Figura 1 Ecocardiogramma in tre proiezioni, sagittale ... · arteriosa di 145/80 mm Hg, funzioni...

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1 Un uomo di 57 anni si è ricoverato per una sincope. Gli esami hanno evidenziato una pressione arteriosa di 145/80 mm Hg, funzioni neurologiche normali, un lieve scompenso cardiaco e una marcata insufficienza renale (creatininemia 262 μmol/l e filtrato glomerulare di 23 ml/min/1.73 m 2 ). L'ecocardiografia ha dimostrato grave disfunzione sistolica biventricolare, cospicua ipertrofia concentrica del ventricolo sinistro, e un riempimento di tipo restrittivo (A). Figura 1 Ecocardiogramma in tre proiezioni, sagittale, trasversale e 4 camere Online Videos 1 , 2 , 3

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Un uomo di 57 anni si è ricoverato per una sincope. Gli esami hanno evidenziato una pressione

arteriosa di 145/80 mm Hg, funzioni neurologiche normali, un lieve scompenso cardiaco e una

marcata insufficienza renale (creatininemia 262 µmol/l e filtrato glomerulare di 23 ml/min/1.73

m2). L'ecocardiografia ha dimostrato grave disfunzione sistolica biventricolare, cospicua

ipertrofia concentrica del ventricolo sinistro, e un riempimento di tipo restrittivo (A).

Figura 1 Ecocardiogramma in tre proiezioni, sagittale, trasversale e 4 camere

Online Videos 1, 2, 3

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L'angiografia coronarica ha escluso alterazioni significative delle coronarie epicardiche. La

biopsia endomiocardica ha dimostrato: alla microscopia ottica, miociti cardiaci con marcata

distorzione strutturale, fibrosi interstiziale, e nuclei ingrossati con vacuolizzazione citoplasmica

perinucleare (B, freccia). La microscopia elettronica ha rivelato marcato aumento dei

mitocondri che sono risultati essere polimorfi con aspetto anormale delle criste (C e D,

freccia). Vacuoli contenenti lipidi erano associati fianco a fianco (teste di freccia).

1. Li Ching Lee, Kong Bing Tan, and Raymond Ching-Chiew Wong, Mitochondrial Cardiomyopathy Presenting as Hypertrophic Cardiomyopathy With Advanced Chronic Kidney Disease. J Am Coll Cardiol

2010 56: 237.

Indice:

Imaging: Cardiomiopatia mitocondriale simulante cadiomiopatia ipertrofica pag. 1-2; Editoriale: Ansietà e il

rischio di futura cardiopatia, pag. 3-5; Leading article: Nuove e vecchie sindromi aritmiche ventricolari

ereditarie: meccanismi genetici e implicazioni terapeutiche., pag. 6-12; Focus: Screening per aterosclerosi

subclinica di soggetti asintomatici: è possibile, è rilevante, è necessario?. Ipertensione 2008 – consapevolezza, comprensione e trattamento. Statine e mortalità per tutte le cause nella prevenzione primaria del rischio elevato. Angioplastica percutanea con stent medicato (DES) versus bypass aortocoronarico (BPAoC) per malattia di tronco comune. Stenting del tronco commune. Impianto transcatetere di valvola aortica per pazienti a elevato rischio con stenosi aortica severa: una revisione sistematica. pag. 13-17. Aggiornamenti: Malattie cardiovascolari infitrative che simulano le cardiomiopatie ipertrofiche o dilatative; pag. 18-26;

Medicina e morale: Indisponibilità della - e - amore alla vita umana. pag. 26-31

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Due nuovi studi sulla relazione tra ansietà e malattia cardiovascolare descrivono come livelli

correnti di ansietà siano legati agli attuali sintomi cardiaci. La loro originalità è data dal fatto

che i due studi si focalizzano sulla estensione con cui i sintomi dell’ansietà permettono di

prevedere malattia cardiaca in un lontano futuro.

Il primo di questi, la meta-analisi di Roest et al. (1) rileva che sintomi dell’ansietà predicono

eventi cardiaci incidenti anni prima del loro insorgere. Combinando i dati ottenuti da 20 studi

che riguardavano approssimativamente 250,000 individui, gli Autori hanno rilevato come

persone ansiose fossero in un aumentato rischio di malattia coronarica molti anni in futuro.

Non era che una persona ansiosa oggi aveva un infarto miocardici domani ma piuttosto che i

sintomi di ansietà predicevano l’insorgenza di malattia coronarica in media, negli 11 anni futuri.

Il resoconto descrive chiaramente, in breve ogni gradino dell’analisi. Inoltre, le conclusioni non

sono limitate a osservazioni Americane ma, piuttosto, hanno incluso studi da Norvegia, Olanda,

Russia, Svezia, Giappone, e Inghilterra. Ẻ interessante il fatto che il gradiente di rischio

persisteva in analisi aggiustate per comportamento demografico e altri promotori di rischio

(es., fumo). In altre parole, i futuri rischi cardiaci associati con ansietà non erano motivati da

stile di vita sedentario, scarsa educazione, e così via.

Anche nel secondo studio di Janszky et al. (2) è stato rilevato che i disturbi ansiosi predicevano

futura malattia coronarica. Lo studio si è basato sui dati ottenuti da una indagine nazionale di

49,321 giovani maschi Svedesi di 18 - 20 anni, nati tra il 1949 e il 1951, che furono coscritti al

servizio militare obbligatorio nel 1969 e 1970 e in seguito tenuti sotto osservazione per una

media di 37 anni. Tutti i partecipanti furono sottoposti a dettagliata indagine medica e

psicologica, e l’ansietà fu diagnosticata direttamente da uno psichiatra (e non mediante

questionari). In tale ambientazione, un causativo contrario (cioè, la possibilità that both

depression and subsequent CHD are caused by subclinical manifestations of cardiovascular

disease) non è fattibile. Ẻ anche improbabile che una malattia fisica sia stata causa ordinaria di

sintomi ansiosi e di esiti cardiovascolari. Il sistema sanitario in Svezia provvede praticamente

l’informazione di un completo follow-up per tutti i pazienti mediante numeri unici

d’identificazione abbinati ai registri sanitari. Ospedalizzazione e mortalità da malattia

cardiovascolare e infarto miocardico acuto (AMI) furono identificati dai registri sanitari.

Depressione e malattia cardiovascolare

(Janschy) La depressione, diagnosticata da uno psichiatra in uomini di 18 - 20 anni, non si è

rivelata un fattore predittivo di successiva malattia cardiaca. Dopo aver corretto per i fattori di

rischio bene conosciuti, le associazioni tra depressione ed esiti cardiovascolari sono

praticamente nulle.

Un’altra recente meta-analsi (3) di 21 studi prospettici, che includevano 124,509 partecipanti e

4,016 eventi con un follow-up medio di 10.8 anni, ha dimostrato un rischio relativo cumulativo

di 1.81 (95% CI: 1.53 - 2.15) per futuri eventi cardiovascolari associati alla depressione di

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base. I sintomi dell’ansia furono predittivi a livello significativo di successiva malattia

coronarica, anche dopo aver controllato le differenze basali di pressione arteriosa, fumo, e altri

parametri clinici. Altri Autori hanno anche notato che un causativo contrario (cioè, la possibilità

che depressione e successive malattia cardiovascolare siano causate entrambe da

manifestationi sub cliniche di malattia cardiovascolare), sia la più grande sfida nella ricerca di

un’associazione prospettica tra depressione e cardiopatia (4) .

Cos’è che rende l’ansia così dannosa per il sistema cardiovascolare?

Gli studi sopra descritti non possono dare una risposta su quali siano i meccanismi

fisiopatologici. I mediatori possibili includono ovviamente l’attività del sistema nervoso

simpatico e dei vari fattori infiammatori, ma non sembrano sufficienti a spiegare le

ripercussioni fisiologiche dell’ansietà che in effetti sono molto estese.

Studi recenti, ad esempio, sollevano il problema se l’interruzione del sonno (un fenomeno

comune dell’ansietà) possa contribuire a diverse manifestazioni della malattia cardiovascolare (5) o se i diversi fattori dell’umore influenzino la funzione endoteliale (6) . In alternativa, ci si

interroga sui fattori di fondo comuni a malattie cardiovascolare e ansietà. Il fatto scomodo è

che vi sia una considerevole inspiegata variazione nell’incidenza di malattia cardiovascolare pur

considerando i fattori di rischio tradizionali come il fumo e l’ipercolesterolemia.

Ẻ necessario esaminare attentamente nuovi fattori di rischio per l’utilità clinica. Si potrebbe

pensare che il nuovo fattore di rischio sia di raro riscontro, ma se il rishio è statisticamente

significativo e di comune riscontro, allora potrebbe essere molto importante studiarlo. A tale

proposito, la prevalenza dei disturbi dell’ansietà è come quella dell’ipertensione. La prevalenza

dell’ansietà è di circa il 28% nel corso della vita (7) . I disturbi dell’ansietà costituiscono una

sofferenza importante e comune della gioventù, ma anche in soggetti più adulti, con una

prevalenza stimata su 12 mesi del 10% (8) . Indipendentemente dalla loro elevata prevalenza e

dal possibile rischio cardiaco, i sintomi dell’ansietà comportano considerevole sofferenza,

disabilità, e cattiva qualità della vita. L’impatto sulla capacità funzionale globale è

grossolanamente paragonabile a quello del mal di schiena o dell’ulcere delle gambe. Nel caso

in cui l’ansietà coesiste con la depressione, l’impatto corrispondente sulla qualità di vita è

anche peggiore, simile a quello della bronco-pneumopatia cronica ostruttiva (9) .

Ẻ singolare che sintomi di ansia possano essere un segnale così potente da illuminare in

anticipo le decadi future della malattia coronarica. I Cardiologi sono certamente a conoscenza

degli effetti dell’ansietà sui parametri fisiologici intercorrenti (pressione arteriosa, palpitazioni,

angina), ma è in effetti interessante rilevare che una singola valutazione di ansietà proietta

una lunga ombra sulle decadi future

Nello stesso tempo, come tali osservazioni dovrebbero guidare la pratica medica?

Queste rilevazioni sull’ansietà giungono in un momento in cui la psichiatria ancora una volta

sta riscrivendo le linee guida diagnostiche. Per decenni, i Manuali di Diagnostica hanno

mantenuto la distinzione tra sindromi di ansietà e malattie depressive; sempre più ancora, i

clinici sostengono che questi disturbi raramente si presentano isolati e nel caso in cui

coesistono i sintomi delle due malattie, la sofferenza associata con esse si accresce

sinergicamente.

Gli studi sopra riportati fanno pensare che nel momento in cui i pazienti con sintomi di malattia

cardiovascolare si presentano a un cardiologo, l’ansietà dei primi anni di vita potrebbe avere

già richiesto il suo pedaggio. L’ansietà fa male, sia sul piano soggettivo sia su quello fisiologico

come suggeriscono queste ricerche. Eppure i medici sono spesso timidi o restii o forse

impreparati a ricercare e valutare i sintomi della sfera emotiva. Alcuni non lo ritengono di loro

competenza. Altri non hanno o non vogliono dedicarci il tempo necessario perché oberati di

lavoro. Ẻ piuttosto strano che mentre siamo pronti a infilare cateteri, ablare lesioni, eseguire

esami rettali, ma ci sentiamo a disagio a chiedere ai nostri pazienti sul loro modo di vivere. Ciò

perché captare e comprendere i sintomi della sfera emotiva è una operazione più difficile e più

paziente della semplice anamnesi dei sintomi fisici.

Tale difficoltà è diventata sempre più evidente con la crescita della medicina tecnologica che

tende ad allontanare il medico da una relazione empatica con il paziente. Sono stati elaborati

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questionari e sistemi di valutazione a punteggio degli stati ansiosi e depressivi che possono

essere utilizzati per organizzare la raccolta dati in studi clinici, ma non credo adatti alla pratica

medica corrente.

L’ingresso nella sfera emotiva di una persona è possibile soltanto con un approccio empatico

complessivo che vuol dire offrire la propria attenzione per l'altro, mettendo da parte le

preoccupazioni e i pensieri personali. La qualità della relazione si basa sull'ascolto non

valutativo e si concentra sulla comprensione dei sentimenti e bisogni fondamentali dell'altra

persona. L’empatia è la capacità di leggere fra le righe, di captare le spie emozionali, di

cogliere anche i segnali non verbali indicatori di uno stato d’animo e di “intuire” quale valore

rivesta un determinato evento per l'interlocutore.

La comprensione empatica consiste nell’immedesimarsi nell’interlocutore per comprendere il

suo punto di vista, senza assumerlo come proprio, ma mantenendo l'autocontrollo. Un medico

o un infermiere che si calasse nei panni del malato lasciandosi sopraffare dal dolore per le sue

sofferenze renderebbe il malato emotivamente più abbattuto invece di offrirgli un sostegno. La

comprensione empatica implica anche la sospensione dei propri giudizi morali sui sentimenti o

esperienze riferiti dall’interlocutore.

Per chiarezza, l’empatia non deve essere confusa con la simpatia; quest'ultima sarebbe un

autentico sentimento doloroso, di sofferenza insieme al paziente e potrebbe quindi essere un

ostacolo ad un giudizio clinico efficace; al contrario l'empatia permetterebbe al curante di

comprendere i sentimenti e le sofferenze del paziente, incorporandoli nella costruzione del

rapporto di cura ma senza esserne sopraffatto. In medicina l'empatia è considerata un

elemento fondamentale della relazione di cura.

Le conclusioni descritte nei due articoli suggeriscono che l’inclusione dei fattori emozionali nelle

nostre valutazioni cliniche potrebbe essere pertinente alla diagnosi e prevenzione delle malattie

cardiovascolari. Che i fattori emozionali influenzino il cuore è ovvio, rimane da scoprire con

quali meccanismi e come mitigare il loro effetto. Non è stata studiata una strategia

d’intervento terapeutico, né sappiamo se i trattamenti diretti ad alleviare l’ansietà (farmaci,

psicoterapia, diminuzione dello stress, modificazione dello stile di vita) riducano anche il rischio

cardiovascolare, ma il clinico esperto può essere certo che il trattamento appropriato dei

disordini causati dall’ansia produce benefici ben oltre l’immediato miglioramento sintomatico e

funzionale.

Bibligrafia

1. Roest AM, Martens EJ, de Jonge P, Denollet J. Anxiety and risk of incident coronary heart disease: a meta-analysis J Am Coll Cardiol 2010;56:38-46. 2. Janszky I, Ahnve S, Lundberg I, Hemmingsson T. Early-onset depression, anxiety, and risk for subsequent coronary heart disease: 37-year follow up of 49,321 young Swedish men J Am Coll Cardiol 2010;56:31-37. 3. Nicholson A, Kuper H, Hemingway H. Depression as an aetiologic and prognostic factor in coronary heart disease: a meta-analysis of 6362 events among 146 538 participants in 54 observational studies Eur Heart J 2006;27:2763-2774. 4. Alboni P, Favaron E, Paparella N, Sciammarella M, Pedaci M. Is there an association between depression and cardiovascular mortality or sudden death? J Cardiovasc Med (Hagerstown, Md) 2008;9:356-362. 5. Eguchi K, Pickering TG, Schwartz JE, et al. Short sleep duration as an independent predictor of cardiovascular events in Japanese patients with hypertension Arch Intern Med 2008;168:2225-2231. 6. Cooper D, Milic M, Tafur J, et al. Adverse impact of mood on flow mediated vasodilation Psychosom Med 2010;72:122-127. 7. Kessler R, Berglund P, Demler O, Jin R, Merikangas K, Walters E. Lifetime prevalence and age-of-onset distributions of DSM-IV disorders in the National Comorbidity Survey Replication Arch Gen Psych 2005;62:593-602. 8. Uhlenhuth EH, Balter MB, Mellinger GD, et al. Symptom checklist syndromes in the general population. Correlations with psychotherapeutic drug use. Arch Gen Psychiatry 1983;40:1167-1173. 9. Stein MB, Roy-Byrne PP, Craske MG, et al. Functional impact and health utility of anxiety disorders in primary care outpatients Med Care 2005;43:1164-1170.

Prof. Paolo Rossi, primario cardiologo, Novara e-mail: [email protected]

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Introduzione:

La sindrome del QT lungo congenita (LQTS), la sindrome di Brugada (BrS) e la tachicardia

ventricolare polimorfa catecolaminergica (CPVT) rappresentano ben note sindromi aritmiche

ventricolari ereditarie che possono determinare sincopi e morte cardiaca improvvisa

particolarmente negli individui più giovani.

Tali sindromi aritmiche sono quasi esclusivamente ereditarie e trasmesse con carattere

autosomico dominante. Lo sviluppo delle tecniche di genetica molecolare ha consentito

l’introduzione di test di screening sempre più sofisticati per i familiari dei pazienti affetti da tali

sindromi; l’importanza di questi test è supportata dal fatto che circa il 50% dei parenti di primo

grado dei pazienti con sindromi aritmiche ereditarie, sono a rischio a loro volta di essere

portatori di mutazioni genetiche con una ben documentata predisposizione per eventi letali

potenzialmente evitabili. Da qui’ l’importanza di una corretta stratificazione e di un precoce

trattamento dei familiari affetti.

Scopo dello studio retrospettivo di Hofman e Coll. (1) è stato quello di valutare se l’esecuzione

di test genetici in parenti di pazienti affetti da sindromi aritmiche ventricolari (LQTS, BrS e

CPVT) consentisse un trattamento profilattico nei soggetti con mutazioni genetiche e quali

fattori avessero determinato l’inizio di un trattamento specifico.

Nell’ambito delle sindromi aritmiche ventricolari, Haissaguerre e Coll (2) hanno recentemente

documentato come anche un aspetto elettrocardiografico considerato generalmente del tutto

benigno, quale la ripolarizzazione precoce, possa in realtà predisporre all’insorgenza di gravi

aritmie ventricolari come già postulato in studi sperimentali (3).

I due lavori, i cui risultati vengono di seguito riportati, sembrano aprire nuovi orizzonti

nell’identificazione, nella gestione e nel trattamento dei soggetti con anomalie genetiche e

predisposizione ad aritmie ventricolari potenzialmente letali.

MATERIALI, METODI E RISULTATI:

Nello studio di Hofman (1) sono stati inclusi 509 parenti di primo grado di 100 probandi affetti

da LQTS, BrS e CPVT risultati positivi per mutazioni familiari.

Gli autori hanno valutato retrospettivamente i dati clinici comprensivi di sintomi, storia

familiare dettagliata di sincopi e/o morte improvvisa e dell’eventuale utilizzo di farmaci e/o

dispositivi medicali. Durante la prima visita veniva registrato un ECG a 12 derivazioni: nei

familiari dei pazienti con LQTS, gli intervalli RR e QT sono stati misurati manualmente nella

derivazione V5 e gli intervalli QT corretti con la formula di Bazett. Dopo la valutazione iniziale, i

Nuove e vecchie sindromi aritmiche ventricolari ereditarie: meccanismi genetici e implicazioni terapeutiche.

Hofman N, Tan HL, Alders M,, et al. Active cascade screening in primary inherited arrhythmia syndromes: does it lead to prophylactic treatment? J Am Coll Cardiol 2010; 55: 2570-6 Haissaguerre M, Derval N, Sacher F, et al.Sudden cardiac arrest associated with early repolarization. N Engl J Med 2008; 358: 2016-23

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portatori di mutazioni venivano avviati ad un work-up clinico addizionale, ad un trattamento

specifico laddove necessario ed al successivo follow-up (almeno annuale).

Lo screening dei familiari affetti da sindromi aritmiche ereditarie, ha portato al riconoscimento

di 509 soggetti con mutazioni di KCNQ1, KCNH2, SCN5A, RYR2 o CASQ2. L’età media risultava

inferiore nei parenti dei soggetti con LQTS e CPVT (rispettivamente 34 ± 22 anni e 31 ± 22

anni) rispetto ai parenti dei pazienti affetti da BrS (48 ± 20 anni).

SINDROME DEL QT LUNGO. In questo gruppo, 199 su 308 (65%) portatori di mutazioni sono stati

trattati e seguiti per un follow-up medio di 69 mesi (range da 6 a 150 mesi). La decisione se

intraprendere un trattamento era basata sulla presenza di sintomi, sulla durata dell’intervallo

QTc (risultato significativamente superiore nei soggetti trattati) (Fig. 1) e sull’anamnesi

familiare; 163 soggetti sono stati trattati solo con farmaci beta-bloccanti; 26 sono stati

sottoposti ad impianto di PM (pazienti con LQTS di tipo 3) e 10 ad impianto di defibrillatore

automatico (questi ultimi a causa di un severo fenotipo: sintomatici nonostante la terapia con

beta-bloccante o parente di primo grado colpito da morte cardiaca improvvisa).

Figura 1

Numero dei soggetti trattati basato sulla durata del QTc. Nel grafico viene indicato il valore della durata del QTc basale in 193 dei 194 soggetti trattati e in 93 su 102 soggetti non trattati. E’ evidente una differenza statisticamente significativa della durata del QTc tra i portatori di mutazioni avviati al

trattamento e quelli non trattati.

Distinguendo poi tra LQTS di tipo 1 (rischio di aritmie prevalentemente durante sforzo fisico),

di tipo 2 (rischio aritmico maggiore durante stress emotivo) e di tipo 3 (rischio aritmico

maggiore durante la notte per prolungamento dell’intervallo QT bradicardia-dipendente), gli

Autori hanno osservato importanti differenze.

Dei 77 soggetti portatori di mutazione per LQT di tipo 1, 47 sono stati trattati: 46 solo con

farmaco beta-bloccante ed 1 con beta-bloccante + impianto di ICD; i rimanenti 30 soggetti non

sono stati avviati ad alcun trattamento specifico (soggetti totalmente asintomatici con

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intervallo QTc < 500 msec, rifiuto del paziente o soggetti con fenotipo assolutamente

normale).

Per quanto riguardava i soggetti risultati positivi per mutazione di LQT di tipo 2, 121 sono stati

trattati: 116 solo con beta-bloccante, 2 con impianto di pacemaker e 3 con impianto di ICD

mentre in 41 di essi non è stato intrapreso alcun provvedimento terapeutico (anche in questo

caso in quanto asintomatici e/o con ECG normale o per rifiuto del paziente).

Dei 68 soggetti con mutazione per LQT tipo 3, 31 sono stati sottoposti a trattamento: in questo

caso solo uno con beta-bloccante, 24 con impianto di PM e 6 con impianto ICD (occorre

ricordare che in questo sottogruppo il rischio aritmico è maggiore nelle ore notturne per un

allungamento del QT bradicardia-dipendente). I rimanenti soggetti non sono stati avviati ad

alcun provvedimento terapeutico (1 paziente aveva rifiutato l’impianto di PM e gli altri

asintomatici con normale ECG o erano stati persi al follow-up).

Durante il follow-up, 6 pazienti sono deceduti: 5 pazienti con LQTS di tipo 2 (1 paziente per

tumore maligno, 1 paziente per infarto miocardico acuto e 3 pazienti per morte cardiaca

improvvisa rispettivamente all’età di 43, 44 e 52 anni; tutti e tre erano in terapia con beta-

bloccante); nel gruppo dei soggetti con LQTS di tipo 3, una sola paziente è deceduta per

morte improvvisa cardiaca all’età di 65 anni; la paziente era portatrice di PM AAI ed era in

terapia con 150 mg/die di metoprololo.

TACHICARDIA VENTRICOLARE POLIMORFA CATECOLAMINERGICA. In questo gruppo su 10 famiglie, 120

parenti sono risultati positivi per mutazioni genetiche. Il follow-up medio dei soggetti trattati è

stato di 60 mesi (range da 18 a 114 mesi); di questi, 85 pazienti sono stati trattati con

farmaco beta-bloccante, un paziente è stato sottoposto anche a impianto di ICD ed un altro è

stato trattato con denervazione simpatica cardiaca. In questi pazienti generalmente è indicata

una terapia profilattica con beta-bloccante in tutti i casi fino a una età avanzata (> 70 anni). I

rimanenti soggetti non sono stati trattati, o sono stati considerati non trattati, per scarsa

compliance alla terapia o perché portatori di mutazione eterozigote con probando invece

omozigote o perché considerati troppo giovani per avviare un trattamento specifico; il follow-

up medio dei pazienti non trattati è stato di 44 mesi (range da 18 a 66) e non si sono osservati

decessi in tale gruppo.

SINDROME DI BRUGADA. Negli 81 soggetti portatori di mutazioni per BrS, 5 sono stati trattati

(follow-up medio 56 mesi, range 30-78 mesi): 4 sono stati sottoposti ad impianto di ICD senza

peraltro ricevere shocks durante il follow-up ed un paziente era già stato sottoposto ad

impianto di PM prima dell’arruolamento per anomalie della conduzione. I 76 pazienti non

trattati sono stati seguiti per un follow-up medio di 40 mesi (range 18-102).

Negli 81 pazienti di questo gruppo non si sono verificati decessi.

Gli Autori concludono che un attento screening genetico nei familiari di pazienti affetti da LQTS,

BrS e CPVT e la successiva valutazione clinica consente di instaurare il trattamento specifico

più indicato in una percentuale significativa di soggetti nonostante tale percentuale sia risultata

ampiamente differente a seconda della sindrome aritmica ventricolare considerata.

Le sindromi di cui sopra, sono caratterizzate da un pattern elettrocardiografico piuttosto

specifico e oramai abbastanza ben noto, quanto meno agli addetti ai lavori.

SINDROME DA RIPOLARIZZAZIONE PRECOCE. Nell’ambito delle alterazioni elettrocardiografiche, la ripolarizzazione precoce è universalmente considerata una variante benigna data anche la sua elevata prevalenza nella popolazione generale stimata intorno all’1-5% (4).

Haissaguerre e Coll (2) hanno esaminato i dati relativi a 206 pazienti (123 uomini e 83 donne,

età media 36 ± 11 anni) con arresto cardiaco da fibrillazione ventricolare idiopatica

resuscitato, per valutare la prevalenza di alterazioni elettrocardiografiche tipo ripolarizzazione

precoce. Quest’ultima veniva definita come un innalzamento del punto J di almeno 1 mm (0.1

mV) dalla linea di base in almeno due derivazioni inferiori (D2, D3, aVF), laterali (D1, aVL e

V4-V6) o entrambe; gli Autori distinguono una forma “slurring” con una lenta transizione dal

complesso QRS al segmento ST ed una forma “notching” con una deflessione positiva del

punto J iscritta nell’ onda S (fig. 2).

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Figura 2

Fig. 2. Esempi di elettrocardiogrammi registrati nella popolazione studiata. Nelle figure sono illustrate i diversi pattern osservati nei pazienti: A) “slurring” nelle derivazioni inferiori; B) “slurring nelle

derivazioni laterali; C) “notching” nelle derivazioni laterali; D) “notching” nelle derivazioni inferiori.

Le derivazioni anteriori precordiali (V1-V3) sono state escluse dall’analisi per evitare

l’inclusione di pazienti con displasia aritmogena del ventricolo destro o sindrome di Brugada. La

fibrillazione ventricolare veniva definita idiopatica in assenza di cardiopatia strutturale

documentata all’ecocardiogramma ed in assenza di coronaropatia. Sono stati esclusi i soggetti

di età > 60 anni per minimizzare il rischio di cardiopatia strutturale subclinica ed i pazienti con

alterazioni ECG suggestive per sindrome del QT lungo, del QT corto o sindrome di Brugada.

Gli Autori hanno anche valutato la prevalenza di alterazioni ECG tipo ripolarizzazione precoce in

412 soggetti sani di controllo.

Sono stati esaminati i seguenti dati clinici: storia di sincopi inspiegate, circostanze in cui si era

manifestata la fibrillazione ventricolare, storia familiare di morte cardiaca improvvisa, livello di

attività fisica e risultato dei test farmacologici e dello studio elettrofisiologico; quest’ultimo

veniva condotto mediante stimolazione ventricolare programmata introducendo fino a 3

extrastimoli da due siti del ventricolo destro. In caso di fibrillazione ventricolare recidivante

nonostante una terapia anti-aritmica specifica, veniva effettuato anche mappaggio

endocavitario ventricolare sinistro ed ablazione trans-catetere mediante radiofrequenza.

Tutti i soggetti sono stati sottoposti ad impianto di defibrillatore automatico e seguiti con un

follow-up almeno semestrale.

Gli Autori hanno osservato alterazioni ECG tipo ripolarizzazione precoce in 64 pazienti (31%)

con fibrillazione ventricolare idiopatica rispetto a 21 soggetti (5%) del gruppo di controllo (P <

0.001); inoltre, l’entità dell’innalzamento del punto J è risultata maggiore nei primi (2.0 ± 0.9

mm vs 1.2 ± 0.4 mm del gruppo di controllo; P < 0.001). I pazienti con arresto cardiaco

resuscitato e alterazioni tipo ripolarizzazione precoce erano più frequentemente di sesso

maschile e più frequentemente presentavano una storia di sincope inspiegata; inoltre in questi

soggetti, la fibrillazione ventricolare si era verificata più frequentemente nelle ore notturne.

In condizioni basali, le alterazioni ECG erano evidenti nelle derivazioni inferiori in 28 soggetti,

nelle derivazioni laterali in 6 soggetti e sia nelle derivazioni inferiori che laterali in 30 pazienti.

Questo pattern era presente in forma isolata o associato ad onde T negative o modesto

sopraslivellamento del tratto ST (orizzontale o con concavità superiore). In 22 soggetti è stato

possibile un confronto con dei tracciati precedenti (registrati mesi o anni prima) e tutti

presentavano gli stessi segni. In 18 pazienti è stato registrato un ECG durante un evento

aritmico (extrasistolia ventricolare frequente o episodi di fibrillazione ventricolare) ed in tutti i

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casi è stato osservato un significativo aumento dell’ampiezza delle alterazioni della

ripolarizzazione (valore medio dell’ampiezza del punto J da 2.6 ± 1 mm in condizioni basali a

4.1 ± 2 mm prima dell’evento; P < 0.001) (fig. 3); nella maggior parte dei casi inoltre,

l’extrasistolia ventricolare presentava un QRS positivo in V1 e V2 ad indicarne un’origine dal

ventricolo sinistro.

Figura 3

Fig. 3. ECG in 3 soggetti con ripolarizzazione precoce e fibrillazione ventricolare. Ogni pannello mostra il primo QRS registrato in condizioni basali (sinistra) ed i successivi registrati prima dell’evento aritmico (destra); è evidente una chiara accentuazione delle alterazioni della ripolarizzazione rispetto al basale. Nel paziente il cui ECG è mostrato nel pannello. A, l’episodio di fibrillazione ventricolare è avvenuto la

notte successiva. Pannello B mostra un battito ectopico ventricolare con asse QRS a sx; un battito ectopico di analoga morfologia ha scatenato qualche ora dopo una grave aritmia ventricolare. Il pannello

C mostra l’inizio di un episodio di fibrillazione ventricolare.

Il test ergometrico o l’infusione di isoproterenolo riduceva significativamente o, in certi casi

eliminava del tutto, la ripolarizzazione precoce; al contrario la somministrazione di farmaci

beta-bloccanti accentuava le anomalie.

Durante valutazione elettrofisiologica, sono stati mappati un totale di 26 pattern ectopici; 16 a

livello del miocardio ventricolare e 10 a livello del tessuto di Purkinje. In 6 soggetti con

alterazioni ECG limitate alle derivazioni inferiori tutte le ectopie originavano dalla parete

ventricolare inferiore, mentre in 2 soggetti con alterazioni diffuse in sede inferiore e laterale i

battiti ectopici originavano da più siti. L’ablazione trans-catetere effettuata in 8 pazienti, ha

consentito di eliminare tutte le ectopie in 5 soggetti risultando inefficace nei restanti 3.

Durante un follow-up medio di 61 ± 50 mesi, le recidive aritmiche erano più frequenti nei

soggetti con ripolarizzazione precoce rispetto ai pazienti senza questo tipo di alterazioni

(rispettivamente 41% vs 23%). I 3 soggetti che manifestavano le alterazioni maggiori

(sopraslivellamento del punto J > 5 mm) avevano presentato più di 50 episodi di fibrillazione

ventricolare con conseguente decesso in un paziente. Gli altri 4 sono statti trattati con

chinidina efficace nel ridurre le alterazioni ECG e nel prevenire le recidive aritmiche.

COMMENTO

I risultati dello studio di Hofman (1) sembrano documentare come una sistematica analisi

genetica dei familiari dei pazienti affetti da sindromi aritmiche ereditarie, consenta di

instaurare un immediato ed adeguato trattamento profilattico in un’ampia percentuale di

soggetti (nello studio 289 su 509, 57%).

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Gli Autori hanno inoltre dimostrato come l’inizio di un provvedimento terapeutico è fortemente

influenzato dal tipo di patologia: rispettivamente 65% e 71% nei soggetti con LQTS e CPVT,

mentre nei pazienti affetti da BrS la percentuale è solo del 6%. Dobbiamo stupirci di questi

risultati?

In realtà, il trattamento dei soggetti con mutazioni genetiche proprie della sindrome di

Brugada può essere molto problematico; infatti, se di solito risulta generalmente abbastanza

facile far accettare l’assunzione di una terapia farmacologica (essenzialmente i beta-bloccanti

nei pazienti con LQTS e CPVT), non altrettanto semplice risulta far accettare ad un soggetto

generalmente giovane ed asintomatico l’impianto di un defibrillatore automatico. A tale

riguardo, i risultati dello studio di Viskin (5) che prevede la randomizzazione dei pazienti

asintomatici affetti da sindrome di Brugada al trattamento con chinidina o con placebo,

potranno rendere meno complessa la scelta terapeutica.

Come ben sottolineato da Schwartz (6) nell’editoriale di commento al lavoro, Hofman e Coll (1)

non hanno in realtà riportato dati particolarmente originali, ma la loro lunga esperienza nel

trattamento di questi pazienti e dei loro familiari, rappresenta un contributo notevole per il

cardiologo che routinariamente non si occupa specificatamente di queste problematiche ma

che può dover affrontare nella pratica quotidiana scelte terapeutiche sicuramente impegnative.

Lo screening genetico sistematico può essere di grande aiuto sia nell’evitare e/o nel trattare

tempestivamente eventi aritmici potenzialmente letali ma anche nell’evitare di trattare, magari

con provvedimenti terapeutici invasivi, soggetti in realtà non portatori di mutazioni genetiche.

Per garantire tutto ciò, è però necessaria l’esatta conoscenza di tutte le mutazioni genetiche

coinvolte nelle varie sindromi aritmiche ereditarie (obbiettivo attualmente ancora piuttosto

lontano) e soprattutto appare indispensabile il riferimento ad istituti di genetica molecolare in

grado di fornire risultati precisi nel minor tempo possibile.

Decisamente più originale è il lavoro di Haissaguerre (2), il quale ha dimostrato come un

aspetto elettrocardiografico che non ha mai destato particolari apprensioni nel cardiologo,

quale la ripolarizzazione precoce, possa in realtà celare un consistente rischio di eventi aritmici

maggiori; infatti, nel suddetto studio ben il 31% dei pazienti con fibrillazione ventricolare

idiopatica presentava questo tipo di alterazioni vs solo il 5% dei soggetti di controllo. Anche

questi dati sono solo apparentemente sorprendenti se si considerano i già citati dati

sperimentali di Gussak (3) che hanno indicato nella ripolarizzazione precoce una forma di

disomogeneità elettrica transmurale che può essere drammaticamente amplificata dall’impiego

di determinate sostanze e/o da alterazioni del tono autonomino o elettrolitiche.

Il legame tra questo apparentemente innocuo pattern elettrocardiografico e il rischio di gravi

aritmie ventricolari sarebbe supportato sia da un aumento delle alterazioni della

ripolarizzazione appena prima dell’evento aritmico, sia dal riscontro elettrofisiologico

dell’origine dei battiti ectopici scatenanti le aritmie maggiori proprio dalle sedi dove all’ECG

sono maggiormente evidenti le alterazioni. Anche in questa condizione, la genetica sembra

avere un ruolo fondamentale; infatti, in questo studio ben 10 pazienti presentavano una storia

familiare di arresto cardiaco. Inoltre, più recentemente lo stesso autore (7) ha riportato il caso

di una giovane paziente con episodi ripetuti di fibrillazione ventricolare idiopatica e con un

aspetto ECG eclatante per ripolarizzazione precoce, in cui l’analisi genetica ha documentato

una rara variante a livello del gene KCNJ8 che codifica la subunità Kir6.1 del canale KATP.

Proprio in tale contesto, l’analisi genetica avrà un ruolo fondamentale al fine di individuare e

discriminare i soggetti veramente a rischio, da quelli (e sembrano non essere pochi) in cui la

ripolarizzazione precoce deve ancora essere considerata una variante elettrocardiografica

benigna.

E a questo punto appare assolutamente appropriata la frase con cui Schwartz (6) apre il suo

editoriale di commento al lavoro di Hofman (1) in cui l’Autore afferma che talora si sente di

invidiare i nostri predecessori in quanto un tempo, quello che veniva appreso durante gli anni

dell’università era destinato a rimanere l’essenza di tutta una vita professionale; oggi invece il

rapido progresso scientifico ci obbliga spesso a rivoluzionare completamente l’approccio ai

nostri pazienti; forse siamo meno fortunati ma sicuramente più stimolati dal punto di vista

intellettuale.

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Bibliografia

1. Hofman N, Tan HL, Alders M, et al. Active cascade screening in primary inherited arrhythmia syndromes. Does it lead to propphylactive treatment?. J Am Coll Cardiol 2010; 55: 2570-6. 2. Haissaguerre M, Derval N, Sacher F, et al. Sudden cardiac arrest associated with early repolarization.

N Engl J Med 2008; 358: 2016-23. 3. Gussak I, Antzelevitch C. Early repolarization syndrome: clinical characteristics and possible cellular and ionic mechanisms. J Electrocardiol 2000; 33:299-309. 4. Klatsky AL, Oehm R, Cooper RA, et al. The early repolarization normal variant electrocardiogram: correlates and consequences. Am J Med 2003; 115: 171-7. 5. Viskin S, Wilde AA, Tan HL, et al. Empiric quinidine therapy for asymptomatic Brugada syndrome: time for a prospective registry. Heart rhythm 2009; 6: 401-4.

6. Schwartz PJ. Cascades or waterfalls, the cataracts of genetic screening are being opened on clinical cardiology. J Am Coll Cardiol 2010; 55:2577-9. 7. Haissaguerre M, Chatel S, Sacher F, et al. Ventricular fibrillation with prominent early repolarization associated with a rare variant of KCNJ8/K atp channel. J Cardiovasc Electrophysiol 2009; 20: 93-8.

Miriam Bortnik

Eraldo Occhetta

Divisione Clinicizzata di Cardiologia AOU Maggiore della Carità-Novara Fax 0321 3733407

e-mail: [email protected]

Screening per aterosclerosi subclinica di soggetti asintomatici: è possibile, è rilevante, è necessario?

I seguenti sono 10 punti da ricordare circa l’argomento:

1. Il 40-60% circa degli eventi aterosclerotici occlusivi maggiori (es infarto miocardico,

morte improvvisa) si verificano come prima manifestazione di malattia, essendo

responsabili di più di 700000 eventi di questo genere ogni anno negli Stati Uniti.

L’identificazione dei soggetti a rischio di questi eventi è ovviamente importante, se

l’identificazione porta all’implementazione ed all’applicazione di misure preventive

efficaci nella prevenzione del rischio.

2. Le linee guida suggeriscono di impiegare il Framingham Risk Score (FRS) come aiuto

per decidere le strategie di prevenzione, ma sono limitate dalla sottostima del rischio

per tutta la vita, dalla classificazione impropria dei soggetti ad elevato rischio in

categorie di rischio basso ed intermedio, e dalla classificazione impropria di soggetti a

rischio molto basso in strati di rischio maggiore. Un numero altamente significativo di

persone a rischio basso ed intermedio hanno aterosclerosi preclinica.

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3. I biomarcatori attualmente disponibili, e specificamente la proteina C reattiva ad alta

sensibilità e la fosfolipasi A2 associata a lipoproteine, forniscono un valore prognostico

aggiunto statisticamente significativo ma clinicamente modesto e, quini, non sono

sufficientemente precisi per migliorare sensibilmente il valore discriminativo del FRS.

4. Le tecniche di imaging non invasivo possono identificare l’aterosclerosi in vari letti

vascolari. Attualmente, le metodiche più estensivamente studiate sono il calcio

coronarico, una misura validata della placca aterosclerotica, con tomografia

computerizzata, e l’ecografia bidimensionale per determinare lo spessore mediointimale

carotideo (CIMT) e le placche carotidee.

5. L’assenza di calcio coronarico (coronary calcium score [CCS]=0), mentre non esclude la

presenza di placche non calcifiche, esclude virtualmente aterosclerosi coronarica

significativa, ma soprattutto è associata, in una popolazione asintomatica, ad un rischio

estremamente basso di eventi cardiovascolari nei successivi 5-10 anni, spaziando dallo

0,0% allo 0,6%. L’assenza di calcio non conferisce un basso rischio di malattia

coronarica in soggetti sintomatici.

6. Un incremento del CIMP (sopra il 75° percentile per età, sesso e razza di un soggetto) è

associato a rischio futuro di eventi cardiovascolari indipendente dai fattori di rischio, e

la presenza di una placca carotidea (più grande del 50% della parete adiacente o

>1,5mm) è più significativa che un semplice incremento del CIMT. CCS sembra avere

un valore prognostico aggiuntivo oltre CIMT, con l’eccezione che lo CIMT è più predittivo

nei confronti degli stroke.

7. Nonostante la mancanza di evidenza da studi clinici randomizzati, la totalità delle

evidenze osservazionali supporta la gestione guidata dall’imaging perché: 1) rilevare le

malattie sembra meglio che limitarsi a identificare i fattori di rischio che hanno soltanto

una modesta specificità ed una relazione altamente variabile con lo sviluppo di malattia;

2) l’imaging può riclassificare soggetti con FRS intermedio o basso in soggetti a rischio

elevato per i quali sarebbero raccomandati una terapia medica più aggressiva e target

di colesterolo più bassi, modificando quindi sensibilmente i benefici; 3) l’identificazione

basata sull’imaging dei soggetti a rischio elevato può migliorare la compliance e

l’aderenza agli interventi di modificazione del rischio.

8. Le linee guida della task force SHAPE (Screening for Heart Attack Prevention and

Education) raccomandano imaging non invasivo della patologia aterosclerotica di tutti

gli uomini asintomatici (età 45-75 anni) e donne (età 55-75 anni), tranne quelli a

rischio molto basso, per migliorare gli algoritmi di valutazione del rischio

cardiovascolare convenzionali. Utilizzando le linee guida SHAPE, tra il 35 ed il 48% dei

soggetti viene posto in una classe di rischio più elevato, rendendoli eleggibili per terapia

ipolipemizzante, e il numero necessario per riclassificare un soggetto come eleggibile (o

non più eleggibile) a terapia ipolipemizzante quindi varierebbe da 4,1 a 7,8, a seconda

della soglia di CCS utilizzata.

9. Gli studi hanno suggerito un buon costo-efficacia per le linee guida SHAPE,

specialmente se calerà il costo rispetto a quello di 400 dollari utilizzato per le analisi e

se la compliance è aumentata come si è visto negli studi osservazionali. Potrebbe

verificarsi un bìpiccolo incremento nel rischio a vita di cancro dall’esposizione mediana a

radiazioni di 2,3mSv.

10. Sebbene non siano disponibili studi randomizzati controllati prospettici per verificare

l’efficacia della valutazione del rischio basata sull’imaging nel migliorare gli outcome

clinici e tali studi andrebbero incoraggiati, l’ampia disponibilità di dati da studi di coorte

osservazionali e longitudinali prospettici supporta l’uso selettivo della valutazione del

rischio basata sull’imaging, specialmente nei gruppi identificati come a rischio

intermedio dal FRS.

Prospettive: il nostro gruppo raccomanda fortemente di sottoporre a screening tutti i soggetti

tranne quelli a rischio molto basso, come da linee guida SHAPE, e consideriamo lo screening

anche per gli uomini più giovani e le donne con un basso colesterolo HDL o familiarità per

malattia coronarica prematura.

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Shah PK, Screening Asymptomatic Subjects for Subclinical Atherosclerosis: Can We, Does It Matter, and Should We?, J Am Coll Cardiol 2010;56:98-105.

Ipertensione 2008 – consapevolezza, comprensione e tratamento di ipertensione precedentemente diagnosticata nei “baby boomers” e negli anziani: una indagine condotta da

Harris Interactive per incarico della “Preventive Cardiovascular Nurses Association”

CONTESTO: In che maniera differiscono i fattori di rischio cardiovascolari (CVD), le relazioni

con il personale sanitario e i tassi di aderenza alla terapia in una coorte di pazienti ipertesi

americani di età compresa tra 44 e 62 anni e quelli di età maggiore o uguale a 63 anni?

METODI: Nel giugno 2008 è stata condotta una indagine ad opera di Harris Interactive su 1548

pazienti ipertesi di età maggiore o uguale a 44 anni, ai quali fu somministrato un questionario

di 124 domande chiuse comprendenti dati demografici, sull’uso di farmaci e l’aderenza al

trattamento e sulle relazioni con il personale sanitario.

RISULTATI: l’indagine ha confermato i risultati di precedenti ricerche, dimostrando tassi di

aderenza subottimali alle raccomandazioni antiipertensive (sia farmacologiche che di stile di

vita), nonostante la consapevolezza dei rischi per la salute associati all’ipertensione non

controllata. L’analisi per gruppi di età (“baby boomers”, età 44-62 anni, e anziani, età

maggiore o uguale a 63 anni) ha rivelato che la non aderenza era più elevata nei “baby

boomers”, sebbene i “boomers” riportavano un livello di preoccupazione maggiore che gli

anziani. Mancanze nella comunicazione sanitario-paziente sembrano contribuire ad una

aderenza subottimale alle raccomandazioni di trattamento.

CONCLUSIONI: l’età del paziente gioca un ruolo importante sia nell’atteggiamento e nel

comportamento riguardo la gestione di una malattia cronica, sia sulle preferenze riguardo il

tipo di materiale informativo ritenuto utile ed il mezzo tramite il quale l’informazione è fornita.

PROSPETTIVE: A causa dell’ampio numero di soggetti nella coorte nati tra il 1946 ed il 1964,

sono raccomandate ulteriori ricerche per valutare le preferenze, le conoscenze e i

comportamenti riguardanti l’identificazione ed il trattamento dell’ipertensione. La comprensione

di questi fattori contribuirà allo sviluppo di strategie potenziali per ottenere l’aderenza al

trattamento.

Miller NH, Berra K, Long J, Hypertension 2008—Awareness, Understanding, and Treatment of Previously Diagnosed Hypertension in Baby Boomers and Seniors: A Survey Conducted by Harris Interactive on Behalf of the Preventive Cardiovascular Nurses Association, J Clin Hypertens 2010;12:328-334.

Effetto di allopurinolo ad alte dosi sulla capacità di esercizio in pazienti con angina stabile cronica

CONTESTO: l’allopurinolo a dosi elevate ha la capacità di prolungare l’esercizio in pazienti con

angina stabile cronica?

METODI: sono stati reclutati in uno studio doppio cieco, randomizzato, controllato con placebo,

di tipo crossover, condotto nel Regno Unito, 65 pazienti (età 18-85 anni) con malattia

coronarica angiograficamente documentata, un test ergometrico positivo e angina stabile

cronica (da almeno due mesi). I pazienti sono stati assegnati ad allopurinolo (settimana 1, 100

mg/die; settimana 2, 300mg/die; quindi 300mg 2 volte/die) o placebo per 6 settimane prima

del crossover. L’endpoint primario era il tempo all’insorgenza di sottoslivellamento ST e gli

endpoint secondari erano la durata totale di esercizio e il tempo di insorgenza di angina

utilizzando un’analisi completa del caso.

RISULTATI: l’età media era di 64 anni e l’83% dei soggetti erano uomini; il 70% erano in

classe II di angina della classificazione CCS (Canadian Cardiovascular Society), il 15% in CCS I

e III; l’84% aveva una malattia di almeno 2 vasi coronarici e l’85% aveva una normale

frazione di eiezione del ventricolo sinistro (LVEF). Trattamenti antianginosi concomitanti: 87%

beta-bloccanti, 58% nitrati, 22% calcio antagonisti, 22% nicorandil. L’allopurinolo aumentava il

tempo mediano al sottoslivellamento ST a 298 secondi (variazione interquartile [IQR] 211-

408) da un valore basale di 232 secondi (182-380) e il placebo lo aumentava a 249 secondi

(200-375; p=0,0002). La stima puntuale (differenza assoluta tra allopurinolo e placebo) era di

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43 secondi (CI 95% 31-58 secondi). L’allopurinolo accresceva il tempo medio di esercizio a

393 secondi (IQR 280-519) da un basale di 301 (251-447) e il placebo lo aumentava a 307

secondi (232-430; p=00003); la stima puntuale era di 58 secondi (CI 95% 45-77).

L’allopurinolo aumentava il tempo di insorgenza di angina da un basale di 234 secondi (IQR

189-382) a 304 secondi (222-421) e il placebo lo aumentava a 272 secondi (200-380;

p=0,001); la stima puntuale era di 38 secondi (CI 95% 17-55). Non sono stati riportati effetti

collaterali del trattamento.

CONCLUSIONI: l’allopurinolo sembra essere un farmaco anti ischemico utile, economico, ben

tollerato e sicuro per i pazienti con angina.

PROSPETTIVE: l’incremento assoluto nel tempo al sottoslivellamento ST con allopurinolo di 43

secondi (ovvero incremento del 10%) è simile a quello dei classici farmaci anti ischemici: 36

secondi (13%) per amlodipina, 60 secondi (11%) per nitrati e circa 50 secondi (15%) per

atenololo e ranolazina. E’ stato dimostrato che inibire la xantina ossidasi con allopurinolo

diminuisce la richiesta miocardica di ossigeno per unità di gittata cardiaca, migliora la funzione

endoteliale e riduce il post-carico; ciascuno di questi fattori può aiutare a spiegare i suoi effetti

anti-ischemici e anti-anginosi. I risultati sono impressionanti alla luce dell’impiego di

b.bloccante nell’87% dei casi. Ovviamente la sicurezza e l’efficacia dell’allopurinolo, in

particolare 600mg/die deve essere valutata in una coorte più ampia. E’ possibile che questo

farmaco generico molto economico possa ridurre la necessità di rivascolarizzazioni, migliori la

qualità di vita e riduca gli eventi cardiovascolari.

Noman A, Ang DS, Ogston S, et al, Effect of High-Dose Allopurinol on Exercise in Patients with Chronic Stable Angina,

Lancet 2010;June 8:[Epub ahead of print].

Statine e mortalità per tutte le cause nella prevenzione primaria del rischio elevato: una metanalisi di 11 studi randomizzati controllati coinvolgenti 65229 partecipanti

CONTESTO: l’impiego di statine in prevenzione primaria riduce la mortalità per tutte le cause?

METODI: è stata condotta una metanalisi di studi randomizzati controllati identificati da ricerca

bibliografica sui database MEDLINE e Cochrane. Gli studi erano stati pubblicati tra il gennaio

1970 ed il maggio 2009. I criteri di inclusione si basavano sul disegno dello studio, che doveva

essere prospettico e randomizzato e con uso di un braccio di controllo. La popolazione dello

studio doveva essere libera da patologia cardiovascolare (CVD) all’inclusione. Dovevano essere

pubblicati o disponibili i dati di mortalità per tutte le cause.

RISULTATI: sono state identificate 1226 citazioni, tra le quali sono stati revisionati 17 lavori

completi e sono stati individuati 11 studi inclusi in questa analisi. Sono stati inclusi 65229

partecipanti in totale; nel corso di 244000 anni-persona di follow-up, si sono verificate 2793

morti. I soggetti provenivano principalmente da Paesi occidentali, con un range di età di 51-75

anni. La proporzione delle donne in questi studi variava da 0 a 68%. Il livello medio di

colesterolo LDL al basale era di 138 mg/dL ed al follow up era di 94 mg/dl per i soggetti

randomizzati a statine. Il follow-up medio era di 3,7 anni. L’uso di statine non era associato a

una riduzione della mortalità per tutte le cause (rischio relativo 0,91; CI 95% 0,83-1,01),

ovvero una stima di 7 morti in meno per ogni 10000 anni-persona di trattamento. Non c’era

evidenza statistica di eterogeneità degli studi.

CONCLUSIONI: gli autori concludono che la terapia con statine non sembra ridurre la mortalità

per tutte le cause in uomini e donne senza storia precedente di CVD e con livelli di colesterolo

LDL solo modicamente aumentati.

PROSPETTIVE: questa metanalisi suggerisce che le statine non conferiscano un beneficio

significativo ai pazienti senza storia precedente di CVD, in particolare in caso di basso rischio.

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Ray KK, Kondapally Seshasai SR, Erqou S, et al, Statins and All-Cause Mortality in High-Risk Primary Prevention: A Meta-Analysis of 11 Randomized Controlled Trials Involving 65,229 Participants, Arch Intern Med 2010;170:1024-1031.

Risultati a 5 anni da angioplastica percutanea con stent medicato (DES) versus bypass aortocoronarico (BPAoC) per malattia di tronco comune non protetto (ULMCA):

l’esperienza milanese

CONTESTO: quali sono i risultati confrontando DES e CABG nel trattamento di ULMCA a 5 anni?

METODI: sono stati analizzati tutti i pazienti consecutivi con ULMCA trattati eletticamente con

DES versus BPAoC tra marzo 2002 e luglio 2004. E’ stata eseguita un’analisi di propensione

per aggiustare le differenze basali tra le due coorti. Sono stati indagati: l’impatto

dell’angioplastica (PCI) sulla mortalità cardiaca, la morte da causa cardiaca o l’nfarto

miocardico (MI), la morte cardiaca, MI o lo stroke, la necessità di rivascolarizzazioni ripetute e

la presenza di MACCE (eventi avversi maggiori cardiaci e cerebrovascolari), sia durante il

ricovero ospedaliero che dopo 5 anni.

RISULTATI: gli autori hanno incluso nello studio 249 pazienti: 107 erano stati trattati con PCI e

DES, 142 con BPAoC. Ad un follow-up clinico di 5 anni non sono state osservate differenze tra

PCI e BPAoC nella frequenza di morte cardiaca (odds ratio aggiustato [OR] 0,502; CI 95%

0,162-1,461; p=0,24). Il gruppo PCI mostrava una tendenza verso una più bassa incidenza

dell’epoint composito di morte cardiaca e MI (OR aggiustato 0,408; CI 95% 0,146-1,061;

p=0,06). La PCI era associata ad un più basso tasso dell’endpoint composito di morte, MI e/o

stroke (OR 0,399; CI 95% 0,151-0,989; p=0,04). Tuttavia, CABG era correlato a minor

rivascolarizzazione del vaso target (OR aggiustato 4,411; CI 95% 1,825-11,371; p=0,0004).

Non sono state rilevate differenze nell’incidenza di MACCE (OR aggiustato 1,578; CI 95%

0,825-3,054 p=0,18).

CONCLUSIONI: gli autori concludono che a 5 anni non c’erano significative differenze nel

verificarsi di MACCE tra la PCI elettiva con impianto di DES ed il BPAOC, per quel che riguarda

ULMCA.

PROSPETTIVE: i rilievi primari di questo studio monocentrico sono che non c’era differenza ad

una mediana di 61,9 mesi nel verificarsi di MACCE tra PCI elettiva con DES e BPAoC per

ULMCA non protetto. Tuttavia il vantaggio del BPAoC è stato confermato dalla minor esigenza

di rivascolarizzazioni ripetute. Una limitazione maggiore dell’analisi che questo è uno studio

osservazionale, e non randomizzato. Sulla base di questi dati incoraggianti, c’è ora una chiara

necessità di uno studio randomizzato prospettico, adeguatamente potenziato per rilevare

differenze in endpoint di malattia cardiaca maggiore a 5-7 anni di follow-up, per valutare il

trattamento di rivascolarizzazione ideale per le lesioni ULMCA. Nella pratica clinica, lo stenting

del tronco comune va considerato solo se il paziente ha condizioni cliniche che predicano un

incremento del rischio di eventi avversi per l’atto chirurgico.

Chieffo A, Magni V, Latib A, et al, 5-Year Outcomes Following Percutaneous Coronary Intervention With Drug-Eluting Stent Implantation Versus Coronary Artery Bypass Graft for Unprotected Left Main Coronary Artery Lesions: The Milan Experience; J Am Coll Cardiol Intv 2010;3:595-601.

Risultati clinici a lungo termine dopo stenting del tronco comune: uno sguardo dai registri RESEARCH (Rapamycin-Eluting Stent Evaluated at Rotterdam Cardiology Hospital) e T-SEARCH (Taxus Stent Evaluated at Rotterdam Cardiology Hospital)

CONTESTO: quali sono gli outcome clinici a lungo termine e i predittori indipendenti di eventi

cardiaci maggiori nei pazienti con malattia coronarica del tronco comune non protetto (ULMCA)

trattati con angioplastica percutanea con stent medicato (DES)?

METODI: 148 pazienti con ULMCA trattata con DES sono stati analizzati e confrontati con una

coorte storica di 79 pazienti che avevano ricevuto stent metallici per il trattamento di ULMCA.

L’endpoint composito orientato al paziente è stato definito come verificarsi di morte per tutte le

cause, qualsiasi infarto miocardico (MI) o qualsiasi rivascolarizzazione.

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RISULTATI: l’incidenza cumulativa a 4 anni di morte per tutte le cause, qualsiasi infarto

miocardico, qualsiasi rivascolarizzazione e dell’endpoint composito erano 35,6%, 3,8%, 25,2%

e 54,4% rispettivamente. Questi endpoint erano aumentati da 1 a 4 anni di Δ70%, Δ5%,

Δ50% e Δ68% rispettivamente. Quando confrontati con la coorte storica trattata con sent

metallici per trattamento di ULMCA, le analisi eseguite dopo i primi 2 anni di follow-up hanno

dimostrato che la coorte DES aveva un endpoint composito significativamente più elevato

lungo gli ultimi 2 anni di follow-up (6% vs 8%, p=0,02). L’Euro SCORE (European System for

Cardiac Operative Risk Evaluation), lo shock cardiogeno e lo score SYNTAX sono stati

identificati come predittori indipendenti per l’endpoint composito a anni, mentre l’angolo di

biforcazione non lo era.

CONCLUSIONI: gli autori concludono che un incremento tardivo nell’endpoint composito dopo

impianto di DES per ULMCA richiede un follow-up attento e prolungato.

PROSPETTIVE: il risultato principale di questo studio è che a 4 anni di follow-up dall’impianto di

DES per ULMCA l’endpoint composito era del 51,4% con un incremento relativo di eventi del

58% dal 1° al 4° anno. L’endpoint orientato al paziente considera specificamente il benessere

del paziente e include la morte per tutte le cause, qualsiasi MI e qualsiasi rivascolarizzazione.

L’incremento tardivo degli eventi avversi fino a 4 anni richiede un follow-up accurato dei

pazienti che ricevono un DES sul tronco comune. Per ora i clinici dovrebbero attenersi alle linee

guida dell’American College of Cardiology/American Heart Association, che affermano che la

presenza di una stenosi del tronco comune è una indicazione di classe IIb a PTCA a meno che il

paziente abbia condizioni cliniche che predicano un rischio incrementato di cattivo outcome

chirurgico.

Onuma Y, Girasis C, Piazza N, et al, Long-Term Clinical Results Following Stenting of the Left Main Stem: Insights From RESEARCH (Rapamycin-Eluting Stent Evaluated at Rotterdam Cardiology Hospital) and T-SEARCH (Taxus-Stent Evaluated at Rotterdam Cardiology Hospital) Registries, J Am Coll Cardiol Intv 2010;3:584-594.

Impianto trans-catetere di valvola aortica per pazienti a elevato rischio con stenosi aortica severa: una revisione sistematica

CONTESTO: qual è la sicurezza e l’efficacia clinica dell’impianto trans catetere di valvola aortica

per pazienti ad elevato rischio chirurgico con stenosi aortica severa?

METODI: sono state eseguite ricerche elettroniche in 6 database da gennaio 2000 a marzo

2009. Gli endpoint comprendevano fattibilità, sicurezza, efficacia e durata. L’efficacia clinica è

stata sintetizzata attraverso una revisione narrativa con tabulazione completa dei risultati di

tutti gli studi inclusi.

RISULTATI: l’evidenza corrente sull’impianto transcatetere di valvola aortica per stenosi aortica

è limitato a studi osservazionali di breve termine. Il tasso di successo procedurale complessivo

varia dal 74 al 100%. L’incidenza di eventi avversi maggiori comprende mortalità a 30 giorni

(0-25%), tachiaritmie ventricolari maggiori (0-4%), infarto miocardico (0-15%),

tamponamento cardiaco (2-10%), stroke (0-10%), passaggio a chirurgia (0-8%), insufficienza

paravalvolare da moderato a maggiore (4-35%), complicanze vascolari (8-17%), procedure

valvola-in-valvola (2-12%) e dissezione/perforazione aortica (0-4%). Gli eventi avversi

maggiori cardiovascolari e cerebrali complessivi a 30 giorni variavano dal 3% al 35%. L’area

valvolare aortica media variava da 0,5 0,8 cm2 prima e da 1,3 a 2,0 cm2 dopo l’impianto

transcatetere di valvola aortica. Il gradiente pressorio medio variava da 34 a 58 mmHg prima

a 3-12 mmHg dopo l’impianto transcatetere. Non c’era significativo deterioramento delle

misure ecocardiografiche durante il periodo di valutazione. Il tasso di morte a 6 mesi dopo la

procedura variava dal 18 al 48%. Nessuno studio aveva un follow-up adeguato per valutare in

maniera affidabile i risultati a lungo termine.

CONCLUSIONI: gli autori concludevano che l’uso dell’impianto transcatetere di valvola aortica

dovrebbe essere considerato soltanto all’interno dei confini degli studi clinici.

PROSPETTIVE: questa revisione sistematica basata sulle serie osservazionali disponibili ha

dimostrato che sebbene i tassi di succeso dell’impianto transcatetere di valvola aortica varino

dal 74 al 100%, esiste un potenziale per complicanze severe connesso alla procedura.Va

notato che gli out come procedurali e a breve termine sembrano in miglioramento negli studi

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recenti, con un crescente numero di pazienti.In questo momento l’impiego dell’impianto

transcatetere di valvola aortica dovrebbe essere considerato solo nei confini degli studi clinici

con accordi speciali riguardo la regolamentazione clinica, il consenso e la valutazione. Lo studio

randomizzato in corso (PARTNER US, Placement of AoRTic TraNscathetER Valve Trial in the

U.S.) che confronta l’impianto transcatetere di valvola aortica con la sostituzione valvolare in

pazienti ad elevato rischio chirurgico dovrebbe fornire ulteriori evidenze circa l’efficacia clinica

e la sicurezza dell’impianto transcatetere di valvola aortica.

Yan TD, Cao C, Martens-Nielsen J, et al, Transcatheter Aortic Valve Implantation for High-Risk Patients With Severe Aortic Stenosis: A Systematic Review, J Thorac Cardiovasc Surg 2010;139:1519-1528.

Malattie cardiovascolari infitrative che simulano le cardiomiopatie ipertrofiche o dilatative

Le malattie cardiovascolari infiltrative sono caratterizzate dalla deposizione di sostanze

anormali che rendono le pareti ventricolari progressivamente più rigide, impedendo quindi il

riempimento ventricolare. Alcune malattie infiltrative cardiache aumentano lo spessore della

parete ventricolare (Tabella 1), mentre altre causano allargamento delle camere con

assottigliamento secondario delle pareti (Tabella 2).(1)

L'aumentato ispessimento delle pareti ventricolari, il piccolo volume ventricolare, e sporadiche

ostruzioni dinamiche del tratto di deflusso ventricolare sinistro (amiloidosi) possono

apparentemente risultare simili a condizioni con vera ipertrofia dei miociti (cardiomiopatia

ipertrofica, cardiopatia ipertensiva). Similmente, malattie infiltrative che si presentano con un

ventricolo sinistro dilatato, con alterazioni della cinetica parietale globale o regionale e

formazione di aneurisma (sarcoidosi) possono simulare una cardiomiopatia ischemica.

Complessi QRS di basso voltaggio sono il sine qua non di cardiomiopatie infiltrative (amiloide

cardiaca). Tuttavia, il basso voltaggio del complesso QRS non è un reperto uniforme delle

cardiomiopatie infiltrative.

La presentazione clinica, unita ad aspetti funzionali e morfologici, spesso fornisce informazioni

sufficienti per formulare un'ipotesi diagnostica. Tuttavia, in gran parte delle situazioni è

necessaria una valutazione del tessuto miocardico (biopsia) o sierologica per definire o chiarire

la diagnosi cardiaca e istituire terapia appropriata.

Tabella 1 Malattie cardiovascolari infiltrative che si presentano con massa aumentata del VS e pareti ventricolari ispessite

Condizione Età alla

presentazione

Storia e

Presentazione clinica

Ecocardiografia Profilo ECG CMR LGE Diagnosi e reperto

bioptico

Amiloidosi cardiaca

> 30 anni Sintomi di scompenso cardiaco congestizio, ipotensione, ostruzione

Aumento simmetrico di spessore delle pareti VS e VD, AS e AD dilatati,

Voltaggio complessi QRS normale (30-50%) o diminuito, aritmie, blocco

Globale, diffusa, pronunciata nel subendocardio, pareti

Atrofia dei miociti, amiloide interstiziale sostituisce normale tessuto cardiaco

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dinamica deflusso ventricolare, sindrome nefrosica neuropatia periferica idiopatica, epatomegalia inspiegabile

ispessimento

muscoli papillari, e lembi valvolari, aspetto granulare del miocardio, versamento pericardico, FE diminuita nei casi avanzati

della conduzione, attivazione dissncrons da deposito di amiloide, pseudo infarto nelle derivazioni inferolaterali

VD e VS

Malattia di Fabry

Maschi: 11 ± 7 anni femmine: 23 ± 16 anni Affettti i maschi riconosciuta nell’infanzia, ma

coinvolgimento cardiaco si manifesta a 30-40 anni

Malattia autosomica recessiva legata al cromosoma X, dovuta a mancanza di enzima lisosomiale, -galattosidasi A, che demolisce glicosfingolipidi neutri. Sintomi: Dolore neuropatico, sudorazione compromessa, eruzioni cutanee

aumento simmetrico spessore della parete in VS e VD, normale FE

Voltaggio normale o aumentato dei complessi QRS, intervallo PR breve o prolungato

Focale, parete media, parete inferolaterale

Accumulo intracellulare entro lisosomi di ceramide trisesossido primariamente nella pelle, reni, e cuore; miociti ingranditi con accumuli di glicolipide concentrico (corpi mielinici) Terapia con enzima sostitutivo ha ridotto spessore pareti VS e migliorato funzione myocardica regionale, ma non

si conosce suo

effetto su sopravvivenza

Malattia di Danon

Raro disordine legata a X, dovuta a deficienza primaria di una proteina di membran

a

Insufficienza cardiaca, miopatia muscoli scheletrici, ritardo mentale

VS molto ispessito (20-60 mm), VD può o non può essere ispessito, FE diminuita

Voltaggio complessi QRS normale o aumentato, intervallo PR breve (onda delta)

Subendocardico non corrisponde al territorio di perfusione

Vacuolizzazione del sarcoplasma, deposito focale di materiale PAS-positivo, disordine miofibrillare

Atassia di Friedreich

25 anni (range 2-51 anni)

Andatura anormale Aumento di spessore della parete posteriore e del setto VS, Fe normale

Voltaggio normale complessi QRS, tachicardia ventricolare

Aspecifica

Ossalosi Cardiaca

> 20 anni urolitiasi e nefrocalcinosi giovanile

Aumento simmetrico di spessore della parete in Vs e VD; riflessione irregolare ecodense maculata; FE normale

Voltaggio complessi QRS aumento o normale, blocco cardiaco completo

Aumentata attenuazione del miocardio alla TC

Deposizione di cristalli di ossalato intra ed extracellulare senza concomitante infiammazione e necrosi

Mucopolisaccaridosi

Errori congeniti di metabolismodovuti a deficienze di enzimi

Variabile a seconda del sottotipo, grossolane caratteristiche facciali, ritardo dello sviluppo mentale, deformità scheletriche,

Precoce ipertrofia asimmetrica del setto seguita da importante ispessimentovalvolare, diffuso restringimento

Aumento o diminuzione di voltaggio dei complessi QRS, aritmia ventricolare maligna

Terapia con surrogate di enzyme, e trapianto di midollo osseo ha migliorato strutture e

Gonfiore di miociti con citoplasma chiaro causato da accumulo di mucopolisaccaridi nei lisosomi, eccesso di mucopolisaccaridi

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lisosomiali che degradano glicosaminoglicani. Età:1-24 anni (mediana, 10 anni)

opacità corneale, epato-splenomegalia

coronarico, ispessimentomiocardico e secondaria ipertensione polmonare, stenosi o insufficienza valvolare mitralica e/o aortica, FE normale

funzione cardiaca Morte precoce dovuta a complicazioni

cardiovascolari.

escreti nelle urine

Diagnosi differenziale

Cardiomiopatia ipertrofica

17-18 anni

Può essere asintomatica, dispnea, angina, sincope, morte improvvisa

Ipertrofia asimmetrica, piccola cavità e ostruzione tratto di deflusso VS, FE normale

Aumento di voltaggio complessi QRS, onda pseudo-delta, inversione dell'onda T gigante

Maculato, parete media, incrocio del setto ventricolare e VD

Ipertrofia dei miociti, disordine miofibrillare e fibrosi interstiziale

Cardiopatia ipertensiva

Adulti Storia di ipertensione

Aumento simmetrico dello spessore della parete di VS, lieve dilatazione VS, normale FE

Aumento del complesso QRS, modifiche non specifiche di ST e onda T

Nessun modello, prevalentemente subendocardica

miociti ingranditi con i nuclei allargati o replicati

CMR = risonanza magnetica cardiaca; CT = tomografia computerizzata; ECG =

elettrocardiogramma; FE = frazione di eiezione; AS = atrio sinistro; LGE = valorizzazione tardo

gadolinio; VS = ventricolo sinistro; LVOT = tratto di efflusso del ventricolo sinistro; AD atrio

destro =; VD = ventricolo destro.

Tabella 2 Malattie cardiovascolari infiltrative con VS dilatato e modello infartuale

Condizione Età alla presentazione

Storia Ecocardiografia bidimensionale

ECG CMR LGE Biopsia cardiaca

Sarcoidosi Giovani

adulti Malattia granulomatosa tende a colpire setto basale,

nodo AV e fascio

di His, regioni focali nelle pareti ventricolari libere, e muscoli papillari.

Insufficienza cardiaca congestizia.

Caratteristiche variano con attività e includono ispessimento parietale(>13 mm) dovuto a espansione

granulomatosa e pareti sottili (<7 mm) dovute a fibrosi. Con retrazione cicatriziale sviluppo di, aneurismi VS, specie dopo terapia con corticosteroidi. Ipocinesie focali, o globale,camere ventricolari normali o dilatate. Funzione sistolica normale o ridotta. Ispessimento uniforme di endocardio atriale sinistro e destro. Le discinesie segmentarie non corrispondono a particolare distribuzione coronarica

Blocco infrahisiano, aspetto d'infarto atipico

A chiazze, basale e pareti laterali VS

Granuloma non caseoso di cellule giganti

polinucleate circondato da banda di dense fibre collagene

Malattia di Wegener

Giovani adulti

Infezioni croniche delle vie respiratorie superiori e inferiori.

Ipocinesia regionale, versamento pericardico, lieve IM, disfunzione sistolica VS. Sarcoidosi cardiaca è sospettata se

FA, blocco AV, aspetto d'infarto atipico

Diffuse, parete media

Vasculite con infiammazione granulomat

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Glicocorticosteroidi e

ciclofosfamide remangono la terapia standard per indurre remissione.

discinesie regionali sono rilevate in pazienti

relativamente giovani asintomatici con bassi profili di rishio cardiovascolare non sono confinate a territori di arteria coronarica specifica

osa necrotizzante

Emocromatosi

Emocromatosi ereditaria:> 30 anni negli uomini, età superiore nelle donne; emocromatosi seconda

ria: tutte le età

Emocromatosi ereditaria: alterazioni della funzionalità epatica, debolezza e letargia, iperpigmentazione cutanea, diabete mellito, artralgia, impotenza negli uomini; emocromatosi

secondaria: anemia emolitica, trasfusioni multiple

VS dilatato con disfunzione sistolica globale

Voltaggio e durata dei complessi QRS sono preservati

per l’assenza di marcata fibrosi, miociti cardiaci preservati e le proprietà non

conduttive del ferro; aritmie sopraventricolari, rara anormalità di conduzione ventricolare

La RMC può identificare e

quantificare l’infiltrazione miocardica do ferro usando l’immagine cardiovas

colare T2

depositi di ferro nei miociti

Diagnosi differenziale

Cardiomiopatia ischemica

Adulto Malattia coronarica, scompenso cardiaco congestizio

VS dilatato, ipocinesia regionale corrispondente al territorio di perfusione, riduzione della funzione sistolica

Complessi prematuri ventricolari multiformi, tachicardia ventricolare non sostenuta

Subendocardico, diversi gradi di estensione transmurale, corrisponde al territorio di perfusione

Cardiomiopatia dilatativa idiopatica

Adulto L'insufficienza cardiaca congestizia, nessuna malattia cardiovascolare nota

VS dilatato con disfunzione sistolica globale

Fibrillazione atriale

No LGE, o se presenti, parete media e a chiazze

IM = insufficienza mitralica; FA = fibrillazione atriale; RMC = risonanza magnetica cardiaca;

altre abbreviazioni come nella tabella 1.

Valutazione della Funzione Cardiaca

Malettie infiltrative del cuore sono generalmente caratterizzate da progressiva disfunzione

diastolica, che tipicamente precede lo sviluppo di una chiara disfunzione sistolica. Benché

l'aumentata massa miocardica sia caratteristica di gran parte delle malattie infiltrative, la

quantificazione della massa non costituisce in genere un importante criterio di sopravvivenza.

L'ecocardiografia Doppler ha semplificato la misurazione della fisiologia diastolica e del

rimodellamento atriale, che sono da considerare come i segni distintivi dei processi patologici

restrittivi. La migliore definizione della cronicità della disfunzione diastolica è espressa dalla

depressione Doppler della velocità di rilasciamento miocardico (anello mitralico, precoce

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influsso mitralico, velocità tessutale) e dall'aumentato indice del volume atriale sinistro (1). La

disfunzione sistolica è in genere misurata da una diminuzione della frazione di eiezione o

dall'immagine Doppler della velocità sistolica miocardica Fig 1 (2).

Figura 1. (A) Rappresenta la corretta posizione del campionamento del volume campione per ottenere l'immagine Doppler del Tessuto (TDI) (pallino nero a livello della valvola mitralica). (B) Immagine

Doppler tipica (TDI) che mostra l'onda della velocità sistolica dell'anello mitralico (Sm) e il tracciato dell'elettrocardiogramma (ECG). Sm è il secondo picco negativo dell'onda del movimento sistolico della

parete dopo il complesso QRS dell'ECG.

Il ruolo della tomografia computerizzata e della risonanza magnetica cardiaca (RMC) e

valorizzazione tardo gadolinio (LGE) non sono state studiate in modo adeguato da fornire

informazione aggiuntiva nella valutazione del rischio nelle cardiomiopatie infiltrative. Tuttavia,

RMC e LGE permettono di esaminare strutture, funzioni e caratteristiche dei tessuti cardiaci.

Gadolinio causa iperinnalzamento magnetico nelle situazioni in cui lo spazio extracellulare è

espanso (i.e., necrosi dei miociti, edema miocardico, formazione di cicatrice, e infiltrazione di

proteine) (3,4). RMC è stata impiegata per caratterizzare il tipo di malattia infiltrativa; dalla

localizzazione e distribuzione di LGE è stato possibile una valutazione della attività della

malattia e la risposta alla terapia.

Considerazioni Elettrofisiologiche.

Ẻ importante sottolineare che l'ispessimento della parete ventricolare non è invariabilmente un

indicatore certo di ipertrofia. Le malattie infiltrative, con accumulo di sostanze anormali entro i

miociti o nell'interstizio miocardico, possono causare aumentato spessore della parete senza

effettiva ipertrofia di miociti. Ne consegue anche che l'aumentato spessore della parete non è

costantemente correlato con un incremento in ampiezza del complesso QRS. Infatti, l'ampiezza

del complesso QRS può decrescere (basso voltaggio), fenomeno più comunemente rilevato con

accumuli nell'interstizio che nei miociti. L'assenza di un aumento di voltaggio

nell'elettrocardiogramma nonostante l'apparenza "d'ipertrofia" può essere il primo indizio con

certe malattie infiltrative (es., amiloide cardiaca, atassia di Friedreich). Tuttavia, un basso

voltaggio del complesso QRS non è un reperto costante nelle cardiomiopatie infiltrative. Alcune

miopatie infiltrative presentano aumento di voltaggio (es., malattie di Danon e di Fabry),

quando si verifica un aumento nella dimensione di miociti cardiaci, normale conduzione

intraventricolare, e attivazione simultanea in tutto il miocardio (Tabella 1).

Prova genetica

L'importanza del test genetico per la distinzione di fenocopie di ipertrofia ventricolare sinistra è

evidente nei casi in cui i dati clinici o ecocardiografici siano non conclusivi. La prova genetica è

attualmente su una base clinica per parecchi dei geni responsabili di cardiomiopatie. Tuttavia,

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presenta le sue limitazioni e non pochi dubbi. La sensibilità è bassa, e può esservi più di 1

variante genetica in un paziente colpito o in una singola famiglia. Altri dubbi in una valutazione

genetica, specialmente nei bambini, includono la penetranza dipendente dall'età, la gestione

dei bambini asintomatici, gli effetti psicologici del test sui minori asintomatici, e la spesa (5,6).

Principi generali di trattamento

Fino a poco tempo fa la maggior parte delle malattie infiltrative erano considerate irreversibili,

ed erano disponibili soltanto provvedimenti di supporto. Il trattamento generale consiste nel

migliorare la funzione diastolica con i bloccanti i recettori dell'angiotensina e gli inibitori

dell'enzima convertente l'angiotensina. Beta-bloccanti e statine, che sono conosciute per

essere utili nel trattamento dello scompenso cardiaco, possono essere di giovamento.

L'ipertensione sistolica e il sovraccarico manifesto di liquidi possono giustificare il cauto impiego

di diuretici tiazidici. Si dovrebbe evitare una diuresi eccessiva o protratta (es., usando diuretici

dell'ansa) in presenza d'ipovolemia e piccole cavità ventricolari, non distensibili.

Amiloidosi cardiaca è il prototipo delle malattie infiltrative del cuore con aumentato ispessimento

delle pareti nei due ventricoli (Fig. 2). Il coinvolgimento cardiaco è comune in tutte le forme di

amiloidosi (Tab. 1) ed è la causa più frequente di morbidità e mortalità. La distensibilità del VS

diminuisce gradualmente come progredisce il deposito miocardico di fibrille di amiloide (8). La

disfunzione diastolica è progressiva e generale. La disfunzione sistolica è tipicamente evidente

soltanto negli stadi avanzati. (tab. 1). La diagnosi differenziale riguarda le altre malattie

cardiache con aumento della massa miocardica ventricolare il cui ecocardiogramma è mostrato

nella fig. 3.

Figura 2 Reperto autoptico di due cuori (visti sul piano trasversale o asse corto) che mostrano marcato ispessimento delle pareti del ventricolo sinistro.

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(A) Amiloidosi; (B) cardiomiopatia ipertrofica. Clinicamente, entrambi i cuori erano caratterizzati da disfunzione diastolica. Senza ulteriori informazioni (come ad esempio biopsia endomiocardica e reperto elettrocardiografico), queste due condizioni possono imitare strettamente l'una l'altra.

Figura 3 Condizioni che mostrano aumento della massa ventricolare sinistra e pareti ventricolari ispessite

(A) Cardiomiopatia ipertrofica non ostruttiva. (B) Cardiopatia ipertensiva con insufficienza renale secondaria. (C) Amiloidosi cardiaca. (D) Mucopolisaccaridosi. (E) Oxalosi cardiaca. (F) Atassia di Friedreich. (vedi tab.1 per descrizione di ciascuna forma e diagnosi differenziale)

L'ecocardiografia Doppler è usata per stabilire e monitorare l'ampiezza della disfunzione

diastolica e sistolica.

L'amiloidosi cardiaca è diagnosticata o direttamente con biopsia endomiocardica o

indirettamente usando mezzi diagnostici non invasivi (ecocardiografia bidimensionale,

risonanza magnetica, ECG) e conferma istologica di amiloide in campioni di tessuto non

cardiaco. L'immediata terapia è raccomandata negli stadi iniziali della amiloidosi primaria per

arrestare o invertire la disfunzione cardiaca, con risultati che possono essere straordinari come

descritto nella Fig. 4. Negli stadi avanzati la scarsa riserva cardiaca limita fortemente le

strategie d'intervento. Pazienti non trattati presentano una sopravvivenza mediana <6 mesi

dopo l'inizio dello scompenso cardiaco. La terapia di elezione per l'amiloidosi AL (derivazione

amiloide da catene leggere immunoglobuliniche) prevede l'autotrapianto di cellule staminali del

sangue periferico e il trattamento con il chemioterapico "melphalan" e desametasone (agenti

immunomodulanti), ad alte dosi per i pazienti non eleggibili all'autotrapianto. In particolare,

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l'associazione di melphalan e desametasone ad alte dosi, si è mostrata in grado di ottenere

una risposta nel 67% dei 36 pazienti trattati e la scomparsa della componente monoclonale nel

siero e nelle urine all'immunofissazione nel 22% dei casi in un tempo mediano di 4 mesi

(Merlini e coll. Blood 2002; 100: abstract #1544).

Figure 4 Risposta Straordinaria al Trattamento

(A) Amiloidosi cardiaca. Ecocardiogramma di una donna di 37anni in classe funzionale IV New York Heart Association. Pareti del ventricolo sinistro e del ventricolo destro sono ispessite con piccolo versamento pericardico e disfunzione diastolica di grado 3. Cinque anni dopo il trapianto di cellule staminali, le pareti di VS e VD sono normali, non vi è versamento pericardico, e funzione diastolica è normale. Il paziente è ora in classe funzionale I New York Heart Association. (B) Emocromatosi. Ecocardiogramma di una donna di 55 anni che presentava dispnea e stanchezza. Il ventricolo sinistro è dilatato, con grave disfunzione sistolica (frazione di eiezione = 16%). Sei anni dopo ripetuti salassi terapeutici, cavità del VS diminuita in ampiezza, e migliorata funzione sistolica (frazione di eiezione = 69%).

L’emocromatosi può dipendere o da un difetto genetico (emocromatosi ereditaria) o da cause

secondarie (emocromatosi secondaria) (2). La forma ereditaria è una malattia

dell’immagazzinamento del ferro caratterizzata dall’eccessivo accumulo di ferro nelle cellule di

vari organi interni. L’emocromatosi secondaria è causata da un disordinato sovraccarico di

ferro

Il cuore emocromatosico (cuore di ferro) è debole ed è caratterizzto da disfunzione sistolica.

Raramente è dominante una disfunzione diastolica. L’ecocardiografia bidimensionale può non

riuscire a differenziare l’emocromatosi cardiaca dalla cardiomiopatia idiopatica dilatativa (Fig.

4). La biopsia del fegato permette di dimostrare in modo inequivocabile il sovraccarico di ferro (3). Con il coinvolgimento funzionale cardiaco, è dimostrabile ferro sarcoplasmico colorabile nel

tessuto endomiocardico ventricolare destro ottenuto con prelievo bioptico; normalmente, non è

presente nel cuore ferro colorabile. Ẻ stato dimostrato che si possono invertire le alterazioni

cardiache da sovraccarico di ferro o interrompendo la ripetizione di molte trasfusioni di sangue,

o con salassi e terapia chelante (4) (Fig. 4). Alcuni pazienti possono richiedere il trapianto

combinato di fegato e cuore.

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(P.R.)

La prima questione, "l'indisponibilità della vita umana" si colloca in un ampio e ricco dibattito

che trova il suo caposaldo nel "divieto di uccidere".

La seconda questione, "amore alla vita umana", pur ricollegandosi alla prima, entra nel

dibattito sull'eutanasia e sul suicidio assistito.

L’indisponibilità o disponibilità della vita umana sollecita la riflessione su due diversi piani:

quello del “come” vivere e quello del “se” vivere. In entrambi i casi si pone il rapporto tra

l'autonomia delle nostre scelte e ogni relazione che stabiliamo con l'altro da me. Nel "come"

vivere, non vi è dubbio, gli spazi di disposizione di se stessi sono sicuramente molto ampi. Il

secondo profilo del "se" vivere si chiede se risponde a giustizia la libertà di scegliere la morte

come diritto umano essenziale. L’ambito della riflessione riguarda, dunque, il principio “non

uccidere”, posto alla base di tutti gli ordinamenti giuridici moderni e democratici. Esso ha, nel

mondo del diritto, una precisa collocazione: quella della relazione tra soggetti e un puntuale

significato: non si può disporre della vita umana nel senso di cagionare la morte.

La questione del suicidio tout court, non rientra in questa riflessione poiché nell’atto del darsi la

morte, il soggetto si autoesclude dalla dinamica della relazione con gli altri.

Invece, il “non cagionare la morte” può essere esaminato nel contesto giuridico delle relazioni

tra soggetti e cioè: la vita umana è indisponibile solo quando il soggetto non si esprime o

addirittura non vuole la morte? Oppure lo è anche quando il soggetto esprime la volontà di

porre fine alla propria vita e chiede che altri adempiano tale volontà?

La valutazione sulla disponibilità o indisponibilità della vita cambia in base alla valutazione del

soggetto riguardo alla propria stessa vita? La sostanza del gesto che cagiona la morte altrui

Medicina e Moralea cura di

Paolo Rossi

Indisponibilità della - e - amore alla vita umana

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muta per il fatto che sia il “soggetto interessato” a volere per la propria morte chiedendo ad un

terzo di infliggergliela?

Non sfuggono certo a questi interrogativi le complessità presenti nell’ambito bioetico relativo al

“fine vita”, non ultima quella riguardante il cd. “accanimento terapeutico” il cui divieto –

unanimemente riconosciuto – implica la distinzione non sempre facile tra “accettare” la morte

quale limite insuperabile dell’esistenza e “cagionare” la morte che, invece, riguarda il “non

uccidere”.

Sull’indisponibilit{ della vita altrui

Uno dei fenomeni che più aiutano la riflessione nel senso dell'indisponibilità è il cammino,

ancora in corso e avviato in tempi recenti, verso l’abolizione della pena capitale.1 Ne è prova

tangibile la richiesta di moratoria delle esecuzioni capitali proveniente dall’Assemblea Generale

delle Nazioni Unite nel 2007 2 e nel 2008 3 e sostenuta con tre risoluzioni dal Parlamento

Europeo.4

In Italia, la definitiva messa al bando della pena di morte prevista in origine dalla Costituzione

(art. 27) è avvenuto grazie alla Legge ordinaria n. 589 del 13 ottobre 1994 (che ha abolito la

pena capitale sostituendola con l’ergastolo) e alla Legge costituzionale n. 1 del 2 ottobre 2007

(che ha introdotto definitivamente il divieto assoluto di utilizzare la pena di morte

nell’ordinamento penale italiano).5 Nel dibattito su tale pena estrema – che a lungo è stata la

sanzione per eccellenza nei confronti di comportamenti criminosi – sono proposti anche

argomenti di carattere pratico tra i quali i più incisivi a favore del divieto sembrano quelli della

possibilità di errore giudiziario e dell'impossibilità dell'emenda da parte del condannato.6

L’argomento decisivo è costituito dalla dignità umana inalienabile, indistruttibile, inerente al

vivere umano in qualsiasi condizione esso venga a trovarsi, anche in mancanza di qualsiasi

altro elemento che arricchisca l’esistenza. In particolare, il Parlamento Europeo, nella

Risoluzione sull’iniziativa a favore della moratoria universale in materia di pena di morte

(Bruxelles, 1 febbraio 2007) “ribadisce la sua antica posizione contro la pena di morte in tutti i

casi e in tutte le circostanze ed esprime ancora una volta il proprio convincimento secondo il

quale l’abolizione della pena di morte contribuisce a rafforzare la dignità umana e il progressivo

sviluppo dei diritti dell’uomo”; i partecipanti all’Assemblea dell’ONU, nella Risoluzione del 2007,

affermano: “l’uso della pena di morte mina la dignità umana” e si dichiarano “convinti del fatto

che una moratoria sulla pena di morte contribuisca al miglioramento e al progressivo sviluppo

dei diritti umani”. La Corte Costituzionale italiana con sentenza n. 223 del 1996, 7 ha affermato

che: “Il divieto della pena di morte ha un rilievo del tutto particolare (…) configurandosi nel

sistema costituzionale quale proiezione della garanzia accordata al bene fondamentale della

vita, che è il primo dei diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti dall’art. 2”.

Incongruenze giuridiche al principio "non uccidere"

Può, dunque, dirsi che in generale la coscienza moderna ha intrapreso un percorso volto a

riconoscere il valore della vita altrui tanto da ridurre al massimo gli spazi in cui è

giuridicamente tollerabile il cagionare la morte e in ogni caso (si pensi alle scriminanti della

legittima difesa e dello stato di necessità) (rispettivamente agli artt. 52 e 54 del Codice penale

italiano). La ragione che giustifica l’uccisione altrui resta comunque la salvaguardia del bene

vita proprio o di un terzo (minacciato da un’ingiusta aggressione o esposto a un pericolo

attuale, non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, di un danno grave alla persona).

Non si nega, cioè, l’indisponibilità della vita umana, non a caso – infatti – la proporzione tra

1 SALACUNI G. Il cammino verso l’abolizione della pena di morte. L’Indice penale 2009;1: 7-35. 2 GENERAL ASSEMBLY. Resolution 62/149 Moratorium on the use of the death penalty. (18.12.2007); PLASTINA N. Dicembre 2007: le Nazioni Unite approvano la risoluzione per la moratoria universale della pena di morte. I diritti dell’uomo 2008; 1: 62-66. 3 GENERAL ASSEMBLY. Resolution 63/168 Moratorium on the use of the death penalty. (18.12.2008) 4 PARLAMENTO EUROPEO. Risoluzione del 1 febbraio 2007 sulla moratoria in materia di pena di morte; Risoluzione del 26 aprile 2007 sull’iniziativa italiana a favore di una moratoria in materia di pena di morte; Risoluzione del 27 settembre 2007 sulla moratoria in materia di pena di morte 5 Legge Costituzionale 2 ottobre 2007 n. 1, Modifica all’art. 27 della Costituzione concernente l’abolizione della pena di morte. Gazzetta Ufficiale n. 236 del 10 ottobre 2007. 6 CARAVALE M. Pena senza morte. Questione giustizia 2008; 1: 51-62. 7 CORTE COSTITUZIONALE. Sentenza 25-27 giugno 1996 n. 223. Gazzetta Ufficiale del 3 luglio 1996 Pag=1.

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bene protetto e bene offeso è elemento caratteristico sia nella legittima difesa che nello stato

di necessità.

Tuttavia, nell’ambito della riflessione sull’indisponibilità della vita altrui non può sfuggire che in

realtà vi è una “fase” dell’esistenza altrui umana ritenuta “disponibile”. Vengono qui il tema

dell’aborto e quello delle manipolazioni distruttive di embrioni umani in sede extracorporea: più

ci si avvicina al momento iniziale dell’esistenza e maggiore è l’attutirsi, fino a scomparire, del

riconoscimento di quella dignità umana che rende l’altro sempre fine e mai mezzo, con la

conseguenza giuridica non solo di non riconoscere in questa “fase” dell’esistenza un soggetto

titolare del diritto alla vita, ma di cancellarlo dal mondo degli uomini rendendolo oggetto di

pretesi diritti altrui. La ridotta visibilità, nonostante i progressi tecnologici e scientifici, di colui

che si trova in questa “fase” e la sua incapacità di suscitare emozioni e sentimenti ne rende la

vita disponibile e funzionale rispetto al raggiungimento di finalità pratiche a lui estranee. 8

Diventa progresso sociale, culturale, giuridico e politico disporre della vita altrui. Per

“giustificare” tale disponibilità si giunge a cancellare il volto umano ovvero di colui di cui si

vuole disporre negando che si tratti di un essere umano, di un essere umano la cui dignità è

uguale a quella degli altri esseri umani.

Sebbene la legalizzazione dell’aborto e dell’uso di embrioni umani mostri quanto sia affievolita

la percezione dell’altro nella fase prenatale della vita, non mancano, tuttavia, pronunce

giuridiche anche autorevoli 9 a sostegno della ragionevolezza che si tratti di un altro la cui vita,

benché povera e indifesa, sia ugualmente indisponibile.

Sull'indisponibilità della vita propria

Anche in questo caso, non si tratta di valutare la questione con riferimento alla relazione

dell’essere umano con se stesso, ma alla relazione tra esseri umani di cui uno chiede all’altro

un comportamento causativo della propria morte. È dunque evidente che l’atto del cagionare la

morte – e dunque l’atto dispositivo della vita – non riguarda in ultima analisi se stessi, ma un

altro. In generale l’autodeterminazione sulla propria vita nel senso di affermare un “diritto di

morire” rendendola disponibile in quanto propria, non viene rivendicata al di fuori di situazioni

di grave malattia o di pesante disabilità, tuttavia emergono situazioni paradossali:

1. Chi impedisce che l’autodeterminazione dell’aspirante suicida giunga a distruggere la propria

vita non commette alcun reato: né quello di violenza privata, né quello di sequestro di

persona. Anzi, il suo gesto viene giudicato meritevole di lode, mentre sono stigmatizzati i

passanti che vedendo una persona togliersi la vita non fanno nulla per impedirlo. E non solo:

l’inerzia di fronte ad azioni suicide può – in date situazioni e in ragione della particolare

qualifica dello spettatore – determinare la punizione di chi poteva impedire il suicidio e non l’ha

fatto. In questi casi nessuno invoca il principio di autodeterminazione per far assolvere

l’imputato di omicidio colposo e nessuno domanda la punizione di chi, usando la forza, ha

impedito a taluno di uccidersi.

2. Come spiegare la differenza rispetto al malato inguaribile o al gravemente disabile che

invoca la morte anche attraverso il rifiuto di qualsiasi cura? Se l’unico criterio è quello

dell’autodeterminazione che rende disponibile la vita umana, allora come sarebbe valido questo

per il malato e il disabile dovrebbe esserlo anche per il giovane sano. Se, invece, differenziamo

i due casi significa che il criterio decisivo non è quello dell’autodeterminazione.

La differenza sta nella “qualità della vita”: la vita del giovane sano vale, quella del disabile e

del malato non ha più valore. Si noti, però, che il giudizio di valore non è quello formulato

dall’interessato. Anche l’aspirante suicida sano e giovane valuta, evidentemente, la sua vita

8 Marina Casini. Indisponibilità della vita umana nella prospettiva del Biodiritto. Medicina e Morale 2010/2: 209-226 9 Si veda, per es.: CORTE COSTITUZIONALE. Sentenza (30 gennaio) 10 febbraio 1997, n. 35. Giurisprudenza

costituzionale 1997; I: 281-293 COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA (CNB). Identità e statuto dell’embrione umano. Medicina e Morale 1997; 2: 328-349; ID. Parere su Ricerche utilizzanti embrioni umani e cellule staminali. Medicina e Morale 2003; 4: 725-726; ID. Considerazioni bioetiche in merito al c.d. “ootide”. Medicina e Morale 2005; 5: 1056-1071; ID. Adozione per la nascita degli embrioni crioconservati e residuali derivanti da procreazione medicalmente assistita (PMA). Medicina e Morale 2006; 1: 154-168; PARLAMENTO EUROPEO. Risoluzione (DOC. A2-372/88) sui problemi etici e giuridici della procreazione artificiale umana. Medicina e Morale 1989; 3: 587-590; CASINI M. Il diritto alla vita del concepito nella giurisprudenza europea. Le decisioni delle Corti costituzionali e degli organi sopranazionali di giustizia. Padova: Cedam; 2001.

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non degna di essere vissuta e tuttavia la società rifiuta questo suo giudizio. Egli può esprimere

qualunque valutazione negativa sulla propria vita, ma non è libero di uccidersi a meno di non

autoescludersi completamente dalla dinamica della relazione: fino a che accetta di restare

sotto lo sguardo altrui, alla sua libertà si sovrappone la valutazione sociale. Egli non può

privarsi della propria vita. La sua vita è indisponibile.

Amore alla vita in un battito di ciglia

Escludiamo tutte le manifestazioni di attaccamento alla vita che potrebbero essere incluse

nell'istinto di conservazione, esperienza comune nel regno animale. Rivolgiamo invece la

nostra attenzione a due aspetti contradditori: la richiesta di vivere da chi si risveglia dal coma

contro il rifiuto delle cure come negazione del principio di indisponibilità della vita umana

propria.

Il non-senso del così detto testamento biologico alla prova dei fatti

Bastano solo pochi secondi per varcare la linea che esiste tra la vita e la morte. Per Richard

Rudd, un 43enne autista di autobus, gli istanti in cui fu travolto in pieno da un'auto, mentre

guidava la sua moto in una strada del Lincolnshire, si rivelarono velocissimi e fatali. Come

fatali sono stati anche gli attimi in cui ha deciso di lottare per la sua vita con un semplice

battito di ciglia.

Il suo corpo venne ritrovato a sei metri dalla sua moto. Mentre i medici lo trasportavano

d’urgenza in ospedale, lo scorso 23 ottobre, a Richard veniva diagnosticato lo stato di

paraplegia e, nonostante i primi momenti di lucidità in cui era riuscito a parlare con i sanitari,

in ospedale cadde in coma profondo. La pneumonia e l’acuta insufficienza renale lo lasciarono

in stato vegetativo permanente. Nessuna reazione alle cure e alle stimolazioni, nessun segno

di attività cerebrale sui monitor. Per oltre un mese Richard è rimasto in vita grazie ad un

ventilatore e un tubo per la nutrizione infilato nello stomaco. Insomma, era clinicamente

morto.

A 43 anni, con due figlie di 18 e 14 anni, un divorzio alle spalle e una vita che stava

ricominciando con la nuova fidanzata, a Richard rimaneva poco tempo. I suoi familiari, infatti,

avevano deciso di rispettare la sua volontà e di staccare la spina. “Se mai mi accadrà qualcosa

di simile – si era confidato con i suoi cari dopo l’incidente d'auto in cui un amico era rimasto

paraplegico – non voglio andare avanti, non voglio finire come lui”. Allora conduceva una vita

normale, forte e sano, e più volte aveva ripetuto che se mai si fosse ritrovato in una situazione

di incoscienza totale, di infermità grave, avrebbe voluto farla finita, senza diventare prigioniero

delle tecnologie e delle macchine. In tanti gli avevano sentito ripetere forte e chiaro il suo

“testamento”.

Impressionanti scene dal vero sul ritorno alla vita di Richard

Un giorno, le telecamere della BBC si aggirano per le corsie dell’Addenbrooke’s Hospital di

Cambridge per registrare il programma sulle storie di eutanasia “Between life and death” (“Tra

la vita e la morte”) proprio com'è il caso di Richard. Mancano poche ore al momento in cui i

suoi familiari l’avrebbero lasciato andare, così come lui aveva chiesto. O almeno così

credevano perché a Richard è bastato un secondo di lucidità e di coraggio per far capire che

c’era ancora vita nel suo corpo e che voleva viverla fino in fondo.

Un assistente dell'ospedale, infatti, gli apre gli occhi e, rivolgendogli una domanda, scopre che

l’uomo bloccato sul letto è ancora cosciente ed in grado di rispondere. La BBC intanto registra

tutto (parte1, parte2, parte3). “Aveva avuto dei danni celebrali molto seri e non potevamo

comunicare con lui. Ma quando dopo un periodo di attesa ha iniziato ad avere dei movimenti

volontari con gli occhi, tutto è cambiato”, afferma il professor David Menon che è riuscito a

convincere la famiglia ad aspettare prima di prendere una decisione definitiva. “Come genitore

vorrei che nessuno dei miei figli dovesse vivere questa situazione”, aveva confidato tra le

lacrime il padre di Richard alla BBC.

Per due mesi una logopedista ha seguito Richard per capire fino a che punto era cosciente e

capace di decidere per se stesso. Per 60 giorni gli sono state ripetute le stesse 20 domande

sulla sua famiglia e i suoi interessi a cui lui rispondeva sempre nello stesso modo: "sì" se

guardava a sinistra, "no" se guardava a destra. Le risposte hanno confermato che Richard era

vivo e che era capace di decidere sul proprio trattamento medico. Nove mesi dopo l'incidente il

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dottor Menon, dopo avergli spiegato le condizioni in cui si trova, decide di rivolgergli la

domanda più importante: “Vuoi continuare con la terapia?”. Per ben tre volte la risposta è

positiva.

Richard quindi ha cambiato idea e la vita gli ha dato l’opportunità di scegliere. Oggi è capace di

manifestare espressioni facciali e la sua memoria di lungo termine è rimasta intatta. Anche se

attaccato a una macchina, può sorridere (di lato, alla "Elvis Presley", come dicono

scherzosamente le figlie), muovere la testa e prendere decisioni come qualsiasi altra persona.

Presto potrà fare grandi progressi e potrà comunicare usando lingua, occhi e muscoli della

faccia. “Forse non è esattamente lo stesso Richard di prima ma ora ce la sta facendo”, dice il

padre alle telecamere.

Non è la fortuna che ha riportato Richard in vita. In realtà, non era in stato vegetativo, ma era

caduto nella cosidetta “locked-in syndrome”. Si tratta di uno stato in cui la persona può

pensare, udire e sentire ma i danni al cervello gli impediscono di parlare o di muovere il corpo.

L’unica parte che reagisce agli stimoli sono gli occhi. Alcuni spiegano che la sensazione più

simile a quella in cui si trovava Richard è quella di essere sepolti vivi. Nella maggior parte dei

casi, tale condizione porta alla morte in pochi mesi ma non sono poche le persone che vivono

in questo stato per anni.

I medici non riescono a dare risposte certe sull'argomento e spiegano che la scienza è in

continua evoluzione e per ora non ha gli strumenti adatti per identificare questa sindrome. E’ il

caso, per esempio, di Rom Houben, un paraplegico belga che ha vissuto gli ultimi 23 anni in un

lettino con una diagnosi sbagliata che lo dava in stato vegetativo e oggi – grazie ad un altro

piccolo "miracolo" che altro non è se non una maggiore attenzione da parte dei medici – riesce

invece a comunicare con una tastiera speciale. Ma in giro per il mondo ci sono tanti altri

pazienti “silenziosi”.

La vicenda ha riaperto il dibattito sulla validità del testamento biologico, la mutevolezza della

volontà personale di sospendere le terapie, e la grande responsabilità che assume una famiglia

quando va a rovistare nei ricordi per scoprire cosa avrebbe davvero voluto il proprio caro. Una

cosa è certa: se Richard o Rom avessero scritto un testamento sul fine vita, nessuno si

sarebbe sforzato per cercare di comunicare con loro, e comunque un battito di ciglio non

sarebbe bastato per bloccare il carattere vincolante della volontà espressa nel pieno delle loro

facoltà. Oggi entrambi sarebbero morti. La fine che invece ha fatto invece Eluana Englaro, la

giovane donna di cui non sapremo mai se, di fronte alla più irrimediabile delle scelte, avrebbe

voluto avere l'opportunità di cambiare opinione.10

Rifiuto delle cure e indisponibilità della vita umana

Il fulcro della questione non è né affermare un diritto assoluto di autodeterminazione a rifiutare

le cure, al punto da ricavarne il c.d. “diritto di morire” che può imporsi fino ad esigere un

“dovere di cagionare la morte”; né – viceversa – negare completamente l’esistenza di

un’autonomia del soggetto tanto da imporre un “dovere di vivere” contro ogni legittimo

desiderio di “essere lasciati in pace”, di “lasciarsi morire”. In entrambi i casi la rigidità delle

posizioni non tiene conto della dimensione relazionale che sa essere attenta ai desiderata del

paziente, ma che sa essere anche capace di riconoscere il valore del soggetto più debole della

relazione e che perciò sa accettare la morte, ma rifiuta di cagionarla.

“Non ci può essere una relazionalità intersoggettiva sancita dal diritto che possa essere giocata

per la morte, perché ciò contrasterebbe con l’essenza stessa del diritto: di un diritto che non

abbia pretese di assolutezza, ritenendo di poter intervenire sulla vita e sulla morte, ma che si

concepisca come strumento tenuto ad offrire (…) il massimo di solidarietà possibile nella

comunità civile in qualsiasi situazione della vita”.11 Si tratta, dunque, da parte del Legislatore

di accogliere le istanze dell’autonomia individuale interpretando l’autodeterminazione in modo

conforme al principio giuridico del “non cagionare la morte”.

Ciò implica che l’autonomia del paziente debba armonizzarsi con la dimensione relazionale

fondata sul riconoscimento dell’uguale dignità del vivere e che perciò si tenga conto sia delle

10 Fabrizia B. Maggi. Quando è un battito di ciglia a salvarti la vita. La storia di Richard Rudd. L'Occidentale 11 Marina Casini. Rifiuto delle cure e indisponibilità della vita umana. 27 giugno 2010 (ZENIT.org).

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differenze qualitative esistenti tra volontà anticipata e volontà attuale; sia delle diverse ipotesi

di rifiuto (rifiuto di attivare una relazione con il medico, rifiuto di iniziare o di ricominciare una

terapia, rifiuto di proseguire una terapia in corso) che, a seconda dell’intensità di

partecipazione richiesta al medico, fanno appello in modo più o meno impegnativo alla sua

scienza e alla sua coscienza.

Questa posizione distingue chiaramente l’“autodeterminazione” sui trattamenti

dall’“autodeterminazione” sulla vita. La prima si concilia con la moderna teoria dei diritti

dell’uomo – inaugurata con la Dichiarazione Universale del 10 dicembre 1948 – secondo cui la

vita umana è indisponibile perché fondata sul riconoscimento di una dignità che non conosce

variazioni in quanto è il carattere indelebile di ogni esistenza umana.

Lo sguardo che riconosce la dignità umana del malato e del disabile impedisce che il rifiuto

delle cure da questi manifestato si trasformi in una licenza di uccidere e valorizza al massimo

le cure palliative e assistenziali. La seconda, invece, presuppone che il fondamento dei diritti

umani sia la “libertà di scelta” che può realizzarsi anche nel decidere se smettere di esistere.

Come si è osservato, però, di tale “diritto di scegliere la morte” per se stessi si chiedono spazi

di legalità solo quando la vita umana versa in “certe condizioni”. Ciò significa che in “certe

condizioni” la vita umana è ritenuta dalla società (di cui la legge è l’espressione più

significativa) non “degna” di ospitalità. Non è, poi, difficile immaginare quanto questa

valutazione sociale (eterovalutazione) possa influire sull’autodeterminazione in ordine al

proprio stesso esistere con la pretesa proclamata come un diritto che legalizzi l'eutanasia e il

suicidio assistito. Tutto ciò in netto contrasto con l'indisponibilità della vita.

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