunqueavvertita e colta nella percezione come un carattere del flussosonoro stesso.

Il senso di una simile affermazione, d’altra parte, non èsubito chiaro. Dovremmo assumere che il flusso termini in unpunto che si manifesta, nell’uno o nell’altra direzione, comeun non plus ultra? C’è forse un ultimo suono che si annunciadicendo: io sono l’ultimo e dopo di me nessun altro? Comefaccio a sapere, anzi, a udire, che un suono non è solo quelloche è, ma anche l’ultimo, o, nella direzione opposta, che nonvi è altro suono prima del primo?

In realtà proprio queste domande mostrano che la chiu-sura come chiusura fenomenologicamente manifesta non puòconsistere nella percezione di un primo o ultimo suono, mapiuttosto essa chiama in causa la forma intera dello spazio sono-ro, una sua tendenza interna che è in esso ovunque operante.Infatti la percezione della chiusura fa tutt’uno con la perce-zione di un movimento che avanza verso un limite superiore eretrocede verso un limite inferiore. Non si tratta dunque diun semplice sempre più, ma di un approssimarsi sempre più adun non plus ultra. La chiusura della progressione è un caratteredella progressione stessa ed è un carattere percepito in ineren-za ad essa.

È allora interessante notare come sia appropriata per illu-strare la chiusura dello spazio sonoro proprio l’immagine dellagradazione chiaroscurale. Nulla può essere più bianco del biancoe più nero del nero; e ogni grigio in una sequenza dall’uno al-l’altro mostra di essere una fase possibile all’interno di un mo-vimento di approssimazione verso quei limiti invalicabili.

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Annotazioni

1. E. Mach, L’analisi delle sensazioni e il rapporto tra psichico e fisico(1896) tr. it., Feltrinelli, Milano 1975, p. 245: «La serie dei suonisi trova in un analogo dello spazio, in uno spazio ad una dimensio-ne... esso è analogo ad una retta verticale o ad una retta che decor-re nel piano mediano dall’avanti all’indietro. Mentre inoltre i colo-ri non sono legati ai punti dello spazio, bensì possono muoversinello spazio, e perciò noi possiamo distinguere facilmente le sen-sazioni di spazio dalle sensazioni di colore, la situazione è assai di-versa per la sensazione di suono. Una determinata sensazione disuono può presentarsi solo in un punto determinato del menzio-nato spazio unidimensionale; tale punto dev’essere ogni volta fis-sato con precisione se la relativa sensazione di suono deve emerge-re chiaramente... Il fatto che l’ambito delle sensazioni di suonopresenti un’analogia con lo spazio... si esprime già inconsciamentenella lingua. Si parla di suoni alti e bassi, non destri e sinistri, an-che se i nostri strumenti musicali si adatterebbero meglio alla se-conda denominazione».

2. L’idea dell’assimilabilità della differenza di altezza alla chiarez-za, e dunque alla differenza del bianco e del nero, è già presente inBrentano (Untersuchungen zur Sinnespsychologie, Leipzig 1907, pp.101 sgg.), che si avvale nello stesso tempo dell’analogia con la satu-razione per illustrare l’«identità» dei suoni in intervallo di ottava.Si potrebbe parlare infatti, in analogia con i colori, ad un tempo didifferenza di grado di chiarezza e di parità nel grado di saturazio-ne. Révész vede in ciò un’anticipazione del proprio concetto di«qualità sonora» e rammenta una possibile influenza di Mach suBrentano a proposito di questo punto (cfr. G. Révész, Grundlegungder Tonpsychologie, Leipzig 1913, p. 38).

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§ 5

Passiamo ora a considerare la ciclicità dello spazio sonoro cherappresenta certamente un’altra caratteristica strutturale difondamentale importanza. Parlando di ciclicità ci richiamia-mo naturalmente al cosiddetto intervallo di «ottava» e ci ac-cingiamo così a riprendere circostanze ben note, prospettan-dole tuttavia da un punto di vista affatto generale. Per questoformuliamo il problema notando che dato un punto qualun-que del continuo – sia A0 – e procedendo verso la regioneacuta (o grave) dopo un certo tratto ci imbatteremo in un al-tro punto – sia A1 – del quale è possibile dire che esso è lostesso di A0, solo che è più acuto (o più grave).

Di qui si può trarre subito che se, posto un A0 è postoanche un A1, essendo A0 scelto arbitrariamente nel continuodei suoni, allora sarà posto anche A2, A3, e così via sino al li-mite dello spazio sonoro.

Si noterà subito che non abbiamo potuto fare a meno,in questo nostro primo tentativo di realizzare un resocontodella situazione, di parlare di punti e naturalmente ciò dipen-de dal fatto che nella considerazione della ciclicità si annunciaun principio di suddivisione interna dello spazio sonoro: l’in-tervallo di ottava rappresenta una possibilità di segmentazioneche ha fondamento nello spazio sonoro stesso, anzi, potrem-mo dire che, in quanto appartenente alla sua struttura, e in es-so senz’ altro operante.

Nella nostra formulazione è anche implicato che unqualunque punto sonoro – sia ad esempio B0 – compreso traA0 e A1, sarà presente come B1 nell’intervallo di ottava A1 A2,e così in ogni altro.

Ciò ha diverse e importanti conseguenze. In primo luo-go siamo tenuti a fissare una distinzione che in precedenzapoteva essere trascurata. Come abbiamo mostrato or ora in-fatti un punto qualunque fissato nel flusso può essere desi-gnato da una lettera provvista di indice, dove la lettera sta a

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rappresentare il suono stesso considerato indipendentementedalla sua iterazione ovvero come «ciò che hanno in comune» isuoni iterati, mentre l’indice caratterizza la differenza della re-gione sonora, quindi la differenza dell’altezza. Dunque con A,B, C, ecc. possiamo indicare specie astratte di suoni, a ciascu-na delle quali corrisponde una molteplicità di suoni indiciz-zati. I suoni indicizzati possono essere considerati come esem-pi di suoni della stessa specie. Come esempio di A possiamoindicare A1, oppure, indifferentemente, A2, e così via. E men-tre in precedenza avevamo parlato di «note» per indicare isuoni-oggetti in genere, ora questo stesso termine potrà essereimpiegato, in una seconda accezione, per indicare le specie disuoni astrattamente considerate.

Quando dicevamo poco fa che A1 è lo stesso che A0, aparte la differenza dell’altezza, intendevamo dire propria-mente che l’uno e l’altro sono suoni della stessa specie. La nota,nella seconda accezione del termine, è appunto la stessa.

Un altro termine utilizzato talvolta per caratterizzare lanozione della nota differenziandola con chiarezza dalle altezzeè quello di «qualità sonora»100. Questo termine sembrerebbeparticolarmente appropriato in rapporto alla situazione dalmomento che esso richiama l’analogia cromatica che sembraproporsi anche sotto questo riguardo con particolare efficaciaillustrativa. Alle differenze degli indici potremmo far corri-spondere le differenze chiaroscurali, mentre la differenza tra lespecie di suoni potrebbe essere illustrata dalla differenza cro-matica vera e propria: una qualità sonora si distinguerebbe daun’altra così come il rosso dal giallo o il verde dal blu. Mentrein rapporto alla pura considerazione della progressività si po-teva parlare di un continuo di grigi, ora, nella considerazionedella ciclicità sembra irrompere l’intera varietà delle differenzecromatiche. La vecchia idea della corrispondenza tra note e

100 Questa terminologia risale a G. Révész (cfr. Psicologia della musica,Giunti Barbera, Firenze 1954, p. 54).

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colori che abbiamo già avuto occasione di rammentare sembraavere qualche sostegno in alcune significative analogie struttu-rali.

Il termine di qualità sembra inoltre imporsi per il fattoche le variazioni di altezza sono in ogni caso variazioni del piùe del meno, dunque in qualche modo caratterizzabili comequantitative, cosicché ciò che intendiamo con specie di suonisembra contrapporsi a esse come l’elemento puramente qua-litativo.

Sulla base della ciclicità, si può affermare che un qua-lunque segmento delimitato da suoni che si trovano in inter-vallo di ottava può essere considerato come segmento rappre-sentativo dell’intero spazio sonoro e di conseguenza lo stessointervallo di ottava può essere definito come quel segmentodello spazio sonoro che lo rappresenta. Questa circostanzapuò essere illustrata dicendo che tutte le note («qualità sono-re») di cui consta lo spazio sonoro trovano esemplificazione inquel segmento. O anche: lo spazio sonoro non contiene unnumero maggiore o minore di note di quanto ne contenga ilsuo segmento rappresentativo. Per questo motivo all’intervallodi ottava è senza dubbio lecito applicare la nozione di spaziosonoro in una nuova accezione, nozione che è per noi la terza.

Va da sé che l’esistenza di un segmento dello spazio so-noro che è il suo segmento rappresentativo può essere consi-derata come una formulazione equivalente della sua strutturaciclica. Notiamo in margine che è possibile parlare di un cen-tro dello spazio sonoro (in quest’ultima accezione), in quanto sidà all’interno dell’ottava un punto che è equidistante dagliestremi che la delimitano.

Ciò che poteva inizialmente apparire come una condi-zione relativamente priva di complicazioni, si dimostra inveceparticolarmente complessa da descrivere. L’andamento pro-gressivo che si manifesta nella variazione di altezza deve esserecolto insieme all’andamento ciclico, dal quale può solo astrat-tamente essere separato. Ciò significa che viene percepita non

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la mera «identità» degli estremi del segmento rappresentativoin una sorta di effettivo confronto di punto contro punto, mail procedere del movimento verso una fine che «coincide» conil suo inizio – questo approssimarsi alla fine che è anche unritorno all’inizio appartiene al senso della situazione percetti-va, così come la percezione della progressione o della suachiusura come tendenza ad un non plus ultra. Del resto, te-nendo conto di tutto ciò possiamo formulare una condizionedi chiusura, in un nuovo senso, anche in rapporto allo spaziosonoro in questa terza accezione.

Perciò una linea chiusa, sulla quale si potrà contrasse-gnare un punto come inizio e fine

SPAZIO SONORO

può fornire una rappresentazione dell’andamento del seg-mento rappresentativo quando si prescinda dalla progressività.In essa si vuole portare l’attenzione soprattutto sulla «curvatu-ra» dello spazio sonoro che annuncia il ritorno dell’identico.Volendo includere insieme al momento ciclico anche quelloprogressivo (senza per altro dare una rappresentazione dellachiusura della progressione), otterremo allora piuttosto, comenella rappresentazione proposta da Révész

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SPAZIO SONORO

(secondo Révész)

una linea spiraliforme che si eleva nella terza dimensione.Ogni punto sulla spirale è proiezione dei punti della circonfe-renza del cerchio che vale ora come rappresentazione dellatotalità chiusa delle «qualità sonore» come tali, astrattamenteconsiderate come indipendenti da qualunque riferimento allealtezze101. In questa rappresentazione appare anche con evi-denza che il punto in cui la progressione modifica il proprioandamento coincide con il centro dello spazio sonoro.

101 G. Révész, op. cit., p. 67.

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Annotazioni

1. In realtà la figura proposta da Révész per lo spazio sonoro haun importante precedente in M.W. Drobisch che argomenta in-torno ad essa in «Über musikalische Tonbestimmung und Tem-peratur», in Abhandlungen der math. phys. Classe der Kön. Sachs. Ge-sellschaft, Leipzig 1855 (debbo questa segnalazione a R. Casati).

2. L’impiego dominante del termine «spazio» in questo capitolonon arriva ad abbracciare lo spazio inteso concretamente comeambiente in cui la musica risuona, e dunque in esso non si parladell’ampia problematica che a quella nozione è connessa e che hasuscitato grande interesse in particolare nella musica novecente-sca. Significativi contributi sull’argomento sono stati proposti daD. Carpitella, A. Tamba, E. Fubini, H.W. Heister, A. Negri, J.Kondo, G. Manzoni, A. Melchiorre, F. Fabbri, L. Pestalozza du-rante il seminario di studio del XXI Festival Pontino di Musicatenuto a S. Felice Circeo nei giorni 13-14 giugno 1985, i cui attisono stati raccolti e pubblicati da R. Pozzi con introduzione di L.Pestalozza con il titolo La musica e il suo spazio, Quaderni di Musi-ca/Realtà, Unicopli, Milano 1987. La varietà degli argomentitrattati mostra che il tema può essere affrontato da una grandemolteplicità di punti di vista e ciò determina del resto una certadifficoltà nella sua delineazione teorica. In questione sono quicertamente anzitutto i luoghi in cui la musica viene di volta involta eseguita – il teatro greco, la chiesa, la corte, il teatro d’opera,la sala da concerto, ecc. – quindi la spazialità reale, architettoni-camente delimitata, con l’intero ambito di questioni attinentil’«ottimizzazione» della ricezione del suono che impongono deci-sioni sulla forma dello spazio, sulla localizzazione in esso dellefonti sonore, sulla disposizione degli ascoltatori, e l’eventuale ri-corso ad artifici tecnici tendenti a eliminare o a ridurre effetti acu-stici indesiderabili, ecc. Occorre notare che se la spazialità fosseconsiderata esclusivamente da questo punto di vista, essa riguar-derebbe soltanto la contingenza del suono, il fatto che esso risuo-na in ambienti determinati, con i loro pregi e difetti acustici – ri-guarderebbe dunque il suo accadere empirico, di cui ci si potrebberelativamente disinteressare assumendo semplicemente che l’ese-

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cuzione debba essere compiuta in ogni caso in luoghi «idonei» e incondizioni acusticamente «ottimali». Di fatto l’attenzione esclusi-va alla temporalità può talvolta rappresentare un indizio che se-gnala la messa al margine proprio del fatto che il suono è unevento empirico-reale e in forza di ciò esso entra in relazione conlo spazio. Considerazioni sulla provenienza e sulla diffusione delsuono fanno parte della fenomenologia del suono in genere; ed’altro lato, gli stessi problemi di «ottimizzazione» hanno un ver-sante fisico-oggettivo, ma anche un versante culturale-soggettivo equest’ultimo ha una funzione tutt’altro che marginale nella deter-minazione di ciò che si deve intendere di volta in volta con «otti-mizzazione» della ricezione sonora. La questione della spazialità nella musica si propone alloracome una questione interna al fenomeno musicale e alla sua por-tata simbolico-espressiva ed a questo punto lo spazio cominciacon il diventare materiale della musica, come si esprime G. Man-zoni nel saggio «Lo spazio come materiale della musica», in op. cit.,pp. 80 sgg. Ma vi sono naturalmente molti modi in cui ciò può ac-cadere: ad esempio, mantenendo la presa sulla spazialità reale,come nella fantasia della città che suona, di cui si parla nel saggiodi Manzoni; oppure ponendo il problema in termini di effetti spa-ziali interni al fenomeno sonoro, e in tal caso la spazialità realepotrà certamente essere «messa tra parentesi». Dopo l’avventodella stereofonia e prima ancora della radiofonia (con i suoi biso-gni di manifestazione dell’elemento spaziale) che hanno agito dastimolo in rapporto a questa direzione della ricerca musicale –come sottolinea molto giustamente F. Fabbri nel saggio «Il mezzoelettroacustico, lo spazio musicale, la popular music», in op. cit.,pp. 96 sgg. – non può certo destare sorpresa l’affermazione secon-do cui il sussistere di uno spazio reale non è affatto una condizio-ne per il prodursi di un effetto spaziale – anche se è diffusol’equivoco che un’apparecchiatura stereofonica non faccia altro che«imitare» il risuonare della musica nello spazio. Di fatto essa faqualcosa di diverso, e cioè fa apparire l’elemento spaziale nel fe-nomeno sonoro e lo fa apparire in un modo che non è per nullagarantito dal puro accadere empirico-spaziale del suono. Il pre-supposto non sempre abbastanza esplicito nelle discussioni sull’ar-gomento è che l’effetto che annuncia la spazialità all’interno del

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puro fenomeno sonoro riguarda fondamentalmente la profonditàe le manifestazioni ad essa connesse. Ciò corrisponde del resto alfatto che la profondità è la dimensione costitutiva fondamentaledella spazialità. L’esperienza dello spazio è soprattutto esperienzadel «vuoto» e del «profondo». Cosicché il problema della stereo-fonia è quello di fare avvertire questa profondità nello stesso fe-nomeno sonoro, e in questo senso sarebbe forse più giusto direche in essa si avverte lo spazio nel suono, piuttosto che il suononello spazio. Si tratta di un problema che va chiaramente oltreuna tematica della spazialità nella musica che comincia a delinear-si a partire dall’impiego di metafore spaziali oppure dal reperi-mento di analogie strutturali tra forme spaziali e forme musicali(cfr. A. Melchiorre, «Lo spazio come forma e materia della musi-ca», in op. cit., pp. 88 sgg.), anche se non è sempre facile tracciaretra questi diversi ambiti della questione una chiara linea di demar-cazione. Nella nozione di Varèse di proiezione del suono si proponel’idea di un movimento del suono inteso come un movimento veroe proprio del suono nello spazio profondo – un’idea che richiedeche il suono venga concretizzato e prospettato come un corpo,come una massa capace di spostarsi attraverso lo spazio, in unsenso che non può essere banalmente ridotto allo spostamentoeffettivo della fonte sonora, anche se un simile movimento realepuò forse essere annoverato tra i mezzi per conseguire quell’effettofenomenologico. Cosi Varèse stesso rammenta che l’uso di sirenein Ionisation e Amériques ha in particolare la funzione di manifesta-re questo movimento attraverso lo spazio (Il suono organizzato,Edizioni Unicopli-Ricordi, Milano 1985, p. 151), alludendo aduna concezione della musica come «qualcosa di spaziale, come uninsieme di corpi di suoni» proiettati nello spazio (ivi, p. 154), an-che se «si trattava ancora di un trompe-l’oeil, di un’illusione uditi-va, per così dire, e non di qualcosa di letteralmente vero» (ivi, p.152). Vorrei infine richiamare l’attenzione sul saggio di A. Tam-ba, «Spazio teatrale e spazio psicologico nel teatro Nô», in op. cit.,pp. 23 sgg., nel quale il peculiare impiego della voce nel teatro Nôviene ricollegato alla estetica dello Yûgen. Con particolari tecnichevocali si cerca di ottenere «timbri oscurati e gravi, che dànno unasensazione di vastità, di profondità, di calma e di mistero». Analo-gamente, la maschera assolve lo scopo di rendere «la voce più gra-

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ve, profonda e misteriosa all’ascolto». Si può certamente parlareanche in questo caso di un effetto spaziale nell’accezione in cui neabbiamo parlato in precedenza, un effetto che è apertamente su-bordinato ad un intento espressivo, come è segnalato appunto dailegami con l’estetica dello Yûgen, dove Yû significa «un vasto spa-zio, incommensurabile, profondo e misterioso» e Gen significa«cupo e profondo».

3. Nel saggio di P. Boulez, «Tecnica musicale», in Pensare la musicaoggi, Einaudi, Torino 1979, pp. 30 sgg., che deve essere letto comeun manifesto del serialismo integrale, più che come un testo ri-volto alla rifondazione della teoria musicale (problema che peral-tro esso contiene), lo spazio viene in questione sia come ambientedel suono sia come sistema di relazioni astrattamente considerato.Può tuttavia sembrare singolare che non si ritenga né necessarioné opportuno dedicare qualche parola per fissare la differenza, maciò dipende certamente dal fatto che, secondo lo spirito dellostrutturalismo logicizzante che caratterizza questo saggio, si do-vrebbe mirare proprio al superamento di questa differenza, ricon-ducendo (più o meno forzosamente) situazioni percettive impli-canti in varie forme lo spazio reale (rapporto locale tra ascoltatoree fonte sonora, pluralità delle fonti e loro dislocazione, effetti dimobilità del suono da un punto all’altro dello spazio circostante,ecc.) sotto concetti vuoti e applicabili come tali a ogni altra dimen-sione del suono. Si approfitta così, seguendo una metodologiaovunque messa in opera, di ogni possibile riferimento analogico,non già allo scopo di ottenere approfondimenti descrittivi, ma aquello di operare generalizzazioni e subordinazioni concettuali. All’interno di un simile punto di vista che sembra ricercareproprio in un fondamento concettuale comune la legittimazionedell’impiego della spazialità come parametro musicale, è naturaleche si tema un impiego «aneddotico» o «decorativo» della dimen-sione spaziale – «non per nulla si citano sempre come antenatiBerlioz e i veneziani, cioè il compositore più esteriore e quelli piùdecorativi» (p. 64) – un impiego che minaccerebbe di distoglierel’attenzione che deve essere interamente assorbita dalle «strutturestesse» (p. 66). In particolare, a proposito degli effetti di movi-mento sonoro ottenuti ricorrendo alla mobilità delle fonti, degli

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esecutori, ecc. si sottolinea il rischio di una «teatralizzazione» pri-va di scopo, che sarebbe giustificata solo là dove vi sia un teatrocapace di operare un’integrazione effettiva tra gesto, parola e suo-no, come nel caso del teatro Nô che «ci fornisce di questa conce-zione un’ammirevole forma tradizionale» (ivi). Per ciò che riguarda lo spazio sonoro definito in rapporto alsistema delle altezze («spazio delle frequenze»), assume particola-re rilievo la distinzione tra continuità e discontinuità. Ma la con-tinuità di cui qui si parla non solo non è presentata dal «percorsocontinuo effettuato da un punto ad un altro dello spazio» (p. 83)– e si intendono qui i movimenti sonori apparenti nello spazio-ambiente, i «glissandi dello spazio» secondo un’espressione prece-dentemente impiegata (p. 64) – ma nemmeno, a quanto sembra,dalla variazione continua delle altezze come un fenomeno sonoroche può essere concretamente esibito. Viene invece ribadito l’in-teresse verso una nozione astratta di continuità, alla quale il fe-nomeno sonoro concreto deve essere subordinato. Del resto, inquesto ordine di considerazioni la nozione fondamentale diventaquella di taglio, e in essa l’allusione alla concezione matematica delcontinuo diventa esplicita. «Il continuum si manifesta con la pos-sibilità di tagliare lo spazio secondo certe leggi; la dialettica tracontinuo e discontinuo passa dunque attraverso la nozione di ta-glio; arriverei perfino a dire che il continuum è questa possibilitàstessa perché contiene insieme il continuo e il discontinuo: il ta-glio, se si vuole cambia il continuum di segno» (p. 83). Che si sia qui prevalentemente interessati all’idea astratta dicontinuità è confermato dalla nozione di spazio liscio, espressionecon la quale si intende non già il continuo stesso (come forse iltermine potrebbe suggerire), ma una selezione irregolare di puntisu di esso, cosicché questi debbono essere concepiti come singola-rità emergenti da uno sfondo indifferenziato. La continuità vienecosì posta in modo indiretto e proprio attraverso un esempio didiscontinuità. In opposizione allo spazio liscio, si propone di parla-re di spazio striato quando si sia in presenza di suddivisioni regolari(temperate, nell’accezione generale del termine). Come abbiamogià osservato (Cap. II, par. 7, Annotazione 1) questa distinzioneassume un qualche interesse nella sua trasposizione al problematemporale.

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§ 6

Rammentiamo quali erano i termini del nostro problema ini-ziale: il fatto stesso di prendere le mosse dallo spazio sonorosembrava subito mettere in questione i suoni come entità ob-biettivamente sussistenti, suggerendo invece che il passaggiodal continuo al discreto dovesse essere concepito come conse-guenza di una selezione di punti del continuo effettuata in viadi principio in modo arbitrario. La domanda che chiedequanti suoni ci sono e quali appare perciò subito come unadomanda mal posta. Ma questo primo avvio del problema ri-ceveva un nuovo orientamento nell’elaborazione dell’idea cheil continuo sonoro non sia affatto da intendere come una to-talità indifferenziata, ma che esso abbia una struttura fenome-nologica di cui abbiamo cominciato con il dare una sommariadelineazione. Da questa elaborazione è lecito attendersi che lostesso problema generale del passaggio dal continuo al di-screto, che rappresenta in ogni caso il problema centrale diquesta nostra discussione, si presenti in una forma più com-plessa di quanto potesse sembrare inizialmente.

La possibilità della segmentazione in ottave dello spaziosonoro, benché abbia cominciato con il mostrare la presenzadi un fondamentale principio di suddivisione intrinseca, nonsembra tuttavia avere spostato significativamente i terminidella questione. Possediamo forse dei criteri per deciderequante note debbano essere individuate in un segmento rap-presentativo dello spazio sonoro ed a quale distanza si debba-no trovare l’una dall’altra? Sembra invece che si possano ripe-tere qui le stesse considerazioni critiche, volte in senso con-venzionalistico, che erano già state proposte in precedenzaquando avevamo rammentato la molteplicità dei sistemi scala-ri come una circostanza di fatto che sembrava trovare nelcontinuo sonoro un’immediata legittimazione di principio.

L’intero problema può tuttavia essere ora sottoposto adun esame più accurato.

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Vi è intanto certamente un modo di delimitare la que-stione che rende sensato affermare che il numero dei suonicompresi all’interno del segmento è determinato e così anche èsensata la domanda che chiede quale sia questo numero.

Si tratta semplicemente del fatto che, essendo in que-stione un flusso di variazioni continue, vi è un limite al disotto del quale la variazione non viene avvertita. Il segmentopuò così essere «analizzato» in punti distinti e il loro numero èdeterminato dalla minima differenza percepibile.

La domanda intorno al numero dei suoni diventa allorauna domanda tendente ad accertare la capacità psicologica didifferenziazione percettiva, e ad essa si potrà rispondere ricor-rendo ad una sperimentazione adeguata.

Tuttavia, già il fatto che ci troviamo alla presenza di unaquestione di fenomenologia empirica, e quindi in ultima ana-lisi di psicologia della percezione, ci avverte che muovendoci inquesta direzione rischiamo di rimetterci il senso stesso del no-stro problema. Soprattutto la questione della differenza trasuono e suono, e dunque di ciò che deve valere come lo stessosuono, viene già deciso secondo un criterio troppo elementareche nasconde e confonde l’aspetto realmente rilevante dalpunto di vista puramente fenomenologico e, di conseguenza,vorrei quasi dire, dal punto di vista musicale.

Vogliamo del resto metterci anzitutto da quest’ultimopunto di vista. Accanto alle note vere e proprie, con il loronome, si ammette la possibilità di «alterazioni», intendendosicon ciò, nella terminologia usuale, la possibilità di sposta-menti abbastanza piccoli della nota verso il grave o versol’acuto. Una nota può, come anche si dice, essere bemollizzatao diesizzata, vale a dire che essa può essere abbassata o elevatadi un semitono, pur restando la stessa: il nome, di conseguenza,rimane invariato.

È opportuno sottolineare che, a parte le peculiarità ter-minologiche e così anche i modi di integrazione di questapossibilità all’interno del sistema musicale europeo, si tratta di

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un problema che non è affatto specificamente legato ad esso eche si ritrova ovunque, facendo parte integrante della proble-matica delle strutture scalari in genere. In rapporto ad esse,dobbiamo sempre distinguere tra note principali ed eventualiloro possibili alterazioni, che non sono quindi da porre nelnovero delle note vere e proprie. Il fatto che nella vecchia ter-minologia si parlasse in rapporto ai segni delle note alterate diaccidenti ha probabilmente il senso di una sottolineaturadell’inessenzialità dei suoni corrispondenti e della loro dipen-denza dalle note «principali» che possono eventualmente esse-re sottoposte ad alterazione.

Ma a ben pensarci, qui tutto sembra contravvenire un’ef-fettiva coerenza e ordine concettuale. In primo luogo si pre-tende di proporre un’ulteriore regola per l’uso della parola «lostesso» che non riguarda affatto la «coincidenza» dei suoni chesi trovano in intervallo di ottava, ma che si applica proprio neicasi in cui parliamo comunque di un’alterazione, e dunque diuna diversificazione. Sembra allora il caso di chiedersi se nonsia più corretto, almeno all’interno di una trattazione che a-vanza la pretesa di muoversi su un terreno generale, conside-rare ogni suono di pari dignità, ed attribuire pertanto a cia-scuno – ad esempio, a ciascuno dei dodici semitoni della scalatemperata – un nome distinto. Il parlare di alterazione sarebbedunque una pura consuetudine terminologica, essa sì acci-dentale, e cioè sprovvista di una qualche giustificazione e per-sino ampiamente sospetta di illogicità, ferma restando natu-ralmente la possibilità di operare differenziazioni di dignità trai suoni sul terreno della loro elaborazione «linguistica».

Del resto proprio la questione della suddivisione secon-do il criterio della minima differenza percepibile sembra inse-gnare proprio questo. In essa non si parla di alterazioni edunque nemmeno di una possibile distinzione tra note prin-cipali e note secondarie. Alla luce di quel criterio una similedistinzione non può avere alcun sostegno nello spazio sonoro.

Abbiamo qui un esempio particolarmente significativo

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del rischio che si corre nel fare valere modelli argomentativi ecriteri logico-concettuali assunti acriticamente senza tenerconto della problematica effettiva in discussione. Non vi è bi-sogno infatti di rammentare che la parola alterazione è statada noi impiegata (cfr. § 3) non già per caratterizzare una cir-costanza specificamente musicale, non dunque come una pa-rola che farebbe semplicemente parte della terminologia tec-nica o addirittura di una terminologia applicabile solo a qual-che particolare sistema musicale e di cui si possa dare solo unagiustificazione storica, ma per caratterizzare il senso dello spa-zio sonoro come movimento fluente, come continua trasmu-tazione e metamorfosi. Con quella parola dunque noi inten-devamo cogliere un’effettiva realtà fenomenologica ed è cer-tamente questa realtà che sta alla base del problema che noiabbiamo or ora prospettato.

Tenendo conto di ciò, l’intera questione riceve un nuo-vo impulso. In primo luogo, appare subito chiaro che ciò chedeve valere come lo stesso suono o come un altro, da essosemplicemente distinto, non è una circostanza affatto ovvia eche concepire il suono singolo, nella molteplicità dei suoni,come un’oggettività puntuale e identica coglie un aspetto delproblema, ma non lo esaurisce. Ad una considerazione staticadeve infatti subentrare una considerazione dinamica non ap-pena, attenuandosi la distanza tra i suoni, si fa sentire la ten-sione unitaria del continuo.

Di qui l’importanza della distinzione tra grande e piccolointervallo, un’importanza che può essere colta solo se ci si in-stalla all’interno di un atteggiamento rivolto al lato soggettivo,piuttosto che alla pura determinazione oggettiva.

Quale differenza, si potrebbe chiedere, può mai inter-correre tra un grande e un piccolo intervallo tranne il fattoche l’uno è grande e l’altro è piccolo? Questa logica considera-zione, proiettata senz’altro sul piano percettivo, potrebbe su-bito insegnarci che percepire un piccolo intervallo è la stessacosa che percepirne uno grande, tranne il fatto che esso è pic-

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colo. Questo insegnamento è invece smentito dalla manifesta-zione percettiva, che mostra come sia qui in questione il pro-blema stesso della molteplicità e della differenza, dell’identitàe dell’unità dei suoni. Ciò che viene percepito infatti non èsolo la maggiore o minore grandezza dell’intervallo: nel casodel piccolo intervallo, poiché vi è un’approssimazione allecondizioni del continuo, in luogo di percepire due suoni sem-plicemente distinti, si avrà una specifica percezione di altera-zione, come se il suono precedentemente udito si dilatasse o sicontraesse pur mantenendosi nella sua «identità»: mentre unintervallo abbastanza grande è necessario affinché si dia effet-tivamente un altro suono.

Sulla base di queste considerazioni possiamo formulareuna regola fenomenologica che riguarda proprio il problemadella suddivisione dello spazio sonoro e quindi il numero deisuoni e la grandezza degli intervalli. Essa stabilisce che perintervalli abbastanza piccoli in luogo della distinzione e delladifferenziazione subentra l’effetto di alterazione. Di conse-guenza all’interno del segmento rappresentativo la suddivisio-ne non può essere troppo fine e dunque il numero delle notenon può essere troppo grande.

L’interesse di una simile regola non viene certo menoper il fatto che essa deve essere lasciata nell’indeterminatezzanella quale l’abbiamo formulata. Il nostro scopo non è infattiper nulla quello di proporre una sorta di deduzione dellestrutture scalari. Piuttosto si tratta di mostrare, intanto, cheuna qualunque suddivisione arbitraria dello spazio sonorosoggiace a quella regola la quale decide per la sua parte sul ri-sultato.

Sulla base di ciò possiamo affermare, ad esempio, chenell’intervallo

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dobbiamo contare, tra i due estremi in ottava, due note, e nontre, così come nell’intervallo

una soltanto.Considerazioni come queste mostrano almeno in quale

direzione possa essere sviluppata una critica di una posizionepuramente convenzionalistica – una critica che per altro nonpretende affatto di appoggiarsi su giustificazioni naturalisti-che. Ma certamente il motivo polemico è nettamente superatodall’evidenza con la quale si mostrano, lungo il percorso cheabbiamo seguito, le radici del problema musicale del cromatismo.

Le esposizioni scolastiche di teoria musicale, impegnatecome sono a fornire informazioni ed a circoscrivere le loro pro-blematiche strettamente all’interno della musica stessa, nonconcedono nemmeno al lettore più attento di sospettare chequi è in gioco il rapporto con il tema della continuità. Diffe-renze come quelle tra l’ordine diatonico e l’ordine cromaticovengono subito proposte sulla base di modelli particolari, conriferimento stretto a linguaggi determinati, senza nemmenotentare di cogliere il fondamento generale che è in grado di get-tare una luce immediata sul loro senso di principio.

La parola cromatismo naturalmente ha per noi un sensoche va oltre la sua eventuale elucidazione tecnica. Essa richia-ma proprio la sfera del colore, ma non in un’accezione generi-ca, o in modo impressionistico, come se si alludesse a non soquale sentimento di coloritura del suono.

Nella considerazione del piccolo intervallo – nell’altera-zione cromatica, come ora possiamo dire – è in questione ladifferenza tra ciò che è un suono e ciò che è invece soltanto la

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sfumatura di un suono: differenza che poggia a sua volta sullarelazione e sulla tensione tra continuità e discretezza.

Annotazione

È significativa, anche in rapporto al nostro discorso, la resistenzadi Schönberg all’impiego del termine di alterazione, così come vienedichiarata, ad esempio, nel Manuale di armonia, Il Saggiatore, Mi-lano 1963, vol. II, p. 441: «La parola alterare, derivando dal latinoalter ( = altro) può essere intesa nel senso di modificare (verän-dern); è meglio però supporre che alterare significhi prendere unaltro suono, che non quello proprio della scala; e questo ci fa pen-sare alla sostituzione dei modi maggiore e minore con la scalacromatica di cui si è già parlato» (cfr. anche vol. I, p. 125). Ciò èconforme e conseguente al richiamo alla scala cromatica soltantoin quanto essa presenta lo spazio sonoro disponibile nella sua to-talità, indipendentemente da qualunque gerarchizzazione. Perciòè più opportuno, secondo Schönberg, intendere l’ alterazione co-me passaggio ad una nota effettivamente altra, piuttosto che comemodificazione di un suono: ciò significa la stessa cosa che prenderele distanze dal cromatismo come approssimazione alla continuità, accen-tuando invece il tema della discretezza.

§ 7

Ci avviamo ora, sviluppando e approfondendo il quadro delnostro problema, ad un esame della distinzione tra consonanzae dissonanza. Come in precedenza i nostri interessi sonostrettamente filosofici: il nostro esame vorrebbe essere untentativo di indicare i termini di uno studio filosofico di quelladistinzione – questo aspetto deve ora essere particolarmentesottolineato perché, più che in precedenza, corriamo il rischiodi essere fraintesi, prima ancora che nei risultati, nei nostristessi intenti. Si tratta infatti di non perdere di vista il fattoche non abbiamo di mira l’acquisizione di conoscenze effetti-

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vamente nuove, ma che le nostre sono propriamente discussio-ni sulla tenuta dei concetti e quindi, ora in particolare, sullaconsistenza o inconsistenza della distinzione tra consonanza edissonanza, sul modo di intenderla, soprattutto sulla posizio-ne che essa deve o può assumere all’interno del quadro teoricoche stiamo delineando.

Naturalmente non è il caso di insistere più di tanto suche ne è di questa distinzione dal punto di vista musicale, epiù precisamente alla luce degli sviluppi della musica nove-centesca. Alla centralità della consonanza che in varie formeha dominato l’intera tradizione musicale europea e alla posi-zione subordinata della dissonanza, sono subentrate teorizza-zioni e pratiche musicali tendenti ad una radicale messa inquestione di questi rapporti. Ed è ben noto anche come que-sto non sia stato altro che il primo passo di una critica dellatradizione di proporzioni molto più ampie.

In rapporto a tutto ciò, a noi basta attirare l’attenzionesul fatto che l’andamento del dibattito ha suggerito fin dall’i-nizio e poi sempre più ribadito fino al limite del luogo comu-ne, la natura eminentemente linguistica della distinzione, por-tando ulteriori elementi ad un punto di vista relativistico econvenzionalistico.

Ciò significa, come ormai sappiamo, dal momento chequi si rinnova un impianto che ci è ben noto, sottolinearel’inconsistenza della distinzione ovvero asserire che essa puòdiventare consistente solo all’interno di una sintassi che larenda tale. Naturalmente anche su questo punto noi inten-diamo invece ribadire e consolidare le nostre tesi; o forse do-vremmo dire più correttamente: tutta l’impostazione di cuiabbiamo cominciato a intravedere i lineamenti si dimostre-rebbe profondamente inadeguata se non riuscisse a venire acapo di questa distinzione, naturalmente sul terreno proble-matico che è stato proposto fin dall’inizio: la varietà delle pos-sibilità linguistiche si misura sempre con le possibilità latentinel materiale fenomenologico. Detto in altro modo: la conso-

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nanza e la dissonanza, prima ancora di essere problemi per unlinguaggio musicale, prima ancora dunque di entrare all’in-terno di una dialettica dell’espressione, sono una faccenda in-terna dello spazio sonoro e della sua fenomenologia.

Tuttavia, che cosa questo propriamente significhi puòrisultare chiaro solo al termine di un percorso che deve invececominciare con il circoscrivere i termini del problema met-tendo in evidenza i punti che possono essere fonti di difficoltàe di oscurità.

Anzitutto converrà richiamare l’attenzione sulla gram-matica corrente di questi termini.

Consonanza e dissonanza indicano una relazione trasuoni: precisamente, questi termini vengono applicati anzi-tutto ad una coppia di suoni, cosicché si dirà che un datosuono (nota) è consonante o dissonante rispetto ad un altro.Naturalmente si parlerà anche, in modo relativo, di intervalliconsonanti e dissonanti. In generale, nell’impiego di questitermini, si pensa a situazioni esemplificative nelle quali i suonivengono fatti risuonare simultaneamente e si tende allora a ca-ratterizzare come consonante o dissonante l’accordo che ne ri-sulta. Se l’accordo è composto di più note, verrà detto disso-nante se contiene almeno un intervallo dissonante. Per questoil rapporto tra due suoni può essere considerato non solo co-me caso elementare ma anche fondamentale per la giustifica-zione della distinzione o più semplicemente per l’impianto diuna discussione intorno ad essa.

È forse anche il caso di notare che il richiamo all’ordinedella simultaneità sembra necessario per sottolineare che conconsonanza e dissonanza si intende un effetto sonoro caratteri-stico – nel primo caso di armoniosa confluenza dei suoni, nelsecondo di urto e di conflitto.

Come casi speciali di consonanze potranno essere citatil’unisono e la consonanza di ottava. Nel primo caso sembra ov-vio che si possa parlare del consuonare di un suono con sestesso, e il secondo si discosta di poco dall’unisono dal mo-

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mento che il sussistere di un rapporto di consonanza di ottavapuò essere considerato come una condizione definitoria per laposizione dell’identità «specifica», cioè dell’identità della «quali-tà sonora». La nozione di consonanza come consonanza diottava era dunque tacitamente presupposta nelle nostre consi-derazioni precedenti.

Della consonanza di ottava si tende inoltre a parlarecome caso di massima consonanza dopo l’unisono, e si inne-sta a questo punto, spesso senza che nemmeno venga avvertitoil mutamento concettuale implicato, un’inclinazione a consi-derare consonanza e dissonanza come nozioni che ammettonodifferenze del più o del meno. Si affaccia così l’idea di unagradualità e che dunque le consonanze o le dissonanze non sitrovino tutte sullo stesso piano, ma che abbia senso dire, nonsoltanto «questo intervallo è consonante», ma anche: «questointervallo è meno consonante di quest’altro». La distinzionetra consonanza e dissonanza diventa così relativa, ammetteuna gradualità e dunque la possibilità di un ordinamento sca-lare.

Al problema puramente classificatorio di porre da unlato le consonanze, dall’altro le dissonanze, subentra il pro-blema di istituire la serie il cui principio di ordinamento siarappresentato dalla relazione «più consonante» («meno disso-nante»).

Poiché ci stiamo riferendo alla grammatica correntedella parola, altrettanto correnti potranno essere gli esempi:così si potrà dire, non solo «l’intervallo di quinta è consonan-te» oppure «l’intervallo di settima è dissonante», ma anche«l’intervallo di terza maggiore è meno consonante dell’inter-vallo di quinta» oppure «la terza maggiore nel sistema tempe-rato è meno consonante della terza maggiore nel sistema zar-liniano». È possibile infine che nella manualistica corrente siavverta, in particolare proprio in rapporto al problema delledifferenze nel grado di consonanza, di non ricercare un au-tentico fondamento obbiettivo, dal momento che intervengo-

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no in modo determinante in queste valutazioni considerazioniche chiamano in causa l’educazione dell’orecchio e dunque inultima analisi l’assuefazione a determinati stilemi compositivi.Nessuna documentazione sembra infatti più a portata di ma-no di quella che mostra, in rapporto al problema dei gradi diconsonanza, valutazioni differenti e nello stesso tempo unadifficoltà di principio a decidere a che cosa propriamente que-ste valutazioni dovrebbero essere ancorate. Accentuando an-che di poco questa direzione di discorso si potrà pervenire asottolineare la vaghezza intrinseca non solo delle «scale di con-sonanze», ma anche della distinzione stessa: tanto più essasembra perdersi nella nebbia, al di là dei casi estremi e piùevidenti, quanto più si pretende di isolarne la problematica ri-spetto alle decisioni effettuate sul piano linguistico.

Ma naturalmente la discussione può cominciare ancoraprima: la nostra sommaria esposizione sull’impiego dei termi-ni avrebbe potuto essere interrotta in più di un punto da ri-chieste di precisazioni, dubbi, perplessità, obiezioni. Si pensialle espressioni illustrative che abbiamo ritenuto di poter usa-re. Ad esempio, in precedenza si è parlato, in rapporto allaconsonanza, di armoniosa confluenza di suoni. Potremmoallora aggiungere che la consonanza possiede una coerenzainterna, che essa si presenta come una formazione unitaria inun senso particolarmente forte del termine, e per questo essapuò formare una sorta di modello per l’impiego della parola«armonia». E ancora potremmo dire che essa riposa stabil-mente in se stessa, come attratta da un centro di gravità, inopposizione alla conflittualità interna della dissonanza. Allaconsonanza armoniosa contrapponiamo la dissonanza atroce102:i suoni che in essa sono entrati in contatto, anziché compe-netrarsi l’uno nell’altro subito divergono in opposte direzioni,pur essendo trattenuti forzosamente insieme. Qui siamo alla

102 Quest’ultima espressione – atroce dissonance – è di VladimirJankélévitch, La Musique et l’Ineffable, Seuil, Paris 1983, p. 55.

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presenza di una tensione sonora interna, ad una scissione la-tente, ad una mobilità inquieta.

Ora, formulazioni come queste prestano certamente ilfianco a obiezioni e possono essere fonti di perplessità, benchéla critica sia spesso malamente impostata e in particolare nonci si debba lasciare confondere dall’ottusa esibizione di esempiche mostrano quanto, in certi casi, possa essere statica e quietaoppure morbida e tenera una dissonanza.

Intese correttamente, descrizioni come queste segnalanouna latenza espressiva interna senza peraltro nulla pregiudica-re intorno a ciò che potrebbe accadere nel gioco compositivo.Nel proporle tuttavia si corre il rischio che vengano interpre-tate come se rappresentassero in qualche modo l’analisi deiconcetti, quasi che si volesse affermare che in esse si risolvereb-be il senso della distinzione. Ma quando abbiamo parlatodella consonanza come relazione tra suoni o come proprietàdegli intervalli, oppure quando abbiamo parlato dell’effettoconsonantico o dissonantico che risulta dall’accordo, intende-vamo evidentemente, almeno nel senso di quelle espressioni,riferirci ad una qualche caratteristica colta sui fenomeni stessiche non avrebbe senso analizzare e risolvere completamente incerte impressioni o stati psichici che eventualmente possanoessere avvertiti dentro di noi. Ora sembra invece che conquelle caratterizzazioni si voglia dire che ciò che chiamiamoconsonanza non sia altro che una formazione sonora che su-scita dentro di noi un’impressione di stabilità, di coerenza, dicompattezza, ecc., cosicché esse potrebbero essere fraintesecome se realizzassero l’analisi psicologica dei concetti in que-stione: il rischio effettivo che si corre è dunque quello di unapsicologizzazione, rischio che può essere corso fino a toccare ilfondo di una tesi che fa della distinzione stessa una pura fac-cenda psicologica. E ciò, è appena il caso di dirlo, riproponenuovamente una tesi di fondamentale inconsistenza della di-stinzione stessa.

Tanto varrebbe risolvere tutta la questione proponendo

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la solita coppia del gradevole e dello sgradevole come capace dicoprire interamente il senso di quella distinzione.

L’insistenza con la quale, in una tradizione millenaria, siè parlato della gradevolezza della consonanza e della sgradevo-lezza della dissonanza dovrebbe in realtà mettere in guardiadal ritenere che queste qualificazioni siano del tutto prive difondamento103. Sarebbe invece certamente sbagliato riteneredi avere a che fare con una sorta di equivalenza concettuale,perché ciò comporterebbe una implicita soppressione della di-stinzione.

È necessario dunque da un lato difendere una certa per-tinenza di quelle caratterizzazioni, ovviamente entro i limitiproposti dalla natura stessa della questione, dall’altro sottoli-neare che esse non debbono essere interpretate come se ope-rassero una riduzione delle nozioni di consonanza e di disso-nanza all’empiria psicologica delle sensazioni interne.

Questo punto può essere chiarito in un lampo con unesempio tratto dall’ambito visivo.

Supponiamo che voi non conosciate affatto il sensodelle parole «rettilineo» e «curvilineo». Allora potrei mostrarviquesto senso mostrando esempi a piacere:

103 J. Tenney, A History of «Consonance» and «Dissonance», ExcelsiorMusic Publishing Company, New York 1988, p. 43: «Nel corso del XIX e delXX secolo naturalmente queste connotazioni sono diventate sempre meno pre-valenti, ed anzi per molti compositori le associazioni di una volta si sono inver-tite. Ciò tuttavia non dovrebbe farci dimenticare (come è accaduto in teorici re-centi) che queste connotazioni sono state le connotazioni affettive prevalenti diconsonanza e dissonanza nella cultura occidentale per un migliaio di anni e più».

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Come nel caso delle parole «consonanza» e «dissonanza», an-che in quello di «curvilineo» e «rettilineo», essendo intese co-me riferite a certe configurazioni percettive, il loro senso deveessere anzitutto insegnato ostensivamente. E in questa intro-duzione ostensiva non sono per nulla chiamate in causaeventuali sensazioni interne che noi possiamo provare o nonprovare di fronte a quelle configurazioni.

Dopo di ciò, supponiamo che io faccia notare che, para-gonata ad una linea rettilinea, una linea curvilinea potrebbeessere descritta anche come una linea molle e morbida. Vi so-no allora buoni motivi per pretendere che con ciò non ci si ri-chiami per nulla all’esistenza effettiva di sensazioni speciali difronte ad essa e tanto meno che simili sensazioni debbanofungere da riempimento di senso della parola «curvilineo».

Annotazioni

1. Un’esposizione storica approfondita che tenta di fornire nellostesso tempo un’interessante sintesi teorica del problema è conte-nuta nel bel volume di James Tenney, A History of «Consonance»and «Dissonance», op. cit. . In esso si documenta ampiamente la va-riazione del problema della distinzione tra consonanza e disso-nanza che è anche naturalmente una variazione nella delimitazio-ne del concetto in stretta inerenza con le esigenze espressive e lepratiche musicali. Tanto più è degno di interesse il fatto che unasimile documentazione così come le interpretazioni, spesso parti-colarmente raffinate, proposte al fine di mostrare questa inerenza,siano associate ad una polemica esplicita nei confronti della ten-denza a «insistere sull’uso esclusivo di questi termini in un sensopuramente funzionale» (p. 98), come se la distinzione tra conso-nanze e dissonanze si risolvesse di volta in volta nella funzione adesse assegnate. Cosi anche si criticano quelle concezioni che ridu-cono il problema ad una pura questione di ricorrenze statistiche,facendo notare che «l’uso di simili misure statistiche come criteriper definire ‘consonanza’ e ‘dissonanza’ evidentemente mette ilcarro davanti ai buoi» (p. 98), essendo chiaro che non si dicono«consonanze» gli accordi il cui impiego è predominante, ma inver-

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samente il loro impiego è predominante perché si tratta di conso-nanze.

2. Sul problema delle spiegazioni fisiche in rapporto alla conso-nanza/dissonanza si rimanda a P. Righini e G.U. Righini, Il suono,Tamburini, Milano 1974, pp. 239 sgg., benché occorra avvertire illettore che la tesi che correla il fenomeno consonantico/disso-nantico ai battimenti – tesi che risale a Helmholtz – dichiaratadagli autori prima come teoria che «resta tuttora la più accredita-ta» (p. 246), e poi senz’altro come teoria categoricamente confer-mata sulla base di dati sperimentali («la conferma del principiostudiato da Helmholtz è quindi categorica», ivi), è tuttora oggettodi discussione ed esposta a possibili contestazioni. Questo testopuò essere rammentato anche perché mostra, nel modo in cui ilproblema viene introdotto, le oscurità di ordine concettuale, tal-volta inavvertite, che lo circondano. Si premette infatti che ciò chesi può dire della consonanza e della dissonanza ha come fonda-mento solo un «consenso generico e tradizionale» e che «la stessasituazione può essere giudicata in modi diversi a secondadell’educazione musicale dei soggetti, della loro appartenenza aduna situazione geografica e culturale piuttosto che ad un’altra eper altri fattori sui quali persino il trascorrere del tempo ha in-fluito in maniera determinante» (p. 239). «Certe combinazionisonore che ieri erano ritenute dissonanti, sono oggi accettate inmaniera molto diversa, e così sarà, verso un’accoglienza semprepiù larga nel futuro» (p. 240). Ciò che appare singolare è che nonsi avverta che, se queste affermazioni fossero prese alla lettera, nonavrebbe nessun senso la ricerca di una giustificazione fisica, masolo culturale, della differenza; né avrebbe senso, richiamarsi, co-me qui si fa, a un’«essenziale caratteristica» (p. 142) che conso-nanza e dissonanza dovrebbero pur possedere. In realtà, per lastessa posizione di un problema fisico-esplicativo è necessario ilriconoscimento preliminare della sussistenza della distinzione sulpiano fenomenologico: altrimenti non si saprebbe che cosa pro-priamente debba ricevere una spiegazione.

3. La dissoluzione linguistico-convenzionalistica della distinzionetra consonanza e dissonanza è efficacemente sintetizzata da Ste-

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fano Lanza nella sua Introduzione alla musica. Manuale ragionato diteoria musicale, Zanibon, Padova 1987, quando dice che «la tra-dizionale classificazione che ancora vige nella scuola, ha ormaisolo il valore di una regola di grammatica che serve a distinguerequali intervalli devono essere sottoposti all’obbligo della risoluzio-ne, e in che modo» (p. 43). Sullo sfondo della questione, svolge-rebbe la sua parte l’abitudine («il punto limite è fissato arbitraria-mente, e infatti nella storia si è spostato via via che l’orecchio siabituava a combinazioni di suoni sempre più complesse», ivi) e lasovrapposizione al dato fenomenologico di problemi attinenti allescelte espressive («Oggi che il nostro orecchio si è assuefatto aicromatismi del romanticismo e agli ‘aggregati armonici’ dodecafo-nici e atonali in genere, non ha più senso basare la distinzione traconsonanza e dissonanza sulla sensazione dell’orecchio, anzi, nonha più senso del tutto mantenere la distinzione», ivi). Quantoall’argomento secondo cui «con l’attuale sistema di intonazionetemperato, tutti gli intervalli alterati, ad eccezione dei due diatoni-ci, sono enarmonici di intervalli naturali: sono dunque costituitidagli stessi suoni e producono perciò la stessa sensazione uditiva.Eppure mentre quelli alterati sono dissonanti per definizione, i lo-ro enarmonici naturali possono essere consonanze, imperfette eanche perfette» (ivi), esso dimostra indubbiamente qualcosa in-torno all’impiego delle parole, ma non può certo dimostrare che,in generale, la distinzione tra consonanza e dissonanza è «sprovvi-sta di fondamenti acustici» (ivi).

§ 8

Le nostre critiche in direzione di una psicologizzazione apro-no naturalmente il problema di una giustificazione della di-stinzione tra consonanza e dissonanza in termini obbiettivisti-ci. Tuttavia in che modo e fino a che punto possa essere so-stenuta una concezione obbiettivistica non è affatto subitochiaro e in particolare sorgono difficoltà per ciò che concerneil modo di configurare il rapporto tra il piano delle spiegazio-ni obbiettive e quello della percezione. Si tratta infatti pur

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sempre di una distinzione che chiama in causa l’udito, di pre-cise (o pretese tali) differenze uditive. A cos’altro è affidata lavalutazione: «questa è una consonanza», «questa è una disso-nanza», se non alla responsabilità esclusiva dell’orecchio? Maallora, se non vogliamo ritenere che valutazioni come queste siappoggino interamente su considerazioni di «eufonia», su«impressioni» di gradevolezza e di sgradevolezza, che ci fareb-bero arretrare alle difficoltà precedenti, dobbiamo riproporreil problema, nel quale ci siamo già una volta imbattuti, diconsiderare l’orecchio come veicolo attraverso cui si manife-stano proprietà e relazioni profonde, che appartengono all’ob-biettività stessa in cui i fenomeni sonori sono radicati. Ma ilfatto è che anche operando questa assunzione, si sarebbe ten-tati di insistere con il chiedere: che cosa propriamente devecogliere il nostro orecchio per formulare quelle valutazioni? Viè qualcosa nel fenomeno percettivo che possa essere conside-rato un indizio certo della presenza di una consonanza? E so-prattutto quell’assunzione non solo non ci libera dalle oscilla-zioni e dalle incertezze dei giudizi percettivi, ma è essa stessaresa problematica da queste possibili indeterminatezze.

Ad esempio, potremo concordare sul fatto che una terzamaggiore e una sesta minore siano entrambe consonanze. Mache dire se ci venisse richiesto di decidere se una terza maggio-re sia più o meno consonante di una sesta minore? Oppure sipensi alle piccole differenze. Supponiamo che ci venga propo-sto sulla base di un’audizione concreta di decidere se una terzamaggiore zarliniana (che è pari a 386 cent) sia più o menoconsonante di una terza maggiore temperata (che è pari a 400cent). In un caso come questo, in cui tra l’altro la differenzanella grandezza dell’intervallo è appena apprezzabile, è persinodifficile comprendere su che cosa propriamente debba esserepronunciato il giudizio.

Questa situazione spiega in realtà una delle circostanzepiù singolari nella storia del nostro problema, il fatto cioè chela difesa di una giustificazione obbiettiva tenda non soltanto ad

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una critica del piano empirico-psicologico, ma ad un effettivooltrepassamento dei dati della percezione concreta. L’udito èinsomma soltanto un tramite che trasmette, quando vi riesce,rapporti che sono costituiti interamente al di là del fenomenosonoro.

Un passo della Repubblica platonica ci offre uno squar-cio sul problema colto alle sue prime origini.

Si sa quanto sia profondamente e significativamente am-biguo l’atteggiamento di Platone nei confronti della musica:da un lato ne sono temuti gli effetti patetici, la sua efficaciasull’istinto; dall’altro, più di ogni altra arte, la musica si ap-prossima alla scienza, e in particolare all’astronomia, secondol’opinione dei Pitagorici che, nel passo a cui ora facciamo rife-rimento104, Platone dichiara di condividere.

Ma in questo passo colpisce il fatto che i seguaci di Pita-gora non sono menzionati soltanto per lodare la loro dottrina– non solo per sottolineare come convenga recarsi presso diloro «per sapere che cosa dicono di questi argomenti». Inrealtà, non e possibile non cogliere, accanto alla lode, unasfumatura di ironia, quando si accenna a quelle «brave perso-ne» che passano tutto il santo giorno «a malmenare ed a tortu-rare le corde, stirandole sui piroli»105 e che cercano di afferrarecon l’udito le più sottili differenze avviando su di esse discus-sioni a non finire.

Si coglie qui, in un rapido scorcio, una situazione nellaquale, nulla essendo ancora stato deciso, tutto è affidato allaprova e riprova, ad una sperimentazione percettiva diretta checerca nel materiale sonoro rapporti e differenze, regole e nor-me possibili.

Il problema è dunque molto serio. Eppure l’inclinazione

104 Platone, Repubblica, VII, 530d-531d. Facciamo qui riferimento allatraduzione italiana, a cura di F. Sartori, Opere complete, Laterza, Bari 1971, vol.vi, pp. 254-55.

105 Ivi, 531b: «Su\ me/n, h=)n dÚ e)gw/, tou/j xrhstou\j le/geij tou/j tai=jxordai=j pra/gmata pare/xontaj, e)pi/ tw=n pollo/pwn�streblou=ntaj».

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è ironica: il dotto pitagorico, che della musica ha fatto certa-mente uno dei centri della propria riflessione, viene qui de-scritto con l’orecchio proteso a spiare il suono così come tal-volta tendiamo l’orecchio con la curiosità un po’ perversa dicogliere ciò che dicono i nostri vicini al di là del muro. Plato-ne dice proprio così: «tendendo l’orecchio come a cogliere lavoce dei vicini»106.

L’ironia interviene allora a cogliere questa tensione os-servativa, questa esasperazione dell’attenzione che sembra af-fidare all’orecchio, e dunque alla sensibilità, differenze e rap-porti che saranno sempre labili e incerti se considerati su que-sto piano.

Ad esempio, di fronte a uno spazio sonoro ancora in-differenziato, dobbiamo introdurre criteri e metodi di suddi-visione: perciò indugiamo a lungo intorno al «problema delminimo intervallo con cui si deve misurare». E nello stessotempo si affaccia il dubbio che si tratti di controversie senzaun costrutto: «Taluni affermano di percepire in mezzo ancorauna nota e che questo sia l’intervallo minimo con cui si devemisurare, altri invece che il suono è simile a quelli di pri-ma»107. Un accenno altrettanto significativo cade proprio sultema della consonanza.

Gli stessi Pitagorici hanno, anche su questo punto,aperto una strada: infatti essi «cercano numeri che esprimanoquesti accordi»; e allora, coerentemente, si dovrebbe prosegui-re proprio nella direzione di una ricerca puramente matemati-ca che sappia decidere «quali numeri diano luogo a consonan-ze e quali no, e perché gli uni sì e gli altri no» – «compito de-gno di un demone»108.

106 Ivi, 530a: «paraba/llontej ta\ w)=ta, oi)/on e)k geito/nwn fwnh/nqhreuo/menoi».

107 Ivi: «oi( me/n fa/sin e)/ti katakou/ein e)n me/sw_ tina\ h)xh\n kai\smikro/taton ei)=vai tou=to dia/sthma, w_(= metrhte/on, oi( de\ a)mfisbh-tou=ntej w(j o(/moion h)/dh fqeggome/nwn».

108 Ivi, 530c: «tou\j ga\r e)n tau/taij tai=j sumfwni/aij tai=ja)kouome/naij a)riqmou\j zhtou=sin, a)llÚ ou)k ei)j problh/mata

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Si chiede dunque che venga ancora più accentuataquella tendenza che in realtà i Pitagorici avevano fatto valerecon la massima forza.

Nella sperimentazione con i suoni la meraviglia del filo-sofo si appiglia anzitutto alla consonanza come concreto fattopercettivo. Un suono non solo risuona simultaneamente adun altro, ma «consuona» con esso – e come se l’uno risuonassedentro l’altro. E non è forse questa «sinfonia» qualcosa di as-solutamente straordinario, qualcosa che ci colpisce nel pro-fondo? Ma questa meraviglia si moltiplica ed esalta nello sco-prire che questo consuonare dei suoni non è una mia labileimpressione soggettiva, ma sembra poggiare sulla regola di unrapporto numerico elementare.

Se abbiamo scoperto che il rapporto tra la lunghezzadelle corde sta alla base delle consonanze che ci colpisconocon particolare evidenza percettiva – ad esempio che il rap-porto di 2/1 genera una consonanza di ottava e di 3/2 unaconsonanza di quinta – questa scoperta suggerisce il travali-camento proprio del terreno empirico su cui quella scoperta èstata effettuata, prospettando il fatto percettivo come riflessodi un rapporto ideale e dunque proponendo che la ricerca,che ha certamente preso le mosse dall’udito, debba procederein tutt’altra direzione.

Cosicché, quando l’udito oscilla, incerto persino sul tipodi decisione che dovrebbe essere presa, allora non dovremmoesitare a sottrarre ad esso ogni affidabilità, passando ad unadeterminazione che stabilisca una volta per tutte quali numeridiano luogo a consonanze, quali no. Le orecchie non debbonoessere anteposte al pensiero109.

Per quanto possa sembrare stravagante l’idea di abban-donare, in questo ordine di problemi, il piano uditivo con-creto – e anche al di là delle motivazioni più generali che a)ni/asin, e)piskopei=n ti/nej su/mfwnoi ariqmoi\ kai\ ti/nej ou)/, kai\dia\ ti/ e(ka/teroi. Daimo/noin ga/r, e/)fh, pra=gma le/geij».

109 Ivi, 530b: «a)mfo/teroi w)=ta tou= nou= prosthsa/menoi».

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chiamano in causa il modo in cui si presenta il tema della sen-sibilità nella filosofia platonica – è interessante notare comeessa possa effettivamente sorgere all’interno di un conflitto ir-risolto tra il pensiero della rilevanza intrinseca della nozione diconsonanza e dunque della sua obbiettività, e la constatazionericorrente che essa tende invece ad apparire inconsistentequando la si consideri sul piano puramente sensoriale.

Ma è anche certo che una denuncia dell’empiria psico-logica proposta in questo modo non fa altro che portare alloscoperto le difficoltà di principio di una concezione obbietti-vistica.

Annotazione

Benché i pitagorici siano esplicitamente citati nel passo platonico,tuttavia vi potrebbero essere ragioni per sospettare che la polemicasia diretta più propriamente contro quegli “armonisti” (a(rmo-nikoi/) contro cui polemizza anche Aristosseno, proprio in rap-porto al problema dei piccoli intervalli. Vi è tuttavia incertezza suchi propriamente indichi questa designazione, se una scuola vera epropria, che sarebbe stata avversa ad una teoria matematica degliintervalli, o una linea di tendenza interna al pitagorismo. Que-st’ultima è peraltro la tesi prevalente. Scrive in proposito A. Bélis,Aristoxène de Tarente et Aristote: le Traité d'harmonique, Klincksieck,Paris, 1986, p. 106: «Nelle loro tesi si riconoscono idee di prove-nienza pitagorica; la loro identificazione ha suscitato numerosicommenti, ma non si può forse supporre che Aristosseno abbiautilizzato questo nome per indicare globalmente l’insieme di teo-rici formati dall’insegnamento pitagorico e che tenevano per loroconto delle scuole di musica?». È anche possibile che questa desi-gnazione generica non indichi affatto l’unità di una dottrina. «Im-piegando un termine generico, Aristosseno si dispensa di attaccarefrontalmente i pitagorici che sono indirettamente interessati daciascuna delle polemiche impegnate contro gli armonisti». Ed an-cora viene notato che testimonianze antiche ci invitano a ritenereche «gli armonisti erano di appartenenza pitagorica» (p. 109) – letesi ad essi attribuite sono pitagoriche così come la loro speri-mentazione al monocordo erano certamente di spirito pitagorico.

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§ 9

Si è già notato all’inizio della nostra discussione che parlandodi consonanza e di dissonanza si pensa per lo più a esempi disuoni che vengono fatti risuonare simultaneamente. Talvolta,nella manualistica corrente, la simultaneità entra senz’altronelle caratterizzazioni definitorie come se essa fosse una sortadi condizione del concetto stesso. Ora, non c’è dubbio chequando parliamo di effetto consonantico o dissonantico, fac-ciamo riferimento esclusivo alla simultaneità; e se diciamo cheun suono è consonante con un altro, possiamo intendere conciò che qualora essi venissero fatti risuonare insieme ne risul-terebbe una consonanza. Ma come è chiaro che siamo in pre-senza di una relazione tra suoni che certo non può sorgere dalpuro fatto della simultaneità, così è chiaro anche che questarelazione sussiste e si manifesta anche nell’ordine di successione.Del resto potremmo esprimerci in termini di intervalli, e allo-ra si mostrerebbe forse con maggiore chiarezza che qui è ingioco una differenza in certo modo «qualitativa» degli inter-valli – essi non differiscono solo per la loro grandezza, ma an-che per questa «qualità consonantica» che potrà poi essereconsiderata nell’ordine della simultaneità oppure nell’ordinedella successione.

Eppure, nuove difficoltà si intravedono con affermazio-ni come queste, per certi versi del tutto ovvie. Noi abbiamodetto che la relazione che appare nella simultaneità come con-sonanza, non solo sussiste, ma si manifesta anche nella succes-sione. Ciò significa che la «qualità consonantica» dell’inter-vallo viene effettivamente percepita. Ma allora è subito lecitochiedere: in che cosa consiste la percezione di una simile qua-lità? Vi è forse una qualche caratteristica distintiva che diffe-renzia percettivamente l’intervallo consonantico da quello dis-sonantico? In che modo si manifesta nella successione quellarelazione tra suoni in rapporto ai quali diremmo senz’altroche essi formano una consonanza nella simultaneità? È appe-

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na il caso di notare che espressioni come quelle di cui ci siamoserviti in precedenza quando parlavamo del compenetrarsi deisuoni nel caso della consonanza oppure del loro urto o con-flitto nel caso della dissonanza sarebbero ora interamente fuo-ri luogo – esse sono in effetti strettamente vincolate alla si-multaneità e il loro impiego nell’ordine di successione con-durrebbe ad un travisamento della situazione descrittiva.

Vogliamo allora riesaminare il caso della consonanza diottava che, come abbiamo notato, viene di norma consideratocome caso esemplare. Esso mostra intanto con particolarechiarezza, ed è certo interessante notarlo proprio a questopunto, che questo rapporto può essere considerato anche – esaremmo quasi tentati di dire anzitutto – nell’ordine dellasuccessione.

Supponiamo infatti di dover insegnare che cosa si in-tende quando si parla di due suoni in relazione di ottava. Difatto dovremo addurre qualche esempio: e faremo bene a faranzitutto risuonare le note l’una dopo l’altra, e poi eventual-mente insieme, quasi a modo di conferma. Ci comporterem-mo allora come se proponessimo di valutare a vista la lun-ghezza di due righelli. Prima proponiamo l’uno, poi l’altro.Quindi li mostriamo insieme, sovrapponendoli l’uno all’altroper mostrare che essi, effettivamente, sono collimanti.

Ciò naturalmente ha strettamente a che vedere con ilfatto che i suoni che si trovano in rapporto di ottava sonosuoni della stessa specie. In un’accezione peculiare, possiamocertamente parlare di un rapporto di identità «specifica» chesta alla base dell’effetto consonantico più forte – un rapportoche può essere avvertito naturalmente anche nell’ordine disuccessione. Ma allora sembra evidente che tutte le altre con-sonanze, che vengono concepite appunto come consonanzepiù deboli rispetto alla consonanza di ottava, possano essereintese come fondate sulla somiglianza, anziché sull’identità trai suoni; e sarebbe appunto null’altro che la somiglianza ad es-sere percepita nell’ordine di successione.

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Si presti attenzione al fatto che, in queste considerazio-ni, non si tratta per nulla di andare alla ricerca di una tradu-zione verbale esatta di una circostanza percettiva – problemaper lo più privo di senso – ma di mostrare in che modo ciòche viene percepito e che può essere solo mostrato in una e-semplificazione concreta possa anche essere adeguatamenteconcepito e diventare tema di un coerente resoconto descrittivo.

Da questo punto di vista la possibilità di parlare di so-miglianza, il poter dire «questo suono è simile a quello» sem-bra portare una schiarita sulle nostre iniziali difficoltà e sugge-rire anche una direzione praticabile di sviluppo del problema.

Come si può parlare di suoni vicini o lontani tra loroalludendo alla grandezza degli intervalli, così si può ammette-re che l’uno possa essere più o meno simile (o «qualitativa-mente vicino») all’altro – e il legame con il tema della conso-nanza sarebbe già reso evidente dal vecchio principio secondocui il simile unito al simile è fonte di compattezza e di coesio-ne, mentre l’unione con il dissimile genera conflitto e contra-sto. Anche nel campo dei suoni si ritroverebbe così non solola contiguità, ma anche la somiglianza come principi e criteriorganizzativi che manifestano ovunque la loro azione.

Anche il problema controverso delle scale di consonanzapotrebbe ricevere almeno una chiara impostazione, essendo ladifferenza del grado inerente al concetto stesso di somiglianza.A somiglianza maggiore, consonanza maggiore sino al casodella massima consonanza.

Almeno un rapido cenno merita di essere compiuto permostrare come questo modo di impostare il problema, facen-do riferimento alla somiglianza, possa incontrarsi con la teoriasecondo la quale l’effetto consonantico sarebbe strettamentedipendente dalla composizione armonica dei suoni. In base adessa, due suoni si diranno consonanti quando hanno qualchearmonico in comune. Naturalmente ci troviamo qui alla pre-senza di un altro grande tentativo, accanto a quella teoria deirapporti matematici semplici che abbiamo rammentato nel

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paragrafo precedente, di dare forma ad una concezione ob-biettivistica. Ma a parte le difficoltà e le obiezioni a cui questateoria soggiace e sulle quali non è qui il caso di soffermarsi, ciinteressa invece sottolineare che in questo modo viene operataun’obbiettivazione implicita anche del concetto di somiglian-za. Infatti la circostanza obbiettiva del possesso di una partecomune potrebbe stare a fondamento della possibilità di parla-re di somiglianza tra due suoni.

È chiaro tuttavia fino a che punto, in questo modo diproporre i termini della questione, ci allontaniamo dal nostroproblema iniziale e dal terreno sul quale lo avevamo posto.Qualunque sostegno teorico ricercato nella problematica degliarmonici rappresenta di fatto un abbandono della dimensionepercettiva, e in particolare l’idea di una somiglianza che avreb-be una pura giustificazione teorica in una nozione di parte cheè priva di qualunque corrispondenza fenomenologica non puòassolvere alcuna funzione all’interno della nostra impostazio-ne. Il rischio di separare la concezione del fenomeno dal suoresoconto descrittivo è qui corso fino in fondo. Ma questo ri-schio è già presente nell’andamento prevalentemente argo-mentativo in cui l’idea della somiglianza è stata avanzata inprecedenza, e non solo in questa sua estrema obbiettivazioneinterpretativa. È il caso quindi di condurre di quell’idea unesame un poco più accurato.

Anzitutto è opportuno ribadire che non si tratta qui distabilire una pur utile convenzione terminologica. Se questofosse il nostro problema, nulla ci impedirebbe di chiamare«simili» due suoni quando essi nella simultaneità formano unaconsonanza. Nello spirito delle considerazioni precedenti siargomenta invece che, come si può parlare di un’identità di«qualità sonora» effettivamente percepita nell’ordine di suc-cessione, così si deve poter parlare di una somiglianza tra suo-ni data in un’apprensione percettiva: assumendo natural-mente che è proprio questa somiglianza che sta a fondamentodell’effetto consonantico nell’ordine della simultaneità. È

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esattamente questa impostazione del problema che generagiustificate perplessità.

Intanto si tenderà a dare alla parola «simile» il senso conil quale essa viene normalmente impiegata facendo riferimen-to a cose, a oggetti o figurazioni visive in genere. Al di là diqualunque determinazione più precisa, la domanda se la figu-ra C sia più o meno simile ad A di quanto lo sia la figura B èsubito compresa e riceverà presumibilmente risposte concor-danti.

La stessa domanda sembra invece rasentare il nonsenso se conA, B e C intendiamo suoni, anzitutto per il fatto che non sap-piamo in che modo le parole «simile» e «dissimile» possanotrovare qui un’applicazione. Potremmo forse sostenere chenella successione di due suoni che si trovano, ad esempio, inrapporto di quinta, si abbia realmente un’apprensione di so-miglianza, quando questa parola venga intesa con riferimentoimplicito agli impieghi di cui abbiamo or ora dato un esem-pio nel campo visivo?

Le perplessità aumentano ancor più se consideriamo ilcaso opposto della dissonanza. In tal caso, nella successione,oltre alla percezione della distinzione numerica, dovremmoammettere che vi sarebbe anche una specifica percezione didissimiglianza? Ciò non sembra nemmeno possedere un sensointelligibile.

D’altra parte, l’oscuro groviglio nel quale sembra che cisiamo cacciati ci riporta alla memoria uno dei nostri temi es-senziali che sembra sia andato quasi interamente perduto ne-

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gli ultimi sviluppi della nostra discussione. Nonostante tutto,i suoni non sono oggetti, non sono entità da considerare nellaloro semplice singolarità e molteplicità. Ogni volta che spin-giamo troppo oltre il punto di vista dell’oggettività, è certoche prima o poi ci imbatteremo, nonostante l’ordine appa-rente dei nostri argomenti, in difficoltà che possono apparireinsolubili. Questo punto di vista tende ora a prevalere, e ciò èdimostrato proprio dalle nostre ultime considerazioni, nellequali si suggerisce di effettuare paragoni tra i suoni come se sitrattasse di confrontare la forma di una cosa con la forma diun’altra.

Vogliamo allora riprendere la riflessione sul nostro pro-blema tenendo conto dei dubbi e delle perplessità esposte, eproprio a partire dalla consonanza di ottava, anzi dall’unisonoaddirittura.

È subito chiaro che, considerando l’ordine di successio-ne, in corrispondenza all’unisono avremo la semplice ripeti-zione. E certamente non vi è nulla di misterioso nel parlare diapprensione percettiva della ripetizione.

Vogliamo tuttavia egualmente interrogarci su ciò che si-gnifica propriamente questa apprensione. Qualche spiegazio-ne sulla struttura dell’atto è certamente opportuna, dal mo-mento che il fatto che in una sequenza vi sia un suono ripe-tuto non implica per nulla che questa ripetizione venga effet-tivamente colta. Ad esempio, può accadere che la ripetizionedel suono sia temporalmente troppo lontana dalla sua primacomparsa, oppure che vi siano altri fattori che agiscono inmodo da disturbare o oscurare l’apprensione della ripetizione.Con questa espressione inoltre noi non intendiamo un espli-cito atto giudicativo che arrivi addirittura alla formulazioneverbale, ma un «riconoscimento» interamente effettuato sulpiano percettivo: l’apparire del suono ha ora il senso di un ri-apparire. Affinché ciò si verifichi si richiede una sorta di dop-pio movimento, anzitutto un richiamo all’indietro, una vera epropria sintesi retroattiva che si ribalta poi nuovamente sul

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suono attualmente risuonante, confermando il richiamo re-troattivo:

È interessante notare che proprio in forza di questa strutturadell’apprensione percettiva la ripetizione della nota inizialedella sequenza è atta a operare la chiusura della sequenza stessa.

Si consideri ora l’esempio di due suoni in intervallo diottava proposti in successione. La descrizione sarà certamentela stessa – dal momento che si tratta ancora di una percezionedi «identità».

L’intervallo in questione merita di essere caratterizzato comeintervallo chiuso, intendendo la chiusura come una caratteri-stica manifesta dell’intervallo stesso.

A questo punto si intravede ormai la direzione di discor-so che abbiamo di mira.

Se conveniamo di parlare di suoni simili non dobbiamopensare al modello di un confronto tra oggetti e ad un attoche coglie per così dire positivamente questa somiglianza ininerenza agli oggetti stessi, quanto piuttosto ad un caratterepercettivo dell’intervallo che è appunto la sua chiusura, in rap-

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porto alla quale potremo anche ammettere differenze di gra-do, come del resto le ammettiamo già per l’unisono e perl’ottava.

In altre parole: ciò che si manifesta nella simultaneità co-me consonanza, si manifesta nella successione come chiusuradell’intervallo.

Ciò ci consente naturalmente di venire subito a capoanche dello strano problema della «dissimiglianza» in rap-porto alla dissonanza che sembrava in precedenza fare preci-pitare il nostro discorso nella massima confusione. L’indica-zione che possiamo trarre dalle precedenti considerazioni èsemplicemente che, nel caso di suoni dissonanti nella simul-taneità, non si dà nessuna sintesi retroattiva – e questa deter-minazione puramente negativa è in realtà in grado di rendereconto dell’idea di intervallo aperto.

«Simile» e «dissimile» diventano allora espressioni il cui sensoviene deciso sulla base del rimando a queste situazioni feno-menologiche, che mettono in causa non già speciali (e miste-riose) affinità tra i suoni che sembrano in via di principio ri-chiedere spiegazioni più profonde, quanto piuttosto l’anda-mento della sequenza.

Considerare i suoni nella successione significa considera-re il movimento dall’uno all’altro suono. E la differenza consi-ste in questo: nel caso dell’intervallo consonantico l’avanzaredel suono è trattenuto e frenato dal richiamo retroattivo – co-sicché potremmo dire che, da questo punto di vista, il suonocompie un movimento minimo, non procede, tende a restare nelluogo in cui si trova.

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Mentre nel caso dell’intervallo dissonantico, il semplicefatto che non vi è alcuna sintesi retroattiva ci consente di af-fermare che vi è un effettivo avanzare del suono, un proten-dersi in avanti piuttosto che all’indietro. Ed è proprio questadifferenza, chiaramente afferrabile sulla base di esempi, che sivuol cogliere parlando di intervalli chiusi e aperti.

§ 10

Eppure tutto ciò non ci soddisfa. Certo, noi abbiamo promes-so soltanto uno studio filosofico intorno alla consonanza e alladissonanza – e ciò non significa per nulla l’elaborazione diuna teoria – filosofica per giunta – che debba poi compete-re con ciò che sull’argomento hanno da dire il musicista o ilmusicologo, il fisico o lo psicologo. Lo scopo che ci proponia-mo è invece quello di apportare sulla questione la massimachiarezza di cui siamo capaci intorno a difficoltà di ordine con-cettuale, tentando nello stesso tempo di accertare fino a chepunto e in che modo il tema della consonanza e della disso-nanza possa diventare argomento legittimo di una considera-zione fenomenologica. Proprio a questo proposito non pos-siamo ancora dichiararci realmente soddisfatti; anche dopo gliultimi chiarimenti, sulla questione della consonanza e delladissonanza, restano aspetti che generano ancora una sorta diimbarazzo e di cui non possiamo affatto liberarci, come sa-remmo tentati di fare, distogliendo da essi l’attenzione. Si trattainfatti di aspetti non marginali, particolarmente significativi.

Basti notare che non è ancora per nulla chiaro che partedebba essere attribuita al tema dei gradi di consonanza, se essodebba essere considerato come una questione di scarso rilievo,sulla quale non è il caso di indugiare più di tanto oppure senon si possa fare a meno di esso senza rimetterci aspetti essen-ziali. E nemmeno del resto è realmente chiaro in che misura sipossano approvare le tendenze ad una relativizzazione lingui-

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stica e psicologica e in che misura invece ci si possa esprimerein direzione del loro superamento.

In una parola, il problema della consistenza e dell’incon-sistenza della distinzione, benché esso sia stato variamenteelaborato, resta ancora in sospeso. Di fatto, non abbiamocompiuto ancora la mossa essenziale che forse fin dall’inizioera lecito attendersi, tenendo conto delle nostre premesse.Solo negli esiti della nostra ultima discussione sono nuova-mente affiorate perplessità su un modo di affrontare i nostriproblemi mettendo da parte il punto di vista del processo. Isuoni non sono oggetti, benché entro certi limiti ci possiamorivolgere ad essi come se lo fossero. Ora questa osservazione varipresa e radicalizzata. Tutta la nostra discussione precedentesi è sviluppata avendo di mira l’impostazione usuale del pro-blema, cioè avendo di mira la molteplicità già costituita deisuoni, assunti nella loro pretesa singolarità e identità obbiettiva.

Così abbiamo cominciato con il dire che le parole «con-sonanza» e «dissonanza» indicano una relazione tra suoni; op-pure, in una formulazione equivalente, che esse caratterizzanouna differenza «qualitativa» tra tipi di intervalli. In entrambi icasi ci si dispone in realtà sul terreno di una considerazioneessenzialmente statica, nella quale è determinante l’idea dellapuntualità del suono, del suono-oggetto che può essere messoa confronto con un altro suono-oggetto.

Ma in realtà la nostra prima mossa avrebbe dovuto esse-re quella di installarci fin dall’inizio sul terreno del continuodei suoni nel quale le differenze che conducono alla moltepli-cità non sono ancora state poste e il problema può essere coltonella sua dimensione originaria. Tutta la discussione prece-dente deve perciò essere considerata come una discussionepreparatoria che tende a mettere in luce difficoltà e problemi,ma anche a dare la massima evidenza, per contrasto, al muta-mento di punto di vista che sta ora per intervenire.

Per semplicità espositiva vogliamo limitare le nostreconsiderazioni all’intervallo di ottava inteso come segmento

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rappresentativo dello spazio sonoro. Come abbiamo già spie-gato, i suoni in ottava A0 e A1, saranno considerati comeestremi di un flusso sonoro che conduce dall’uno all’altro inun’alterazione continua. L’andamento del flusso sarà ascen-dente, qualora sia considerato nella direzione da A0 ad A1. Sedunque insieme a esso viene fatto risuonare e tenuto fermo ilsuono A0 allora la situazione complessiva verrà descritta comeun progressivo allontanamento dall’unisono – un allontana-mento dalla nota tenuta che si conclude nella consonanza diottava.

Ma questa descrizione è naturalmente insufficiente. Nel-lo sviluppo del flusso sonoro entra in gioco anche il consuo-nare e il dissuonare delle fasi del flusso in rapporto al suono diriferimento. Al distanziarsi del flusso dalla nota iniziale do-vuta alla struttura progressiva, si accompagna l’avvicinamentoe l’allontanamento «qualitativo» – volendo esprimerci in que-sto modo – dipendente dagli effetti consonantici e dissonanti-ci che ne risultano. Il nostro problema è quello di mettere inevidenza quale forma assuma il flusso sonoro in forza di questirapporti. Non si tratta certo né di scoprire né di inventarenulla. La risposta la dobbiamo ricercare nel fatto percettivostesso; e in esso noi richiamiamo l’attenzione non solo sull’u-nisono e sulla consonanza di ottava, ma anche sul fatto chenon appena il flusso sonoro procede oltre l’unisono, il risul-tato sonoro diventa fortemente dissonantico: questo effettodissonantico tende progressivamente ad attenuarsi evolvendo-si in un risultato consonantico che giunge ad un punto mas-simale, al di là del quale si verifica un’inversione di tendenza:l’effetto consonantico tende ad attenuarsi evolvendosi in uneffetto sempre più dissonantico che culmina in prossimitàdell’ottava, dissolvendosi poi completamente in essa.

Tutto ciò può essere sintetizzato e schematizzato nellaseguente figura che ha naturalmente solo pretese sommaria-mente illustrative. In essa il rapporto consonantico o disso-nantico viene proposto come distanza crescente o decrescente

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rispetto al flusso di riferimento.

La linea rettilinea contrassegnata da A0 rappresenta il suonotenuto, mentre la linea curva il flusso da A0 ad A1, consideratonell’evoluzione del rapporto consonantico rispetto ad A0. Fac-ciamo notare che i casi «speciali» di consonanza, l’unisono el’ottava, non vengono rappresentati – essi si trovano, come ab-biamo già detto, subito oltre le due fasi opposte della massimadissonanza.

Ce ne rendiamo conto: questa nostra descrizione puòsubito suscitare obiezioni e critiche particolarmente rilevanti.Ma ci sembra per il momento più importante, anziché preoc-cuparci troppo di esse, chiarire a fondo i motivi, in ogni casoricchi di interesse, che vengono qui alla luce.

Intanto si comprende certamente ora molto meglio diprima in che senso si era proposto di abbandonare l’imposta-zione usuale del problema passando da una considerazione le-gata ai suoni singoli e ai loro rapporti ad una considerazionedello spazio sonoro come tale e nello stesso tempo da unaconsiderazione statica ad una considerazione dinamica. Sicomprende meglio, soprattutto, la profonda modificazione dipunto di vista che è anche una profonda modificazione deitermini del problema. In certo senso dobbiamo essere pronti amutare la stessa grammatica delle parole «consonanza» e «dis-sonanza», e proprio in conseguenza del fatto che con esse orasi indica non tanto e non anzitutto una relazione tra suoni,ma una caratteristica strutturale dello spazio sonoro. Il fatto che

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esso abbia, relativamente ad un suono di riferimento («fon-damentale»), quella determinata curvatura consonantica, ap-partiene alla fenomenologia dello spazio sonoro, esattamentecome vi appartiene la caratteristica della progressività o dellachiusura.

Ma affermazioni come queste non possono essere sepa-rate dal piano dinamico entro cui esse sono proposte. Qui ab-biamo a che fare con flussi e con fasi di essi; e con le parole«consonanza» e «dissonanza» si intende ora cogliere una ten-denza interna del flusso. Dobbiamo allora poter parlare, adesempio, di un divenire della consonanza dalla dissonanza, diun trapassare dell’una nell’altra, e addirittura di un trapassaredella dissonanza nell’unisono o nella consonanza di ottava. Etutte queste espressioni hanno il loro «riempimento» in situa-zioni percettive concretamente esemplificabili.

In questo mutamento di prospettiva la questione dellagradualità trova naturalmente una precisa localizzazione e mo-stra quanto essa sia importante per ciò che concerne la stessacostituzione concettuale della distinzione. Essa non poggia suuna pura e semplice possibilità classificatoria, ma contraddi-stingue i poli di un processo nel quale l’un polo si convertegradualmente nell’altro. Il legame che qui viene mostrato traconsonanza e dissonanza non è proposto da considerazioniche riguardano la pura costruzione logico-linguistica delle pa-role – secondo l’ovvietà che istituisce l’equivalenza tra «piùconsonante» e «meno dissonante» (e inversamente) – ma è di-rettamente vincolato alla situazione percettiva concreta.

All’interno di questa impostazione del problema non visono propriamente ancora consonanze e dissonanze. Al piùpotremmo individuare nello spazio sonoro un’articolazioneinterna, una suddivisione tra un’area consonantica e un’areadissonantica:

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Ma non per questo saremo tenuti a determinare esattamentela linea di demarcazione tra le due aree. Una delle obiezionipiù frequenti contro la consistenza della distinzione che traeargomenti dall’incertezza dei suoi confini risulta in realtà esse-re profondamente erronea alla luce di una caratterizzazionedinamica delle nozioni in quanto quell’incertezza diventa unaconseguenza di quella caratterizzazione. Qui siamo infatti inte-ressati unicamente alla tendenza del movimento, e in base aquesta tendenza sappiamo che la distinzione dovrà diventaread un certo punto relativamente indeterminata, e anche que-sta possibile indeterminatezza fa parte della natura del pro-blema, essendo la distinzione realmente netta solo se si consi-derano «luoghi» prossimi alle polarità estreme.

Tutto ciò mostra infine come il flusso sonoro che, con-siderato indipendentemente da questa modalità di rapportoha la forma di un mero «scorrere» nell’una o nell’altra direzio-ne, non appena viene proposto prospetticamente, e cioè colto,per così dire, dal punto di vista di una nota assunta come unitàdi riferimento dei rapporti consonantici e dissonantici, si animadi una potente conflittualità interna. Nulla forse illustra me-glio come sia diverso considerare rapporti tra suoni singolicome tali oppure come integrati nei dinamismi dello spaziosonoro del modo in cui deve essere qui proposta la problema-tica dell’identità; e anche: nulla meglio di questa problematicamostra la profonda dialetticità interna dello spazio sonoro.

Se prendiamo in considerazione l’identità nel senso piùstretto rappresentata dall’unisono, ciò che importa è allora il

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luogo che l’unisono occupa all’interno dello spazio sonorointeso come flusso.

Dalle schematizzazioni precedenti non è difficile trarrela seguente rappresentazione, che deve essere naturalmenteintesa in un senso un po’ diverso dalle precedenti. I due flussiin movimento debbono infatti essere considerati simultanea-mente risuonanti: quello a sinistra proviene dall’ottava infe-riore, quello a destra dall’ottava superiore, e risuonano insie-me con il suono di riferimento. I rapporti consonantici e dis-sonantici sono intesi rispetto alla nota di riferimento.

L’unisono, l’identità più compiuta viene dunque raggiuntasalendo dalla consonanza (quinta) inferiore e discendendo daquella superiore secondo un percorso che esaspera progressi-vamente la differenza – in un percorso di dissonanza crescenteche trova nell’unisono il proprio punto culminante.

Annotazioni

1. Benché non sia nostra intenzione andare oltre una propostatendente a indicare il modo di approccio al problema e la sua dire-zione di sviluppo, mantenendo l’esposizione aperta a ogni possi-bile miglioramento, è tuttavia certamente opportuno aggiungerealcune precisazioni e qualche commento. È osservazione abbastanza spesso ripetuta che il rapporto con-sonantico o dissonantico tra due note risulta inapprezzabile se lenote sono molto distanti tra loro: esse allora si propongono comenote semplicemente distinte, come note che «non hanno nulla a

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che vedere l’una con l’altra». Alla base di una simile osservazionevi è in realtà un problema fenomenologico che merita di essere re-so interamente esplicito. È il caso anzitutto di notare che anche nel campo dei suoni,come in quello della visione, vale la regola fenomenologica secon-do la quale formeranno un’unità suoni più vicini, piuttosto che suoni piùlontani, essendo la distanza intesa nel senso della grandezza dell’intervallo.Si tratta manifestamente di una regola di «sintesi per contiguità»a cui naturalmente corrisponde la regola che attribuisce all’aumen-to della grandezza dell’intervallo una funzione segregante. Questaregola non è peraltro peculiarmente legata al problema della con-sonanza e della dissonanza e in particolare l’unità di cui qui siparla non va confusa con l’unità che, in altra accezione del termi-ne, potrebbe essere attribuita alla consonanza in quanto confluen-za e compenetrazione dei suoni. Tuttavia questa nozione di unitàha un’incidenza significativa sul problema della consonanza e delladissonanza che merita di essere esplicitamente sottolineata. Infatti vi è indubbiamente una condizione per l’apprezza-mento percettivo sia di una consonanza sia di una dissonanza, equesta condizione è rappresentata proprio dal fatto che i suonidebbono essere «accoppiati» nel senso stabilito dalla regola prece-dente. L’allentamento di questa condizione conduce al prevaleredella semplice distinzione percettiva sia sull’effetto consonanticoche su quello dissonantico – i suoni vengono allora percepiti comereciprocamente indifferenti, e quindi anche come suoni che nonentrano l’uno con l’altro in un rapporto di contrasto o di reciprocaconfluenza. Tenendo conto di ciò potremmo parlare di attenuazione del-l’effetto consonantico o dissonantico in una nuova accezione, perindicare non già l’evolversi graduale dell’effetto consonantico in uneffetto dissonantico e inversamente, ma come un’attenuazioneconseguente all’allentamento della sintesi di contiguità e dunqueall’indebolimento di ciò che forma una condizione per il sorgere diun effetto consonantico o dissonantico. Questa considerazione ci consente un’importante precisazionesulla grammatica della parola «grado di consonanza», e quindidelle espressioni «più consonante», «meno consonante», così co-me è stata implicitamente fissata dalla nostra impostazione del

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problema. Stando ad essa, infatti, le espressioni «più consonante»o «meno consonante», come espressioni che indicano la direzionedi un movimento, sono applicabili solo all’interno dell’una o del-l’altra sezione dello spazio sonoro. Per dare un’esemplificazioneconcreta: secondo l’impostazione proposta non ha affatto sensoporre la domanda se una terza maggiore sia più o meno conso-nante di una sesta minore o di una sesta maggiore. Ma, è natural-mente per lo stesso motivo, non ha senso porre il problema sel’ottava sia più o meno consonante dell’unisono. Quest’ultima circostanza ci invita certo ad un qualche appro-fondimento. Non è forse la nostra regola grammaticale troppo re-strittiva? Di fatto, l’affermare, come si fa di solito, che l’ottava è«meno consonante» dell’unisono (o ha un grado di consonanzaminore) non ha forse qualche evidenza dalla propria parte? In ef-fetti, si può rendere conto della differenza in questione attraversol’azione della regola della «sintesi per contiguità», e quindi facen-do riferimento alla maggiore distinzione percettiva che va ricono-sciuta all’ottava rispetto all’unisono. Vi è qui un’attenuazione del-l’effetto consonantico nel nuovo senso or ora spiegato. Se voglia-mo, dopo di ciò, usare l’espressione «meno consonante», dovremoallora impiegare questa espressione vincolandola, vorremmo quasidire, non tanto ad un effetto di minore consonanza, ma ad un mi-nore effetto consonantico, e quindi riferirla al «grado di unità»piuttosto che al «grado di consonanza» nella nostra prima acce-zione del termine. Come è chiaro, si possono qui inserire equivocifastidiosi. Lo stesso problema si ripresenta ogni volta che si prendono inconsiderazione coppie di suoni della stessa specie, ma che sonoestremi di intervalli diversi, come nel caso del confronto tra unintervallo di seconda e un intervallo di nona, oppure nel caso deirivolti all’interno dell’ottava. In questi casi è possibile parlare di unconfronto solo in quanto si abbia di mira il problema del grado diunità e il modo in cui le differenze nel grado di unità incidonosull’effetto consonantico o dissonantico. Così si può dire che unintervallo di nona ha un minore effetto dissonantico di un inter-vallo di seconda oppure che un intervallo di terza maggiore, chepuò essere considerato come appartenente all’area consonantica,ha un maggiore effetto consonantico della sesta minore. Non cre-

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do infine che sia troppo forte l’assunzione che il grado di unitàcominci con l’agire come controtendenza all’effetto consonanticoo dissonantico al di là del limite rappresentato dalla massima con-sonanza. In questo modo si mostra come l’empiria psicologica e le pra-tiche linguistiche esplichino la loro azione, in realtà molto ampia ela cui considerazione è indispensabile in questo ordine di proble-mi, a partire da determinazioni di ordine fenomenologico-struttu-rale la cui chiarificazione è, a sua volta, indispensabile per com-prendere il senso di quell’azione.

2. L’insistenza con la quale nelle nostre considerazioni sulla con-sonanza e sulla dissonanza, e in generale sulla struttura dello spa-zio sonoro, mettiamo l’accento sulla differenza di principio ri-spetto a un’impostazione psicologico-sperimentale degli stessiproblemi, non toglie il riconoscimento che questa differenza possadiventare meno netta e la linea di demarcazione malsicura quandoè la stessa psicologia della percezione ad assumere un andamentofenomenologico. Lo stesso terreno d’indagine tende allora a esserecomune e diventano perciò possibili confronti e discussioni cer-tamente feconde in rapporto alla posizione, dei problemi e alleproposte della loro soluzione. A questo proposito vogliamo se-gnalare l’importanza che riveste, per ciò che riguarda l’aspetto piùgenerale di questo rapporto, il volume di P. Bozzi, Fenomenologiasperimentale, il Mulino, Bologna 1989 e, dello stesso autore, le ri-cerche specificamente dirette all’ambito musicale, in particolare:P. Bozzi, «Un aspetto della qualità armonica: la tendenza alla ri-soluzione», Rivista di Psicologia, LIII, 2, 1960; P. Bozzi e G. Vica-rio, «Due fattori di unificazione fra note musicali: la vicinanzatemporale e la vicinanza tonale», Rivista di Psicologia, LIV, 4, 1960;P. Bozzi, «I fattori di unificazione, il mascheramento, il giocodell’interprete», in Atti del Convegno «Psicologia ed Estetica», Palermo1981. Notiamo che la sintesi per contiguità di cui si parlanell’annotazione precedente fa tutt’uno con la nozione di vicinan-za tonale trattata nel penultimo e nell’ultimo articolo citato. Parti-colarmente significative sono infine per noi le considerazioni sullatematica dell’espressione svolte da P. Bozzi nel terzo capitolo(«Qualità terziarie») del volume Fisica ingenua, Garzanti, Milano

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1990, pp. 80 sgg., nel quale la critica dell’associazionismo psicolo-gico nei sui impieghi ingenui si avvale anche, in modo pertinenteed efficace, di esemplificazioni musicali.

§ 11

Abbiamo detto di non voler precipitarci a considerare le obie-zioni che affiorano alla prima delineazione dell’impostazioneproposta: ma una volta che essa è stata abbozzata nei suoi li-neamenti essenziali prendere in esame le obiezioni rappresentaun modo di fornire ulteriori importanti precisazioni e di evi-tare fraintendimenti da cui, in realtà, ci sentiamo minacciatimolto da vicino. A dire il vero tutte le obiezioni si possono ri-durre ad una soltanto, particolarmente dura e rivolta a ciò chefornisce la base stessa della nostra impostazione del problema.

Tutti i nostri ultimi sviluppi sul tema della consonanzae della dissonanza possono essere considerati come conseguen-ze di un’assunzione fondamentale che chiama in causa lagrandezza degli intervalli. Vogliamo esaminare con maggioreattenzione questo punto, anzitutto con riguardo alla prima se-zione in cui lo spazio sonoro viene suddiviso.

Ciò su cui abbiamo attirato l’attenzione è che il movi-mento tende ad un punto di massima consonanza, riducendosiprogressivamente l’effetto dissonantico che segue all’unisono.Si noti che mentre possiamo parlare di un punto di massimaconsonanza, non possiamo nello stesso senso parlare di unpunto di massima dissonanza dal momento che il processo hainizio proprio dall’unisono. Di massima dissonanza si potrànaturalmente parlare, in un’accezione meno stringente, inrapporto ad un «luogo» che si trova comunque in prossimitàdell’unisono. Dobbiamo allora notare che il punto di massimaconsonanza è anche il punto più distante dalla nota fonda-mentale, così come inversamente il punto di massima disso-nanza è il punto più vicino alla nota fondamentale.

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Si ripresenta così, in forma nuova, e in stretta connes-sione con il problema della consonanza, la differenza tra ilgrande e il piccolo intervallo. Potremmo dire: è massima-mente dissonante con un suono il suono che è tanto vicino aesso da poter apparire come una sua alterazione.

Tuttavia se ci limitassimo ad un simile rilievo vi sarebbeben poco da obiettare: in fin dei conti, chiunque, invitato afornire esempi il più possibile chiari, farà presumibilmenteriferimento all’intervallo più piccolo all’interno del nostro si-stema – quindi all’intervallo di seconda minore – e, volendoevitare la consonanza di ottava, all’intervallo di quinta. Manoi in realtà andiamo oltre, poiché pretendiamo di poter con-siderare questi due casi estremi come indicativi della presenzadi una precisa regola fenomenologica in base alla quale vi è unarelazione funzionale tra il grado di consonanza e la grandezzadell’intervallo.

Questa regola noi la vediamo operante, e ciò natural-mente può valere come un’ulteriore importante conferma,nella seconda sezione dello spazio sonoro.

Il movimento si allontana sempre più dalla nota fonda-mentale, gli intervalli diventano sempre più grandi, ma sitratta in ogni caso di un movimento di approssimazione allanota che è più «simile» di ogni altra alla nota fondamentaletanto da poter essere detta «identica» ad essa (a meno della mag-gior «acutezza»). L’intervallo rispetto a questa nota si riduceprogressivamente, e in questa riduzione l’effetto dissonanticodiventa sempre più pronunciato.

Ora proprio questa regola fenomenologica che sta allabase di tutta la nostra discussione potrebbe essere oggettodell’obiezione più dura: essa è semplicemente falsa! Si è del re-sto mai letto qualcosa di simile in un testo di teoria musicaleo in una trattazione qualsiasi che si occupi della questione?Sembra davvero necessaria la speculazione filosofica per assu-mere il coraggio di enunciarla. Può forse questo coraggio dadue soldi mettere a tacere fatti ben noti che appaiono subitosufficienti ad una decisa confutazione?

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Si sa, ad esempio, che l’intervallo tritonico è di normaconsiderato fortemente dissonante, pur essendo più grandedell’intervallo di quarta e appena più piccolo dell’intervallo diquinta; mentre, proprio per questo, secondo lo spirito (o forsesarebbe meglio dire, la logica) delle nostre considerazioni, essoappartiene all’area consonantica e il suo grado di consonanzadovrebbe essere addirittura maggiore di quello dell’intervallodi quarta. Oppure si può rammentare che in generale si èpropensi a considerare la terza zarliniana più consonante dellaterza temperata, pur essendo più vicina alla nota fondamen-tale. Basterebbe citare questi due casi, anzi soltanto il primo,per mettere da parte l’idea di una connessione funzionale tra ilrapporto consonantico e la grandezza dell’intervallo.

Invece obiezioni come queste che sembrano tagliarel’errore alla radice ci consentono di apportare alla nostra posi-zione gli ultimi miglioramenti che sono indubbiamente indi-spensabili per evitare che, in luogo di ottenere un effettivochiarimento, tutto ricada nella massima confusione.

In realtà un errore autentico lo commetteremmo se,prendendo alla lettera quelle obiezioni, ci accingessimo a so-stenere alcunché su questo o quel determinato rapporto inter-vallare, singolarmente preso ed eventualmente messo a con-fronto con un altro. Si tratta invece di richiamare l’attenzionesu quel mutamento di punto di vista che avevamo annunciatonel momento in cui abbiamo dato l’avvio a questi ultimi svi-luppi, per farne ora apprezzare a fondo tutta l’importanza. Es-so era stato operato soprattutto con l’intenzione di passare aduna considerazione dell’intera problematica in un quadro fe-nomenologico, dal momento che deve essere anzitutto chiaroche qui è in gioco propriamente l’ammissibilità di una consi-derazione della distinzione tra consonanza e dissonanza da unpunto di vista fenomenologico-strutturale, e di conseguenzaciò che in rapporto a quella distinzione può essere detto atte-nendosi strettamente all’interno di questo punto di vista.

Cosicché, mentre abbiamo cominciato la nostra discus-

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sione prendendo in esame la grammatica corrente dei termini,passando ad un’impostazione dinamica e chiamando in causalo spazio sonoro, abbiamo operato una vera e propria nuovadeterminazione del problema, e quindi dello stesso senso delleparole «consonante/dissonante», scontando possibili divergen-ze rispetto a impieghi più o meno determinatamente codifi-cati dalla teoria e dalla pratica musicale. Siamo passati ad unnuovo gioco linguistico, nel quale non solo non sono ancoraimplicati i suoni nella loro molteplicità e singolarità, ma so-prattutto viene meno la possibilità, lasciata ampiamenteaperta dall’impostazione usuale del problema e che di conti-nuo traspare nella grammatica corrente dei termini, di una ri-duzione dell’intera tematica al piano empirico-psicologico.

Il nostro problema diventa allora: che ne è della distin-zione tra consonanza e dissonanza se separiamo da essa queimomenti che possono pretendere al massimo una giustifica-zione empirico-psicologica?

Perciò non abbiamo preso nemmeno in considerazionequesta o quella curva del rapporto consonantico fondata supiù o meno accurate sperimentazioni psicologiche che sono adisposizione di ognuno110. Abbiamo invece richiamato l’at-tenzione sull’esistenza di una tendenza dello spazio sonoro cheesibisce di per se stessa la presenza di una regola interna. Larilevazione di questa tendenza poggia ovviamente su una si-tuazione percettiva, e tuttavia non su introspezioni, non suesperimenti, e nemmeno su elementi che ci potrebbero far so-spettare l’azione determinante della convenzione e quindidella mediazione linguistica.

In precedenza non ho fatto altro che attirare la vostraattenzione sul fatto che lo spazio sonoro, relativamente ad unsuono di riferimento che viene tenuto fermo, tende alla mas-sima consonanza secondo la descrizione fornita in precedenza.Esso ha proprio questo andamento.

110 Cfr. ad es. P. Righini e G.U. Righini, Il suono, Tamburini, Milano1974, p. 247.

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Qualcuno potrebbe chiedere: come la sai? Che cosa cipuò assicurare che non si tratti di una tua sommaria impres-sione personale che non ha nessun fondamento nella cosastessa?

Allora io attiro la vostra attenzione sul fatto che la lineaseguente:

si impenna verso l’alto all’incirca nella zona indicata dallafreccia. Chi è ora disposto a chiedere, seriamente, come faccioa saperlo? E chi sarebbe tanto ottuso da ammettere una simileaffermazione solo se supportata da una verifica sperimentaleadeguata?

Si vedono allora subito le conseguenze di questo mododi impostare il problema: la forma strutturale messa in evi-denza fornisce un criterio per la formulazione delle domandecosì come per la determinazione del senso delle risposte. Inbase ad essa è certamente già deciso se un determinato puntoappartenga all’area consonantica o a quella dissonantica. E co-sì è anche già deciso in quali circostanze sia ammissibile ilparlare di una differenza nel grado di consonanza e in partico-lare il modo in cui va intesa questa differenza. Ci liberiamocosì in un colpo solo di tutte le difficoltà che abbiamo segna-lato a suo tempo e che giustificano il dubbio sulla consistenzadella nozione.

La terza è una consonanza? E il suo grado di consonanzaè maggiore o minore della quinta o della sesta?

Qui è veramente il caso di dire, stando all’impostazioneusuale: come faccio a saperlo? Che cosa esattamente debbo

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mettere a confronto e in che modo questo confronto può es-sere realizzato? Di fatto secondo quella impostazione, la no-zione di consonanza tende a ridursi ad una nozione di eufoniae di gradevolezza che rende labili e incerti i contorni stessi delproblema. La teoria e la storia musicale sembrano confermare,con la varietà delle risposte e delle decisioni, una simile dis-soluzione dell’intera questione nell’empiria psicologica.

Di fronte a tutto ciò, noi ammettiamo senz’altro di sen-tirci presi da un soprassalto platonistico: con il richiamo acriteri ed a regole interne alla struttura facciamo nuovamentevalere, a modo nostro, quel motivo che abbiamo visto cosìchiaramente formulato nel passo della Repubblica dove si ma-nifesta, e proprio in rapporto ad un materiale così inesorabil-mente sensibile come è il suono, una sorta di insofferenza versole indeterminatezze della sensibilità.

Naturalmente non si tratta per noi di rivendicare la ne-cessità di oltrepassare il piano della sensibilità in direzione dipretesi a priori matematici. Eppure la presenza di un motivo«aprioristico» è innegabile nella stessa proposta di una nuovadeterminazione del senso del problema a partire dal ricono-scimento di una trama di rapporti strutturali direttamente af-ferrabili sulla superficie fenomenologica. È così interamentecambiata l’angolatura dalla quale guardiamo alla distinzionetra consonanza e dissonanza – è cambiato, come dicevamo inprecedenza, il modo di impiego dei termini, la loro grammati-ca. Di questo cambiamento occorre prendere chiaramente co-scienza dal momento che tutte le difficoltà entro cui è co-stretta a destreggiarsi la nostra discussione sorgono propriodalla coesistenza tra un piano empirico-psicologico e un pianofenomenologico-strutturale. A questo intreccio di piani, edunque di «giochi linguistici» diversi, sono dovuti quei frain-tendimenti della nostra posizione che si manifestano nelle du-re e aperte obiezioni che abbiamo formulate all’inizio.

In effetti, mentre nell’impostazione usuale della que-stione, ha senso proporre confronti tra intervallo e intervallo,

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per quanto possa una simile proposta diventare subito alta-mente problematica, considerando la questione dal lato dellastruttura, avremo a che fare non con punti o intervalli, macon fasi di un processo ed eventualmente con differenze nelsenso dello sviluppo processuale. Poiché questo processo è ca-ratterizzato come un progresso verso una condizione di mas-sima consonanza, una fase può essere più o meno prossima aquesto limite. Questa prossimità, a sua volta, non deve essereintesa staticamente, ma dinamicamente, come un essere più omeno proteso verso quel limite. Per questo motivo le obiezio-ni precedenti non possono pretendere alcuna forza di confu-tazione, e dunque noi non abbiamo affatto bisogno di inter-venire con qualche nostra personale opinione, ad esempio, sulcarattere dell’intervallo tritonico.

La differenza dei piani deve dunque essere sottolineatacon energia, così come al tempo stesso il fatto che l’intera im-postazione proposta fa riferimento allo spazio sonoro nella suadimensione originaria come movimento sonoro, come flusso.La coppia consonanza-dissonanza designa allora una tensioneinterna dello spazio sonoro, una tensione che appartiene adesso e che non solo mostra la presenza di una regola, ma cheistituisce al tempo stesso un nuovo momento di articolazione.

In effetti non dobbiamo perdere di vista il problema piùgenerale dal quale abbiamo preso le mosse e nel quale è in-scritto anche quello della consonanza e della dissonanza.

La nostra domanda era: se la dimensione iniziale da cuivogliamo prendere le mosse è il Suono stesso, il continuo so-noro, come fanno a esserci i suoni? In che modo diventa possi-bile il passaggio dalla continuità alla discretezza? Vi sono cri-teri che orientano in via di principio la suddivisione dello spa-zio sonoro?

Tutta la nostra discussione è attraversata da questa do-manda che certo ha cominciato a ricevere qualche risposta.

In primo luogo, lo spazio sonoro è caratterizzato da unastruttura iterativa che non solo esibisce una prima suddivisio-

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ne, ma che consente anche di limitare il problema all’inter-vallo di ottava. In secondo luogo, la tematica dell’alterazionemostra l’esistenza di un limite di principio alla libertà dellasuddivisione fornendo una giustificazione intrinseca alla di-stinzione tra suoni «principali» e suoni «secondari», intesa inuna delle accezioni possibili di questi termini. Ora, con laconsiderazione della distinzione tra consonanza e dissonanzafacciamo un ulteriore passo avanti in rapporto a questo pro-blema. Mentre la regola della «contiguità» implicata nella te-matica dell’alterazione, non era naturalmente in grado di de-terminare alcun punto all’interno dell’intervallo di ottava, ap-pare invece chiaro che la considerazione della forma disso-nantica-consonantica dello spazio sonoro effettua questa de-terminazione. Si tratta ovviamente del punto di massima con-sonanza: esso individua due intervalli notevoli, secondo laterminologia musicale corrente, l’intervallo di quinta el’intervallo di quarta. Gli intervalli di quinta e di quarta sonoinscritti nella struttura dello spazio sonoro: in questo modopuò essere certamente ripreso non tanto un punto di vista og-gettivistico che sembra aver bisogno di una giustificazione fi-sicalistica e che difficilmente può essere liberato da elementidi dogmatismo, quanto quelle sue ragioni che possono esserereperite a livello puramente fenomenologico. La novità teoricasta qui nel fatto che questo punto che suddivide il segmentorappresentativo dello spazio sonoro non ha affatto bisogno digiustificare la propria rilevanza – e quindi eventualmente lapropria funzione strutturante – attraverso considerazioni cheriguardano la consonanza più bella, più gradevole, più eufoni-ca, più compiuta. Essa deriva invece dal fatto stesso che quelpunto può essere appreso uditivamente come punto terminaledi uno sviluppo sonoro di un determinato tipo. Esso ha ca-rattere di punto di volta, perché proprio in quel punto avvie-ne l’inversione della direzione di movimento.

In realtà ogni altro momento del processo ha caratteredi uno stato essenzialmente transitorio. Ciò vale naturalmente

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anzitutto per i momenti che appartengono all’area dissonanti-ca: la dissonanza è infatti un divenire dissonante a partiredalla condizione iniziale dell’unisono (o della consonanza diottava), cosicché dal rapporto dissonantico non può essere in-dividuato – nello stesso senso – alcun punto determinato. Main stretta coerenza con la nostra impostazione dobbiamo af-fermare che anche l’area consonantica rappresenta per noi unatransizione verso quel massimo a cui spetta nel senso più stret-to e proprio il titolo di Consonanza.

In realtà le considerazioni fenomenologico-strutturalinon possono spingersi oltre il riconoscimento di questa arti-colazione interna elementare, quindi oltre l’idea di un unicopunto di consonanza e di aree di consonanza e di dissonanza in-tese come transizioni. In certo senso riscopriamo il senso anticodella parola – il senso greco del termine di consonanza («sin-fonia») che, come si sa, ammetteva di essere applicato soloall’intervallo di quinta e di quarta, a parte i casi dell’ottava edell’unisono. Questa circostanza viene spesso citata comeconferma di una visione relativistico-soggettivistica del pro-blema: come se quell’impiego linguistico documentasse cheper l’orecchio greco qualunque altro intervallo fosse avvertitocome dissonante. A noi invece piace pensare che un impiegotanto ristretto del termine fosse soltanto un segnale della pros-simità all’aspetto strutturale del problema.

§ 12

Dopo una discussione che, nonostante tutti i nostri sforzi perevitare le tentazioni che si ponevano a ogni passo di estender-ne la portata e approfondirne i termini, ha assunto in ogni ca-so un’ampiezza tale da rendere difficile dominare il sensodell’insieme, si sente il bisogno di riportare la riflessione sugliintenti che stanno alla sua base e che rappresentano anche lesue motivazioni più profonde.

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Questa riflessione può essere avviata dedicando qualcheparola di commento alla nozione di regola fenomenologica –espressione che in precedenza abbiamo direttamente intro-dotto senza particolari spiegazioni. Con una simile espressionenoi intendiamo una regola formulata in stretta inerenza allaforma e ai modi di manifestazione del materiale percettivo – edi essa potremmo dare un’illustrazione ricorrendo ad esem-plificazioni estremamente elementari.

Si pensi alle nostre considerazioni sulla temporalità.Non potremmo forse rendere esplicite delle regole che sonocontenute nel fatto stesso che i suoni e le sequenze sonore so-no temporalmente determinate? Ad esempio: un suono chedura di più, all’interno di una sequenza, avrà certamente mag-gior peso di un suono che dura di meno, cosicché potremmodire che vale in generale la regola «maggiore durata, maggioreimportanza». Lo stesso si potrà dire per la ripetizione: il ritor-no percettivo dello stesso suono non può che conferirgli pre-gnanza. Oppure potremmo rammentare il rilievo che assumein una sequenza il primo suono e proprio per il fatto che essoè il primo. Infatti, sviluppandosi una «melodia» temporal-mente e dunque non potendo essere data fin dall’inizio in una«visione d’insieme» nella quale si distinguano senz’altro i trattiprincipali dai dettagli, il primo suono non può essere afferratocome un dettaglio, cosicché essa comincia con una prevenzio-ne uditiva e ciò proprio per il fatto che essa comincia. Anchese questa prevenzione potrà essere subito smentita dallo svi-luppo successivo. Del resto l’imponenza del primo suono saràsenz’altro sminuita da una durata troppo breve.

Regole elementarissime, come abbiamo detto, ma pursempre regole. In quanto poi esse mettono in questionel’importanza maggiore o minore dei suoni in una sequenza,esse vertono sull’idea stessa dell’articolazione come un’ideache appartiene alla nozione di «melodia» considerata nella suamassima generalità. Non chiameremo «melodia» una sequen-za di suoni in tutto e per tutto indifferenti, così come non

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parleremmo di «melodia» in rapporto al risuonare uniformedi un unico suono. La significatività di una sequenza di suoniconsiste anzitutto nel fatto che essa consta di suoni che hannopesi differenti. Le regole che abbiamo rammentato sono re-gole atte a istituire differenze.

Ma questa problematica è presente ovunque nelle nostreconsiderazioni sulla struttura dello spazio sonoro proprio peril fatto che, come abbiamo cercato di mostrare, esso è attra-versato da tensioni che sono in grado di differenziare la conti-nuità preparando il passaggio alla discretezza, e dunque aduna molteplicità di possibili forme di articolazione. Da questaangolatura può essere riconsiderata l’intera tematica dell’al-terazione, e dunque della connessione tra continuità e discre-tezza, così come, e appena il caso di dirlo, quella della conso-nanza e della dissonanza. Possiamo in generale dare forma diregola a relazioni strutturali che chiamano in causa la gran-dezza degli intervalli, la loro caratterizzazione «qualitativa», lamaggiore o minore «somiglianza» tra i suoni, dunque i rap-porti istituiti nel gioco della dissonanza e della consonanza.

Ora, proprio considerando gli esempi nella loro ele-mentarità, appare subito chiaro che queste regole non sono daintendere come se esse avessero una validità relativa ad undeterminato linguaggio, ma come regole che poggiano su nes-si necessari, su legalità di ordine strutturale. Non meno im-portante, per chiarire la natura di queste regole, e che nella lo-ro formulazione non è stato ancora deciso proprio nulla suimodi, certamente molteplici, in cui esse potrebbero interveni-re in un progetto espressivo. In base ad esse possiamo afferma-re, per stare alle semplici esemplificazioni precedenti, che seall’interno di una sequenza una nota ritorna con particolareinsistenza, essa tenderà a prender rilievo all’interno della se-quenza stessa, un rilievo che potrebbe essere accentuato sequella stessa nota aprisse la sequenza e anche la chiudesse. Mase affermassimo, ad esempio, che deve esserci sempre, in ognisequenza di suoni, una nota più importante di tutte le altre e

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che questa deve sempre stare all’inizio e alla fine della sequen-za, opereremmo una netta modificazione di piani, segnalatadel resto dalla formulazione prescrittiva a cui or ora abbiamofatto ricorso. La regola di cui ora si parla è propriamente unanorma, e possiamo assumere che essa faccia parte di un lin-guaggio di cui contribuisce a determinare la particolarità. Inun altro linguaggio potrebbe ad esempio valere la norma se-condo cui un suono deve presentarsi in una sequenza unavolta soltanto, e dunque nessuna nota deve prevalere sulle al-tre attraverso il modo della ripetizione. Ma è della massimaimportanza sottolineare che anche questa norma, come la pre-cedente, presuppone la validità della regola fenomenologicaed è a partire da essa che può essere compreso il senso di queldivieto.

Val la pena di notare a questo proposito che nulla sa-rebbe più erroneo che interpretare la nostra trattazione delproblema della struttura dello spazio sonoro come se in essa sitendesse a operare una trasposizione su una pretesa terra dinessuno di luoghi comuni che sono invece caratteristici dellinguaggio tonale nella prospettiva di una loro legittimazione.Naturalmente osiamo pensare che anche le regole di questolinguaggio (come di ogni altro) non siano campate in aria, maabbiano le loro ragioni, da un lato, negli intenti espressivi per-seguiti, dall’altro nel modo in cui, in conformità a questi in-tenti, viene elaborato il materiale sonoro. Ma occorre anchesottolineare che sul terreno nel quale ci disponiamo non si èaffatto deciso, anzi non si è nemmeno posto il problema, se, adesempio, l’importanza che l’intervallo di quinta ha indiscuti-bilmente in rapporto alla descrizione della struttura dello spa-zio sonoro debba essere fatta valere sul piano espressivo e se-condo quali possibili norme. E lo stesso si può dire per le ca-ratterizzazioni tendenzialmente espressive che sottolineano ladinamicità della dissonanza oppure la staticità della conso-nanza di cui abbiamo difeso in vari modi la pertinenza; oppu-re per tutte quelle norme, appartenenti al linguaggio della to-

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nalità (come quella della risoluzione della dissonanza) di cuipossiamo riconoscere il fondamento all’interno di considera-zioni strutturali (e quindi togliendo di mezzo l’ottusa idea diclausole fondate unicamente sull’abitudine), facendo tuttavianotare che queste stesse considerazioni debbono essere chia-mate in causa per rendere conto di norme interamente diverse.

A questo punto si intravvede con chiarezza in che modola problematica che abbiamo qui trattata si integri nel quadrocritico e polemico che abbiamo delineato nella nostra Intro-duzione contribuendo a fissarne più nettamente i contorni.

In certo senso nella discussione che abbiamo in essacondotto sul problema della molteplicità dei linguaggi dellamusica ci siamo chiesti: in che modo veniamo educati a que-sta molteplicità? In che modo la teoria musicale o, più am-piamente, la riflessione teorica intorno alla musica ci può pre-parare ad essa? E avevamo già ampiamente fatto valerel’opinione che non solo nessuna educazione può venire dallasemplice trasmissione delle regole e delle loro vicende all’in-terno della tradizione musicale europea anche se accompa-gnate da qualche estrinseco ammonimento relativistico; manessuna, nemmeno dalla pura e semplice asserzione dellamolteplicità e dell’idea conseguente di grammatiche particola-ri che determinano le validità interne a questo o quel sistemalinguistico. Come si è già notato a suo tempo, al di là di ciòche in queste affermazioni è ormai pura e semplice ovvietà, inesse ciascun sistema viene prospettato in linea di principiocome un universo chiuso fluttuante nel vuoto e sul vuoto.Come sarà possibile allora stabilire un modo di approcciodall’uno all’altro sistema, se viene escluso ogni legame? In chemodo possono essere realizzati quei confronti che sono neces-sari per fissare le differenze e il loro senso? Ci troviamo quinella condizione di avere a che fare ogni volta con «categorie»interamente nuove, con regole così radicalmente scaturite dalnulla da fare diventare problematica la stessa possibilità dellacomprensione.

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Si impone così, ogni volta che l’attenzione viene attiratasulla molteplicità dei linguaggi della musica, e dunque sul te-ma della loro particolarità, la necessità di disporre di nozioniche proprio in forza della loro generalità siano in grado difornire un criterio per apprezzare la novità e la differenza.

Si impone il problema di una teoria generale della musi-ca. Così e semplicemente: solo una teoria generale della musi-ca può fornire un’introduzione e una preparazione effettivaalla molteplicità, solo attraverso di essa la particolarità può es-sere dispiegata nella sua effettiva ricchezza di senso111.

Parlare di una teoria generale non significa tuttavia po-stulare un’astratta essenza unitaria, una sorta di nucleo identi-co che ogni linguaggio musicale dovrebbe possedere, e dun-que nemmeno si pensa a un’esposizione sistematica compiuta,il cui oggetto apparirebbe subito indeterminato. Si pensa in-vece alla possibilità di disporsi di fronte ai casi sempre deter-minati in cui consiste la musica dal punto di vista di una teoriagenerale. La questione di una teoria generale, che affiora e nonpuò non affiorare ovunque all’interno della teoria e della filo-

111 Alla scarsa attenzione alla problematica musicale da parte della rifles-sione estetica e filosofica in genere, fa riscontro sul versante musicologico unprofondo disinteresse – e alludo qui naturalmente in modo esclusivo alla situa-zione italiana – nei confronti della questione di una teoria generale della musi-ca, disinteresse che non ha conseguenze solo su maggiori o minori profonditàspeculative, ma che ha generato una relativa arretratezza nel campo delle indagi-ni più strettamente analitiche che esigono in via di principio opzioni di ordineteorico e metodico spesso apertamente sconfinanti nell’ambito delle questionifilosofiche. Tra le poche eccezioni a questo quadro merita di essere segnalato illavoro condotto da Marco de Natale, a cominciare dal volume Strutture e formedella musica come processi simbolici (Morano, Napoli 1978) fino al più recenteAnalisi della struttura melodica (Guerini, Milano 1988). La necessità di un puntodi vista di una teoria generale si impone qui con particolare evidenza in strettaconnessione con problematiche analitiche specifiche e con la consapevolezza delsuo raggio di azione che raggiunge il problema della costruzione di un apparatocategoriale capace di offrire strumenti per la comprensione delle strutture musi-cali di culture non europee, così come quello di un rinnovamento della presenta-zione dei «concetti fondamentali» che non può non avere conseguenze impor-tanti sulla didattica musicale.

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sofia della musica e persino all’interno delle tematiche analiti-che, per quanto quella stessa espressione venga accuratamentetenuta lontana dal dibattito, consiste essenzialmente nel rico-noscimento della possibilità di un punto di vista. Ma questo ri-conoscimento può essere effettivamente realizzato solo se que-sta tematica viene liberata da tutti quei fraintendimenti che larenderebbero impraticabile. Tutti i nostri sviluppi precedentipossono ora essere riconsiderati, in uno sguardo retrospettivo,come sviluppi che illustrano questa possibilità. Il tema del re-gresso ad un piano prelinguistico, della necessità di disporsi aimargini della musica considerata nella varietà delle sue mani-festazioni, che è presente fin dall’inizio della nostra trattazio-ne, riceve, nel nostro tentativo di caratterizzazione fenome-nologica dello spazio sonoro, un più preciso profilo proble-matico e ci consente di formulare con chiarezza l’ideadell’esistenza di regole di base e dunque di una grammatica dibase – un’espressione questa che si presta anche a essere appli-cata al di fuori del campo del linguaggio per indicare la pre-senza sul piano dell’esperienza di forme strutturali fonda-mentali.

Muovendoci in questa direzione, a ben pensarci, nonfacciamo altro che prospettare da una diversa angolatura un’i-dea che si impone con evidenza già in una considerazionedella modificazione delle regole all’interno dell’unità di unatradizione. Una nuova regola, nell’ordine storico, non puòproporsi in altro modo se non come una sorta di negazioneattiva di una vecchia regola oppure come un mutamento delrapporto di questa con le altre regole, come un modo diversodi impiegarla e di integrarla.

Ma ciò suggerisce appunto una riflessione su un terrenopiù ampio. Quando ci installiamo all’interno di un linguaggioe nella particolarità delle sue regole dobbiamo sapere che essenon sono escogitazioni arbitrarie che si sostengono a vicendanella loro pura e semplice coesione sistematica. Esse risultanoinvece da affermazioni e negazioni, da modi peculiari di im-

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piego, da scelte e decisioni. Prima di esse vi sono infatti quelleregole fenomenologiche che costituiscono una grammatica dibase che è sempre implicitamente presupposta. Cosicché dob-biamo dire: dal gioco con queste regole derivano le regole di que-sto gioco.

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Capitolo quarto

Simbolo

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§ 1

Chiunque si accinga oggi ad aprire una discussione sul pro-blema del senso del musicale deve attendersi da una buona par-te dei suoi ascoltatori una subitanea caduta dell’attenzione,come di fronte ad un argomento che è stato certamente difondamentale importanza nei dibattiti di estetica musicale,ma che ha raggiunto ormai una sorta di definitivo assesta-mento.

Intanto si prospetta subito già fatto e bene delineato loschema dell’alternativa entro cui quella discussione dovrebbenecessariamente svilupparsi, così da togliere ogni incertezzaintorno al modo dell’impianto, un’incertezza che peraltro puòa malapena essere mantenuta in rapporto al suo andamentosuccessivo, essendo anche l’esito scontato fin dall’inizio. L’al-ternativa consiste infatti in una considerazione che ricerca ilsenso del musicale nei dinamismi che hanno origine al di fuo-ri del brano musicale e, sul lato opposto, nella tesi secondo cuiquesto senso sarebbe invece tutto giocato al suo interno, co-sicché da esso fuorvierebbe ogni richiamo a circostanze ester-ne, non direttamente afferrabili nel brano stesso, per quantopossano risiedere nelle sue vicinanze. In rapporto a questa im-manenza del senso si usa parlare di formalismo, mentre appar-tiene all’altro polo dell’alternativa il riconoscimento di un«contenuto» che viene plasmato e rappresentato nelle formemusicali. Secondo un’analogia spesso ricorrente: l’alternativasta tra una concezione del musicale come un dipinto che sicompiace del puro gioco di forme e di colori che nulla rac-contano intorno al mondo oppure come un dipinto che, rap-presentando volti e paesaggi, sa narrare eventi. Ma l’atten-zione si è già di molto allentata se fin dall’inizio la questionesembra essere ormai decisa a favore del versante che, adattan-doci alla terminologia corrente, anche noi chiameremo for-malistico.

Alla domanda se nella musica si esprimano pensieri e

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sentimenti, se essa possa essere paragonata sotto questo ri-guardo all’immagine poetica, alla raffigurazione pittorica oall’azione drammatica, la tendenza della risposta, comunquepoi essa venga articolata e variamente approfondita, sarà perlo più negativa. Al punto che la stessa parola «espressione» –in se stessa così innocua quando non sia ancora integrata inuna filosofia – può essere considerata sospetta e particolar-mente indesiderata.

«L’espressione non è mai stata la proprietà immanentedella musica» – afferma perentoriamente Stravinsky in unafrase famosa112. A sua volta Schönberg ribadisce in varie occa-sioni che un’idea nella musica consiste essenzialmente nella«relazione reciproca delle note»113, il musicista non essendoaltro che una sorta di filosofo i cui pensieri hanno forma mu-sicale114.

La musica basta a se stessa. Quindi non devi andare allaricerca di qualcosa che sta al di sotto o al di là della superficiesonora. Quando odi uno sviluppo tematico, non devi chie-derti quale sia il pensiero che sta alla sua base e che esso portaall’espressione, dal momento che lo sviluppo tematico stesso èquel pensiero. Ciò che dal musicista è stato pensato sono pro-prio questi suoni – i suoi pensieri sono appunto pensieri musi-cali, cioè pensieri fatti di suoni.

Affermazioni come queste meritano di essere accompa-gnate da qualche parola di commento così da coordinare a es-se alcuni motivi capaci di consolidare il nostro consenso.

Ad esempio: esse negano forse che sentimenti o pensieri

112 I. Stravinsky, Cronache della mia vita, Feltrinelli, Milano 1981, p. 52.La frase continua così: «La ragion d’essere di questa non è in alcun modo condi-zionata da quella. Se, come quasi sempre accade, la musica sembra esprimerequalcosa, si tratta di un’illusione e non di una realtà. È semplicemente un ele-mento addizionale che, per una convenzione tacita e inveterata, le abbiamo pre-stato, imposto, quasi un’etichetta, un protocollo, insomma un’esteriorità, e che,per abitudine e incoscienza, abbiamo finito per confondere con la sua essenza».

113 A. Schönberg, Analisi e pratica musicale, Einaudi, Torino 1974, p. 67.114 A. Schönberg, Stile e idea, Feltrinelli, Milano 1975, p. 11.

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possano in qualche modo essere «fonti di ispirazione» per ilmusicista, che vi siano suggerimenti o suggestioni prima del-l’opera e che in qualche modo sono connessi, nella mente delcompositore, all’origine dell’opera? Riprendendo quella frasetanto citata e rincrescendosi anche un poco della sua forseimmeritata fortuna, Stravinsky osserva che per nulla affattointendeva in essa negare che il compositore si esprima nell’o-pera, quanto piuttosto affermare che questa circostanza è irri-levante rispetto alla realtà della composizione musicale, dalmomento che «una nuova composizione musicale è una nuo-va realtà»115. L’accento deve dunque cadere sulla dimensioned’essere dell’opera, su questo suo trarsi fuori dalla concatena-zione dei vissuti nella quale essa è stata generata, potendo cosìpretendere di essere considerata nella sua pura oggettività.

Schönberg narra una volta come un proprio brano dimusica strumentale sia per lui costantemente associato ad unorrifico dipinto, che gli era rimasto impresso nella mente sinda bambino, nel quale la ciurma ammutinata di una nave in-chiodava per la testa il proprio capitano. Egli narra questocertamente per sottolineare – come del resto si precipiterebbe

115 I. Stravinsky e R. Craft, Colloqui con Stravinsky, Einaudi, Torino1977, p. 299: «Quella battuta superpubblicizzata sull’espressione (o non espres-sione) era semplicemente un modo di dire che la musica è soprapersonale e su-perreale e come tale va oltre i significati verbali e le descrizioni verbali. Era di-retta contro il concetto che un brano di musica sia in realtà un’idea trascenden-tale ‘espressa in termini musicali’ con l’implicazione da reductio ad absurdum chetra i sentimenti di un compositore e la loro trascrizione musicale debbano esiste-re esatti correlativi. Era un parere improvvisato e fastidiosamente incompleto,ma persino i critici più ottusi avrebbero potuto vedere che non negaval’espressività musicale, ma soltanto la validità di un certo tipo di asserzione ver-bale circa l’espressività musicale. Incidentalmente sostengo ancora quell’osser-vazione, anche se oggi la rivolterei così: la musica esprime se stessa. Il lavoro diun compositore sta proprio nell’incarnazione dei suoi sentimenti e naturalmentesi può pensare che li esprima o li simboleggi (anche se la consapevolezza di que-sto atto non riguarda il compositore). Più importante è il fatto che la composi-zione è qualcosa di completamente nuovo al di là di quelli che si possono chia-mare i sentimenti del compositore... Una nuova composizione musicale ‘è’ unanuova realtà».

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a sottolineare qualunque commentatore – che proprio nullaha a che fare con il brano musicale quella visione, per quantoad essa, per qualche misteriosa ragione, quel brano sia stret-tamente vincolato nella vita affettiva del compositore116.

Sullo sfondo del problema vi è dunque anzitutto unapresa di posizione antipsicologistica, che intende determinarel’opera nel suo essere più che nella sua origine e nella sua de-stinazione. Una presa di posizione che naturalmente non valesolo nella direzione della produzione, ma anche in quelladell’esecuzione, dell’ascolto e del discorso critico.

«Ciò che vorrebbero sapere – a parlare è qui ancoraStravinsky – è se le note ripetute del clarinetto basso alla finedel primo movimento della mia Sinfonia in tre movimentipossano essere interpretate come una ‘risata’. Supponiamo cheio concordi a intendere che sia una ‘risata’, che differenza faper l’esecutore? Le note non ne vengono toccate. Esse non sonosimboli, ma segni»117.

Qui si concede addirittura che il compositore abbiaproprio voluto conseguire l’effetto espressivo di una risata,abbia voluto «imitarla». Ma le note, i suoni anzitutto scrittisul foglio di carta, restano con ciò esattamente quello che era-no e il bravo clarinettista resta con il suo specifico problemaesecutivo, che è anzitutto un problema tecnico. Dovrebbe dun-que pensare ad una risata? Forse è meglio che non lo faccia.

All’ascoltatore invece si raccomanderà di mettere daparte tutte quelle indicazioni che gli vengono dal di fuori delbrano musicale come tale, e soprattutto da titoli di sapore de-scrittivo, raffigurativo, narrativo che così spesso i musicisti (oaltri per loro) propongono in rapporto alle loro opere, quasivolessero imporre a forza ai segni sonori una capacità simboli-ca che essi non sono in grado di sopportare. Benché in realtà

116 Cfr. G. Manzoni, Arnold Schönberg, Feltrinelli, Milano 1975, pp.109-110 (si fa riferimento al Quartetto n. 3 op. 30 per archi).

117 I. Stravinsky e R. Craft, op. cit., p. 85.

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la questione del simbolismo sia tutt’altro che superata nelleteorie di esplicita inclinazione formalistica, l’opposizione tra-simbolo e segno, richiamata da Stravinsky, è quanto mai perti-nente dal momento che una sorta di repugnanza nei confrontidel tema del simbolismo si trova indubbiamente alle radicidell’istanza formalistica. L’accogliere da parte dell’ascoltatorela provocazione «simbolica» che può provenire da un titolo oda un suggerimento esterno non significa altro che rinnovarela negazione della dimensione ontologica dell’opera, una ne-gazione che non si realizza soltanto nel mantenere il vincolocon i motivi della sua produzione, ma anche in una modalitàdell’ascolto che la annienta. In luogo di mantenere l’operanella autonomia della sua dimensione d’essere, noi la impa-stiamo nel flusso dei nostri vissuti, facendo dell’ascolto unafonte di ispirazione per le nostre più svariate fantasticherie.

Infine, seguendo un simile orientamento, il discorsocritico tenderà ad assumere il carattere di un’illustrazione delmodo in cui il brano musicale è fatto, quindi di un’analisi diesso che sia capace di lumeggiarne la struttura e di mettere inevidenza le tecniche impiegate, piuttosto che indugiare sulle«impressioni» che il brano può generare nell’ascoltatore.

Ed è subito il caso di richiamare in proposito, per oppo-sizione, e senza voler spingere lo sguardo troppo oltre, quantodiversamente si presentasse l’intero problema nel secolo XIX,quando la relazione al contenuto sembrava essere spesso espli-citamente ricercata, e così anche appariva naturale che la tec-nica compositiva non fosse altro che un veicolo attraverso ilquale pensieri e sentimenti potevano giungere all’espressione.Era allora possibile, con molta semplicità, indicare una fonteletteraria come origine di un brano senza ritenere di dover su-bito correre ai ripari pregando l’ascoltatore di non tenerneconto. È noto che Beethoven invitava alla lettura di Shake-speare chi gli chiedeva una chiave per la comprensione dellesue sonate; e così Liszt non esitava a proporre esplicitamentecome fonte per la propria ispirazione sonetti del Petrarca o a

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rievocare al pianoforte la lettura di Dante con riferimento aduna poesia di Victor Hugo.

È del resto cosa risaputa: una tendenza formalistica nelsenso molto ampio nel quale assumiamo qui questo termine,può essere considerata come in qualche modo connaturataall’atteggiamento musicale novecentesco, e si trova in ogni ca-so in concordanza con quell’inclinazione antiromantica che èindubbiamente di quell’atteggiamento uno dei tratti caratteri-stici, o più propriamente, uno dei modi fondamentali della suaautorappresentazione. Come dice efficacemente Jankélévitch:«La volontà di non esprimere nulla è la grande civetteria delventesimo secolo»118. Questo motivo polemico è, almeno allasuperficie, tanto violento da far spesso dimenticare che la pa-rola «romantico» rimanda ad una straordinaria stagione dellacultura, per far valere invece il suo significato incolto, quasiche essa evocasse chissà quali svenevolezze, chissà quali atmo-sfere da romanzetti rosa.

D’altra parte, potremmo forse prendere a tal punto sulserio Beethoven da ricercare nelle articolazioni delle sue so-nate le scene della Bisbetica domata o della Tempesta, come seil pensiero del compositore fosse stato guidato da esse passoper passo?119 Oppure lasciarci guidare nell’ascolto, passo perpasso, dalle effusioni immaginifiche che caratterizzano cosìspesso i «programmi» della musica romantica? In realtà vi èun’aneddotica così ricca sugli eccessi, o anche, se si vuole, suquelle che potrebbero essere presentate come semplici conse-guenze dell’assunzione del punto di vista del contenuto, cheessa, di per sé sola, basterebbe a scoraggiare chiunque nutraqualche dubbio in proposito.

118 V. Jankélévitch, La Musique et l’Ineffable, Seuil, Paris 1983,p. 57119 Si vedano i commenti alle Sonate op. 31, n. 1 e 2 nel Catalogo crono-

logico e tematico delle opere di Beethoven, a cura di G. Biamonti, Ilte, Torino1968, pp. 371-378 in cui si citano casi estremi di questo atteggiamento.

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§ 2

E tuttavia qualche dubbio può pur essere sollevato, anche secertamente non riguarderà quella scontata critica della psico-logizzazione dell’azione creativa e della ricezione delle opereche sembra essere al centro delle preoccupazioni. Essa del re-sto non riguarda specificamente la musica, ma i prodotti del-l’arte in genere. Il problema sorge invece da ciò che si ritieneche questa critica debba comportare, dal quadro teorico cheessa mette in movimento. Vi è un’effettiva e necessaria impli-cazione tra una critica antipsicologistica e una presa di posi-zione formalistica, tra essa e una distruzione del «contenuto»che riduca quest’ultimo, quando in qualche modo reclama lapropria esistenza, a pura finzione estrinseca? In particolare cisembra utile esaminare un poco più da vicino fino a che pun-to possano essere spinte affermazioni genericamente formali-stiche quando si pretende che esse valgano invece come nucleidi teorie coerentemente sviluppate.

Un conto infatti è un’opinione formulata su spezzoni diproblemi, per di più espressi in modo più o meno chiaro, e unaltro è un’assunzione che voglia effettivamente misurarsi conl’intero arco di questioni che si affollano sotto il titolo, appa-rentemente elementare, di «problema del senso». Ad un esamepiù attento potrebbe apparire profondamente erroneo ricon-durre all’unicità di una soluzione un’effettiva molteplicità diproblemi che non sono affatto dominabili in un colpo solo.

Con ciò vogliamo attirare l’attenzione soprattutto sulfatto che questa nostra discussione ha senso solo se intendia-mo con punto di vista formalistico una presa di posizione abba-stanza forte, nella quale non ci si limita a contestare l’impiegodi pure citazioni letterarie o pittoriche che sono in ogni casoenunciate al di fuori del brano musicale e che possono evi-dentemente trovarsi in una relazione più o meno lenta con es-so. Nemmeno si tratta soltanto di mettere da parte «fonti diispirazione» con tutte le loro accidentalità soggettive o di

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stigmatizzare una modalità di ascolto che si perde in distrattefantasticherie. Si tratta invece di proporre l’idea secondo laquale il brano deve essere considerato come semanticamentechiuso, se è lecito esprimersi in questo modo, e ciò significache nulla può essere ammesso come «senso» in rapporto a essoche porti oltre il puro fatto sonoro. Si sosterrà allora che in es-so non vi è memoria che non sia quella necessaria per seguirelo sviluppo temporale – una memoria dunque puramente in-terna, che rappresenta una condizione per l’afferramento dellerelazioni in cui esso è strutturato. Così non vi sarebbe imma-ginazione che sia qualcosa di diverso dall’immaginare possibiliforme di collegamento tra i suoni. Quanto ai pensieri, sappia-mo già che essi non potranno essere altro che pensieri musicali.

Per illustrare in che senso abbiamo bisogno di fare rife-rimento ad una concezione abbastanza radicale da non risol-versi in prese di posizione del tutto ovvie, converrà fare rife-rimento al rapporto con il significato verbale – quando, adesempio, in un brano di musica vocale, si propone un oriz-zonte di senso esplicitamente definito da significati verbali. Sitratta in realtà di un caso che può essere considerato comeparticolarmente rappresentativo di tutti quei casi in cui la mu-sica interviene come momento di una situazione globale incui essa è integrata, e ciò significa: dal cui senso essa è deter-minata e il cui senso contribuisce a determinare. Si pensi alrapporto tra musica e un’azione drammatica oppure all’im-piego della musica in una circostanza rituale o cerimoniale. Inquesti casi, tra la musica e gli altri momenti costitutivi dellasituazione deve esservi quell’aderenza reciproca, quel reciprocointerscambio che ci consente di parlare di un’integrazione.Ora, il punto di vista formalistico spiega quell’orizzonte disenso nel quale il brano è integrato come una pura finzioneche trae la sua legittimità al più dall’accordo sociale, dallaconvenzione, dall’associazione abituale delle idee.

In se stessa la musica non può aderire ad un significatoverbale, e nemmeno dunque può integrarsi in un contesto più

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ampio e ai sensi di cui esso è portatore perché in tal caso sicontravverrebbe certamente l’assunzione di principio dellachiusura semantica e alle spalle dei rimandi interni si potrebbeprospettare l’idea di una capacità simbolica che invece deverimanere esclusa. Una simile capacità, laddove ci sembra dipoterla cogliere, deve essere illustrata come pura apparenza,per quanto essa possa essere tenace. Il suo sorgere non è do-vuto ad altro che all’associazione estrinseca tra uno stilemamusicale e una più o meno determinata area di senso, un’asso-ciazione che la stessa pratica musicale si incarica di fissarenella nostra mente.

Abbiamo già accennato come una simile considerazionedebba valere anche, e anzi in primo luogo, per la questionedel nesso tra musica e affettività. Già nella nostra discussionesulla temporalità abbiamo fatto notare che non siamo affattoobbligati a stabilire una connessione necessaria tra musica evissuti, come se questa connessione fosse insita nella stessanatura temporale della musica. Ma una cosa è negare la neces-sità di questa connessione, un’altra è negare la sua possibilità.In quest’ultimo caso l’intero edificio della musica appare ri-coperto da cartoni raffiguranti fantasmi inconsistenti, chedebbono certamente essere tolti per cogliere l’oggetto che essiracchiudono.

Questo problema sembra assumere la sua forma crucialelà dove si pretende di attribuire valori affettivi particolari amoduli elementari, a strutture intervallari come tali, se nonaddirittura a suoni presi nella loro singolarità. Il problemadelle caratterizzazioni emotive delle tonalità e della differenzatra modo maggiore e minore nella tradizione europea rappre-senta soltanto un limitato episodio all’interno di una tematicavastissima che ha forse il suo punto culminante nella teoria enella pratica della musica indiana e della musica orientale ingenere.

Certamente si potrà osservare che proprio di qui si pos-sono trarre argomenti a favore, piuttosto che contro, la dire-

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zione che si vorrebbe rendere problematica. Proprio nelle de-scrizioni indiane dei sentimenti associati ai raga sembra rag-giungere la sua massima evidenza l’insussistenza di una qual-che reciproca aderenza tra le strutture sonore e i momentiemotivi che sono a esse attribuiti.

Quando ad esempio si dice di un raga che esso è «comel’ape che raggiunge l’orecchio degli uomini alla fine della pri-mavera», oppure di un altro che esso piace «a chi desideral’intelligenza» oppure ancora quando si parla di un modo cherestituisce il pudore ai ciechi (tanto in esso vi è la gioia), sipropone forse un pensiero poetico intorno alla musica, si tra-sfigura poeticamente il «pensiero musicale», ma non si puòpretendere che questa trasfigurazione, che si avvale di simboli-smi tanto aperti, sia da considerare come effettivamente ine-rente al pensiero musicale stesso120.

Sembra anzi che qui il senso simbolico si sovrappongacompletamente al fenomeno sonoro e ci affascini in se stesso.Altrimenti, in che modo si potrebbe arrivare a vedere in unasingola nota la figura del pavone oppure l’immagine dell’au-tunno o dell’inverno? E anche noi, pure affascinati da questepoetiche trasfigurazioni, potremmo forse arrivare a considera-re un intervallo più erotico di un altro?121 Proprio attraversoquesti esempi si potrebbe documentare quanto sia arrischiatoaprire una breccia in questa direzione: la più prudente ammis-sione di una portata simbolica apre un processo di cui nonpossiamo segnare il limite.

Eppure siamo tentati, anche in rapporto a questi casiestremi, ad evitare il primo commento che potrebbe affiorare

120 Gli esempi sono tratti da Bharata, Gitalamkara, Retorica musicale, tr.franc., a cura di A. Danielou, Institut Franrais d’Indologie, 1959, cap. VI e cap.XIII.

121 C. Sachs, La musica nel mondo antico, Sansoni, Firenze 1963, p. 127:«La musica di palazzo e di tempio, sia in Cina che in Corea e in Giappone, harespinto il semitono infisso, poiché invece di placare le passioni, riempival’animo di brama sessuale».

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sulle nostre labbra, cominciando invece con il dire: non ètanto importante segnare un limite al processo di produzionedei simboli e stabilire fino a che punto questo limite si allon-tana dal suo inizio, quanto lo è il riconoscere che questo pro-cesso può in qualche modo avere inizio.

§ 3

Alle istanze di principio di un punto di vista formalistico ap-partiene indubbiamente non solo la rescissione della relazionecon l’affettività, ma anche la pura e semplice espulsione delproblema del simbolismo. È interessante tuttavia notare chenon appena il punto di vista formalistico cresce sino ad assu-mere l’aspetto di una teorizzazione relativamente compiuta,queste istanze non vengono per lo più realmente soddisfatte ei temi che in esse sono implicati si ripresentano con una sin-golare ostinazione.

A questo proposito, la classica esposizione di Hanslick122

è esemplare proprio perché la critica della rappresentativitànon viene affatto sviluppata sino alle sue ultime conseguenze.Ciò che viene preso di mira è infatti soltanto una nozioneforte della rappresentazione, cosicché non è la relazione alsentimento come tale ad essere contestata, ma la possibilità dideterminare il sentimento, che si ammette come «espressiva-mente» presente nelle forme musicali. Non sono i contenutidel sentimento, e dunque le sue concrete varietà e le loro diffe-renze a dare senso allo sviluppo musicale, sono invece i suoi di-namismi interni, anzi, ancor più, le forme di questi dinamismi.Si delinea così un nucleo tematico che resterà in realtà per lopiù invariato nelle sue numerose riprese più recenti, benchénaturalmente esso possa essere inserito in un quadro teoricomolto diverso e sottoposto ad un più ampio approfondimento.

122 E. Hanslick, Il bello musicale, Martello, Milano 1971.

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Prendiamo sommariamente in esame la posizione e-spressa da Suzanne Langer che può indubbiamente essereconsiderata come un’elaborazione filosofica approfondita dipremesse formalistiche123. Soprattutto l’idea che il sentimentoabbia una forma sembra fornire un chiarimento decisivo e in-dicare la giusta strada. In essa dovrebbe consistere la chiaveper spiegare in che modo una pura oggettività governata daregole interne e che certamente non dice nulla, sia tuttavia ingrado di apparire ricca di significato e attrarre così il nostroascolto. Nelle forme musicali si coglierebbero i nessi della vitainteriore, il sentimento stesso nella sua fluente indetermina-tezza. Ciò avverrebbe – spiega Suzanne Langer – per via delfatto che «le strutture sonore che noi chiamiamo musica han-no una stretta somiglianza logica con le forme del sentimentoumano»124. Cosicché la relazione con l’affettività si imponenon tanto come una pura possibilità a disposizione dell’e-spressione musicale, ma come una caratteristica essenzialedella musica stessa. Per la Langer la musica e senz’altro «uncorrispondente sonoro della vita emotiva»125.

Sullo sfondo di affermazioni come queste vi è anzituttoun’impostazione semiologica del problema. Beninteso, la mu-sica, per la Langer, non è un linguaggio – e ciò significa pro-priamente che il linguaggio verbale rappresenta essenzial-mente un punto di confronto negativo, un riferimento chepuò essere interessante per stabilire un’opposizione. Tuttaviala musica è in ogni caso un sistema di segni – cosicché vienechiamata in causa la nozione generale di segno. Questa nozio-ne si specifica nei segni che sono segnali dell’esistenza di qual-cosa e nei segni che non esplicano una simile funzione e che laLanger chiama simboli. I simboli linguistici – che vanno di-stinti dai simboli non linguistici – saranno infine i simboli in

123 A S. K. Langer è dedicato il quinto capitolo del volume di E. Fubini,Musica e linguaggio nell’estetica contemporanea, Einaudi, Torino 1973

124 S.K. Langer, Sentimento e forma, Feltrinelli, Milano 1975, p. 43.125 Ivi.

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uso nel linguaggio verbale ed essi esemplificano solo una dellepossibili modalità di esplicazione della funzione simbolica.

Ed è appunto per rendere conto di una concezione dellasimbolizzazione capace di evitare il rimando rappresentativocaratteristico del linguaggio verbale che entra in azione l’ideadella forma del sentimento. Questa idea suggerisce immedia-tamente la possibilità che fra sentimento e strutture sonore visiano isomorfismi – vi sia, come dice la Langer, una strettasomiglianza «logica». Ciò soddisfa intanto le istanze filosofi-che più generali della Langer, che intende certamente mante-nere un legame con una considerazione «razionale» anche, ein particolare in un campo che deve essere sottratto al simbo-lismo discorsivo126. Il parlare di forma logica comune, dianalogia formale fa subito pensare ad un grafico funzionale e almodo in cui esso ci pone sotto gli occhi l’andamento di unosviluppo senza che sia implicato, almeno in apparenza, alcunrimando denotativo. Se il simbolo musicale potesse essereconcepito così, allora alla rappresentazione che ci porta al difuori dell’opera potrebbe subentrare la presentazione che ci farestare in essa.

In generale i critici della Langer sono rimasti così im-pressionati dalla pesantezza con cui, in un simile contesto, siripresenta il tema del sentimento, dai toni apertamente orga-nicistici e infine vagamente vitalistici che lo accompagnano,da trascurare ampiamente le difficoltà che sorgono già nelleprime mosse dell’impostazione del problema, ed anzituttoproprio nel modo in cui si parla di simbolo e di isomorfismostrutturale. Le due nozioni, come abbiamo visto or ora, sonostrettamente collegate ed è proprio questo collegamento chesembra consentire l’attribuzione di un «significato» in uncontesto che esclude la denotazione.

Eppure proprio qui sta il nodo della questione. Parlandodi corrispondenza e insistendo su questo modo di rapporto

126 Cfr. Ivi, pp. 45-46.

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sembra si tagli corto con una concezione «rappresentativa» delsignificato, anzitutto per il fatto che nella corrispondenza èimplicata la simmetria che è invece esclusa dal rapporto de-notativo. Se parliamo di simbolizzazione, volendo mantenerel’applicazione del termine a condizioni di isomorfismo strut-turale, allora dovremo ammettere non solo, ovviamente, lapossibilità di distinguere tra ciò che opera la simbolizzazione eciò che viene simbolizzato, ma che gli elementi in relazionepossano scambiarsi questa funzione. Nel nostro caso ciò sa-rebbe del tutto privo di senso. Abbiamo bisogno di dire che lestrutture sonore simbolizzano sentimenti, fissando questa re-lazione nella sua asimmetria: appare allora chiaro che non vi èalcun passaggio conseguente tra il fatto che due strutture sia-no isomorfe e l’interpretazione che fa dell’una – e proprio diquesta – il simbolizzante dell’altra. In tutta evidenza si ripre-senta, con la distinzione tra simbolizzante e simbolizzato inte-sa in questo modo, il problema del rapporto rappresentativoche si era cercato di scongiurare con il tema della corrispon-denza. L’esempio del grafico funzionale ci insegna anche que-sto: ci debbono essere degli indicatori esterni al grafico affin-ché esso possa essere inteso come «simbolo». Questi indicatoristabiliscono quei legami denotativi su cui si fonda la presenta-zione simbolica che il grafico realizza.

Questa difficoltà cruciale, che avrebbe dovuto certamen-te imporre una revisione radicale dell’impostazione proble-matica, viene avvertita dalla Langer, ma la soluzione plateal-mente e grossolanamente pragmatica che essa propone non faaltro che confermare la sua portata: «Ci deve essere un motivo– si osserva quasi di passaggio – per decidere fra due entità odue sistemi che uno è simbolo dell’altro (e non inversamente).In genere, la ragione decisiva sta nel fatto che uno è più faciledell’altro da percepire e da usare». Ecco dunque come stannole cose: se diciamo che i suoni simbolizzano sentimenti e noninversamente, ciò dipende dal semplice fatto che è molto più

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facile produrre suoni, manipolarli e combinarli a piacere,piuttosto che sentimenti127.

Ma se può essere sottoposto a critica questo modo diporre il problema della simbolizzazione nell’ambito del musi-cale, perplessità non minori sono generate dalla nozione diforma del sentimento, considerata in se stessa. Non già che sipossa negare che anche nell’ambito della vita affettiva vi sianodelle forme, quindi delle relazioni e dei nessi strutturali – alcontrario si tratta di un’idea della massima importanza sottopiù riguardi, che rimanda ad un’articolazione dell’esperienzaaffettiva, e quindi anche ad una sua possibile dominabilitàconoscitiva. Come abbiamo rammentato in precedenza, que-sto motivo non è affatto estraneo alla posizione della Langer:si può notare tuttavia come esso tenda a impoverirsi proprionei suoi lati di maggiore interesse, arrivando addirittura a tra-dursi nel suo opposto, nel puro contenuto inarticolato. L’ideadella forma si riduce anzitutto a quella di. un mero «anda-mento» – che può certamente essere comune, ad esempio, allagioia come al dolore: la gioia infatti cresce a poco a poco, epoi si sviluppa tumultuosamente, fino ad un punto culmi-nante per andare poi via via decrescendo sino ad estinguersi.Ma così anche il dolore. E ciò non vale forse anche per l’ira, eovunque nella vita dei sentimenti? Dove trovi un sentimentoil cui movimento non possa essere descritto proprio in questomodo? È come se potessimo parlare di una forma generaledella vita emotiva, e potessimo dire: questa

è la forma generale della vita emotiva.

127 Ivi, p. 43.

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Abbiamo dunque buone ragioni per parlare di un impo-verimento, e proprio nella direzione di una perdita di articola-zione e di differenze. La preoccupazione di evitare la determi-natezza del sentimento che era già propria di Hanslick non rie-sce a trovare un’effettiva sistemazione teorica, e la nozione diforma del sentimento diventa tanto priva di differenze interneda convertirsi infine nel più indifferenziato e oscuro dei sen-timenti – un sentimento, oltre tutto, che non siamo nemme-no sicuri se ci sia veramente o se sia invece una pura inven-zione dei filosofi: si tratta, naturalmente, di quel sentimentodella vita di cui infine ci parla la Langer come qualcosa di nonmolto diverso dalla forma del sentimento. Tutta la musicaavrebbe nel sentimento della vita il suo unico senso simbolico:questa è la conclusione a cui si perviene coerentemente, ed es-sa non è certo in grado di suscitare i nostri entusiasmi.

§ 4

Considerando questi esiti, può apparire singolare l’accentoche noi abbiamo voluto porre sul fatto che essi giungano altermine di uno sviluppo presieduto da premesse formalistiche.Non si può forse osservare che quelle premesse debbono esse-re ben deboli se lasciano un così largo spazio a tematiche ca-ratterizzabili, non senza qualche giustificazione, come «irra-zionalistiche»?

Pensiamo del resto alle nostre considerazioni iniziali.L’intento perseguito da una considerazione formalistica è an-zitutto quello di fissare l’opera nella sua esistenza obbiettiva –la critica del «contenuto» è anzitutto una critica che mira ametterci di fronte l’opera così come essa è, liberandola dalleaccidentalità psicologiche che la circondano da ogni parte.Proprio per questo è giusto connettere strettamente una con-siderazione formalistica con le istanze di un’analisi autenticadel brano musicale, cioè di un’analisi capace di individuare la

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sua struttura interna, le sue regole immanenti, dunque di direciò che in esso propriamente accade. A tale scopo è natural-mente necessaria una precisa sapienza che non abbia affattotimore di passare per burocratica o ingegneresca, ma che anzidi ciò possa menare vanto. Per mostrare che cosa è veramenteuna costruzione musicale è necessario anzitutto levare queicartoni che la nascondono, così che possa apparire il modo incui essa è realmente fatta. Assumendo questo punto di vista,non solo si metteranno subito da parte i simbolismi più omeno espliciti, ma si assumerà fin dall’inizio una posizione didifesa nei confronti delle componenti soggettive nascosta-mente affioranti nelle stesse pieghe della terminologia, chedovrà essere il più possibile depurata dall’insidia delle espres-sioni «qualitative» e delle tensioni affettive in esse presenti.

Questo è tuttavia solo un aspetto del problema. In realtànelle ingenue psicologizzazioni, nell’adesione sprovveduta atitoli e programmi, nell’idea che l’ira e la gioia possano pene-trare, e proprio nella loro determinatezza, nel musicale, inbreve in tutto ciò che una considerazione formalistica respin-ge in via di principio – e certamente con buone ragioni – si favalere una concezione della musica indubbiamente troppoelementare, troppo grossolana, ma che è caratterizzata dalfatto non tanto di associare alla musica i sentimenti nelle loroconcrete differenze, quanto piuttosto di richiamare, proprioper il fatto che essi sono altrettanto concretamente inerentialla vita del mondo, questa stessa vita in tutta la ricchezzadelle sue molteplici forme. La musica ci appare così non piùlegata all’interiorità di quanto lo sia all’esteriorità, talora essa«parla» di grandi cose, ma non disdegna le piccole, e può per-sino lasciare intravedere attraverso i suoni un paesaggio e ilpassare di una stagione. La musica viene così trattenuta terraterra, nella sua dimensione terrestre.

Altrimenti stanno le cose se ci muoviamo all’interno diun orizzonte formalistico. Appare infatti ben presto chiaroche il parlare di un senso puramente interno o addirittura, nel

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confronto con il linguaggio verbale o con il linguaggio pitto-rico, di un’assenza di senso non rappresenta certo una solu-zione soddisfacente del problema posto dal fatto che un branomusicale non può in ogni caso essere considerato come unapura sequenza di eventi fisici. Quegli inizi che richiamanol’attenzione sulla necessità di una considerazione positiva, diuna piena aderenza alla cosa stessa, possono perciò proporsi inmodo inatteso e certamente non obbligatorio, ma non senzauna giustificazione profonda, come l’avvio di un processo disublimazione. Il senso interno del musicale può essere conce-pito come qualcosa che supera o sta al di là di ogni strutturadi riferimento oggettivo e dunque al di là delle possibilità dellinguaggio in genere e che la musica riesce in qualche modo aportare all’espressione. Il problematico rapporto tra musica elinguaggio può essere elaborato fino al punto di attingere iltema dell’ineffabile.

È bene sottolineare subito: vi sono moltissime cose chemeritano di essere chiamate ineffabili nell’accezione letteraledel termine. E sono tutte quelle cose in rapporto alle qualinon ha senso chiedere una traduzione verbale. È ineffabile, adesempio, l’aroma del caffè128. Ma una simile ineffabilità cheriguarda in generale i dati della sensazione non mette affattoin questione la capacità del linguaggio verbale, come se questaineffabilità corrispondesse ad un suo limite: al contrario, illinguaggio verbale assolve adeguatamente il compito che gli èassegnato significando con parole l’aroma del caffè. È invececompito della percezione conferire pienezza al significato delleparole.

Ma vi è anche un impiego esaltato del termine «ineffa-bile», un impiego cioè che supera di gran lunga l’accezioneletterale implicando fin dall’inizio l’idea di un limite intrinsecodell’espressione verbale – essendovi forse cose tanto grandi,tanto tremende, tanto sublimi, da non poter essere comuni-

128 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, oss. 610.

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cate nello stesso modo in cui si comunicano i messaggi diogni giorno. Ciò che è ineffabile è ora un contenuto troppogrande per il contenente della parola, cosicché siamo qui allapresenza di una sovrabbondanza del senso, di un suo straripa-mento.

Ora, per quanto un atteggiamento formalistico possainizialmente sembrare lontano dal connettere la musica all’i-neffabile in questa accezione esaltata, tuttavia vi è certamenteuna via che conduce dall’uno all’altro polo, che stabilisce traessi una sorta di singolare solidarietà. Forse più precisamente:quanto più si esaspera il tema dell’oggettività e della sintassi,quanto più si sottolinea l’essere in sé dell’opera come un esse-re in sé che si separa da ogni legame con il mondo, tanto piùnettamente l’impostazione del problema tende ad un com-pleto ribaltamento non appena si avanza nuovamente la prete-sa dell’espressione. Nella musica non vi è spazio per ninnenanne. Ma nemmeno essa parla delle cose grandi. Essa parladi nulla, o semplicemente non parla. Eppure in queste nega-zioni vi è l’affermazione di tutte le cose troppo grandi che essafa trasparire proprio in questo suo non-dire. L’assenza di sen-so deve avere come contraccolpo l’eccesso di senso, l’insistenzasu una nozione di segno il cui rapporto designativo si proponefin dall’inizio come un oscuro enigma prepara il balzo all’en-fasi della cifra indecifrabile.

Del resto, anche sul piano della pratica musicale nove-centesca, la tensione verso il puro materiale sonoro così comeverso la pura sintassi non ha affatto cancellato una volta pertutte non solo l’idea del grande messaggio, ma nemmenoquella del messaggio troppo grande, così come il richiamo all’a-spetto tecnico, l’assidua frequenza con pratiche di manipola-zione fisica del suono non è sempre in grado di risparmiarcigli ammiccamenti al dire che non dice o al detto nel nondetto da tempo diventati stucchevoli persino nella filosofia.

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Annotazione

Che ineffabile sia persino l’aroma del caffè – e che una simile que-stione sia richiamata da Wittgenstein stesso, va rammentato so-prattutto tenendo conto delle tante interpretazioni del tema witt-gensteiniano dell’ineffabile che ne raccolgono soltanto la retorica,disperdendo invece la complessità problematica che gli è propria,sia nel Tractatus logico-philosophicus sia nelle opere successive. Sullaquestione vale del resto la pena di soffermarsi anche perchénell’osservazione delle Ricerche filosofiche che è qui in questione (os-s. 610) la musica viene direttamente chiamata in causa. Ecco la cita-zione completa: «Descrivi l’aroma del caffè! – Perché non si riesce?Ci mancano le parole? E per che cosa ci mancano? – Ma da doveviene l’idea che una descrizione debba essere possibile? Non haimai sentito la mancanza di una descrizione del genere? Hai cer-cato di descrivere l’aroma del caffè senza riuscirci? (Vorrei dire:‘Queste note dicono qualcosa di grandioso, ma non so che cosa’.Queste note sono un forte gesto, ma non posso affiancare loronulla che le spieghi. Un grave cenno del capo. James: ‘Ci mancanole parole’. Perché allora non le introduciamo? Che cosa dovrebbeaccadere perché potessimo introdurle?)» (tr. it., Einaudi, Torino1967, p. 209). Che cosa deve essere qui subito messo in evidenza?Certamente il fatto che non abbiamo mai sentito la mancanza diuna descrizione verbale dell’aroma del caffe e perciò non abbiamomai tentato di realizzare una simile descrizione e non abbiamo av-vertito lo scacco conseguente. Il compito proposto è privo di con-testo, esso è senza scopo (o serve al massimo alle nostre esercita-zioni filosofiche). Che l’aroma del caffè sia ineffabile non si sa per-ché lo si dica. Ma lo stesso vale anche in rapporto alla musica: an-che in rapporto ad essa sembra sia giusto dire «ci mancano le pa-role». Ma il fatto è che prima di ciò dobbiamo costruire il contestoentro cui la domanda a cui quella formula dà una risposta possaricevere un senso: «Ci mancano le parole? E per che cosa ci man-cano? Ma da dove viene l’idea che una descrizione siffatta debbaessere possibile?». Può darsi il caso che proprio mai abbiamo av-vertito il bisogno di una descrizione in parole di un brano musi-cale. L’ineffabilità della musica riportata a quella dell’aroma delcaffè contiene così un momento ironico che molti interpreti non

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sono nemmeno in grado di scorgere, per quanto sia vistoso e ca-ratteristico dell’intera produzione più tarda di Wittgenstein. Na-turalmente la questione si presenta in modo diverso nel Tractatus,nel quale trova un’espressione esemplare proprio una forma di su-blimazione che non esita a dichiararsi «mistica», come contrac-colpo di un atteggiamento di radicale Sachlichkeit. Inoltre, nono-stante la specificità delle problematiche in esso discusse (specifi-cità che sarebbe profondamente sbagliato trascurare), la questionemusicale è qui presente di scorcio, e non già per una pretesaquanto irrilevante costruzione «musicale» dell’opera, quanto per ilfatto che l’analogia musicale interviene a caratterizzare la nozionecruciale, per la filosofia della logica del Tractatus, di tautologia: «Itemi musicali sono, in un certo senso, proposizioni. Conoscerel’essenza della logica porterà quindi a conoscere l’essenza dellamusica. – La melodia è una specie di tautologia, è conclusa e com-piuta in sé; basta a se stessa» (Quaderni 1914-1916, annotazionidel 1.2.15 e del 4.3.15, tr. it., Einaudi, Torino 1964, p. 132). Nellatematica musicale può così essere proiettato il problemadell’ineffabilità secondo le enfasi che caratterizzano gli sviluppi fi-losofici che prendono le mosse dalla concezione formalistica dellalogica e della matematica nella particolare angolatura proposta daWittgenstein nel Tractatus.

§ 5

In tutte le nostre considerazioni precedenti – dobbiamo am-metterlo – non emerge alcuna chiara linea di discorso, e ciòmostra certamente che è necessaria una revisione profonda deitermini del problema e una rimessa in gioco dei modi possi-bili del suo sviluppo. Soprattutto genera disagio l’imposta-zione di un’alternativa rispetto alla quale si sarebbe obbligati aprendere una decisione: essa può avere un’utilità provvisoriaper fare intravedere l’arco dei problemi che sono in discussio-ne, ma l’attenersi ad essa al di là di questa limitata funzioneintroduttiva genera un crescente imbarazzo. D’altra parte, te-nendo conto dell’impostazime di principio che abbiamo dato

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ai nostri problemi, non stenteremo a liberarci da essa non ap-pena sia messa in evidenza la sua origine. Non è difficile in-fatti rendersi conto che il cosiddetto «problema del senso»,nella forma che abbiamo presupposto in queste considerazioniiniziali, non è un problema, per dir così, che c’è già fin dall’i-nizio, ma è un problema costruito e che per la sua costruzionedobbiamo almeno essere sfiorati dall’idea della musica comesistema di segni – qualunque cosa poi si decida sulla sua naturalinguistica e non linguistica, sulla sua capacità espressiva, sullarelazione al sentimento, sulla sua possibile portata simbolica ecosì via. In altri termini, un modo di pensare semiologica-mente orientato deve essere presupposto per la costruzione delproblema, ed esso determina anche il suo primo sviluppo. Co-sicché non dobbiamo fare altro che riprendere quelle istanzecritiche che abbiamo avanzato fin dall’inizio.

Si comincia con il dire che la musica è un sistema di se-gni come se si trattasse di una patente ovvietà, di un’afferma-zione chiara e distinta, e si passa poi tutto il proprio tempo acapire come faccia la musica a essere ciò che abbiamo or oradichiarato con evidenza che sia – quell’evidenza è diventatasubito una sorta di insolubile enigma.

Segni-di-che? Segni-come? – ci si va chiedendo. Occor-rerebbe invece fissare subito l’attenzione sul fatto che, in sestessa, la parola «segno» non indica affatto una cosa, ma unmodo dell’intendere, e di conseguenza il suo senso è determi-nato solo quando questo modo dell’intendere sia a sua voltasufficientemente determinato, almeno sul piano esemplificati-vo. Il problema non si pone affatto come se ci fossero i segni esi trattasse soltanto di decidere quanti tipi di segni ci siano equali diversi modi della designazione. Detto in una formula-zione un poco più drastica, ma che chiarisce il punto dellaquestione, potremmo senz’altro affermare che se non sappia-mo rispondere alla domanda che chiede di che cosa qualcosasia segno, fornendo esempi intorno al tipo di designazione,dunque mostrando il «gioco linguistico» entro cui quel termi-

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ne trova, nel caso in esame, un’ applicazione, allora la parola ècertamente una ruota che gira a vuoto129. Per questo se qual-cuno dice che la musica è un sistema di segni, una simile af-fermazione in se stessa non accende alcuna luce nel nostrocervello. La grammatica della parola «segno» è del tutto affinea quella della parola «mezzo» – e si sa che non ha certamentesenso dare un elenco dei mezzi, istituire somiglianze e diffe-renze, senza far parola degli scopi; e così la terminologia e laproblematica ad essa connessa comincia a dare i suoi servigi enello stesso tempo a specificarsi nella sua portata nel mo-mento in cui siamo in grado di localizzare il suo impiego.

Vogliamo allora senz’altro prescindere da una simileimpostazione del problema. E anziché tentare un’interpreta-zione dei suoni da subito considerati come segni – interpreta-zione che si mostrerebbe ben presto piena di problemi e didifficoltà – volgiamoci a essi per quello che propriamente so-no, come puri materiali percettivi, disponendoci dunque inquella dimensione dell’ascolto che certamente esclude, comeabbiamo notato a suo tempo, una ricezione del suono comemediazione subito oltrepassata verso esistenze che stanno al difuori di esso. I suoni in se stessi ci stanno ora dinanzi, essi so-no alla nostra presenza. Ma anche questa pura dimensione del-l’ascolto deve certamente essere superata, e ciò accade quando,a partire da essa, sorge lo stimolo all’azione che si concretizzanella domanda: «Che cosa posso fare con i suoni?».

Proprio per una reimpostazione complessiva della nostraproblematica dobbiamo richiamare l’attenzione su questo pas-saggio. Anzitutto occorre notare che il «fare» di cui qui siparla non ha certamente il senso comune del compiere questao quell’azione in vista della realizzazione di uno scopo. Enemmeno il «con» è impiegato in modo tale da porre i suoni

129 L. Wittgenstein, in Ludwig Wittgenstein und der Wiener Kreis, Collo-qui, a cura di F. Waismann, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1967, p. 48: «Il no-stro linguaggio è in ordine, purché ne comprendiamo la sintassi e riconosciamole ruote che girano a vuoto» .

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come mezzi. Si tratta invece di un fare che mira all’essere stes-so dei suoni e che è mosso dall’idea di un dispiegamento delleloro possibilità intrinseche.

Che cosa posso fare con i suoni?Ebbene, ecco che cosa posso fare! Guarda che cosa fac-

cio! Ora faccio risuonare un suono dopo l’altro – i suoni sipossono mettere in fila. E vi sono molti modi di metterli infila. Eccone alcuni. Fra essi è possibile stabilire diversi tipi direlazioni – alcune sono molto semplici e colpiscono subitol’orecchio, altre invece sono più lontane e difficili da cogliere.E poi potrei far risuonare molti suoni tutti insieme, e varian-do i suoni ora otteniamo un risultato, ora un altro, e moltodiverso.

Alla domanda che sorge intorno al fare con i suoni si ri-sponde ricercando intorno a essi, provando e riprovando, e inquesto ricercare non si ha di mira qualcosa che sta al di là diessi, ma si bada soltanto alle loro possibilità d’essere che, di-spiegandosi, fanno anche da guida. Potremmo dire: in questoricercare con i suoni sono i suoni stessi a essere messi alla pro-va. Già in considerazioni tanto elementari si suggerisce che lamusica e anzitutto un insieme di possibilità: qualcosa che po-tremmo già chiamare un «pensiero musicale» comincia ad ap-parire quando mettiamo in agitazione il campo dei suoni inmodo che essi si mostrino, e mostrino come sono fatti e checosa si può fare con essi.

In tutto ciò affiora l’immagine delle pratiche di giocopiù elementari. Il bambino gioca con i suoi cubetti – e poi titira per il braccio: guarda che cosa ho fatto! E che cosa hafatto? Ha fatto delle prove – ha scoperto che i cubetti si pos-sono mettere in fila, si possono sovrapporre l’uno all’altro e inpiù di un modo, che si può costruire un ordine e che con ilsemplice gesto di una mano è possibile cancellare quest’ordinee godere del suo improvviso e totale cedimento. È come se ilgioco stesso non fosse altro che un modo di rispondere alladomanda: vediamo che cosa posso fare con i miei cubetti.

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Ora, il bambino che prima giocava con i cubetti è en-trato in una stanza dove c’è un grande organo, e comincia, perla prima volta, a toccarne i tasti alla cieca – ma ciò significa:attratto dai suoni che vanno via via emergendo e assorto in es-si, sperimenta un cammino lungo il quale generano incanto esorpresa la pura qualità timbrica, la successione più lenta opiù veloce, la possibilità dell’indugio, la differenza del grave edell’acuto, e dell’acuto che diventa ancora più acuto – dunquelo stesso accadere dei suoni e la molteplicità dei modi di que-sto accadere.

All’interno di un simile sperimentare vi è un venire aconoscere, uno scoprire che non ha tuttavia la forma dellascoperta autentica di ciò che prima non era noto, ma dell’av-vertire qualcosa che in precedenza era inavvertito nella sua ir-rilevanza; e in questo modo si prepara la conversione da unadimensione in cui la domanda sul fare affiora appena e le pos-sibilità del materiale vanno semplicemente dispiegandosi alladimensione in cui quelle possibilità vengono interrogateall’interno di un interesse ad esse esplicitamente rivolto.

Si sarà certamente notato che ciò che stiamo proponen-do è in realtà un’ulteriore variazione sul tema dell’origine, e inessa si mostra anzitutto quanto siamo lontani dal prospettare ilproblema come se ci fosse in primo luogo una soggettività che hada dire qualcosa o come pervasa da sentimenti che premono versola loro manifestazione.

La domanda «Che cosa posso fare con i suoni?», e natu-ralmente anche con i punti, con le linee, con i colori, con leparole, dice che prima di tutto è necessario accorgersi, adesempio, che un punto è un punto e una linea una linea; op-pure, più semplicemente, che ci sono punti e ci sono linee, eche le linee possono essere di forma molto varia, che esse sipossono accostare in vari modi l’una all’altra, o allontanare,sovrapporre, intersecare, far convergere o divergere. Prima ditutto è necessario che venga realizzata una simile scoperta on-tologica – che i suoni, le parole, le linee vengano scoperti per

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ciò che essi sono in se stessi, così che si possa generare un inte-resse puramente rivolto alle possibilità costruttive, dunque alletecniche sviluppate nel gioco e alle produzioni che ne risulta-no. Di questo interesse può essere sottolineata la dimensioneattiva per il fatto che in esso non si tratta soltanto di speri-mentare ciò che accade, ma di interrogarsi sperimentandointorno a ciò che con i suoni potrebbe accadere.

Forse si potrebbe obiettare che il proporre un simile at-teggiamento all’«origine» della musica sia essenzialmente ilfrutto di una considerazione astrattamente filosofica, conside-razione che per altro sembra assorbire anche l’immagine delfanciullo che gioca. Perché mai, quando un bambino ci mo-stra il suo disegno, non potremmo pensare che in esso abbiaforse tentato di raffigurare qualcosa – tenendo conto del restoche la raffigurazione appartiene all’ambito di ciò che si puòfare con le linee? E non è forse vero in generale che qualunquedisegno infantile potrebbe essere assunto come un grafico cherivela, talvolta con particolare chiarezza, ansie, inquietudini,emozioni? Dove si è mai visto un simile interesse tecnico ri-volto alla cosa stessa?

In realtà, benché non sia il caso di indugiare più di tantosull’immagine dal momento che, come ogni immagine, essaviene richiamata unicamente per il lato che è in grado di illu-strare, e per il resto può essere messa da parte, non vorremmotuttavia nemmeno su questo punto dare senz’altro partitavinta al piatto psicologismo (ancora così diffuso) latente inquell’osservazione, per il quale, poiché un disegno in generepuò essere la documentazione di un sentimento e il gioco as-solvere funzioni psicologicamente determinate, allora non visarebbero affatto disegni, ma solo documentazioni di sentimen-ti, così come non vi sarebbero condizioni caratteristiche del gio-co che non si risolvano interamente nelle funzioni psicologicheesplicate. Cosicché saremmo tentati di ribadire testardamente:il bambino che disegna sperimenta anzitutto con le linee, e

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così sui tasti del grande organo scopre per la prima voltaun’autentica dimensione del reale.

Ma non è questo il punto importante. Ci si chiede se lenostre considerazioni non siano astratte. Lo sono certamente!Esse hanno anzitutto l’astrattezza che spetta alla nostra finzio-ne sull’origine. Tuttavia occorre subito notare: questa astrat-tezza cesserebbe certo di essere innocua se si pretendesse di fa-re proprio di questa l’unica origine. Della nostra filosofia dellamusica fa parte invece l’affermazione di principio che la musi-ca ha molte origini; e ciò significa, ad esempio, che vi è più diuna dimensione profonda a cui essa può attingere, e ancheche tu puoi, per illustrare il rapporto a queste dimensioni, permostrare quante siano le potenze del musicale, narrare comeessa abbia origine dalla voce dei sentimenti oppure dai cantidegli uomini al lavoro, dalle pratiche della danza o da quelledel rito, puoi narrare persino come essa sia sorta dall’imita-zione del canto degli uccelli. In tutte queste origini non puònon essere presente il motivo che abbiamo cercato di illustrare orora – “che cosa posso fare con i suoni” – e che resta come motivopermanente al centro della musica stessa.

Per questo nella nostra ripresa del problema abbiamopreso le mosse proprio di qui. E con ciò abbiamo certamentecominciato con il rendere giustizia ad ogni formalismo, mo-strando dove si trovi il suo senso e nello stesso tempo il suoerrore. Una cosa è infatti riconoscere una premessa essenziale,e un’altra è ritenere di poter dedurre da questa premessa lanegazione della molteplicità di dimensioni del musicale, cosìcome dal fatto che la musica abbia un centro, che tutto sia daridurre a esso.

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§ 6

Ma subito si presenta spontaneamente la domanda: per qualevia possiamo sperare di riacquisire questa molteplicità del mu-sicale? In che modo, dopo che abbiamo cominciato anche noicon l’affermare che la musica è eminentemente arte della sin-tassi, possiamo pensare di ristabilire un contatto con il pro-blema del senso, dal momento che certamente a questo pro-blema è legato a fil doppio la pluralità delle dimensioni? Sevogliamo davvero muoverci in questa direzione dobbiamo po-ter ammettere che in qualche modo nella chiusura «tautologi-ca» del pensiero musicale irrompa la stessa empiria del mon-do, e non soltanto del mondo interiore, come spesso si pre-tende riduttivamente, ma del mondo intero nella totalità enella ricchezza delle sue forme di manifestazione. Ma è possi-bile far valere una simile istanza senza rimettere in gioco iltema del simbolismo e senza imbattersi in fastidiose e preve-dibili difficoltà?

Dobbiamo ammettere che ogni perplessità non può cheessere giustificata. Le ragioni di queste perplessità sono perl’essenziale già tutte presenti nel dibattito che ha preceduto eintrodotto queste nostre considerazioni: non possiamo affattoessere attratti dall’idea di ricadere nell’alternativa a cui si è giàfatto cenno tra la cifra e il segno – cioè tra una concezione cheenfatizza il simbolo come manifestazione di una trascendenzaaltrimenti inattingibile e lo svuotamento, caratteristicamente«semiologico», che fa del simbolo null’altro che un segno a cuile associazioni e le abitudini hanno in qualche modo attri-buito un ambito di referenza più o meno determinato. Se puòessere ritrovata una via che consenta una ripresa del problemadel senso e in particolare della tematica del simbolismo, essanon soltanto deve essere in grado di superare di colpo quell’al-ternativa, ma anche riuscire a proporre l’intero problema inmodo tale da operare un’effettiva messa da parte del modellorappresentativo che affiora irremovibile al fondo di concezioni

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per il resto anche molto diverse e diversamente orientate. Inparticolare, è un errore ritenere che si sarebbe al di fuori diuna concezione rappresentativa del simbolo per il solo fatto diportare l’attenzione sull’indeterminatezza del simbolizzato ov-vero sull’allusività del simbolo, sulla sua equivocità o sulla suafunzione puramente «evocativa». Naturalmente con simili e-spressioni, che così spesso ricorrono nell’ambito della rifles-sione sul musicale, si avverte la presenza di un problema ef-fettivo, senza tuttavia che si riesca ad afferrare il suo centro epermanendo all’interno di una concezione fondamentalmentestatica che non può fare a meno di confermare la solidità diun rapporto nel quale deve essere comunque possibile operareuna netta distinzione di principio tra ciò che opera la simbo-lizzazione e ciò che viene simbolizzato.

Siamo qui evidentemente alla presenza di una tematicagenerale a cui possiamo accennare attenendoci il più stretta-mente possibile all’angolatura particolare dei nostri problemie avendo di mira lo scopo di rendere interamente espliciti pre-supposti che sono sempre stati attivi nel corso di tutta la no-stra esposizione.

Se vi è una critica che può essere rivolta al nostro mododi porre il problema della «scoperta ontologica», come ci sia-mo espressi, da cui scaturisce la domanda intorno al fare con isuoni, questa non consiste tanto nella sua astrattezza, quantopiuttosto nel fatto che non abbiamo speso nemmeno una pa-rola per motivare il sorgere dell’interesse nei confronti dell’u-niverso sonoro e il suo tradursi in una pratica attivamente di-retta ad esso. Forse su di ciò non vi è proprio nulla da dire?Non vi è nulla da dire sull’indugiare «senza scopo» presso i suo-ni, nello sviluppo e nella continuazione di un gioco che possia-mo supporre cominciato per caso? Ripensando, a partire da que-ste domande, alla nostra esposizione precedente, forse avvertia-mo ora che in essa si dava per presupposto un fascino del suonoche essa tuttavia suggerisce soltanto senza giustificare. Dovrem-mo forse dire, ancora una volta, che i suoni sono attraenti?

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Intanto vogliamo rammentare quando lo abbiamo dettoper la prima volta e il contesto che determinava il senso cheabbiamo attribuito a questa frase. Esprimendoci così noi nonintendevamo dire, ad esempio, che essi sono gradevoli e at-traggono per questo la nostra attenzione all’ascolto. Avevamoinvece liberato quella frase da ogni senso spicciolo, cercandodi conferire ad essa la dignità di una vera e propria proposi-zione fondamentale di una filosofia della musica. E tanto po-co era il gradevole o il piacevole ad essere chiamato in causache il problema era posto in realtà mettendo da parte ognidifferenza qualitativa. Quella frase non doveva essere inter-pretata facendo riferimento alla materia sonora, quanto piut-tosto alla sua forma temporale, assumendo un senso rarefattoe connesso alla durata e alla modificazione temporale del suo-no. Il suono si muove ed è proprio per questo che esso attrae,nello stesso modo in cui l’occhio è attratto da ciò che si muo-ve nel campo visuale.

Naturalmente, giustificare l’attrazione esercitata dai suo-ni e la tensione che essi generano nell’ascolto sulla base diconsiderazioni temporalistiche può essere considerato ridutti-vo, eppure vi è qui uno spunto di fondamentale importanzache può essere ripreso al nuovo livello problematico nel qualeora ci troviamo.

In questione è ora proprio la materia sonora, le sue dif-ferenze qualitative, il suono come esso è nelle sue determina-zioni concrete – il suono nella sua dimensione d’essere che siapre al ricercare. Ciò significa anche che nella stessa strutturadel problema è presente un’intenzione propriamente conosciti-va. Questo è un motivo importante che merita di essere messoin rilievo. Tuttavia era già implicito nelle nostre considerazio-ni precedenti che l’interesse conoscitivo non è qui in ogni ca-so dominante, cosicché non si pongono affatto in opera quelleprocedure di oggettivazione, di delimitazione e di fissazioneche preparano le condizioni per il dispiegamento di un effet-tivo processo conoscitivamente orientato, che deve puntare

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oltre la superficie fenomenologica per raggiungere il terrenodelle spiegazioni autentiche.

Al contrario, ora siamo trattenuti proprio presso questasuperficie, e se parliamo di scoperta ontologica dobbiamo an-che, dopo aver chiarito le prime ragioni di quella espressione,correggere il tiro e attenuarne la portata; e non solo perchél’ente di cui si tratta è comunque sempre afferrato su quellasuperficie, ma anche per una ragione più profonda. Il suononon è ora tenuto fermo come identità soggiacente alle sue de-terminazioni, ma ogni sua determinazione rappresenta unpossibile punto di innesto per le operazioni valorizzanti del-l’immaginazione. Ciò significa che il suono, entrando nei di-namismi delle sintesi immaginative, tende a diventare esso stes-so, in ogni sua determinazione, un vettore dell’immaginazione.

Che cosa ciò propriamente significhi vogliamo cercaredi spiegarlo con la massima concisione. Sullo sfondo vi è lagrande distinzione che deve essere proposta in rapporto allaforma fenomenologica delle produzioni immaginative. Unacosa sono infatti scene, paesaggi, azioni, personaggi, eventi econcatenazioni di eventi che possono essere liberamente im-maginati e un’altra è tutto ciò che può cadere nel campodell’immaginoso, in rapporto al quale si parla di produzione diimmagini in un’accezione fondamentalmente diversa.

Destreggiandoci nella terminologia troppo povera edesposta a numerosi equivoci che ha da sempre complicato lariflessione sull’immaginario, potremmo riservare il termine difantasia a quella particolare modalità dell’operare immaginati-vo che, pur in una variazione a piacere delle forme deglieventi e dei nessi degli eventi immaginati, mantiene in ognicaso la presa su «figure», su «fantasmi» che hanno i loro con-torni e le loro determinazioni fittizie, in parte rilevando alcuniaspetti dell’impiego corrente del termine, in parte andandoampiamente al di là di esso.

Nel caso dell’immaginazione immaginosa, la «figura»sorge invece dall’indeterminatezza dei contorni, da uno scon-

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finamento che segnala la presenza di procedure unificanti chedissolvono, anziché confermarla, l’oggettività stessa. A questeprocedure si deve la transizione che conferisce all’oggettività ilcarattere di valore immaginativo. La cosa che è stata valorizzataattraverso le sintesi dell’immaginazione si è risolta, come cosa,in queste sintesi: e poiché esse non debbono essere concepitestaticamente, come mere giustapposizioni di contenuti, il ca-rattere di valore immaginativo consiste essenzialmente inun’inclinazione dinamica, in una tendenza al movimento,nella manifestazione di una direzione.

Ed ecco dunque in che modo ci imbattiamo nuova-mente nel problema del senso: si dimentica in realtà troppospesso che questa parola può essere intesa in un’accezione,ampiamente presente nei suoi impieghi correnti, secondo laquale essa non è affatto vincolata a strutture linguistiche, masignifica semplicemente: direzione. Cosi talvolta ci è accadutodi usare l’espressione di direzione di senso, che dovrà dunqueessere intesa come una sorta di espressione rafforzativa. Par-lando di un operare valorizzante dell’immaginazione, che in-teressa i suoni come i fenomeni percettivi in genere, non siintende un operare che conduce senz’altro alla formazione diimmagini ed eventualmente alla posizione di espliciti rapportidi rappresentazione simbolica: il modo in cui esso si esplicapuò anzi essere colto alle sue radici proprio nel momento incui si innesta sui dati della percezione, sui fenomeni sonori,conferendo a ogni loro determinazione un’interna inquietu-dine immaginativa. Nel momento in cui indugiamo presso diessi prestando il nostro ascolto, avvertiamo così il germinaredi un senso attraverso le determinazioni dell’essere.

Per questo motivo riteniamo di poter parlare, perquanto ciò possa forse apparire singolare, di un senso in rap-porto, ad esempio, ad una qualità timbrica come tale, volendocon ciò significare che a partire da essa viene puntata una re-gione dell’immaginazione, che da essa ha inizio un movimentoche conduce verso quella regione. In ciò è implicito che quelle

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aggettivazioni che eventualmente la descrivono – il parlare diuna qualità timbrica come cupa o chiara, velata o trasparente,limpida o densa, e così via – non sono affatto da consideraresolo come vaghe e imprecise caratterizzazioni di proprietà al-trimenti determinabili in modo oggettivo, ma come qualifica-zioni soggettive nelle quali resta una traccia di quel senso cheogni determinazione oggettiva non potrebbe non cancellaresenza residui.

Ecco dunque in che modo possiamo dire ancora unavolta che i suoni sono attraenti. Al movimento dovuto alla pu-ra forma temporale si aggiunge ora l’attrazione esercitata dallamateria sonora concreta in quanto essa rappresenta l’inizio diun movimento dell’immaginazione. Ciò che attrae è il sensostesso, ed esso attrae nello stesso modo di una strada in discesa.

Annotazione

Per la nozione di valorizzazione immaginativa e la sua connessio-ne con la tematica del simbolismo e in generale per la teoriadell’immaginazione qui presupposta si rimanda a G. Piana, Ele-menti di una dottrina dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano 1979 e Lanotte dei lampi. Quattro saggi sulla filosofia dell’immaginazione,Guerini e Associati, Milano 1988.

§ 7

Se una problematica del senso può essere sollevata in rapportoalla musica, essa non chiama in causa la sua pretesa naturalinguistica o non linguistica, quanto piuttosto il modo in cuiavviene l’incontro tra l’immaginazione e l’universo dei suoni.Lo stesso termine di senso può essere introdotto solo nel mo-mento in cui si sono cominciati ad apportare intorno a questoproblema i primi chiarimenti. E il primo chiarimento è in-dubbiamente questo: l’immaginazione musicale non ha anzi-tutto a che fare con la fantasia.

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Come abbiamo detto, il termine fantasia non viene orada noi utilizzato in un’accezione generale, ma come una mo-dalità dell’operare immaginativo nella quale si dànno «imma-gini» nel senso di cose, azioni ed eventi proposti al di fuori diogni contesto reale. Rammentando vecchie formule, potrem-mo parlare della fantasia come un’attività di libera riproduzio-ne del reale, una caratterizzazione nella quale si fa notare chealla nozione di fantasia è in ogni caso essenziale un elementoriproduttivo, dal momento che proprio questo elemento deverappresentare la base necessaria sulla quale si esplicano quelleprocedure di fantastizzazione che, inducendo modificazioni,deformazioni, alterazioni del genere più vario, pongono in es-sere le oggettività fantastiche. In questo senso, le produzionidella fantasia mantengono sempre un qualche legame con ilconcreto, con il mondo reale, anche quando da esso prendonola massima distanza. Il dire che l’immaginazione musicale nonha a che fare con la fantasia significa allora sottolineare inprimo luogo che manca in essa proprio l’elemento riprodutti-vo, che essa ha a che fare fin dall’inizio con materiali percetti-vi considerati come tali e il suo operare si esplica perciò nellarealizzazione di «figure» che sono propriamente figurazionisonore: è dunque un’immaginazione, vorremmo quasi dire,esemplarmente compositiva, combinatoria, un’immaginazio-ne «matematica» che ha di mira il gioco dei puri rapportistrutturali e le forme che sorgono da questo gioco.

Ma dopo che abbiamo introdotto una nozione di sensoche può aderire alla materia sonora come a queste stesse for-me, la nostra frase, secondo la quale l’immaginazione musi-cale non ha anzitutto a che fare con la fantasia, assume ancheun altro senso, che ne estende la portata: essa intende ram-mentare quanto profondamente l’immaginario musicale, col-to al limitare della musica stessa, nella pura materia sonorache è stata scoperta nella molteplicità delle sue possibilitàstrutturali, sia animato dalle funzioni valorizzanti dell’imma-ginazione.

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Vi è qui una connessione particolarmente stretta chenon porta soltanto dai suoni all’immaginazione, ma anche,inversamente, dall’immaginazione ai suoni, in un singolaregioco di rimandi interni. Come abbiamo spiegato in breve,ciò che cade sotto la presa di una funzione valorizzante si apread una molteplicità di relazioni possibili che sono essenzial-mente relazioni di senso: e il carattere di valore immaginativonon consiste tanto nella determinazione della molteplicità,quanto piuttosto nel mantenimento dell’apertura. Si prenda,ad esempio, la differenza tra il piano e il forte. Questa è unadifferenza che viene incontrata ogni giorno e che si intromettein vari modi nelle nostre pratiche quotidiane: ogni giornoviene, in queste pratiche, intesa come segnale e direttamenteinterpretata come tale. Ma quando essa viene infine scopertacome una determinazione dei suoni e, nello stesso tempo,come una possibilità che si offre al nostro fare, allora essa co-mincia ad arricchirsi di richiami che sono per altro da inten-dere come sconfinamenti, fusioni, transizioni. Il piano può ri-cevere il senso del lontano, richiamando l’ambito della spazia-lità e in questa lontananza spaziale può trasparire la dimen-sione temporale del passato, così come nella maggiore inten-sità del suono, l’urgenza, l’imminenza, lo stare-per-avvenire; etutto ciò può assumere una coloritura emotiva – non benin-teso, una coloritura emotiva qualunque, ma quella coloriturache spetta proprio a quelle differenze: intimità, segretezza, so-litudine, nostalgia.

Così dicendo vogliamo forse dire che questa determina-zione del suono significa queste cose, ed eventualmente tutteinsieme? Avvertiamo subito che in una simile formulazione viè qualcosa che non va: non solo per l’impiego del verbo «si-gnificare», che richiederebbe certo qualche spiegazione, maanche per il resto: non si può dire «tutte queste cose» perchénon si tratta di cose, ma di sensi; e non è possibile dire «tutte»dal momento che esse non possono essere enumerate ad unaad una, districandole l’una dall’altra, ma l’una è data nelle tra-

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sparenze dell’altra. Il dire che il suono significa tutte questecose è infine inappropriato anche per il fatto che orienta l’at-tenzione su una pretesa attualità del «significato», laddove vi èsoltanto un dinamismo immaginativo latente.

È certamente motivo di riflessione il notare che talvoltaquesto dinamismo immaginativo latente viene indicato pro-prio con un’immagine tratta dall’ambito sonoro. Di una cosache sta per diventare un valore immaginativo possiamo direche essa è ricca di risonanze. E in questa parola «risonanza» viè sia il tema di una messa in movimento a distanza di ciò cheè affine – suggerito dai diapason vibranti «per risonanza» – siail motivo di una presenza diffusa e rarefatta, priva di determi-natezza e di contorni, motivo che viene tratto invece dallostesso modo di essere del suono.

Il suono c’è quando risuona. È questo esserci risonanteche può diventare metafora dello stesso valore immaginativo.

Cosicché saremmo tentati di dire, giocando sull’ambi-valenza del termine che abbiamo or ora messa in rilievo: ilsuono è ricco di risonanze. La musica consta di suoni risonanti.

In questo gioco con le parole nel quale il suono sembraracchiudersi circolarmente su se stesso, diventa invece evi-dente che la pretesa di mantenere la presa sul problema delsenso vincolandolo ad una dimensione puramente sintatticanon può trovare sviluppo in una teorizzazione coerente. Ab-biamo bisogno invece, a questo scopo, di un modo di conce-pire il senso che, connettendosi all’operare dell’immaginazio-ne, consenta la riapertura su un nuovo terreno della tematicadel simbolismo. Per mostrare questo nesso non è in realtà af-fatto necessario immergersi nelle difficili e interminabili con-troversie sulla nozione di simbolo, nella varietà di accezioni incui questa parola può essere impiegata in generale e nello stes-so ambito musicale. È sufficiente invece riconoscere che laproblematica del simbolismo può prendere le mosse dal tema dellavalorizzazione e che dunque essa si annuncia nella stessa nozionedi valore immaginativo. Per questo motivo questa nozione può

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essere portata a coincidenza con quella di simbolo, inun’accezione fondamentale del termine.

La concezione del senso di cui abbiamo anzitutto bisognonell’ambito musicale ha dunque già nel suo interno il problemadel simbolismo.

§ 8

Abbiamo cominciato con il dire che alla musica spetta unostrutturalismo di principio – ed è questo problema che stavaalla base dell’affermazione che i pensieri della musica sononull’altro che pensieri musicali. In essa infatti non si richiamasolo l’attenzione sul fatto che nella musica abbiamo a che farein primo luogo con la «sensibilità», con sequenze di suoniconcretamente proposte alla percezione e dunque, in fin deiconti, sul fatto che i pensieri musicali non sono affatto pensie-ri; in quell’affermazione si dice anche che queste sequenze so-no strutturate, che in esse si tratta di costruzioni che hannodunque le loro relazioni e articolazioni interne, che si reggononel gioco di pesi e di contrappesi, che le figure musicali sonosempre essenzialmente figure relazionali. Qui è il caso di rie-vocare ancora una volta la sfera della matematica, che è statain precedenza appena sfiorata nelle nostre considerazionisull’immaginazione musicale. E non tanto per l’idea di unacorrispondenza segreta tra il numero e il suono, che attraversatutta la tradizione della riflessione musicale dalle sue origini,ma per una connessione più direttamente comprensibile ecertamente priva di impegni speculativi troppo forti, unaconnessione che d’altronde ha certamente contribuito a tenervivo l’interesse di questo rapporto. Si tratta del fatto che lestrutture che la matematica è in grado di generare, spesso lamusica può mostrare nella pienezza e nella concretezza dellapercezione. Il pensiero della formula si dissolve allora senzaresidui nell’idea musicale che consegue alla sua applicazione.

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Ciò che resta è invece, vorremmo quasi dire, il piacere dellastruttura sensibile, il piacere della struttura che si manifesta nellapercezione, che è poi, ad esempio, il piacere dei fuochi di arti-ficio che piacciono come piacciono i fiori disegnati dal ghiac-cio sui vetri in inverno. Questo piacere è, ad un tempo, inte-ramente sensibile ed eminentemente matematico. Ci si compiaceallora del modo in cui l’identità gioca con la differenza, dellavarietà delle forme relazionali, della molteplicità degli ordinipossibili e dei loro rapporti, di ogni possibile schematismocombinatorio – quindi di tutto ciò che può appartenereall’ambito del «pensiero puro» e d’altro lato può trapassare di-rettamente nelle forme della sensibilità e in esse essere colto.

Questo strutturalismo non chiama in causa né l’internoné l’esterno, esso passa certamente al di sopra dei tuoi senti-menti, delle tue fantasie, dei tuoi pensieri. Se vuoi parlare dipensiero, allora è della regola che genera strutture ciò di cui sitratta. E non vi è memoria se non nell’afferramento dell’iden-tità con ciò che prima era decorso e in generale delle relazioniche si mostrano nello sviluppo temporale, così come l’imma-ginare è un anticipare, all’interno dello sviluppo, ciò che staper avvenire.

Ma, come abbiamo già notato, non vi sono motivi perritenere che il riconoscimento di questo strutturalismo debbaessere considerato al tempo stesso come una soppressione im-plicita di ogni altra possibile dimensione del musicale. Così,nella problematica del senso nel modo in cui è stata or ora ri-proposta, si rendeva conto di motivi e temi certamente nonnuovi e che sono sempre emersi in modo più o meno insi-stente nella riflessione filosofica sulla musica, e in particolaredell’indeterminatezza semantica che pure denuncia la presen-za del senso, della polisemia, delle tensioni allusive. Nelle no-stre considerazioni tuttavia si portava in primo piano l’ideache queste tensioni siano da ricondurre ad una processualitàimmaginativa che sta per avvenire. La musica è un serbatoio diimmagini inesplose. Forse proprio per questo così spesso si è

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imposta la sensazione che ad essa spetti uno statuto particola-re, che essa sia un’arte essenzialmente incompleta, che non staaccanto alle altre arti, ma prima di esse, come se in essa si pre-parasse e avesse inizio ciò che nelle altre arti arriva in qualchemodo a compimento.

Tutto ciò significa naturalmente rivendicare che allamusica spetta, accanto e insieme alla componente strutturale,un simbolismo di principio. Come in precedenza, l’intento diuna simile formulazione è quello di sottolineare che la simbo-lizzazione – intesa anzitutto nel senso che abbiamo fissato ri-chiamandoci alla nozione di valore immaginativo – è da con-siderare come una possibilità originaria della musica, possibilitàche è insita nel fatto stesso che i suoni in genere, consideratinelle loro distinzioni elementari e nei rapporti che, in forza diqueste distinzioni, essi possono intrattenere tra loro, sono at-traversati da dinamismi immaginativi latenti. Questi dinami-smi interessano proprio quelle differenze che siamo andati viavia proponendo alla discussione, a cominciare naturalmentedalle nostre prime determinazioni della materia sonora sinoalle caratterizzazioni della nozione di timbro e alle distinzioniche si sono rese necessarie nell’elaborazione della tematicatemporale e di quella dello «spazio» sonoro.

Tutto ciò che sta a fondamento di configurazioni e diarticolazioni possibili dei suoni sta anche a fondamento dipossibili direzioni di senso: volgendo lo sguardo indietro cirendiamo conto che ovunque nella nostra esposizione è giàpresente questo problema. E alla luce di esso si comprendeforse anche meglio la nostra ostinazione nel tentare di istituireogni nozione e ogni differenza importante sul piano stretta-mente qualitativo: in questo modo nelle nostre descrizioni si èspesso già fatta avanti un’inclinazione metaforica che ora puòessere riconosciuta non già come un limite evitabile, ma comeuna necessità intrinseca dell’argomento che rende fin dall’ini-zio manifesto un aspetto che non può in alcun modo essereeluso.

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Naturalmente non vogliamo andare oltre la delineazionedella questione generale. E tuttavia siamo tentati ancora, allaluce di queste considerazioni, di gettare un rapido sguardoretrospettivo ad un unico problema sul quale abbiamo a lun-go indugiato a suo tempo. Si rammenterà certamente qualeimportanza abbia rivestito all’interno della nostra trattazionela differenza tra continuità e discontinuità, e in particolarequella tra suono «puntuale» e suono inteso come sostanza tra-smutante. Ora possiamo certo richiamare l’attenzione sul ca-rico immaginativo che subito grava su quella distinzione.Nemmeno nella nostra distinzione precedente si è del restopotuto tacere il fatto che la discontinuità è connessa con lanitidezza e la pulizia del disegno – con grafemi che delineanoforme. Essa ha anzitutto a che fare con il punto, e dove ci so-no linee, queste si intersecheranno tra loro in nodi chiara-mente localizzati, al passaggio si preferirà il salto, così comealla varietà dei colori e all’oscura sottigliezza dei loro rapporti,la chiarezza inequivoca del bianco e del nero. In breve: all’areadi senso a cui rinvia il vettore immaginativo della disconti-nuità appartiene l’ordine, la differenziazione, l’articolazione,la struttura, dunque la «razionalità» stessa in quanto questitermini ne caratterizzano certo alcuni tratti fondamentali.

L’opposizione tra il discreto e il continuo diventa allorada subito un’opposizione di vettori immaginativi, cosicché lacontinuità sarà invece connessa con l’assenza di rigidi contor-ni o con forme dai contorni molli e flessuosi, e anche conl’elemento indifferenziato e tendenzialmente caotico, con l’af-fettività in genere nella tenerezza delle sfumature di cui è fatta.

Quando dunque la pratica musicale converge nel sotto-lineare in vari modi la fermezza e la puntualità del suono, ab-biamo buoni motivi per cogliere in essa la presenza di idee diordine e di organizzazione, mentre la mobilità fluente del suo-no sarà certamente più vicina alle indeterminatezze di un uni-verso sonoro non ancora compiutamente strutturato ovveroalle tensioni e alle ambiguità di un’affettività per essenza in-

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stabile, in cui la sfumatura prevale sulla definitezza della for-ma e sulla precisione del punto. E viene certamente subitofatto di pensare alla musica orientale in genere, e indiana inparticolare, nella quale, a differenza della musica di tradizioneeuropea che non tollera nemmeno un autentico glissando, ilcolpire il centro della sostanza sonora e il tenerlo fermo po-trebbe essere ritenuto come un’offesa al buon gusto, una sortadi rigidezza ostile all’espressione che si concentra invece pro-prio sull’inquietudine di questo centro, che fa di tutto perrenderlo mobile e instabile realizzando una sorta di apoteosidei glissando, dei vibrato, dell’«ornamento», che è un’apoteosidel suono inteso anzitutto come sostanza transmutante.

In tutto ciò è naturalmente ancora in questione la diffe-renza tra il grande e il piccolo intervallo: noi abbiamo già no-tato che questa differenza non può essere intesa come unadifferenza puramente quantitativa e ora dobbiamo ribadirequesta annotazione sottolineando che essa può stare a fonda-mento di vettori immaginativi differenti. Ecco dunque che cisi presentano all’improvviso le nostre vecchie domande: arri-veremo forse ad attribuire un rimando simbolico determinatoa questo o a quel rapporto di intervallo, e ciò addirittura al difuori di un contesto linguistico e di un progetto espressivo? Sinarra, ad esempio, che nelle corti della Cina e del Giappone,così come nei templi, melodie fondate su una determinatascala modale fossero rigorosamente vietate perché contrarie alpudore che deve regnare in quei luoghi130. E rammentandoindirettamente una simile stravaganza ci siamo chiesti: po-tremmo forse ammettere che un tipo di intervallo o di se-quenza di intervalli possa essere considerato più «erotico» diun altro? Queste domande sembravano fatte apposta per rice-vere una risposta negativa: e se esse fossero qui riprese allalettera e intese esattamente per ciò che chiedono, una similerisposta andrebbe certamente ribadita. Il nostro scopo non è

130 Cfr. nota 121.

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quello di riproporre ingenuamente l’idea dell’esistenza in sé direlazioni simbolico-rappresentative il cui fondamento è da ri-cercare chissà dove nelle sicuramente infondate fantasticheriedegli uomini. Ma il fatto e che queste nostre vecchie domandeci vengono ora incontro sotto un nuovo aspetto, ora esse cisembrano, alla luce di ciò che abbiamo poco fa sostenuto, in-teressanti non tanto come domande che chiedono una rispo-sta al sì e al no, ma in quanto ad esse può essere data una ri-sposta più ampia, ricca di implicazioni, che impone delle pre-se di posizione su questioni di principio. Il nostro scopo èquello di insegnare la complessità del problema. Questo scopolo si rende evidente non già con una ragionevole risposta ne-gativa, ma con la provocazione della risposta apertamente af-fermativa: ebbene sì, il piccolo intervallo è certamente più eroticodel grande intervallo, questo è del tutto evidente.

Sappiamo già che questa evidenza non è una questionedi matter of fact. Essa appartiene invece all’ambito delle rela-tions of ideas – quindi in qualche modo all’ambito della «logi-ca», benché di una logica dell’immaginazione. Il misconosci-mento della differenza tra questi due piani e la pretesa di sot-toporre a verifica empirica il sussistere di relazioni «ideali» è ilgrande errore della semantica musicale come disciplina psi-cologica: ad essa si potranno indubbiamente affidare compitiimportanti e legittimi, ma non in ogni caso quello di giudiceultimo della sussistenza o insussistenza di connessioni imma-ginative fondamentali.

Annotazioni

1. È un fatto che tra musica e parola intercorre un gioco comples-so di interazioni, una dialettica estremamente ricca e varia nellaquale la musica può «aderire» al significato della parola, dunque inqualche modo assecondarlo, rafforzarlo, enfatizzarlo, così comeanche indebolirlo, smentirlo, attenuarlo, ironizzarlo. Ma per ren-dere conto in via di principio di queste possibilità abbiamo in

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realtà bisogno della nostra teoria dei vettori immaginativi che hacertamente tra le sue conseguenze anche quella di stabilire unamediazione tra i puri fenomeni sonori e l’ambito dei significativerbalmente espressi. In base ad essa possiamo ammettere che trasuoni e significati verbali sussiste la possibilità di una forma im-portante di integrazione. I richiami al descrittivismo, alla capacitàimitativa o illustrativa della musica sono sempre fuorvianti, inqualunque modo vengano proposti, per il fatto che essi distolgonol’attenzione dal centro autentico della questione: questo centrosta, da un punto di vista generale, nel problema dei rapporti tra ilfantastico e il simbolico. Infatti, solo se oggettività fantastiche e dire-zioni immaginative giacessero interamente le une al di fuori dellealtre si potrebbe sostenere che le parole – attraverso cui certa-mente si esplica l’immaginazione liberamente riproduttiva di cosee di eventi, l’immaginazione dunque intesa come fantasia – si ag-giungono al «pensiero musicale» mettendo in moto associazioni chegli sono estranee. L’intera questione va invece riconsiderata tenen-do conto del fatto che non vi è forse oggetto fantastico che non sitrovi all’interno di una fitta trama di direzioni immaginative e chenon tenda dunque a sfumare nelle indeterminatezze del valoreimmaginativo, così come non vi è valore immaginativo che non in-clini ad assumere i contorni di un’oggettività fantastica. Perciò è certamente incontestabile che il significato verbale siaun significato indotto, che esso faccia apparire qualcosa che nellamusica non è affatto contenuta. Ma una simile affermazione deveessere accompagnata dal riconoscimento del fatto che la parola,con i suoi rimandi narrativi e descrittivi, con i suoi «fantasmi»,retroagisce sui dinamismi immaginativi della compagine sonoraconferendo ad essa i propri contorni. Attraverso la parola, le ten-sioni simboliche dei suoni vengono integrate in una scenografiafantastica. Per questo motivo fa parte dello spirito della nostra esposi-zione che essa possa qualche volta raccogliere la provocazione delcontenuto, assecondando il maestro di musica che sollecital’allievo ad alleggerire la mano sulla tastiera, quando esegue i FeuxFollets di Liszt, perché di fuochi fatui si tratta, e che d’altro? – piuttostoche la chiosa trita e ritrita che rammenta come il titolo sia statoaggiunto a cose fatte, suggerendo una descrizione che proprio nul-

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la ha a che fare con il brano musicale. L’errore sta qui già nel par-lare di descrizione, e anche nel fatto di non avvedersi che, se que-sto titolo non ci fosse, lo si potrebbe inventare sul momento pro-prio per sollecitare l’impiego di una particolare tecnica esecutivapiuttosto che di un’altra, così da mostrare nell’esecuzione la dire-zione immaginativa verso cui il brano inclina. E in che modo si può pretendere, come accade tipicamente inWagner, che un motivo possa avere un titolo? Anche un caso co-me questo va naturalmente annoverato tra i problemi del rapportocon la parola. Un significato verbale viene qui assegnato ad unasemplice sequenza di suoni, e quel significato verbale potrà ri-mandare a cose, eventi, personaggi, concetti astratti. Potrebbe es-serci esemplificazione più efficace per mostrare che simili unionisono tenute insieme solo perché è stato stabilito così? Come è pos-sibile pretendere che possa esservi una qualche relazione tra ilnome proprio di un personaggio – Freia, ad esempio – e la se-quenza di suoni che gli è stata assegnata oppure tra il significatodella parola «patto» e il motivo musicale che gli corrisponde? Sap-piamo ormai che non siamo disposti ad assecondare l’inclinazioneretorica di queste domande: una volta che abbiamo distinto tra ciòche sta fuori e ciò che sta dentro il brano musicale, dobbiamo es-sere subito disposti a mettere in rilievo l’instabilità di quella di-stinzione come un’instabilità ricca di senso. Nessuna relazioneintrinseca può esistere tra una sequenza di suoni e ciò che è indi-cato da un nome proprio. Ma ciò lo si può dire solo all’inizio –come apertura del problema e non come se con ciò si chiudessero iconti. Restano infatti alcune cose abbastanza importanti da dire.Resta da dire, ad esempio, che è possibile caratterizzare musical-mente un personaggio: ma ammettere questa possibilità significaammettere che un personaggio possa essere considerato come con-crezione fantastica di una direzione immaginativa. Inversamente, il ri-chiamo alla figura mitica di Freia, con le sue connotazioni che so-no ad un tempo connotazióni di valore, retroagisce sul motivooperando una determinazione ulteriore, un rafforzamento diquella direzione. Il motivo del patto è una semplice sequenza di suoni in gradua-le discesa verso il grave, una discesa che inizia già nella regionegrave e di qui scende ancora più in basso.

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Nessuno può certo pretendere che il «significato» del patto possaessere tratto dal suo semplice ascolto. Occorre tuttavia considera-re ciò che accade dopo che la parola è stata proposta. Prima di essavi è il motivo, il tema con il suo senso – il senso di una pesantezza chesi appesantisce. Ma dopo che la parola è stata proposta, dopo chequesta «convenzione» è stata istituita, questa discesa verso il gravepuò essere colta come se essa contenesse un richiamo alla necessitàdel vincolo che il patto istituisce, alla sua ineluttabilità, come unasorta di minaccia che grava su chi viola i patti. La dinamica dellaretroazione rende dunque conto della componente suggestivadell’integrazione fantastica, mostrando nello stesso tempo che questaintegrazione avviene sul fondamento delle tensioni simbolichepreesistenti.

2. La connessione tra erotismo e cromatismo si impone con sin-golare vivacità e con esiti per molti versi rischiosi e sorprendentinell’analisi proposta da Lévi-Strauss del mito dell’origine del vele-no da pesca (cfr. «Composizione cromatica», in Il crudo e il cotto, IlSaggiatore, Milano 1966, parte IV, cap. IV, pp. 334 sgg.). In rife-rimento ad esso viene fatto giocare lo schema dominante del rap-porto natura-cultura; e poiché in questa opposizione si rispecchiaquella tra continuo e discontinuo, e poiché in quel mito e nelle suevarianti viene proposta, da un lato, una condizione di ambiguitàtra natura e cultura e dall’altro un’irruzione del naturale nel cultu-rale, Lévi-Strauss ritiene di poter individuare qui una «dialetticadei piccoli e dei grandi intervalli o, per attingere al linguaggio mu-sicale due termini confacenti, una dialettica del cromatico e deldiatonico...» (p. 363), arrivando a ricollegare il tema del veleno conquello della seduzione e della morte, e dunque alla conclusionesorprendente, ma che merita certo una riflessione, secondo cui ilfatto che il veleno e la seduzione amorosa ci possano apparire nelmito come «due modalità del regno dei piccoli intervalli» ci deveconvincere del fatto che «il filtro d’amore e il filtro di morte sono

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intercambiabili per motivi che esulano dalla semplice opportunitàe ci invita a riflettere sulle cause profonde del cromatismo del Tri-stano» (p. 365).

§ 9

L’affiorare di figure al limitare delle strutture musicali – que-sto è il tema principale che si è imposto nel tentativo di rin-tracciare una strada per riproporre quella tematica del simbo-lismo che di continuo si impone nella riflessione filosoficaintorno alla musica e che appare nello stesso tempo così diffi-cile da teorizzare in modo realmente compiuto e coerente.

Al senso di questa riproposta del tema del simbolismocome un tema che appartiene alle radici dell’espressione musi-cale è tuttavia profondamente estraneo il problema di deter-minare che cosa attraverso la musica debba essere espresso ecome – e dunque l’idea stessa di compiti e obbiettivi espressiviprivilegiati. Struttura e simbolo sono ora parole che delimitanolo spazio di gioco della musica stessa ed alla musica, e dunqueai musicisti, che della musica sono i padroni131, spetta di deci-dere che cosa debba di volta in volta accadere in questo spazio.

Come abbiamo ripetuto più volte, l’accento deve essereposto da parte nostra sul tema della possibilità, e proprio perquesto è per noi importante dare il massimo rilievo all’ideadella molteplicità di dimensioni del musicale, un’idea la cui giu-stificazione e teorizzazione va certamente oltre la semplicepresa d’atto della molteplicità dei linguaggi musicali.

Il tema del simbolismo è inoltre connesso per noi con ilmodo di concepire il rapporto della musica con la realtà, ed èproprio su questo punto che vogliamo far convergere questenostre considerazioni conclusive. Di fronte alla tendenza a

131 «Sono io il padrone di questo fiume che scorre» (Prospero, in Un rein ascolto, di L. Berio e I. Calvino, Parte II, Aria IV, Universal Edition, 1983, p.52).

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impoverire la ricchezza di questo nesso operando livellamentidi differenze che apparterrebbero unicamente alle finzioni so-vrapposte al brano musicale, così come di fronte alla teorizza-zione di un simbolismo che esaspera e fraintende l’indetermi-natezza semantica fino a farla ricongiungere all’idea del mes-saggio troppo grande, noi facciamo notare che nelle distinzionielementari del rapido e del lento, dell’alto e del basso, del sali-re e dello scendere, del continuo e del discontinuo, dell’asproe del dolce, del leggero e del pesante, del concordante e del di-scordante, e così via, si fa avanti la complessità della realtàstessa in tutta la varietà e la ricchezza delle sue determinazioni.

La musica ha molte dimensioni perché molti sono i mo-di d’essere e i modi di pensare degli uomini. E sono certa-mente i modi d’essere e i modi di pensare degli uomini chedeterminano l’orizzonte di motivi che consente all’immagina-zione musicale di avviare il suo corso, mettendo in motoquella dialettica da cui sorgono le sue opere.

Nessun pensiero musicale potrebbe sorgere se non ci fosseroaltri pensieri. E sarebbe certamente sbagliato ritenere che que-sti altri pensieri non possano in alcun modo penetrare all’in-terno del brano, contribuendo a determinare il suo senso. Iltema del simbolismo così come è stato proposto sembra indi-care la via per una teorizzazione coerente. In esso non si parlasoltanto della memoria interna alla sequenza sonora, non siparla di un immaginare che si esaurisce nell’anticipazione dinessi strutturali, e nemmeno di una pura presenza percettivadi un’oggettività sonora in sé definita e chiusa. Ma si avanzal’idea di una memoria del mondo profondamente immersa nel-le risonanze dei suoni e che attraversa dunque le operazionivalorizzanti dell’immaginazione. Ed è certamente compitodella ricerca storica e analitica portare alla luce questa memo-ria mostrando in concreto la stupefacente ricchezza di formecon le quali la musica si misura con la realtà.