FIDAart n.1 2014 Roberto Perini

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PERIODICO della FIDAart N. 1 - Gennaio ANNO 2014 FIDAart

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Rivista di arte e cultura contemporanea

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In copertina: Roberto Perini, Io volo per chiamarti, 2011, tecnica mista su carta, 50x50 cm

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FIDAartsommario12Gennaio 2014, Anno 3 - N.1

Copyright FIDAart Tutti i diritti sono riservatiL’Editore rimane a disposizione degli eventuali detentori dei diritti delle immagini (o eventuali scambi tra fotografi) che non è riuscito a definire, nè a rintracciare

Editoriale

Van Gogh o non Van Gogh?

Intervista ad un artista Roberto Perini

New dal mondo

pag. 4

pag. 5

pag. 6-19

Trento città d’arte Politiche culturali

pag. 23Storia e arte Francis Bacon

pag. 22

pag. 20-21

pag. 24-25

Francis Bacon

Orinatoio del Bronx

Mercato dell’arte? Dan Colen e Christopher Wool

Richard Mutt

THE BLIND MAN n.2 May 1917

Francis Bacon

Alfred Stieglitz

pag. 28-30

The Richard Mutt case

Trittico “Three Studies of Lucian Freud”

Fountain by R. Mutt

pag. 31-33

pag. 34

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EDITORIALE

VAN GOGH O NON VAN GOGH?

A settembre è stato presentata in pompa magna dal Museo Van Gogh di Amsterdam una “scoperta storica”: la “scoperta” di un nuovo dipinto di Van Gogh del 1988. La notizia potrebbe sembrare surreale op-pure una burla inventata da qualche buon-tempone perché il dipinto scoperto, intito-lato “Tramonto a Montmajour”, e rimasto esposto per anni nell’attico di un ignaro privato norvegese, era già ben conosciuto dal museo Van Gogh che, già negli anni 90, ne aveva bocciato l’autenticità a causa della mancanza della firma del pittore e l’impos-sibilità di utilizzare le analisi attuali. Appar-

tenuto alla collezione di Theo van Gogh nel 1890, era stato venduto nel 1901. Oggi il direttore del museo spiega che, grazie alla profonda ricerca storico-artistica per stile, rappresentazione, uso di materiali e con-testo e alla serie di prove trovate, si può dimostrare che si tratti di un capolavoro di Van Gogh. Stilisticamente e tecnicamente parlando, c’è una moltitudine di analogie con altri di-pinti di Van Gogh, a partire dall’estate del 1888. La tela delle dimensioni di 73x93 cm risale al periodo in cui il postimpressionista olandese si trovava ad Arles e aveva dipinto opere fondamentali come “I girasoli”, “La casa gialla” e “La stanza”. In effetti, è del tutto evidente che “Il tramonto” ha poco a che fare con quei capolavori che hanno ri-voluzionato l’arte moderna.La ricerca tecnica ha dimostrato che i pig-menti utilizzati corrispondono a quelli della tavolozza di Van Gogh ad Arles e che lo stes-so tipo di tela e di fondo sono stati utilizzati per un altro suo dipinto, “Le rocce”.Infine, sulla tela è stato rinvenuto il numero 180 (solo ora?) con il quale il Tramonto era stato a sua volta registrato nel catalogo uffi-ciale del pittore nel 1891, dove appare con il titolo “Sole al tramonto ad Arles”. La morale di questa storia è abbastanza sconcertante: la metamorfosi da ‘bruco’ a ‘farfalla’ è aleatoria e casuale e lascia un po’ di amaro in bocca: il giorno prima, cro-sta o mediocre imitazione, il giorno dopo, capolavoro di inestimabile valore artistico ed economico. E, nonostante il lieto fine, anche gli “esper-ti” del Museo Van Gogh non ne escono be-nissimo.

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POLITICHE CULTURALI

TRENTO CITTA’ D’ARTE

Trento è, o può diventare, una città d’arte?La domanda non è nè retorica nè peregrina perché dalla risposta potrebbe derivare una politica culturale futura importante per la città. Specie ora che si stanno sfaldando pezzi del suo già modesto zoccolo industriale.Fino a pochissimi anni fa, tutti erano certi che il futuro dei paesi occidentali sarebbe stato con-dizionato dal ‘problema del tempo libero’. Gli indicatori erano chiari: redditi in crescita in tut-te le classi sociali, riduzione diffusa del tempo di lavoro, scolarizzazione di massa e aumento dei bisogni culturali ecc. Le grandi mostre era-no degli eventi che richiamavano migliaia di vi-sitatori interessati e motivati. Erano gli anni del benessere e dell’acculturazione arrivati, final-mente, anche a categorie ancora emarginate dallo status a pieno titolo di cittadini.Il Trentino e Trento hanno fatto passi da gigan-te grazie anche a investimenti spalmati su tutto il territorio e alla crescita nelle periferie di una nuova classe dirigente che non soffre di com-plessi di inferiorità rispetto al ‘centro’. Ma che,

anzi, rivendica il diritto di valorizzare ed espan-dere le proprie peculiarità, siano esse storiche, artistiche, culturali o, naturali e turistiche. L’of-ferta, come si dice, è ampia, di qualità e diffusa. Ma il capoluogo merita una visita più approfon-dita, come avviene per le altre città d’arte, o è sufficiente una sosta di una giornata per vedere e conoscere le sue bellezze maggiori?La visita dei due monumenti storici più impor-tanti, il Castello del Buonconsiglio e il Duomo con il museo Diocesano, richiede una mattina-ta. Il primo pomeriggio può essere investito per girare per il centro storico con le vie dai palaz-zi rinascimentali e un po’ di shopping; un altro paio d’ore possono essere richieste dal Muse e verso sera il tour può essere considerato con-cluso. Il gruppo turistico si trova di fronte al dilemma: fermarsi in città, magari per andare l’indomani al Mart, o ripartire subito pensando di aver visto (quasi) tutto di Trento? Dato che, ovviamente, ci sono ancora molte altre cose da vedere o visitare, questa è la sfida per il futu-ro: trovare delle motivazioni che giustifichino il pernottamento per uno o, ancor meglio, più giorni, in una città ancora poco conosciuta.

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Intervista a ROBERTO PERINI

Scatola - interno, 2011, legno, cartone e colori acrilici, 29x26x6 cm

Roberto Perini pratica l’antica arte del disegno, arte oggi in parte sottovalutata perché soppiantata dalle tendenze più astratte che privilegiano un filone concettuale, analitico e emotivamente freddo. L’arte contemporanea, infatti, è non oggettiva, rarefatta, riduzionista e antinaturalistica al contrario di quella di Roberto che è fantasiosa, figurativa, organica, ricca e vitalistica. Nonostante, e forse, grazie a questo suo essere ‘fuori’ dalle correnti alla moda, le sue opere pos-siedono una forza immaginativa e una vena fantastica - se non fantascientifica - che, unita ad una tecnica grafica sapiente e raffinata, possiedono la capacità di coinvolgere e affascinare. Nei suoi racconti visionari su carta, mai ripetitivi o prevedibili, si intravedono mondi in cui natura e artificio si intrecciano strettamente e profondamente, si intuiscono presenze zoomorfiche, antropomorfiche o sovrannaturali che restituiscono l’idea di un universo complesso in cui tutto si tiene in un divenire continuo e ininterrotto.Persona seria, sobria e riservata - anche troppo vista l’enorme mole di lavoro svolta nel corso di 40 anni e le poche mostre realizzate per farlo conoscere - Roberto è un artista vero a tempo pieno e a tutto tondo perché il suo modo di guardare la realtà che lo circonda, anche la più semplice e vicina, è pretesto e spunto per un infinito repertorio di figure e di esseri animati e inanimati. I suoi corposi taccuini sono veri e propri diari di studio redatti secondo un metodo quasi naturali-stico, frutto di anni di osservazioni “en plein air” (come i pittori impressionisti), pazientemente e ordinatamente compilati pagina per pagina con dettagliati schizzi colorati e commentati con note, osservazioni e pensieri simili a poesie. Roberto vi illustra con la massima cura sensazioni, idee e stimoli ricavati nel corso delle sue esplorazioni, materiali che poi recupera e rielabora in studio fil-trandolo attraverso un’interiorità profonda che ricerca la poesia dietro il mistero della vita.Paolo Tomio

A sinistra: Per piacerti, 2000, tecnica mista su carta, 70x50 cm

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Per questo inverno, 2012, acquerello su carta, 50x70 cm

Quando e perché hai cominciato a interessarti all’arte?

Ho ancora dei nitidi ricordi di quando bambino passavo delle giornate nella casa dei miei nonni paterni dove si respirava ancora l’atmosfera mitteleuropea di fine Ottocento e primo Novecento: i quadri, le stampe alle pareti mi trascinavano in un mondo fantastico e senza tempo. Poi, durante le scuole elementari, di fondamentale importanza sono stati i contatti con maestri che erano amanti della storia e con artisti. La casa-studio nell’edificio scolastico del paesino di Serso occupata dall’archeologo Renato Perini mio insegnante mi affascinava: la porta d’entrata era dirimpetto a quella della mia classe, quando mi era concesso d’entrare potevo vedere le sue sculture e i suoi disegni che si mescolavano ai reperti archeologici del periodo retico che stava studiando. Mi suggestionava anche lo studio

fotografico dello zio Erardo Paoli: nella camera oscura le immagini si manifestavano dal nulla e i volti dei perginesi mi guardavano nel liquido movimento degli sviluppi.Nella mia famiglia quasi tutti disegnavano o fotografavano ed io ero attratto dalle immagini e dai loro fautori, cercavo di copiarle aiutato dall’abile mano di mia madre che aveva avuto come professore Camillo Rasmo.L’iscrizione all’Istituto Statale d’Arte di Trento, con il preventivo colloquio interrogatorio del preside Bruno Colorio, diede finalmente concretezza alle mie aspirazioni.

Quali sono state le correnti artistiche e gli artisti che più ti hanno influenzato?

Durante gli anni di scuola elementare e media l’arte antica, poi all’Istituto d’Arte le Avanguardie Artistiche di fine Ottocento e primi Novecento. Agli inizi degli anni Settanta avevo una

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casa-studio e lì un gruppo di giovani artisti si incontrava per discutere, dipingere e disegnare. Erano giornate intense trascorse ad indagare i vari movimenti, a perlustrare teorie e aspirazioni: una febbre di conoscenza alimentata da poesia, letteratura e musica che sfociava in opere grafiche e pittoriche. Di quell’epoca romantica conservo ancora taccuini fitti di annotazioni e schizzi. In quel periodo tutto aveva un senso, io ero attratto in particolare dai surrealisti e post surrealisti come Max Ernst, Richard Oelze, Silbermnn, lam, Matta, ma amavo anche Pierre Alechinshy, Dubuffet e Sutherland. Anche alcuni Italiani erano presenti nelle nostre discussioni fra cui Afro, Zigaina e Perilli. Altri giorni emergevano i grandi nomi della Secessione Austriaca e dell’Espressionismo tedesco.

Nel corso della tua carriera, hai conosciuto artisti locali o nazionali?

Ho conosciuto molti artisti alcuni dei quali fondamentali per la mia evoluzione artistica: ricordo le lezioni private e gratuite di Remo Wolf, l’appoggio ed i consigli di Ivo Fruet, di Andrea Cappelletti di Civezzano e di Bruno Degasperi, i dialoghi sulla letteratura e sulla poesia francese con Katia Pustilnikov e Paolo De Carli, i viaggi a Roma con Giancarlo Vitturini, le discussioni sull’arte con Andreani, Winkler e Martino Demetz.Sicuramente ne dimentico molti che sono stati miei insegnanti o che hanno lavorato con me. Con artisti nazionali e internazionali ho avuto solo brevi incontri nei periodi dove vivevo a Roma, Bologna e Verona, ma non sono stati fondamentali per il mio sviluppo.

Quando hai cominciato a sviluppare l’interesse per il tuo tipo di linguaggio?

La strategia della sera, 2005, grafite e tempera su carta, 50x70 cm

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Verso il 1972, quando ho sentito che i miei pensieri e i disegni che facevo seguivano una traiettoria condivisa con altri artisti internazionali, quando il fare arte era un tutt’uno con il mio sentire più profondo. Non mi sono mai posto il problema dei passaggi obbligati dal figurativo all’astratto, all’informale ecc, per me non hanno senso se non quello storico artistico. Non mi sono mai creato barriere da superare in nome della modernità o del mercato. Il mio linguaggio è un complesso alfabeto figurativo e emozionale che si continua ad evolvere e sviluppare sedimentando immagini e parole.

Come definiresti il tuo stile? Quali sono, secondo te, le caratteristiche che ti rendono riconoscibile?

La mia natura di uomo schivo e meditativo, poco incline all’auto promozione ha fatto

sì che abbia sviluppato un percorso molto personale, sommerso, nettamente difforme dalle ricerche di altri artisti trentini.Nei miei lavori si possono trovare le tracce indelebili di maestri lontani e vicini, l’incisivo segno espressionista, la gentile pennellata cinese, le atmosfere surreali e fantastiche.Ma tutto questo sovrapporsi di linee, colori e parole si rapprende nell’inesauribile germinazione della natura e del suo misterioso impulso primordiale. Un tempo mi definivo l’uomo mimetico, un essere camaleontico che riflette e si veste di emozioni sempre diverse, che non appare mai ma che è presente in altre forme e atmosfere. Certo questa mia produzione artistica è poco codificabile ed è forse questa caratteristica che la renderà riconoscibile.

Oggi, cosa ti interessa e cosa non ti piace dell’arte contemporanea?

Ciò che non mi piace è la dimensione Nascosto mi triplico, 1997, tecnica mista su carta, 50x70 cm

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commerciale, dove il valore non è più legato alla qualità dell’opera e al messaggio che trasmette, ma al suo aspetto di prodotto mercantile. Molti galleristi, critici e direttori di musei sponsorizzano l’arte come una merce posta in vendita sugli scaffali immaginari di un mercato globalizzato. In maniera minore questo accadeva anche in passato ed è per questo che emergono ancora figure sconosciute oppure decadono artisti un tempo acclamati. Rimpiango i critici che non si facevano pagare ma che chiamavano l’artista e scrivevano sulla sua produzione per stima e interesse (io ne conosco ancora qualcuno), i galleristi sinceri e disinteressati, i Musei che scoprivano i più nascosti talenti.Ora si può diventare in poco tempo artisti stimati pagando critici e galleristi. Io conosco pittori privi di qualità acclamati ed altri di talento totalmente dimenticati.Mi destano invece interesse le ricerche non collegate a mode o a diktat di qualche illustre critico. Non ho pregiudizi di alcun tipo: mi interessano di più i visionari illustratori del

Mi sciolgo in questo giorno cavo, 2000, acrilico su carta, 50x70 cm

fantastico e della fantascienza, o qualche sconosciuto artefice di culture a noi lontane, ma anche i graffitisti metropolitani, piuttosto che alcuni minimalisti o astrattisti dell’ultima ora, o quei fautori di improbabili installazioni che tutti dovrebbero capire anche se non c’è nulla da capire.

In tutte le tue opere la struttura compositiva è composta da segno su cui, poi, intervieni con il colore. Cosa rappresentano per te il segno, la forma e il colore?

Quando dipingo ho bisogno di tracciare una via immaginaria per passare in un’altra dimensione, devo iniziare una progressiva mutazione, una veloce metamorfosi per trasformarmi in un altro uomo. Devo eccitare la mia sensibilità per saper vedere e sentire le forme che emergono da quel lontano e

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ancora inesplorato mondo che è dentro di me. Allora i primi segni sono come parole, ideogrammi che aprono un nuovo racconto una nuova visione, molte volte chiara e vivida, altre appena percepibile, da costruire lentamente con l’ansia di perderla. Il disegno tracciato con qualsiasi mezzo - matite, carboni, penne d’oca, bastoncini, pennelli - è il mio mezzo prediletto, la chiave per il passaggio, il colore la linfa che intensifica le emozioni. I miei procedimenti sono antichi, come quelli di un pittore giapponese o tedesco del Trecento, cambia solo quello che devo dire: antiche sono le parole, gli sguardi, i sentimenti, ma questi sono ancora usati e nessuno potrebbe privarsene.

Il tuo lavoro ai Beni culturali ti ha influenzato nella tua visione artistica?

Prima del lavoro in Soprintendenza ho avuto

per una decina d’anni una società che si occupava di conservazione e restauro. Con i miei colleghi Lucio Ferrai e Carlo Emer ho restaurato numerose opere artistiche anche fuori dal Trentino; questo è stato un periodo difficile dove il lavoro occupava quasi tutte le giornate dell’anno, una scelta gravosa per uno che voleva fare l’artista a tempo pieno. Nel 1991, vincendo il concorso, sono stato assunto dalla P.A.T. con l’incarico di ricostituire il laboratorio di restauro allora in Torre Vanga a Trento e di seguire i numerosi restauri che si facevano in Trentino. Allora eravamo in pochi ma tutti appassionati e consapevoli della responsabilità che ci era data. In questi anni ho seguito il restauro di migliaia di opere e ne ho restaurate centinaia, ognuna diversa ed interessante, talvolta legata ad un artista, altre volte frutto di mani anonime. Ho studiato le forme artistiche più disparate, le tecniche esecutive antiche, moderne e contemporanee ed i nuovi metodi per il loro recupero. Ho indagato l’operato di molti maestri cercando di capire, oltre alla materialità delle loro opere, le Per l’arrivo della sposa - il giorno intatto, tecnica

mista su carta, 70x100 cm

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trame della loro vita. Questo amore per le opere altrui mi ha portato, assieme alla mia compagna Marta, ad essere un instancabile collezionista. Ancora adesso il mio lavoro mi occupa gran parte della giornata, ma ho sempre la notte ed i giorni liberi per produrre disegni e dipinti. Devo dire che questo lavoro non ha influenzato il mio percorso artistico, ma invece mi ha permesso di capire quanto ci sia di autentico e vero nella produzione di tanti artefici dell’arte e quanto invece di mediocre e falso in altri.

Come ti sembra il panorama dei pittori trentini d’oggi? Cosa manca al Trentino per poter essere più presente sul mercato esterno?

Personalmente non mi interessa il mercato, mi interessa l’arte e la sua diffusione, ma capisco che per pittori che vivono del proprio

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Il richiamo, 2013, tecnica mista su carta, 70x100 cm

operato sia importante. I pittori devono dipingere, gli scultori scolpire, insomma devono produrre opere e non dover fare gli sponsor di se stessi, o magari umiliarsi di fronte a galleristi, critici e direttori di museo per avere un po’ d’attenzione. L’arte viene fatta dagli artisti e questi devono essere ascoltati. Devo purtroppo riconoscere che nei periodi più bui della nostra storia c’era più attenzione rispetto ad ora. In Trentino si danno in pasto alla popolazione artisti internazionali anche di dubbio valore e si dimenticano maestri locali con produzioni molto interessanti (a parte i soliti nomi). Il Mart dovrebbe tra i suoi compiti cercare e promuovere gli artisti trentini, anche quelli che hanno sempre operato senza ambizioni mercantili o di visibilità: il patrimonio di conoscenze si costruisce attraverso la ricerca diretta, alle fonti e non solo per mezzo dei media.

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Molti sono i pittori che stimo sia giovani che della mia epoca, tra questi ultimi alcuni con i quali ho condiviso momenti creativi e di vita, che per motivi diversi sono poco conosciuti come Giordano Chini, Piermario Dorigatti, Roberto Marzadro e Giovanni Bortolini, altri sono noti, come Paolo Tait e Pierluigi Rocca. Certamente dovrei fare molti nomi ancora.

Qual’è la tecnica artistica che utilizzi principalmente nella tua attività?

I procedimenti su carta, un supporto che mi ha sempre affascinato per la sua versatilità, mutevolezza e leggerezza, per la sua storia che si perde nel tempo. Poi tutto quello che traccia segni, che incide e comprime, il carbone la grafite, la penna d’oca ed i pennelli di tutte le forme e tradizioni. Nel colore, cerco le trasparenze dell’acquerello, la matericità della tempera, le gradualità tonali delle terre e dei pigmenti in polvere che mescolo al momento. Uso anche gli olii ed i pastelli, in pratica tutto

quello che può aiutarmi a definire un’opera nei tempi stretti del mio stato di sensibilità. Tutto è fatto senza l’aiuto di strumenti tecnici, tutto deve nascere dalle mie mani.

Ti senti più disegnatore o più pittore? E qual è la differenza tra le due modalità espressive?

Non lo so, dipende dal momento, da quello che voglio dire, generalmente le cose si compenetrano: alcuni dipinti celano disegni, in altri è il segno che copre, imprime tensioni ed evidenzia forme. Ho passato mesi disegnando con la semplice grafite senza toccare un colore, totalmente compenetrato in quell’intrico di linee che definiva in modo chiaro e vibrante i miei pensieri. Il segno è anche scrittura, parola incisa, come nei miei libretti, compagni di tutti i giorni che sono il deposito, la memoria di fugaci visioni e pensieri.Da giovane amavo gli antichi maestri dell’incisione, che poi ho studiato in modo approfondito, e mi meravigliavo che un piccolo foglio potesse competere e superare per forza e qualità grandi tele e imponenti sculture.

Mi staccai - mi staccai, 2000, tempera su carta, 50x70 cm

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Hai sperimentato anche altre tecniche artistiche?

Sì, ho eseguito incisioni su metallo, linoleografie, serigrafie, ho studiato scultura con Martino Demetz, dipinto olii e acrilici su tela e tavola, anche di grandi dimensioni. Purtroppo mi manca il tempo; essere artista a tempo pieno era il mio scopo di vita, in quel caso avrei fatto molto di più.

Ritieni di rappresentare nelle tue tele concetti, emozioni o cos’altro? Sei interessato ad un “messaggio” nell’opera?

I miei sono messaggi complessi e mutevoli, che si modificano di giorno in giorno. Io non sono l’uomo di ieri e non quello di domani, basta un libro, un frammento di natura, la disperazione di qualcuno, la felicità di una nuova primavera per cambiare il mio modo di sentire. Sono mondi paralleli, talvolta inquietanti in altri casi felici e variopinti. Il nuovo seme, 2012, acquerello

su carta, 50x70 cm

Possono essere relitti calcificati di una guerra insensata, apparizioni di divinità sconosciute, metamorfosi e rigenerazioni di una natura sacrificata, bestiari fantastici, barriere organiche inaccessibili, momenti di felice leggerezza, racconti, emozioni e sensazioni che tentano di giustificare un’esistenza priva di certezze.Nei miei lavori posso essere un perlustratore dell’irrazionale, un generatore di vite immaginarie, mentre nel lavoro devo essere concreto e dare messaggi chiari per migliorare la nostra società.

Qual’è la funzione delle scritte più o meno lunghe che inserisci nei tuoi dipinti?

Mi piace scrivere a mano: è come disegnare, i pensieri si concretizzano in segni che seguono linee rette, curve, spezzate, un’architettura del pensiero dichiarato.

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Per compiacerti, 1973, penna d’oca e tempera su carta, 100x70 cm

Per chi guarda, la parola può essere la chiave di porte inaccessibili: una frase può essere rivelatrice di una sensazione, di un presagio o di un pensiero sfuggente, un modo per accelerare il passaggio alla visione. Alle volte il titolo è una dedica a quel piccolo mondo da poco creato. Io le uso come forme evocatrici di qualcosa in divenire, talora riescono illeggibili trasformate in puro segno o nascoste sotto strati di colore: possono sovrapporsi fino a diventare vibrazione indecifrabile, deposito inaccessibile di pensiero.

Segui la “politica culturale” trentina: pensi che si possa fare di più o meglio per il settore artistico?

Per lavoro, ma anche in associazioni culturali. In questi ultimi decenni si è fatto molto e in alcuni settori si è raggiunta l’eccellenza. Certo l’attuale crisi nazionale ha comportato un considerevole taglio ai finanziamenti per la cultura. Grandi strutture come il Mart e il Muse hanno bisogno di ingenti investimenti per sopravvivere e questo a discapito di altri settori importanti. Per fare cultura però non sono necessari grandi contenitori, ne’ enormi finanziamenti (le associazioni lo sanno bene). Manca l’interesse per l’arte trentina e dei Trentini: si spendono capitali per eventi e mostre su artisti nazionali ed internazionali, ma non si costruisce un sito dal costo di poche migliaia di euro dove pubblicare opere e notizie sugli artisti operanti in provincia.L’ideale sarebbe un’ esposizione in continuo divenire dove la gente potrebbe vedere l’evoluzione degli artisti più conosciuti e conoscerne di nuovi, un continuo dibattito che forse farebbe bene anche agli operatori.

Cos’è la bellezza? E’ un valore che ricerchi o è subordinato ad altri valori?

La bellezza non è un criterio uguale per tutti. In molte culture i parametri sono nettamente diversi. Anche nell’arte antica il concetto di bello per ogni periodo storico appare diverso. Per lo scultore romanico i parametri non erano certo quelli di Michelangelo o Canova. Il bello è variabile ed è legato al significato dell’opera, al simbologia e alla tradizione. Altra cosa è la qualità dell’opera, la capacità dell’artefice di trasmettere un messaggio dipingendo, scolpendo, disegnando.

E, per finire, cosa è per te l’arte? E chi è l’artista?

È una cosa indefinibile, l’emanazione materiale o immateriale di un bisogno interiore irrefrenabile di rendere tangibile un’emozione, un’idea.Forse un istinto primordiale, modificato dalla consapevolezza dell’uomo di esistere e la coscienza di essere effimeri. L’artista può essere anche un costruttore di cose belle che rendono piacevole o danno significato alla vita. Un tessitore di tappeti afgano è lo specchio della sua cultura: i suoi segni, le forme ed i colori sono la perpetuazione di un messaggio che diventa arte. Io invece sono europeo, melanconico messaggero di un tempo che passa, che costruisce per non morire. Mi circondo di opere fatte da altri artisti di tutti i tempi e in esse vedo anche la loro storia; sono oggetti familiari che mi parlano ogni giorno in modo diverso, anche per questo dipingo.

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ROBERTO PERINI

E’ nato il 23 dicembre 1952 a Cles (Tren-

to), ma ha vissuto dall’età di 11 anni a

Pergine (TN), paese d’origine della fami-

glia.

Si iscrive e frequenta l’Istituto Statale d’Ar-

te di Trento, dove ha modo di incontrare

numerosi artisti. Negli ultimi anni di scuola

superiore attira la stima e l’ammirazione

dei suoi maestri, e con alcuni di essi (Bru-

no Degasperi, Ivo Fruet, Vitturini) stringe

un forte legame artistico e d’amicizia.

Dopo il diploma con il massimo dei voti,

va a vivere in una casa-studio a Trento

assieme agli amici artisti Paolo Decarli e

Piermario Dorigatti, luogo frequentato da

altri amici pittori tra i quali Giordano Chini,

Giovanni Bortolini, Roberto Marzadro, Pa-

olo Tait, Sandro Libardi.

La sua formazione si indirizza in seguito

alla conservazione e valorizzazione dei

beni storico-artistici a Bologna e a Vero-

na, dove frequenta anche artisti contem-

poranei.

Tornato in Trentino si dedica per lavoro

al restauro e alla valorizzazione del pa-

trimonio storico-artistico, e dal 1991 la-

vora presso la Soprintendenza per i Beni

Storico-Artistici di Trento, occupandosi di

restauro e ricerca sull’arte antica, moder-

na e contemporanea.

Dal 2001 al 2005, oltre l’attività lavorativa

per la Soprintendenza, ha insegnato Te-

oria del Restauro per la specializzazione

in Scienze dei Beni Culturali della Facol-

tà di Lettere e Filosofia dell’Università di

Trento.

Nonostante gli impegni lavorativi si è

sempre dedicato alla grafica e la pittura.

Nel corso degli anni ha partecipato a di-

verse collettive anche in ambito naziona-

le, a partire dall’esposizione “Artisti Tren-

tini, situazione 1974” tenutasi a Palazzo

Pretorio a Trento.

Nel secondo quinquennio degli anni Ot-

tanta è entrato a far parte del gruppo di

artisti “Guernica”, e nel ruolo di presidente

ha promosso a Pergine diverse mostre,

sia degli artisti del gruppo, lui compreso,

che di altri artisti trentini.

Nel dicembre 1989 ha ideato e realizza-

to assieme a Pierluigi Negriolli la mostra:

“Nel Tempo e nella Leggenda. Luoghi,

momenti e presenze nel tempo remoto

e in un futuro lontano” presso la Sala del

Palazzo della Regione di Trento.

Nel 1999 il Comune di Sarnonico (TN) gli

ha dedicato una personale presso Palaz-

zo Morenberg. Nel 2012 ha partecipato a

due importanti collettive: “Acqua. Gli occhi

trasparenti della terra e dell’anima” nel

mese di agosto presso lo Spazio Klien di

Borgo Valsugana e Castel Ivano e “Per-

gine imagina. Il territorio per l’arte” su tre

sedi espositive a Pergine nel dicembre.

A giugno 2013 è stato invitato ad espor-

re diverse opere alla mostra Ren Art di

palazzo Trentini di Trento con altri cinque

artisti.

Roberto Perini Via Guglielmi 9/b 38057

Pergine Valsugana (TN)

Telefono 0461533305 martascalfo@hot-

mail.com sito WEB www.robertoperini.it.

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FIDAart N.1 2014Periodico di arte e cultura

della FIDAartCuratore e responsabile

Paolo Tomio

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Tutti i numeri 2012-2013

della rivista FIDAart

sono scaricabili da:

www.fida-trento.com

Tutti i numeri 2012-2013

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sono sfogliabili su:

http://issuu.com/tomio2013

FIDAart

Il 25 dicembre del 2013 è ricor-so il cinquantennale della scom-parsa di Tristan Tzara, pseudoni-mo di Samuel Rosenstock, nato a Moineşti in Romania nel 1896 e morto a Parigi nel 1963.Tzara, ebreo rumeno, poeta, sag-gista, giornalista, drammaturgo, critico letterario e d’arte di lingua francese e rumena, è conosciuto soprattutto per essere stato uno dei fondatori e figura centrale del Dadaismo, il movimento di avan-guardia rivoluzionaria nelle arti.Il movimento “Dada” nasce a Zurigo durante la Prima Guerra Mondiale grazie all’incontro di Tzara con il tedesco Hugo Ball, l’anarchico po-eta e pianista fondatore del Cabaret Voltaire, come ricorda la lapide che ne commemora la nascita.Tzara ha scritto nel 1918 il Manife-sto del movimento in cui vengono esposte la filosofia e le linee teori-che che stanno alla base del suo influsso artistico internazionale.

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L’ORINATOIO DEL BRONX

E’ recentissima la notizia riportata dalla stampa specializzata relativa alla scoperta di tre “scul-ture di inizi 900” che potrebbero rimettere in discussione i contenuti di un dibattito che si tra-scina da quasi cento anni assillando e tormen-tando artisti, critici, filosofi, storici e, addirittu-ra, gente comune.Il fatto è avvenuto a New York quando, duran-te i lavori di ristrutturazione di un vecchio fab-bricato nel Bronx, in seguito alla demolizione di una parete nello scantinato, sono stati ri-trovati dei vecchi servizi igienici in disuso. Nel corso del sopralluogo, l’ingegnere del Comune Freddy Simpson, ha creduto di riconoscere ne-gli apparecchi a parete una forma familiare: la caratteristica sagoma curvilinea dell’orinatoio più famoso del mondo, la “scultura” proposta da Marcel Duchamp nel 1917 con il titolo “Fon-tana”. Simpson ha scattato alcune fotografie dell’apparecchio e, dopo averle confrontate con la storica foto di Alfred Stieglitz - l’unica esistente dell’originale - (vedi a pag.34) ne ha constatato l’incredibile somiglianza. Sempre più incuriosito ha svolto un’indagine sulla storia del sotterraneo scoprendo che nel 1916 aveva ospitato una bisca clandestina fatta chiudere e murare dal tribunale, cosicchè i servizi igienici erano rimasti inaccessibili da allora. Quando, dopo una prima pulizia degli apparecchi recu-

perati, è apparsa la marca “JL Mott Iron Works – Bedfordshire”, un modello del 1915, Simpson si è convinto che gli orinatoi erano uguali alla “Fontana”, o meglio: erano la Fontana. La voce della ‘scoperta del secolo’ ha cominciato a dif-fondersi dopo che alcune gallerie d’arte, contat-tate da Simpson per stimare il valore dei pezzi, hanno messo in fibrillazione il mercato perché l’evento, se confermato, potrebbe rivelarsi di enorme importanza per ragioni artistiche, cul-turali, e non ultimo, economiche.La scultura “Fountain”, un normale orinatoio di serie ruotato di 90° in posizione orizzontale, era stato presentato da Marcel Duchamp, firmato con lo pseudonimo “R. Mutt 1917” (forse, con riferimento alla loro marca Mott), all’esposizio-ne del 1917 organizzata dalla Society of Inde-pendent Artists di New York provocando una dura reazione da parte della commissione che (ovviamente) si era rifiutata di esporre l’“opera d’arte” considerata una provocazione offensiva e oscena. Duchamp, pittore francese già famoso per i suoi dipinti cubisti, uno degli artisti più rivoluzionari apparsi nel panorama dell’arte moderna per-ché non voleva accontentarsi dell’arte “retinica e olfattiva” dei dipinti ad olio, aveva fatto pub-blicare sulla rivista “The blind man” (vedi pag. 31-33) la lettera del signor Richard Mutt il quale rivendicava il diritto di poter partecipare ad una

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RICHARD MUTT

mostra artistica aperta a tutti. Questa plateale uscita pubblica di Duchamp con il suo primo “ready-made” (fatto pronto), rappresentò l’inizio di una rivoluzione cultura-le nella concezione dell’arte e delle sue moda-lità che, nel bene o nel male, prosegue ancor oggi. Infatti, per quanto possa sembrare irri-spettoso, gran parte degli artisti d’avanguardia contemporanei sono “figli, degni o degeneri, di quell’orinatoio”. Fin qui la cronistoria dei fatti. Da questo mo-mento in poi il nocciolo del problema posto dalla ‘scoperta del Bronx‘ è di fondamentale importanza, non solo per il caso specifico, ma anche per una pluralità di opere d’arte che hanno fatto ricorso largamente al concetto di ready-made, di object trouvé - basti pensare al Nouveau Réalisme di Pierre Restany che ha avuto per oggetto materiali banali desunti dalla realtà o anche rifiuti - di molti dei maggiori arti-sti di questo ultimo secolo.I quesiti a cui gli storici dell’arte, i critici e i fi-losofi e, non ultimi, galleristi e case d’aste, do-vranno dare una risposta potrebbero provoca-re, infatti, una vera e propria rivoluzione del mercato dell’arte sconvolgendo le quotazioni di opere milionarie.Nel caso della “Fontana”, un primo problema nasce dal fatto che l’originale non esista più (come gran parte dei primi ready-made di Du-champ) e che gli orinatoi attualmente esposti in vari musei siano solo delle “copie” realizzate ex novo negli anni 60 dall’artista che poi vi ha apposto la firma “R.Mutt 1917”. In sintesi, le domande che tengono con il fiato sospeso il mondo dell’arte sono: se la “Fonta-na” altro non era che un normale pezzo di se-rie – Duchamp dichiarò: «non l’ho creata, l’ho scelta», assumendosi con questo il diritto di attribuire senso artistico a un qualsiasi oggetto d’uso – gli orinatoi del Bronx sono da conside-

rarsi tre “copie” della Fontana, oppure tre origi-nali uguali alla Fontana? O, addirittura, essendo quelle esposte oggi nei musei solo dei meri ‘rifacimenti’, gli unici tre originali esistenti? La questione della presenza o meno della firma di “R.Mutt”, invece, dovrebbe essere ininfluen-te perché contraddittoria con gli stessi principi di ready-made il quale, per definizione, non è e non può essere considerato un “pezzo unico”.Le questioni dibattute non sono da poco per-ché i tre orinatoi, se battuti all’asta, potrebbero raggiungere prezzi stratosferici rischiando di in-trodurre un principio pericolosissimo e cioè che chiunque potrebbe rivendicare il diritto di pre-sentare altri pezzi originali uguali ai ready-ma-de di grossi artisti dichiarandoli, come di fatto sarebbero , uguali all’opera “firmata” e, quindi, opere d’arte a tutti gli effetti. A questo punto, l’unica differenza tra gli infi-niti ready-made seriali esistenti risiederebbe, appunto, nella sola firma apposta dall’artista-creatore sul primo oggetto della serie per certi-ficare la primogenitura. Insomma, non sarebbe neanche più l’oggetto materiale prescelto dall’artista a caricarsi del valore artistico, ma solo la firma del demiurgo che abbia rivendicato il valore artistico della scelta. Un bel rompicapo

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FRANCIS BACON

Il 2013 si è concluso con una serie di scoppi di artificio che hanno entusiasmato la Borsa dell’Arte, rallegrando i collezionisti che immagi-nano i loro acquisti valorizzati dal nuovo trend e consolando gli artisti tradizionali che vi vedono un ritorno alle opere di pittori “figurativi”. A novembre di quest’anno, un trittico di Fran-cis Bacon del 1969 dal titolo “Three Studies of Lucian Freud”, olio su tela da 198×147.5 cm cadauno, è stato battuto all’asta di Christie’s a New York, per la cifra record di 142,4 milioni di dollari (oltre 106 milioni di euro). (vedi immagi-ni a pag. 28-30). I tre dipinti, stimati dalla casa d’aste 85 milioni dollari, che raffigurano Lucian Freud amico e rivale di Bacon scomparso nel 2011 e altro grande protagonista dell’arte bri-tannica, sono così diventati i quadri più pagati della storia.Questo exploit conferma che, con l’attuale crisi economica, gli investitori, dato l’alto rischio dei titoli finanziari, continuano ad orientarsi verso l’arte moderna e contemporanea che ha acqui-stato la classica attrattiva del “bene rifugio”. Ciò vale ancor di più in questo caso perché la somma esborsata per il trittico di Bacon ha tra-volto tutte le previsioni, anche le più ottimisti-

che, creando un precedente che non potrà non riflettersi sull’andamento futuro del mercato dell’arte. Francis Bacon nasce nel 1909 a Dublino in una famiglia alto borghese e abbiente e muore a Madrid nel 1992 all’età di 83 anni. Il rigido ca-rattere del padre militare di carriera unito ad una salute cagionevole e ad una omosessualità riconoscuta fin dall’adolescenza, condizionano la sua educazione, incompleta e irregolare, e la sua personalità, chiusa e solitaria. A 17 anni, infatti, viene allontanato da casa e si reca a Londra, a Berlino e Parigi dove vive di espedienti e ambigue frequentazioni. Inizia a disegnare ma solo nel 1927, dopo aver visto una mostra di Picasso a Parigi, decide di diven-tare un pittore anche se, non avendo avuto mai nessun tipo d’istruzione artistica era, in sostan-za, un autodidatta.Nel 1934, il fallimento della sua prima mostra personale lo porta alla decisione di distruggere molte opere e abbandonare la pittura.Ricomincia a dipingere dopo sette anni e nel 1944, l’anno più devastante della seconda guerra mondiale, esegue il primo trittico che lo renderà celebre: “Tre studi per figure ai piedi

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STORIA DELL’ARTE

di una Crocifissione”. Si tratta di un dipinto in cui sono rappresentate creature mostruose va-gamente antropomorfe che si contorcono an-gosciosamente; un’opera di una terribile carica espressiva anche se non rappresenta alcuna azione violenta ma qualche “indefinita violenza inumana” che riesce a imprimere il suo orrore. Il tormento che traspare da ogni sua opera è, ancor oggi, talmente forte e coinvolgente da spingere l’osservatore ad interrogarsi su un au-tore che riesce a rappresentare i mostri che po-polane il suo animo e la sua mente. Le sue opere, sia per lo stile che per i temi, non si avvicinano a nessuna corrente artistica né precedente né contemporanea confermando l’assoluta originalità di Bacon. Egli riconosce come suoi maestri Velàzquez in particolare per il ritratto di Papa Innocenzo X, Rembrandt per il colore, Van Gogh per i suoi paesaggi, Picasso per le sue scomposizioni della figura umana, Mi-chelangelo per i disegni anatomici e Muybridge per le sue sequenze fotografiche scientifiche. Sono riconoscibili inoltre richiami espressionisti attraverso Soutine e Munch e dei riferimenti al surrealismo di Ernst.Nei suoi dipinti, caratterizzati da un’analisi del-la condizione umana spietata fino all’atrocità, qualsiasi fatto è ricondotto ai due impulsi ori-ginari del comportamento umano: l’amore, vi-sto come la forza del desiderio erotico, e il suo contrario, la morte, vista come tragica necessi-tà che rende la vita vana e vuota di significato.I suoi ritratti disincarnati, quasi privi di volto, im-magini di figure urlanti o ghignanti, corpi mas-sacrati, somiglianti a carcasse, ricorrono anche nel trittico con Lucian Freud (vedi a lato) dove il personaggio è rappresentato come attraverso un vetro deformante: le bocche si atteggiano ad un urlo, sono deformate in un sogghigno op-pure ad un inebetito silenzio.Nel corso di tutta la sua carriera Bacon ha di-

pinto ben 33 trittici che rappresentano un suo tratto distintivo: “i trittici sono la cosa che più mi piace fare forse perché mi sembra di fare un film. Mi piace la giustapposizione dell’immagini separate in tre diverse tele”. Nel creare quasi tutte le sue opere utilizza solo le foto dei soggetti senza però farli posare, inol-tre si serve molto spesso d’immagini ritagliate da cataloghi o riviste di ogni tipo che poi riela-bora all’interno delle sue tele.Una peculiarità dello stile di Bacon presente in tutta la sua produzione ed evidente anche negli studi su Freud, è la separazione tra figura e sfon-do. Gli sfondi sono neutri, piatti e statici mentre le figure sono in uno stato di tensione peren-ne, i loro corpi sono scomposti o deformati, tormentati da spasmi continui. Il suo realismo consiste proprio nel sapere esprimere il senti-mento di ‘estraneità’: il forte senso di distanza tra i soggetti e il loro ambiente che diventa un palcoscenico in cui l’attore è tragicamente solo.Altra sua caratteristica peculiare è il trattamen-to della figura umana, ovvero il “rovesciamen-to” dei corpi di cui egli non mostra l’epidermide ma la carne e le viscere interne. L’opera di Francis Bacon rimane molto diffici-le da comprendere e spiegare anche perché, come egli stesso dichiarò: “...spiegare la propria pittura sarebbe come riuscire a spiegare i propri istinti”.

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MERCATO DELL’ARTE?

Buone nuove per gli artisti sperimentalisti, cioè tutti coloro i quali sono alla ricerca di formule nuove per forzare i codici linguistici ed espressivi canonici sperano di sfondare nel mondo dell’arte o, quanto meno, del mercato alto. Dan Colen, di cui si era già scritto nel nume-ro di FIDAart del agosto 2013 ricordando lo strabiliante prezzo di 305mila dollari battu-to da Sotheby’s per una sua opera piuttosto particolare perché realizzata semplicemen-te con delle chewing gum appiccicate alla tela, evidentemente è piaciuto ai collezio-nisti americani che hanno voluto premiarlo.Un suo quadro del 2008 (vedi sopra), “53RD & 3RD” in chewing gum su tela delle di-mensioni di 152x240 cm è stato venduto all’asta per 1.085.000 $. Avete letto bene: un milone di dollari per un’opera eseguita con qualche migliaio di cicche da mastica-re multicolori pazientemente attaccate e spiaccicate fitte fitte. Qualcuno potrebbe

obiettare che non è molto peggio, o addi-rittura, è molto meno truculenta delle laide performance realizzate con sangue vero da Herman Nitch, e probabilmente avrebbe ragione.Altri potrebbero pensare che non c’è una grande differenza con i rifiuti ospedalieri esposti da Damien Hirst o con le plastiche colorate recuperate nelle immondizzie da Tony Cragg (in realtà, entrambi grandi crea-tori di idee e di forme) e, forse, le loro per-plessità non sarebbero così infondate. Il fatto è che, mentre il rifiuto urbano pos-siede una sua “tragicità” - la crisi della ci-viltà occidentale, il consumismo, l’ecologia ecc.- la chewing gum, è solo una caccola profumata e un po’ schifosetta impregna-ta di saliva con impressi i calchi dentari dei maleducati che la gettano per strada, e che possiede la spiacevole particolarità di incol-larsi irrimediabilmente alla suola delle no-stre scarpe.

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DAN COLEN e CHRISTOPHER WOOL

Un’altra new entry è il quadro di Christopher Wool, pittore in bianco e nero di cui si è già parlato su un numero di FI-DAart sottolineando come un suo “sintetico” dipinto a smal-to con gli stencil, “And if” del 1992, su pannello di alluminio di 135x90 cm, avesse raggiunto la non disprezzabile cifra di 4.085.000 dollari. Lo stile di Wool, pur risultando immediata-mente riconoscibile - caratteristica molto positiva per un arti-sta - non sembrava possedere caratteristiche tali da motivare l’importo esborsato dal compratore. Come al solito, ci sbagliavamo applicando categorie desuete al mercato dell’arte il quale, evidentemente, segue logiche raffinate quanto incomprensibili (o quasi). Lo smacco è arriva-to con l’asta di Christie’s di novembre quando un altro quadro di Wool, “Apocalypse now” del 1988 (vedi a lato), sempre in smalto su alluminio, delle dimensioni 213x183 cm e stimato dai 15 ai 20 milioni, è stato venduto per 26.485.000 dollari, vale a dire 19.366.000 euro. Una tale somma potrebbe sembrare un tantino esagerata per questa simpatica opera anche perché, volendo rimanere nel settore dell’arte, i conti non tornano se solo si fa il confronto con aste di quest’anno in cui quadri di piccole-medie dimensioni di Renoir, Degas, Cézanne e altri grossi nomi sono stati pagati prezzi, questi sì inspiegabili. (vedi sotto)Ora, qualcuno potrebbe pensare che sia una vergogna che delle tabelle con frasi più o meno idiote dipinte con lo stencil da un uno pittore (vivente) siano pagate 17-24-31 volte più dei quadri di Maestri dell’Impressionismo che hanno cambiato la Storia dell’arte moderna. For-se, non tutti i collezionisti ameranno le intimistiche immagini di vita dell’800, ma è difficile immaginarsi affascinati o anche solo assorti davanti ai “dipinti” di Wool (a meno che non si pensi al loro prezzo). La spiegazione dell’apparente incongruenza sta proprio nell’aggettivo “vivente”, cioè un artista in grado di produrre molte altre opere sinché vive e che, opportu-namente ‘spinto e valorizzato da qualche sponsor’, sia in grado di far fronte - velocemente - a tutte le nuove richieste di un mercato internazionale. Un po’ come la gallina dalle uova d’oro che deve arricchire l’allevatore, pardon il gallerista.

P. AUGUSTE RENOIR, “Le repos”1895, pastello su carta, 44x56 cm Venduto 2013 a 1.565.000 $

EDGAR DEGAS, “Femme se pegnant” 1889, pastello su carta, 49x38 cm

Venduto 2013 a 1.085.000 $

PAUL CÉZANNE, “Paysage du midi”1865, olio su tela, 24x38 cm

Venduto 2013 a 845.000 $

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Gennaio 2014, Anno 3 - N.1

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News dal mondo

THE BLIND MAN n.2 May 1917

Francis Bacon

Alfred Stieglitz

pag. 28-30

pag. 31-33The Richard Mutt case

Trittico “Three Studies of Lucian Freud”

Fountain by R. Mutt pag. 34

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Trittico di Francis Bacon: Three Studies of Lucian Freud, 1969, olio su tela, 198×147.5 cm - Pannello di sinistra

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Pannello di destra

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Pannello di destra

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