FERRUCCIO MARONESE L’ORGANISTA DEL DUOMO · I racconti dei “Battuti” FERRUCCIO MARONESE...

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I racconti dei “Battuti” FERRUCCIO MARONESE L’ORGANISTA DEL DUOMO di Fabio Metz a cura del CENTRONOVE Circolo Aziendale Ospedaliero di San Vito al Tagliamento n. 5 - Dicembre 2012

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I raccontidei “Battuti”

FERRUCCIOMARONESE

L’ORGANISTADEL DUOMO

di Fabio Metz

a cura del CENTRONOVE

Circolo Aziendale Ospedalierodi San Vito al Tagliamento

n. 5 - Dicembre 2012

El picolo nio

Pare, xe ora,tira a bordo le sime:za s'alza la buorae vien le luse prime.

Bisogna salpâ:vol tenpo per la traversada; arivemo in rada a la fin de l'istà.

Ninte ne dà sto porto,marsise el bastimentose no l'ha vele al ventoe mar sul bocaporto.

Za le stele svanissee l'alba se vissina, soto le refolade fissela barca s'incamina.(B. Marin, 1969)

Ferruccio Maronese, l'organista del duomo diSan Vito, ha lasciato il suo «piccolo nio», la mat-tina del 25 giugno 2001. Anche lui quasi di certoin accordo con il poeta: «Niente ne dà sto porto,/ Marsise el bastimento / se no l'ha vele al vento/ e mar sul bocaporto». Da quell'addio, che anco-ra mi (ci) pesa sul cuore, muove questa nota chebiografia assolutamente non vuole e non puòessere. Ma solo ricordo, rimpianto, omaggio

devoto, prima che il tempo, inesorabile e feroce,tutto abbia a trascolorare ed a confondere.

Il difficile xe scuminsiar. Se te scuminsi benon,il resto te vien più fasile. Mi diceva il maestro. Orache non c'è più, giusto per farmi coraggio percominciare, mi sono fatto accompagnare dal"sussurro" di Biagio Marin e cullare, nelle lungheore del dopo cena e fino a notte, dal Requiem diW. A. Mozart e però anche dalla melodia grego-riana della Missa defunctorum, proprio quella cheun giovanissimo Ferruccio quasi tutte le mattineaccompagnava con l'organo nella sua parrocchia-le di Pravisdomini. Le righe che seguono sono ilrisultato di un dialogo paragonabile, se la propo-sta non apparisse blasfema, a quello che NicolòMachiavelli intesseva, alla sera, con i suoi autoriclassici a San Casciano (1513). Un dialogo pro-tratto per più anni, poi che incominciato, e poigarantito alla committenza e poi più volte inter-rotto. A motivo del fatto che la scrittura ben spes-so si interrompeva di fronte agli occhi ed al sorri-so ironici del maestro. E perciò tutto si facevafaticoso, lentissimo, alla rincorsa, alle volte affan-nata, di un personaggio complesso, costruitosijuxta modum che è come a dire fatto a modo suo.

Era fisicamente fragile il maestro. La fragilità,pare almeno a me, essere la qualità che meglioviene a definirne l'aspetto esteriore tanto egli eramingherlino. Eppure su tutta quella ridotta strut-tura corporea da subito colpiva il volto incorni-ciato da abbondante capigliatura - a seconda deltrascorrere del tempo nera e quindi brizzolata edalla fine bianca - ed avvivato da due pupille scure,mobilissime, puntute, in qualche caso di unainquisitorialità attenta e persino spietata, ed inaltro di una attenzione al problema in esame con-centratissima, ed in altro ancora di un abbando-no gioioso, totale e coinvolgente al discorrere traamici, ma pure tra personaggi occasionalmenteincontrati. Al di sotto degli occhi si apriva labocca. Una sorta di taglio che si distendeva di trale due piccole rilevanze delle guance. Mobilissima

e, di volta in volta, chiamata a commentare - sinoad atteggiarsi in una sorta di piccola smorfia ocon lo sporgere del labbro inferiore - quanto egliandasse discutendo onde la formulazione del suopensiero, oltre che con le orecchie, si riusciva aleggere da subito negli occhi e nella piega dellelabbra.

E debbo confessare come, nel mentre vengoscrivendo queste righe, mi accada di inseguirlocon lo sguardo intanto che scendeva lungo viaPanteleoni da casa oppure quella strada ripercor-reva per rientrare in famiglia, con quel suo anda-re dinoccolato il cui ritmo era assicurato da unpiede puntato ad oriente e l'altro ad occidente. Lebraccia penzoloni. E poi anche alzate, o l'una ol'altra o tutte e due, nel gesto del saluto. A doman.Sì, a domani, maestro.

Con l'aspetto esteriore, mi pare, in manieraimprescindibile si debba coniugare la pressochécostante rinuncia, da parte del maestro, al prono-me personale di prima persona singolare: «io»(mi, nel dialetto in cui costantemente amavaesprimersi). Sapeva di esserci, ma la vita gli avevainsegnato quanto fosse pericoloso schierarsi inprima fila. Non per vigliaccheria, ma per l'avercompreso, credo, ben presto, quanto complessofosse il tessuto sociale all'interno del quale gli eratoccato in sorte di vivere. E quanto difficile fosseil convivere. Per cui l'impancarsi a tribuni oppu-re a giudici voleva dire prendere atto di quantefossero le teste con cui venire a confronto. Ma,nel contempo, pure dubitare delle proprie.Siccome, credo, confermatogli dalla frequenta-zione musicale, in veste di esecutore, con i gran-di musicisti, in primis, J. S. Bach, che egli ha sem-pre sentiti quali indiscussi maestri di cui farsifedelissimo esecutore. Il rapporto con la partituradei grandi, annullava o comunque di molto ridu-ceva, in qualche misura, il terreno della propriaautonomia che poteva trovare spazio nello sforzointerpretativo. Ma che era e rimaneva pur sempreun'operazione strettamente personale e chiusa nel

perimetro del respiro individuale. Un respiro cheil suo silenziosissimo «io» custodiva gelosamente.

Un uomo - ancora una volta - juxta modum,per dire non facile. E perciò, per me, fascinoso. Alquale non sono mai riuscito a dare, se non persbaglio, del «tu»; siccome invece; e da subito, oquasi, mi era riuscito con la Marilù (mi perdoni,signora maestra Maria Luisa Dean in Maronese,se mi permetto di chiamarti a questo modo?). Enon riesco a spiegare questa mia scelta se nonripensando al fatto che il maestro mai mi ha sol-lecitato, come altri invece tra i molti che hoincontrato sui miei passi, ad usare nei suoi con-fronti questo pronome confidenziale, ma soprat-tutto era a me che tornava naturale stabilire que-sta sorta di rispettosa distanza con un uomo cheaveva la possibilità di accedere a quelle stanzedella musica che a me, man mano che il tempopassava, diventavano sempre più di difficile acces-so. E che pertanto, non potevo che guardare dalontano.

Veniva da lontano, il maestro e credo abbiasempre mantenuta questa sua lontananza che vaal di là del perimetro delle fosse cittadine di SanVito al Tagliamento. Si deve necessariamentemuovere dalla piccola Pravisdomini, da pocouscita dalla Prima Grande Guerra nella quale daSante e Pigat Teresa nasceva il 15 aprile 1927, equindici giorni dopo veniva battezzato dal parro-co don Silvio Bomben, Ferruccio. Già altri ottofratelli e sorelle lo avevano preceduto e lui era ilnono venuto, per ultimo, a godere della luce diquesto mondo.

Erano tempi e luoghi difficili, annate magre,avara la terra che il padre coltivava. Stagional-mente Sante emigrava in Germania per assicura-re il necessario a quelli di casa. Onde in quintaelementare, il giovanissimo Ferruccio, si vantavacoi condiscepoli di contare fino a cinque in tede-sco. E intanto le sorelle, tra un funerale e l'altro,si ingegnavano a servire presso famiglie privateonde garantirsi una dote per il giorno del matri-

monio. Anni difficili, si diceva. Durante i quali,inopinatamente incompresa dal fratello maggiore- tranne che da papà Sante che ne avrebbe difesola scelta "musicale" sino alla fine - veniva matu-rando in quel ragazzino quella sua strana passio-ne: travolgente e, proprio perché tale, ai piùincomprensibile, per la musica.

È un adolescente Ferruccio che, dopo la fre-quenza alle scuolucce musicali ceciliane istituitein ambito diocesano, nel 1942 si iscriverà alConservatorio Musicale Benedetto Marcello diVenezia: un quindicenne, con la sola licenza ele-mentare, che dal piccolo suo borgo, si affacciava,con intuibile timidezza, alla città lagunare. Pochio con pochissimi spiccioli, quelli guadagnati suo-nando le messe da morto la mattina presto nellaparrocchiale di Pravisdomini e qualche cos'altroallungatogli da papà Sante, da un lato; un'Italiache era appena entrata in guerra dall'altro. Inmezzo un adolescente armato di una volontà diferro. Mi raccontava un collega che ha fatto scuo-la con me, e che aveva frequentato, in quegli annicontemporaneamente al maestro, l'Accademiadelle Belle Arti in Venezia (oggi purtroppo passa-to lui pure a miglior vita), di come il giovaneFerruccio si adattasse a lavare i piatti per un piat-to di minestra nel mentre lui, per ottenere analo-go trattamento, andasse schizzando su certi suoifogli paesaggi lagunari e gondoline e ponti epalazzetti della Dominante.

Si diplomerà il maestro con lusinghieri risul-tati, dopo aver superato, alle soglie del nono annodi frequenza al conservatorio un'infezione gravis-sima e lunghissima motivata dalla febbre maltese,nella sessione estiva dell'anno scolastico 1953-1954. Nel corso dello stesso anno approderà inSan Vito al Tagliamento con il titolo di maestrod'organo del duomo cittadino. Questo trasferi-mento, in termini spaziali piuttosto ridotto, main una prospettiva psicologica, prima che profes-sionale, di una valenza tutta particolare, sarebbestato vissuto dal maestro quale un nuovo iniziodella propria vita, la fine di una difficile battaglia

per la sopravvivenza. Lo ripeteva, pur di raro, conuna disarmante semplicità. Ma ecco: la sopravvi-venza era per lui non un fatto di natura fisiologi-ca: ad accontentarsi di poco era avvezzo. Per ilgiovane maestro invece sopravvivere era final-mente poter far musica, a tempo pieno.Nonostante condizioni logistiche, professionalied economiche non ottimali. Quasi di fortuna:un letto in una sorta di ridotto ricettacolo ricava-to nel sottotetto dell'oratorio parrocchiale (che ladomenica pomeriggio doveva condividere conl'arbitro chiamato a regolare la partita della squa-dra dell'oratorio, la mitica "Astra"), pressochécontigua a quella in cui la Tunina, zia del cappel-lano dell'epoca, don Angelo Pandin, alllevavaalquante rumorose gallinelle; l'obbligo di suona-re in duomo tutte le domeniche e feste ed accom-pagnare, per giunta, i vespri delle solennità anchepresso la chiesa del Monastero della Visitazione ela cappella dell'ospedale; darsi da fare per istruire,con prove multiple e faticate, la corale della par-rocchia. In cambio poteva contare su lire 20.000mensili e sulla garanzia di un pranzo e di unacena quotidiani presso la locale Casa di Riposo.Durante quei giorni, galeotti furono gli scacchi dicui era appassionato Dean, fratello di Marilù eche piacevano pure alla mentalità fortementerazionale del maestro. Da cosa, si sà, nasce cosa.Il maestro cominciava a frequentare casa Dean.In quelle stanze, caratterizzate da una costante ecordiale accoglienza, incontrava una ventiduenneMarilù dagli strordinari occhi verdi. Nel settem-bre del 1956 si sposano con la benedizione dimonsignor Pietro Corazza e con l'accompagna-mento musicale di don Gianni Lavaroni e la pre-senza della corale diretta da Piero Fogolin.Dall'incontro prenderà l'avvio quella che il mae-stro considererà sempre la sua gloria e la sua coro-na costituita dai propri figli e figlie: Piero (1957),Fabrizia (1958), Flavia (1960), Luciana (1961),Cristiana (1964).

Nel 1957, con un piazzamento di straordina-ria eccezionalità (il primo fra i dieci di una marea

di concorrenti) vinceva una cattedra per l'inse-gnamento di Educazione Musicale nelle scuolemedie di grado inferiore. Era la sistemazione defi-nitiva che metteva fine, per lui, ad una prospetti-va precaria quale poteva essere quella di organistadella parrocchiale sanvitese. Fu così che dal 1957al 1960 veniva incaricato di insegnare all'IstitutoPacifico Valussi di Udine, dal 1961 al 1968 pres-so la Scuola Media Statale di Codroipo e dal1969 alla Scuola Media Statale di San Vito alTagliamento: cattedra quest'ultima che lascerànel 1983 al momento di andare in meritata quie-scenza.

Era davvero cominciata la vita per un uomoche si sapeva accontentare e sapeva prendere dallavita il meglio che potesse venirne. Con un disar-mante ottimismo. E la vita per il maestro era latranquillità economica, con l'appoggio della stra-ordinaria capacità amministrativa di Marilù, lafrequentazione del suo organo in duomo, il pia-cere dell'insegnamento.

Veniva da lontano, il maestro. Nonostanteuna apparente e certamente facilmente percepibi-le cordialità e colloquialità e straordinaria capaci-tà di mettersi in immediata comunicazione conchiunque egli avesse ad incontrare, sono profon-damente convinto che si sia riservato, con tutti, ocomunque con quasi tutti, un territorio suo. Unasorta di hortus conclausus, di riserva personale, dipiccola prateria all'interno della quale egli solopoteva e sapeva come entrare. Che proteggevacon lunghi silenzi. Un'area che confinava diretta-mente con quella che nell'animo suo occupava lamusica, ma alla quale nemmeno la musica, credo,potesse avere totale accesso. Un'area che egli tute-lava con estrema gelosia assicurandola da unacorona di barzellette e della quale potevano esse-re spia una rapida battuta, uno sguardo fuggitivo,una piega della bocca, un gesto rapido dellamano. Solo chi aveva avuto modo di frequentar-lo a lungo poteva non certamente penetrare inquell'hortus, ma capire qualche cosa di quanto vi

si muovesse. Che era cosa sua poi che il maestrosi portava dietro - sino alla tomba - un suomondo faticato e faticoso di cui di volta in voltaera gelosamente pudico e fin vergognoso, maanche orgoglioso, e però anche forzatamentedimentico sino a trasfigurarne i confini in unasorta di limbo dal quale era una volta per sempreriuscito ad uscire. Poi però, magari alla fine di unlungo argomentare da parte mia, se ne usciva conuna o due frasi lapidarie che a tutto il questiona-re egli offriva quale soluzione. Erano, di norma,frasi che venivano da una saggezza antica, se sivuole anche sostanziata di una costante attenzio-ne alla legittima difesa personale ereditata da lon-tane epoche in cui era pressoché obbligatorioguardarsi sempre alle spalle, ma anche aliene dainutili eroismi destinati a lasciare il tempo chetrovavano. Aveva, sulla sua pelle, imparata la virtùdel silenzio quando il combattere si rivelavaimmediatamente inutile. Per poi rifugiarsi, conl'amico Mansueto Frozza nei boschi alla ricerca difunghi, accompagnando la passeggiata con unottimo coniglio in umido annaffiato da un sorsodi vino. Oppure tutto intento a coltivare un suopiccolo appezzamento messo ad orto da cui,orgoglioso, ricavava ortaggi da esibire, con la col-laborazione della Rosi, sulla mensa di casa. Oancora, con gesti di una solennità quasi liturgia,tutto impegnato a gestire quella cantina di casa dicui andava orgoglioso e dei cui prodotti gratifica-va quanti, me compreso, di volta in volta venisse-ro frequentando la sua casa sempre aperta agliamici.

Amava per altro stare tra la gente e con lagente. Ovviamente, juxta modum. Convinto dicome i santi stessero solamente in paradiso e comesulla terra, assieme ad un eventuale qualche santo- della cui esistenza per altro dubitava - bisognas-se fare i conti sempre con chi santo non solo nonera, ma era pure cattivo. E convinto, egli stesso,di non essere un santo. Dall'approdo in San Vito,il maestro non si muoverà più, diradando di anno

in anno le assenze per ferie ai monti od al maresino ad annullarle totalmente in concomitanzaall'allentamento progressivo delle proprie presta-zioni musicali quale organista del duomo di cui,per altro, fino all'ultimo volle conservare quelloche era il momento essenziale: la messa grande.

Non sono mai risucito a comprendere questasua scelta di seppellirsi in San Vito, nonostante lerichieste, per citarne alcune, le reiterate da partedi don Albino Perosa, onde avesse ad accettareuna cattedra d'organo presso il ConservatorioMusicale di Udine. Marilù mi viene suggerendoche, raggiunta la sede di San Vito, il maestro vi sifosse talmente ben accomodato, da non richiede-re diverse sistemazioni. Forse aveva bisogno disentirsi accolto, amato, apprezzato. E molti, inSan Vito, ebbero ad accoglierlo, amarlo, apprez-zarlo. E da parte sua, egli molti accolse, amò,apprezzò.

Soprattutto non dimenticava facilmente chigli aveva fatto del bene e lo aveva aiutato, anchealle volte, facendogli pesare questa mano tesagli.Tra questi, don Tullio Tesolin. Aveva retto questila parrocchia natale di Pravisdomini, nelle vesti dieconomo spirituale tra la partenza di donUmberto Missana e l'arrivo del nuovo pievano. Aquell'adolescente che, finito di suonare l'officiofunebre mattutino si apprestava a percorrere, dibuon mattino i due chilometri che lo avrebberoportato alla propria abitazione, ma pronto arimettersi in strada per ritornare in chiesa sul suoorgano per studiare, don Tullio Tesolin insistevaper offrire una tazza di pane e latte. Ben accetta.E ricordo come fosse oggi, una sera di almenocinquant'anni or sono. Avevo accompagnato ilmaestro, dietro sua richiesta, con la sua Seicentofino alla Casa dello Studente di Pordenone doveaveva tenuto una lezione-concerto sulle composi-zioni di J. S. Bach. Ritornando a casa, verso leventitre e trenta, al momento di imboccare,uscendo da Pordenone, la strada versoBorgomeduna, ebbe ad incrociare casualmentel'automobile in cui viaggiava don Tullio. Ricordo

ancora la frenata al centro dell'incrocio di normafortemente trafficato e che a quell'ora, per fortu-na, risultava piuttosto tranquillo. Ho negli occhila portiera dell'automobile pericolsamente spa-lancata ed il maestro che, d'un balzo, raggiunge-va la vettura di don Tullio. Non credo gli abbiadetto nulla, ma si sia limitato a stampargli unbacio sulla guancia di sinistra. Poi siamo ripartitiverso San Vito. Per più di mezz'ora non disse unaparola. Né io dissi nulla. Ero ben cosciente chenon dovevo parlare.

Allo stesso modo trovava stabile ospitalità nelsuo cuore la Rosi (all'anagrafe Rosina Simonatodi Braida Bottari) che, dalla dipartita, oggi con ilmaestro riposa, dal 1996, nell'accoglientissimasepoltura dei Dean nel cimitetro urbano di SanVito al Tagliamento. Una figura esile e silenziosa,che si muoveva felpata, con un sorriso di unastraordinaria dolcezza, e che il maestro avevaincontrato fin dal primo giorno che aveva postopiede in casa Dean. Ne stimava - e me lo dissel'unica volta che, con il suo modo estremamentecolorito, siamo entrati in argomento - la discre-zione, la sobrietà, l'instancabile laboriosità, lacapacità di stare al proprio posto, di tacere, disparire quando la sua presenza non fosse necessa-ria. Non so se mi sbaglio, ma penso che ritrovas-se nella Rosi le doti delle donne (o di alcune diesse) della casa natale o della piccolaPravisdomini. Perché, in fondo in fondo, e siritorna a questo modo ad una delle componentipiù sostanziose della personalità del maestro, a luiera rimasto fortissimo in bocca il sapore ed ilgusto per le persone semplici e genuine, daldiscorre e dal comportamento lineare e soprattut-to sincero. Diretto. Fino a dubitare che potesserodavvero esistere per modo che se gli era dato diincontrarne qualcuna dubitava che si potesse trat-tare di pose o di convenienze. In confronto con laRosi, io gli riuscivo ben spesso un pochino trop-po complicato. Te son ingropà come el spago inscarsela, commentava, senza sarcasmo, ma conuna disperata lucidità, certo mio argomentare. Ed

era un giudizio che, al di là della singola temati-ca, oggetto occasionale, del discorrere si estende-va ad una valutazione globale del mio modo divedere e di valutare le cose che non riusciva a con-dividere e, alle volte, persino a sopportare.

In parallelo, odiava profondamente la chiac-chiera vana, il pressapochismo verboso, la falsità,il bigottismo. L'ipocrisia, soprattutto. Ad evitarela quale, era pronto a presentarsi sempre cosìcom’era di fronte a tutti. A costo di non esserecapito o di essere preso in giro o di non esserepreso in troppa considerazione per il fatto che luiera «musico». Non abbassava perciò mai quel suosguardo acutamente puntuto di fronte a nessuno,guardava diritto negli occhi l’interlocutore, espri-meva sino in fondo la sua opinione pur con quel-l’attenzione che gli veniva dall’esperienza diquanto complicato fosse l’animo umano. E se allevolte la battuta poteva anche essere salace, imme-diatamente si riscattava sul piano della genialitàdell’inventiva oppure del gioco pirotecnico del-l’intelligenza. Poi, spesso, ti guardava in silenzio.Ed era il momento in cui ti trovavi nel maggiorimbarazzo. Poi che non ti venivano più le parole.

Ecco, appunto. L'insegnamento. Il maestroveniva da una scuola severa che alla teoria e pra-tica musicale univa un rigido codice comporta-mentale ed etico. Per conto suo il futuro maestroconiugava un cursus studiorum rigido una ferreavolontà di raggiungere quel benedetto diploma inorgano e composizione organistica. Di quella sta-gione di studio, intensissimo, condotto in condi-zioni disagiate su quel suo pianoforte verticalesistemato alla meglio in locali di fortuna dellacasa paterna e su quel suo organo della parroc-chiale di Pravisdomini di ridotte capacità sonore,il risultato è stato una formazone musicale di taleintensità, da riuscire a selezionare - all'internodelle schematiche proposte didattiche delConservatorio - quelle esercitazioni che veramen-te potevano servire a chi della musica avesse afarsi servo.

La musica, appunto. La musica era per lui unasposa esigente, gelosa, coinvolgente, totale. Nongli lasciava spazio per altri interessi. Tutta loabbracciava, tutta gli si concedeva, ma tutto loprendeva e lo pretendeva. Spietata e splendida. Egli assicurava praterie infinite sulle quali cammi-nare verso orizzonti sempre antichi e semprenuovi e persino imprevedibili. Ma voleva l'abban-dono totale. La musica era per lui amante fedelis-sima che lo avrebbe accompagnato dal momentoin cui aveva deciso di seguirla sino alla morte. Mapure amante esigente capace di dargli gioie indi-cibili e chiedergli sacrifici indicibili. Poi che lamusica egli ben sapeva come stesse al di là di luie nonostante lui. E però bisognosa di lui.Altrimenti non sarebbe la musica.

Poco o nulla, ritengo, capisse di economiacontento di quelle poche lire che si ritrovava adavere in tasca per le piccole spese della giornataconsumata nell'ambito cittadino. O meglio, perlui i problemi economici ruotavano tutto attornoal dare ed all'avere del bilancio famigliare. Quelbilancio che avrebbe gestito, fin dai primi giornidel matrimonio, con estrema sagacia ed accortez-za, Marilù. I soldi per il maestro non sono maistati non un problema, ma, ritengo, una fastidio-sa necessità. Era uomo di estrema generosità.Forse perché aveva conosciuto il bisogno. Forseanche umiliante. Dal momento in cui nel 1957riuscirà ad ottenere una cattedra quale insegnan-te di musica presso le scuole pubbliche, non vorràpiù percepire una lira da parte della parrocchiaper le sue prestazioni in duomo quale maestrod'organo. Generoso. Generoso perché pronto aregalare quello che era il suo tesoro più caro: lasua musica. Facendola partecipe, rifiutando sde-gnosamente qualunque profferta di compenso,delle liturgie del duomo sanvitese, e delle celebra-zioni matrimoniali e degli addii funerari. Semprepronto a sedere all'organo. Fino a quando, ora-mai segnato profondamente dalla malattia, sicco-me mi viene raccontando Marilù, al sentire suo-

nare le campane che davano il segno della messacantata festiva tutto si agitava per non poter piùsedere al suo organo del duomo. Splendidosignore. Insegnante generoso. Calcolando la diffi-coltà dei mezzi che all'epoca garantivano dei per-corsi territoriali, diventa persin oggetto di mera-viglia come il maestro, allora e per lunghi decen-ni, unico insegnante diplomato in organo delladiocesi di Concordia (oggi Concordia-Pordenone), riuscisse a raggiungere il seminario ecentri minori per insegnare nelle scuole musicaliceciliane diocesane.

Ha regalato la sua musica ovviamente ai figliaccompagnandoli alla soglia dello studio delle artimusicali. Con quella accortezza, cui appena soprasi faceva accenno, capace di rifiutare l'inutilitàdell'esercitazione marginale per puntare su quellache avrebbe diventare la sostanziale. Pronto a riti-rarsi, nel momento in cui i suoi allievi di famiglia,avessero incontrato, in corsi di studio regolari, gliinsegnanti di cattedra. Quelli che per il maestrodiventavano, da quel momento, i titolari cui affi-dare i passi dei propri figli. Con una ritrosia ecce-zionale che lo faceva intervenire con un consiglio,un giudizio, un incitamento solo in momentieccezionali e comunque "di passaggio".

Ha regalato la sua musica ad un gruppo diallievi che hanno cominciato a mettere le manisulla tastiera con la sua guida, i suoi suggerimen-ti, le sue indicazioni. Preziose. Ma soprattutto lagenerosa dedizione a quell'insegnamento in cuitravasava, con la scienza, tutto il suo cuore ed ilsuo entusiasmo mai stanco.

Ha regalato la sua musica ad amici che si spo-savano, che portavano alla sepoltura parenti odamici. Che celebravano anniversari o genetliaci.A tutti. Senza mai nulla chiedere. Festoso. L'haregalata pure a me, in una nebbiosa serata del 22dicembre 1971, quando, dopo avermi accoltonella sua seicento, da San Vito mi ha scaricatopresso la chiesa di Sant'Antonio di Porcia. Unachiesetta in cui, su una pianolina elettronica, haaccompagnato le mie promesse matrimoniali.

Con un fagottino di confetti, dopo gli auguri dirito, se ne è tornato a casa sua.

Ha regalato la sua musica ancora, di quandoin quando, a conclusione di una visita di amicicon cui aveva trascorso un felice momento convi-viale. Mentre Marilù riassettava, con la Rosi, lacucina, il maestro raggiungeva il duomo e si met-teva all'organo per un'esecuzione di circostanzache avesse a concludere l'incontro conviviale dellamattinata nell'ospitale casa Dean. Io non ero,ovviamente, della compagnia, ma ricordo l'inti-mo dispiacere che provavo per questa esclusioneconvinto quale ero di come in quel momento diabbandono il maestro fosse in grado di dare ilmeglio di se stesso. Per converso, rimango ancoraconvinto di come il maestro, pur sublimandoquesti passaggi con il rifugio nell'amplissimo edaccoglientissimo utero della sua musica, in qual-che misura abbia sofferto, pur pronto a prestarein duomo il proprio servizio, di non vedere valo-rizzato, durante la reggenza parrocchiale di mon-signor Pietro Corazza, il proprio servizio: Nino,l'organo, che nol xe una soneta a boca. Te soni sem-pre masa forte. L'organo il ga de sonar quando cheil prete prega sotto vose. Se no la xente la parla. Chesono consigli e considerazioni francamente piut-tosto riduttive.

Poi il maestro regalava la musica a se stesso.Quella durante la quale poteva suonare da solo,per se stesso, in colloquio intimo, soprattutto conil suo J. S. Bach.

E però mi pare come questa generosità delmaestro avesse a confinare con un'altra sua doteche mi immagino, qui, di definire la sua praticadella povertà. Ma una povertà straordinaria che hosempre ammirato senza trovare il coraggio di dir-glielo sicuro com’ero che mi avrebbe mandato inmona. Eccola: stava questa sua povertà (sempre cheil temine mi è consentito) in quel suo continuoripassare i brani, nel suonarli e risuonarli nella con-vinzione sincera, profonda, di una semplicità quasiinfantile, di non averne ancora afferrate tutte leprofondità, nella necessità di limare, di ripetere, di

rileggere. Nella certezza insomma, di non esseremai all’altezza del suo J. S. Bach.

Avveniva poi però, che una volta alla tastiera,egli s’allontanasse del tutto da chi lo ascoltavalasciando proprio in quell’ascoltatore la percezio-ne che oramai il maestro stesse camminando interritori lontanissimi ove non era possibile seguir-lo a meno che lui, con una frase, un sospiro, ungrugnito anche non ti mandasse un messaggiorivelatore di quanto stesse passando nel suo cuore.

E di riflesso si intestardiva, salve rare eccezio-ni, lui così ricco di musicalità e di cultura musi-cale, fatta salva qualche rara eccezione di non par-ticolare rilievo, nel non voler comporre. Mi dice-va: O se xe Bach o no se scrive gnente. Sbagliava,probabilmente. Anche perché qualche cosina incarta gli riuscirà di mettere. Ma, in termini gene-rali, il maestro era fatto così: juxta modum,appunto. Di fronte ai grandi, taceva e studiava,nel mentre invece si lasciava andare nella realizza-zione di splendidi accompagnamenti delle melo-die gregoriane, che sapeva trasportare a meravi-glia (mettendo a frutto l'insegnamento del suoinsegnante di Conservatorio Sandro Dalla Liberache voleva fare dei suoi allievi degli organisti,prima di tutto, di chiesa), o, pur senza particola-ri entusiasmi, si acconciava ad accompagnare lameschina produzione musicale ecclesiastica diquesta nostra grigia stagione musicale postconci-liare. La chiave di lettura di queste sue irreversibi-li scelte credo sia questa: la necessità di ruminarein silenzio. Perché finito di studiare a lungo unbrano scendeva dalla panca dell'organo, si accen-deva una sigaretta dietro la sacrestia per quellache chiamava una pipadina, faceva quattro passi equindi esclamava: benon. Ades tornemo dentro ecomincemo tutto da capo.

Solo da qualche poco di tempo sono riuscitoa capire il maestro quando si poneva all'organo.Mentre andavo pensando che al suo posto avreicercato di leggere il maggior numero possibile ditesti musicali, il maestro continuava a suonare,

salvo qualche raro sconfinamento, il suo Bachnella classica edizione tedesca Peters, capace diandare avanti per due e più ore filate ripetendo,in termini ossessivi, quelle cinque o sei paginedella partitura. E mi tornava alla mente, mentrelo ascoltavo, il professore di latino e di greco delliceo che, mentre con una sudicia pezzuola anda-va pulendo le lenti di certi occhiali degni diCavour, solennemente asseriva: Si vis totumcognoscere, totum lege. In traduzione: se vorraiconoscere tutto quanto si potrà mai conoscere aquesto mondo, leggi tutto quello che è stato scrit-to. Ma era lo stesso che, in altra occasione a noiscolari accucciati nei banchi suggerendo di pren-dere appunti, proclamava Opportet non legeremulta, sed multum. E di nuovo in traduzione:non è opportuno leggere molti testi, ma quelliche si leggono vanno letti in maniera estrema-mente approfondita. E però mi torna alla menteil frammento di Eraclito: «L'intima natura dellecose ama nascondersi». Di fronte ad un'infinitaofferta musicale (che all'epoca dei suoi studi erasenza dubbio di gran lunga inferiore a quella chela letteratura è in grado di offrire oggi), il maestronon si spaventava. Non gli interessava totum lege-re e nemmeno totum scire. Gli bastava essereammesso al convito dei grandi. Mi diceva, difatti: Co te pol magnar la torta, parché gastu decontentarte de le paste? Sorrideva, mi guardavanegli occhi, e tirava diritto sempre con quella suaandatura oscillante. Era in quei momenti che, aldi là dell'infinito cicalare di testi filosofici e ditrattati più o meno pretenziosi, ho cominciato acapire che cosa voglia dire essere umili.

Non ho mai conosciuto con precisione - sepoco raccontava di sé, di questo argomento maiebbe a far con me parola - quali le tappe evoluti-ve del suo credo religioso. Certo le radici della suareligiosità saranno ora da ricercare nell'ambitofamigliare e nel ristrettissimo ambiente in cui sisono susseguite le giornate e le stagioni della fan-ciullezza, dell'adolescenza e della giovinezza del

maestro. Un panorama che qui sarebbe troppolungo e complicato anche solo provare a tratteg-giare, ma di cui basterà dire che era tutto intessu-to di una serie di coordinate ben precise dellequali, e delle primarie, una era quella della pre-senza, nella vita di tutti - si badi bene credenti omeno credenti - inevitabile e totalizzante del«Signor». Una presenza che rientrava di prepo-tenza in quella sorta di microcosmo che era ilpaese con i suoi rapporti sociali ed economici, iritmi delle stagioni e delle feste di chiesa e chetrovava plastica rappresentazione nella chiesa, nelsuono delle campane, nelle funzioni liturgiche,nella figura del «pievan». Un "piccolo mondoantico" nel quale il fanciullo Ferruccio si è ritro-vato a vivere, con ritmi sempre uguali: dalla casaalla chiesa tutte le mattine, dapprima come chie-richetto e poi come giovane organista per accom-pagnare le messe De requie, pressoché quotidiane,e poi alla scuola. Quindi il rientro attraverso icampi con il sole e con la pioggia, con il freddo econ la neve. Senza possibilità, o forse ancorasenza voglia, di ribellarsi. Un «Signor» che poiavrebbe ritrovato nelle pagine del catechismo eche ritornava in modo imperativo nelle predichedomenicali che forse, già allora, poco amava. Aldi sopra di queste prime immagini e progressiva-mente fusa con queste questo «Signor» deve averassunto i connotati dell'autorità e della austeritàforse dal maestro recuperati nei contatti giovanilicon le severe figure dei preti o degli insegnanti (sipensi, ad esempio, all’impatto che deve averavuto sul timido ragazzino di Pravisdomini l’in-contro al Conservatorio Musicale di Venezia conil direttore dell’epoca, il mitico Gian FrancescoMalipiero). Stava questo «Signor» al di là dellospazio e del tempo degli uomini: un Dio con cuinon scherzava e di fronte al quale gli era di fasti-dio l’eccessiva confidenza che con lui ritenevaavessero anche alcuni dei preti incontrati sul suocammino. Non deve meravigliare quindi se pro-gressivamente il maestro ha sfrondato questo suostare di fronte al «Signor» di una serie di manife-

stazioni particolari fino ad arrivare ad una estre-ma dignità e ad un’esigenza sempre più rigida diinteriorità e di silenzio. Un «Signor» di fronte alquale stava in piedi come il profeta Eliseo: VivitDominus ante quem sto (Re IV, 5, 16): “unSignore vivo è quello di fronte al quale io sto inpiedi”. Per ricordare il maestro in ginocchio devoriandare a tempi molto lontani. Aveva imparato apresentarsi di fronte a Lui con il suo corredoumano e soprattutto con la sua intelligenza ed ilsuo bisogno di capire e di razionalizzare anche ilrapporto e le manifestazioni del credo religioso.Era di fatti un rimpianto che si portava dietroquello di non aver potuto studiare con comodoed a tempo debito la filosofia. Ma nonostantequesto, egli è stato un filosofo o meglio ancora unumanista in quel suo sentirsi completo solamentequando - di fronte ad ogni circostanza e momen-to della vita oppure di fronte ad ogni incontro (equale incontro più importante di quello con il«Signor») - non gli veniva richiesto di annullarsi edi rinunciare a pensare. Forse per questo naturalebisogno di indagine e di ordine gli piaceva tantola musica bachiana dall’architettura così geome-tricamente ferrea e dai rapporti così terribilmentesorvegliati. E così intrisa di riguardo per quelloche sta al di là del perimetro terreno.

È il momento del commiato che è, ben spesso,un passaggio non del tutto facile. Almeno per me.

La musica, si è detto poco sopra, era sua. Omeglio: era diventata sua, al solito juxta modum,frutto di una conquista faticata, ma tenace,testarda, e, soprattutto, senza mai un ripensa-mento. Uno sponsale perfetto. Un approdo grati-ficante. Dodici anni di Conservatorio, ore e orepassate al pianoforte a ripetere lo stesso eserciziofino a quando il brano non fosse filato liscio senzauna piega, un attimo di esitazione, un'incertezza.Sicché, alla fine del percorso, lui diveniva dellamusica. Tutto e sempre, fino a quando, oramaigravemente ammalato, ma lucidissimo, si ripro-poneva, al sentire suonare le campane del duomo

per la messa solenne domenicale, di andare all'or-gano per un'altra volta ancora, accompagnare leliturgie per le quali aveva consumato, per anni,tempo, amore, intelligenza, competenza. Lo sape-va fin dall'inizio come fosse difficile, per non direimpossibile, denegarsi ad un'amante esigente,invasiva, avvolgente, ma di una dolcezza straordi-naria quale la musica incontrata in condizionieccezionali ed inseguita con una fedeltà straordi-naria per tutta la vita. Marilù asserisce spesso, conquella sua convinzione che commuove, come ilsuo Ferruccio fosse stato un sacerdote della musi-ca. Ed aveva ed ha ragione. Egli ha amato lamusica, ma la musica ha amato lui in un connu-bio che negli anni, mentre si veniva lentamentedissolvendo l'impegno liturgico, si faceva semprepiù stretto nell'abbraccio dello studio quotidiano:una fatica fatta di silenzio, di un continuo ripro-vare battuta per battuta, affrontando i brani,anche i più difficili con calma: Ciapemola indolce, che dopo pian pianin ghe rivemo.

È difficile credere tutti i giorni in Bach in unpiccolo centro come San Vito. Non è tanto que-stione di voler fare cultura. È piuttosto continua-re a credere in quella che è stata la cultura dellatua vita. Resistere, ogni giorno, alla voglia di nonincontrare più il tuo Bach. Da solo. Quando glialtri sono da un'altra parte, oppure si accalcanosulla porta della chiesa, per uscire dopo la messa,mentre il maestro proponeva una delle tantecomposizioni dell'immortale organista di Lipsia.Le ultime note si disperdevano in una chiesa ora-mai vuota in cui, lesto, si affacendava il sacresta-no desideroso di andare a pranzo oppure a cena.

Spero di non sbagliarmi. Ma mi vien da pensa-re che il maestro abbia cominciato a morire, comeal solito senza darlo troppo a vedere, nel momen-to in cui, oramai ammalato, ha dovuto abbando-nare la tastiera e la frequentazione del suo organo.

La morte era passata a fianco del maestro piùvolte fin dagli anni della adolescenza e della gio-vinezza in Pravisdomini. Lo aveva sfiorato almomento della febbre maltese. Aveva imparato a

considerarla una delle componenti di questonostro stare sulla terra. Abituato com'era a pren-dere le cose come venivano ed a vivere la giorna-ta contento di quello che il buon Dio regalava dalmattino alla sera. Diceva a me e ad altri: La morteprimo o dopo la vien per tutti. Se te ghe seri la portala vien comunque dentro, ma cattiva. Se la porta teghela versi, la vien dentro più bona.

La morte si fece preannunciare con la diagno-si di un male incurabile. La aspettò, per un'ulti-ma volta ancora, juxta modum per più di tre anni.Senza rivoltarsi, ma aprendole un pochino allavolta la porta perché venisse a trovarlo più bona.

Volle farsi accompagnare ancora una volta daJ.S. Bach. Si mise a studiare quel corale che ilgrande musico aveva dettato, fino alla 19a battu-ta, sul letto di morte: «Dinanzi al tuo trono io mipresento o Dio». Un piccolo gioiello musicale,privo di tutti gli straordinari «ornati» di altresimilari composizioni. Un discorso nudo, quasiarcaico, che procede per singole frasi pur splen-didamente armonizzate. Una preghiera affidata arespiri. Quasi una voglia del grande compositoredi ritornare alle origini a conclusione del suolungo e splendido percorso musicale. Nudusegressus sum de utero matris meae et nudus rever-tar illuc (Giobbe, 1, 21). Come a dire, in tradu-zione: di un latinetto piuttosto facile, «nudosono uscito dall'utero di mia madre e nudo viritornerò». Quel bisogno di "nudità" estrema cheil maestro, proprio lui che mai aveva bramato dipossedere, giunto alle porte dell'eternità, chiede-va di tradurre in preghiera al suo Bach. Un ulti-mo richiamo, fors'anche, agli inizi della suavicenda musicale. Alla "nudità" del suo oramailontano ed indissolubile incontro amoroso conla musica in quella chiesa di Pravisdomini freddae sorda ed indifferente.

Chiudeva gli occhi per sempre attorno alle11.00 del 25 giugno 2001. Un commiato discre-to come si addiceva ad una persona sempre edanche alla fine pudica e gelosa dei propri senti-

menti. La mattina era cominciata con la tradizio-nale visita di Fabrizia che, prima di raggiungere ilConservatorio Musicale di Udine, si era data dafare per l'assistenza al papà. Se lo era preso inbraccio con quell'energico e straordinario suoamore - oramai pesava più o meno una trentinadi chili - lo aveva accudito, lo aveva poi ridistesosul letto. La radio, inconscia del momento, con-tinuava a trasmettere musica classica. Al capezza-le arriva, convocato da Luciana, monsignore arci-diacomo Nicola Biancat.

Un piccolo, impercettibile sospiro e poi lapartenza definitiva. Ai piedi del letto gli occhionidella nipote prediletta, Valentina, figlia della suaCristiana, quella Valentina che gli aveva cinguet-tato attorno al divano od al letto durante gli ulti-mi tempi dell'esistenza. Sopra la testiera il quadrodella Madonna con il Bambino che, in anni ora-mai lontani, gli aveva regalato don Tullio. Quellaimmagine di fronte alla quale il maestro, prima diaffrontare il riposo notturno (con il quale, miconfessava Marilù, egli aveva da tempo un rap-porto piuttoso difficile) recitava la sua preghiera:Signor, ciome come che son. Prima del trapasso,monsignore, con una felicissima intuizione, avevalasciato la casa del maestro ed aveva raggiunto ilduomo dove si era messo all'organo. Sotto le abilidita di don Nicola, quell'organo che il maestroaveva tante volte fatto suonare per Iddio e per glialtri questa volta cantava solo per lui.

L'addio ufficiale, registrerà un lungo corteo dipopolo, ventinove o trenta sacerdoti, autorità edassociazioni, una straordinaria esecuzione musi-cale, un'omelia di monsignor Biancat. Il quale,vincendo la sua tradizionalmente nobile signori-lità, riuscirà ad avviare quella non facile predicaraccontando una barzelletta del maestro.

Il picolo nio xe vodo, maestro mio, da quando telo ga lasà, e noi ghe stemo tuti atorno, inamorai.

E però, mentre il feretro usciva, fendendo unaressa che quasi sembrava voler trattenere ancora,

almeno per un poco, quell'amico che se ne eraandato, mi sembra possano essere riproposti i giàcitati versi di Biagio Marin:

Ninte ne dà sto porto,marsise el bastimentose no l'ha vele al ventoe mar sul bocaporto.

Se ne è volato via, ancora una volta "maestrorivoluzionario" di vita, lui che per natura e for-mazione era un intelligente e saggio conservatore,lasciando non tanto un vuoto che oramai è tradi-zione asserire essere incolmabile. No davvero.Lasciandoci piuttosto la feroce constatazione dicome quel vuoto nessuno di noi sarà capace dicolmare. E dunque davvero più soli.

Si vogliono chiuse queste note chiuse, comelo sono state aperte, con dei versi. Sono diMartina, la nipote del maestro, figlia di Fabrizia.Li ha dedicati al maestro (e Marilù mi dice cheforse egli non ha potuto ascoltare) nemmeno tre-dicenne, il 12 maggio 2001 a poco più di unmese e mezzo avanti la scomparsa del nonno. Iltesto è stato quindi messo in musica dal bravoDaniele Zanettovich.

Così esisti

Una fiamma mi culla la menteun lampo ricorda il presentecosì ricordo la tua amicizia.Così ricordo la melodia del tuo speraree la forza del tuo credere.

Così ricordo il bimbo che ti guardada un abbracio di mamma.Così ricordo la tua scienza imparata dalla vita.Così ricordo la tua cultura imparata dall'esperienza.Così ricordo la tua ingenuità, saggezza del tuo essere.Così non ti ricordo. Perché così esisti.