Filip David - bordeauxedizioni.it · Manuela Orazi e Dunja Badnjevic´ Postfazione di ......

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Filip David

La casa della memoriae dell’oblio

Traduzione di Manuela Orazi e Dunja Badnjevic

Postfazione diBo!idar Stani"ic

bordeaux

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La traduzione è stata realizzata con il supporto finanziario del Ministero della cultura e dell’informazione della Repubblica Serba

© Bordeaux 2016Via Pietro l’Eremita, 100162 Romawww.bordeauxedizioni.it

Titolo originale: Ku a se anja i zaboravaTraduzione della postfazione: Alice ParmeggianiImpaginazione/Plan.edwww.plan-ed.it

ISBN 978-88-99641-21-4

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La casa della memoriae dell’oblio

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E finalmente, essendo ognuno e non importa chi, egli si mostrerà come se non fosse Nessuno in parti-colare. E questo ci riporta al suo primo inganno, al dubbio sulla sua stessa esistenza.

Denis de Rougemont, La Part du Diable

All’improvviso scopri che non esisti. Sei frantumato in mille pezzi e ogni pezzo ha il suo occhio, naso, orecchio... Un ammasso di rottami...

Lyudmila Ulitskaya, Gli uomini del nostro zar

Ci sono solo due modi di vivere la propria vita: uno come se niente fosse un miracolo. L’altro come se tutto fosse un miracolo.

Albert Einstein

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Il frastuono

Quel rumore... lo avverto spesso. Il treno in movimento. Le ruote del treno in movimento. All’inizio non riuscivo a stabi-lire da dove arrivasse quel frastuono. Mi svegliava nel mezzo della notte. Mi alzavo, aprivo le finestre, cercavo di scoprire nella notte la fonte del frastuono. Invano. Nelle vicinanze non c’erano né una ferrovia né una stazione.

Mi coprivo le orecchie con i palmi delle mani, immergevo la testa nel cuscino. Non serviva a niente. Il frastuono, osti-nato e monotono, non cessava.

Bum-ciuff-bum-bum-ciuff-bum.Mi vestivo, uscivo di casa, vagavo per le strade deserte

cercando di fuggire il più lontano possibile dal rumore mo-notono del treno in movimento.

Il rumore mi seguiva. Era con me, dentro di me, indi-struttibile. Mi faceva impazzire.

Bum-ciuff-bum-bum-ciuff-bum.Poi cessava all’improvviso. Ma sapevo che lo avrei risen-

tito. Ogni volta ancora più forte, più deciso, più insoppor-tabile.

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Introduzione (dal diario di Albert Weiss)

Dove si racconta di un incontro casuale in cui ci si pone la domanda se il nostro destino sia predeterminato,

si spiega cos’è il daimon e si giunge alla conclusione su alcune illusioni della vita

All’inizio del 2004 ho partecipato a un convegno all’hotel Park di Belgrado sul tema “Crimini, riconciliazione, oblio”, organizzato dall’Unione europea. L’incontro, come molti altri del genere, si è svolto in un’atmosfera perlopiù acca-demica. La maggior parte del tempo è trascorsa in inutili tentativi di definire la vera natura del male, di determinarne la sostanza filosofica, teologica e anche umana. Definiamo “male” molte cose – dalle catastrofi naturali, alle malattie, fino alle morti violente, alle guerre, ai crimini. Ma quando si tratta del crimine in sé, in genere si riafferma il tema della banalità del male, la tesi esposta da Hannah Arendt dopo il processo a Eichmann a Gerusalemme. Molti dei partecipan-ti hanno sottolineato come la signora Arendt, dopo essere pervenuta a questa conclusione, potesse finalmente dormire tranquilla, certa che un crimine delle dimensioni dell’Olo-causto non avrebbe mai più potuto ripetersi, il che potrebbe essere vero se il male fosse qualcosa di metafisico, al di fuori della comprensione umana. All’hotel Park, nel corso dell’e-sposizione delle varie relazioni, ho notato, seduto nell’ultima fila, un uomo che ascoltava tutto con attenzione, ma che non apparteneva all’ambiente dei partecipanti.

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Le serate dopo le riunioni nella grande hall dell’hotel Park trascorrevano in interessanti conversazioni, molto meno tese e più rilassate perché la maggior parte di noi si conosceva da quando ancora vivevamo nella stessa patria, condividevamo i ricordi, ma anche le amicizie. Si raccontavano, quasi come fossero aneddoti, le orribili storie sui criminali, gli assassini e i rapinatori che venivano rilasciati dalle prigioni e mandati a combattere in prima fila, sui vicini che si sgozzavano gli uni con gli altri, essendosi risvegliato un odio fanatico, su base religiosa e nazionalistica. Il male veniva spiegato come il risultato di un passato criminale, dell’arretratezza cultura-le, della scarsa educazione e istruzione, di un difetto carat-teriale, di una mentalità antiquata, della manipolazione dei politici, ossia di tutto ciò che appartiene naturalmente alla natura umana e non le è estraneo. In tutte queste conver-sazioni passava il concetto a favore dell’interpretazione del male come qualcosa di infimo, rozzo, qualcosa di realmente banale e decifrabile.

– Comprendere significa anche giustificare – si oppose una voce al tono generale della discussione. – Sono le parole di un grande scrittore che ha sperimentato mali e crimini gi-ganteschi. E che ha affermato che quando si parla del male bisognerebbe inventare una lingua nuova, perché con il no-stro modo di parlare e di ragionare la profondità del male non è esprimibile.

Per un momento regnò il silenzio. Riconobbi lo scono-sciuto dell’ultima fila della sala delle conferenze.

– Vengo a questi convegni senza essere invitato per ascol-tare tutte le interpretazioni possibili, nel tentativo di com-prendere la natura e il potere del male di fronte a cui non abbiamo difese, di fronte alla cui fatale supremazia siamo inermi.

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Forse in un altro luogo queste parole sarebbero sembrate sconvenienti, persino tragicomiche, ma l’uomo parlava con calma, con una convinzione ipnotica, il che fece cessare al-meno per un attimo il brusio in sala. I presenti si predispo-sero ad ascoltarlo con attenzione. Lui proseguì:

– Mi piacerebbe che la spiegazione fosse semplice, così com’è stata esposta oggi in alcune relazioni: che il male e il crimine fossero soltanto opera di individui criminali, di ideo-logie criminali, di persone manipolate e di fanatici estremi-sti. Se avessi potuto convincere me stesso di ciò a cui credeva Hannah Arendt, forse anch’io dormirei sonni tranquilli. Ma il mio sonno è un incubo continuo, perché tali affermazioni non sono state dimostrate e non hanno alcun fondamento, non fanno che confortare le nostre illusioni di aver posto il male sotto controllo, avendogli dato un volto puramente umano.

In quel momento il cameriere servì un altro giro di be-vande e l’attenzione iniziale si affievolì. I partecipanti alla riunione ripresero a fare chiasso e, come spesso accade in si-mili consessi, qualcuno fece una battuta fuori luogo sul con-to dell’ospite non invitato. Quindi il suo discorso, appena iniziato, non fu più ascoltato. A quel punto l’uomo si voltò verso di me, che ero il più vicino, deciso a trovare almeno un ascoltatore della sua storia.

– La prima volta che ho riflettuto sulla natura del crimi-ne ero ancora un bambino, quando mi sono trovato davanti all’orrore della morte, incomprensibile, ingiusto, insensato, come vuole. Vede, alcune persone trascorrono tutta la loro esistenza senza mai vedere un uomo morto, mentre altre sono perseguitate dalla continua presenza della morte, sia nella veglia che nel sonno. Quando è iniziata la Seconda guerra mondiale avevo dieci anni. Vivevo con i miei genitori

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in una cittadina di provincia occupata dai nazisti. In casa nostra si era sistemata una famiglia di contadini tedeschi. Avevano un figlio un po’ più grande di me. Cominciammo a frequentarci. Un giorno lui mi disse che mio padre era stato arrestato e che nel pomeriggio lo avrebbero fucilato insieme ad altri ostaggi. Lo raccontai a mia madre, mi disse che sono fantasie di bambini, che mio padre sarebbe stato rilasciato. Ma il mio nuovo amico mi prese per la mano: “Io non dico mai bugie, l’ho sentito da papà. Andiamo, così lo vedrai!”. Mi condusse al cortile della vecchia fabbrica, ci nascondemmo dietro un mucchio di terra. Non aspettam-mo a lungo. I tedeschi collocarono in posizione due mitra-gliatrici, poi fecero uscire dalla baracca un gruppo di uomi-ni con le mani legate. Tra questi riconobbi mio padre. Lì, davanti ai nostri occhi, spararono. Vidi mio padre cadere. Era un uomo forte, alto, nel fiore degli anni, non si era mai ammalato. Questa sua morte insensata, di cui sono stato testimone, mi ha accompagnato attraverso tutta l’infanzia e la giovinezza. Sì, il sentimento peggiore è stato capire che un simile crimine possa avvenire senza senso e senza ragio-ne, che la morte possa capitare a una persona a caso scelta tra migliaia, catturata casualmente per la strada. I suoi as-sassini non li conosceva, né loro conoscevano lui, era stata una morte totalmente assurda, un crimine orrendo. Da quel giorno ammutolii, privato della possibilità di parlare. Ci misi molto tempo a ricominciare a parlare, grazie all’atten-zione affettuosa di mia madre e alla cura e all’amore di mia sorella minore.

Il baccano ai tavoli aumentava come arrivavano altre bot-tiglie di vino. Avevano dimenticato tutti l’ospite non invitato tranne me che, un po’ per curiosità un po’ per educazione, ascoltavo la sua confessione.

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– Ora, giudicando a distanza di tempo, capisco che quel tragico evento ha segnato il mio destino, che è stato come incidere un marchio, una “lettera scarlatta” che ha condi-zionato per sempre la mia vita. È questo che cerco di spie-gare a voi che vi occupate in modo teorico delle questioni riguardanti il delitto e il castigo, le vittime e i boia: che non è possibile comprendere totalmente questo meccanismo con la ragione, ma nemmeno attraverso le emozioni, che c’è qualcosa al di sopra di entrambi. Gli antichi greci questa en-tità, “la guida che cammina accanto a noi e sa qual è la nostra vocazione” la chiamavano ‘daimon’.

Qui il mio interlocutore s’interruppe per un momento. – In ogni uomo abita una creatura segreta, sconosciuta,

inumana e immateriale che guida il suo destino. Mia madre fu deportata in un lager, dove morì senza nemmeno aver vi-sto i volti dei propri assassini. Anche quella morte è rimasta anonima. Come la morte violenta di mia sorella il giorno del-la liberazione per mano di un combattente impazzito, che in un attacco di nervi cominciò a uccidere uno dopo l’altro tutti coloro che gli si trovavano vicino. Non molto tempo fa ho perso anche mia figlia. È stata uccisa da un cecchino a Sa-rajevo. Qui non si può parlare di banalità del male, signore mio, ma del daimon, che per qualcuno rappresenta un an-gelo custode e per qualcun altro un giudice e un esecutore. Parliamo dell’azione di qualcosa di potente e inarrivabile, qualcosa che non siamo in grado di spiegare. Sono convinto che ogni singola persona, ogni famiglia, interi popoli, siano governati da questa entità segreta chiamata daimon. Essa li guida, li salva o li distrugge. Si può parlare della banalità del male se tutte queste morti, le morti dei miei cari, ma anche le morti di molti altri, anche se inferte da mano umana, di fatto sono opera di assassini senza nome, di boia anonimi

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che non conoscevano affatto le loro vittime? Io, a differenza della signora Hannah Arendt, le cui tesi sulla banalità del male vengono qui accolte, sono convinto che il male sia co-smico, irrazionale, inarrestabile. Il peccato, la punizione, il perdono, il conforto, tutte le discussioni su questi argomenti sono insensate e false.

Negli angoli degli occhi dell’uomo vidi apparire le la-crime. Le asciugò con la mano. Avrei voluto dire qualcosa, esprimere le mie condoglianze tardive, ma non dissi nulla. Lui invece, dopo tutto quello che aveva raccontato, sembra-va in imbarazzo. Si alzò, si voltò senza salutare e uscì. Non feci neanche in tempo a chiedere il suo nome, in realtà non ci eravamo nemmeno presentati.

Forse col tempo avrei dimenticato quest’incontro e l’in-solita confessione se non fosse accaduto qualcosa che ha rin-novato il ricordo. Qualche giorno fa al telegiornale hanno dato la notizia dell’esplosione di una bomba lanciata da un pazzo contro un autobus pieno di passeggeri. Hanno mo-strato le immagini delle vittime. In una ho riconosciuto l’uo-mo che quella sera mi aveva parlato del daimon violento e impietoso, figura mitica che ci collega con l’aldilà.

Sapremo mai qualcosa di certo su questo misterioso, se-greto messaggero di vita e di morte, angelo della salvezza e angelo della distruzione, che dalla profonda oscurità decide il nostro destino?

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Il sogno di Albert

Albert sta facendo un sogno agitato.È in una desolata stazione ferroviaria di provincia. L’e-

dificio della stazione è fatiscente, l’intonaco sulle pareti è scrostato. Dietro due finestre sporche si intravedono i volti del personale della stazione. Sono i volti brutti, da vecchi, di impiegati postali e ferroviari stanchi del lungo servizio.

Tutto è immerso in una penombra minacciosa. Il cielo è grigio, sui campi circostanti è scesa la nebbia.

Albert è fermo sul binario e aspetta. Non sa che cosa, né chi sta aspettando.

All’improvviso, dalla penombra appare un enorme mo-stro con due occhi scintillanti. Una locomotiva traina una decina di vagoni. Si ode soltanto lo stridere delle ruote. Que-sto procura ad Albert una sensazione di paura. Di panico addirittura. Vorrebbe fuggire da quel binario dove è arrivato senza neanche sapere come. Ma non può.

La nera locomotiva tira dietro di sé dei vagoni non illu-minati.

Il treno entra nella stazione, rallenta un po’, ma non si fer-ma. Abbastanza, tuttavia, perché Albert veda i volti appicci-cati ai finestrini dei vagoni. Non sono i volti di persone vive.

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Sono morti, è il treno dei morti.E in quel rumore monotono, che suscita terrore e fa ve-

nire i brividi, ad Albert arriva una voce più forte di ogni rumore, una voce infantile.

– Fratellino, salvami! Qui è così buio!È la voce di suo fratello più piccolo, Eliah.Albert grida: – Non aver paura, Eliah, sono qui!Può solo accompagnare con lo sguardo il treno che si al-

lontana.Si sveglia in un bagno di sudore. Il sogno si incide pro-

fondamente nella sua coscienza.