Ferraris Maurizio - Il mondo esterno TR

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Maurizio Ferraris TL MONDO

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con questo libro vorrei sfatare, con tabelle, figure e argomenti, la diffusa superstizione circa l'onnipresenta degli schemi concettuali e del mondo interno ad essi, prima mostrando che cosa non funziona nella Critica della ragion pura; poi chiarendo che cos'è il mondo esterno, quel mondo che presupponiamo a tutte le nostre azioni, su cui ci giochiamo tutto, e che neghiamo poi tranquillamente quando sosteniamo che non esistono fatti ma solo interpretazioni.

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Maurizio Ferraris

TL MONDO

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Maurizio Ferraris

TL MONDO ESTERNO

Bompiani

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Dello sle!>so autore

Nell<~ <.olia n<~ Filosofia •'vlimic<l Srorid dell't•rmeneurica

Nello:t collana Strumenti Nielt-sche e /.1 filosofia del Novecento

© 2001 RC<; Libri S.p.A., Milano l edizione Studi llompiani ottobre 200 r

IS!lì\1 88-452-4925-5

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INDICE

Introduzione. ONTOLOGIA ED ECOLOGIA

IL PROBLEMA NON È I:ORNITORINCO. È KANT

Naturalizz.azione della fisica Analitica e antologia Dalla logica alla fisica Profitti e perdite l. Fisica e metafisica 2. Analitica e dialettica 3. Empirico e trascendentale 4. Il concettuale senza confini

Estetica Matematica ed ecologia

Spazio l. Euclideo e non euclideo

(a). Opposti incongruenti (b). Geometria sciatta

2. Aereo e terrestre 3. Aperto e chiuso 4. Altri animali

(a), Mosche, rane, gatti (b). Uomini e donne

5. Distale e prossima/e 6. Mentale e reale 7. La Terra

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Tempo 39 l. Anima 39 2. Term, mare, cielo 40

(a).Aprioritìr 41 (b). 7htscendentalitìt 41

Fenomeni 42 L La coscienza 42 2. La Jotogmfia 43 3. Sensazione e percezione 43 4. Lflpparenzn 44 5. La rosa in sé 45 6. L'arcobaleno e Saturno 46 7. Errore dello stimolo 47 8. l privilegi della logica 47

(a) genetica e logica 48 (b) genetica ed estetica 48

Logica 50

Deduzione 50 !.a sensazione come input 50 L'ipotesidelcaot 52 l. Il flusso e la regolarità 52 2. Vortici 53 3. Il mondo stabile 53 L'ipotesi dell'ordine 53 l. Sinosti del tenso 54 2. Cinabro 55 3. Immaginazione 55 4. Associazione di idee 56

Schemacismo 57 Come funziona lo schema 57 l. !!numero 58

(a). Le operazioni 58 (b). L'operatore 59

2. La linea 59 (a). La spazializzazione 60

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(b). L'oggetto (c). Il pensiero (d). La coscienza (e). La geometria

Perché non fUnziona l. Come si piega la linea? 2. La Francia è davvero viola? 3. Lo schema del cane

(a). Il piatto e il circolo (b). L'immagine e lo schema (c). Il quadrupede in generale

4. Figure e riconoscimenti reali 5. Sensibili insensibili

Prindpi l. Postulati del pensiero empirico in generale 2. AJsiomi dell'intuizione 3. Anticipazioni della percezione 4. Analogie dell'esperienza Sostanza l. Caratteri fisici

(a). Permanenza nel tempo (b). Che cosa significa "permanere"? (c). Per quanto tempo?

2. Caratteri ecologici (a). Sostanze o oggetti? (b). Durata nel tempo o durezza degli oggetti? (c). Eventi (d). Accidenti o qualità?

Causa l. Causalità percepita e causalità pensata

(a). Lo sciacquone di Metzger (b). La plafoniera di Hemingway (c). Uno sconosciuto in Irpinia

2. Causalità epistemiche e causalità fenomeniche Azione reciproca

Addio al trascendentale l. Giudizio riflettente

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2. Schematizzare smZil concetto 3. Contenuti non concettuali 4. Ontologia senZil trascendentale

CHE COSA SI PROVA A ESSERE UNA CIABATTA

Epistemologia/ontologia Distinzioni essenziali

L'Argomento della Ciabaua l. Uomini 2. Cani 3. ~rmi 4. Edera 5. Ciabatta

Vincoli antologici l. Soggetti e oggetti 2. La fallacia pragmatistica

(a). Afferrare (b). Evitare

3. Le cose e le loro descrizioni (a). Descrizioni (b). Rendimenti percettivi

4. Scienze futili

Inemendabilità l. L'incontrato 2. L'inemendabile

(a). Perché non si può (b). Perché non si deve (c). Perché non necessariamente si deve

3. L'esperienZil insegna? (a). La ripetizione (b). L'innovazione

4. Emendare l'intelletto e acuire i sensi

Prima distinzione: scienza/esperienza Deflazione epistemologica

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Schemi Teorie esplicite e ùtruzioni inconsce l. Il filtro culturale 2. Il filtro naturale Interpretazioni l. Infinità delle interpretazioni?

(a). Fatti veri (b). Fatti foki (c). Fattoidi e cose da non credere (d). Strano ma vero (e). Fatti interpretabili (f). Relazioni logiche inconsistenti

2. Calmierare le interpretazioni (a). Fatti (b). Interpretazioni (c). Fatti~e~interpretazioni

Intuizioni e concetti l. Le intuizioni senza concetto sono cieche?

(a). Senso letterale (b). Senso allegorico (c). Senso morale (d). Senso anagogico

2. Controesempi (a). Con i concetti non si vede (b). Si può vedere, ma senza concetti

3. Riconoscere oggetti 4. Le intuizioni senza concetto sono nude Esperienza pregressa l. Non è un meccanismo universale 2. Non risulta efficiente a livello antologico 3. Non funziona come dovrebbe

Concetti Concettuale e non concettuale l. Chiarezza e distinzione 2. Attività e passività 3. Giudizio 4. Astratto e concreto

(a). Categorizzare

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(b). Nominare (c). /de< (d). Attuale e potenziale

5. Fonna e materia 6. Concetto e scienza

Scienza Logos l. Linguaggio 2. Matematica

(a). O;servato e mimrato (b). Costruire e ridescrivere (c). Ubiquità limitata

Storia Libertà Infinito l. Prospettivùmo e inurosservazione 2. Infinità 3. Incompletezza 4. Apertura Te teologia

Esperienza Ecologia e mesoscopia l. Strumenti 2. Oggetti 3. l/mondo

Seconda distinzione: verità/realtà Empirùmo Fenomenologia Filosofia del linguaggio ordinario l. Revùione locale e revùione globale 2. Le streghe possono tornare 3. Verità procmuale 4. Nervoso, paturnie e scuse 5. ''Mi fa male qui" Realùmo ingenuo

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Terza distinzione: mondo interno/mondo esterno 176 Autonomie e antinomie 176 l. L'autonomia dell'estetica rispetto alla logica 176 2. L'antinomia dell'estetica rispetto alla logica 177 3. L'autonomia del mondo rispetto agli schemi concettuali

e percettivi 177

Autonomia dell'estetica rispetto alla logica 178 Critica del trtucendentale 178 l. Il presupposto 179

(a). L'aleatorietà 179 (b). La legge 180 (c). L'oggettività 181

2. La fallacia 182 (a). li così ma può anche essere altrimenti 182 (b). È così e non altrimenti, ma non perché deve mere così 183 (c). li così e deve essere così 183

3. Il colla.rso 183

Antinomia dell'eslelica rispetto alla logica 184 Illusioni 184 l. 1llusioni'intrateoriche 185 2. 1/lusioni' ecologiche 186 3. Illusioni vere e proprie 188 L'occhio ragiona a modo suo 188 l. Vedere come 189

(a). Vedere l'invisibile 189 (b). Vedere e infirire 190 (c), Vedereemùurare 190 (d). Vedere e visualizzare 190

2. Vedere e basta 190

Autonomia del mondo rispetto agli schemi concettuali e perceuivi 193 Causa e struttura 193 l. Materia 193 2. Forma 194 Immanente/trascendente 195 l. Come/osai? 195

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2. L'uso delle agende 195 "Interno alla nostra testa"/ "esterno alla nostra testa" 196 "Interno ai nostri schemi''/ "esterno ai nostri schemi" 197 l. lnemendabili percettivi 197 2. lnemendabili non percettivi 198

(a). Proposhioni logiche e grammaticali 198 (b). Nomi propri 199 (c). Istituzioni 199 (d). Unità di mùura 199 (e). Opere letterarie 200 (f). Regole dei giochi 200 (g). Concetti Vt>ri e Completi 201

3. Oggetti della ricerca scientifica in corso 201

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Per Paolo Boni Ex tt ipso excede: in exteriore homine habùat m

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INTRODUZIONE. ONTOLOGIA ED ECOLOGIA'

Ricordo una mattina del 1979, a Milano, nella redazione di Alfabeta. Gianni Sassi, uomo di non sterminate letture filosofi­che, sebbene di grande intelligenza, e purtroppo prematuramen­te scomparso, se la prendeva con un redanore reo di avere intro­dotto di strafare la recensione a un proprio libro: "Non si fa" ur­lava Sassi "è una questione antologica!". Erano gli anni in cui si incominciava a dire "epocale" per significare "importante", e l'antologia, da specializzazione filosofica, scava assurgendo a ter­mine di uso quotidiano, sulla scia dei successi di Heidegger. Vi­dea di Heidegger, infatti, è che sotto gli enti che incontriamo nel mondo si celi un Essere più fondamentale, che li rende possibili, determinandoli attraverso schemi concettuali (ossia, in concreto, con i libri che abbiamo letto e con i( linguaggio che parliamo); e che questo incontro con l'Essere, stratificato in favole, tradizioni· e biblioteche, costituisca una sorta di dovere, che surroga la reli­gione e la morale, sicché in fondo Sa<isi non aveva poi sbagliato confondendo l'antologia con la deontologia. Il dovere, poi, non riguarda solo l'uomo, ma anche gli enti, che, se vogliono essere davvero quelli che sono, bisogna che si misurino con l'Essere fondamentale: e neanche questa pare una idea così peregrina. Il conceno aristotelico secondo cui l'esperienza è il precursore della scienza, l'appello di Leibniz al principio di ragione per cui tutto ciò che è di fano, nel mondo, poggia su un dirirro logico, e infi­ne e sopranuno l'argomento trascendentale di Kant d'accordo col quale tutto ciò che può diventare scienza deve anche diven­tarlo - proprio come ogni uomo deve diventare morale, giacché può farlo-, congiurano nella medesima direzione. E che Essere e tempo costituisse un pezzo di filosofia trascendentale parve abba-

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stanza chiaro già a L6with, quando ne correggeva le bozze per conto del suo professore.

A lungo ho pensato che fosse così, poi sono caduto in per­plessità. La mattina del 28 settembre 1999 ero a Città del Messi­co, e avevo da poco incominciato a lavorare a questo libro, che è una critica dell'abuso degli schemi concettuali e degli argomenti trascendentali in antologia; a un certo punto, il mondo esterno ha battuto un colpo: la stanza ha incominciato a tremare, sulle prime credevo che fosse una allucinazione, non mi ero mai tro­vato nel pieno di un terremoto. Se il terremoto di Lisbona ha poturo costituire una seria obiezione alle filosofie della storia e alla tcodicea, quello di Città del Messico potrebbe valere come una secca smentita della identificazione tra omologia e Significa­to dell'Esistenza: non sapevo granché di come si presemino i ter­remoti, non mi aspettavo alcunché di simile, c invece le cose so­no andate come sono andare per me e per altri 25 milioni di per­sone intorno a me. So che l'argomento suonerà sospetto, giacché Lenin lo aveva adoperato contro l'empiriocriticismo di Mach, però il mondo era un mondo incontruo, imprevisto, discordan­te, eppure non allucinatorio; così che il :.isma offriva un'altra ver­sione dell'attacco dci Buddenbrook, quando la piccola Antonie, su richiesta del Console suo nonno, elenca gli enti creati: "Credo che Dio ... ha creato mc insieme con tutte le creature ... e oltre a ciò gli abiti e le scarpe ... i cibi c le bevande, la casa e il podere, la moglie e i figli, i campi e il bestiame". Il creato è un mondo ester­no incontrato, in cui le cose erano quelle che sono prima della nostra nascita, e tali permarranno dopo la nostra morte, fra la Terra e il cielo, in barba a tutte le nostre filosofie trascendentali. Quale delle due versioni della antologia, quella Sassi-Heidegger o quella Sisma-Amonie, è la giusta?

Un po' di storia può tornare utile. L'omologia è parte della me­tafisica, e se Aristotele non ha mai parlato di "metafìsicà', a mag­gior ragione non si sarebbe mai sognato di discettare di "antolo­gia". Parecchi secoli dopo, Avicenna (980-1037) aveva precisato che il soggetto della metafisica è l'ente in quanto ente; ancora più tardi, Francisco Su:irez ( 1548-1617) riordinò la materia, riparten­dola in metafisica generale, che tratta dell'eme in quanto ente, e in metafisica speciale, dedicata a psicologia, teologia e cosmologia razionali; poco dopo, nel 1647, il cartesiano tedesco Johannes

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INTRODUZIONE

Clauberg (1622~1665) escogitò un nome per la metafisica gene~ rale: "onrosofia"; 2 e, nella prima metà del secolo successivo, quel~ l'immenso e candido pedante di Christian Wolff(1679~1754) lo cambiò un poco- "antologia", finalmente- e compose un trana~ to che fece epoca. l Tuttavia, la gloria della novamiqua fu breve, e già nel§ 33 della Enciclopedia (1817) Hegd poteva trattarne co­me di un vecchio arnese scolastico, nominalistico e inconcluden~ te. Il motivo della repentina obsolescenza risulta abbastanza tra­sparente: circa quarant'anni prima, nella Critica della ragion pura (1781), Kant aveva proposto di fondare la metafisica come scien~ za; e, poiché la scienza paradigmatica era, per lui come per noi, la fisica, la metafisica di scuola apparve allora come il vocabolario di una lingua morta: a che pro parlare di em quatenus est ens, quando possiamo conoscere le leggi fondamentali della materia? Se la filo­sofia vuole trovare ancora uno spazio, bisogna che instauri un rap~ porto essenziale con la fisica, sigillato dall'idea di filosofia trascen­dentale, chiamata a conferire uno spessore antologico alla episte~ mologia. La fisica colleziona e relaziona fatti, la metafisica deve dimostrare che questi riposano sopra dei diritti: se il mondo risul~ ca matematizzabile, è perché i nostri sensi e il nostro intelletto so~ no naturalmente matematici, e il compito della filosofia, che si av~ via a diventare teoria della conoscenza, consiste nel naturalizzare la fisica, ossia nel mostrare come la scienza matematizzata della natura non rappresenti una mera contingenza storica, che avrebbe potuto non sorgere o crescere altrimenti, bensì una dotazione co­stitutiva della natura umana. Come ricaduta, il mondo non è quello che incontriamo nell'esperienza, bensì, più profondamen­te, quello spiegato dalla fisica.

Malgrado le apparenze, la situazione finisce per risulcare vaga­mente paradossale: proprio nel momento in cui l'esperienza vie­ne identificata con la fisica, quest'ultima si discosta sempre più dalle nostre evidenze percettive, raccontandoci di un mondo in cui la stessa fisica di Newron appare come il caso particolare di leggi che oltrepassano ogni nostra esperienza sensibile. Perché un conto è apprendere che la Terra gira intorno al Sole, un altro è provarsi a cucinare in uno spazio di Minkowski. Certo, dai tem­pi di Democrito si pensava che sotto il mondo incontrato incu­bassero atomi invisibili a occhio nudo, e che sopra di lui incom­bessero schemi concettuali necessari per conoscerlo: ma in fondo

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INTRODUZIONE

si poteva concepire una sovrapposizionc quasi perfetta tra cosmo sensibile e cosmo intelligibile. Quest'ultimo era pressappoco co­me quello dei tavoli e delle sedie, solo più minuto, e gli atomi dell'acqua dovevano fluire più dolcemente di quelli della Terra, quelli dell'aria svolazzavano sottili, ma i più lievi di tutti erano senz'altro quelli del fuoco; il mondo delle idee finiva per essere uguale alle cose che si trovano nel mondo sublunare, suscitando l'imbarazzante dibattito circa l'esistenza dell'idea dello sporco sono le unghie. A quei tempi, l'universo della scienza, rispetto a quello dell'esperienza, appariva pressappoco come l'oltretomba sognato dalle figlie del Gattopardo, "identico a questa vita, com­pleto di wtto, di magistratura, cuochi e conventi". Adesso non più, e Kant fa appena in tempo ad assimilare l'esperienza alla fi­sica, che questa esorbita nel microscopico e nel macroscopico.

Si capisce bene perché, con &sere e tempo, Heidegger inten­desse riannettere l'oncologia alla sfera dell'esperienza, cioè allo spazio della quotidianirà. Tunavia, nella sua mossa c'è qualcosa che suona fasullo: per esempio, quando leggiamo che forse non abbiamo ancora incominciato a pensare, come porrebbe dirlo un oncologo che dichiari che per il momento non si è trovata una terapia risolutiva per il cancro. Heidegger ritiene che, affinando il nostro cervello o magari sfregandoci gli Occhi, vedremmo co­me è davvero il mondo? E, se è così, dove va a finire il rapporto tra antologia e quotidianità? La buona risposta consisterebbe probabilmente in una domanda: "E, allora, che cosa abbiamo fatto sino a ora? Non abbiamo pensato, abbiamo semplicemente creduto di pensare, come uno stregone che contasse di curare i reumatismi con un intruglio di rospo?". Per tacere poi del fatto che nemmeno Heidegger si è auardato a suggerire, per esempio, che non abbiamo ancora incominciato a sentire; sapeva bene che in quel campo la sua esortazione avrebbe avuto la vita effimera deii"'A me gli occhi" detro da un prestigiatore. Tutto l'appello al­la differenza tra essere c eme, tra il fenomeno apparente e la realtà profonda che lo condiziona, assume dei contorni bizzarri quando venga trasposto nella sfera delle interazioni umane e più estesamente ecologiche. Che cosa direste di chi vi suggerisse che il pollo nel vostro piatto non è propriamente un pollo, non è un pollo als Solches, che il vero pollo non è quello? Sospettereste di essere incappati in un nostalgico dei polli ruspanri, ma non pen-

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JNTRODUZJONF.

sereste che vi stia suggerendo che il pollo sia una mera apparen~ za. Difatti, c'è una ovvia differenza di valore nella frase, ponia­mo: "questo tavolo non esiste, esistono solo particelle subatomi­che", secondo che sia detta da un fisico, oppure da qualcuno che stia cercando di convincere un ufficiale giudiziario a non proce~ dere alla confisca dei suoi mobili. Nel primo caso abbiamo a che fare con una affermazione scientifica del tuuo legittima; nel se­condo, con un ingegnoso sofisma, che peraltro servirà a poco, giacché il funzionario procederà comunque al sequestro di quel~ l'aggregato di particelle subatomiche e non di un altro.

Di solito, il riduzionismo viene impmato ai positivisti, ma anche nell'appello all'essere che non è l'essere dell'ente si fa avan~ ti un riduzionismo sui generis, nato dalla tradizione delle scienze dello spirito che, alla riduzione matematizzante del fenomeno proposta dagli scienziati naturali, si sono limitate a contrapporre schemi concettuali di secondo livello, tributari della critica leib~ niziana4 a! meccanicismo canesiano: bisogna considerare non solo i nessi causali e meccanici, ma altresì quelli finali: scopo, si~ gnifìcato, valore ccc. Imboccando un simile cammino, l'onrolo~ gia diventa una epistemologia peculiare, c i due sentieri, quello degli analitici e quello dei continentali, si incrociano nello stesso giardino. Prendiamo Quine: per lui, in ultima analisi e con una posizione molto tradizionale, non esistono molte scienze, bensì una sola, la Scienza Paradigmatica, che trova il suo nocciolo du~ ro nella fisica, nella logica c nella matematica; una imponente ri~ caduta antologica di un simile impianto è poi che ci sia anche un solo oggetto, il mondo fisico quale è accessibile alla scienza mare~ marinata della natura. Sin qui, tutto bene, lo si sapeva, Qui ne è fatto così; ma ora prendiamo Gadamer: lui si proclama paladino di "esperienze cxtrametodiche del!a verità", cioè di arte c storia; e ritiene ceno, almeno a livello esplicito, di essere diverso da Qui~ ne. T unavia nel profondo non è così, non solo de facto, giacché Gadamcr usa aerei c treni e non cavalli o portantine, ma anche de iure, poiché non solo ragiona anche lui, sia pure criticandolo, di un me[Odo della Scienza, ma inserisce il suo discorso all'imer~ no di una filosofia della storia, ossia di un processo di sviluppo universale che, nelle discipline umanistiche, costituisce il contro~ camo della teleologia scicmifìca in altri settori. Posto l'assioma, i continentali divaricano le loro opzioni a seconda di quello che

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1\!AUR.JZ!O FE!UVIR!S

devono fare. Se sranno fisicamente male, vanno dal medico e non da Rilke, cioè ritengono che la cosa migliore, in caso di affe­zione organica, sia ricorrere alla scienza marematizzata della na­tura; se hanno semplicemente il nervoso o le paturnie, vanno da Rilke c non dal medico: ossia sostengono che, per quanto aniene alla sfera pratica delle nostre decisioni c aspirazioni, la scienza non è tutto, rappresentando l'icerazionc di protocolli non inven­tivi, laddovc l'arce ed esperienze congeneri procurano "aperture" del mondo, dorate della medesima carica innovativa che gli ana­litici amibuiscono alla scienza. Quanto dire che l'onrologia è sempre una dépendance dd la epistemologia, non importa se fìsi­calista o anrifisicalista, e che l'oltrepassamento della metafisica offre una versione romantica del riduzionismo fisicalistico.

Essere e tempo esce nel 1927. Nel medesimo giro d'anni, i due gestaltisti berlinesi Ono Lipmann e Hdmuth Bogen pubblicaro­no Nai"ve PhysiV La loro idea di fondo non era che il mondo dell'apparire dovesse venir ricondotto alla sua essenza più profonda e vera, giacché nell'esperienza quotidiana non abbiamo l'impressione di muoverei era immagini e chimere, bensì rra cose solide e determinate: serve poco sapere che i colori sono onde cromatiche e che la Terra è rotonda e gira vorricosamence, se poi vogliamo un abito di un ceno colore, passeggiamo, costruiamo case; ma serve anche poco, in fin dei conti, chiedersi se abbiamo o non abbiamo ancora incominciato a pensare. Il fatto e il dirit­to si trovano su due piani distinti e spesso contrastanti, il razio­nale non risulta necessariameme uguale al reale, né pare necessa­rio che ciò avvenga, sicché alla fisica non è concessa l'ultima pa­rola, a meno che si vogliano produrre enunciaci incredibili sul mondo che condividiamo, diventando scettici (''questo cavolo appare tale a me e solo a me") o nichilisti (''questo tavolo non esiste''). Qui la differenza su cui baso il mio libro, quella era an­tologia ed epistemologia, esperienza c scienza, fisica ingenua e fi­sica esperta, ~ppare cruciale: proprio il fatto che ci siano esperien­ze inemendabili limita potentemente la tesi della onnipresenza degli schemi concettuali. Non è vero che il pensare sia desti naro esclusivamente alla verità: si può apprendere un linguaggio spe­cialistico e diventare professori di teoria della probabilità, il che però non ci metterà al riparo dal commettere errori comunissimi appena fuori dall'aula{; ancor più, non è vero che il vedere è il

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INTRODUZIONE

docile servitore del pensare, poiché posso sapere Wtto quello che voglio, tuttavia continuerò a vedere le cose in un certo modo. Se si vuole anche solo abbozzare una cridca al riduzionismo, è di qui che bisogna partire, giacché la maniera in cui ci appaiono le cose non può venire emendata ricorrendo a un livello più fonda­mentale della materia o dello spirito. Le nostre esperienze non rappresentano natura/iter informazioni finalizzare a implementa­re teorie, né queste ultime costituiscono la nostra seconda natu­ra; sono il frutto di una contingenza storica in una cultura deter­minata, che ha dato vita alla scienza, mentre altre non ne hanno avuto né l'idea né l'interesse.

Del riduzionismo, o della inflazione epistemologica, il colpe­vole è Kant, cioè la filosofia trascendentale: se infatti sosteniamo che tutta l'esperienza rappresenta la preistoria della scienza, assu­miamo che se qualcosa ce di fatto è perché di dirino deve esserci; ed è un atteggiamento che porta dritto a maledire le stelle come un eroe di Merastasio, giacché allora ci troveremo in un mondo spesso ingiusto, inspiegabile, insensato, pieno di illusioni ottiche e di conti che non romano. Perché non chiedersi, invece, se il di­fetto non stia nd manico? e se, poniamo, gli ingannati sensi non siano come tali predisposti necessariamente per la scienza, dun­que non appaiano imeressati a mentire, non imporrandogli mi­nimamente di scabilire la verità di qualcosa, ma semmai di ga­rantire un comportamento adatto all'ambiente? Se si tratta di sottolineare la differenza ua vedere e pensare così come tra espe­rienza c scienza, c'è da domandarsi se il vero campo della ontolo­gia, di quello che c'è e con cui ci misuriamo nella vita, sia offerto non dal mondo agli schemi concettuali, cioè dall'apriori concet­tuale della epistemologia come ermeneutica e dell'ermeneutica come epistemologia, bensì dal mondo esterno, ossia da ciò che non si spiega né si interpreta né si trasforma, come uno strato di roccia solida, incontrata e inemendabìle, che impedisce di scava­re ulteriormenre.? Non perché si presenti come una barriera taci­tante e prepotente o come una minestra da mangiare a tutti i co­sti, ma perché, ohre una cena soglia, che ha strenamente a che fare con la nostra vita, il suo ambiente e il suo tempo, il dubita­re, l'interpretare, il trasformare, così come il credere di dubitare, interpretare e trasformare, ha un termine, cioè si svuota di senso. Ci sono diversi livelli di realtà, che si distinguono anzitutto per

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le loro diverse durate: il mondo fisico c le sue trasformazioni si perdono in sterminate antichità, laddove le persone cambiano in tempi facilmente osservabili, c ogni giorno si pubblicano mi~ gliaia di articoli scientifici che confutano articoli apparsi poche settimane prima; in mezzo, ci sono le ere astronomiche, gli evi geologici c zoologici, le dinastie egiziane e (scriveva Gadda) le egire. Appare fmile voler regolare le trasformazioni dei nostri sta~ ti d'animo con tempi cosmici (l'asrrologia non gode di buona stampa), ma allo m. si dovrà ammenere che non è meno futile far dipendere la nostra esperienza del mondo dagli schemi concet· mali che usiamo per intcrprerarlo: si possono dare molte imer~ preta1.ioni scientifiche dci colori, tuttavia c'è un senso in cui tut~ ti possiamo constatare, andando in Grecia, che "il mare color di vino" di Omero è una notazione fcnomenologicamcme inccce~ pibile. È l'immane atavismo dei sensi, che suggerisce una circo­stanza doponmo poco rilevata: il vero plaronismo è quello della percezione. Viceversa, battendo la srrada del trascendentale, si genera un mondo capovolto: si posrula un universo che non po­trebbe funzionare senza schemi concettuali c condi1joni di passi· bilità, proprio come in difetto di studenti e professori non ci sa~ rcbbcro università, e a questo punto è ovvio che senza trascen· dentale non muove foglia. Di fronte a un tavolo, posso benissi~ ma dire che tra milioni di anni, posto che ci siano ancora la scienza e l'umanità, la ricerca non sarà finita; ma di qui a preten· dere che adesso, per adoperarlo come suppono di libri e penne, mi accorrano migliaia di categorie, ne passa. A crederci, si attua (e di fano si è attuata) una inflazione epistemologica, cui vorrei contrapporre una deflazione che poggia su due motivi.

Il primo suona: così va il mondo, tuttavia non c'è motivo al mondo perché debba andare così; il passaggio dal fatto al diritto non risulta garantito, sicché le categorie logiche esercitano una presa limitata, né .si uana di proporne di alternative, bensì di ar· ricolare una tipologia in cui la forma "se può, deve" è soltanto un caso, accanto a "può, ma non necessariamente deve" e a "non può". Il secondo è solo un po' più lungo: non esiste a tutt'oggi una sola prova in grado di dimostrare che quello che si ritiene di fondare con il trascendentale, in senso stretto o largo, non si pos~ sa fondare anche senza di esso, giacché affermare l'insussistenza di esperienze non mediare da schemi concettuali non può venire sottoposto a un esperimento decisivo, giacché supporrebbe la

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INTRODUZIONE

condizione di un osservatore che non abbia alcuna esperienza. 8 Il che risulta di fotto impossibile, ben più del tentativo di disporre un enorme foglio dietro alla Luna, che cc la farebbe apparire gri· gia invece che bianca. Nondimeno, che un simile esperimento, non surrogabile dal ricorso a fanciulli cresciuti dai lupi, da ciechi risanati da visori computerizzati ecc., si riveli inattuabile, no!: costituisce solo un argomento avverso alla percezione direna. E anche un controargomento che, dimostrando come la percezio­ne indirerra risulti infalsificabile, fa sì che quest'ultima appaia piuttosto come un dogma e una ipotesi di lavoro che non come una verità accertabile: di modo che proprio l'argomento soggia­cente alla scienza risulta inemendabile. Non è escluso che l'espe­rienza richieda non solo il "qui", ma anche !'"ora"; tuttavia qual· cuna potrebbe seriamente dimostrare o negare che per percepire un oggetto non si debba altresì disporre di 3.857 categorie ado­perate inconsciamente? Inversamente, sarà poi vero che per dire "lì", "qui", "questo", "ora" occorre un complicatissimo apparato? E, soprattutto, come dimostrare che ci diciamo "lì", "qui", "que­sto", "ora" anche quando non parliamo, camminiamo per strada ecc. ccc.? Non costituirà una prova affine alla impossibilità di una ars oblivionalis, per cui, una volta che ci siamo messi in testa un elefante rosa, non riusciamo a schiodarcelo? Di solito, arriva­ti a questo punto, si dà un calcio alla scacchiera e si precisa che il trascendentale non è costitutivo bensì regolacivo. Nondimeno, se il trascendentale non serve a costituire qualcosa, non saprei proprio che farmene, almeno in antologia; così, a farla breve, il problema non è l'ornitorinco -la difficoltà di un sistema dell'a­priori nel confrontarsi con una conoscenza empirica - bensì Kam, ossia l'impianto del trascendentale che con il tempo non ha cessato di inflazionarsi.

Vediamo dunqu.e come funzionano le cose con il rrascenden· tale, e poi come procedono senza di lui, nel mondo esterno agli schemi concettuali.

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IL PROBLEMA NON È I.:ORNITORINCO. ÈKANT

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Natucalizzazione della fisica

Analitica e ontologia. Nella Critica della ragion pura,9 il rap­porto tra Analitica e Dialettica è quello tra metafisica generale c metafisica speciale secondo la panizione di Suarez. Lo si può ve­rificare avendo smtocchio la tabella seguente.

Tavola l. Metafisica generale e metafisica speciale. Versioni epistemologiche

Su;ircz Metafisica generale: Metafisica speciale: ente in quanto ente (antologia) Cosmologia

Psicologia Teologia

Kant Analitica: Dialettica: Cosmologia e Psicologia (tutto Teologia, e tutto ciO che, ciO che è accessibile alla fisica nella Cosmologia e nella newwniana e alla imrospL"Zione Psicologia, non è accessibile cartesiana) alla innospezione o alla fisica

newtoniana

Dunque, Kanr nella Analitica sta proponendo la sua onrolo­gia. Non la trae direnamente da Smirez, bensì dalla Metafisica di

_ Baumgarten, adottata a lezione come libro di testo. Anche qui torna utile una tabella.

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MAURIZIO FEI~RARIS

Tavola 2. La Metafisica di Baumgarten nelle sue articolazioni fondamentali

Ontologia (Pr~:dicJti ddl'ente)

Cosmolo~ia

Psicolo~ia

l~ologia

Interni E.>tcrniorelativi

Universalicdis iumivi ldcnticoediverso Sirnultaneoc~uccessivo

Causa e causato Segno c segnato

Di nuovo, il rapporto Analitica/Dialenica nella Critica della ragion pura riflette con esattezza la partizione tradizionale, come risuha da una terza tabella.

Tavola 3. Analirica c Dialenica nella Critim della ragion pura

An.o~litica (Predicati dell'eme)

tLosmo ogia Psicolo ia Teologia

Dci concetti Giudizi c categorie

Dci principi So.~tanu

(limitandosi alle Azione reciproca analogicddl'csperiem.a, Causa per motivi che si chiariranno)

Dalla logica alla fisica. Sin qui, abbiamo a che fare con sem­plici corrispondenze strutturali, che rivelano tunavia un punto cruciale, ossia che l'Analitica è l'antologia di Kant. C'è però una differenza importante. Su:lrez, e ancor più Baumganen, attraver­so Leibniz c Wolff, assumono che l'oggetto della antologia con­sista in turco ciò che non risuha logicamente contraddittorio: una montagna d'oro rientra nella antologia, un cerchio quadrato no. La situazione- che dipende dal primato del principio ,tli ra-

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IL I'ROBLEMA NON i:. LOR>-..;lTORJ};'CO. t KANT

gione- non soddisfa Kant: raccogliendo una critica serpeggiante ai suoi tempi, esclude il possibile dalla sfera dcll'onrologia, da cui vengono espulse anche le montagne d'oro, gli ippogrifi e la stes~ sa telepatia (giacché non è motivata dalle caratteristiche di questo mondo), e restringe l'ambito della onrologia al reale, vale a dire, in ultima istanza, al sensibile- i l 00 calleri reali sono sottomano -per contrapposto al possibile. Proprio perciò il principio di non contraddizione vale solo come norma per i giudizi analitici, non avendo a che fare cçm il reale, bensì con mere proprietà formali dell'intelletto, laddove il principio supremo di turri i giudizi sin~ tetici diviene l'accordo dell'intuizione con il senso imerno, cioè una versione della adaequatio dell'inrelleno con la cosa, che è an~ che il discrimine tra logica formale e logica trascendentale. Ma che cosa intende Kant con "reale"? Nel momento in cui circo~ scrive l'ontologia, è anche forzato a esibire i criteri in base ai qua~ li si stabilisce che qualcosa è reale, e la sua risposta è che il reale è l'oggetto della fisica: la dipendenza dell'antologia rispetto alla lo~ gica si trasforma in una nuova subalternità.

Donde un'altra conseguenza: la fisica newtoniana è una fisica matematica, c: dunque: la maremarica, cacciata dalla porta attra~ verso la critica del razionalismo, rientra dalla finestra attraverso l'adozione del fisicalismo. Una simile subordinazione, solo un po' camuffata, apre una breccia da cui fanno irruzione tuni i pre~ giudizi della filosofia moderna: Kant muove dal presupposto cartesiano secondo cui ciò che è in noi è più ceno di ciò che è fuori; da un simile assioma, ricava la conseguenza secondo cui conosciamo davvero solo quello che abbiamo fabbricato da noi, il che spiega l'insistenza sulla rivoluzione copernicana e sullo schematismo; e, per attenuare l'alone di arbitrarietà che circonda la soggettività, trasforma il blando plawnismo degli empiristi, che trattano le idee come produzioni psicologiche, in un placo~ nismo più forre, per il quale le idee sono nella nostra testa, ma contemporaneamente assicurano la vera ossatura del reale, che si compone di triangoli, cubi, icosaedri. Ma non si tratterà di ri~ proporre la cosmogonia fantastica del Timeo, bensì di applicare la tutt'altro che fantastica cosmologia di Newron: lo spazio è geometria, il tempo è aritmetica, i nostri sensi sono metri e ter~ mometri naturali; e tutto ciò che non è matemarizzabile non è, o comunque è meno, di tutto il resto.

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M:\t:HlZIO FFRII.AitiS

Di primo acchito, può non apparire ovvio, giacché Kant non dice che siamo fisici c matematici innati, cioè non sostiene che applichiamo le leggi di Newton cune le volte che lanciamo un sasso in aria e ci scansiamo per non riceverlo in testa. Tuttavia, il suo discorso comporta che Je st1peHimo dttvvero quello che focàa­mo, allora ci renderemmo conto che una infinità di calcoli ha luogo nella nostra testa quando tiriamo il sasso. Per questa via, un felice modo per descrivere quello che accade nella nostra testa e nel mondo viene trasformato nella vem n11tum di ciò che accade nella nosua resta e nel mondo in cui quella testa si trova per pu­ro caso. K:mt procede a una matematizzazione dell'esperienza, che è un altro modo per dire "naruralizzazione della fisica": le leggi di Ncwron sono assunte come necessità della natura uma­na, valide per noi e per esseri simili a noi; la fisica non è swria, bensì natura, c quest'ultima è un libro serino in caratteri mate­matici. La leva della nacuralizzazione è la rivolm.ione, attuata sul "modello" dei geometri e dei fisici: la matematica funziona straordinariamente bene per la descrizione del mondo fisico, però la sua efficacia appare essenzialmente fattuale; la metafisica deve mostmre che il fotto poggi11 w un diritto.

Profitti e perdite. La soluzione riapre un campo per la memfì­sica, ma non è priva di problemi:

l. Fisime met11jìsim. Dove finisce la fisica e dove incomincia la metafisica? Kant ha visto quanto riesca difficile distinguere la metafisica dalle altre scienze in base al suo maggiore grado di universalità, giacché, come sostiene lui stesso (B XXII), pare ba­nale pretendere che il concerto di "estensione" appartenga alla metafisica, e così pure quello di "corpo"; ma quakhe seria diffi­coltà incomincerebbe quando ci si chiedesse se anche il concetto di "corpo fluido" rientri nella metafisica, perché, di questo passo, tutto sarebbe "metafisica". Riconoscere i mali non è ancora cu­rarli, c difatti la morale non è difficile da trarre: basterà tenersi un passo indietro rispetto alla fisica, e avremo la metafisica, che sarebbe dunque una fisica un po' più fiacca e sfuocata. La meta­fisica ha inizio nel momento in cui si socchiudono gli occhi, se­condo una divisione del lavoro che poggia proprio sulla distin­zione- che anche Kam reputa improbabile- tra ptincìpi gene­rali e princìpi particolari. In proprio, non le resta che il dominio

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l l PROBLEMA NON E J.'ORNJTORJNCO. E KANT

delle domande che non hanno risposta o ne possiedono troppe, di cui non è più questione nell'Analitica, bensì nella Dialettica.

2. Analitica e dialettica. Ma l'assenza di risposta è eterna o temporanea? E, se è solo transiroria, dove finisce l'analitica e do~ ve incomincia la dialettica? Già in Nieczsche un tema come quel~ lo del cominciamento o della eternità del mondo appare tutt'al­tro che indecidibile: da una pane, c'è una ipotesi scientifica, quella della morte termica dell'universo, che se finisce deve avere avuto un inizio nel tempo; dall'altra c'è l'ipotesi- che Nietzsche avanza come genuinamente sc_ientifica, e che difende proprio perciò - dell'eterno ritorno. E un ragionamento che si può estendere: gli sviluppi della genetica non avranno magari risolto il problema teologico, come ottimisticamente lasciò intendere l'ex Presidente Clinton quando sostenne che il Progetto Genoma ha svelato il "linguaggio di Dio", ma sicuramente hanno falsifi­cato l'asserto10 secondo cui neanche un Newton futuro avrebbe mai potuto spiegare anche semplicemente lo sviluppo di un filo d'erba. Non è un problema empirico, bensì concettuale, giacché tutto ciò che nella dialettica appare come indecidibile per ragio­ni di diriuo, potrebbe risultare tale solo per ragioni di fatto.

3. Empirico e trascendentale. Il problema ha una ripercussione più vasta: dove finisce l'empirico e dove incomincia il trascen­dentale? Come abbiamo visto, la distinzione tra la metafisica e l'altra scienza, la scienza tout-court non risiede negli oggetti -generali nella prima, particolari nelle altre -, bensì nel metodo, poiché la matematica e le altre scienze, che ne derivano diretta­meme, esaminano l'universale nel particolare, laddove la metafi­sica coglie il particolare nell'universale. Tuttavia, la sfera del par~ ticolare e del decidibile essendo indeterminata, la metafisica ap~ pare_come un.tessuto labile e provvisorio, giacché la fisica è in connnuo movimento.

4. Il concettuale senza confini. Così, se abbracciamo la rivolu~ zione copernicana, otteniamo il contrario delle certezze che spe~ ravamo di ricavare: conosceremmo solo la conoscenza, dunque non avremmo, propriamente, alcuna conoscenza, bensì mere taucologie, conferme di schemi concettuali, che d'altra parre ri­sultano costitutivamente instabili. E il vantaggio quale sarebbe? Quello di poter spiegare letteralmente tutto, poiché la macchina trascendentale non è diversa dalle finzioni della psicologia delle

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facoltà, che spiegava il sonno attraverso la virtus dormitiva. Lo si può vedere nella tavola 4, che costituirà lo schema della mia in­tera lettura di Kant.

Tavola 4. I.: estetica trascendentale e l'analitica come naturalizzazione della fisica

E.stctita Maumaticaro;;:=':±~:'i:{~"::':::'è:c~~Zij:;c-1 ---------1 Fenomeno(fisica)

Analitica Logica Giudiziccategorie

Deduzione Schematismo

Fisi(tt Sistemadciprincìpi Postulatidelpensieroempirico in generale Assiomidell'imuizione Amici azioni della percezione Analogiedcll'esperien;z.a

I:Sostan;z.a Causa Azione reciproca

Diale!!ica Antinomie: ciò che la fisica non sa, e su cui dunque la metafisica non si pronuncia

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Estetica

Matematica ed ecologia. Ecco i( presupposto che assicura il trascendentale senza confini. Kant iJlustra un apparente parados­so: non è che vediamo le cose e poi a partire dalla loro posizione ricaviamo lo spazio, e dal loro movimento deriviamo il tempo; proprio al contrario, senza spazio e senza tempo come intuizioni sensibili pure non si darebbe esperienza di oggetti. Un paradosso che del resm viene recepito volentieri, prestando manforce al senso comune, secondo il quale vediamo le cose in un cerco mo­do e non in un altro poiché i nostri organi sono fatti in un cerco modo. Rispetto al senso comune, tuttavia, Kant aggiunge, in funzione polemica, un pezzo impegnativo: i nostri organi sono naturalmente matematici, ossia risultano strutturati proprio da quella che era rimasta la fonezza inespugnabile per l'empirismo, giacché appare arduo far dipendere la matematica dall'abitudine. L idea appare bizzarra, una voha che si sia dimenticata la contro­versia che motiva la scelta kantiana, non solo perché l'esperienza assomiglia ben poco alla matematica, ma soprattutto perché se c'è una caratteristica saliente dei processi percettivi rispetto a quelli logici, è proprio la circostanza che i primi generalmente non osservano quei princlpi di economia che viceversa governa­no l'ideale del pensiero, e che soggiacciono alla tradizionale ele­zione epistemologica della matematica. Il Insomma, Kant non sembra considerare che quanto è definito dall'estetica trascen­dentale è un ambiente e non un foglio di carta in un laboratorio, sicché il modo migliore per cogliere i difetti di questa descrizione è confrontare la prospettiva kantiana con un approccio ecologi-

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MAUR.lZlO FERRARIS

co, visto che a Kanr preme dimostrare che lo spazio rende possi­bile l'esperienza, ma pensa che per farlo basti sostenere che rende possibile l'applicazione della geometria all'esperienza.

Spazio

l. Euclideo e non eucHdeo. Per Kanr esiste solo la geometria euclidea, e quest'uhima è conforme alla nostra percezione, rolti casi marginali. Rimproverargli di non aver tenuto conto delle geometrie non euclidee appare quantomeno anacronistico, ma il problema maggiore è che le nostre prestazioni percerrive risulta­no sovradimensionate e sorrodimensionate rispetto alla geome­tria euclidea, di modo che la sovrapposizione su cui si basa l'inte­ra estetica trascendentale non tiene: il fotto percettivo non corri­sponde a un diritto matematico, a meno che si pretenda che l'Es­sere sommo ha sbagliato i suoi conti, o sia un Malin Génie che si divene a ingannarci.

(a). Opposti incongruenti. Insomma, i conti non tornano sia per eccesso sia per difeno. Da una pane, e Kant se ne è reso con­to nel caso degli opposti incongruenti, ci sono figure -come la mano destra e la sinistra, le spirali di due conchiglie o di due piante di luppolo -, che avveniamo senza difficohà come sim­metriche, ciò che non sarebbe possibile qualora la nostra geome­tria fosse sohanto euclidea. Così, siamo capaci di cogliere la sim­metria dei triangoli tracciati su due emisferi opposti, come nella figura qui sono, con una prestazione rispetto alla quale la geo­metria delle dimensioni lineari risulta insufficiente.

La nostra geometria ingenua comprende addirittura taluni elementi di topologia, giacché siamo in grado di manipolare bu-

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l l PROBLEMA NON~ L'ORNJTORJNCO. ~ KANT

chi di ogni sorta; del pari, usiamo senza difficoltà una scacchiera, dove però l'ipotenusa, diversamente che nella geometria eucli­dea, è di tre caselle proprio come i cateti. Questa circostanza ap­pare banale, ed è ricevuta tradizionalmente in pittura: per esem­pio, il modo in cui la fìnestra si riflette nello specchio delle Noz­ze Arnoifìni è un caso di geometria non euclidea. Però, se Kant avesse avuto ragione in tutto e per tutto, l'immagine di van Eyck dovrebbe apparirci inquietante e inspiegabile.

(b). Geometria sciatta. D'altra parre, ci sono fìgure come la se­guente, implausibili già in termini di geometria euclidea, che noi viceversa consideriamo plausibilissime, rivelandoci così geometri sciatti 12

E si consideri 13 come apparirebbero Dante e Virgilio di Si­gnorelli se davvero assomigliassero alla loro ombra (mentre noi, nel guardare il quadro, non ci badiamo più di tanto):

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t Queste osservazioni testimoniano della circostanza che la no~

stra percezione dello spazio non risulta naturalmente conforme alla geometria euclidea, e che i contrasti, sebbene non immensi, bastano a confutare l'ipotesi di un'armoniosa corrispondenza tra fenomenico ed euclideo (cioè per Kant, "geometrico" tout­court). Si può ruuavia capire il motivo per cui Kant ha ritenuto necessario giocare la carta di una reversibilità completa, e cioè la necessità di menere la percezione al riparo dalla sua presuma contingenza, così come di replicare ai tentativi empiristici di portare l'abitudine e l'esperienza sin dentro la geometria, per esempio nella costituzione della profondità. Tunavia, a puntare su una equazione senza residui tra geometria e spazialità, Kanr si troverebbe in seria difficoltà nel motivare fenomeni come la co­stanza percerciva per cui una persona a 4 metri di distanza non ci sembra grande la metà che a 2 metri, che viceversa Berkeley spie­gava senza gran pena attraverso l'abitudine. Inoltre, non è detto che lo spazio sia intuizione e non concetto. Anzi, si può tran­quillamente asserire che è vero il contrario, giacché si danno di­versi spazi esattamente come esistono diverse penne o cani. 14 Ve­rifichiamolo.

l. Aereo e terrestre. Questa molteplicità risulta ovvia da un punto di vista ecologico, per esempio in rappono alle differenze tra spazio aereo e te"estre. C'è una grossa differenza tra passeggia­re nella propria stanza, pilotare un phanrom e pensare alle di­stanze cosmiche; e invece Kant assume che turri quegli spazi, ae-

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rei e terrestri, siano le parti omogenee di un unico continuum. A ben vedere, il problema non è empirico, e richiama piuttosto l'i­dea che se un leone potesse parlare non lo capiremmo: tra gli spazi galattici e quelli ecologici passa una differenza tale da im­pedire di pensare che si tratti di parti di una medesima intuizio­ne, laddove nulla vieta che si tratti di casi da ricondursi sotto lo stesso concetto, esattamente come uno sgabello, una sedia impa­gliata, una poltrona in pelle e la poltroncina di una macchina possono ricondursi sono un generico concetto di "sedile".

2. Aperto e chiuso. Inoltre, sempre a livello ecologico, c'è una differenza tra spazio aperto e spazio chiuso. K.ant ha in mente lo spazio esterno -le pianure o il mare-, che sembra assomigliare di più a quello fisico; ma un simile spazio è diverso dallo spazio interno. Si pensi al chiostro di un monastero: c'è un giardino, che forse può essere considerato come una piccola pianura; ma poi c'è lo spazio dietro alle colonne, con ombre e luci. Davvero è il medesimo spazio, ecologicamente parlando? E, soprattutto, se lo spazio infinito che ci annienta quando ci pensiamo, e quello della stanza che ci rassicura, si chiamano entrambi "spazio", non dipenderà, al solito, dalla circostanza che si abbia a che fare con un concetto che unifica - previa una astrazione che trascura molti aspetti salienti- realtà significativamente eterogenee?

3. Altri animali. In terzo luogo, nella prospettiva kamiana, le intuizioni spaziali sarebbero valide per noi e per esseri simili a noi. Qui i problemi sono almeno due.

(a). Mosche, rane, gatti. Prendiamo esseri alquanto dissimili da noi per forma o grandezza, come varie specie animali. Per quello che ci è daro di osservare del comportamento di una mosca o di una rana, c'è a tutti gli effetti uno spazio anche per loro; e chie­dersi che cosa possa essere lo spazio per una mosca o per una ra­na non equivale a domandarsi se li capiremmo qualora potessero parlare, né soprattutto all'interrogarsi su che cosa possa essere lo spazio per un angelo. Questo non è ovvio, giacché può riuscire molto difficile far capire a un gatto che non si vuoi giocare: sia­mo a letto e lui ci morde l'alluce, lo scacciamo, però lui crede che sia parte del gioco, e torna a morderei; allora lo buttiamo giù dal letto e lui salta su: per lui è ancora parte del gioco. Può dura­re per un pezzo, lui non sa l'italiano o qualche altra lingua, e non potremo mai dirgli: "Non ho voglia di giocare". Il che tuttavia

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non comporta che il leno sia qualcosa di significativamente di­verso per me e per lui, così come per rane c mosche. Viceversa, secondo Kant, il mondo del gatto, delle mosche e delle rane, e delle rane che eventualmente mangiano le mosche, sarebbe qual­cosa di completamente inaccessibile a un nostro esame, c due at­ri- un uomo che prende un bastone, un cane che prende un ba­stone- non avrebbero propriamente nulla di comune, poiché il primo costituirebbe una apparenza condivisa e il secondo risulte­rebbe un evento inaccessibile nella sua vera essenza.

(b). Uomini e donne. E ora prendiamo esseri vistosamente si­mili a noi: le donne, se siamo uomini, o gli uomini, se siamo donne. t. osservacivamente ovvio che uomini e donne hanno un diverso senso dell'orientamento, e qui il senso comune è corro­borato da daci sperimentali. Così come evidenze sperimentali di­mostrano che ci sono pazienti affetti da lesioni parierali che omettono rurra la parte destra dello spazio. Ed è dai tempi di Husserl e di Piaget che si sa che lo spazio- tutto intero, non so­lo la profondità, come in Berkeley- può mutare con l'evoluzio­ne della persona. Di nuovo, se lo spazio è soggetto a involuzione o :l evoluzione, se varia tra maschi c femmine, in che senso sareb­be un'intuizione sensibile pura?

4. Distale e prossima/e. Da ultimo, non facendo riferimento che a noi, si può mostrare sperimentalmente la possibilità di di­stinguere era uno spazio percenivo discale e prossimale, uno spa­zio premo torio, c uno spazio rappresentativo; che simili spazi ri­sultano a loro volta organizzati sia in relazione al soggetto (ego­centrici) sia in relazione all'ambiente (allocentrici); e che tutti questi sonospazi, che almeno nella contrapposizione egocentri­co/allocentrico rappresentano due soluzioni diverse adottate da Kant, ma da lui concepite come ahernative15 non costituiscano limitazioni di un unico spazio assoluto, bensì spazi elementari. Anche in questo caso, il carattere apriorico e intuitivo dello spa­zio risulta quantomeno contestabile.

5. Mentale e reale. Inoltre, non è detto che lo spazio sia sem­plicemente il senso esterno; le mnemotecniche e il ragionamemo spaziale adoperano uno spazio mentale - gli appartamenti e le strade in cui disporre i foci-; se si afferma che un simile spazio è analogico, chi ci garantisce che non lo sia anche l'intuizione sen­sibile pura dello spazio rispetto a ciò che concretamente conside-

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riamo come spazio? Se poi si sostiene che è uno spazio immagi­nario, di nuovo, l'argomento vale anche contro Kant, giacché le immagini mentali non possiedono quasi nessuna delle proprietà della cosa raffigurata.

6. La Terra. Ovviamente, tutte le differenze fra spazio aperto e spazio chiuso, spazio terrestre e spazio aereo, sistemi egocentri­ci e allocentrici ccc. non tolgono che posso andare dallo spazio chiuso a quello apeno dalla Terra al cielo dal cielo allo spazio e, persino, dall'al di qua all'al di là: lo spazio assoluto è la Terra ori­ginaria di Husserl, il tempo assoluto è la misura del divenire di quella Terra come un tuno che si trasforma. Però, se la Terra è onrologica, allora la matematica non c'entra; se viceversa la si identifica con lo spazio-tempo newtoniano, allora è la Terra a uscire di scena, giacché non si considera che c'era prima della in­venzione della matematica.

Tempo

Nel tempo, assimilato all'aritmetica elementare (per Kant, l'origine del numero sta nella dita) proprio come lo spazio lo è alla geometria euclidea, l'intento epistemologico risuha ancora più marcato: bisogna che lo spazio venga assorbito nel tempo, il senso interno, proprio come la geometria può essere trascritta in termini aritmetici. Di qui, visto che il senso interno costituisce anche l'unità sintetica dell'appercezione, si può sottomettere l'e­sterno ai giudizi, alle categorie e ai princìpi che compongono la logica trascendentale, grazie alla mediazione degli schemi che so­no forme di tempo.

l. Anima. Ora, se chiamassimo "pizza" anche il borsch, si po­trebbe tranquillamente affermare che la pizza è il piano tradizio­nale russo; così, se chiamiamo "tempo" sia l'alba e il tramonto, sia il fatto che ci annoiamo o siamo ansiosi, sia i contenuti men­tali, comprese le rappresentazioni spaziali, non è difficile consi­derare che c'è tempo dappertutto. Come è ovvio, è principal­mente il caso del Cogito: se l'unità sintetica dell'appercezione deve accompagnare rutce le mie rappresentazioni, se tutte le vol­te che mi capita qualcosa quella cosa capita a me, non è difficile concludere che io sono dappertutto, il che tuttavia neHa fatcispe-

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MAURIZIO f-ERRARIS

cie significa soltanto che io sono dove sono se e quando ci sono, ma non che il tempo è ovunque. Tuttavia, risulta arduo trovare un argomento che dimostri sino in fondo l'equivalenza anche solo formale tra lo spazio e il senso esterno, cosl come fra il tem­po e il senso interno: su che cosa regoliamo l'affinità apparente fra cose tanto diverse come il pensiero, il Cogito, l'anima, l'atte­sa, il ricordo, il movimento degli astri, le corrispondenze dei tre­ni e in generale tra quello che ci sembra di aver dentro e quello che vediamo fuori? Potrebbe non sussistere alcuna analogia, per quello che sappiamo, e potrebbe semplicemente sembrarci che ci sia. Eppure, la forza maggiore del tempo risiede nell'identificarsi in via ipotetica con il Cogito, alimentando la macchina trascen­dentale e i suoi passaggi: pensare una cosa non è conoscerla, ma conoscerla è pensarla; e, soprattutto, incontrare qualcosa è- al­meno di diritto, se il mondo andasse come deve- un atto cono­scitivo. Nondimeno, la resi di una reale funzione avvolgente del tempo appare owia solo se si assume che il Cogito è in qualche modo runi gli enti che conosce. E se non li conoscesse? O, alme­no, se non li conoscesse tutti? Si obietterà- a ragione- che l'u­nirà sintetica dell'appercezione non risulta attingibile psicologi­camente. Così facendo, però, si impugna un'arma a doppio ta­glio: se l'unirà sintetica dell'appercezione non ha niente da spar­tire con la psiche, allora ci si può chiedere con che cosa abbia a che fare. Inoltre, costituisce una soluzione puramente formale, se non addirittura nominale: dire che il tempo media tra interno e esterno perché è un sensibile insensibile è come dire che un vetro verde media tra la foglia, verde, e l'aria, trasparente. Con ogni probabilità, un kantiano replicherebbe che qualsiasi altra via fi­nirebbe per consegnarci all'induzione empiristica c di Il allo scet­ticismo; ma la risposta è !ungi dal suonare soddisfacente, perché è come dire che il solo modo per non andare dal dentista, prima o poi, è possedere un becco.

2. Terra, mare, cielo. Uno potrebbe obiettare: il tempo non è sufficiente per il presentarsi di qualcosa, ma è pur Sempre necessa­rio per il suo presentarsi: se qualcosa comparisse e scomparisse senza alcuna regolarità temporale, anche se fosse resistente, sa­remmo disposti a considerarlo una sostanza? La permanenza nel tempo sembra dunque una condizione necessaria dell'ascrizione di realtà a un qualsiasi oggetto. Inversamente, negare il tempo

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non significa, in ulrima analisi, porsi in una prospettiva e(ernisti­ca, con tutte le diffkoltà che ne discendono? Tuuavia, per Kant il tempo è almeno in un caso una condizione sufficiente oltre che necessaria, ed è l'Io penso come autoaffezione e come flusso (em­porale. D'altra pane, negare l'onniprescnza del tempo non signi­fka sostenere che il tempo non c'è. Per lo più, gli eternisti non negano il tempo, affermano che è una apparenza per poi ridurre ad apparenza il movimento. Tuttavia, non ho nulla di simile in mente: le ombre o gli oggeni che appaiono e sçompaiono sono casi di divenire, a panire dai quali parliamo di "(emporalirà", al­trimenti non lo faremmo; se uno vedesse la medesima scena per tuua la vita non conduderebbe di avere di fronte a sé una so­stanza fortissima, semplicemente non avrebbe l'idea di che cosa è una sostanza e dunque di che cosa è il tempo. La tesi di Kant va­le per una teoria della scienza, giacché senza "ieri", "domani", "un anno fa", "tra duecento anni" non sarebbero possibili le scienze, ma non per una teoria dell'esperienza, dove il carattere apriori e trascendentale del tempo risulta, se possibile, ancora più dubbio di quello dello spazio.

(a). Apriorità. Per quanto riguarda l'apriorità, se è difficile: pensare a uno spazio che non comprenda almeno un colore, è non meno arduo pensare a un tempo che non componi in qual­che movimento, dentro o fuori dell'anima. E, in ambo i casi, che i controargomenti siano psicologici non salva Kant, giacché si configurano come altrettante repliche ai suoi argomenti, che dunque risultano desume da un nero esame inuospenivo. E quando si sia introdotta la psicologia, le deroghe quanto al carat­tere unitario e apriorico del tempo non finiscono più; basti dire che le persone rivelano, spessissimo, esperienze diverse della temporalità, al punto da esasperarsi a vicenda.

(b). Trascendentalità. Quanto poi alla reciproca, ossia al carat­tere trascendentale del tempo: davvero un tavolo è nel tempo? Se anche ci fosse un poco, resta che un tavolo è nello spazio assat più di quanto sia nel (empo, e quelli che si chiamano "oltraggi del tempo"- che il tavolo si righi, si macchi, si rompa ecc.- ap­paiono anzitutto circostanze che sì danno nello spazio, e il tem­po, semmai, è ciò che risulta, riflessivamente, quando si conside­ra che tutte quelle modificazioni non hanno luogo simultanea­mente. Certo, sembra essere di più nel tempo un foglio che sci-

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vola per terra, ma perché è un evento. Viceversa, posso benissi­mo asserire che il foglio che avete in mano è presente; che sia an­che nel presente, non aggiunge nulla. Posso altresì sostenere che quando avrete chiuso il libro c lo avrete messo su uno scaffale o nel camino, il foglio risulterà assente; ha senso pretendere che al­lora il foglio è nel passato, e che era nel futuro prima che apriste il libro? Non ho nemmeno difficoltà a prevedere che prima o poi il foglio, come tutto, andrà in malora, e alla fine non ne resterà più niente, c una volta si diceva che lo svanire è opera di Crono che genera e divora i suoi figli; ma è una espressione mitologica e in fin dei conti un modo di dire, giacché Crono non crea più di quanto non distrugga. Perché lo svanire del foglio è finire in altre parti dello spazio, nel cassonetto, nel camino, oppure un dete­riorarsi che dipende da cose che sono nello spazio, come l'umi­dità, l'acidità della carta ccc. A farla breve, richiamarsi al tempo è solo un modo per dire che c'è nello spazio uno spirito che con­templa quanto accade nello spazio.

Fenomeni

In tutta evidenza, Kanr non presta una sufficiente attenzione alla differenza cruciale che intercorre tra una rappresentazione in noi, che esiste solo se ci pensiamo, e una cosa fuori di noi, che esiste anche se non ci pensiamo. Qui ci imbattiamo in una selva di problemi.

l. La coscienza. Quando guardo un tavolo, non mi limito a contemplare una rappresentazione nella mia mente: il pensiero è qui, la percezione è anche lì, mi è facile pensare che il teorema di Pitagora sia nella mia mente, ma non che dietro ai miei occhi, SO[(O i capelli e tra le mie orecchie, ci siano allo stesso titolo an­che il mal di denti e la penna sul tavolo; distinguo la cosa dalla rappresentazione, e so di poter indicare la cosa a un altro, aspet­tandomi che me la dia, sebbene possieda categorie e conoscenze diverse dalle mie. Del pari, muovo la testa, e sento tuttavia che il mondo resta fermo, diversamente da ciò che accade se sposro l'occhio sollecitandolo lievemente con un dito; è vero che questo non prova ancora che il mondo come oggetto intenzionale non sia frutto di un'integrazione di rappresentazioni: l'occhio si

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muove ma non i( resto del corpo, non cambia la propriocezione, so benissimo che sto muovendo la mia orbita, mentre se fossi in uno stato di ipnosi e qualcuno la facesse muovere sottoponendo~ la a stimoli elettrici le cose andrebbero diversamente e il mondo si muoverebbe. Tuttavia, sotto il profilo dell'esperienza, la stabi~ lità del mondo mentre muovo la testa è affine alla costanza ero~ matica che fa sì che le cose tendano a conservare i loro colori an­che sono illuminazioni diverse: proprio perché qui non si ha a che fare con rappresentazioni, bensì con un mondo a tre dimen­sioni che è il tavolo su cui si gioca tutto. Il che non accade quan­do si guarda una fotografia, o si rigira nella mente una fantasia.

2. La fotografia. Tuttavia per Kant la foro e il mondo si equi­valgono, cosl come in fondo si perequano il tavolo visto e quello ricordato. Si consideri la classificazione (B 376-77 l A 320) se­condo la quale "rappresentazione" è il termine generale che rac~ coglie sotto di sé la percezione come rappresentazione con co~ scienza (si noti che non si considera l'ipotesi di rappresentazioni inconsce, che unerebbero con l'onnipresenza della unità sinceri~ ca dell'appercezio~e), che a su~ vol~a si distingue in sensazione come rapprcscntaztone soggen1va e m conoscenza come rappn:­semazione oggettiva, ripartita in intuizione immediata e singola­re e in concetto mediato e universale, che comprende sono di sé il concetto empirico e quello puro, il quale, ave risulti indeduci­bile, è una idea. Ora, serve a poco ricordare- contro il continui­smo leibniziano - che le sensazioni traggono origine dai sensi, e i pensieri vengono dall'intelletto, se si conclude che le une e le al~ tre si distendono sul foglio liscio delle rappresentazioni. Che poi sussistano talune rappresentazioni dotate di tre dimensioni, non sembra costituire per Kant un argomento significativo; così co~ me gli pare irrilevante che queste rappresentazioni non appaiano domiciliate, come le altre, nella testa soltanto, ma si riferiscano a un mondo, e risultino, così, reali, ossia inemendabi/i. Quanto di~ re salde come la matemalica, l'invincibile bastione anriempirisci­co; solo che Kant non ci aveva fatto caso, giacché condivideva con Hume l'idea che l'esperienza sia la base della scienza, la per­cezione appaia contingente, e dunque la scienza risulti malcerta sino a che non si pervenga a fondarla su basi metapercettive.

3. Semazione e percezione. Nondimeno, la percezione non ha a che fare con le immagini mentali delle cose, bensl con tavoli,

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sedie, persone e arcobaleni, che non possiamo modificare a pia~ cere, di modo che essa ha sempre un oggetto distinto dall'atto percettivo: "Senti questo squillo?". Lo senti lì, nel telefono, non nell'orecchio o nell'aria- si ha tendenza a localizzare immediata~ mente, ed erroneamente, nel proprio telefonino il suono del te~ lefonino vicino-; "Vedi quella casa?". La vedi lì, non nell'cc~ chio. Sicuramente nella percezione entra in gioco una memoria iconica, che sta alla base della anenzione (cerco di riconoscere qualcosa, e la trovo: ho in mente una mela, e ne trovo una sul ca~ volo); però di rado confondo la mia rappresentazione con la me~ la sul tavolo. Viceversa, risulta coerente con il quadro rappresen~ razionalisra di Kanr anche la tesi, incredibile fuori da un labora~ torio, secondo cui prima formulerei giudizi soggettivi di sensa~ zione, indi giudizi oggettivi di percezione. li che è falso. In con~ dizioni normali, che non sono mai "condizioni normali di osser~ vazione", non diciamo "mi pare che il cielo sia azzurro", bensl "il cielo è azzurro": nell'atteggiamento naturale- non quando sono schillerianamentc me stesso, ma semplicemente quando non fac­cio scienza- formulo, con o senza categorie, giudizi oggettivi di percezione; in casi dubbi posso formulare, con una cautela sccl­tica - vale a dire, protoscientifica -, giudizi soggettivi di perce~ zione (''mi pare che ... "); la determinazione di un giudizio ogget~ rivo (''è cosl per me come per altri") in senso scientifico è un'al~ tra cosa. Insomma, non è difficile cogliere una asimmetria tra enunciati come: (l) "Prendi la penna sul tavolo"; (ù) "Mi pare che ci sia una penna sul tavolo nell'altra stanza"; (iir) "Mi pare che ci sia una penna sul tavolo di questa stanza". La ten.a frase si pone a un livello diverso, e in effetti - diversamente dalle altre -potrei pronunciarla se avessi assunto della mescalina.

4. L'apparenZA. Dunque: se tutto è a posto, credo di avere di fronte a me una cosa. Spostarsi sulla percezione e sulla sensazio~ ne (sui recertori) è un gesto scettico motivato da qualche distur~ bo o intoppo nella realtà, per esempio quando ci chiediamo se ci sia una fuga di gas o se viceversa ci fischino le orecchie. Inoltre, non si dubita dell'esistenza del mondo, ma solo di piccole por­zioni di esso (''Hai visto anche tu quel riflesso?"). Invece, ohre a Kant, più di un filosofo ritiene che le due domande distinte, se esista il mondo esterno e se quel mondo sia proprio come me lo rappresento, costituiscano un medesimo interrogativo. L'idea

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che ci possa essere un mero incontrato nel mondo - il riflesso di una finestra che si apre, un fruscìo alle nostre spalle, la vibrazio­ne del ponte della nave, un elefante - che non si accompagni a un atto conoscitivo, non viene presa in considerazione. Però, sotto il profilo antologico, posso dubitare della veridicità anche di tuue le mie esperienze, ma non del fatto che ci sia qualcosa in generale; e che non si disponga di una teoria, o che la teoria ri­suhi sbagliata, non costituisce necessariamente un handicap. Qui c'è una qualche ironia: sperimentalmente, la pretesa certezza della sensazione di contro alla incertezza della percezione viene duramente smentita, essendoci molto più accordo sulle percezio­ni che non sulle sensazioni. Viceversa, da una epistemologia fisi­caliscica non può che venir fuori una antologia fenomenistica. Tutto ciò che Kant riesce a ottenere dalla estetica trascendentale è una inflazione delle apparenze, con un esito inverso a quello della certezza sensibile. Per Kant, il fenomeno è soltanto ciò che ci risulta gnoseologicamente accessibile, senza esaurire in linea di principio la totalità della antologia. Definire qualcosa come una "apparenza", sia pure necessaria, significa assumere che, di dirit­w, è transitoria, ossia che- qualora le cose andassero come devo­no - non dovrebbe esserci. Il che fa sistema con la definizione kantiana (A IO I) secondo cui il fenomeno è un semplice gioco delle nostre rappresentazioni; e, in ultima istanza, viene a signifi­care che non c'è differenza di principio tra il fenomeno e l'im­maginazione. I nodi vengono al peuine, però, quando ci viene notificato (B 70) che la parvenza non costituisce un predicato dell'oggetto, bensl di questo in relazione al soggetto che la perce­pisce come fenomeno.

S. La rosa in sé. Ora, si potrebbe osservare: se il rosso non ap­paniene alla rosa in sé, a chi apparriene? Si deve concludere che il rosso è nell'occhio e non nella cosa? Asserire che il rosso è il ri­sultato della interazione tra la rosa e l'occhio è non dir niente: ci dovrà pur essere un momento in cui si decide se nella interazio­ne il rosso sta dalla parte dell'occhio o da quella della rosa; e, se si conclude che la parte è quella dell'occhio, allora si cade nel per­fetto soggettivismo, e il rosso trascolorerebbe in una purissima parvenza: perché mai, se il luogo della decisione è l'occhio, dal­l'altra parte deve esserci una rosa rossa e non una patata gialla? Cosl, il problema di fondo del concetto di "fenomeno" è: per

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quale motivo quello che vediamo non dovrebbe essere quello che è? Alla base, c'è l'idea che le apparenze ingannino perché la per­cezione è contingente. Tutravia, Kam non contrappone onta e phainomma, come Platone, né considera la fenomenologia come una dottrina dell'apparenza in quanto via di mezzo rra verità e falsità, al modo di Lambert, 16 bensì conferisce ai fenomeni una piena legalità; sicché c'è ragione di chiedersi: perché li chiama "fenomeni", contrapponendoli alle cose in sé? Da una parte, "co· se in sé" è superfluo, per poco che ci si rifletta: chi parlerebbe di "cose per sé" o di "cose per me"? Una cosa è davvero per me solo nella misura in cui lo è anche di per sé; dal che si capisce che "noumeno" o "cosa in sé" per Kant significa piuttosto qualcosa come: ciò che la cosa sarebbe se i nostri sensi risultassero altret­tanto acuti che le nostre cognizioni scientifiche, e interamente devoluti alloro incremento; o, meglio ancora, ciò che la cosa sa­rebbe qualora potessimo conoscerla senza l'intero apparato, este· tico e logico, della soggettività. D'altra parte, l'idea di Kant è che conosciamo sempre l'esterno e mai l'interno delle cose (B 321-2/ A 265-6): se bisezioniamo una patata, troviamo ancora una su­perficie, e lo stesso avviene sbucciando una cipolla. E, se è così, perché parlare di "fenomeni" e non di superfici? A rigore, soste­nere che la cosa in sé è inconoscibile significa che non ha alcun rapporto con il fenomeno, laddove Kant assume che il noumeno intrattiene con il fenomeno quantomeno un rapporto causale.

6. L'arcobaleno e Saturno. Qui ravvisiamo l'azione di uno scrupolo epistemologico, che si può facilmente veri,ficare e che vale complessivamente per l'intera estetica trascendentale. A un certo punto (B 631 A 45), Kant sostiene che l'arcobaleno è un fe­nomeno di secondo livello, quasi una illusione ottica, laddove il vero fenomeno sarebbe costituito dalla pioggia e dalla luce. In al­tri termini, per lui gli arcobaleni non fanno realmente parte del mondo; il quale, in senso proprio, comiene, prima che cose, cau­se, sicché la realtà dell'arcobaleno risulterebbe di poco superiore a quella delle pentole d'oro che, si dice, si trovano certe volte a un capo degli arcobaleni. Se poi uno alza gli occhi al cielo, mu­nito di un cannocchiale, inconcra altri fenomeni di secondo li­vello, ossia, di nuovo, delle specie di illusioni oniche. Sono, per esempio, gli anelli di Saturno (B 70). Quegli anelli - secondo Kanr- non esistono, siamo noi che, ingannandoci, li prendiamo

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per veri. Eppure, le loro ombre sono esattameme come tutte le alrre, le si vede, come le ombre di casa nostra, e non le si pensa, come le orbite dei pianeti; e l'atteggiamento di Kant in materia di anelli ha almeno un amenato, 17 la traduzione inglese dell698 del Cosmotheoros di Huygens, dove l'incisore, fuorviato dalle proprie abitudini, e soprattutto dall'assunto per cui gli anelli sa­rebbero non-cose, corresse l'illustrazione originale cancellando le ombre portate per conservare solo l'ombra propria del pianeta.

7. L'errore dello stimolo. Ecco il crampo mentale cui facevo ri­ferimento parlando di "scrupolo epistemologico": Kant manife­sta una spiccata inclinazione a commettere errori dello stimolo, cioè a confondere i fenomeni con le loro spiegazioni; ma, come osservava Wertheimer, quando vedo dalla finestra una casa, degli alberi e il cielo, potrei anche dire che ho 327 luminosità e tona­lità di colore, ma non ho 327; ho- né più né meno- il cielo, de­gli alberi e una casa. Sotto il profilo fenomenologico, una simile confusione comporta operazioni tutt'altro che legittime,18 che si riassumono tutte nel ricondurre l'osservato al misurato, e nel ri­durre il primo a "illusione ottica" qualora non si dia un paralleli­smo perfetto. La tenta7.ione di confondere la causa con l'effetto, vale a dire la spiegazione con il fenomeno da spiegare, è tanto forte quanto immotivata e in ultima analisi assurda, giacché la causa risulta solitamente separata temporalmente dall'effetto (A causa B, almeno se vogliamo prendere lo schema della causalità in Kant), e se c'è l'effetto non c'è la causa. E anche nei casi in cui la causa permane insieme all'effetto (per esempio, il fuoco e il ca­lore), resta inceso che un conto è la causa e un altro l'effetto, e che il medesimo effetto può conseguire da cause del tutto etero­genee, giacché posso ridere sia per una barzelletta, sia perché mi fanno il solletico, sia perché ho fumato haschisch. t: una consi­derazione talmente ovvia che non merita di essere sottolineata più di tanto; eppure, tante volte, la confusione si introduce di soppiatto.

8. l privilegi della logica. Perché cedere a un simile errore? Si è accettato per secoli che ci debba essere un mondo di idee, e in pochi se ne sono !agnati, laddove si è restii a considerare il mon­do dei fenomeni qualcosa di diverso da una apparenza transito­ria da spiegare risalendo alle cause. Eppure, quando vedo una lu­ce bianca, conterà poco, quanto alla luce, appurare se sia solare o

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artificiale, o se dipenda da un colpo in cesta. Quelle sono le cau~ se, non sono un fenomeno, e affermare, magari a ragione, che la luce bianca deriva dal colpo in testa non è ancora sostenere che non la veda, o che mi sbagli nel vederla. Del pari, la sensazione dd verde non è verde, proprio come la morte di una persona amara non ce la fa odiare, ancorché sia causa di dolore. Inoltre, già solo che il Bloody Mary venga preparato con un mixer invece che con uno shaker dimostra che non è irrilevante che ci sia più o meno aria in un cocktail per determinare il sapore , così come l'acqua calda e l'acqua fredda sono sempre H 10, ma presentano una resa percettiva ben diversa: l'avviso "Attento che si fredda!", detto di un piatto di minestra, è molto esplicito in materia. Ep~ pure, l'atteggiamento verso la logica appare, a questo riguardo, molto diverso da quello riservato all'estetica.

(a). Genetica e logica. Anche chi critica il topos noetòs iperura~ nio è disposto a sostenere chi affermi che il mondo della logica non è spiegato in alcun modo attraverso studi generici, che ver~ tana sulle cause del perché si ragiona così e cosl. Ora, già sul se~ condo aspetto ci sarebbe da discutere. Il pensiero, si sostiene, de~ ve essere separato da chi pensa, altrimenti la logica sarebbe una mc::ra psicologia individuale; per motivi apparentemente affini, si asserisce che la logica non riceve alcuna luce da studi genetici. Intanto, va precisato che l'identificazione tra psicologia e indivi~ dualità non equivale all'appello al motivo genetico. Inoltre, si può legittimamente sostenere che la logica operi, rispetto al pen~ siero, esattamente come la percezione funziona rispetto alla fisi~ ca: i ragionamenti basati sul calcolo delle proposizioni non sono altro che una applicazione della teoria dei modelli mentali, che si fonda su rappresentazioni del vero, integrate dalle rappresenta~ zioni del falso, cosl da ottenere le matrici del calcolo. Allora, se~ parando il pensiero da chi pensa non si ricava una psicologia in~ dividuale, bensì invarianti della fenomenologia dei processi di pensiero, così come si ottiene la funzione unilaterale dei margini studiando l'articolazione figura-sfondo.

(b). Genetica ed estetica. Resta da spiegare perché siamo tanto precipitosi, per quanto riguarda il piano fenomenico, nel correre da ciò che appare ed è percepito alle sue cause. II motivo è pro­babilmente il seguente: mentre il piano logico delle ragioni sem­bra procurare il telos finale di tutta la ricerca- e lo è davvero, in

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una teoria della scienza -, costituendo 1' approdo verso cui si orienta l'emendazione dell'esperienza, che risulterebbe indeboli­ta dalla ricerca di motivi genetici, il piano fenomenico è concepi­to esclusivamente come il punto di partenza, che ha solo da gua­dagnarci se viene ricondotto a un mondo di cause e ragioni re­trostanti ai fenomeni. Il che, di nuovo, dal punto di vista di una teoria della scienza appare difficilmente contestabile (saremmo disposti a pagare un medico che si limitasse a dire quello che ve­diamo anche noi, a occhio nudo, o a prestare orecchio a un astronomo che descrivesse quello che vede durante una eclissi in luogo dispiegarci quali sono i motivi non visti che la causano?), ma non costituisce una descrizione dell'esperienza.

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Logica

Deduzione

La sensazione come input. DaJI'escetica, Kanc viene dunque al­la logica, discorsiva e non intuitiva; e, come nell'estetica si tratta­va di identificare l'intuizione con la matematica, qui la sua idea di fondo è che le categorie logiche non vanno ricavare dall'espe­rienza, bensì dal pensiero. È l'ideale di una logica generale, ossia depurata da qualunque elemento estrinseco e dunque malceno­perciò Kant dissente dai "logici moderni" che hanno incorpora­to nella disciplina anche pezzi di psicologia e di teoria della scienza-, giacché la logica non deve fungere da organo della ri­cerca, bensì da canone del pensiero, che rivela l'errore, ma non contribuisce a produrre conoscenze nuove. La logica, però, non deve occuparsi solo di sé stessa: in quanto logica trascendentale, deve altresì offrirsi come condizione di possibilità dell'esperien­za, e qui la sua sfera appare ridotta rispetto alla logica generale poiché l'esperienza ha a che fare con il reale e non con il possibi­le. Ed è qui che incominciano altri problemi. Perché, ammesso e non concesso che le categorie indispensabili per l'esperienza sia­no dodici, resterà da spiegare come mai l'esperienza ne abbia davvero bisogno. Il solo modo, a rigore, sarebbe dire che il mon­do è un caos, e che l'ordine viene proprio dalla logica. Tuttavia, Kant non sposa sino in fondo l'ipotesi caotica, giacché anche una affermazione apparentemente minimalistica come quella se­condo cui "nella semplice successione l'esperienza non è coeren­te" (B 226 l A 183) ammette che c'è una successione indipen-

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dente dal pensiero; sicché sostiene che la sensazione è un input imprescindibile per la conoscenza. Nondimeno, quando si sia concesso che la conoscenza inizia con la sensazione, prosegue su concetti e chiude su idee, risulterà difficile addossare l'ordine dell'esperienza al ruolo delle categorie. Si apre, a farla breve, un problema dell'uovo e della gallina che si risolverebbe abbasram.a pianamente dichiarando che l'esperienza è di per sé ordinata, e che le categorie servono per la scienza; e che nondimeno Kant complica non poco sostenendo che l'esperienza è prima "nel tempo", ma che, se ci pensiamo bene, le categorie erano già lì a ordinaria.

Tuttavia, specie nella versione dell781, il sistema della dedu­zione della legittimità delle categorie per l'esperienza costituisce in tutto e per tutto una giustificazione della loro utilità per la scienza: la sensazione si imprime nell'anima, si registra nella mc­moria, si individua razionalmente: vedo un ramo, la mia memo­ria di lavoro fissa l'immagine, mi dico "è un ramo" (e non un serpente), l'impressione si stabilizza, e passa dalla memoria di la­voro a un deposito più duraturo, come la mia memoria a lungo termine, la comunicazione a qualcuno che mi St:.l. vicino, un ani­colo, un libro ecc. Fin qui, tutto bene, a parte che assistiamo a un movimento in cui la memoria, da "salvaguardia della sensa­zione", si trasforma impercettibilmente in possibilità della sensa­zione, sicché un attributo epistemologico viene adibito retro­spettivamente a condizione di possibilità a livello ontologico. 19

Nel che si intrecciano almeno due elementi: da una parte, la cir­costanza psicologicamente osservabile che se uno non ricorda A non può rilevare un cambiamento al sopraggiungere di B; dal­l'altra, il miscuglio tra una forma di rirenzione che non ha gran­ché di consapevole e un ricordo volomario e consapevole. Tutta­via, che i due piani possano difficilmente sovrapporsi lo si porrà constatare pensando a quanto bene ci ricordiamo facce viste una sola volta, mentre possiamo dannarci nel collegarle con i nomi, e, soprattutto, possiamo accorgerci solo a metà di un film alla te­levisione di averlo già visto. Ora, tornando al ramo, Kant non può evitare di osservare che era già lì, con tuue le sue caratteristi­che, prima che lo vedessi, e indipendentememe dalle mie catego­rie, tanto è vero che - pur temendo che sia un serpente- sono costretto ad ammettere che è un ramo; e dichiara programmati-

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camenre che ogni conoscenza incomincia con la sensazione, sen­za considerare il danno che ne deriva quanto alla idea di "rivolu­zione copernicana". In fondo, avrebbe pomro sostenere che dalla sensazione non ha inizio un bel niente, tranne l'esperienza, che non è necessariamente l'origine della scienza. Ma, una volta im­pegnatosi nell'altro gioco, avrebbe dovuto concludere che allora siamo nel puro empirismo, e che dunque dall'esperienza non consegue una scienza in senso classico, ossia una conoscenza cer­ta ed evideme, bensì un sapere probabilistico. Kam, invece, adona una soluzione intermedia: la sensazione è prima nel tem­po, è lei che dà l'input; ma, subito dopo, interviene un reticolo categoriale che ci assicura la scienza, senza la quale non sarebbe possibile nemmeno l'esperienza. Però: se il mondo è ordinato per fotti suoi, che bisogno c è del soggetto? E, inumamente, se non lo è, come si può pretendere che sia il soggetto a portare ordine? Ora, i ca­si sono due: o la sensazione è un input generico, da cui, a secon­da delle categorie attivate, potrà venirmi fuori un coniglio, un cappello o un prestigiatore, e allora sostenere che ogni conoscen­za inizia con la sensazione non vuoi dir niente; oppure la sensa­zione risulta già formata, e allora non si capisce che cosa- a li­vello omologico - potrà aggiungerci la nostra griglia categoriale.

L'ipotesi del caos. Ammettiamo che il mondo sia un caos. Se è imessuto di frammenti di sensazioni verdi, marroni, rugose, soli­de ecc., parrà illogico pensare che ci sia qualcosa di dato nell'e­sperienza (un albero, una stella, una patata), e che il dato risulti indipendente dalle nostre attese, dall'esperienza pregressa e dagli schemi concettuali con cui guardiamo il mondo; e apparirà non meno inevitabile sostenere che l'assunzione secondo cui c'è qual­cosa di dato nell'esperienza non vada da sé, conseguendo dall'ap­plicazione dello schema concettuale della oggettività.

1. Il flusso e la regolarità. Però, se davvero l'esperienza iniziasse come un flusso e come un caos, come potrebbe succedere, poi, che il mondo fluttuante si stabilizzi e divenga l'ambiente che ci è familiare, arredato con persone che non cambiano faccia, alberi che perdono le foglie in aumnno, oggeni belli e brutti, interi o spezzati? Eppure, vediamo un gran numero di uomini - indi­pendentemente dalle loro conoscenze, credenze o opinioni -, co­sl come una miriade di animali, anche piccoli e semplici, che si rapportano alle cose, evitano ostacoli, afferrano oggetti, si nutro-

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no, lottano c si accoppiano, senza che un simile affaccendarsi pretenda di venir spiegato come l'applicazione di uno schema concettuale inteso o come un sistema di credenze o come un in~ sicme di assunzioni epistemologiche; che poi si possa benissimo disporre di dotazioni inconsce, è un altro paio di maniche: però Kant ritiene che le dotazioni in questione siano tutte accessibili a una riflessione che non faccia ricorso ad alcuna ricerca empirica.

2. Vortici. Inoltre: se il mondo è composto di vortici organiz~ zati in un secondo momento dai sensi e dall'intelletto, come mai ogni tanto vediamo vortici, scarabocchi, fosfeni? O, detto altri~ menti, se il mondo è intessuto di seme data, per quale motivo il pointillisme, l'impressionismo e il divisionismo rappresentano indirizzi pittorici storicamente riconosciuti, invece che costituire la norma della visione? Se davvero il mondo dipendesse dall'or~ dine della coscienza, e questa fosse un flusso, come Kant ammet~ te artraverso l'ipotesi dell'unità sintetica dell'appercezione in quanto fluire temporale, perché si dovrebbero dare stati così di~ versi, come l'ordine della ve'glia e il disordine dei sogni? E perché così tante cose starebbero ferme? Se ci pensiamo un momento, tutto diviene difficile da spiegare.

3. Il mondo stabile. Se davvero Kant avesse voluto semplice~ mente rendere conto, da un punto di vista epistemologico, della organizzazione interna del mondo, allora non si capisce in che senso avrebbe potuto ritenere di aver costruito una antologia. E, una volta entrati nella antologia, non si capisce come schivare la contraddizione fra trascendentalismo e realismo. Alla fine, è que~ se'ultimo che ha la meglio, e conviene allora riconoscere che il mondo ha le sue stabilità e leggi, le rispetta e le fa rispettare. Si potrebbe ovviamente opporre che anche il fano che la realtà sia così e non altrimenti può essere ricondotto a un diritto: è vero, e difatti la scienza funziona proprio cosl, assumendo che nulla è senza ragione, e che a indagare bene, in un tempo al limite infi­nito, si potrà trovare il motivo di tutto; si ammetterà tuttavia che è una ipotesi diversa dall'idea che per avere delle esperienze si debba disporre di un reticolo categoriale.

L'ipotesi dell'ordine. Ma, allora, abbiamo ammesso che il mon­do abbia un ordine. E se la sensazione sta all'inizio, riceverò un liquido scuro e caldo e non chiaro e freddo, l'odore e il sapore del caffè e non quello del latte ecc. Tutto quello che potrò ag~

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giungerci in seguico risulterà antologicamente povero; però è lì che Kant focalizza la sua attenzione, giacché gli preme dimostra­re quante intuizioni e categorie accorrano per bersi una tazzina di caffè, mentre potrebbe al limite proporsi di sostenere che ci vogliono mohissime intuizioni e categorie per descriuere l'ano di bersi il caff'e: ma non vuoi farlo giacché si è proposto di evitare questioni empiriche di fisiologia. In ogni caso, non è difficile co­gliere le contraddizioni che vengono ad aprirsi, nella Deduzione, tra l'assunto epistemologico secondo cui sono le categorie a ren­dere possibile l'esperienza e il presupposto fenomenologico che vede nell'esperienza un tutto organizzaco prima o senza di loro.

l. Sinossi del senso. Kant parla di una "sinossi del senso", e in­tende con ciò che ogni singola rappresentazione è connessa con tutte le altre prima ancora che la conoscenza venga a metterei or­dine (A 97-98). Difficile dargli torto, anche se la formulazione appare un po' estremistica e illimitata: se la scienza può legitti­mamente prefiggersi l'obiettivo di costruire una teoria del tutto, è perché il mondo costituisce per ipotesi un organismo intercon­nesso c, alla lunga, la goccia che cade dal lavandino ha qualcosa a che fare con l'orbita di Plutone. Tuttavia, nell'esperienza, ci mi­suriamo per lo più con il lavandino c i suoi immediati dintorni, e qui constatiamo che le cose possiedono proprietà interne ed esterne indipendenti da ciò che possiamo aggiungerci con le no­stre categorie: la sinossi è un insieme strutturato già dato, che si offre al senso, né risulta difficile pensare che in un simile mondo ci sia già tutto, quantità, qualità, sostanze, cause, e, se proprio ci si tiene, azioni reciproche. È probabile che non ci siano postulati del pensiero empirico in generale, poiché qui non si ha a che fa­re con un kosmotheoròs cosciente, il che tuttavia non infìcia la piena coerenza della scena, come in questa serie di macchie, sprovviste di significato, ma non di stabilità, forma, colore, gran­dezza e rapporti spaziali.

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IL I'RODLE,\IIA NON È L'ORNITORINCO. È KANT

In fondo, Kant avrebbe potuto affermare che, prima delle tre sintesi epistemologiche (della percezione, della immaginazione e del concetto), ci sono distinzioni essenziali - poniamo, figu­ra/sfondo- che fanno sì che un oggetto sia tale, e presenti quelle caratteristiche che ritroveremo una volta che incominciamo a stu­diarlo, con marginali eccezioni in cui l'osservazione interviene sul­l'osservato. Nondimeno, se le cose stanno così, non si vede la con­gruenza con il principio, enunciato più sotto, secondo il quale se non ci fosse un potere rirentivo l'esperienza sarebbe impossibile, e non ci sarebbe mondo (A 99). Rispetto al luogo precedente non è difficile notare un passaggio di grado: nel primo caso, incontriamo una circostanza antologica: c'è qualcosa, ordinato per conto suo, strutturato cosl e così ecc.; nel secondo, invece, si racconta la nasci­ta della scienza, dove il "qualcosa" è registrato, quindi stivato nella immaginazione, infine trasposto nel concetto. Nondimeno se, dal punto di vista della epistemologia, si può e si deve sostenere che nulla esiste fuori del testo, che nulla si sottrae alla trama degli sche­mi concettuali, da quello della antologia le cose vanno altrimenti; qualcosa esorbita dal resto, che proprio perciò apparirà diverso da una m era immaginazione, c capace di dar vira a un sapere.

2. Cinabro. Kant scrive anche, concludendo la Deduzione (A 125), che siamo noi a introdurre quell'ordine e regolarità dei fe­nomeni che chiamiamo "natura". Il passo appare in brusca con­traddizione con quanto si leggeva qualche pagina prima (A 100-101), secondo cui, se non ci fosse una costanza e una norma nei fenomeni- se, per esempio, il cinabro fosse ora rosso e ora nero, una volta leggero e una volta pesante- "nessuna sintesi empirica della riproduzione potrebbe aver luogo". Il caso del cinabro smentisce il senso della deduzione: posso fornire tutti i significa­ti che voglio, però le organizzazioni che incontro sono già date, incontrate, stabili e regolari.

3. Immaginazione. Che neanche Kant potesse pensare che è solo il trascendentale a conferire qualche normalità al mondo ri­sulta dunque confermato, in modo eloquente, anche dal ricorso alla immaginazione riproduttiva, quando sostiene che "la sintesi riproduttiva dell'immaginazione appartiene alle operazioni tra­scendentali dell'animo". 20 Se ci pensiamo, suona strano assegnare il trascendentale alla sensibilità, e le cose non cambiano granché se parliamo di "immaginazione produttiva": possiamo immagi-

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narci quasi rutto e non tutto, potendosi immaginare un blerde, ossia un colore che risulti dalla somma del blu e del verde, però non un rotondoquadmto (ci figuriamo un ottagono, o la rapida successione di un cerchio e di un quadrato, o qualcosa del gene~ re); ma solo perché rievochiamo e riaggreghiamo dati della sensi~ bilità, o meglio cose belle e fatte incontrate nel mondo. Del re~ sto, anche la definizione della immaginazione proposta in B 151~152 non si discosta dalla definizione della immaginazione riproduttiva in A, nanne che nel 1787 Kant, con un'operazione puramente nominale, distingue, da una immaginazione ripro~ d univa, un'altra e non meglio precisata, che risulterebbe produr~ riva. Non suggerisce runavia in che cosa consista una simile pro~ duttività, però lo si può congetturare: se togliamo alla immagi~ nazione qualsiasi contenuto determinato, si può postulare qual~ cosa, che sarebbe produttivo, sempre a condizione che convenia~ mo con Kam nella assunzione, run'altro che inevitabile, che ogni fatto debba trovare la sua condizione di possibilità in un di~ ritto. Però, se le cose stanno in questi termini, allora è proprio vero che l'immaginazione riproduttiva va annoverata tra le ape~ razioni rra~cendenrali dell'animo, perché l'esperienza risulta cf~ fettivamente un tutto organizzato.

4. Associazione di idee. Ma, allora, perché mai l'immaginazio~ ne riproduniva dovrebbe considerarsi trascendentale, e l'associa~ zione di idee puramente empirica? Una risposta è che le associa~ zioni risultano sempre determinate, laddove la facoltà di ripro~ durre è un carattere formale che le rende possibili. Tuttavia, nul~ la vieta di chiamare "associazione" la forma generale che autoriz~ za le associazioni particolari, c otterremmo una prestazione omo­logabile alla immaginazione riproducciva. Kant sospetta dell'as~ sociazione perché la vede pericolosamente connessa allo scettici~ smo, ma forse non è la via giusta: non si tratta di sostenere che tutte le associazioni sono soggettive e relative, bensl di far notare (t) che la probabilità è tutt'altro che disprezzabile, e che la que~ stione non passa tra il necessario e il probabile, bensl tra l'alta~ mente probabile e il nettameme improbabile, c (ù) che non tut~ te le associazioni si assomigliano. Ce ne sono di oggettive e vali­de per tutti (al lampo segue il tuono) e di soggenive e puramen­te idiosincratiche (una madeleine mi ricorda Combray). Soprat~ tutto avendo presente (ù), ci si renderà conto che tra il lato og~

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IL PROBLEMA NON~ i:OR.NITORJNCO. ~ KANT

gettivo delle associazioni e l'immaginazione riproduttiva in quanto facoltà trascendentale dell'anima non passa alcuna diffe~ renza: se c'è associazione nella mente, è perché c'è normalità mondana; laddove Kant tratta la regolarità come contingente, eppure convoca l'associazione per spiegare taluni atteggiamenti percettivi, quasi che le costanze che inducono le abitudini non contassero, e impanasse invece la presunta facoltà dello spirito di produrre regolarità.

Schematismo

Come funziona W schema. I.:onere della prova del trascenden~ tale passa cosl dalla deduzione allo schematismo, quanto dire dalla legge ai casi. Il funzionamento dello schema è grosso modo il seguente: disponiamo di categorie, che ovviamente valgono in generale e in astratto; e riceviamo delle percezioni, che invece operano in particolare e in concreto. Le percezioni, tuttavia, ri~ sultano prevemivameme addomesticate e potenzialmente orno~ geneizzate, giacché presentano la forma dello spazio e del tempo. Così, percezione e categoria rivelano un tratto comune: la prima sarà grande o piccola, calda o fredda, rosso vivo o rosa pallido, apparirà permanente o transitoria, verrà prima o dopo di un'altra ecc.; la seconda, per parte sua, dispone delle nozioni di numero, grado, sostanza, causa, azione reciproca ecc. Nondimeno, come si fa a mettere insieme gli elementi comuni? Una risposta rradi~ zionale è offerta dal numero: la matematica omogeneizza for­malmente quello che abbiamo nella testa c quanto c'è nel mon­do, oppure mette in comunicazione due mondi, uno di idee e l'altro di oggetti. Tuttavia, Kant ha bisogno di motivare le ragio­ni antologiche della applicazione delle categorie alla sensibilità, sicché non può accontentarsi di una corrispondenza formale. È difficile pretendere che i numeri sono realmente in noi, pare una ipotesi come un'altra, e neppure la più accreditata, giacché sem­bra che i neonati riescano a dissimilare sino a setce oggetti, il che non gli impedisce di vederne assai di più. Però, qualcosa del ge­nere lo si può dire del tempo: se decidessi di contare fino a lOO per calcolare approssimativamente un minuto, non avvertirei in me iliOO, bensl il flusso temporale che accompagna la numera-

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1\.IAURIZIO FERRARIS

zione; peraltro il decorso non risuhercbbe puramente soggeuivo, giacché, mentre contavo, stava passando un minuto anche fuori di me, il toast si era abbrustolito ecc. Perciò Kant decreta che gli schemi sono forme del tempo. Come simili forme medino real~ mente, non è però chiaro, e il principio astratto appare come il rovescio speculare della doppia trascrizione operata dalla scienza cartesiana, per cui l'osservabile viene ridotto alla qualità, e que~ st'ultima è tradotta in quantità. Nello schematismo, le categorie vengono trasposte in numeri, e poi l'aritmetica si traduce in geo~ metria, ossia in quantità osservabilc. Esaminiamo i due momen­ti del transito dal digitale all'analogico.

l. !!numero. (a). Le operazioni. Le categorie forniscono sintesi puramente

intellettuali, agendo come le operazioni aritmetiche fondamen~ tali. Avremmo dunque 7 + 5 = 12; 12- 5 = 7; 7 x 5 = 35; 35: 7 = 5. Tranne che, a livello categoriale, le operazioni si rivelano ab~ bastanza palesi per ciò che concerne quantità e qualità; risultano un po' diverse per la relazione, dove la sostanza sarebbero il 7 e il 5, se vale l'altro paradigma di giudizio sintetico apriori, la per­manenza della sostanza; l'azione reciproca si manifesterà nella circostanza per cui se non interpongo il segno di addizione tra 7 e 5, quelli restano tali e quali; e la causalità sarebbe la legge in ba~ se alla quale, viceversa, aggiungendo il segno di addizione otten~ go il 12; e sembrano realmente difficili da pensare per ciò che concerne la modalità. Sicché gli unici due prindpi puri su cui Kant si senta di impegnarsi, e che adoperi effettivamente nelle sue dimostrazioni circa la trascendentalità delle categorie, sono la sostanza e la causa: lo si vede nel capitolo sullo schemarismo, lo si conferma (ne tratrerò estesamente) nel sistema dei princlpi, lo si ribadisce nella dottrina trascendentale del metodo (B 795 l A 767), dove si legge che l'esperienza è anticipata dalla causalità e dal principio di permanenza della sostanza. Assodato che qui è ancora e sempre questione di matematica, interviene il tempo, che assicura la naturalizzazione. Lidea è che non si abbia a che fare semplicemente con numeri, che si possono applicare a og~ geni o a eventi cosl come si può adoperare un metro o un orolo~ gio, bensl con un flusso reale, che è presente dentro di me, intuì~ rivamente, a riwlo di senso interno, e che è del resto operante fuori di me, solo che si decida di sostenere che quando cade una

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IL PROBLEMA NO:-! È I:ORNlTORINCO. 1:: KANT

foglia c'è nel mondo, in maniera empiricamente reale, oltre alla foglia, all'albero, all'aria e al suolo, anche una intuizione sensibi­le pura che si chiama "tempo": come dire che se ci sono quattro libri sul tavolo c'è anche, nascosto da qualche parte sul tavolo, il numero 4.

(b). L'operatore. La debolezza del tempo è però l'altro lato del­la sua forza: non lo si vede, dunque non conferisce alcuna consi­stenza alla sintesi intellettuale; sicché il processo di avvicinamen­to daJle categorie alla sostanza, alla causa, alla azione reciproca, alle quantità e ai gradi, cioè a tavoli, pentole in ebollizione, scoiattoli, sommergibili ecc., difetta ancora dell'anello fonda­mentale, ed è su questa difficoltà che Kant si arenò per parecchio tempo, sino a che, verso la fine degli anni Settanta e sulla scorta della psicologia di Tetens, trovò l'escamotage della immaginazio­ne, cui Kant conferisce una missione inedita nella storia della fi­losofia: ritenendo il presente nel momento in cui passa, l'imma­ginazione istituisce la temporalirà. Kam dispone ora un operato­re che gli serve per unificare categorie e tempo, e che inoltre, va­le come tramite capace di assicurare il transito dal digitale all'a­nalogico, dalla sintesi intellettuale alla sintesi figurata, coloran­do, sensibilizzando e parricolarizzando le categorie. Lo schemari­smo si basa su questi ingredienti; tuttavia, non ci vuoi ramo per notare che l'omogeneizzazione dei disparati è possibile solo a patto di un uso alquanto equivoco delle parole, analogo a quello che abbiamo registrato nei molteplici significati di "tempora­lità", e che sotto i paludamenti della naturalizzazione continua a trasparire il naturalizzandum. Basterà notare che Kant, differen­ziandosi da Locke- che per spiegare il transito dal particolare al­l'universaJe si era impelagato nella implausibile teoria delle idee generali-, sostiene che lo schema è un "metodo di costruzione" e, di nuovo, adduce l'esempio del numero: 5 sarebbe il metodo di costruzione di una immagine come: •••••. Così, non è diffici­le notare come - malgrado le iterate dichiarazioni di indipen­denza dello schema daJia costruzione matematica,21 e della meta­fisica dalla fisica - lo schema si ponga in una sostanziale conti­nuità con entrambe.

2. La linea. L'esempio del numero 5 che può costruire ••••• è caratteristico. t. cerco per semplicità che Kant non ha scritto che il numero 5 può costruire, poniamo, €€€€€, @@@@@ o

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MAURlZIO f!;RR.ARIS

$$$$$, ma sono c'è anche l'idea tradizionale secondo cui il tem­po si compone di istanti che si sviluppano in un decorso esatta­mente come lo spazio è composto di punti che generano linee, passando misteriosamente dal discreto al continuo. Ora, a ben vedere, tale è in rutto e per tutto la concezione di fondo soggia­cente allo schemarismo: lo schema-modello, il solo, che Kant propone in ben cinque occorrenze, illustra la possibilità di rap­presentare il tempo attraverso una linea, quasi a confermare fe­nomenologicamente che l'aritmetica possiede una controparte geometrica. Ripercorriamole in breve, tenendo presente che qui Kant ritiene, con quegli esempi, di aver dimostrato la possibilità del passaggio dal pensiero alla estensione.

(a). La spazializzazione. La prima occorrenza è già nella esteri­ca trascendentale (B49-50/A33). Il tempo, in quanto forma del senso interno, non possiede alcuna figura, però si rappresenta at­traverso lo spazio, con una linea che ha tutte le proprietà del tempo, tranne che nella linea le pani sono simultanee, laddove nel tempo risultano successive. Nella sua presentazione, questa appare come una circostanza psicologica, ma è insieme anche di più, rivelando che il tempo risulta compatibile analogicamente con lo spazio, dunque non è un mero concetto, bensl una intui­zione sensibile apriori. Nel parallelismo si trova la chiave, alme­no per Kam, se non della irragionevole efficacia della matemati­ca, almeno del modo in cui la mente può aderire al mondo.

(b). L'oggetto. La linea riappare in un passo della Deduzione (B49-50/A33), in cui Kant vuole dimostrare la legittimità del ri­ferimento delle leggi pure del pensiero all'esperienza: vedere una cosa nello spazio non è conoscerla; affinché ciò avvenga, è neces­sario che quanto si vuoi conoscere- cioè, secondo l'esempio di Kant, la linea- risulti sintetizzato in maniera tale da delimitare uno spazio. In questo modo, oltre a descrivere una figura, la li­nea circoscriverà anche l'unità della coscienza nella conoscenza dell'oggetto in questione, a riprova del fano che le condizioni di possibilità della coscienza assicurano anche la possibilità degli oggetti della conoscenza.

(c). Il pensiero. Reciprocamente, la spazializzazione del tempo è anche ciò che sensibilina l'unità sintetica dell'appercezione, che in quanto tale non si percepisce ed è solo pensabile, esatta­mente come non percepiamo le attività elettriche nel nostro cer-

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IL PROBLEMA NON~ I:ORNITORII':CO. ~ KANT

vello. Lo si constata nel§ 24 della Deduzione (B 153-154): non c'è da stupirsi, scrive Kant, se noi ci intuiamo come fenomeni e non come cose in sé, giacché anche quando pensiamo una linea non possiamo mancare di rappresentarla nel pensiero. Perciò, la linea che prima era quella con cui l'anima costruiva l'oggetto è anche la linea con cui il soggeno viene costituito in quanto og­getto per la propria autorappresentazione.

(d). La coscienza. ~ciò che si ribadisce in un'altra occorrenza della linea, subito dopo (B 156), che interviene nel quadro della argomentazione di Kant circa il fatto che ci conosciamo sola­mente come fenomeni e mai come noumeni: anche il tempo non può che rappresentarsi come una linea, che risulra in tal modo uguale alla coscienza, il tempo essendo la forma del senso interno.

(e). La geometria. e ultima occorrenza si registra, dopo losche­matismo, nel sistema dei principi, e specificamente negli assiomi della intuizione (8 203/A 163-4), dove troviamo una delle più aperte esposizioni della idea kantiana di matematica, e del suo ruo­lo nella costituzione della possibilità della esperienza. eidea di Kam è che le qualità estensive nascono per addizione di punti; l'immaginazione produttiva è capace di assicurare simili addizio­ni; e su questa possibilità di transito si fonda la geometria.

In breve, dunque, abbiamo una linea polivalente, questa:

che si potrà chiamare indifferentemente Geometria, Coscienza, Oggetto, il tutto sulla base della possibilità che sin dalla Fùica arismtelica viene attribuita al tempo, passare dal discreto al con­tinuo, dalla stigmè alla grammè.

Perché non funziona. Non stupisce che agli schemi difettino tanto la grana fine dell'esperienza quanto i caratteri propri degli oggetti: ma riconosceremmo le cose in un mondo di un solo co­lore e di pure forme geometriche? Non confonderemmo fogli di carta, piastre di acciaio, porre, tende, finestre, focacce grandi? È qui che si sconta l'abuso del concetto di "rappresentazione", e non per caso negli schemi difettano altri requisiti, come la terza dimensione o il movimento, essenziali per il riconoscimento di molti oggetti: se in una stanza buia mettiamo una persona con

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delle lampadine in corrispondenza delle articolazioni, e le chie~ diamo di stare immobile, non è possibile capire che si ha a che fare con un corpo umano, mentre se la si invita a camminare, il riconoscimento ha luogo prontamente, cosl come svariati preda~ tori riconoscono le vinime solo se sono in movimento. Implici~ tamente, si è anche ammesso che lo schema non serve nemmeno alla sussunzione, bensì alla formalizzazione e alla numerazione di una esperienza già pienameme attuabile senza schemi: nulla mi vieta, se lo voglio e se mi torna comodo, di risalire da un cane al~ la sua foto, e di lì alle sue qualità e quantità; posso anche, con la foto, riconoscere il cane. Però le qualità e quantità non mi servi~ rcbbero, in astratto, a nulla; o, più esattamente, servono solo in astratto. Vcrifichiamolo.

l. Come si piega la linea? Messo nei suoi termini più elemen~ rari e decisivi, il problema del passaggio dai concetto allo sche~ ma, dallo schema alla figura, c di qui alla cosa sottomano, suona: come si piega la linea? Sarebbe un po' come nelle vecchie pubbli~ cità delle pentole Lagostina.

E poi, una voha tracciata la silhouette, come si applicano i colo~ ri? E se questi sono già ordinati nel mondo, che bisogno c'è dello schema? O viceversa, nella versione meno ambiziosa dello schema come sussunzione, come si unificano i diversi punti nella linea, se non sono già ordinati e unificati nel mondo? Il solo modo che vie~ ne in mente è quello dei giochi della Settimana enigmistica che consistono nell'unire i punti per fare emergere un cane.

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IL PROBL<::MA NON È L'ORNITORINCO. È KANT

2. La Francia è davvero viola? Per corroborare la storia della li~ nea, Kam precisa che lo schema è un monogramma, e non una immagine. Tuttavia, che cos'è esattamente un monogramma? Kant sostiene espressamente che è come le silhouettes dei fisiono~ misti, che da pochi tratti delineano le caratteristiche di una per· sona; però qui abbiamo a che fare non con un metodo di costi· mzione, bensl con un sistema di riconoscimento di un già cono· sciuro. ~la manifesta incongruenza tra i due schemi cui fa men· zione Kant: da una parte, il modello della linea come rappresen· razione esterna e figurata del tempo; dall'alrra, lo schema di un oggetto qualsiasi incontraco nel mondo. Ammettiamo che rico· nasca delle forme geometriche pure apriori in oggetti di espe· rienza; però se lo schematismo è un sistema per riconoscere geo· ni elementari- poniamo, banane c cornette del telefono- non si capirebbe che c'entrino gli schemi di sostanza, causa e azione re~ ciproca, e ci imbatteremmo di nuovo nella difficoltà platonica del transito dalle idee alle cose. Perché lo schema dell'autostrada Torino· Milano non è lungo 126 chilometri né dura due ore, sic­ché nella immagine mentale dello spazio è proprio la caratteristi­ca saliente dello spazio a venir meno; c:: non si vede un solo mori· vo per pensare che la caratteristica che decade nella immagine debba essere resa possibile dall'immagine. La medesima conside· razione si potrebbe svolgere per il tempo. Sono proprio i caratte­ri specifici della temporalità quelli che vengono obliterati da una immagine mentale, che per l'appunto non avrebbe durata. Idem per il riconoscimento: avrebbe senso una conversazione come la segueme? "Ho sognato mia madre." "Sei sicuro di aver sognato tua madre e non una persona che le assomigliava molto?" Episte­mologicamente, non ci importa che la Francia sia proprio viola, Parigi davvero quadrata ecc.; ma la circostanza risulta adiafora solo a patto che non si confonda la carrografia con la fenomeno­logia. Lidea di Kant è invece di estendere il principio a1l'intera realtà e, in ultima istanza, di far passare in secondo piano la dif­ferenza tra la carta della Francia e l'ambiente cui si riferisce. Am­mettiamo pure che in tante occasioni cose molto diverse possano funzionare per cerci scopi: tutti abbiamo usato delle carte geo· grafiche, senza del resto sapere esattamente che cosa siano, e ab· biamo distinto una mappa da1la tavola per giocare a Monopoli. Il problema, tuttavia, è che mentre le carte geografiche non si sa

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:-.lAURI ZIO fERRARIS

che cosa siano, però s01ppiamo come usarle, gli schemi non solo si ignora che cosa siano, ma per di più non spiegano come ci si riferisce al mondo: in che modo un aggregato- in parte marro­ne, o verde, o bianco, in parte trasparente- si separa dal muro, è riconosciuto come una finestra, è distinto da ciò che si vede at­traverso la finestra, e ricondono per sussunzione alla categoria di sostanza? In che modo, se ho bisogno di scrivere, trovo una pen­na? Kant direbbe che sono schemi di concetti empirici, che non lo riguardano. Considerando tuttavia che- tolte le idee della ra­gione- nella antologia kantiana non c'è una sola cosa al mondo che non possa divenire oggetto di una esperienza possibile, l'uti­lità degli schemi risulta straordinariamente superflua. L'interpre­tazione più caritatevole potrebbe concepire lo schema come una qualità gestaltica, che come tale però non richiede né l'applica­zione di concetti, né un apparato di forme pure della sensibilità, giacché le qualità figurali potrebbero benissimo aderire agli og­getei, senza che sia necessario inserirle in una estetica trascenden­tale. Il problema di fondo, a ben vedere, è l'estrema povertà delle alternative offerte da Kant: per lui, c'è da una parte il pensare co­me pura funzione logica, c dall'altra il conoscere, che consegue dall'unione del pensato con il dato; quanto dire che c'è o co­scienza, o scienza, perché ogni accostamento della coscienza a un dato sarebbe una scienza, almeno potenziale. Però Giona è finito nella balena pensando che fosse un pesce, ed è esattamente quel­lo che gli sarebbe capitato se avesse saputo che si trattava di un mammifero.

3. Lo schema del cane. Sfido poi che risulti malagevole trovare, non dico lo schema dell'ornitorinco, ma persino quello del cane. Non solo gli schemi sono numeri mimetizzati, ma- ammesso e non concesso che gli schemi abbiano un senso -, non si riesce davvero a capire come possano assolvere la funzione che Kant gli assegna, ossia il passaggio dalla estensione al pensiero. Perché, al­la fine, lo scoglio su cui naufraga lo schematismo è proprio que­sto: si nora non abbiamo avuto una sola prova della particolariz­zazione della categoria di cui parla Kanr; e c'è da sospettare che non ne avremo mai, se Kant sostiene che gli schemi riguardano i concetti puri dell'intclleteo, e non gli empirici. Il polverone sol­levato da categorie, tempo, immaginazione, non riesce a camuf­fare la circostanza che nell'esperienza non incontriamo mai con-

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Il PROBlEMA NON È LORNITOitiNCO. t KANT

cecti puri, bensì oggetti dci quali si possono formulare concetti empirici. Sicché le aporie delle idee generali si ripropongono in­rane nello schematismo come metodo di costruzione, con tutto che Kant sembra non farci caso, e minimizza la gravissima que­stione dei rapporti tra concetti puri e conceui empirici. Il pro­blema è sollevato proprio all'inizio del capitolo sullo schemati­smo, tranne che non è risolto, e, soprattutto, non è manco colto come problema.

(a). Il piatto e il circolo. In un primo caso c'è la semplice illu­strazione di un processo astrattivo, svolta su un oggetto assai semplice: nel concetto ~mpirico di piatto penso la rotondità, laddove nel concetto geometrico intuisco quella medesima ro­tondità (B 203/ A 163-4). Proprio l'elemenrarirà permeue tutta­via a Kant di scotomizzare un problema cruciale, il rapporto tra concetti puri e concetti empirici: non ci vuoi molto a passare da un circolo a un piatto e viceversa; ma provate a immaginare qua­le complessa architettura di geoni sarebbe necessaria per passare alla cattedrale di Amiens o, semplicemente, a un tiglio.

(b). L'immagine e W schema. In una seconda occorrenza (B 180/ A 140-1), si sottolinea la differenza era le immagini- sem­pre inadeguate all'ufficio di idee generali - e schemi, che sono mewdi di costruzione (poniamo: tracciare un triangolo equilate­ro, invece che copiarlo da un segnale di pericolo sul ciglio della mada), ciò che si limita a ripetere l'idea della costruzione diTa­lete, a riprova del fauo che Kant ha proprio in mente un metodo di costruzione geometrica, in base al quale dovrebbe riuscirei na­turalmente quello che non è riuscitO a Talete, ossia di costruire apriori non un triangolo, bensì una guglia o un albero. Se si obietta che non si tratta"di costruzione bensì di sussunzione, si concede troppo a Kant, giacché a prendere alla lettera la sussun­zione, allora avremmo a che fare con una pura derivazione empi­rica, e la replica allo scetticismÒ andrebbe a farsi benedire.

(c). Il quadrupede in generale. In un terzo caso, infine, Kanr fa emergere un problema grosso come una casa o, almeno, come un cane: quello che, a suo dire, si riconosce applicando all'espe­rienza lo schema di un "quadrupede in generale". Che cosa sa­rebbe la determinazione di un simile ircocervo? E in che senso mi farebbe riconoscere un cane e non qualunque altro quadru­pede, oltre che un tavolo, una sedia, un calorifero portatile con

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quattro rotelle e un bambino che gattona? Dunque, di nuovo, come si passa dai concetti puri ai concetti empirici? Il modo di riconoscimento dello schema del cane trova forse un solo campo di applicazione, passabilmente futile e problematico: dopo aver visto un cane, guardo in cielo, e decido di chiamare una costella· zione "Cane", unendo le stelle con linee immaginarie.

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4. Figure e riconoscimenti reali. Il mondo non è composto di linee rette più di quanto non sia davvero fano a scale; dovremmo concluderne che l'esperienza sarebbe deputata a introdurre difet· ti e imprecisioni, in deroga alla normalità epistemologica? E quali sarebbero i princìpi in base ai quali si insinuano le impreci­sioni? Invocare i frattali e l'evoluzione della geometria dopo Kant non risolve il problema, giacché il difetto sta nel manico, ossia nell'assumere che la geometria costituisca un ingrediente indispensabile per l'esperienza invece che per la sua ridescrizione scientifica. Per quanto riguarda lo schema del cane, le soluzioni praticabili non sono che due: o è un esempio, come poi esplicita· mente si dirà nella Critica del giudizio, e allora non si vede che cosa c'entri la costruzione; oppure è un processo che non possie· de alcunché di concettuale, e allora, di nuovo, non si vede che cosa c'entri la matematica: il riconoscimento dell' eidos·cane non è l'individuazione di una figura ben definita, Non si tratta, come

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nella ipotesi delle idee generali, di pensare che per coalescenza un barboncino, un chihuahua, un pastore tedesco, un alano e un dobermann finiscano per unif1carsi in una sola figura, insieme grande e piccola, chiara e scura, e valida non solo per i cani, ma anche per i castori e per una quantità di altri enri. A parte l'im~ possibilità di immaginare un Cane In Generale, dovremmo di~ sporre apriori di una regola di unificazione di un concetto empi~ rico di cane, che ci permetta di discriminare l'essenziale dall'acci~ dentale. Chiaramente, però, non è cos}: la strada è sempre aperta a una enciclopedia alla Borges che ponesse i cani sotto due care~ gorie, quelli appartenenti all'Imperatore e tutti gli altri, assimila~ ti però ai maialini da latte. Inoltre, alla base di un'ipotesi del ge~ nere si dovrebbe supporre che per vedere un cane e comportarsi di conseguenza bisogna possedere un concetto di cane; e non si capisce allora in che modo i gatti scappino di fronte ai cani pur non avendone presumibilmeme concetti. Così, il riconoscimen­w avviene attraverso il movimento, il ritmo della camminata, che si ottiene confondendo le andature di cani diversi. Non è escluso che una simile configurazione costituisca in ultima istanza la ri~ proposizione di una reoria dell'astrazione, ma vorrei rimarcare due circostanze: in primo luogo, è palese che qui non abbiamo a che fare con l'immagine di un cane in generale, bensl con la col~ lezione di particolari comuni a svariati cani, che del resto non as~ somigliano neanche da lontano alla figura di un cane- col che si aggira l'obiezione rispetto alle idee generali-; in secondo luogo, l'astrazione non sembra in alcun modo orientata da un concetto di cane. Se un bambino ci chiedesse come è un cane, gli direm~ mo che ha le zampe, la coda, il naso nero e umido, il pelo più o meno lungo, che abbaia, che se è bagnato puzza, che si usa per la guardia o per la caccia; se volessimo fornire una definizione zoo~ logica, anche alla buona, diremmo che è un mammifero, che è onnivoro, che è imparentato con i lupi e gli sciacalli ecc. E in tutti i casi adopereremmo concetti, mentre apparirebbe bizzarro spiegare che cosa è un cane dicendo che si muove in un certo modo. Insomma, qui ci confrontiamo con una sfera abbastanza indeterminata, che propriamente ha a che fare con una esperien­za primaria, o meglio con qualcosa che non si potrà nemmeno chiamare "esperienza", se, con quel termine, si intende un insie~ me organizzato. E che tuttavia non costituirà uno sfondo neutra~

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le e amorfo su cui, a seconda dci nostri concetti, potremo impri­mere la forma che preferiamo. Se io, da una confusa macchia verde, ricavo, avvicinandomi, olmi e faggi, è perché c'erano olmi e faggi, e non perché nel frattempo ho appreso da un manuale di botanica le differenze tra olmi e faggi. Poi, distinto dallo strato primario e fondamentale, troviamo un ambito di ridescrizioni: l'esperta, fornita dal ricorso non a concetti puri dell'imelleno, comunque troppo poveri, ma a concetti empirici scientificamen­te fondati; e la pragmatica, che ci viene dal riconoscimento di esempi. In alrri termini: si può schematizzare con concetti o sen­za concetti, ma probabilmente uno strato primario dell'esperien­za non abbisogna di schemi né di esempi, operando piuttosto tramite strutture gesta1tiche che non richiedono alcuna concet­tua1izzazione- o, meglio, la cui concenualiz7..azione risulterebbe estremamente astratta e sofisticata: si pensi alle difficoltà com­portate da una piena teoria del rapporto figura-sfondo, ossia di una struttura già perfettamente accessibile a parecchi animali. In effeni, è una componente interna dei nostri concetci di genere naturale la circostanza che le caratteristiche dello stereotipo non esauriscono il contenuto del concetto, procurato da un riferi­mento essenziale all'oggetto. Il riferimento oggettuale appare dunque indipendente e prioritario rispetto alle note caratteristi­che per via della natura non concettuale del riconoscimento e della reidentificazione che sco sottolineando. In ogni caso, se ve­do una macchina piccola e bianca, poi una macchina grande e nera, non è che dica che la seconda non è una macchina perché la prima, quella che il mio papà, una volta, mi aveva mostrato dicendo: "quella è una macchina", era diversa. Riconosco un concetto (o, meglio, un nome) in due aspetti che vedo come profondamente diversi. E se non è una prova dell'esistenza di contenuti non concenuali, mi chiedo cosa mai possa esserlo.

5. Sensibili imensibili. Un ultimo problema. Come ho ricorda­to più sopra, per trovare la mediazione tra esteso e inestcso, e tra sensibile e intelligibile, uno sarebbe portato a suggerire: "è il nu­mero"; Kant, invece, dice: "è il tempo". Però non è difficile notare come quella che appare la sola via per la mediazione possa venire surrogata da tante altre funzioni, e già nella Critica della ragion pu­ra, giacché quanto Kam dice del tempo come sensibile insensibile lo ripete per l'immaginazione e gli schemi. Ora, con un po' di pa-

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zienza, di sensibili insensibili se ne trovano a bizzeffe: la chora pla­tonica, la luce, la musica, le fantasie, quasi tutto ... Infatti, sembra che "insensibile" venga assunto da Kant come un sinonimo di "intangibile". Cosl, turco quello che si avverte con qualche senso, o anche solo con l'immaginazione, ma non si può toccare con le mani, diventa un sensibile insensibile. Di questo passo, anche "O sole mio" può benissimo considerarsi un sensibile insensibile, giacché si sente la musica, però si vede e si può toccare solo la chi­tarra o il gondoliere. È ovvio che qui sto suggerendo una riduzio­ne all'assurdo, e che la controreplica potrebbe essere che la qualifi­ca di "sensibile insensibile" spena soltanto a ciò che media tra qualcosa di logico e qualcosa di estetico, il che non vale per "O so­le mio". Risulta però non banale stabilire in che misura i sensibili insensibili offerti dalla tradizione esercitino davvero la loro fun­zione mediale; e, di fronte alla sconforrante genericità delle rispo­ste, converrebbe concludere che "O sole mio" non è un sensibile insensibile, ma non lo è nemmeno il tempo, la chora o quant'al­tro. Nondimeno, a che pro questi sensibili implausibili, quando ce ne è già uno che va benissimo, il numero? Il ragionamento fila benissimo_, tranne che non <~.llora ci san:bbt: alcun bisogno di una filosofia trascendentale; basterebbe, sempre che lo si voglia, una epistemologia, che dovrebbe però confessare il proprio stato dito­tale subalternità rispeno alla fisica.

Prindpi

Talleyrand diceva: "Les principes, c'est bien, ça n'engage per­sonne". Non è certo il caso di Kant: l'onere di provare la natura­lizzazione era stato trasmesso dall'estetica alla deduzione, e di lì allo schematismo; sicché la partita che si gioca nei prindpi appa­re come l'ultima spiaggia del trascendentalismo. I princìpi mira­no a dimostrare il carattere intimamente numerico dell'esperien­za, sicché abbiamo a che fare con strumenti di misura che assol­verebbero un ruolo sempre più decisivo, sino a divenirne, nel ca­so deHe analogie dell'esperienza, una vera e propria condizione di possibilità.

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Tavola 5. I princìpi di Kanc confronmi con alcuni normali strumenti di misura

Posculati Orologio

Assiomi Metro

Anticipazioni Termometro, foromerro

Analogie Abaco

l. Postttlati del pensiero empirico in generale. Vengono per ulti­mi, ma giova trattarli per primi, giacché Kanr ammette esplicita­mente che assicurano fum.ioni epistemologiche e non ontologi­che, riguardando il modo del rapporto del soggetto conoscente con l'oggetto. L: idea è che se qualcosa può essere in un tempo, è possibile; se è in questo tempo, è reale; se è in rutti i tempi, è ne­cessario. Abbiamo dunque a che fare con principi intrinsecamen­te modali, che riguardano la conoscibilità- vale a dire la descrivibi­lità- dì oggetti, e non oggetti in quanto tali; e poiché per Kant esiste solo il reale, possiamo proscioglierli in sede istruttoria.

2. Assiomi dell'intuizione. Sono princìpi numerici, che coinci­dono con la categoria della quantità. Lidea di Kanr è che ogni intuizione ha un numero, ossia è grande o piccola: se ho un ta­volo davanti a me, posso misurarlo con un metro, o con un ter­mometro, però usandolo a mo' di righello. Quanto poco una si­mile prestazione, utilissima per la ridescrizione dell'esperienza, appaia necessaria per la costituzione della esperienza, lo si è visto si nora, e dunque non ripeto i discorsi già svolti.

3. Anticipazioni della percezione. Anche loro sono prindpi nu­merici, che riguardano però la qualità. L: idea di Kant è che ogni percezione possieda un grado, ossia risulti forre o debole: quel tavolo che ho di fronte a me apparirà bianco, nero o color noce, caldo o freddo ecc., e coglierò non poco alla volta, come negli as­siomi, bcnsl tutta in un colpo, l'intensità cromatica (con un fo­tometro) e il calore (questa volta usando il termometro in ma­niera più banale); il che al solito appare utile in sede di ridescrì­zione e non di costituzione.

4. Analogie dell'esperienza. I soli prindpi dotati di una possi­bile portata antologica sono le analogie dell'esperienza, che del resto discendono direttamente dallo schematismo, poiché gli

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unici schemi cui faccia riferimento Kant sono la sostanza come permanenza e la causa come successione. Dell'azione reciproca parlerò brevemente, trattandosi di un principio un po' super~ fluo, laddove si potrebbe legiuimamente asserire che senza il principio apriori della sostanza e della causa non esperiremmo né sostanze né cause. In un ceno senso, nelle analogie inconrria~ mo il luogo genetico della rivoluzione copernicana; opporre a Hume che l'esperienza non ci insegna la causalità e la sostanza, ma che, proprio al contrario, sono loro a renderla possibile.

Sostanza. Il sostraro di ogni cambiamento rappresenta la tra­scrizione metafisica del principio fisico della permanenza della sostanza.22 Dunque, ciò che è realmente sintetico nel principio è l'idea che la sostanza sia qualcosa di permanente nel tempo e, correlativamente, che si dia una differenza tra sostanza e acciden­ti, che per Kant è essenzialmente una distinzione tra fisico e fe­nomenico. Ora, il ragionamento risulta decisamente sospetto, e per più di un motivo: abbiamo visro a sazierà quanto poco anto­logicamente decisiva risulti la temporalità; si porrebbe aggiunge­re che, nella fattispecie, la distinzione tra analitico e sinrerico, così come ua empirico e trascendentale, appare altamente pro­blematica. Che la permanenza nel tempo costimisca un attribu­to sintetico della materia, laddove l'estensione nello spazio ne sa­rebbe una proprietà analitica, pare non meno opinabile dell'idea -difesa da Kant proprio quando bisogna distinguere tra analiti­co e sintetico-, secondo cui "questo corpo è esteso" rappresenti un giudizio analitico, e "questo corpo è pesante" risulti sintetico aposteriori, ossia tratto dall'esperienza. Perché è tanto poco con­cepibile un corpo senza peso q~unto poco lo è uno senza esten­sione o senza colore. In altri termini, a dar retta a Kant, una allu­cinazione soddisferebbe appieno i caratteri analitici della mate­ria, il che è tanto più assurdo in quanto, come abbiamo visto, prindpi che per Kant sono indubbiamente sintetici apriori, co­me gli assiomi dell'intuizione e le anticipazioni della percezione, non sarebbero che la trascrizione di quello che, nella versione che sciamo esaminando, corrisponderebbe a un giudizio analiti­co (estensione, quantità) e a un principio sintetico aposteriori (grado, qualità). Inoltre, anche il principio sintetico apriori della sostanza, vale a dire la permanenza nel tempo -laddove l'esten-

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sione nello spazio sarebbe il principio analitico apriori e il peso il principio sinte(ico aposteriori -, diviene una guida inaffidabile da un punto di vista antologico. E lo è tanto più se ci chiediamo non se sia davvero impossibile esperire sostanze in difetto di una categoria ad hoc, ma piuttosto che cosa succederebbe se davvero dovessimo considerare la sostanza come la permanenza di qual­cosa nel tempo, senza altre specificazioni.

l. Caratteri Jùici. Consideriamo, anzitutto, le difficoltà com­portate dalle caratterizzazioni kantiane.

(a). Permanenza nel tempo. Un primo elemento sembra pacifi­co: se applichiamo alla lettera la concezione della sostanza come permanenza di qualcosa nel tempo, troveremmo che sono sostanze tante cose che Kant rilutterebbe a reputare tali: (t). Spazio e tem­po, permanendo indubbiamente nel tempo, sarebbero sostanze, insieme alla luce e a tante altre cose, compresa la musica negli ascensori. (iz). Anche buchi, ombre, riflessi, immagini consecuti­ve rientrerebbero nel noveroP essendo permanenti per tempi più o meno lunghi, indistruttibili, dorati di identità (''è l'ombra di quella sedia", "è il buco di quel formaggio" ecc.). (iiz). Idem per il mal di denti, le ossessioni, i ricordi coani, i nomi, i teoremi e tutti gli oggetti ideali, il che andrebbe benissimo per Platone e per un certo Russell, ma non per Kant. (iv). Per concludere, la fama di Omero, l'Impero Romano, la malizia di ]ago farebbero tranquillamente parte della famiglia. Cosl,la nozione di "sostan­za" quale viene definita da Kant autorizza una dottrina dei fanta­smi, giacché non c'è criterio per discriminare un oggetto reale da un oggetto ideale, né una allucinazione da un fenomeno. Prova­re per credere: si ricorderà quanto poco convincente sia l'argo­mento di Kant, nella confutazione dell'idealismo, che non per­viene né a dimostrare l'esistenza di un esterno in generale (il flui­re interno del tempo non prova che fuori ci sia uno spazio fer­mo: potrebbero benissimo esserci due tempi, uno veloce e uno lento), né a discriminare il reale dal sogno e dalla allucinazione. Alla fine, tutto ciò che permane nel tempo sarebbe una sostanza, compreso Pegaso, il ferro !igneo e abracadabra, e l'antologia di Kant si rivelerebbe più accogliente di quella di Clauberg o di Qui ne.

(b). Che cosa significa "permanere"? Inoltre, che cosa significa "permanere"? Non muoversi? Evidentemente, no; un cane è -

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nel senso davvero troppo generico di Kant- una SOS(anza. Non trasformarsi? Neanche: i camaleonti risultano composti di so~ stanze. Si immagina che il permanere dipenda da una composi~ zione imerna, sicché, se in un tavolo cambio un atomo, non è più la medesima sosmnza; ma per Kant non pare cos(ituire un problema (del resro, la pe(manenza nel tempo non ci dice nulla circa la composizione interna della sostanza). Però, se facciamo dipendere la sostanza dalla permanenza, finiamo per cercare un anributo fenomenico cui si imputano delle proprietà interne, inesplicitate, tanto che si troverebbe più di un motivo per affer~ mare che un uomo non è una sostanza, poiché il suo carattere cambia negli anni, insieme alle sue cellule, tolti i neuroni, che però invecchiano, cioè si trasformano. A risultare particolarmen­te confusa è l'assimilazione tra sostanze e individui: un uomo, co­me un tagliacarte o un post-it, è un individuo, che a sua volta si compone di varie sostanze, che come tali sono fisiche e chimi· che, non fenomeniche; ma allora perché ci vorrebbe lo schema della sostanza per riconoscere un uomo? Quando riconosciamo una persona, non operiamo un esame fisico-chimico, bensì un avvistamento fenomenico, t::d è dd resto proprio quello su cui insiste a più riprese Kant quando ribadisce che conosciamo dap· prima l'esterno delle cose e solo successivamente l'interno.

{c). Per quanto tempo? C'è infine un terzo elemenro, meno palese ma anche più imbarazzante: quanto deve durare qualcosa per essere una sostanza? Uno starnuto non è sostanza perché è re· pentino e brevissimo o per qualche altro motivo? Un batter d'oc· chio è sostanza? L'istante è sostanza? Per un verso sì, giacché deve pur essere qualcosa, ma in un altro no, perché passa subito, non essendo mai senza movimento. E, se una nota non è una sostan· za, lo è forse una sinfonia? E una canzonetta di 3 minuti e mez~ zo? Se si assume che anche l'istante, per poco che duri, deve per­manere, altrimenti non sarebbe nemmeno un istante, allora an­che la nota- che indubbiamente ha una identità: il/a è inconte­stabllmente diverso dal tW- deve permanere; a maggior ragione, anche una melodia sarà una sostanza. Se però si osserva che cam· biando tutte le note, e conservandone i rapporti, la melodia con· serva la propria identità, allora avremmo due individui qualifica· ti come gli stessi, ma composti di sostanze completamente diffe· remi. ~ una circostanza che non va sottovalutata, giacché la do·

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manda "per quanto tempo?" rivela un circolo vizioso che si im­pone una volta che si sia ammesso che ogni pezzeno di tempo è pur sempre tempo; ciò che è tanto più vero quando si assuma, con Kant, che il tempo è intuizione e non conceno, di modo che la minima frazione di tempo è tempo non meno che l'eternità o anche solo quindici giorni, ossia non stabilisce con la permanen­za infinita un rapporto analogico -poniamo, di immagine mo­bile dell'eternità-, come avverrebbe ove si considerasse il tempo come un concetto. Perciò, se le cose stanno come sostiene Kant, non .solo le .souanze ma anche gli accidenti risultano permanenti nel tempo, e la definizione di so.stanza appare completamente vacua. Kant non ci pensa per almeno tre motivi: in primo luogo, non considera la questione del "quanto tempo", e si rimette con trop­pa confidenza alle assunzioni del senso comune; in secondo luo­go, si affida con pieno abbandono alla distinzione tra sostanze e accidenti; infine, non considera le conseguenze devastanti della tesi secondo cui "tutto è nel tempo". Si aggiunga poi che, consi­derando i fenomeni come apparenze, sia pure necessarie, non fa caso alla circostanza che possono benissimo essere sostrati, se­condo la sua definizione. E, allora, come la mettiamo con la na­ve di Teseo, che permane nella forma pur risultando, alla fine, composta di parti del tutto diverse dal suo assetto iniziale? Ana­logamente, se guardo il Sole che tramonta a mare, vedo una stri­scia luminosa che viene verso di me; ma se dico a uno che sta a cinquanta metri sulla mia sinistra "la vedi anche tu quella striscia luminosa", lui risponderebbe 'W', però in realtà si riferirebbe a un'altra striscia, quella che si dirige verso di lui. Non per questo potrei dirgli "vedi anche tu quella striscia?", o più esattamente, "codesta striscia", giacché in quel caso sarei io a non vederla. Il problema riguarda tipicamente quelli che Chisholm chiama en­tia successiva:24 qual è il vero ente, in un'onda, l'acqua o la sua forma? La soluzione di Chisholm è distinguere un senso ampio e popolare in cui le onde persistono nel tempo, e un senso stretto in cui persistono solo le entità primarie, cioè aggregati mereolo­gid e persone, ma non piante e artefatti, né tantomeno onde, ar­cobaleni e simili. Se Kant non si pone il problema, e se interro­gato definirebbe l'onda come una falsa apparenza, al modo del­l'arcobaleno o degli anelli di Saturno, è perché ha statuito che

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"sostanza" è ciò che inerisce alle strutture elementari di una cosa, e non alle sue proprietà fenomeniche.

2. Caratteri ecologici. Kant fornisce delle caratterizzazioni fisi­che, ma non considera che suppone tacitamente l'adozione di criteri ecologici; se la reversibilità fosse completa, però, i proble­mi crescerebbero invece che appianarsi. E questo dipende dall'e­quivoco fondamentale che lo ha guidato: è ovvio che noi po­tremmo agevolmente riconoscere oggetti senza la categoria di "sostanza", giacché quest'ultima interessa ai chimici e ai fisici; ma Kant non ci ha fatto caso, precisamente perché assume che noi siamo fisici e chimici che si ignorano, e non anzitutto ani­mali in un ambiente.

(a). Sostanze o oggetti? Nell'esperienza raramente incontriamo sostanze, bensì oggetti lunghi o coni, densi o radi, lisci o ruvidi, trasparenti o opachi. E i medesimi argomenti, che si possono ad­durre per dimostrare che la nozione di sostanza, come perma­nenza di qualcosa nel tempo, non può venire appresa dalla sola esperienza, si possono riproporre per la categoria di "ruvido", di "traslucido" e di "peloso", giacché non pare illecito pretendere che senza l'idea del "peloso" non potremmo sussumere barbe o cani; che per lo più non si sostenga alcunché di simile, non di­pende da una peculiare distinzione tra "sostanza" e "peloso", bensì soltanto dal fatto che "peloso" riguarda solo calune sostan­ze, o, meglio, ceni oggetti. Di rutto si può fare una categoria, se lo si desidera, e si può anche dimostrare, moltiplicando gli enti oltre necessità, che è apriori, e al limite trascendentale: ce la sen­tiremmo di escludere che se uno è sprovvisto della categoria "pe­loso" riesca a vedere barbe e cani?

(b). Durata nel tempo o durezza degli oggetti? Le nostre intui­zioni onrologiche paiono relativamente impermeabili all'applica­zione indiscriminata del principio secondo il quale "sostanza" è la permanenza di qualcosa nel tempo. E. abbastanza chiaro - se così si può dire- nel caso delle ombre. Kant assume tacitamente che il criterio per determinare la sostanza sia l'impenetrabilità e il possesso di determinate caratteristiche fisiche, ma esplicitamente afferma che si tratta della permanenza nel tempo. Se, viceversa, si esprimesse, d'accordo con una prospettiva fenomenologica in­vece che fisico-chimica, in termini di cose, non cose e quasi-co­se, non sarebbe autorizzato a fornire una determinazione che

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comporta l'attribuzione del carattere di sostanza alle ombre, e d'altra pane, per le ombre, sarebbe in grado di distinguere tra l'ombra propria, quella che aderisce all'oggetto e non viene per­cepita come tale (poniamo, le pieghe di un vestito), e che Kurt Koffka classifica come non-cosa, e l'ombra portata, che un og­getto proietta fuori di sé, e che Koffka classifica come quasi-cosa. Il mtto in un orizzonte ingenuo, rispondente alle nostre intui­zioni fondamentali, che appaiono restie ad ammettere che l'om­bra costituisca una sostanza, ma riconoscono che sia qualcosa, che si può ottenere con cappelli c ombrelloni. Tunavia, c'è da chiedersi dove sia l'ingenuità maggiore. In particolare, resta aperto un quesito: poniamo, come è plausibile, che Kant non in­tendesse asserire che l'ombra è una sostanza, e che semplicemen­te non avesse calcolato tune le conseguenze della sua tesi. Se ne dovrà concludere che non si possono riconoscere le ombre? Ari­gore, le cose dovrebbero stare proprio così, poiché Kanr ha parla­to di uno schema della sostanza, ma non ha menzionato schemi delle apparenze o degli accidenti. Non ci ha pensato, di nuovo, perché gli importava solo quello che ai suoi occhi poteva tornare utile per una scienza, e verosimilmente assumeva che il vero pro­curasse l'indice del falso inteso come "apparenza", e che il più fondamentale, cioè la sostanza, assicurasse la radice da cui si po­teva estrarre senza difficoltà il meno fondamentale, vale a dire gli accidenti.

(c). Eventi. E si consideri, in terzo luogo, che, n~ll'esperienza, incontriamo non solo sostanze, ma altresl eventi, che del resto presentano una costanza nel tempo, sicché potrebbero venire con­siderati alla stregua di sostanze, se almeno ci atteniamo ai parame­tri kantiani. E poi ci sono gli oggetti-evento, come gli arcobaleni, le cascare, i fiumi, gli schiaffi, i tramonti, i sorrisi. Nondimeno, come abbiamo visto, per Kant gli arcobaleni costituirebbero feno­meni di secondo grado della pioggia, allo stesso titolo di fiumi, ca­scate e tramonti. Mentre uno schiaffo e un sorriso non sarebbero probabilmente nulla (e allora com'è che li riconosciamo?).

(d). Accidenti o qualità? Si aggiunga infine che, quando non si sia dogmatizzata la distinzione tra qualità primarie, secondarie e terziarie - giacché senza la categoria di "simpatia" o di "tetraggi­ne" svariati aspetti dell'esperienza mi sarebbero preclusi -, non è deciso non solo che le categorie non siano più di dodici, e che

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forse non siano proprio quelle, ma soprattutto che risultino in· gredienti necessari per l'esperienza. Insomma, uno potrebbe be· nissimo sostenere che troviamo cose sostanziali, verdi e ruvide, senza alcuna categoria logica, giacché le nostre strutture estetiche bastano a farcele vedere cosl, e soprattutto perché gli zucchini sono davvero cose verdi e un po' ruvide.

Causa. Con la causalità, Kam mostra di possedere più frecce al suo arco: se urto un gessetto con una matita, il gessetto si spo· sta; se non possedessi un concetto apriori di "causa", è dubbio che potrei apprenderla per abitudine. Dunque, almeno nella fat· cispecie, una scienza appare necessariamente presupposta all'e­sperienza, e si tratterà di una scienza certa, essendo apriori. Però è una impressione che non regge a un esame meno che superfi­ciale. Per capirlo, basta pensare a quanti significati si addensino nella parola "causa", poiché una marita causa lo spostamento di un gessetto in un modo assai diverso da quello in cui il fumo causa il cancro o l'ignoranza causa l'ingiustizia. Se cerchiamo di discriminare causalità percepita e causalità pensata, così come causalità episn:mka e causalità fenomenica, ci rendiamo como di quanto poco atrendibile possa apparire la rivendicazione della necessità apriori della causalità per l'esperienza, e capiamo al tres} come l'ultimo baluardo del trascendentale si riveli tutc'altro che inespugnabile.

l. Causalità percepita e causalità pensata, Qui vorrei dimostra­re che percepire la causalità non è pensarne la categoria, giacché esperiamo causalità che confliggono con quanto pensiamo. Se si ammette che, d'accordo con Kam, pensare una cosa non è anco­ra conoscerla, sicché nulla vieta l'esperienza di false causalità, al­lora non si vede a che giovi la rivoluzione copernicana; ma se do­vesse servire a qualcosa in funzione amiscettica, allora il solo fat· to che io veda una causa che non potrei mai pensare, comraddi· cendo ciò che so, rovina la difesa kamiana dell'apriorità della causa rispetto all'esperienza.

(a). Lo sciacquone di Metzger. Incominciamo con un caso fla­grante di causalità percepita e non pensata. Nel 1943-44, il per­cettologo Wolfgang Metzger era militare a Cassino. Un giorno andò al gabinetto nel baraccamento dove era alloggiata la sua squadra, e, alla fine, tirò l'acqua. In quel preciso momento, una

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granata colpl la baracca, sicché parve a Merzger di essere stato lui, azionando lo sciacquone, la causa del disasuo. Ora, Menger vMe la causalità, almeno se ci si mantiene allivello della descri~ zione soggettiva; per essere neutrali, diciamo che la percepì. Che ne andasse del vedere e non del pensare sembra poi confermato da questo: appare a dir poco peregrino che basti tirare uno sciac~ quone per fare esplodere un baraccamento; e d'altra parte l'im­pressione risulrò talmente viva e incontestabile, vale a dire dorata della tipica evidenza che caratterizza la percezione sensibile, che Menger fece fatica a dirsi che era impossibile, né gli riuscì facilis~ simo mettere a tacere i sensi di colpa che lo avevano assalito. Meczger aveva dunque provato l'esperienza di una causalità inve­rosimile; inoltre, aveva sperimentato una causalità falsa, giacché lo sciacquone non c'entrava proprio niente, diversamente da ciò che si vede in C'era una volta in America, dove un tale esplode ti~ rando l'acqua nella toilette di un ristorante: e, almeno nella fin­zione, costituisce una causalità vera -Io sciacquone innescava un detonatore-, ma non verosimile. Sicché, a farla breve, quella per­cezione della causalità non risulta spiegabile né nei termini del~ l'empirismo né in quelli del razionalismo: se davvero l'esperienza avvenisse attraverso giudizi inconsci, che confrontano ciò che succede o con l'esperienza pregressa, o con la luce sovrana della ragione, Metzger non avrebbe dovuto inwire fulmineamente una causalità; sicché la causalità si può anche intuire senza che sia necessario ricorrere umpre a funzioni intellettuali, cioè (nella versione kantiana) epistemologiche.

(b). La plafoniera di Hemingway. La causalità non era né apr­resa con l'abitudine, né pensata apriori, bensl incontrata prima di ogni pensiero o cognizione. Cerchiamo di confrontare l'avvenu­to con altri due aneddoti, per precisare i( carattere di ''incontra­to" della causalità inverosimile. Negli anni Venti, a Parigi, He­mingway, tirò lo sciacquone e gli cadde in testa la plafoniera; probabilmente, si sarà sorpreso anche lui: ma non .come Metz­ger, al quale del resto accadde, in un'altra occasione, di passeg­giare all'imbrunire a Berlino in compagnia di un collega. A un cerro punto, gli diede una pacca sulla spalla e di colpo si accesero i lampioni; e provò, di nuovo, la strana esperienza della causalità, che non è né quella di quando tirando lo sciacquone scorre l' ac­qua, né quella di quando, sempre tirando lo sciacquone, uno si

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IL PROBLEMA NON t L'ORNlTORINCO. t KANT

riceve in testa la plafoniera. La morale è che il caso di He· mingway appare statisticamente improbabile ma vero, mentre la pacca sulla spalla a Berlino risulta irragionevole e inverosimile, come lo sciacquone di Cassino, eppure si è data con la stessa evi· denza incontrata che ha caratterizzato l'evento occorso a He· mingway. L'incontrato, nei due aneddoti, non ha nulla da spartÌ· re col sapere o con la verità.

(c). Uno sconosciuto in lrpinia. Si opporrà che Metzger era particolarmente sensibile al tema, e che solo a lui, oscuramente guidato da interessi percettologici, accadevano fatti del genere. Largomento non pare invincibile, giacché esperienze analoghe sono occorse a non culrori della materia: durante il terremoto in Irpinia, un tale che stava giocando a carte- e che non aveva al suo attivo studi di percettologia, né verosimilmente nutriva al· cun interesse teorico nei confronti del fenomeno della pseudo· causalità- calò un asso sul tavolo, con entusiasmo ma senza par· ticolare veemenza, e si trovò al piano di sotto; e anche per lui non fu facilissimo convincersi di non esser stato lui a provocare il crollo, giacché l'evento fu un incontrato. Chi ha una esperienza di falsa causalità, dopotutto, non si comporta diversamente da chi percepisce il movimento Beta, dove la successione temporale di due fonti luminose viene percepita come la traslazione lineare della medesima luce; l'incontrato, qui, è qualcosa che non si pensa né si inferisce, ma si vede, però proprio al modo di una causalità, che dunque non appare semplicemente pensata.

2. Causalità epistemiche e causalità fenomeniche. Uno potrebbe sostenere che una casistica del genere finisce per portare acqua al mulino della precomprensione: (t) capita in continuazione che un evento B abbia luogo subito dopo un evento A; ma, (it) quando ci pare che certe condizioni siano soddisfatte (per esem· pio, l'esigenza del contatto fisico tra A e B), allora percepiamo una causalità; tuttavia (iù), non la percepiamo, poiché la pensia· ma, grazie all'intervento di abitudine, memoria e cultura incon· sciameme assimilate. Se però le cose stessero in questi termini, adesso che consideriamo 1' azione a distanza non una magia, ma una banalità, dovremmo interpretare ogni evento nel mondo co· me implicato in una possibile interazione casuale. Invece non lo facciamo, isoliamo solo taluni fenomeni come eventi causalmen· te qualificati, e in certi casi, rari e che suscitano una lieve ilarità,

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MAURI7.10 FERMRJS

come quelli di Metzger e compagnia, percepiamo causalità, che però rispondono alla fisica aristotelica e non a quella newtonia­na. Dunque, non c'entrano né la precomprensione culturale, né l'azione di princìpi dell'intelletto puro, registrandosi piuttosto l'azione di una modalità percettiva, che risulterà anche sbagliata, ma non appare cerro dipendente dall'intelletto.

Difarti, la pseudocausalità alla Metzger non si riesce a emen­darla, diversamente da quanto avviene per causalità realmente pensate. In taluni casi, ci sono causalità pensate che non risulta­no nemmeno percepire: nessuno ha mai visto la gravitazione uni­versale, e quando la marea sale ci sembra piuttosto una causa, che infradicia i panini lasciati troppo vicini alla riva, che non un effetto della attrazione lunare. Basta però che ci spieghino il feno­meno, e saremo dispostissimi a riconoscere effetti là dove vede­vamo cause. Analogamente, possiamo benissimo abbandonare la fede in certe cause che si rivelano mere spiegazioni sbagliate. Lo si può verificare facilmente: poiché i microrganismi non si vedo­no a occhio nudo, si è a lungo ipotizzare che si potesse parlare di una generazione spontanea dalla corruzione dei corpi in putrefa­zione. Qui pensare una causalità invece che vederla non costitui­sce una garanzia, inducendo a concepire una causalità invisibile, verosimile, ma falsa. Nella scienza si incontrano più casi in cui una causalità inverosimile, che contrasta con abitudini e accese, si rivela vera: appare inverosimile che se uno mangia spaghetci diventi anemico, ma per chi sia allergico al glutine è vero; pro­prio come sembra verosimile, non solo per gli alchimisti, che il vino rosso faccia sangue, rimediando all'anemia, ma, di nuovo, non è vero: risulta del tutto adiaforo. Tuttavia, il tratto comune di simili "cause", che si rivelano poi altrettante spiegazioni, risie­de nella circostanza che possiamo abbandonarle quando voglia­mo. Diversamente dalle causalità fenomeniche, le causalità epi­stemiche non sono incontrate; ma Kant le confonde per sistema, avendo identificato antologia ed epistemologia.

Azione reciproca. Secondo Kam, per poter vedere una casa dal tetto alle fondamenta o dalle fondamenta al tetto devo possedere una categoria che insieme mi permette di considerare l' esperien­za come un organismo legato in cui tutto cospira con tutto (tout se tient; ma questa sentenza leibniziana ha avuto un motivato

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Il PROBlEMA NON t LORNITORINCO. È KANT

successo soprattutto nei gialli di una volra, dove non un indizio era seminato a caso), e mi autori7.za, nella fanispecie, a pensare che il legame non esercita una azione apprezzabile, giacché l'ope­razione può venire ripetuta più volte e in qualsiasi senso, laddove se guardo una barca che scende il fiume non posso inverrire il senso della osservazione e, nel frauempo, la barca si allontana. La forma generale della azione reciproca costituisce la norma di una connessione universale dell'esperienza, per cui sarebbe indi­spensabile la rappresentazione di una connessione necessaria di tutte le rappresentazioni. Kant enuncia il principio con la tran­quillità con cui uno storico sosterrebbe che la nozione di storia universale risulta ovviamente sottesa a ogni storia particolare, ma ovviamemc non è cosl. Perché non incomincerei a far scienza senza l'ipotesi di giungere prima o poi, io o altri, a una teoria del tutto, il che non mi impedisce di fare esperienza anche di cose assai minute e determinate, e in assenza del più tenue barlume della loro connessione sia pure con le loro cause più prossime.

Kant, viceversa, suppone che, per guardare il nostro tavolo da lavoro, necessitiamo di ciò che Einstein cercò vanamente per l'intera seconda parre della sua vita, giacché confonde il precetto epistemologico in base al quale il sapere ha inizio quando stabi­liamo relazioni tra fenomeni con la circostanza incontrata secon­do cui qualcosa può benissimo succederei senza che appaia iscritto in un reticolo pregresso, c senza che tutto, al mondo, co­spiri con tutto il resto. Bisogna allora a tal punto mohiplicare gli· enti oltre necessità, che si è costretti a ipotizzare l'azione recipro­ca per spiegare come avvenga che - con tutto che le cose sono intimamente legate e sottoposte alla unità sintetica della apper­cezione -, alle volte le cose si presentano come se fossero tutto sommato slegate, (arse perché le loro segrete cospirazioni risulta­no talmente occulte da non dar notizia di sé. Certo- si potrebbe obiettare -, qui Kant non sta parlando di penne, computer e lampade, bensl della gravitazione universale; tuttavia, che cosa c'entra la gravitazione universale con il mondo ecologico di cui facciamo esperienza e di cui anche Kant ambisce a parlare? Non è vietato sostenere che, nello sguardo di Dio, tutto è presente e tutto è connesso, né appare illegittimo sperare che, se e quando si realizzerà l'ideale della scienza come sapere assoluto, saremo si­mili a Dio. Però, di qui a ritenere che non conoscere tutto rispet-

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MAURILIO FERRARIS

to a una cosa significa non saperne niente, e anzi non averne nemmeno una esperienza, ne corre. Il bambino che si scansa do~ po aver tirato un sasso per aria compie una azione che potrà esse~ re giustificata- dagli adulti e a seconda delle epoche- in base al~ la fisica aristotelica oppure a quella newtoniana; ma non è che la teoria dei luoghi naturali o la gravitazione universale determini~ no il comportamento del bambino. Inoltre, gli adulti non saran~ no, nella maggior pane dei casi, fisici di professione, sicché i loro sistemi di giustificazione si costruiranno sulla base di un senso comune contingente, quel senso comune che una volta può ap~ poggiarsi su Aristotele, un'altra su Newton, e un'altra ancora su Einstein. Ne segue che, in entrambi i casi, l'esperienza avverrà fuori dell'ombrello protettivo della scienza.

Si avrà pur sempre diritto di osservare25 che nel mondo feno~ menico l'assenza di rapporti di dipendenza costituisce la norma, non l'eccezione: che il mondo sia un libro scritto in caraneri ma~ cemarici o d'altro tipo è solo l'ipmesi della scienza e delle sue preforme, non quella dell'esperienza, e se uno sostiene che ma~ gari la partizione figura/sfondo costituisca un 'carattere' di que~ sto libro, insieme alle quantità matematiche, dovrà ammettere che gli riesce difficile scrivere "carattere" altrimenti che tra virgo~ lette semplici, quelle che indicano l'uso improprio di un termi~ ne. Il conferire senso, ossia l'intrecciare connessioni, non rappre~ senta uno standard (''non a caso", "gana ci cova", "cherchez la femme"): che Watson non rilevi un centesimo delle inrerrelazio~ ni registrate da Sherlock Holmes, non gli vieta di godersi la vita, né di esercitare la professione medica, dove, senza dubbio, no~ terà più interrelazioni di quanto non gli capiti a tavola.

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Addio al trascendentale

Il primo a vedere le difficoltà è stato Kant: tutto il divenire del suo pensiero, nel loquace decennio 1781-1790, appare come una elaborazione del punto dolenre ereditato dal silenzioso de­cennio che lo aveva preceduto. Il problema del trascendentali­smo ontologico era: come, dato un sistema di categorie e di for­me della sensibilità, è possibile che i concetti si riferiscano ai per­ceni, ossia li determinino e li sussumano? Ora, il problema per­mane irrisolto, a meno di risultare affetti da una peculiare incli­nazione per i colpi di pistola sparati nel buio, quali l'appello ara­dici comuni di sensibilità e intelletto (B 29 l A 15) e a misteri deposti nella profondità dell'anima umana (B 180-1 l A 141) chiamati a tagliare ciò che a Kant non è riuscito di sciogliere. Perché, da una parte, Kant non fa che accumulare quelli che a lui paiono argomenti irrefutabili per un intervemo costitutivo dell'intelletto sulla sensibilità; dall'altra, però, il modo in cui la sensibilità e l'intelletto risultano connessi si presenta come un mistero. Cosi non si può andare avami, perciò nella Critica dei giudizio si fa marcia indietro.

l. Giudizio riflettente. Vien meno il giudizio determinante, sostituito e non affiancato dal giudizio riflettente. La versione ufficiale è che gli oggetti sono prima determinati dall'intelletto, e poi ci si riflette su; ma il compromesso terrebbe solo qualora Kanr avesse dimostrato che le cose stanno proprio cosi, mentre non ci è riuscito, e anzi ha suggerito piuttosto che scanno altri­menti, e che non c'è proprio alcuna esigenza ontologica del tra­scendentale, visto che gli oggetti si determinano da soli. Se poi ci

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aneniamo al solo giudizio riflenente, viene abbandonata la do­manda fondamentale della prima Critica, circa la possibilità di giudizi sintetici apriori. In quanto ipotesi epistemologica e non come costituzione antologica, il giudizio riflettente deve conten­tarsi di ricostruire retrospettivamente una necessità che è in na­tura; e che lo sarebbe anche fuori dell'orizzonte trascendentale. A farla breve, il trascendentale non interviene quando vedo su un vionolo qualcosa che sembra un bastone ma potrebbe anche es­sere un serpente: bensì quando, senza che l'apparenza fenomeni­ca risulti mutata, decido che è proprio un bastone, che potrò usare, da uomo prarico, per scacciare un serpente vero; o per de­cidere, da botanico, a quale pianta appartenga il ramo; o ancora per usarlo, come artista, per fabbricare, con qualche modifica, un bastone da passeggio a forma di serpente. Alla fine, potrò an­che chiedermi se l'impugnatura non assomigli piuttosto al muso di una lonua o di una martora, se il bastone ricordi certi aurezzi neolitici o delle volute rococò, ma è chiaro che da una soglia in su sono entrato in una sfera secondaria, leginima, sl, ma non co­sì importante.

2. SchematiZZilre senza concetto. Non c'è più lo schematismo: mentre lo schema serve a una determinazione reale, il simboli­smo assicura semplicemente una analogia. Non è che il mondo fisico su cui si applica la matematica appaia necessario e stabile poiché i nostri sensi c il nostro intelletto sono fatti in un cerro modo; piuttosto, ci conviene pensare che il mondo appaia su­scetribile di un ordinamento finalistico affinché la fisica e le altre scienze possano trovare un campo di applicazione. Quanto dire che l'intera scienza costituisce una pura contingenza rispetto alla realtà. Gli schemi divengono apertamente funzioni epistemolo­giche e al limite finzioni euristiche (basti dire che nel § 59 della Critica del giudizio "sostanza" e "causa" vengono considerate del­le espressioni metaforiche), e abdicano a qualsiasi pretesa di assi­curare un rapporto reale tra estensione e pensiero. Da una parre, con la critica del giudizio estetico, Kant si confronta con i conte­nuti non concenuali, che- nel suo senso- costituiscono le sfere che hanno a che fare non con la facolcà di conoscere, bensl con quella di piacere o dispiacere. D'altra parte, tutta la critica del giudizio tcleologico si presenta piuttosto come una temarizzazio­ne degli schemi concettuali che impieghiamo- a livello scientifi-

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JL l'ROBLEMA NON~ ~Oll..'IJTORINCO. ~ KANT

co, e indipendentemente da qualsiasi finalità interna della natura -per conferire senso al mondo in sede di ridescrizione dell'espe~ rienza. In breve, l'Analitica, in aperta antitesi con la Critica della ragion pura, risulta composta di contenuti non concettuali; la Dialettica diviene invece, espressamente, la sfera in cui si dispie~ ga un principio epistemologico, che recita che per capire la natu~ ra giova supporre che abbia una struttura finale. La questione è dunque: come si formulano le ipotesi di lavoro nei laboratori, e non: come vediamo le cose.

3. Contenuti non concettuali. Non vale più il principio secon~ do cui le intuizioni senza concetto sono cieche: vige esclusiva~ mente allivello della epistemologia, né ambisce ad alcuna porta~ ta reale. Il congiungimento rra il pensiero e l'estensione avviene, però idealmente e non realmente, nella scienza; quanto dire che qui non si ha a che fare con uno schematismo che effettua l'o~ mogeneizzazione tra l'imerno e l'esterno, bensì con una teoria della scienza che promette che- in un tempo infinito ma che va comunque presupposto alla ricerca della verità- tra la natura e la matematica svanirà ogni differenza.

4. Ontologia senza trmcendentale. C'è di che proseguire- d'ac~ corda con una lunga e autorevole tradizione- verso una episte~ mologia kantiana; poiché tunavia il mio obiettivo è delineare i caraneri di una antologia, dovrò seguire una diversa strategia. La domanda che mi guida è essenzialmente: se seguiamo il trascen~ dentale, ammettiamo che gli schemi determinano l'esperienza; al massimo, con qualche liberalismo post~kantiano, possiamo dire che gli schemi si possono anche sostituire, ma poco alla volta e olisticamente, come paradigmi che scandiscono altrettante età della fisica. Tuttavia, al solito: sarà vero? Un idraulico che fallisce in una procedura dovrebbe iterarla tante volte, scontentando i clienti, sino a quando ... Ecco, sino a quando, esattamente? Non sarà che, come nel terremoto messicano, il mondo esterno può farsi vivo senza aspettare che i nostri schemi concettuali siano pronti ad accoglierlo?

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CHE COSA SI PROVA A ESSERE UNA CIABATTA

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Epistemologia/antologia

Distinzioni menziali. Si può fare a meno dd trascendentale purché si riconoscano le differenze essenziali tra antologia ed epistemologia. Eccole.

Tavola 6. La differenziazione tra antologia ed epistemologia

EPISTEMOLOGIA emendabile

Scienza linguisdca storica

libera infinita releologica

Verità non nasce dall'esperienza, ma risulra

teleologicamenteoricntata verso di essa

Mondo interno

(:intcrnoaglischemiconcettuali) Paradigma: W schtma concettualt. È nella tesra e parla dd mondo, quindi lo si può emendare

ONTOLOGIA inemendabile

Esperienza non necessariamencelinguisdca nonnorica

necessaria finita non necessariamente tcleologica

Realtà non è naturalmente orientata verso lascien7.a

Mondo esterno ( .. esterno agli schemi concettuali)

Paradigma: tutto dò che non è tmcndabil(":. è nd mondo e non lo si

può cambiare col pensiero

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MAURIZIO FERRARIS

L'Argomento della Ciabatta

Prima di procedere alla articolazione delle distinzioni, vorrei esporre il suolo del miO ragionamento.

l. Uomini. Prendiamo un uomo che guarda un tappeto con so­pra una ciabatta; chiede a un altro di passargli la ciabatta, e l'altro, di solito, lo fa senza incontrare particolari difficoltà. Banale feno­meno di inrcrazione, che però mostra come, se davvero il mondo e.nerno diptmdesse anche solo un poco, non dico dalle interpreta­zioni e dagli schemi concettuali, ma dai neuroni, la circostanza che i due non possiedano gli stessi neuroni dovrebbe vanifìcare la con­divisione della ciabatta. Si può obiettare che i neuroni non devono risultare proprio identici per numero, posizione o sinapsi; il che, però, non solo indebolisce la tesi, ma contraddice una evidenza difficilmente confutabile: che differenze tra esperienze passate, cultura, conformazioni e dotazioni cerebrali ecc., possano com­portare divergenze significative a un certo livello (lo spirito proce­de dal padre c dal figlio o solo dal padre? che cosa intendiamo con "liberrà"?), è banale: sono le dispute tra opinioni. Nondimeno, quando si discute si è consapevoli di maneggiare una materia assai diversa da quella implicata dalla ciabatta sul tappeto, che viene vis­suta come esterna e separata, ossia come dotata di una esistenza qualitativamenre diversa da quella che si affronta, poniamo, nel ragionare sulla leginimità della inseminazione arrifìciale. In altri termini, la sfera dei fatti non risulta poi così inestricabilmente in­trecciata con quella delle interpretazioni, e già a questo livello in­contriamo un mondo esterno agli schemi concettuali.

2. Cani. Adesso prendiamo un cane, che sia stato addestrato. Gli si dice "Porrami la ciabatta". E, di nuovo, lo fa senza incon­trare alcuna difficoltà, esattamente come l'altro uomo, benché le differenze tra il mio e il suo cervello siano verosimilmente enor­mi, e la sua comprensione di "Portami la ciabatta" non paia assi­milabile a quella di un altro uomo: il cane non capirebbe se sto davvero chiedendogli di portarmi la ciabatta oppure se citi la fra­se, o se la usi in senso ironico; mentre è probabile che alcuni uo­mini lo capirebbero.

3. Vermi. Ora prendiamo un verme. Non ha cervello né orec­chie; è privo di occhi, è ben più piccolo della ciabatta; possiede solamente il tatto, qualunque cosa voglia esanamente significare

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CHE COSA SJ rROVA A ESSERE UNA CJABAlTA

un senso così oscuro; dunque non possiamo dirgli "Porcami la ciabatta". Però, strisciando sul tappeto, se la incontra può sce~ gliere fra due strategie: o le gira intorno, o le sale sopra. In ambo i casi, h~ incontrato la ciabatta, anche se non proprio come la in~ contro 10.

4. Edera. Poi prendiamo un'edera. Non possiede occhi, non ha proprio niente, però si arrampica (cosl ci esprimiamo noi, rranandola da bestia e attribuendogli una strategia intenzionale) sui muri come se li vedesse; oppure si scosta lentamente se trova fonti di calore che la infastidiscono. L edera o aggirerà la ciabac~ ra, oppure ci salirà sopra, esattamente come un uomo, tuttavia senza occhi o schemi concettuali.

5. Ciabatta. Per finire, pigliamo una ciabatta. È ancora più in~ sensibile dell'edera. Però, se la tiriamo sull'ahra ciabatta, la incon~ tra, in modo preciso e identico a come accade all'edera, al verme, al cane, all'uomo. Dunque non si capisce proprio in che senso an~ che la tesi più ragionevole e minimalista circa l'intervento del per~ cipiente sul percepito possa avanzare qualche pretesa antologica; figuriamoci poi le altre, Anche perché- e qui tocchiamo il nocciolo della antologia- si potrebbe benissimo non prendere un':tltra eia~ batta, ma semplicemente immaginate che la prima sia lì, in assen~ za di qualsiasi osservatore animale, o senza un vegetale o un'altra ciabatta che interagiscano con lei. Forse che allora non ci sarebbe una ciabatta sul tappeto? Se la ciabatta c'è davvero, allora deve es~ serci anche senza che nessuno la veda, come è logicamente impli~ caro dalla frase "c'è una ciabatta", altrimenti uno potrebbe dire: "mi pare che ci sia una ciabatta", o, anche più correttamente: "ho in me la rappresentazione di una ciabatta", quando non addirinu~ ra: "ho l'impressione di avere in me la rappresentazione di una ciabatta". Si consideri che far dipendere l'esistenza delle cose dalle risorse dei miei organi di senso non è di per sé nulla di diverso dal farle dipendere dalla mia immaginazione, e che quando sostengo che una ciabatta c'è solo perché la vedo sto in realtà confessando di avere una allucinazione.

Vincoli ontologici

I.:Argomento della Ciabatta mi serve per distinguere i rap­porti conoscitivi che si possono- e spesso si devono- instaurare

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con pani del mondo e le relazioni antologiche che avvengono in assenza di quei rapporti.

l. Soggetti e oggetti. Uno potrebbe apparmi: perché fermarsi ai vermi e alle ciabane? Se la cosa ruvida incolore enorme incon­rrata dal verme è la medesima ciabatta che vedo io, allora perché escludere che ci siano esseri che vedono i protoni? In ogni caso possiamo riconoscere, in una stanza buia, il passaggio di soli quanro fotoni, ma tu, nella tua antologia, includi la luce ed escludi i fotoni; sicché la tua onrologia degli oggetti di medio li­vello costituirebbe, ben che vada, una ecologia e forse la lessico­grafia di un senso comune piuttosto incolto. !.:obiezione, però, tiene solo fino a un ceno punto: anche togliendo di mezzo l'am­biente, la psiche, la mia stessa vira, le cose di cui mi occupo da vivo in un ambiente restano tali e quali, laddove gli schemi con­cettuali spariscono. Supponiamo che, riesumando un vecchio supplizio, decidessero di pianrarmi un chiodo in testa: all'inizio patirei un terribile dolore, poi più niente, e alla fine non ci sarei più neppure io, con i miei ricordi, le mie attese, i miei schemi concettuali. Eppure l'efficacia del chiodo non si è alterata, e ha dererminaro prima il dolore, poi la fulminea demenza, infine la morte. Se invece fosse cambiata, se - poniamo- il chiodo fosse scomparso nel momento in cui smettevo di sentirlo, o di pensar­lo, forse me la sarei cavata; ma sarebbe stato un chiodo in testa nel senso di una idea fissa o di un oggetto immaginario.

2. La follaàa pragmntùtica. Proprio per questo il mondo non è a disposizione dell'inrerprete: posso afferrare una maniglia per aprire la porta, ma solo se è abbastanza solida, se non è disegnata ecc.; posso altresì adoperare una stilografica Mont Blanc come fil­tro per osservare una eclisse di Sole, ma l'operazione non mi riu­scirebbe con una Sheaffer d'argento: la mia possibilità di manovra non risulta illimitata, giacché le condizioni materiali dell'oggetto devono risultare tali da garantire la funzione. Ora, le proprietà che possono indurmi a far ricorso a prestazioni di ordine superiore poggiano su risorse di ordine inferiore che valgono per esseri che non hanno la minima idea di che cosa possa essere una maniglia, una penna o una eclisse, come un verme che striscia sulla Mont Blanc adoperandola come supporto locomotorio.

(a). Afferrare. La fallacia che" salva e perde i( pragmarismo con­siste spesso nel credere che qualsiasi oggeno possa tornar buono

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CHE COSA SI PROVA A ESSERE UNA CJABATIA

per un agente che lo voglia adoperare come strumento, senza ri~ guardo per la circostanza che una vanga può anche servire come mazza, ma l'inverso non si dà. Sicché i vincoli antologici imposti dall'oggetto rivelano una netra indipendenza rispetto ai nostri schemi concettuali e pongono un limite invalicabilc a qualsiasi convenzionalismo. Non sembra illecito affermare: "Qualsiasi co~ sa può fungere da moned'; e, sulle prime, poiché la monetazio~ ne deve non poco alla convenzione, l'asserto pare ragionevole, ma solo fino a un certo punto: oltre a pezzi di metallo c di carta, valgono o sono valse come monete sacchetti di saJe o conchiglie, mai tavoli o mucche, non risultando maneggcvoli (le mucche, inoltre, vanno accudite), e allora tanto vale il baratto, laddove si possono riciclare vecchie monete come bottoni per abiti tirolesi. Del pari, non si possono adibire a monete bolle di sapone né pezzi di carta bruciata, granelli di sabbia, aromi, carne fresca. I vincoli antologici risuhano strettamente intrecciati con vincoli ecologici, giacché al Polo Nord forse anche la libbra di carne fre­sca potrebbe valere come moneta, ma sussisterebbero restrizioni legate aJle dimensioni corporee: un cubo con un lato superiore ai 15 centimetri risuha difficile da trasportare, e suggerisce l'uso di una maniglia, diventando un beauty case. Ovvio che se uno non usa rossetto, fard e latte detergente, non sa che farsene di un beauty case; però, se anche uno abbisognasse di cosmetici, ten~ dereb~e a scartar~ un beauty case di I 50 centimetri di lato, e magan senza mamco.

(b). Evitare. Il limite maggiore del pragmatismo, tuttavia, non sta nella inosservanza di queste circostanze banali ma decisi~ ve, bensl nel capovolgimento dell'atteggiamento naturale. Se~ condo il pragmatismo, devolveremmo la maggior parte del no~ suo tempo all'afferramento di oggetti o persone, ossia ad attività intenzionali e deliberate, c il resto dovrebbe equivalere pressap~ poco a una massa indistinta, umbratile, quasi inesistente. Ora, a pane che in questo modo il pragmatismo incorpora implicita~ mente una teoria dei seme data, è la stessa descrizione dell' espe~ rienza che risulta incredibile. Di fano, nella maggior pane del tempo, noi non ci protendiamo verso oggetti, bensì schiviamo mosche, tram, individui molesti, né ci basta, per farlo, conside~ rarli eide privi di esistenza o seme data aggregati da un demone che ci vuoi male. Come la sorpresa interrompe (lo vedremo tra poco) l'ipotesi della universalità della interpretazione, cosl lo

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MAURIZIO FERRARIS

schivare assicura un limite essenziale alla pretesa antologica del pragmatismo, che si rivela come una descrizione di secondo li­vello, che può esserci o non esserci, e che si esercita su una base antologicamente salda.

3. Le cose e le lnro descrizioni. Altro infatti è rilevare che strut­ture antologicamente costanti sopportino descrizioni epistemo­logicamente diverse.

(a). Descrizioni. Prendiamo la Luna: per Senofane era una lampada di vetro smerigliato, per Eraclito una scodella con la parte concava rivolta verso di noi, e ancora Galileo dovette ap­pendere uno specchio tondo a un muro per dimostrare che non è uno specchio- in quel caso l'illuminazione del Sole si focaliz­zerebbe in un punto-, bensl un corpo opaco. E poi ci sono degli illusi che credono che la Luna sia fatta di formaggio. D'altra par­te, per Senofane, Eraclito, Galileo, cosl come per quello che cre­de che la Luna sia fatta di formaggio, la Luna resta sempre quel disco, che si presenta in quel modo e non altrimenti: e anche chi coltivi una concezione casearia della Luna dovrà pensare a un formaggio rorondo, come un camembert o un parmigiano inte­ro, al limite, in certe notti- quelle in cui Quevedo scriveva della sangrienta Luna - come un formaggio olandese; ma non penserà mai che sia una forma di provolone. Che un medesimo oggetto sopporti una cosl grande varietà di descrizioni non lo scompone, ma lo definisce: il disco nel cielo resta uguale, variano gli schemi concenuali e le interpretazioni circa la sua vera natura, e non giova confondere i due livelli, altrimemi finisce dawero che ci troviamo ognuno sul suo pianeta. Per esempio: sono un assiro, vedo Espero, poi vedo Fosforo; più avanti si scopre che erano la stessa stella; in seguito si scopre che non era una stella, bensl un pianeta. Nondimeno, quanto si vede non è mutato: è cambiato solo ciò che si pensa, ed è la caratteristica della scienza, anche se può- ma non necessariamente deve- estendersi all'esperienza, giacché sapere che una palla è di pietra o di cartapesta modifica i miei comportamenti, ma non apprendere che è la Terra a girare intorno al Sole. Si può certo sostenere che accettare le particelle della fisica atomica costituisce una supposizione simile ad accet­tare l'esistenza degli dèi di Omero. Ora, a livello epistemologico, è letteralmente vero, trattandosi di schemi interpretativi; l'essen­ziale però è non concluderne che gli dèi omerici fossero conside-

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rari dai Greci come eventi naturali invece che come la spiegazione di eventi namrali: Achille vede un fulmine, esattamente come lo vediamo noi, e dice a Patrodo che è una saetta di Zeus. Del pari, né Bohr né O mero, all'apparire di un fulmine, si limiterebbero a mpporre di vedere un fulmine; o forse Omero lo farebbe, ma per un motivo d'altro ordine: essendo cieco, ne inferirebbe, senten~ do il tuono, che prima ci sia smo un fulmine. t. proprio degli schemi interpretativi, dunque della scienza, considerarsi provvi~ sori, perché costruiti in vista di una verità.

(b). Rendimenti percettivi. Nulla di tuno ciò, tunavia, tocca quello che c'è. li caso del cubo di Necker appare da questo pun~ w di vista illuminante. Prendiamolo dapprima in una versione esplicita:

Propriamente, gli esiti della figura sono sei:

C'è una sola figura, e sei rendimenti percenivi, che si escludo~ no a vicenda (quando ne individuo uno, non vedo gli altri), ma

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che si possono susseguire nel tempo, mentre se identificassimo antologia cd epistemologia dovremmo sostenere che i sei esiti sono a1trenanti oggetti diversi, da moltiplicarsi per tutte le inter~ pretazioni che sopportano (uno scacolone, una intelaiatura, un fil di ferro ecc.). Ma non è così, so di vedere sempre quel cubo, e in ogni caso non posso vedere un papero (al massimo, potrei pensare che è un simbolo usato da qualche popolazione per desi~ gnare i paperi).

Ta1uni sostengono che gli esiti sono seue, includendo anche la visione del cubo come figura piana. Ma non è cosl facile; vice~ versa, l'esito si ottiene senza difficoltà se modifico la figura:

Si noti che nella seconda versione non riesco nemmeno a ve­dere un cubo: posso solo pensarlo.

4. Scienze/utili. E adesso, da situazioni di fatto, passiamo a una questione che riguarda il diritto, ossia la legittimità di ammettere, a1mcno in linea di principio, la trasformazione in scienza di ogni ambito di esperienza: c'erano e ci sono, sui giornali, rubriche di bon ton; esistono guide dei migliori a1berghi e ristoranti, ma so~ prattutto ci sono persone che si fanno un motivato vanto di essere intenditori in materia; in Piace de Clichy, a Parigi, c'è un loca1e abbastanza solenne, con vetri e specchi, disposto su due piani, che si chiama "Académie dc billard", in rue cles Écoles ce ne è uno, un po' meno solenne ma pur sempre degno, che si inthola "Bier Aca~ demy ";nei Soliti ignotiTotò tiene una scuola per ladri, d'accordo con una lunga tradizione letteraria; i documentari sugli animali ci mostrano spesso scene che vengono descritte come l'apprendista­to di una bestia, visto che la leonessa insegna la caccia ai cuccioli. Per qua1e morivo si stenta a prendere sul serio, come progetto scientifico, una rubrica di bon ton, una guida gastronomica o una

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accademia del biliardo? Per quale motivo la leonessa non sembra un professore? Non perché le materie insegnate risultino irrile­vanti (è forse più importante occuparsi per anni di un solo coleot­tero, come può accadere a un entomologo?), ma perché si pensa che qui non sussista un rapporto essenziale con il sapere in quanto emcndabilità infinita; un simile sapere non costituisce solo una conoscenza attuale, bensì una promessa di verità: quello che sap­piamo adesso può essere anche completamente falso, m~ per que­sta via, in un tempo infinito, troveremo la verità. Si potrebbe cer­to obiettare che le leggi degli atomi e delle galassie risultano altret­tanto inemendabili che quelle della percezione, e che a cambiare è la nostra capacità di ricostruirle adeguatamente. D'accordo, ma noi percepiamo tavoli e sedie senza conoscere leggi, o disponendo di leggi sbagliate, laddove senza leggi non sappiamo proprio nien­te di atomi e galassie.

lnemendabilità

Da quanto ho detto sin qui, vorrei trarre una considerazione generale: le armi di una strategia antitrascendentale sono le stes­se che si adoperano per differenziare l'omologia dall'epistemolo­gia. Cerchiamo di approfondire questo punto.

l. L'incontrato. Prendiamo prima di tutto in esame un tratto comune a tutti i casi enumerati nell'argomento della Ciabatta: qualcosa si incontrava, qualcosa che c'era indipendentemente dall'essere compreso, pensato, rappresentato. Seguendo le classi­ficazioni fornite da Metzger, stavolta in veste di teorico,26 con­viene distinguere tra una realtà fisica, quella delle scienze natura­li, che non è oggeno di esperienza, e una realtà fenomenica, con cui abbiamo a che fare nella vita. Di che si tratta? Ripensiamo al­l'incidente di Metzger: con tutto che sapeva benissimo che uno non può far saltare una baracca tirando lo sciacquone, ebbe la sensazione di aver provocato il danno. Qui la grande distinzione non è tra vero e falso, bensl tra incontrato (una baracca che esplo­de) e rappresentato (quella baracca quando è pensata, ricordata, immaginata, e quando si conclude che la causa non poteva essere lo sciacquone). In questa realtà ci imbattiamo in cose che non ci sono, apparendo contraddittorie (il nulla, per esempio: abbiamo

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un bel sapere che il nulla non esiste, eppure quando diciamo che una parere è vuota ci pare di affermare qualcosa, e gli altri ci ca­piscono), e non incontriamo cose che ci sono (per esempio, i processi elettrici del nostro cervello). Inoltre, distinguiamo il So­le e la pioggia da un arcobaleno, un ombrellone da un'ombra, una barca dal suo riflesso nell'acqua. Tutto fuori della scienza, però non senza metodo né senza ragioni; anzi, in maniera assai più stabile: lo incontro oggi cosl, e cosl anche domani o tra mille anni, giacché non lo si può emendare.

2. L'inemendabile. "Emendabilità" e "lnemendabilicà" sono concetti cardinali nel mio discorso. Si è ripetuto a sazierà che la morte è lo scrigno dell'essere, la condizione di possibilità della vita ecc. ecc., omettendo di considerare che, se la morte può as­sumere tutto quel valore, è essenzialmente perché è senza rime­dio, non potendosi correggere, esattamente come non si possono correggere quelle proposizioni che Wittgenstéin chiama "gram­maticali". La sfera dell'irrimediabile risulta tuttavia ben più va­sca; se un paio di Clark's è marrone, non potremo accostarle con i calzoni con cui indosseremmo un paio di Clark's beige, vale a dire che non potremo invitare chi ci guarda a pensare che siano di un colore piuttosto che di un alno. Ecco il punto: dopotutto, ci sono cose più difficili da correggere di altre, ossia che più di al­tre appaiono indipendenti o addirittura indifferenti rispetto agli schemi concettuali come sistema di emendazione progressiva; il sistema cromatico per cui certi accostamenti ci appaiono più ar­moniosi di altri è largamente condizionato dal gusto e dalla sto­ria, ma non i colori, e confondere i due livelli costituisce un erro­re grossolano. Inoltre, si può distinguere tra "contenuto" e "og­getto", facendo norare27 che posso benissimo pensare oggetti inesistenti, nel che il pensiero avrebbe un contenuto, ma non un oggetto; tuttavia è l'oggetto che discrimina: possiamo rivedere una teoria scientifica così come è lecito immaginare un cavallo alato, tuttavia non riusciamo a vedere una penna rossa là dove c'è un coniglio bianco; e che la teoria scientifica differisca dalla immaginazione di un cavallo aluo dipende, in ultima istanza, dall'impossibilità di vedere la penna rossa al posto del coniglio bianco, mentre si può dire che alcuni scapoli sono sposati e che 2+2=5. Cerro, non posso escludere in linea di principio che un giorno, magari in seguito a un temporale estivo, l'ontologia di-

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venti emendabile; ma non c'è un solo atto della mia vita che in~ corpori la speranza di un simile accadimenro, mentre c'è chi si è fano ibernare sperando di essere guarito tra cent'anni. t anche plausibile che, in un tempo infinito, sapremo tutto di tutto, dunque rune le proposizioni della scienza saranno Concetti Per~ feui e Adeguati. Tra quel momento e queHo iniziale, che ha avu~ to origine nella storia e che segna la nascita della scienza, si pos~ sono immaginare infinite correzioni dei nostri schemi concet~ ruali. Non mi importa tanto di sapere che fra l 0.000 anni, forse, vedremo diversamente le cose, quanto piuttosto di sapere che di sicuro 2.500 anni fa i Greci le vedevano come noi. Del pari, si può ragionevolmente supporre che verrà il giorno in cui gli orsi bianchi avranno pinne invece che zampe, però nessuno afferme­rebbe che "allo Jtato attuale delle nostre conoscenze gli orsi bianchi hanno zampe". Tuttavia, se l'emendabilità assume sino in fondo l'argomento del "puoi, dunque devi", nell'ambito dell'inemen­dabile troviamo delle tipologie più complicate, che derogano a questa regola: in breve, non sempre si può, e, soprattutto, non sempre il potere si trasforma in dovere.

(a). Perché non si può. La sfera comprende due sottoinsiemi, che descriverò più in denaglio alla fine del libro, gli inemendabi­li non percettivi e soprattutto, paradigmaticamente, quelli per­ceuivi. I primi includono le proposizioni tautologiche, quelle che non si possono correggere alla luce di nuove informazioni né si possono falsificare, quelle che non si possono decomporre ul­teriormente, né modificare immaginando simulazioni di mondi alternativi; cioè, nell'insieme, il "grammaticale" nel senso di Wittgenstein. È, come vedremo, una sfera più ampia dei giudizi analitici, incorporando la circostanza per cui risulta grammatica­le assumere che ho un cervello- mentre si potrebbe sempre im­maginare che la scatola è vuota-, laddove non risulta grammati­cale assumere che potrei non avere le mutande sotto i pantaloni. In ogni caso, finanziare una ricerca per stabilire se quello che chiamiamo "blu" non si possa, più sagacemente, designare come "rosso" non sembra più intelligente del finanziarne un'altra per decidere se davvero nessuno scapolo sia sposato. I casi di ine­mendabilità grammaticale mi sembrano riflettere - anche se in modo non genetico - una circostanza più generale, che non vale solo per quelli che capiscono che cosa vuoi dire "scapolo" o "ba~

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chelor", ma anche per cani e vermi che capiscono poco, o per ciabatte che non capiscono niente: se una valigia pesa rroppo per portarla in cabina, non posso pensare che pesi di meno, devo li­sciare che la carichino nella stiva dell'aereo; se ho perso le chiavi devo chiamare un fabbro; se vedo una porta che mi pare aperta mentre è un vetro pulitissimo e ci sbano il naso, non ho emen­dato una percezione, ho percepito; se nel Sahara vedo un drome­dario che cammina a mezz'aria, mi sfrego gli occhi, mi dico an­che che è un miraggio, e che mi sembra soltanto che il dromeda­rio passeggi a mezz'aria: resta che lo vedo a mezz'aria. Viceversa, una volta che mi abbiano detto che l'America è stata scoperta nel 1492 non ha più senso, per mc, assumere che sia stata sco­perta nel 1592; non ci penso proprio più, o diviene per me una semplice proposizione falsa. Del pari, è molto più facile credere che il fumo provochi il cancro che non smettere di fumare; e ve­dere un topo invece che un paccheno di sigarette risulta diffici­lissimo.

(b). Perché non si deve. Se alla domanda "vuoi tu prendere co­me legittima sposa XY" rispondo "sl", non sto constatando che voglio davvero sposare XY, bens\ performando un atto dotato di valore legale, e che non è emendabile, bensì abrogabile; inoltre, si può constatare anche senza fare scienza: un testimone che so­stenga di aver visto un fantasma non fa scienza, a meno che pro­duca argomenti a favore della esistenza dei fantasmi. Se la refe­renza non è che una funzione tra altre, come dare ordini, far congetture intorno a un avvenimento, inventare una sroria, fare una battuta di spiri[O, tradurre, ringraziare, salutare, appare del tuno ovvio che la scienza e i suoi schemi concettuali, a comin­ciare dal riferimento alla verità, risulti più piccola di quanto non si creda. Ci sono molrissime zone della nostra esperienza che ri­mangono, spesso per sempre, non concettualizzate, pur risultan­do di principio concenualizzabili e senza perciò apparire chime­riche: se mi muovo, apro una scatola, e persino compongo un numero al telefono o inserisco un CD nel lettore, non sto com­piendo esperienze concenuali; la concettualizzazione avverrebbe se mi si domandasse che cosa sto facendo, e, allora, si tratterebbe alrresì di appurare se ho ragione o torto, ossia se la mia descrizio­ne risulti scientificamente accurata. Anche la descrizione delle azioni che ho compiuto ieri diviene una serie di concetti emen-

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dabili solo qualora, poniamo, la polizia mi chieda conto delle mie azioni, per arrescarmi o per verificare un alibi; qui dire la ve­rità diviene importante, laddove apparirebbe arduo sostenere che il giorno prima ho fano la verità.28 Ho compiuto svariate at­tività che non avvertivo né come vere né come false: ha senso chiedersi se ho preparato veramente il caffè quando esce dalla caffettiera? Ci si chiede casomai, qualora il caffè tardi a uscire, se si sia messa l'acqua. Così per molte altre domande: "ho chiuso la porta?" "ho preso le chiavi?" ecc., che però, anche per il peggiore degli ossessivi, sono ben lontane dal costituire la totalità dell'e­sperienza. Appare infine chiaro che ci sono contenuti che non potranno mai venire concettualizzati: perché ci piace il muro giallo di Vermeer? Soprattutto, che cosa vuoi dire? Non si hanno conceni, al massimo ipotesi, laddove si possono benissimo pos­sedere molte nozioni chiare, distinte e falsificabili, intorno alla vita e alle opere di Vermeer. Nondimeno, e già nelle descrizioni della percezione, da che si incomincia a parlare di "precategoria­le" si implica che quanto si dà, per esempio sensibilmente, è de­stinato a diventare categoria, e che se non lo diviene è solo prov­visoriamente, per ragioni di tempo, di attenzione o simili: di di­ritto, il mondo si può considerare archeologicamente logico per­ché lo è anzitutto teleologicamente, giacché, con l'iperbole del trascendentale, il senso finale dell'attività deve trovarsi già inte­ramente racchiuso nella passività originaria. Perciò la questione dei comenll[i non concettuali risulta mal posta, giacché sin dalla sua formulazione assume che il naturale destino del contenuto di una esperienza sia di diventare un concetto, laddove moltissi­me volte procura semplicemente la base per reazioni funzionali, o emotive, che diffìcilmeme saranno trasposte in concetti, e in taluni casi potrebbero anche non risultare concettualizzabili. t. ciò che Kant ha correttamente classificato sotto il titolo, piutto­sto che di "preconcettuale", di aconcettuale, sostenendo che il bello piace senza concetto, ma la considerazione si può estendere ben al di là della sola sfera del sentimento di piacere o dispiacere: l'aconcettuale non ha propriamente niente da dirci (che cosa ci dice un tramonto, se non lo guardiamo da meteorologi profes­sionali o amatoriali, da fisici o da navigatori col telefonino rotto e in cerca deli'Occideme?), ossia non possiede - né per defini-

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MAURIZIO FERRARIS

zione potrà mai possedere, perché la sua teleologia non è indiriz~ zara in quel senso- "stati informazionali".

(c). Perché non necessariamente si deve. Come ricordavo più sopra, il "puoi, dunque devi" non vale solo nella morale, ma an~ che nella scienza: se si può emendare un concetto, allora lo si de~ ve emendare, se non ora più tardi. Però, nell'esperienza, che io possa alzarmi e uscire da una stanza non compona che debba uscirne, né che tutti i contenuti non concettuali risultino ovvia~ mente destinati, grazie alla nostra seconda natura- ma quale? La filosofia o il divieto dell'incesto, la cottura dei cibi o la sepoltura dei defunti? - a divenire concetti emendabili. Spesso non con~ viene: la grana fine dell'esperienza può uno rivelarsi svamaggiosa nella concermalizzazione della scienza, interessata piuttosto alla numerabilità e alla iterabilità, ma può costituire un vantaggio in altri campi, giacché un cibo difficile da descrivere può risultare buono, e un quadro complesso, bello. A voler essere teleologici, si dovrebbe o deplorare lo scialo di facoltà che ha luogo nella percezione, oppure argomentare che proprio un simile esubero dimostra che l'esperienza non appare necessariamente indirizzata verso la scienza. Più pianamente, gioverebbe osservare che era due sfere non si dà transito obbligato, di modo che le capacità astrattive presenti nell'esperienza non vanno ascritte nemmeno rcleologicamente alla concettualizzazione: posso descrivere un mal di demi come una informazione circa lo stato della mia den~ tatura, che sarò in grado di verificare andando dal demista; ma quando il dente duole, non vuole proprio notificarmi niente. Così, c'è tutta una sfera di azioni anche complesse che poJSono certameme, ma non necessariamente devono venire emendate: imbucare una lettera, allacciarsi le scarpe, buttare la pasta, pren~ dere il treno o guidare la macchina, ascoltare un concerto, guar~ dare un quadro, leggere un libro: quanto dire che per un bel pez~ zo della nostra vita non ci componiamo da scienziati, non in~ trattenendo alcun rapporto speciale con la verità e con l'ideaJe della emendabilità. Talora, la futilità di una scienza dell'allacciar~ si le scarpe può venire camuffata dalla una tenace epistemofìlia: ci sono pubblicità che esibiscono dentifrici "scientificamente te~ stati", e uomini in camice bianco che pretendono di fare dimo­strazioni in proposito. Quale potrà essere il test scientifico a cui sono sottoposti i dentifrici? Siamo avvezzi a pensare che per ogni

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ambito di esperienza ci sia una scienza corrispondente- o, quan· romeno, che debba esserci -: 29 ma non è vero. Non solo perché si danno persino imponenti fenomeni percenivi- come l'imma· gine consecutiva - cui pochissimi prestano attenzione, ma anche perché non esiste, poniamo, una scienza infinita del fare i nodi.

3. L'esperienza insegna? Ceno, se proprio uno ci tiene, l'espe· rienza insegna, quanto dire che presenta una forte parvenza di emendabilità, riferita però a casi analoghi che si presentano in un secondo tempo. Tuttavia, insegna solo a patto che ci si rasse· gni a imparare cose che spesso sono sbagliate e di cui si ignorano i princìpi. E quando l'errore si fa evidente, capiamo il perché? Spesso no, eppure siamo consapevoli di aver sbagliato. E poi, una volta riconosciuto lo sbaglio, davvero cambia qualcosa? Ser· ve a poco redigere trattati sulle passioni, se la nostra intenzione è emendarle; laddove è ovvio proporsi di emendare l'intelletto: an· zi, come vedremo, la definizione di "concetto", in quanto attri· buto esclusivo della scienza, e quella di "emendabilità", vengono a coincidere. Ceno, anche nell'esperienza passiamo tanto tempo a riconoscere nessi causali: se il cielo è nuvoloso, prendiamo l'ombrello; ma non necessariamente è così, né, soprattutto, lo è sempre. Può anche darsi che dopo il primo starnuto mi dica "ti sta venendo l'influenza"; però è difficile che al quindicesimo starnuto continui a trasformare la fastidiosa esperienza in un sin· tomo: è un fastidio e basta, lo starnuto non ha più niente da di· re. Sarebbe viceversa bizzarro considerare ogni nostro atteggia· mento verso gli starnuti come un caso di semeiotica, popolare o medica, che trasformasse l'osservabile in un sintomo: nel qual caso non si capisce perché uno dovrebbe parlare di "starnuti" in luogo di "influenza", "allergia", "nevrosi" o qualsiasi altra cosa possa suggerire lo stato delle nostre cognizioni in materia. Que· ste considerazioni si possono specificare sotto due punti di vista.

(a). La ripetizione. Lesperienza, per lo più, è ciò che accade, e se è vero che "esperienza" sono essenzialmente le cattive espe· tienze, quelle negative, allora sembra abbastanza chiaro che l'ap­prendimento non ne costituisce il bene primario, bensì, casomai, un utile collaterale in larga misura indesiderato. Si consideri in· fatti che l'esperienza insegna, ma solo ciò che è già avvenuto; sic· ché, sulle sue sole basi, l'intima portata innovativa connessa con il sapere apparirebbe inspiegabile. Ecco infatti una descrizione

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suggerita dall'esperienza; è del colonnello George Hanger, vete­rano della guerra in America, c risale al 1814: "Il moschetto di un soldaw, se non è eccessivamente mal calibrato (e molti lo so­no), colpirà una figura umana a 80 iarde, ma un soldato deve es­sere davvero molto sfortunato per restare ferito da un comune moschetto a ISO iarde, posto che il suo antagonista abbia mi raro a lui; e quanto a sparare a un uomo a 200 iarde con un comune moschetto, pO[reste far conto di sparare alla Luna e avreste le stesse possibilità di colpire il vostro bersaglio". Sicché taluni si spinsero a riproporre l'uso dell'arco, con un ragionamento inec­cepibile sulla base della semplice esperienza.

(b). L'innovazione. Le cose vanno altrimenti nella scienza, do­ve inoltre l'esperienza in senso proprio viene in generale addossa­ta alle cavie e non ai ricercatori, mentre uno dei detti più veri di ciò che si chiama propriamente "esperienza" è che le esperienze altrui non servono a niente. La scienza ha l'apprendimento e l'accertamento della verità come bene e fine primario, d'accordo con un processo che si intende come cumulativo e infinito, cioè proteso verso il futuro e capace di innovazione. Per diverse che siano le immagini della scienza che si susseguono, per quanto profonde possano risuhare le franure epistemologiche che decre­tano la distinzione della chimica dall'alchimia, si deve supporre che quello che resta inalterato tra Paracelso e Lavoisier è l'idea di un progresso, che potrà anche revocare in dubbio o mettere fuo­ri gioco qualunque acquisizione precedeine e la stessa idea di "scienza" quale si è data storicamente sino a quel momento, però non il principio che, attraverso una messa in discussione radica­le, si sia compiuto un passo in avanti: e difficilmente nella scien­za si parla di "ritorno alle tradizioni"; semmai, si lamenta una de­cadenza. Inoltre, se nell'esperienza come nella scienza la possibi­lità di mettere in memoria quanto si è appreso non risulta acces­soria, tuttavia vengono meno altri due aspetti che viceversa ap­paiono costitutivi della scientificità: la trasmissione ad altri e la tradizionalizzazione che permetta l'idea cumulativa di progresso. Tuno quello che voglio dire si illustra del resto facilmente pen­sando alla differenza di compiti c di aspettative che distinguono chi si impieghi in un ufficio da chi faccia il ricercatore.

4. Emendare l'intelletto e acuire i sensi. All'osso, c'è al solito la emcndabilità. Si può essere miopi, astigmatici o sordastri, e un

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ipermetrope può magari- in forza della sua sola dotazione natu­rale - diventare un tiratore scelto, ma non risulterà necessaria­mente miglior ittiologo di un miope o di un astigmatico; inoltre, un ittiologo, un profano e un luccio vedono il medesimo pesce persico, ancorché il primo ne conosca il nome scientifico e la classificazione. Se non appare sulle prime così immotivato pre­tendere che l'ittiologo veda più cose del profano, è solo perché si è portati ad attribuire al vedere caratteristiche proprie del pensa­re: l'iniologo "vede" che il pesce persico è un pesce persico, che è sviluppato o meno, che il suo colore è normale o anormale, che ha un organo là dove il profano non vede che squame ecc.; in ciascuno di questi casi, però, si potrebbe più correttamente so­stenere che l'ittiologo pensa che è un pesce persico, che è svilup­pato ecc.

Tuttavia, noi, adulti del nostro tempo, siamo persuasi che la scienza costituisca il migliore schema concettuale. In concreto: andiamo dal medico invece che dallo sciamano; al limite, ed è un caso vagamente problematico, prescriviamo persino ai nostri figli l'oscillococcinum, pur nutrendo dei sospetti sulla omeopa­tia; e in extremù c'è chi va a Lourdes anche non credendo alla Resurrezione. T uno questo implica un ideale di crescita illimita­ta del sapere, e di infinita emendabilità dei concetti. Nondime­no, davvero un simile ideale può e deve entrare in ogni sfera del­l'esperienza? Se cosl fosse, a chi ci dicesse, poniamo, da Cuneo "domani vengo giù a Torino", dovremmo obienare che viene su, se guardiamo la carta geografica, o che non va né su né giù, se badiamo alla scala cosmica. La frase andrebbe considerata un er­rore. Perché non è cosl? A quale tribunale ci si appella nella fatti­specie? Si tratta di una espressione puramente irrazionale? E allo­ra perché non ci sembra priva di senso come "abracadabra", e in realtà nemmeno contraddittoria come "cerchio quadrato"? Sem­bra abbastanza ovvio che si ha a che fare con ambiti eterogenei, in cui appare decisivo un fattore ecologico. Se, passeggiando in una notte chiara, guardo la Luna, non sto facendo l'astronomo, e non lo farei nemmeno se, col disagio provocato dalla tuta spa­ziale, guardassi la Terra dalla Luna. La mia sfera ecologica può variare, tuttavia la mia antologia non potrà mai incorporare pre­stazioni che richiedano sistematicamente l'intervento di stru­menti che ne esorbitino.

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MAURJZIO FER.RARJS

Anche qui riconosciamo il ruolo della inemendabilità. Persi­no Vinorio Benussi, che sosteneva di essere riuscito, con l'eserci­zio, a neutralinare svariate illusioni oniche, non avrebbe potuto vedere la Terra rotonda, e comunque teneva a definirle come "presentazioni inadeguate", non come "illusioni", visto che c'è una discrepanza tra la presentazione e la convinzione che in talu­ni casi, attraverso la ripetizione, l'esercizio e il cambiamento di punto di vista, può essere annullata. Si adduce altresl il caso di Josephson, premio Nobel per la fisica (nonché degente per un periodo in un ospedale psichiatrico), che si diceva capace di co­gliere a occhio nudo il transito di un singolo fotone in una stan­za buia, previo opportuno addesrramento. Si ammetterà però che sono casi~ limite; che il focone esisteva dawero, diversamente dalle opinioni scientifiche, che possono rivelarsi inconsistenti; e che è come voler imparare i comportamenti umani normali da un centometrista o da un fachiro o da chi piega i cucchiaini con la sola forza del pensiero (ed è un fatto che li piega davvero: seb~ bene il caso risulti assai diverso dai precedenti). Poniamo infine che divenga abbastanza frequente trasformarsi in lupo mannaro e acquisire un alfano e un udito straordinari; in una simile even~ tualità, udire i fischietti per cani diventerebbe una parte owia della nostra antologia, al pari del fiutare l'odore di vodka a cin­que meui di distanza, come succede a Michelle Pfeiffer in Wolf. L'ipotesi è abbastanza seducente, ma falsa: se uno adopera un fi~ schiena per cani e chiede a un amico: "hai sentito qualcosa", l'al~ tro gli risponde: "no, non ho sentito niente"; l'operazione che gli sarebbe richiesta per sentire il fischietto per cani risulterebbe ben diversa da quella necessaria per rispondere al telefono.

Esauriti i preliminari, passiamo alle distinzioni essenziali: scienza/esperienza, verità/realtà, mondo inrerno/mondo esterno.

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Prima distinzione: scienza/esperienza

Deflazione epistemologica. L'inflazione epistemologica nasce dall'assunto che senza teorie non avremmo realtà empirica. E che una ispezione mentale vada presupposta all'esperienza come sua parte costitutiva e come sua condizione di possibilità viene solitamente dimostrato da considerazioni che nella loro apparen~ te inoppugnabilità condividono la dubbia carriera filosofica del bastone che, p:uzialmente immerso nell'acqua, sembra storto. Ecco un numero famoso: la cera mi appare ora solida e odorosa, ora liquida e inodore; come faccio a sapere che è la stessa sostan­za, se non perché ciò che vedo dipende da ciò che penso? Non passa nemmeno per la testa di chi propone un simile argomento di considerare che, se la fusione avviene sotto i miei occhi, non ho bisogno di ragionamento; e che se non avviene sotto i miei occhi, nessun ragionamento - se qualcuno non mi spiega che è cosl- mi permetterà di scabilire la continuità tra i due fenomeni, sino a che la cera liquida, solidificandosi in mia presenza, mi in~ segnerà quanto è successo (nel Settecento, il re del Siam pensava

·che il ghiaccio non avesse nulla a che fare con l'acqua, non aven­done mai visto al suo paese). Un altro numero celebre è poi il se­guente: apro la finestra, guardo in strada cappelli e mantelli, e tuttavia so che sono uomini; se contasse solo la percezione, ve­drei cappelli e mantelli, e basta. Anche qui, vale poco obiettare che sto semplicemente ricordando qualcosa che ho visto prima, che dunque non sto ragionando, ramo che anche il cane ricono­sce il padrone con o senza cappello e mantello, così come rico­nosce la lepre sia ferma sia in corsa sia scuoiata in cucina. Del pa-

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MAURIZIO FERRARIS INTRODUZIONE

ri, a nulla vale opporre che quando mostro la figura di Jasuow posso vedere ora un coniglio ora un papero, però nessuno dei due contemporaneamente, con tutto che possiedo il concetto di entrambi:

Anche di fronte a queste ovvie evidenze, l'ipotesi pan~episte­mologica è che solamente un ingenuo penserebbe che quando si vede anzitutto si vede; il primo passo nella scienza consisterebbe nel comprendere che quando la mente guarda di là da ciò che immediammente le appare, le sue conclusioni non possono esse­re addossate ai sensi, e poi, con una iperbole di per sé poco moti~ vara, che quando si vede in realtà si pensa, altrimenti non ce la caveremmo. La ricaduta è che, una volta che si sia statuito un si­mile assioma, si è cosrreni a postulare inferenze inconsce, qualità occulte e altri dietrismi percetrologici anche negli atti più iner­mi. Chiudo l'occhio per evirare che entri un moscerino? :t. imer~ venuta una rapidissima inferenza che ha messo in collegamento tanti concetti complessi, dizionari ed enciclopedie, il tuuo in un battibaleno. Un libro mi cade in testa e svengo? Altra fulminea inferenza al termine della quale concludo "allora devo svenire", ed eseguo. Ma che senso ha? Bisogna sempre presupporre un concetto, altrimenti non c'è esperienza, né norma, né niente? O non si sta adoperando "concetto" e "schema concettuale" in una accezione talmente lata da assicurarne una ubiquità fittizia? Da una parte, è ovvio che, quando vediamo i cappelli e i mantelli, non svolgiamo inferenze del tipo "Vedo un cappello che si muo~ ve, tuttavia non esistono cappelli semoventi, sicché sotto deve es~ serci un uomo che cammina"; sicché le facoltà cognitive, che si~

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CHE COSA SI PROVA A ESSERE UNA CIABATIA

curamente entrano nella percezione, non accedono a una formu­lazione esplicita. E, allora, perché parlare di "concetti" e di "sche­mi concettuali", considerando che non siamo consapevoli di quei conceui, ossia che non li maneggiamo al modo in cui uno scienziato applica le teorie? Non converrebbe calmierare un po' il concettuale senza confini, riducendo lo sperpero? t. quello che vorrei cercare di fare (z) prima delimitando la nozione di "sche­ma concettuale"; poi (it) circoscrivendo l'ambito proprio del concetto; quindi (iit) mostrando a quali condizioni sia lecito parlare di scienza; e infine (iv) delineando l'ambito di una espe­rienza non necessariamente intaccata dalla scienza.

Schemi

Teorie esplicite e istruzioni incomce. La scienza vera e propria si limita a escludere con certezza schemi interpretativi falsi mentre corrobora quelli veri. Non cohiva interessi antologici, dovendo solo rispondere, in ultima istanza, a un tribunale che può venire ridescritto come "antologia", cioè al mondo esterno. Leftistemo­logia, però, è una cosa diversa, sebbene possa risultare condivisa dagli scienziati quando parlano di quello che fanno: è la tradu­zione antologizzante della scienza, in base alla quale il tavolo di cucina sarebbe composto di particelle subatomiche, vuoto all'in­circa come l'aria circostante ecc. Rispetto alla scienza vera e pro­pria, presenta non lievi difetti, In primo luogo, tende ad accredi­tare una sineddoche, dove la "scienza" sarebbe la fisica, in quanto sapere fondamentale, da cui le altre conoscenze si dieanirebbero come da una radice o da una piramide capovolta. E la visione positivistica, che si basa su una equazione ua scienza, natura e matematica non garantita (c'è più matematica nell'economia che nella biologia), e tunavia rassicurante, confermando il teorema secondo cui ciò che incontriamo in natura è l'esperienza che, de­bitamente organizzata, diventa scienza. Donde, al solito, l'iper­bole, vale a dire l'assunto secondo cui (z) in difeno di istruzioni inconsce, che diverrebbero impercettibilmente teorie consce, non avremmo esperienza; e (ù) un simile insieme di istruzioni e teorie appare necessario giacché il mondo, di per sé, è privo di ordine.

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MAURJZIO fi:RRARIS INTRODUZIONE

Ora, da una pane, negare che quando vediamo un libro pen­siamo anche che sia un libro sembra un cocciuto panico preso, così come risulta ben difficile pretendere che quando sento l'ita­liano riconosco solo una sequenza di suoni, e non parole che identifico come appancnenti a un idioma a me noto. E plausibi­le che il pensiero c l'esperienza pregressa, così come la memoria c l'immaginazione, giochino un ruolo costitutivo nella percezione; può darsi in molti casi, non in tutti, né soprattutto sappiamo sin dove si spinga il mondo interno e dove incominci l'esterno. Per rifarsi all'esempio della lingua, posso benissimo registrare una se­quenza complessa di parole senza comprenderne il senso, il che dimosua come l'interpretazione non sia originaria. Odo o persi­no ascolto una frase, e solo in un secondo momento la capisco; dunque, all'inizio è stata percepita, mentre in seguiro è stata compresa; se poi qualcosa non è chiaro, o mi chiedo che cosa avesse in mente chi mi ha interpellato, solo allora posso propria­mente parlare di interpretazione. Nondimeno, nella maggior parte dei casi non ci pare di applicare schemi concettuali, bcnsl di percepire o di pensare cose che sono proprio cosl e non altri­menti. Sicuramente, quando mi aspettavo di vedere un uomo, e poi awicinandomi trovo un manichino, non è lo schema concet­tuale a correggere la mia assunzione; cosl come non è uno sche­ma concettuale a suscitare in me un lieve senso di irrealtà in al­cune scene dell'attacco giapponese in Pearl Harbour, e così anco­ra quando vedo per la prima volta un oggetto sconosciuto che non immaginavo potesse esistere. Owiameme, posso benissimo dirmi che quanto mi ha portato a riconoscere un manichino in­vece che un uomo dipendeva dalle mie assunzioni rispetto ai concetti, rispettivamente, di "uomo" e di "manichino": non si muoveva, non respirava, l'occhio era fisso e di plastica, dunque si trana va di un manichino. Il limite di una simile impostazione è che funziona sin troppo bene, potendosi applicare anche ai cor­vi, che dimostrerebbero di disporre di concetti nel momento in cui non temono più lo spaventapasseri.

lnolcre, se applicata alla lettera, perviene a esiti manifesta­mente implausibili. Poniamo che uno ignori i passi del tango; se vedesse una coppia che lo balla, dovrebbe supporre non che loro sanno ballare il tango e lui no, ma che lui inconsciamente ne ha contezza: sicché, nella prospeniva di un mondo edificato dai no-

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mi schemi concettuali con mattoni infinitamente disponibili, non saremmo mai delusi, né sorpresi. Ma quamo contano gli schemi? Prendiamo un barile che rotola su un piano inclinato senza avere la minima teoria della caduta dei gravi; se nel barile mettessi Anilio Regolo, rotolerebbe esattamente come se conte~ nesse un sacco di patate inerte, o un orso che si dibatte: né il processo risulterebbe disordinato. D'accordo con l'Argomento della Ciabatta, cani, vermi, edere, ciabatte sono esseri con sche~ mi alquanto diversi dai nostri, o addirittura senza schemi, eppu~ re condividono un mondo. Ora, perché le cose possiedono una così ammirevole stabilità indipendentemente dalle nostre opi~ nioni e dai nostri conceni, e perché mai il mondo costituisce un insieme di interazioni in cui animali di sei o di otto zampe, o an~ che senza zampe, con o senza occhi, o con occhi completamente diversi, e uomini con culture profondamente eterogenee, posso~ no incontrarsi come in un unico mondo? Appare a dir poco az~ z.ardato postulare che l'Essere Supremo tenga insieme il mondo per interventi continui, che assicurano il legame ordinato degli eventi; o che una serie di istruzioni potenzialmente scientifiche vengano impartite agli animali a titolo di dotazione implicita (l'istinto, la natura) e poi agli uomini come dotazione esplicita (linguaggio, cultura, scienza: la seconda natura). E si noti che la seconda ipotesi, quella di una istruzione inconscia o conscia, ri~ sulta anche più avventurosa della spiegazione attraverso la folgo~ razione divina, giacché noi tutti constatiamo quante differenze di opinioni caratterizzino la nostra istruzione, e viceversa quale tendenziale concordia stia alla base della nostra percezione, poi~ ché la discussione concettuale può procedere sino alla estenua~ zione, laddove l'imerosservazione tende a trovare in breve un punto di convergenza. Ora, quello che in prima approssimazio~ ne colpisce maggiormente nell'ipotesi del concenuale senza con~ fini è la circolarità: bisogna postulare un mondo di vortici, di unse data, di anomalie selvagge, di bastoni storti, per poi preten~ dere che questo mondo impossibile diviene l'habitat in cui vivia­mo grazie alle nostre mediazioni; e che simili mediazioni sussi­stano viene dimostrato dall'ammirevole normalità del mondo, come ognuno vede, così come ognuno sa che, se lo desidera, può raccontare quello che gli è successo, ossia descrivere la propria esperienza, dimostrando cosl, in quel caso e in modo inoppu-

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MAUII.IZIO I'EII.RAIUS

gnabile, che esistono esperienze mediate. Nondimeno, "media­zione" vuoi dire tante cose, e in particolare due, sovente assimila­te e poi tranquillameme assunte come alnenanti dogmi.

l. Il filtro m/tura/e. Il primo è quello di un filtro culturale che interverrebbe in modo coralmente determiname sin nel cuore della percezione, c risuha irricevibile come tale, perché privo di qualsiasi fondamento. Ceno, si può osservare che ci sono vari modi per dar senso al mondo che condizionano le nostre ride­scrizioni dell'esperienza e fin le nostre reazioni fisiologiche, ma questa è un'altra storia: se mi servono un piatto di coniglio e, do­po che l'ho mangiato, mi avvisano che era un gatto, provo disgu­sto, diversamente da ciò che avviene a un coreano; però se ordi­no un bicchicr d'acqua e mi portano un bicchiere di vodka, le mie reazioni risulteranno condizionate dalla quantità di alcool assunta, e non dal disappunto perché la mia richiesta non è stata esaudita. O, almeno, la delusione verrà largamente superata dal­l'effeno della vodka. Si è di solito in grado di differenziare la me­diazione culturale da quella naturale, tanto è vero che i casi, co­me l'effetto placebo, in cui la distinzione non risulta così netta, vengono studiati con l'interesse che si ri.~erva alle srranene. C'è di che notare, del resto a giusto titolo: ammetterai che il non tro­vare nulla di disgustoso nel mangiare un granchio invece che un ragno nasce da un pregiudizio culturale, nenissimo nel caso granchi/ragni, più sfumato in quello lumache/vermi; sopranuc­to, ammetterai che nulla al mondo ci convincerebbe a trovare buono il garus, cioè quella specie di worchester al pesce marcio che i romani meuevano un po' dappenuno: se dall'infanzia ti abituano a mangiare garus, vermi. ragni o carne umana, ti for­merai un gusto, che risulterà non meno stabile di quello di chi usi mangiare granchi e lumache, e distinguerà, in breve, rra la bi­stecca di un esploratore e quella di'un altro, tra ragni freschi e al­tri un po' andati a male ecc. Tuttavia, si noti che l'abitudine, cioè la mediazione, seleziona ciclicità mondane, non aleatorietà, e se i cinesi possono morire per una fetta di formaggio, non avendo sviluppato gli enzimi adatti perché per ragioni culturali non mangiano latte fermentato, non è che i francesi rrovino buono qualsiasi formaggio. Però, in forma ben altrimenti determinante, dovremo ammettere che i greci correggevano le colonne facen­dole lievemente convesse per rimediare alla tendenza dell'occhio

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CHE COSA SI PROVA A ESSERE UNA CIABAITA

a vederle concave, con un crucco che funziona ancora per noi. L ultima mediazione, che non contiene alcunché di culturale, ri~ sulra infinitamente più forte delle precedenti.

2. Il filtro naturale. Il secondo senso di "mediazione" è allora che un set di categorie c di forme pure della sensibilità determini il mondo come lo percepiamo, che magari in proprio non è che caos e vortici. Ora, se il primo senso appare ovviamente adiaforo in uno studio antologico, neanche il secondo risulta poi davvero così inevitabile, e sembra uarre le sue patenti di nobiltà non da una effettiva utilità, bensì da una lunga stratificazione culturale e dai vantaggi che apporta a una ragion pigra. Non c'è che un sen~ so in cui l'intervento della mediazione appare realmente inevita~ bile, ed è il valore epistemologico degli schemi concettuali: quando osserviamo qualcosa come scienziati stiamo mettendo alla prova delle assunzioni di cui siamo consapevoli c che ci sono note, e non c'è dubbio che a un simile livello si diano mediazio~ ni, proprio quelle che ci hanno condotti in laboratorio. Tuttavia, per quale motivo quelle o altre mediazioni dovrebbero interveni~ re quando vediamo un tavolo, sentiamo un fischio, mangiamo un panino? E perché mai, diversamente che nel primo caso, non ce ne accorgiamo? Un conto è asserire che sulla base dell'ipotesi che il colpevole è il maggiordomo, o che esiste un gene responsa­bile della predisposizione al tabagismo, alla criminalità o a en­trambi, selezioniamo e organizziamo indizi che ci appaiono pro­banti. Un altro è sostenere che senza un sistema di categorie, per giunta indipendenti dall'esperienza - poiché ave lo fossero ca­drebbero sotto la critica all'induzione - non potremmo avere esperienza. Conviene allora restringere il termine "teoria" solo al­le teorie scientifiche, altrimenti ci si esporrebbe alla pesante ri­torsione che a ogni categoria corrisponde una teoria, il che è ma­nifestamente falso: teorie e concetti sono solo epistemologici, e dunque si possono benissimo trovare esseri che vivono senza teo· rie o concetti (altri uomini, animali, noi stessi in più di una cir­costanza, anzi, katà poly). Viceversa, le categorie non costituisco­no il preludio della scienza, potendo essere sbagliate come sche~ mi esplicativi o euristici e funzionare egregiamente come metodi di classificazione, così come la loro origine può benissimo radi~ carsi o nelle nostre dotazioni percettive, o in regolarità mondane, o in nostre comodità che nulla hanno da spartire con il sapere.

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MAURIZIO FERRARIS

Insomma, non c'è motivo per essere di manica larga e vedere dappertutto l'intervento di schemi concettuali, anche se in molti casi, ma non in tutti, dò che esperiamo risulta concettualizzabile.

Interpretazioni. Distinguiamo, in genere, ciò che facciamo in­tenzionalmente, seguendo schemi di azione e di interpretazione, e quanto compiamo senza pensarci. "L'ho fano senza pensarci" è una scusa generalmente accettata; viceversa, nessuno direbbe, in sede scientifica, "l'ho fatto senza pensarci", tanto è vero che la casualità della scoperta della penicillina toglie qualche merito a Fleming. t. che sotto il nome generico di "schema concettuale" si intendono più cose non necessariamente correlate, e segnata­mente: (1). Una interpretazione cosciente ed emendabile, come la visione tolemaica o copernicana. (iz). Una norma cosciente ma inemendabile, come le regole del poker: se le cambiassimo, di­venterebbe un altro gioco. (iiz). L: applicazione, in base a un pro­cesso di stimolo-risposta, di istruzioni apprese coscientemente: vedo il rosso e mi fermo al semaforo. (iv). I.: applicazione, in base a un processo di stimolo-risposta, di istruzioni apprese incon­sciamente, come la sintassi della mia lingua madre. (v). I..:appli­cazione di norme che rientrano nella mia dotazione naturale, co­me la distinzione figura/sfondo, l'opposizione del pollice ecc. A ben vedere, solo la miscela tra il senso (t) e tutti gli altri sensi motiva la tesi secondo cui non ci sono fatti ma solo interpreta­zioni, ossia il dogma più forte a vantaggio del concettuale senza confini.

Prendiamo allora l'argomento di Nierzsche a favore della infi­nità delle interpretazioni:30

"Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: 'ci sono soltanto farti', direi: no, proprio i fan i non ci sono, bensl solo interpretazioni. Noi non possiamo constatare alcun fatto 'in sé'; è forse un'assurdità volere qualcosa del genere. 'T uno è soggetti­vo', dite voi; ma già questa è un';,uerprrtazione, il 'soggetto' non

~;,i~~~c~s~d~~;;~~~ic'la~~d~;o~~~i~:fi~ec~~c~~~~:~~~!~~ ancora l'interpretazione dietro l'interpretazione~ Già questo è invenzione, ipotesi. In quanto la parola 'conoscenza' abbia sen­so, il mondo è conoscibile; ma esso è interpretabi/e in modi di­versi, non ha dietro di sé un senso, ma innumerevoli sensi. 'Pro­spettivismo'. Sono i nostri bisogni che interpretano il mondo: i

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nostri istind e i loro pro e contro. Ogni istinto è una specie di sere di dominio, ciascuno ha la sua prospettiva, che esso vorreb­be imporre come norma a tutti gli istinti"

E ora prendiamo il controargomento di Achille Campanile:31

"- E così - disse il vecchio Cari'Alberto al signore biondo ossigenato, riprendendo un discorso che l'apparizione improv­visa dì alcune superbe aragoste aveva momentaneamente inter­rotto- e cosl, ella mi diceva d'aver vimo un milione alla ruletta.

-Per l'appunto. - Forrunato lei! Quanto tempo fa? Il signore biondo ossigenaw fece un breve calcolo mentale e

disse: -A Pasqua sarà un anno giusto. -Un anno! - Del resto - aggiunse il biondo, dopo un minuto di rifles-

sione - manca circa un anno a Pasqua. -È vero,- osservò il vecchio- come mai? - Semplicissimo. 11 farro avvenne sette giorni or sono, o, per

meglio dire, appena ieri. Ma che dico ieri? Sramane! È avvenuto sramane. Non più tardi di sramane. Anzi un minuto fa. Anzi, sta avvenendo mentre parliamo.

-Mentre parliamo? Il biondo si lasciava trascinare dall'onda dei ricordi. - Per essere più esatti, - fece- le dirò di più, tanto a lei pos­

so dir tutto: il fatto deve ancora avvenire. ( .. ) -E quando, press'a poco, avverrà?- chiese, dopo una pausa,

il vecchio Carl'Alberto al signore biondo ossigenato. - Che cosa? -disse questi con la bocca piena. - Il fatto di cui parlava. La vincita del milione. - Credo nell'entrante settimana. Credo, intendiamoci. - Non ne è sicuro? -Al contrario: sono sicuro che non avverrà mai. Anche per-

ché non ho mai vinco al gioco. -Si vede- osservò il vecchio ammiccando -che è fortunato

in amore. -No,- disse cupamente il biondo ossigenato -la ragione è

un'altra. E la so sohanro io. Tacque, come se questo discorso gli fosse penoso. Ma il vec­

chio insisré:

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- Se non sono indiscreto - disse - posso domandarle qual è questa ragione~

- Me lo domandi pure. -Allora: qual è questa ragione? - Che non ho mai giocato."

l. Infinità delle interpretazioni? Il signore biondo ossigenato non vincerà mai perché ha omesso un ano che non sarà mai un fatto, e nessuna interpretazione potrà parvi rimedio. Del resto, l'idea di una infinità delle interpretazioni urta in maniera fronta­le con svariate intuizioni profonde, e appare come l'artificio di un Don Ferrante che abbia leno Feyerabend: le spiegazioni sono infinite (sarà vero?), dunque la cosa non esiste. Alla base, c'è una carena abbastanza elementare: si riconducono tutte le cose a isti­tuzioni tipo totocalcio, università o matrimonio, e poi si conclu­de che, non vedendosi né il totocakio, né l'università, né il ma­trimonio, allora non deve esserci proprio nulla al mondo, tranne le interpretazioni. Intanto, non si capisce perché poi proprio le interpretazioni dovrebbero scampare alla furia riduzionistica; ov­viamente, si potrebbe sostenere che chi parla di schemi concet­tuali non necessariamente lo fa per sostenere che non esistono fatti ma solo schemi, e che il trascendemalista scrupoloso o il co­struzionista temperante si limitano a dire che occorrono taluni schemi concettuali per avere una esperienza del mondo; però o l'affermazione dice desolantememe poco (quello che vediamo può avere a che fare con quello che pensiamo: e chi ne dubita?), oppure pretende decisameme troppo. A me succede tutti i giorni di imbattermi in un essere Nudo e Brutale- proprio quello che, a prestare orecchio ai teorici dell'interpretazione universale, non dovrei mai incontrare -, vale a dire di provare malesseri non chiari, impressioni, visioni laterali e sfuggenti; poi, trovo cose meglio definite, né mi pare di ravvisarci l'esito di schemi concet­tuali, giacché sono ben nette anche per quelli che hanno schemi concettuali diversi dai miei. Né costituisce soltanto di uno strato primario, ascendendo fino a determinare i miei valori: se riuscis­simo a trasportare i nostri corpi con la facilità con cui trasportia­mo i nostri pensieri, probabilmente non uno dei valori attual­meme in vigore avrebbe corso; se vivessimo 30 secondi, i nostri valori sarebbero di tutt'altro tipo, e probabilmente non ci sareb­bero; idem se fossimo immortali. Cos}, se davvero la nozione di

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CHE COSA SI I'ROVA A ESSERE UNA CIABATTA

"fano" risultasse talmente oscura da rivelarsi inutile, affermare o negare la sussistenza di un fano dovrebbero essere opzioni grosso modo equivalenti, laddove appare facilissimo cogliere la differen­za tra un fano che ha avuro luogo e uno che non ha avuto luogo.

(a). Fatti veri. In realtà, è assolutamente ovvio che esistono fatti veri. Anzi, è fin ridondante, giacché un fatto falso non è un fatto. Comunque, questa è una pagina, ve la sentireste di conte­starlo? E ve la sentireste di negare che nel2000 la Francia ha vin­to i campionati europei di calcio? Potrei andare avanti fino a do­mattina, a elencarvi tanti fani veri.

(b). Fatti falsi. ~anche ovvio che- per conservare una termi­nologia volutamente ridondante - ci sono fatti falsi, ossia che non sussistono: se pretendessi che Nietzsche abitava in Piazza Castello 13 a Milano, risulrerebbe semplicemente falso; così co­me ho scoperto che la foto di Nietzsche apparsa in una mono­grafia, che avevo curato tempo fa, era in realtà una foto di Um­berto I.

~un vero e proprio errore, che Nietzsche avrebbe indiscutibil­menre considerato come tale, diversamente da ciò che avviene per sostituzioni più antiche: non troviamo niente di male nel dire "te­sta" invece che "capo", pur sapendo che "testa" è all'origine "vaso di coccio", che si era affiancato a caput intorno al terzo secolo; ma anche fra mille anni i nostri discendenti proveranno qualche disa-

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gio nel sostenere che la fow è di Nierzsche invece che di Umberto I (posto che lo sappiano). Donde la vistosa insostenibilità della te­si secondo cui la verità non sarebbe che un antico errore di cui si è dimenticata l'origine; potrebbe benissimo essere una antichissima verità, c non cambierebbe nulla. Detto di passaggio, qui si vede un limite cruciale della tesi di Nictzsche, che non solo non vale in ontologia, ma- per il suo estremismo- non può aver corso nem­meno in epistemologia: non c'è alcuna seria teoria della verità e della conoscenza che possa dispensarsi dallo spiegare l'errore; !ad­dove la tesi della riduzione dei fatti a interpretazioni appare costi­tutivamente incapace di giustificare una simile eventualità.

(c). Fattoidi e cose da non credere. C'è anche un aspetto più in­teressante. Dopo la lista di fatti veri e di fatti falsi, vale a dire di non-fatti o di altri fatti, potrei produrvene un'altra di fanoidi e di cose da non credere; ossia di cose che, se anche le vediamo, ci appaiono false: il Pendolino si inclina e sussulta, e per un attimo si ha l'impressione di !evitare in assenza di gravità; c'è anche un solo passeggero che creda che sia cosl? Che se ne preoccupi o al­meno che se ne stupisca? Che dubiti di essere in treno conside­rando che quanto anualmente percepisce è assenza di gravità, dunque, a norma di me est percipi, dovrebbe trovarsi in orbita, altro che in treno? Soprattutto, siamo disposti a considerare la nostra irriflcssa esclusione dei fauoidi come un'interpretazione?

(d). Strano ma vero. Reciprocamente, ci sono vari fatti che ci sembrano falsi ma che, qualora ci vengano motivati, siamo di­sposti a tener per veri: per esempio, quanto nella Settimana enig­mistica viene raccolto sotto la rubrica dello "strano ma vero". Pensare che il piano nazionale svedese, certi involtini di cavolo, discenda dal piatto nazionale turco, gli involtini di foglia di vite, può apparire una bufala come l'idea che il messicano e il cinese sarebbero la medesima lingua; e invece è proprio cosl (risale al tempo in cui, dopo la battaglia di Polrava, Carlo Xli di Svezia ri­parò in Turchia). A dire il vero, non incontriamo nessuna parti­colare difficoltà nel credere che gli spaghetti vengano dalla Cina, eppure, a quanto pare, non è letteralmente vero, essendoci stato quantomeno l'intermediario degli Arabi. In altri termini, l'inve­rosimile può benissimo rivelarsi vero, mentre se i fatti fossero to·

talmente soggetti a interpretazioni non dovrebbe essere cosl. (e). Fatti interpretabili. Poi, se c'è una lista estesissima di fatti

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CHE COSA Sll'ROVA A ESSERE U:'JA CIABAlTA

che- dal tramonto al risultato di una partita di calcio- non ab­bisognano di interpretazioni (si potrà dire che propriamente il Sole non tramonta, o che è colpa dell'arbitro, tuttavia è un livel­lo di discorso completamente diverso), c'è anche una lista, al­quanto più succinta, di fatti che richiedono interpretazioni, o che possono sopportarle: uno scarabocchio, un ghirigoro, una nu­vola, certe battaglie (Borodino e non Marengo) le ammettono; una radiografia o una macchia di Rorschach le esigono; ma non cuna è uno scarabocchio. Prendiamo questa figura:

Qui il gioco delle interpretazioni può filare con la frivola libertà del dialogo tra Amleto e Polonia: è un sigaro? Un disco volante? La parte superiore di un fungo atomico? Una moneta vista quasi di profilo (e disegnata con mano tremula)? Una forma di grana, sem­pre di profilo e mal disegnata? Una lente di ingrandimento? O, semplicemente, una forma ellittica? Si può pensare e interpretare, ma solo perché la figura appare povera, e tutte le nostre interpreta­zioni aggiungono senso, senza arricchirla realmente. Tanto è vero che basta un nonnulla per stabilizzare dei ghirigori:

~~~ '·~~p ~~~

Si obietta che non sempre le cose risultanto tanto facili; ma ba­date al "non sempre", e considerate quanto contrasti con "pro-

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prio i fani non ci sono, bensì solo interpretazioni". Il senso della tesi di Nietzsche, se preso sul serio, è che non ci sono mai fani, ed è la cosa più assurda che si possa immaginare. Se invece si in­rende la tesi come "talvolta quelli che si presentano come fatti sono interpretazioni", ne caveremo una solida ovvietà, che da so­la non basta a creare la reputazione di un filosofo.

{D. Relazioni logiche inconsistenti. Infine, ci sono relazioni lo­giche fra stati di cose che possono risultare inconsistenti: se uno non ha mai giocato alla roulene, è difficile che ci abbia vinto un milione; nella fattispecie, a risultare inconsistente è la relazione anche se non gioco alla roulette vinco un milione; anzi ciò che non sussiste è una proprietà modale della relazione è possibile che an­che se non gioco alla roulette vinca un milione. Del pari, per inge­gnoso che possa sembrare, non è possibile suicidarsi tornando nel passato e uccidendo il proprio nonno, giacché un altro fatto -che io sia qui a pensare di suicidarmi uccidendo mio nonno-, dimostra che o non sono tornato nel passato, oppure ho sbaglia­to bersaglio.

2. Calmiemre le interpretazioni. Quanto dire che bisogna cal­mierare le interpretazioni: se uno mi chiede che ora è, e gli ri­spondo che sono le cinque, c'è poco da interpretare, posto che siano davvero le cinque; il dubbio se siano le cinque di mattina o di sera non pare cosl difficile da dirimere e, tranne che in una ca­verna o in pieno inverno, uno sguardo alla finestra dissiperà ogni equivoco. Però se avessi risposto che sono le cinque, e invece so­no le sei, il mio inrerlocurore sarebbe stato autorizzato a porsi quesiti più o meno psicologici (''Si sarà sbagliato?" "favrà fatto apposta, c, aJlora, perché?"); e, per quanto mi riguarda, avrei po­tuto comunque domandarmi se lui mi aveva chiesto l'ora perché voleva davvero saperlo o solo per attaccare discorso. finterpreta­zione non vige dappertutto, ma solo in casi dubbi; il che nell'e­sperienza risulta abbastanza raro, mentre nella scienza, e per ra­gioni immanenti alla sua costituzione, si verifica in continuazio­ne. Non è difficile vedere come la tesi deHa universalità dell'in­terpretazione nasca da abusi verbali e concettuali, che valgono sia per "fatti", sia per "interpretazioni", sia per "fatti-e-interpre­tazioni".

(a). Fatti. Per ciò che riguarda i fatti, è vero che se dico "è un fatto che la neve è bianca", dico semplicemente "la neve è bian-

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ca": è una questione di verità, e qui si ha ragione nel sostenere che i fatti sono intrateorici. Nondimeno- d'accordo con la de~ flazione che sto proponendo -, pare esagerato sostenere che tutti i fatti sono inrrateorici. Sarebbe già diverso per una frase come "la neve è bianca e penso ai bei tempi andati"; per non parlare poi delle ovvie difficoltà che sorgerebbero di fronte a ordini, a preghiere, a enunciati fatici: "chiudi la porta", "Dio onnipotente, onnisciente e misericordioso, fammi vincere un miliardo al toto~ calcio", "Pronto, chi parla?". Si noti che in queste frasi ci sono delle cose: la porta, il miliardo, forse anche Dio, però non ci so~ no "fatti", tranne forse il rorocalcio, che è una istituzione, che come tale ci può forse spiegare in che senso risulti ambigua la pa­rola "farro", che in taluni casi si può ridurre a delle cose, come nell'esempio della neve, ma in talalrri no, come in quello del to~ tocalcio, dove abbiamo partite, ricevitorie, schedine e puntate, ma non qualcosa come il "totocalcio". Nondimeno, che il toro~ calcio non risulti strettameme riducibile a una cosa non com~ porta che sia una semplice interpretazione, ramo è vero che l'as~ segnazione delle vincite è in linea di principio mtro tranne che arbitraria.

(b). Interpretazioni. Veniamo ora alle interpretazioni. Chi so~ stiene, a ragione, che la nozione di "fatto" è un po' oscura (ma converrebbe piuttosto dire che è vaga: però che non si sappia quanti chicchi fanno un mucchio non comporta l'inesistenza dei mucchi: significa solo che non si è mai vista una soritologia, poi~ ché sui mucchi basta per lo più il pressappoco o si tira a indovi~ nare) dovrà, a maggior ragione, ammettere che la nozione di "in~ terpretazione" non sembra troppo chiara; e che anzi proprio la sua equivocità sta alla base della tesi secondo cui non esistono fatti ma solo interpretazioni. Luniversalizzazione 'antologica' si appoggia sulla molteplicità dei sensi in cui si può parlare di "in~ terpretazione": (z) come espressione linguistica (senso del Perì hermeneias); (ù) come interpretariato linguistico; (iù) come ese~ cuzione artistica; (iv) come esplicitazione di un senso oscuro; (v) come comprensione (trasposizione empatica in un'altra epoca e in un altro uomo : Schleiermacher-Dilrhey); (m) come smasche~ tamento (Nietzsche~Freud~Marx); (vù) come somma di tutti i sensi precedenti: "Non esistono fatti, solo interpretazioni". In ogni caso, a meno che si voglia sostenere che tutto è interpreta-

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zione, quest'ultima non costituisce una attitudine naturale, tan­to è vero che ci accorgiamo di interpretare, o meglio ci sforzia­mo, il più delle volte, di non interpretare, bensl di dire come stanno le cose. Il che significa che quando non ce ne accorgia­mo, quando non ce lo chiedono espressamente, quando non sia­mo costretti a farlo perché c'è qualcosa che non ci è chiaro, non interpretiamo, ma al limite trauùiamo inuo/ontariamente; del pa­ri, esistono categorie professionali di interpreti, il che, se inter­pretare riuscisse naturale, non si darebbe, né vale il paragone con i campioni sportivi, giacché il correre o il saltare si eseguono in vista di un record, laddove l'interpretazione, quando non si risol­va in un gioco sterile, non persegue primati, benslla corrispon­denza a farri.

(c). Fatti-e-interpretazioni. Per ciò che riguarda, infine, la stringa fatti-e-interpretazioni, confrontiamo alcune affermazio­ni, che ci daranno la chiave per vedere quale sia la fallacia che sta alla base della universalizzazione: (t) "Non esistono le streghe, ma donne screditate e perseguitate"; (ù) "Non esiste il flogisto, ma un processo di ossidazione"; (iiz) "Non esiste l'acqua, ma H 20"; (iu) "Non esistono fatti ma solo interpretazioni"; (u) "Non esistono gatti ma solo interpretazioni". Si ammetterà che non si equivalgono: (z) e (ù) costituiscono affermazioni episte­mologiche del tutto legittime; (iii) risulta già l'arrischiato trasfe­rimento dell'epistemologia nell'antologia (e appare come un er­rore di traduzione), (v) costituisce una semplice assurdità; (iv), invece, è una tesi talmente recepita e condivisa da apparire come un luogo comune, mentre è non solo antologicamente falsa, ma va alrresl annoverata tra le più diffuse cause della confusione tra antologia ed epistemologia. La pretesa onnipresenza delle inter­pretazioni si riduce di colpo, rivelandosi come una funzione es­senzialmente epistemologica: vedo una cosa bianca, poi capisco che è un uomo, poi che è il figlio di Callia, poi penso che è uno scemo, poi che mi ricorda anche suo padre ecc. E solo da un cer­to momento in avanti che interviene l'interpretazione. Se poi si vuoi dire che è possibile aggiungere schemi e interpretazioni a quello che incontriamo nell'esperienza, è ovvio; tuttavia, non è nemmeno scontato, e da ciò non segue né che ogni atto di com­prensione sia un ano di interpretazione solo perché è ricostruibi­le cosl (''far discorsi su ciò che si vede o si pensa"), né che ogni

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interpretazione sia storicamente situata, ammesso e non conces­so, poi, che "comprensione" possieda un senso che travalichi i li­miti di una psicologia inrrospetriva, giacché è comunissimo cre­dere di comprendere e prendere fischi per fiaschi.

Intuizioni e concetti

l. Le intuizioni senza concetto sono cieche? Dalla tesi estremi­stica circa l'inesistenza dei fatti, veniamo a una resi a prima vista più temperata, quella secondo cui le intuizioni senza concetto sono cicche. Il catalogo delle interpretazioni risulta tutto tranne che infinito, e si riduce essenzialmente a quattro sensi, cioè, man.co a dirlo, ai quattro sensi della scrittura di veneranda me­mena.

(a). Semo letterale. "Senza concetti non si vede proprio nien­te." Sembra assurdo, e sin nella formulazione (gli occhi sarebbe­ro senza occhi, o qualcosa del genere). Nessuno difenderebbe una simile affermazione; o, se decidesse di farlo, la metterebbe sul piano della trinità, al limite del credo quia absurdum. O, me­glio, c'è una maniera per motivare una simile affermazione, ed è assumere in modo dogmatico l'insussistenza di uno strato del­l'esperienza che non trovi la sua reale condizione di possibili­tà nella scienza, sicché in difetto di schemi concettuali non si darebbero nemmeno percezioni. :t. chiaro che una simile condi­zione porrebbe valere solo per strumenti semplicissimi, quali un righcllo o un compasso, che del resto non possiedono occhi o orecchi.

(b). Semo allegorico. "Senza concetti si vede, ma è qualcosa di tal m eme confuso che è come non vedere." La frase suona meno bizzarra, ma resta da precisare quel "come". "Come non vedere" è essere affetti da agnosia visiva? O, inversamente: se l'ordine delle percezioni viene dai concetti, se ne deve concludere che quello che si vede (o si vedrebbe: si noti l'infalsificabilirà dell'ar­gomento, che fa appello a un tipico esperimento impossibile) sa­rebbero turbini, aggregati di sense data, colori e simili, che solo con i concerei diverrebbero tavoli, sedie, persone? Se cosl fosse, si darebbero circostanze peregrine: se vedo la foro di un'auto, e ne riconosco la marca, il colore, la targa ecc., allora vuoi dire che i

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concetti risultano connessi ai percetti; se invece mi imbatto in un arabesco di cui non riesco a decifrare il senso, sono autorizza­to a concluderne che non si tratta obbienivamente di uno scara­bocchio o di una figura per me cifrata, ma che è magari la stessa foto di prima, tranne che i concetti non si sono attaccati tanto bene. Ammerdamolo, non funziona.

(c). Senso morale. "Senza concetti si vede, e anche in modo chiaro e distinto, però non si capisce niente." Qui ovviamente la sola cosa che non si capisce è che cosa si intenda con "capire"; e considerando che per lo più capiamo benissimo che cosa signifi­ca "capire", tanto che ammettiamo di non capire che cosa in questa precisa occorrenza significhi "capire", il punto dolente non risiede in una inestirpabile ambiguità del verbo "capire", bensì nella sua specifica occorrenza all'interno della frase: "Senza conceni si vede, e anche in modo chiaro e distinto, solo non si capisce niente". La frase non vuoi dir nulla di più che "Senza conceni si vede, però è talmente confuso che è come non vede­re", ne è solo una versione più pudica o reticente.

(d). Senso anagogico. Vale dunque il senso decisamente più debole: "Senza conceni si vede, e anche in modo chiaro e disdn­to, tunavia non si dispone di paradigmi, scientifici o di alrro ti­po, che ci facilitino l'inserzione di quello che vediamo all'interno del nostro sistema di credenze". Alla buonora. Il passo immedia­tamente successivo a una simile interpretazione - talmente estensiva da apparire futile o triviale- è la prosopagnosia (vedo una faccia a me nota, ma per un deficit cerebrale non la ricono­sco) o addirinura la semplice ignoranza (vedo una faccia a me ignota e non la riconosco). Quanto dire che la frase profondissi­ma non è che una tautologia: "se non so una cosa, allora non so una cosa". Ci può essere nondimeno chi ignori il significato di "cane", il che non gli impedirebbe di incontrare il cane, e di comportarsi in qualche modo.

2. Controesempi. In ogni caso, non è difficile falsificare tutte queste allegorie mostrando che:

(a). Con i concetti non si vede, come nel mimetismo o nel caso di triangoli uguali, ma dotati di orientamento diverso.

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L'esagono scompare, benché possa pensarlo .

.......... ........... . .

I triangoli sono uguali per forma e disposizione, ma il diverso orientamento degli sfondi mi rende difficile coglierne l'egua~ glianza.

(b). Si può vedere, ma senu concetti, ossia faticando a capaci~ tarsi di quanto si vede.

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Vediamo la cascata, ma non capiamo come possa funzionare. Del pari, nel nastro di Moebius e nella bottiglia di Klein l'interno e l'esternasi inuecciano in una maniera elle non ci appare immedia­tamente comprensibile; ma non per questo non li vediamo.

3. Riconoscere oggetti. La necessità del concetto per la intuizio­ne discende da una confusione ua cause ed effetti affine a quella che ho segnalato a proposito della onnipresenza delle interpreta­zioni. Mettiamoci nei panni di Cook che vede per la prima volta un ornitorinco. Poiché è un uomo e non un castoro- posto che si sappia qualcosa di tutti i castori, e si conosca tutto di tutti gli uo­mini- è portato anche ad avanzare tal une ipotesi che si formula­no in termini di conoscenza; ipotesi che, nella fattispecie, si rivele­rebbero erronee. Tuttavia, non si è provato che le intuizioni senza concetro sono cieche; anzi, si è dimostrato il con erario: se uno non sa bene quello che ha di fronte, le intuizioni di per sé non sono cieche; ci sembra soltanto che lo divengano nel momento in cui si cominciano a formulare, in base a concetti, delle ipotesi erronee. Comunque, se vedo un ornitorinco, posso dire: "non so cosa sia, certo non è un cane"; però non dico "non è niente". Facilmente penso "sarà un altro animale", e non una pianta, una sporgenza nella roccia, il tubo di scappamento di un'automobile. D'alua parte, se avessi visto il disegno di un ornitorinco in un sillabario australiano, e non ne sapessi altro, porrei benissimo dire "questo è un ornitorinco" con piena cenezza, e a ragione, pur essendo total­mente all'oscuro quanto a moltissime proprietà degli ornitorin­chi, o anche possedendo in materia cognizioni completamente infondate, che mi inducessero ad attribuire agli ornitorinchi ca-

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raneristiche delle manguste, a opinare che siano fabbricati con pezzi di altri animali ecc. Resta infine aperta la possibilità di aver leno un intero uauato sulla vita sessuale degli ornitorinchi e di non essere in grado di riconoscerne uno.

Posso benissimo sussumere un oggeno senza averne un con­cetto, e possedere un con ceno senza riuscire ad applicarlo. 32 Si obienerà: "Sussumere sotto cosa? Parlare di sussunzione sembra implicare l'esistenza di un concetto. Forse vuoi dire che posso ri­conoscere un oggetto senza avere la parola corrispondente; ma che ti manchi la parola non compona che non abbia un concet­(0: e quando pure risultasse possibile riconoscere senza avere concetti allora non si vede perché si dovrebbe assimilare 'ricono­scimento' a 'sussunzione'". La mia replica è: che razza di concet­to sarebbe quello di un animale che non conosco? Qui l'uso di "concetto" diviene troppo !asco per risultare significativo: posso vedere magari una faccia che non mi è nuova, la saluto, poi mi chiedo chi sia mai, alla fine ricordo che è il giornalaio. Tirare in ballo i concetti, e argomentare che è proprio grazie a loro che sa­luto il giornalaio e non la sua bicicletta, è adoperare "conceno" in modo incauto. Così pure, si farebbe davvero fatica ad ammet­tere che una esperienza descritta in termini erronei non costitui­sca una esperienza: Colombo che approda in America e crede di essere arrivato in India ha comunque avuto l'esperienza dell'at­traversare il mare e dell'approdare.

D'altra parte, che si possano riconoscere pani di oggetti osta all'idea che un conceno vada sempre presupposto a un percetto. Poniamo che alla televisione mostrino un oggetto misterioso, che è di solito un oggetto incompleto, meniamo che sia il parti­colare del tubo di un aspirapolvere. Si vede una successione di anelli neri, dunque si riconoscono forme e colori, ma non si può dire che se ne abbia un concetto (il gioco è tutto Il: l'indicazione che viene offerta risulta puramente negativa: "Quello che vedete non è un intero ma una parte"). "Avere un concetto", tuttavia, si­gnifica più di una cosa, e in un senso fortissimo vuoi dire "cono­scere l'essenza": però non occorre certo conoscere un'essenza per vedere un pezzo di aspirapolvere; non è che non si veda, qualco­sa si vede, e in quella misura se ne hanno concetti epistemologi­camente inadeguati ("successione di anelli"), solo non si sa cosa. Poi il campo si allarga, e ora si vede tutto l'aspirapolvere. Il sa-

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chem irochese della terza Critica, quello che di Parigi apprezzava soltanto le rosticcerie, continuerebbe a essere perplesso, benché adesso veda varie parti; se avesse letto Kafka, porrebbe pensare di avere incontrato l'Odradek. Tutti gli altri, però, adulti della no­sera epoca, vedrebbero un aspirapolvere, e saprebbero cosa farse­ne, in almeno due sensi: ne conoscerebbero l'uso, e potrebbero servirsene per insegnare al sachem che cos'è un aspirapolvere. Ora, anche in questi due casi, non equivalenti, abbiamo un con­cetto, che però non determina la possibilità di percepire l'ogget­to attraverso la sua essenza, bensl quella di servirsene come stru­mento e come esempio .. t anche più chiaro nel caso di un falso riconoscimento: supponiamo che io ignori l'alfabeto greco e che veda l'effigie di Alessandro Magno su una moneta da 100 drac­me. Potrei benissimo pensare che è Sylvester Stallone; avrei dav­vero un concetto? Sl, nel senso che non avrei solo un percerco. In altri termini, la resi di Kanr possiede sicuramente un senso, che rurravia risulta puramente episremologico. Se vedo una sedia, la indico a un altro, e lui mi obietta, con argomenti che possono anche risultare persuasivi, che non è una sedia, allora posso be­nissimo replicarglì: "Se non è un~ sedia, allora non ho la più pal­lida idea di che cosa possa essere". t solo di fronte a un simile in­toppo - indice di una perplessità epistemologica - che le intui­zioni senza concetto si rivelano cieche.

La sentenza kanriana significa dunque: (t) senza concetti non si fa scienza; e (iz) se i concetti si rivelano sbagliati, possiamo ca­dere in perplessità. Tuttavia, né l'uno né l'altro dei due valori comporta che senza il concetto di "sedia" vedremmo un buco là dove c'è una sedia, o non saremmo capaci di distinguerla dal pa­vimento, dal muro e dal tavolo. Se poi la non concettualizzabi­lità escludesse l'oggettività, incontreremmo difficoltà anche nelle qualità terziarie: non si spiegherebbe il fenomeno del divismo, la circostanza che ci siano bottiglie di Barbaresco che costano 800.000 lire, e la consuetudine di compilare guide dei ristoranti, nonché l'idea di poter sensatamente disputare sul fatto che una risulti più anendibile di un'altra: se rutti i gusti fossero soggetti­vi, che senso avrebbe? Il punto è però che "oggettività" non è forse la parola giusta, richiamando la misurabilità, ma è ovvio che le qualità secondarie e terziarie non risultano agevolmente misurabili come le primarie. Si tratterebbe piuttosto di affermare

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che le qualità terziarie sono reali e non mentali, ossia che è bello quel che è bello, non quel che piace. Spiegare il tutto in termini di persuasione, di campagne pubblicitarie ecc. è ricorrere a delle giusdficazioni macchinose, e- di nuovo- non meno farraginose della armonia prestabilita; senza considerare poi che se si decide di invesdre pubblicitariamente su Jennifer Lopez invece che su Tina Piea ci deve essere stata una qualche ragione preliminare, meno vincolante di quella che vige in 2 + 2 ::= 4, ma non per que­sto del tutto arbitraria.

4. Le intuizioni senza concetto sono nude. Emi! Lask33 aveva proposto di riformulare il detto kantiano nei termini seguenti: "la forma senza contenuto è vuota, il contenuto senza forma è nudo". Col che si intende che senza concetti -che peraltro, più cautamente, Lask si limita a definire "forme", attenuando l'im­pianto iper-epistemologico di Kanc - si può avere un mondo completamente attrezzato e strutturato, e si capirebbe che senza concetti non si avrebbe l'amorfo, giacché un corpo nudo è com­pletamente determinato, bensì la mancanza di un abito logico. La nudità deve avere attirato l'attenzione di Husserl, che anni dopo, in Esperienza e giudizio,34 cercando di mettere in luce l'es­senza e l'origine del giudizio predicativo, scrive che il giudizio è un vestito di idee gettato sul mondo della intuizione. Quindi, l'oggetto deve offrirsi come evidente nella sua autodatità, in cui non è ancora inclusa alcuna forma predicativa: la grammatica del vedere, dell'udire e del roccare si distingue da quella del pensare. Poco alla volta, però, il rapporto fra lo srraro predicativo e quello amepredicadvo si inserisce in una dimensione teleologica, la grammatica del sentire risulta orientata originariamente verso la grammatica del pensare, sicché, in breve, la continuità prevale sulla separazione. Il motivo è presto detto: sin dall'inizio, Hus­serl muove dall'assunto secondo il quale il giudizio ha origine nel­la sfera antepredicativa, non nel plausibilissimo senso che non nasciamo con giudizi belli e fatti, bensì in quello, tradizionale e a parer mio implausibile, che i giudizi traggono origine dalle sen­sazioni. Lauronomia dello strato amepredicacivo appare, così, come una mera postulazione, giacché sin dal suo apparire riceve senso dal suo orientamento teleologico verso il predicativo. Quanto dire che il mondo c'è, ma non ne sappiamo niente, e dunque non si vede perché ci debba interessare: di modo che l'o-

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riginaria autonomia dell'anrepredicarivo dipenderebbe dalla sua finale dipendenza dal predicativo.

Lask e Husserl manifestano un fastidio verso l'idea kanrianase~ condo cui la logica avrebbe un ruolo costitutivo rispetto all'esteti~ ca, soprattutto quando si parla di nudità primarie, e insistono sul~ la circostanza che il vestito viene dopo. Però immaginano il vestito come una specie di protesi determinata almeno ndl'essenzialedal~ l'anatomia del corpo nudo; e la metafora calza come un guanto: in Platone35 la conoscenza e il possesso della conoscenza viene para­gonata a un abito, che si può avere nell'armadio, in forma inattua­le, o addosso, in forma arcuale. In altri termini, ripristinano la !ex continui dei leibniziani: dalla notte al mezzogiorno, passando per l'aurora, quanto dire, ancora una volta, dal fatto al diritto. Rispet­to alla faccenda del nudo e del vestiCo, dunque, il mio tentativo consiste nel mostrare che non c'è proprio nulla, nel mondo, che precostituisca la forma logica procurandone l'antefatto genetico, potendosi indossare una redingote, una tuta, una [Qga o un peplo, che avrebbero in comune soltanto una funzione, quella di rispon­dere alle esigenze del corpo nudo, secondo i casi e i climi. Il vinco­lo, come si vede, risulta relcologico e non archeologico, giacché una redingote, una tuta, una toga c un peplo non aderiscono cosl strettamente alle esigenze di un corpo umano: potremmo farli in­dossare a un gorilla o a un rapito, appenderli in un armadio, pie­garli in una valigia.

&perienza pregressa. E ora veniamo al minimalismo degli sche~ mi concettuali, l'idea secondo cui l'esperienza pregressa interferì~ rebbe in modo determinante in quella attuale; il che può significa~ re tante cose: (z) rinsieme delle esperienze occorse a una persona, con particolare riguardo per quelle che si sono ripetute, di modo che persone con vice differenti avrebbero esperienze considerevol­mente diverse. (ù) I presupposti storici dell'esperienza, cioè, in concreto, la cultura di chi vede un tavolo o un albero; e se le letture contassero in modo decisivo forse solo i musulmani ortodossissimi che conoscano soltanto il Corano porrebbero contare su una qual­che stabilità. (iiz) Le fasi di un apprendimento, come imparare a usare uno strumento; ma è chiaro che chi sa suonare il violino non vede sol canto violini. (iv) Al limite, fin l'immagine consecutiva an­drebbe considerata alla stregua di una esperienza pregressa, e qui si

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può vedere il problema, giacché I'after image risulta talmente effi~ cace proprio perché non costituisce, propriamente parlando, una esperienza passata, bensì una esperienza presente. (v) Infine, nella sua forma più canonica e ubiqua, l'esperienza pregressa suona così: ogni mia esperienza attuale è condizionata da esperienze prece~ denti, che fungono da schemi concettuali minimali. Ora, una si~ mile famiglia di argomenti apparentemente vittoriosa e poco im~ pegnativa dimostra, per solito, esattamente il contrario di quello che pretendono i suoi teorici. In particolare:

l. Non è un meccanismo univenale. Nella dottrina dell'espe~ rienza pregressa si assume che l'esperienza non è mai qualcosa di mcramente passivo, comportando sempre un margine di attività; tuttavia è una immagine che funziona quando parliamo di quel­lo che ci è successo, e non quando ci succede qualcosa, giacché se urtiamo contro un mobile vediamo le stelle e imprechiamo ben prima di pensare di aver sbagliato il calcolo della distanza. Inol­tre, di soliw ci accorgiamo delle occasioni in cui opera l'espe­rienza pregressa, il che dimostra che, in cutte le ahre (e rappre­sentano la stragrande maggioranza) non c'è alcuna esperienza pregrcssa; a parte che se davvero costituisse un meccanismo uni­versale si porrebbe il problema della prima volra, insolubile a meno di voler ricorrere a un sistema di idee innate che urta uno dei presupposti della domina dell'esperienza pregressa.

2. Non risulta efficiente a livello ontologico; Io è solo a livello psi­cologico. Ci accorgiamo dell'esperienza pregressa proprio quando le nostre aspettative vengono smentite dall'esperienza attuale, per esempio quando ci prende un lieve senso di nausea se scendiamo con una scala mobile rotta. La sorpresa, in generale, è un atteggia­mento che nasce dal vedere l'esperienza pregressa smentita dalla attuale: una cosa che doveva accadere non si verifica, un luogo ri~ sulta lievemente diverso dal ricordo o tutt'altro rispetto all'imma­ginazione che ne possedevamo ecc.; di soliw, questa circostanza viene evocata per dimostrare quanco conti l'attesa nella percezio~ ne; ma se contasse davvero sino in fondo, non dovrebbe mai essere smentita. E nondimeno ci capita di essere stupiti, e nello stupore la catena inferenziale subisce un arresto repentino: c'è un mondo esterno, dotato di caratteri suoi propri, che non vuole essere inter­pretato. Come si spiega, se si assume che vediamo il mondo ama­verso schemi concettuali che sono al nostro interno? Come sareb-

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be la prima esperienza? E si n ori che anche l'ultima delle esperienze può benissimo stupirei, e in effetti ci sorprende; e così fanno anche rutte le esperienze di mezzo. Se uno non è mai stato a Bologna, per quanto ne abbia visto fotografie, sentito racconti ecc., vedrà, arri­vandoci, un gran numero di cose diverse dal pensato, e che d'altra pane risultano banalissime (strade, case, sedie ecc.). Ecco un'espe­rienza, che è sempre, in qualche misura, inauesa, al punto che ce ne proteggiamo con riruali, ansia ecc. Al contrario, difficilmente posso srupirmi delle mie rappresentazioni o dei miei ricordi; pos­so, nella migliore delle ipotesi, sorprendermi di ricordare o di non ricordare qualcosa. Figuriamoci poi se posso sorprendermi delle mie interpretazioni: al massimo, mi sconcertano tal une interpre­tazioni altrui. Essere sorpresi- un atteggiamento che si manifesta già nei primi giorni di vita- dimostra che la mente è dotata di un atteggiamento intrinsecamente predinivo (ci aspettiamo norma­lità), ma non costrurrivo (non sono le regolarità che vediamo; ve­diamo quello che c'è, e può sorprenderei). Idem per la noia, che costituisce l'i~verso. della sorpre~a: ~e dav:ero interpretassimo sempre, non Cl anno1eremmo ma1 o Ci annOieremmo sempre, co­noscendo già la risposta.

3. Non funziona come dovrebbe. Inohre, le volte che funziona, l'esperienza pregressa non procede come dovrebbe per suffragare la tesi di una costituzione della esperienza attuale, ma al contrario: se sottopongo a un soggerro per un po' di volte due dischi, di cui quello di destra risulta lievemente più grande di quello di sinistra, e quindi gli presento due dischi perfettamente uguali, è quello di sinistra ad apparire più grande. Si può certo dire che le aspettative influiscono su quello che vediamo, ma sarebbe più corretto dire che influiscono su ciò cui prestiamo attenzione. Si consideri il se­guente esperimento: si vede un filmato in cui tre cestisti vestiti di nero e tre cestisti vestiti di bianco si passano la palla. Il compito che ci viene assegnato è di contare il numero di passaggi che avviene rra i giocatori vestiti di bianco. Il 75o/o dei soggetti (tra cui io quando mi è stato souoposro) non rileva che, mentre si contano i passaggi, nella sala entra un gorilla, che fa di runo per farsi notare. t. un esperimento sull'attenzione, però, onrologicamente, non prova nulla: perché se il compito fosse guardare i neri, se il gorilla fosse rosso, o se, in luogo di guardare, attraversassi la stanza urtando il gorilla, finirei per incontrarlo. La morale è che il gorilla c'è, sempli-

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cemente non ci bado. Perciò sosrenere che da uno sfondo indistin~ to isoliamo quello che ci occorre risulta quantomeno avventuroso, altrimenti quando ho fame dovrei poter stagliare un panino al pro~ sciutto da una melassa primordiale, e quando sono sazio non mi riuscirebbe, anzi, patirei delle allucinazioni negative. Diverso il ca~ so delle avversioni: ho fatto indigestione di ostriche, non le man~ gio più; però continuo a vederle, e a evitarle. Bisogna coltivare un soggettivismo patologico per confondere i due casi; e che i nostri bisogni interpretino il mondo non vuole ancora dire che lo deter­minino, altrimenti vivremmo in un litigio perenne, o saremmo re~ sponsabili di ogni sorta di sciagure.

Per lo più, con l'argomento dell'esperienza pregressa si conclu­de dalla circostanza incontestabile che nella percezione si mescoli­no attese e giudizi con l'idea che se non ci fossero non si darebbe percezione; e chiaramente non è cosl, giacché persone con culture diverse vedono cose uguali, e inoltre si dovrebbero postulare con~ ceni per spiegare il comportamento animale. Si noti altresl che la "mescolanza" è come tale oscura: tuno quello che effettivamente sperimemiamo, in svariate occasioni, è la simultaneità fra taluni percetti e talatri contenuti mentali, che d'altra parte, come nella famosa immagine di Kanizsa, non ci vietano di vedere cose che comrastano apertamente con tutto ciò che sappiamo del mondo:

Non ho mai visto una lenza passare dietro a una vela, il che non mi impedisce di vederla in questa immagine.

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MAUitiLlO HolUV\l~lS

Del pari, nessuna isola sbuca dal mare di colpo, con tutti gli uccelli posati sopra; eppure mi pare che sia proprio così.

E ora veniamo alla seconda mossa, la deflazione del conceno di "concerto", che suggerirei di circoscrivere alla scienza come progetto di emendabilirà.

Con cerri

Concettuale e non concettuale. Poniamo che uno voglia dire che cosa è un concetto. Una buona idea porrebbe consistere nel distinguerlo dal percerto, come sfera di ciò che non è concettua­le; l'operazione risulta nondimeno tutt'altro che semplice, e i cri­ceri proposti tradizionalmente non paiono decisivi.

l. Chiarezza e distinzione. Come abbiamo visco, che qualcosa possa venire concettualizzato non comporta che debba esserlo, per ragioni di fano (non abbiamo tempo) o di diritto (non ne vale la pena). E, se questo è vero, allora sembra tutt'altro che cer­to che, anche in processi e in esperienze sono gli occhi di tutti, il concettuale risuhi inesrricabilmente intrecciato con il non-con-

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cenuale e viceversa. Che questo possa apparire implausibile, di~ pende appunto dalla trasformazione di una possibilità- l'even~ ruale concettualizzazione - in una necessità e in un dovere, come tale valido solo nella scienza. Certo, parlando grossolanamente, un concetto può essere un nome, una idea oscura e confusa, una idea chiara e distinta, e ovviamente rame altre cose. t. facile im~ maginare che, se riservassimo il titolo di "concetto" alla sola idea chiara e distinta, allora troveremmo, anche nella scienza e fin nello spazio logico delle ragioni, contenuti non concettuali a biz~ zeffe, giacché anche un ascensore costituirebbe un contenuto non concenuale, tranne per un tecnico dell'assistenza, o più pro~ babilmente per il progertista. Tuttavia, se nella sfera del concetto si includono anche le idee oscure e confuse, quelle che i leibni~ ziani concepivano - a torto- come caratteristiche della sensibi~ lìtà, allora ci troveremmo semplicemente a negare l'esistenza di percetti, e avremmo banalmente confuso la sensibilità con l'in­telletto. Il riferimento a oscurità o chiarezza, a confusione o di­stinzione, non costituisce per nulla un criterio distintivo per ri­conoscere i conceni e differenziarli dai perceni, poiché ci posso­no essere vuoi dei concetti chiari e distinti vuoi dei concetti oscuri e confusi, e cosl per i percetti. Probabilmente Leibniz rite­neva che i concetti siano chiari e distinti giacché di solito chia­miamo "concetto" qualcosa del genere, e ci vergogniamo di ado­perare concetti oscuri e confusi; ma che ci appaiano impresenta~ bili o vacui non comporta di per sé che non possano essere con­siderati concetti, se ci atteniamo a una distinzione che personal­mente non condivido. AJrrimenti nomi come "Volinia", "Lusa­zia", "Curlandia", costiruirebbero, per la maggior parte delle per­sone, altrettanti percetti, con l'aggravante che la natura concet­tuale o percettiva di qualcosa verrebbe a dipendere dalla compe­tenza lessicale del parlante. In ogni caso, discorrere tranquilla­mente di "concetti" - senza definirli e come se tutti sapessimo benissimo che cosa sono- non pare davvero la mossa giusta: non si distingue bene "concetto" da "idea", e ogni percetto ricordato potrebbe divemare un conceno, sicché trovare comenuti non concettuali risulterebbe difficilissimo. Ceno, ogni percetto rife­rito, ossia messo in parole e detto a noi o a altri, può diventare un concetto; il che però non comporta né che anche il percetto sia diventato un concetto, né che la percezione abbisogni di una

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messa _in forma linguistica, che è avvertita come distinta dalla pcrcczwne.

2. Attività e passività. Molte volte, attraverso un richiamo kantiano, si intende con "concettuale" l'attivo, e con "non con­cettuale" il passivo; tuttavia la distinzione appare sospetta e con­troversa. Parlare di "attività" costituisce una ipotesi gnoseologi­camente postulatoria, poiché suppone che si possa dimostrare con evidenza che siamo liberi: il che nemmeno per Kant costi­tuisce più che un postulato da porsi nel mondo intelligibile per assicurare la possibilità di un agire morale. Viceversa, per quello che sappiamo di noi e del mondo, potremmo benissimo essere marionette in mano a una cieca fatalità. Inoltre, e avendo ap­punto son'occhio lo strato fenomenico, la distinzione attivo/pas­sivo appare essenzialmente psicologica: alla sua radice, c'è qual­cosa come l'idea secondo cui un conto è ricordare il Sole a mez­zanotte, un altro vederlo a mezzogiorno; qui ci si appella essen­zialmente alla circostanza che non posso volontariamente procu­rarmi una vera sensazione di "giallo", a meno che ci sia una cosa gialla davanti a me, laddove posso pensare il giallo quando vo­glio, così come posso pensare se e quando mi pare al teorema di Pitagora o alla Trinità. Sulla base di una constatazione del genere - che, di nuovo, non specifica se ciò con cui si ha a che fare sia una parola o una cosa, se le competenze debbano essere di dizio­nario o di enciclopedia, ossia se mi basti ricordare il nome "Tri­nità", oppure se devo anche sapere di che si tratta-, si decide di dire che tutto ciò che può essere provocato a piacere si chiama "concetto", e il resw è "percetto". Tuttavia: ci sono ricordi coatti e angosciosi, che saremmo lietissimi di non avere, e rispetto ai quali risultiamo passivi;36 non si possono infrangere impune­mente le leggi della logica; se non riuscissi a ricordarmi un con­cetto e una dimostrazione, o anche solo un nome, dovrei conclu­derne che sono percetti, al punto che ogni vuoto di memoria do­vrebbe iscriversi sotto il capitolo della sensibilità. In breve, po­stulare che i concetti siano anivi c i percetti passivi. identificare la sensibilità con la ricenività e l'intelletto con la spontaneità, è un argomento largamente condiviso ma in fin dei conti sospeuo, proprio perché nel suo fondo è genetico, quanto dire causak, quindi elettivamente sbilanciato a favore del conceuo. È uno strano modo di mettere le cose, perché allora tutte le volte che

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non pensiamo al principio di non contraddizione, magari anche quando lo enunciamo senza pensarci, sarebbe un percetto. Per tacere poi di quando abbiamo un nome sulla punta della lingua, e non ci viene. Percetto anche lì? Agli argomenti aporetici se ne potrebbe aggiungere uno positivo: l'assenso e la negazione non sono una prerogativa dei giudizi, manifestandosi già nell'espe­rienza aconcettuale, come nella negazione di un'attesa percettiva, nel sentimento di repulsione per un oggetto, e simili.

3. Giudizio. Si obietterà forse che la questione è tutta un'altra, inerendo al problema del giudizio; per metterla, una volta di più, in termini kamiani: i sensi non ragionano, dunque non sono né nel vero né nel falso, l'intelletto invece giudica, e può respingere o accettare quanto riceve passivamente dai sensi. Nondimeno -sempre per via della imperscrutabile questione della libertà -, qui ci si inoltra in un ginepraio, giacché non abbiamo alcuna pro­va del fotto che il respingere o il giudicare da parte dell'intelletto possa venir comiderato un argomento a favore dello. spontaneità. Può darsi che accettiamo o respingiamo ciò che ci viene dai sensi perché siamo macchine programmate in un certo modo, e che ci paia soltanto di accettare o di respingere liberamente, mentre in realtà a essere liberi sono i sensi che, malgrado l'accettazione o il diniego da parte del giudizio, continuano a manifestarci le me­desime apparenze; solo che non ce ne accorgiamo, e pensiamo di essere liberi nell'intelletto, laddove in realtà siamo liberi nei sen­si. Prendiamo l'illusione di Miiller-Lyer:

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Si legge tante volte che dimostrerebbe la spontaneità dell'in­telletto, giacché i sensi, creduli e passivi, soggiacciono all'illusio-

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ne, laddove l'intelletto, incredulo, critico e spomaneo, può re· spingerla. Si direbbe mnavia che si stia usando come prova pro· peio il dlmonsmmdum: perché, in fondo, qui ci troviamo di fronte a un bilanciamento perfetto: vediamo sempre A e pensia· mo sempre B. Per quale motivo B sarebbe spontaneo e A passi· vo? Si potrebbe, altrettanto bene, sostenere che siamo forzati a respingere A in nome di B, mentre i sensi, attivi, giudicano che l'intelletto si inganna, se ne dispiacciono, e con ammirevole osti­nazione continuano a riproporre A. Sia pure riformulata attra· verso il ricorso al giudizio, la tesi circa la spontaneità dell'intel­letto e la passività dei sensi si rivela come una ipotesi in cui si de­pone la possibilità della scienza, giacché, se davvero non potessi­mo far nulla per emendare l'intelletto, "scienza" suonerebbe co· me una parola vuota di senso.

4. Astratto e concreto. È anche tutt'altro che pacifico che una buona distinzione tra concetti e perceni possa venire offerta dal­la considerazione secondo cui i primi risulterebbero astratti e i secondi concreti. Da una pane, "astrazione" costimisce un tec· mine passabilmente vago, potendo designare sia la facoltà di co­gliere generalità (il triangolo, la sedia), sia di ritenere aspetti di ciò che si percepisce (il colore di questo triangolo, la forma di questa sedia). Proprio per questo Aristotele poteva notare che i princìpi primi risultano evidenti come le sensazioni,37 sicché l'e­videnza non risulta necessariamente riferibile alla logica. Inoltre, è improbabile sostenere che la distinzione figura/sfondo non sia astratta; tuttavia, non è meno arduo pretendere che sia concet· tuale. Che i percetti abbiano di norma una grana più fine dei concetti non è ancora un argomento in grado di escludere che siano capaci di prestazioni astratte. A ben vedere, anzi, che i con­cetti siano i soli astrani dipende solo da alcune confusioni.

(a). Categorizzare. Si confonde "astrarre" con "categorizzare". La categoria è una forma di classificazione: esistono categorie professionali, scatoloni in cui posso raccogliere insieme vecchie scarpe ecc. Quanto dire che anche il termine "categoria" risulta vaghissimo, giacché il suo teano caratteristico non è né il forma­to, essendoci categorie percettive cosl come ce ne sono di menta· li; né l'estensione (non è che ci sia la categoria di "colore", ma che non ci possa essere quella di "rosso"); né il contenuto (si dan­no categorie mentali, reali ecc.). A parte questo, il punto decisi-

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vo è che posso astrarre senza categorizzare: per esempio, tirare fuori una cosa da una scatola senza riporla in un'altra. Inversa~ mente, davvero il segugio che a un trivio fiuta due piste, le scar~ ta, e imbocca la terza senza annusare, ha compiuto una inferen~ za? Davvero la volpe che sul ghiaccio, se sente il rumore dell'ac~ qua, si ritrae, perché il ghiaccio è troppo sottile, ha svolto un sii~ logismo? La distinzione non passa fra un sensibile concreto e un intelligibile astratto, bensì fra ciò di cui si può, se necessario, far~ molare una definizione, e quanto viene riconosciuto, anche astrattamente, senza definizioni o categorie: un gatto può appi· solarsi su una panca, su un tappeto, su una sedia, senza avvalersi di una categorizzazione, che del resto apparirebbe apertamente sbagliata qualora si presentasse come sussunzionc delle varie affordances sotto il concetto di "sedia"; e, soprattutto, se la care~ gorizzazione dovesse venire formalizzata, si riferirebbe a qualcosa di ben più astratto di "sedia": per esempio, ad "appoggio", "su~ perfìcie piana e solida" o simili.

(b). Nominare. Si confonde "astrarre" con "nominare", con un uso !asco di "concetto", d'accordo con il quale conferire un nome e saperlo ripetere a un altro sarebbe già concettualizzare. In una accezione talmente liberale, ogni parola risulterebbe astratta, e andrebbe considerata come un concetto. Qui però i problemi paiono almeno due. In primo luogo, se ogni concetto è un nome, non ogni nome è necessariamente un concetto: per esempio, i nomi propri difficilmente si potrebbero considerare "concetti", non descrivendo alcuna proprietà del battezzato. In secondo luogo, si possono benissimo dare funzioni astratte senza che ne segua un battesimo di qualche sona: quando apparecchio la tavola, non lo faccio nominando piatti e coltelli, e che dispon~ ga ordinatamente stoviglie e posate, di solito pensando ad altro, non dipende da un corredo di parole.

(c). Idee. Si confonde "concetto" con "idea" o anche, semplice­mente, con "ricordo". Sostenere che l'astrazione costituisce una proprietà esclusiva del concetto comporterebbe che qualsiasi cosa tolta dal suo qui e ora risulterebbe amana (nella fattispecie, "sot· tratta"), e dunque concettuale. Ora, Kant ha ragione allorché obiena che il rosso non è una idea, per chiaro che possa apparirci, cioè per quanto possa risultare discriminabile da altri colori senza grande difficoltà, benché sarebbe difficilissimo enumerarne tutte

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le note caratteristiche. Che possa darsi un concetto di "rosso", co­sl come può esserci un concetto di "percetto", non significa anco­ra che rosso c percetto siano conceni. Che si sia in grado di trarre infcrcnze a partire dal rosso (''se il metallo è rosso, mi posso scotta­re"), che lo si riesca a discriminare dal verde, che sia un colore ecc., non depone ancora in alcun modo a favore della concetrualicà delle cose rosse. Affermando il contrario, si entra nella spirale per­versa per cui tutto ciò che può essere concettualizzato è attual­mente concenualc, c di qui si viene ad asserire l'onnipresenza del concettuale e dello spazio delle ragioni; eppure, l'eccitazione che il rosso suscita nei tori non sembra dipendere dal riconoscimento del concetto di rosso, bensl dal vedere una muleta agitata da un ti­zio vestito in modo bizzarro. Per gli uomini, le cose non vanno al­trimenti: il modo in cui il rosso provoca eccitazione e il verde sor­tisce effetti tranquillizzanti attiva meccanismi completamente di­versi da quelli che si innescano quando si associano ai colori con­notazioni politiche; dunque, e del tutto banalmente, sono gli og­getti e non i concetti che agiscono, talora in connessione con qualcosa di discorsivo, talaltra no.

(d). Attuale e potenziale. Si confonde "atruale" con "potenzia­le", facendo girare al massimo il uascendentale e il passaggio dal fano che qualcosa possa venire concettualizzato al diritto per cui tutto deve esserlo, sicché il non-concettuale sarebbe soltanto un concettuale in nuce. !?. il punto più dolente di rutti.

5. Forma e materia. Uno potrebbe anche dire: i sensi colgono la materia, l'intelletto la forma. Ma è vero? Persino all'interno di una prospettiva aristotelica, irrimediabilmentc segnata da una distinzione tra materia e forma, c'è modo di notare che l'astra­zione più fone, quella che tralascia la materia per cogliere soltan­to la forma (non solo quando penso una mela, ma anche quando la percepisco, la mela non entra materialmente nel mio cervello passando attraverso gli occhi e le mani), viene esercitata dalla percezione, e non dall'intelletto atrivo.38 Se i sensi colgono for­me senz.t materia, se nell'occhio non c'è la mela o l'albero, come si può pretendere di appoggiarsi a una simile distinzione per se­parare la sensibilità dall'intelletto, se non pretendendo che mate­ria costituisca l'antenata della forma, il senso il precursore del­l'intelletto, l'espericnz.t l'archeologia del sapere, e che dunque tutte le forme ricavate dai sensi rappresentino altrettante materie

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per l'intelletto? D'altra parte, ci si potrebbe domandare: perché mai non dovrebbero darsi perceni astratti? Invece di identificare "a-~trazione" con "concetto", con una decisione che suscita i pro~ blemi sin qui enumerati, non converrebbe piuttosto ipQ[izzare due sfere, i concetti e i percetti, ognuna delle quali apparirebbe dotata di autonome facoltà di astrazione, e che si differenziereb~ be solo perché la sfera concenuale, diversamente dalla perceniva, risulterebbe emendabile? Al solito, avremmo a che fare con la di­stinzione tra ciò che è oggetto di scienza e quanto invece è ogget­to di esperienza.

6. Concetto e scienza_, Una definizione di "concetto" deve se­guire una via alternativa: nel conceno è implicito un dover~esse­re, che nasce dal suo riferimento alla scienza e alla emendabilità; nessuno si è mai sognato di emendare le proprie ombre, mentre si possono, e anzi si devono, emendare i propri concetti, altri­menti non sarebbero nemmeno concetti, bensl, nel migliore dei casi, ostinati pregiudizi. Come abbiamo visto, che l'esperienza insegni (o, meglio, che possa anche insegnare) non ne costituisce un ingrediente necessario, diversamente che nella scienza; in quest'ultima si ha un apprendimento solo quando si trovano connessioni e le si ascrive a cause vere, laddove si possono benis­simo avere esperienze, belle o brutte, di cui non si è capito pro­prio nulla.

Si potrebbe nondimeno sostenere, in base a una teoria ester­niS(ica, che i concetti risultano non meno inemendabili dei per­ceni. Il concetto di "acqua" non è mai cambiato, sulla Terra, dai Caldei a Clinton: l'acqua è quella sostanza lì nei fiumi e nei ma­ri, che beviamo. Essere nei fiumi, nei mari, essere bevuta, a rigo­te non rientra nel concetto di "acqua", ma fa parte di tutte quel­le conoscenze grazie alle quali fissiamo il contenuto del concetto, l'acqua appunto. Ed è proprio l'immutabilità del concetto che permette di spiegare il processo conoscitivo, la trasformazione delle credenze sull'acqua, sicché emendabili sono le credenze, non i concetti. Tuttavia, si abusa dei concetti come si largheggia nelle interpretazioni, giacché non c'è motivo per discettare di "concetti" là dove si potrebbe parlare di "nomi". Quando dico "spinterogeno", non necessariamente ne domino le proprietà in­terne, sicché ho ben poco da emendare. Il punto non riguarda nemmeno il formato di un cerco contenuto mentale- per esem-

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pio discorsivo/non discorsivo-, bensì la circostanza che ci sia un qualche sapere perferribile collegato alla parola. Cosl, "paturnia" non è un concetto, giacché non c'è niente di emendabile in pro­posito: non si aggiunge niente al conceno, né si trasforma alcun­ché al suo riguardo; di nuovo, a che pro chiamare "concetti" quelli che sono semplicemenre nomi, che presentano, rispetto ai percetti, la sola caraneristica di poter venire pensati senza perde­re alcuna caratteristica essenziale?

Disporre del 'concerto' di "dito" non è altro che sapere vedere dita c possedere nel proprio lessico la parola "dito" con le sue istruzioni grammaticali: non è che il 'concetto' di "dito" esista dal­l'alba della umanità, come le dica. A un certo punto, si è incomin­ciato a parlare di "dito" (si è ipotizzato che costituisca la prima pa­rola di cuna l'umanità, sotto la forma "Tik"), ma non è che ci si sia messi a emendarlo deliberatamente, perché non ci si guadagnava granché. Ciò non toglie che si possa farlo, e che nel tempo lo si sia emendato, giacché "Tik", all'inizio, indicava sia il dito sia l'atto di indicare; tranne che il processo si è dipanato in periodi talmente lunghi e remoti che nessuno se ne t: accorro. La storia delle lingue e delle traduzioni mostra la trasformazione di concetti di uso co­mune, vale a dire del riferimento di certe parole e di determinati usi linguistici: la metonimia con cui indichiamo il parlare degli uomini, "lingua", nell'aramaico della Bibbia è "labbro"; l'italiano "gola" viene dal latino "gula", che però vuoi dire "guancia", e che si ritrova in parte nel francese "gueule" per "faccia". Tuttavia non saremmo disposti a considerare trasformazioni del genere alla stregua di emendazioni, giacché qui non ci troviamo all'interno di una teleologia progressiva come quella della scienza. Inoltre, esi­stono parole, come il piemontese "barma" (riparo roccioso) che risalgono al neolitico; nessuno si è mai sognato di emendatle, e piuttosto a un cerro punto si sono inventati gli ombrelli. Vicever­sa, "atomo" ha cerco indicato cose alquanto diverse, ma sempre avendo riguardo a una essenza comune a cui si è ritenuto di ade­guarlo: il conceno di qualcosa di indivùibile, che ha portato alla individuazione di particelle subawmiche.

Adesso, dopo aver circoscritto gli schemi e i concetti, venia­mo al terzo passo della deflazione, la delimitazione della scienza, che non rappresenta un carattere naturale dell'uomo, bensl qual­cosa che sorge in un preciso momento, qualora si disponga di lo-

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gos, storia, libertà, infinito e teleologia. Ovviamente, simili re~ quisiti appaiono necessari ma non sufficienti, giacché uno po~ trebbe organizzare riti vodoo che li rispettino. Sicché, per evitare la circolarità (" 'scienza' è tutto ciò che si serve di concetti") e il convenzionalismo (" 'scienza' è tutto ciò che si insegna all'uni~ versirà"), propongo la seguente definizione: "Scienza è tutto ciò che spiega (=trova le cause di) un visibile attraverso un invisibile, ma in modo tale che, almeno idea/iter e in un tempo infinito, l'invisibile risulti adeguato a un visibile". In questa definizione, la fisica e la teologia rientrano nelle scienze, la mistica no. Quel~ lo che mi preme sottolineare è che (z) qui la scienza si presenta come un differimento dell'esperienza, diversamente dalla visione (aristotelica ed empiristica) che la concepisce come un prolunga­mento dell'esperienza; e che (ù) l'esperienza differita deve fare i conti con il reale che è oggetto della antologia, ma non lo consi~ dera come una base universalmente attendibile per le proprie teorizzazioni, come mostrerò soprattutto esponendo le antino­mie tra estetica e logica.

Scienza

Logos. La scienza stabilisce rapporti, cioè logoi, che sono sia linguistici sia matematici.

L Linguaggio. Si può legittimamente sostenere che la comu­nicazione linguistica appare necessaria per la realizzazione dei processi di astrazione e per la consapevolezza delle condizioni di verità di un pensiero, che sono ciò che ne identifica il contenuto. Può sembrare un argomento a favore del linguaggio; ma, insie­me, restringe e precisa la sfera della scienza: anche con la miglio­re buona volontà, sembra difficile ammettere che il linguaggio organizzi l'esperienza, e che dunque magari metta in ordine l'O­ceano Pacifico. Al solito, si confonde la pretesa universalità del linguaggio col fatto che ci sono moltissime le cose che non han­no proprio nulla a che fare con il linguaggio, ma possono venire ridescritte in parole. La California o Giulio Cesare non sono so~ lo linguaggio, e se lo fossero non ci importerebbero. Del pari, è abbastanza ovvio che un enunciato come "Sacramento è la capi~ tale della California" non sarebbe concepibile senza linguaggio,

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ma se chiamo un dente "secondo prcmolare sinistro", isolandolo dagli alui denti, dalla mascella o dalla resta, è pacifico che sussi­tono ragioni in re che morivano il banesimo, e difani nessuno mi chiede "perché lo chiami 'premolare' invece che 'incisivo'?", menrre un bambino è port.tto a stupirsi che la capitale della Ca­lifornia non sia Los Angeles. È chiaro che nella tesi della impre­scindibilità del linguaggio si intende qualcosa come "trasformare il mondo in un ambito passibile di trattazione scientifica" (ma vale anche "mettere le cose in modo da paterne chiacchierare al Costanzo Show" o "discettare alla Aristordian Sociecy"), e non "ordinare una materia informe".

Ora, si emra in laboratorio o in biblioteca, si discute in un se­minario. Nel farlo, si adoperano concetti: si parla o si scrive, anche se ovviamente è condizione necessaria ma non sufficiente; i con­ceni vengono emendati nel corso della ricerca o della discussione, e la norma della emendazione è che siano giusti o sbagliati, alla lu­ce dello stato attuale delle nostre conoscenze. Si può discutere al­l'infinito, secondo una teleologia orientata dalla verità; nessuno ha davvero l'ultima parola, poiché la verità di oggi potrebbe essere il flogisto di domani. Il che però non significa in alcun modo che fuori del linguaggio non ci siano cose -lo scrive Rilke, ma se è per questo Ariosto ci parla degli ippogrifi -, né che si possano avere moltissime esperienze tacite, eppure complesse e organizzate. È lecito sostenere che quelle esperienze possono in svariate circo­stanze esprimersi più o meno adeguatamente in un linguaggio (''Il treno è arrivato alle 15.30" è diverso da "Ho provato un dolore in­descrivibile"), il che tuttavia non comporta che siano linguistiche. Posso vedere un cane che fila a cuccia e un uomo che torna a casa, e presumere che, diversamente dal cane, l'uomo sappia- almeno nella maggior parte dei casi- dire a se stesso e agli altri che cosa sta facendo; il che, a livello onrologico, non pare una differenza rile­vante. Posso anche vedere un uomo e un cane che passeggiano nervosamente, senza fine apparente, entrambi corrucciati (ponia­mo che il cane sia un bulldog), ma si reputerebbe futile pretende­re che il cane stia pensando; se però l'uomo non saprà dirmi a che stava. pensando, avrei tutto il dirino di ritenere che semplicemen­te passeggiava nervosamente e senza scopo, proprio come il bull­dog, che nondimeno non sarebbe davvero nervoso, sia perché ap­pare imperscrutabile che cosa sia "essere nervoso" per un bulldog,

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sia perché è improbabile essere sempre nervosi, come apparente~ mente lo è lui se gli prestiamo una mimica facciale umana. Inol~ tre, tutte le volte che c'è pensiero c'è linguaggio (almeno passi bi~ le), come si vede dagli esempi che ho proposto; ma non sempre quando c'è linguaggio c'è pensiero: posso leggere e a fine pagina chiedermi che cosa ho letto, senza sapermi rispondere, così come posso parlare senza pensarci, rispondendo meccanicamente o commettendo un lapsus.

A fianco delle considerazioni generali, vorrei suggerire un ar~ gomemo negativo: si potrebbe trasmettere telepaticamenre la terza aminomia? E sarebbe ancora scienza? Ne dubito, giacché mancherebbe il linguaggio; la conoscenza inruiriva e la scienza infusa sono un sogno mistico, ma nessuno conferirebbe un No~ bel a Dio, perché tutro quello che sa lo ha acquistato senza lin~ guaggio, quanto dire senza lavoro né merito. Del pari, i sordo~ muti assommano due deficienze che non risultano assimilabili, ancorché presentino la medesima origine: la sordità è, per dir co~ sì, un limite antologico, il mutismo costituisce viceversa un di~ fetta epistemologico. La prima inibisce l'esperienza, il secondo può opporre un limite, ovviabile attraverso la scrittura o il gesto, alla trasmissione e socializz.azione dell'esperienza, dunque anche alla scienza. Infine, i sordociechi patiscono amputazioni ontolo~ giche più gravi dei sordomuti, però dal punto di vista episteme~ logico risultano virtualmente complanari: posto che riescano a imparare a scrivere. Nessuno, infatti, potrebbe dire che un cieco o un sordocieco non pensa, così come nessuno sosterrebbe che vede, il che costituisce una prova ovvia della differenza tra vedere e pensare.

E ora guardiamo la cosa dall'altro lato. Mentre discutiamo in seminario la sedia è forse scomoda, una luce ci dà fastidio, ci graniamo la testa. In biblioteca ci viene da starnutire, usciamo dal laboratorio perché vogliamo un caffè. Sono esperienze, che non ci sogniamo di correggere, e neanche- di solito- di comu~ nicare ad altri; alle volte non pare neanche a noi di essercene ac~ coni (quel sordo fastidio che diventa a un certo punto un mal di denti: quando abbiamo incominciato ad avvertirlo?). I.:esperien~ za, cos}, appare come eminentemente non linguistica- giacché di rado ci capita di pensare formalmente a quello che facciamo mentre lo facciamo -, non concettuale, non correggibile, poiché

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non correggo la mia idea di fastidio: mi siedo in un'altra posizio­ne. Cosl, alla deflazione epistemologica corrisponde una rarefa­zione dell'onnipresenza del linguaggio: gli hopi si fanno sicura­mente male quando scivolano, anche se nel loro vocabolario non dispongono di una nozione di "sostanza". Si può invece benissi­mo concepire che gli hopi pensino che 2 + 2 ::: 5, ma resta da ca­pire in che senso lo pensino. Del pari, siamo disposti a concede­re a cene condizioni e a tal uni animali sensazioni, memoria, im­maginazione, credenze, capacità tecniche, sogni, depressione, sofferenza, amicizia e amore, cure parentali, forme comunicati­ve, giacché i loro comportamenti appaiono in vari casi simili ai nostri; tanto basta a costituire una esperienza - è la sfera di ciò che i leibniziani chiamavano "analogo della ragione"-, tuttavia è insufficiente per una scienza. La morale è che tutto quello che difena a un animale per essere un uomo è l'idea di una emenda­bilità infinita, vale a dire il concetto e la teleologia della scienza e della storia, c della scienza come scoria, ossia la ragione nel senso dei leibniziani. Si noci tuttavia che le caratteristiche in questione difettano anche a moltissimi uomini, essendoci società senza sto­ria e senza scienza, e che anche negli scienziati più solerti e probi sono anive meno di quanto non si creda.

Risulta altresì palese che l'esperienza interpellata dalla scien­za, quella emendabile e inestricabilmente permeata di concettua­lirà, come pure la prassi quotidiana in cui cerchiamo di mettere a frutto le nostre osservazioni ingenue, non costituiscono tutta l'e­sperienza. Perché certo a un castoro non si potrà imputare- non necessariamente perché inverosimile, bensì in quanto imperscru­tabile e futile -la lacuna di concetti perfettibili, né si potrà soste­nere che la sua industriosità rappresenti una forma di scienza im­perfetta, laddove si potrà benissimo affermare che mette a frutto talune esperienze, che per lui varranno forse come ricordi, non costruendo più la diga su un torrente che in precedenza si erari­velato inadatto. E si vorrà dire che nel farlo il castoro ha rivelato che anche la sua percezione risulta inesrricabilmente intessuta di concetti? Si noti che l'esempio è iperbolico, descrivendo un at­teggiamento che, tradotto in termini antropomorfici, può venire inteso come tecnologico e progettuale. Veniamo però al caso più classico e semplice: un cane altre volte battuto fugge alla vista di un bastone. Adopera concetti? Si direbbe di no, se non altro per-

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ché il millenario dibattito sulla intelligenza animale si è tacitaw ciclicamente di fronte all'evidenza poco controvertibile che i ca­ni non parlano ma abbaiano. Prendiamo allora il caso simmetri­co di un padrone altre volte morso che fugge alla vista del cane; per analogia col precedente, si dovrebbe.ammercere che non of­fre una prova dell'esistenza di concetti nel padrone. Il che, in un ceno senso, risulta drammaticamente vero: difficilmente il pa­drone fugge in base a concetti, li userà quando dovrà rendere conto, a se stesso o ad altri, del morivo della sua fuga, e il cane forse non li adopererà mai. Qui non abbiamo forse un altro esempio del fatto che in svariate situazioni del tutto ovvie e pale­si - un cane che fugge, un uomo che fugge non sono sense data evanescenti e incoerenti - esistono contenuti non concettuali, e che la nostra esperienza è tutt'alno che inesrricabilmente intes­suta di attività e passività? È plausibile che si riescano a risolvere empiricamente problemi relativi ai modelli mentali, e che si con­cluda che un cane dispone di un modello della mente del padro­ne, cosl come uno scimpanzé possiede un modello della mente del superiore da cui si nasconde. Tuttavia, da qui a sostenere che il cane agisca in base a concetti ne corre, mentre sono convinto che chi mi legge scia agendo in base a concetti. Per quello che ne sappiamo, gli esseri che, con un termine troppo generico, chia­miamo "animali", hanno una esperienza non concettuale, così come gli uomini; e simili contenuti accedono al concetto non per una loro occulta qualità, diversa negli uomini rispetto agli animali, bensì perché i primi, dotati come sono di linguaggio, dispongono anche di aggettivazione e discussione dei contenuti.

2. Matematica. Quanto si è detto del linguaggio vale anche per la matematica: l'asino va dritto al fieno senza sapere niente di Euclide; Euclide può assiomatizzare, però non compie la medesi­ma operazione svolta dall'asino, che non capirà mai quelle assio­matizzazioni. In generale, per gli uomini le cose vanno altrimen­ti, non quando camminano, bensì quando ragionano sul loro agire: possono imparare il greco eleggersi Euclide, così da trova­re una corrispondenza tra l'assioma e il proprio comportamento; e allora sono indotti- ma è una fallacia- a identificare l'opera­zione con l'assiomatizzazione. A livello geometrico, possono confondere il vedere con il pensare nei punti, nelle linee, nei triangoli, e in generale tutto ciò che si pone sotto il titolo della

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evidenza. In taluni casi, può non apparire implausibile che av­vertire una stonatura equivalga a cogliere un errore di calcolo. È sulla base di assunti del genere che si conclude sulla ubiquità del­la matematica, che appare coestensiva alla fallacia circa la ubi­quità del linguaggio. La stessa immanenza della matematica alla scienza è una conseguenza del legame tra scienza e linguaggio, giacché la matematica ravvisa rapporti, ma non è scienza, esatta­mente come il linguaggio, da solo, non lo è. Anche qui è lecito suggerire una deflazione.

(a). Osservato e misurato. Sì potrebbe dire che se non avessimo un concetto di "punto" non potremmo formulare il giudizio "questo è un punto", tuttavia dubiro che per vedere il punto oc­corra il concetto di "punto", né che per vedere un punto debba formulare il giudizio, rapidissimo e inconscio, "questo è un pun­to". Un cane probabilmente non lo fa, c probabilmente non lo facciamo neanche noi, perché ci sono più situazioni in cui abbia­mo esperienze ma non formuliamo giudizi; e, comunque, pare discutibile che ognuno di noi sia uno scienziato, un logico e un geometra naturale, e che si conosca dalla nascita quello che più tardi si impara con fatica a scuola. Il che è anche più evidente per le misure: per lo più, la distinzione tra osservato e misurato ri­sulta abbastanza chiara; e tuttavia l'osservazione comporta il ri­conoscimento di grandezze, dal che è leginimo inferire che la percezione è astratta anche senza aritmetica o geometria: quando guardo il cielo stcllaro o una gallina picchiettata, non ho bisogno di contare le stelle o le macchie per vedere quello che vedo, cosl come è difficile contare le dita di una mano in visione periferica mentre sono rilevabili anche infimi movimenti delle dita. Vice­versa, posso pensare facilissimamente un chiliagono, cioè un po­ligono di 1000 lati, tuttavia non riesco a immaginarlo, tanto quanto mi è difficile immaginare un cerchio quadrato: addirittu­ra, se lo vedo, non posso dire a colpo d'occhio che è diverso da un poligono di 999 lari; poniamo poi che uno metta a fianco di un chilìagono un poligono di 837 lati: forse a occhio si ricono­scerebbe la differenza, ma certo non perché si siano contati i lari. Del pari, se sono in macchina e supero un camion, non mi spor­go a destra per vedere quanti centimetri separano il mio spec­chietto destro dalla fiancata del Tir; se lo facessi, uscirei di strada: in realtà, quando supero un camion posso continuare a parlare

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con chi mi sta vicino senza prestare troppa attenzione a quello che faccio.

(b). Costruire e ridescrivere. Si opporrà che non è questione di appellarsi alla matematica per costituire l'esperienza, bensì di sot­rolinearne la capacità di ridescrivere la totalità del mondo. Tutta­via, non è garantito: Keplero pensava che l'universo fosse co­scruito da Dio con leggi matematiche; ma ci sono comporta­menti dci corpi celesti che risultano del tutto imprevédibili, sic­ché la convergenza costimisce solo uno schema esplicativo pieno di buchi e rattoppi che conferisce sensatezza teleologica alla scienza, non un dato di fatto.

(c). Ubiquità limitata. In ultima analisi, si ritiene che la mate­matica sia ubiqua per gli stessi motivi che abbiamo esaminato a proposito del linguaggio: tutte le volte che organizziamo in for­ma scientifica qualcosa, operando a livello di ridescrizione, può venirne fuori una matematizzazione. Per esempio, la trasforma­zione del segnale lineare nell'immagine retinica e poi nell'imma­gine tridimensionale è un processo fisiologico ridescrivibile ma­tematicamente, il che non comporta che sia matematico, né me­no che mai che per attuarlo si debbano possedere delle nozioni di matematica.

Storia. È anche ovvio che solo la possibilità di una iscrizione­sia pure nella veste minimale della tradizionalizzazione orale -permette una storicizzazione, sicché le popolazioni che non scri­vono o non tradizionalizzano non possiedono nemmeno storia, e quesro non significa solo "tradizioni tramandate", ma anche "scienza". Oggi andiamo dal medico del 200 l e non da quello del 1801: il medico di oggi ha la verità, non il suo antenato, dunque c'è una pretesa di assolutezza che guida la nostra scelta; però se potessimo andare da un medico del 220 l, lo faremmo, di modo che l'assolutezza risulta comunque relativa a uno svi­luppo storico configurato come progresso infinito. Viceversa, non ci disturberebbe abitare in una casa del 1801, purché in buone condizioni. Così, la storicità è immanente alla scienza e al suo metodo: quando un ricercatore protesta contro i limiti im­posti alle biotecnologie, si richiama solitamente al fatto che non si possono fermare le lancette dell'orologio, e qui abbiamo a che fare con una storicità che si sedimenta negli schemi concettuali e

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nel metodo, che è quanto di più storico si possa immaginare, mentre si possono avere esperienze senza storia.

Libertà. Parlando del concetto di "concetto", abbiamo visto quanto problcmatica appaia l'idea di "liberrà"; ma, fin tanto che la si mantiene, la scienza è libera, l'esperienza no. l premi Nobel o le medaglie Ficlds non si attribuiscono a caso; nemmeno i No­bel per la letteratura. Mentre non si conferisce a nessuno un pre­mio per essersi ricevuto un manone in cesta, a meno che si sia offerto volontariamente come cavia per un esperimento; non si premia la mela invece che Newton; e- tolti il Presidente Schre­ber e l'uomo che scambiò sua moglie per un cappello - risulta più facile diventare celebri come medici che non come pazienti. Ora, la libertà non è alcunché di naturale; anzi, pare necessario postulare che sia trascendente. Poniamo che uno scienziato rie­sca a dimostrare che non esiste la libertà giacché le particelle ele­mentari si muovono in modo necessario. i! cenameme una grande scoperta, gli danno il Nobel, ma devono anche toglier­glielo: se la libertà non esiste, non se lo meritava. Poniamo ora che un aluo scienziato riesca a dimostrare che, invece, esiste la li­berrà giacché le particelle elementari si muovono in modo casua­le. La scoperta è ancora più grande, gli danno il Nobel, ma devo­no anche toglierglielo: la scoperta è stata casuale, non se lo meri­cava. La sola via per cavarsela è sostenere che l'oggetto della sco­perta, sia esso la necessità o la libertà, non interferisce diretta· mente sullo scopri core, o meglio, agisce per vie talmente tortuo­se da risultare imperscrutabili. Tuttavia l'argomento vale per la necessità e non per la libertà, e cosl il teorico della I:J.ecessità ap· parirebbe come un mezzo impostore, e quello del caso come un miracolaco. Comunque, parlare di "scienza" vuoi dire semplice· mente indicare non una conoscenza, giacché si vedono cani che vanno a cuccia c cavalli che tornano alla scuderia dopo aver di­sarcionato il cavaliere, bensl un sapere condivisibile, comunica­bile e liberamente emendabile, che è poi pressappoco quello che si esercita nelle università, e in nome di una ricerca che può an· che risultare disinteressata. Che possa non esserlo, in moltissime occasioni, non è un argomento, non apparendo implausibile che si studi disinteressatamente la struttura della materia, laddove ri­sulta poco probabile che ci si dedichi disinteressatamente alla fi.

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nanza: e quando lo si fa, è il segno di un approccio scientifico. Se tuttavia non siamo liberi, se per ipotesi siamo rotelle di un gran­de meccanismo, allora anche Newton ha scoperto le sue leggi per necessità, esattamente come un meteorite si schianta sulla Luna: e allora potremmo soltanto dire che quello che a noi pare scienza in realtà non lo è, essendo natura. E, in rapporto alla falsificabi­lità, il tema della libertà andrebbe svolto così: solo ciò che è libe­ro può sbagliare, una pietra che cade in testa a un tizio non sba­glia, sbagliano quelli dei cavalcavia: sbagliano, in senso teoretico, se non centrano il bersaglio, e in senso pratico se lo centrano. Il discorso, in ultima istanza, suonerebbe: se vogliamo che una scienza sia possibile, allora dobbiamo ipotizzare che si dia una sfera di concetti emendabili in un progresso idealmente infinito. Una conseguenza può essere interessante: se la libertà non è estrinseca alla scienza, ma ne è parte costitutiva, la scienza, diver­samente dall'esperienza, è un costrutto puramente ipotetico, giacché non sappiamo se esista qualcosa come la "libertà"; si può benissimo credere di fare scienza, e non farla, così come potreb­be benissimo non esserci mai stata scienza, però sarebbe insensa­to pretendere che non ci sia mai stata, sulla faccia della Terra, una esperienza. Per negare poi che ci sia mai stata una sensazio­ne, è necessario tirare in ballo un Malin Génie.

Infinito. Quando, nell'esperienza, vedo un gatto non penso che sono io che lo sto vedendo, né mi chiedo subito, nel vederlo, se lo vedo davvero e se è proprio un gatto, diversamente che nel­la riflessione e nella comunicazione: "ho visto un gatto", "mi è sembrato di vedere un gatto", "è proprio un gatto!" ecc. Invece la scienza concepisce il presente solo come l'esito di assunzioni pas­sare che si orienta verso un futuro illimitato implicito in ogni singolo momento dell'indagine, cosl da renderlo intimamente relativo e costantemente sottoponibile a ulteriori falsificazioni. Si è liberi di andare a lezione di fisica, di giocare a bigliardo, op­pure di giocare a testa o croce: nel primo caso, si verifica un pro­gresso vircualmente infinito; nel secondo, un progresso finito; nel terzo, nessun progresso, non essendosi mai visto il campione del mondo di testa o croce: la differenza è tutta Il. La scienza è una attività che ha per scopo la trasformazione del soggettivo e occasionale nell'oggettivo e nel necessario, presto o tardi, e sia

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pure in un tempo infinito. Tipicamente, l'idea di Husser139 è che il soggettivo e l'occasionale non diventerà mai in tutto c per tut­to oggettivo e necessario; ma che, di diritto, è necessario assume­re la prospettiva releologica, per non porre limiti alla infinità del­la ragione. Ora, non è difficile vedere che un simile assunto non presenta alcunché di implausibile in epistemologia. Tuttavia, tra­sponiamolo nella vita: il mondo traboccherebbe di persone che non sanno quello che fanno né quello che dicono, giacché ogni loro azione o asserzione costituirebbe il gradino di una scala infi­nita. E poi rrasportiamolo nella percezione: ci muoveremmo in un mondo di false apparenze, rispetto alle quali la caverna di Platone rappresenterebbe un miracolo di stabilità. Articoliamo il contrasto.

l. Prospettivismo e interosservazione. Avrebbe senso dire che vedo un muro in assoluto? t ovvio che lo vedo solo da un lato, oppure dall'altro, e difficilmente in tutta la sua estensione. Però è anche chiaro che ciò avviene proprio perché è un muro vero e non una proiezione piana, sicché parzialità e realtà coincidono, laddovc una verità parziale non è mai una verità soddisfacente, e una mena verirà è ciò che pianamenre si definisce come una bu­gia. Come il prospenivismo non nasceva inizialmente come rela­rivismo (che si veda una città in diverse prospettive dimostra che c'è; che il leno dell'artigiano- diversamente da quello del pino­re- presenti più di un aspetto, è argomento di realtà e non di ir­realtà), così il fano che uomini con immagini del mondo tanto eterogenee, con culture e istruzioni discordanti, e anche con sen­si diversi (ai diabetici manca l'olfatto, e poi ci sono i sordi e i cie­chi, ma appunto ci sono anche i calvi e quelli che hanno un seS[o senso, ossia sono molto intuitivi) si riconoscano come apparte­nenti a un mondo condiviso, costituisce un buon motivo per pensare che c'è un mondo, indipendentemente dai nostri sensi e dalle nostre idee o scienze. I.:argomento si può estendere anche alla interosservazione: se davvero ogni prospettiva costituisse una singolarità irriducibile, non si capisce perché le persone possano correggersi a vicenda e integrare le loro osservazioni su un qual­che oggetto, né perché riesca cosl facile, per mostrare a qualcuno qualcosa che vediamo solo dal punto in cui guardiamo, invitarlo a venire al nostro posto. Che poi su l 00 osservatori solo 80 ve­dano un fenomeno, può essere un fondato morivo di scetticismo

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epistemologico, ma non vale più di tanto in antologia: un giudi­ce concluderebbe che il fenomeno ha avuto luogo.

2. Infinità. Da un punto di vista epistemologico, si può benis­simo sostenere che non finiremo mai di procedere nell'analisi su­baromica di una penna bic; però pretendere che la biro, sia pure variando considerevolmente le condizioni di osservazione, può essere descritta in infiniti modi anche a livello fenomenico, non sta né in cielo né in Terra. Inoltre, se è vero che non saprò mai se chi mi sta di fronte sia sincero o meno- anche perché, in ultima istanza, potrebbe non saperlo neanche lui: individuum est ineffa­bile-, resta che quando gli chiedo di passarmi quella bic lui ca­pisce benissimo, e la sua comprensione non mi appare miracolo­sa. Ora, non c'è niente di scandaloso nel sostenere che la scienza costituisce un processo infinito, ma nell'esperienza l'interpretare ha un inizio, una soglia inferiore (la percezione o il seguire una re­gola) e un termine, una soglia superiore (la decisione), e la roccia incontrata è l'ontologia, che è tale proprio per il limite che ci op­pone. Del pari, si banono continuamente record dei 100 metri, ma è questione di frazioni di secondo, non bisogna assumereste­roidi e anabolizzanti, cioè occorre rispettare le caratteristiche del­la specie, e c'è da chiedersi quando finirà il progresso (sicura­mente nessuno batterà il record dei 300.000 chilometri al secon­do), o se, alla lunga, non ci si stancherà. In ogni caso, la frase "queS[a manina avrei potuto coprire correndo lo spazio di due miglia in cinque minuti" è assurdaoggicosl come lo era nell912, quando Moore la formulò per indicare il caso-tipo di cosa im­possibile. Del pari, che si possano costruire computer sempre più piccoli trova un limite obiettivo non nella miniaturizzabilirà dei chips, bensì nella non-miniaturizzabilirà delle mani. Nella fisica e nella biologia le cose vanno altrimenti, nella matematica c'è una inflazione di teoremi, e in generale non sembra di principio le­ginimo porre un limite alla infinità della ragione.

3. Incompletezza. I..:infinità è però una cosa diversa daJI'in­complerezza, né questa è già "relatività". Di nuovo, il prospeni­vismo sostiene che possiamo vedere una cosa souo più profili e da vari punti di vista, e che dunque, nella maggior parte dei casi, ogni sua singola presentazione risulta parziale. Il che non preclu­de un rapporto con l'oggetto, potendosi urtare contro un tavolo senza vederne l'altro lato, né meno che mai comporta che il sem-

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plice rapporto con l'esterno risuld sufficiente, giacché si può gui­dare l'automobile senza conoscerne in dettaglio né i pezzi inter­ni, né il funzionamento. I fenomeni risultano incompleti perché le cose sono piene di minuti particolari, lati nascosti, ingranaggi nascosti; ma, allora, non vale nemmeno la pena di parlare di "fe­nomeni", precisamente perché non si capisce che cosa possa es­serci oltre a essi.

4. Apertura. Ancora una precisazione. Si potrebbe a giusto tito­lo osservare che l'infinito non esiste, trattandosi di un conceno-li­mite utilissimo in matematica, giacché omogeneizza e semplifica i calcoli, e nondimeno totalmeme adiaforo al di fuori di un conte­sto formale; ne seguirebbe che l'emendabilità, come carattere del­la scienza, non può essere infinita, ma risulta anch'essa indefinita o aperta, sicché la differenza tra infinito e indefiniw con cui cerco di dettagliare la distinzione tra scienza ed esperienza perde valore. Tuttavia, si ammetterà che- in una taglia ecologica o mesoscopica -la scienza appare talmente più lunga dell'esperienza da non ave­re una comune misura, risultando così infinita. Dal punto di vista delle comodità dell'utente, sebbene non da quello del suo assetto patrimoniale, comprare una casa o affittarla per cento anni, come spesso avviene in Inghilterra, si equivalgono; e l'uso, evocato nella Turandot, di sposarsi solo per mille anni, non è un segno di parti­colare incostanza dei giapponesi, ed equivale alla formula "sino a che morte non vi separi". Nessuno prenderebbe sul serio l'osser­vazione secondo cui, dal punto di vista logico, l'impegno giappo­nese risulta più forte dell'occidentale, giacché non si è mai visto nessuno che morisse a mille anni, mentre a tutt'oggi non è prova­to che un uomo non possa essere immortale. E dal punto di vista epistemologico i due contratti si equivalgono, soggiacendo en­trambi al carattere aperto della induzione.

Teleologia. C'è una ulteriore delimitazione: la scienza deve, in ultima analisi, fare i comi con l'esperienza, anche se il punto non è sempre chiarissimo. Proprio in quanto empiristi, gli scienziati non vanno in un laboratorio come due scimmie si spulciano allo zoo o un greco sgrana il rosario: hanno cose da cercare, e quello che trovano lo cercano d'accordo con uno schema concettuale, di modo che l'esperienza viene naturalmente considerata come la preistoria della scienza. Qui c'è però un crampo concettuale,

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giacché è l'esperienza a cos(ituirc la releologia della scienza, la quale, di per sé, appare tcleologica in maniera non accidentale, bensl necessaria. Nel suo progresso infinito, la scienza ha sempre di mira il mondo, cd è in vista del mondo che emenda i propri concetti: banalmeme, deve sussistere, sia pure in forma pura­mente ideale, la possibilità di confrontare le teorie con qualcosa; che poi il riscontro possa risultare uha idea kantiana, e che pre­tendere di averlo sottomano equivalga a presentarsi a Fort Knox esigendo la contropartita in oro di una banconota da 20 dollari, non cambia nulla. Posso misurare i segmenti della Miiller-Lyer, c constatare che, malgrado le apparenze, sono lunghi uguale; ma la verifica, svolta con il metro alla mano, non è mentale: vedo - e non semplicemente penso- che i due segmenti sono lunghi en­mmbi, poniamo, IO centimetri. Soprattutto, la possibilità di descrivere un mondo o come un insieme di cose indipendente o come un sistema di fatti costituiti non giustifica un salomonico bilanciamento delle alternative: anzi, dà ragione al realista inge­nuo, giacché posso descrivere un albero come un ricordo d'in­fanzia, come un pregiudizio, come una costruzione dei miei sen­si o dei miei concerti, tuttavia l'albero resta lì, e se qualcuno lo nega non gli crediamo, poiché conoscere o credere di conoscere la causa e la genesi non interferisce sull'osservato.

Ecco dunque il nocciolo mctafìlosofìco della deflazione sin qui proposta. Arreso che appaia del tutto namrale che se uno si iscrive alla scuola ufficiali è per diventare sonotenente, e poi colonnello e generale, è altrettanto naturale che suonerebbe srrano pretendere che chi invece si iscrive a un dottorato, oppure va in convento co­me novizio o giardiniere o filosofo deluso dal Tractatus, oppure entra in una azienda o in magistratura, lo fa per diventare genera­le. Sotto il profilo del finito e dell'infinito, pare abbastanza owio che la scienza, per definizione, non ha fine, mentre l'esperienza sì; tra scienza ed esperienza c'è poi il dominio della tecnica, che è sì perfetti bile, almeno sino a un certo punto: non si modifica il filo per ragliare il burro, né si può ipotizzare una infinita perfettibilità nell'allacciarsi le scarpe. E certe tecniche, come l'astrologia, non si giustificano facendo appello a un progresso infinito, bensì a una tradizione immemorabile di cui permarrebbero le tracce: l'astro­logia babilonese non sembra più arretrata della nostra, e infatti non pare lecito parlare di "scienza", né si tratta esclusivamente di

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un deprezzamento, giacché anche l'arte babilonese non appare peggiore della nostra, l'arte amica in generale non è reputata infe­riore alla moderna, l'introduzione della prospettiva ha accresciuto la verosimiglianza delle rappresentazioni ma non l'artisticità dei dipinti. e viceversa il modo in cui nel rito è venuta meno la comu­nione sotto le due specie risulta considerevolmente diverso da co­me si è abbandonata la frenologia o lo pneumotorace. Del pari, dai vent'anni in su, difficilmente saremmo disposti a dire che sia­mo capaci di farci il nodo alla cravatta in modo apprezzabilmente migliore che dieci anni prima, e in moltissimi casi non si è inclini a generalizzare lo schema della perfettibilità a svariati ambiti di esperienza tutt'altro che impalpabili: si rimpiangono le nevi di una volta, le osterie di una volta, il pane di una volta, mentre risul­ta relativamente infrequente trovare chi rimpianga i computer di cinque anni fa.

Così, la seconda natura, in un modo più esatto e circoscritto all'epistemologia, ha una origine storica: c'è un momento in cui è sorta, dunque non solo si è anche dato un momento in cui non c'era, ma ci sarebbero (c ci sono) uomini che non l'hanno cono­sciuta per molto tempo; altri che ne sono ancora - cioè, per il momento, in questa fase di un divenire teleologico - esclusi, giacché a run'oggi, in quella che ci appare tanto ovviamente l'era di Internet e dei telefonini, 1'80% della popolazione mondiale non ha il telefono; altri che sanno solo approssimativamente co­s'è; altri ancora che la conoscono benissimo, ma nella maggior parte dci casi non se ne servono. Ora, saremmo disposti a dire che gli altri, zingari, endogami o bramini o senza casta, ma an­che inglesi che non conoscono Locke o tedeschi che non sanno nulla di Einstein, e poi ancora Locke e Einstein quando non stu· diavano, sono semplicc=mente nell'errore, non sanno quello che fanno o quello che dicono? A maggior ragione, sarebbe difficile sostenere che quando gli indiani e i cinesi (che per Husserl sono solo un momento laterale e secondario rispetto all'idea di epitu­me) vedono un colore, preparano un cibo o commentano un te· sco, stanno semplicemente abbozzando il canovaccio di una ve­rità serina altrove, e in realtà neanche in Europa, giacché qui ha luogo solo l'origine e lo sviluppo di un progetto che trae la pro­pria idea di totalità solo dal concepirsi come infinito? Se vicever­sa si considera la nozione di "cultura" in maniera più determina-

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ta, vale a dire come scienza e filosofia europea, allora anche tra gli scienziati non ci sarebbe, nel 99% della loro esperienza, nience più che natura e abitudine. Vale anche la reciproca: se si assume la nozione di "seconda natura" in un senso troppo esteso, come ogni tipo di capitalizzazione, deliberata o meno, dell'esperienza, anche i corvi che alla lunga non temono più gli spaventapasseri ne sarebbero dotati.

E ora, effettuata la riduzione di schemi, concetti e scienza, ve~ niamo aH' esperienza.

Esperienza

Ecologia e mesoJcopia. La sfera dell'esperienza è ecologica,~0 il che definisce l'ambito della antologia non in positivo, bensì in ne~ gativo; quanto dire che l'ontologia non è la natura, ma ciò che po· ne un limite e una fine alla tecnica c alla scienza. Già nel Setteccn~ to, un parroco svevo,Johann Christian Oetinger, aveva criticato il microscopio e la pretesa aleatorietà delle qualità secondarie: il suo argomemo era che se Dio avesse voluto che vedessimo i microrga~ nismi, ci avrebbe provvisti lui di sensori appropriati; e che era as~ surdo pretendere, con Leibniz, che Dio non veda i colori: li vede da Dio. Non como di riesumare vecchie apologetiche (se non al~ tro perché abusano di un argomento trascendentale: abbiamo i sensi strutturati cosl e così perché dobbiamo averceli così e così); vorrei piuttosto portare l' anenzione sulla circostanza per cui la ta~ glia ecologica e mesoscopica, che evolve ben più lentamente deUe nostre scienze e tecniche, si fa carico della definizione del concetto medio di realtà. In altri termini, non è questione di poswlare un livello naturale delle funzioni umane, né di delegittimare ogni protesi, dal computer al telefonino. Si tratta piuttosto di considc~ rare che se certe protesi si sono imposte più di altre, che esistevano da tempo, è perché la vita umana, quale sino a oggi l'abbiamo co~ nosciuta, risulta maggiormente compatibile con gli occhiali e con i relefonini che non con i microscopi o con i telescopi. Per quale motivo, tuttavia, sembra relativamente difficile da accettare l'idea che usare un telefonino risulti qualitativamente diverso dal guar· dare il cielo con un telescopio? La nostra esperienza è intrisa di tecnica: abbiamo continuamente a che fare non solo con compu·

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ter, aerei e ascensori, ma pure con bastoni, coltelli e ruote; e la tec­nica, proprio come la scienza, appare linguistica, storica, libera, emendabile, infinita. Ma appare soltanto: il filo per tagliare il bur­ro e la ruota non evolvono. A evolvere sono altre parti, per esem­pio i criteri di tutela dell'ambiente; per non parlare del conserva­torismo della sensibilità: "acuire i sensi" è diverso- anzitutto per­ché risulta assai più vincolato - da "emendare i concetti" e da "cambiare i paradigmi".

l. Strumenti. Per illustrarlo in breve, può tornare utile una ta­bella, che articoli una considerazione elementare: c'è una diffe­renza cruciale tra il mettersi gli occhiali o le lenti a contatto e montarsi un telescopio o un microscopio sull'occhio. Gli occhia­li- anche quelli da sole, purché usati in una giornata luminosa o sono i riflettori-, cosl come le lenti a contatto, ripristinano una funzione necessaria per un essere umano nel suo mondo. Gli al­tri servono agli scienziati e nuocciono fuori della biblioteca o del laboratorio: provate a guidare con un microscopio sull'occhio; e soprarcuno provate a comportarvi identificando il mondo con gli schemi concettuali che ne avete. Viceversa, fate l'esperimento di prendere un caffè con un pigmeo, di andare in vacanza con uno hopi, di guardare una partita di calcio con un eschimese; a parer mio, non cambia più di ranco, mentre se la tesi della azione degli schemi concettuali sul mondo fosse vera, si spalanchereb­bero abissi, e forse sarebbe una impresa disperata. Come prova del nove, mettetevi a parlare di cosmologia con un pigmeo, con uno hopi e con un eschimese, con il vostro giornalaio e con un cosmologo di professione: ne sentirete delle belle.

Cosl, ci sono strumenti omologici, adibiti all'esperienza e alla sua protesi nella tecnica, e strumenti epistemologici, utili solo per la scienza.

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Tavola 7. Strumemi antologici e strumemi epistemologici

Esperienza Occhi Non accrescono una funzione, ma correggono una disfunzione rispeHo aunasseHoambicntalc

Tecnica

Scienza

Occhialidavim Occhiali da sole

Cannocchiali Binocoli da marina

Non ripristinano una funzione naturale(tranneforsei binocoli

Binocoli da teatro da teatro), però non promettono Lenti da ingrandimento un progresso infinito. Fanno Monocoli da gioiellieri ancora vedere ciò che ci sarebbe

accessibile ecologicamente da un altropumodi osservazione. Dunque, non visualizzano

Microscopi Telescopi

Nonservonoaniente nell'ambiemc, dunque non ripristinano una funzione. Servono allo sviluppo di una conoscenza infinita. Visualizzano

A questa tabella si potrebbe obiettare: se l'omologia è chiamata a dire quello che c'è, allora l'impostazione che suggerisci va malis~ simo, costretta com'è a negare l'esistenza di cose che invece sap­piamo benissimo che ci sono, come i quark o anche solo tutto ciò che attualmente non percepiamo; o ad affermare l'esistenza di co­se che sappiamo benissimo che non ci sono, come stelle esplose da milioni di anni, so rei verdi nel delirium tremens e simili.

2. Oggetti. Tuttavia, si consideri che le discontinuità qualitative proprie della scala antologica non appaiono interessanti - e in qualche modo risultano inaccessibili- dal puma di vista della fisi­ca semplicemente perché non giocano un ruolo importante nella struttura causale del mondo indipendememente dal loro imer~ vemo nella percezione. Sono un modo di delinearsi della realtà fì~ sica che diviene rilevante solo in relazione all'attività di un deter~ minato sistema percettivo, però non dipendono in alcun modo

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dalle nostre percezioni o credenze né, a fortiori, dai nostri linguag­gi o teorie. È il senso della inemendabilità, e la definizione della ta­glia della antologia, da cui discendono oggetti antologici e oggetti epistt!mologici, come nella tavola seguente.

Tavola 8. Oggetti antologici e oggetti epistemologici

-l Epincmologia Charms,quark,atomi,

molecole, C-fibre e reazioni

enzimatiche Bordcrline Virus, acari, inconscio

Ontologia Tavoli, sedie, montagne,

PO!.turmc, nervoso,scouarsi, 2+2=4,meui,chilomeui,

minuti, giorni, suoni tra i 20 e i

16.000 Hz

Bordcrline Venero: ,, Epistemologia Galassia

La taglia antologica riguarda una dimensione di oggetti che non risultano né troppo grandi né troppo piccoli, e che si com­misurano con la portata dei nostri sensi in condizioni ecologiche e con la durata media della vita umana. Vorrei sottolineare che non costituisce né un dominio marginale, né un campo banale, sia in negativo, sia in positivo: in negativo, non c'è una sola criti­ca all'eliminarivismo o al riduzionismo che non faccia appello, sia pure implicitamente, a una dimensione mesoscopica; in posi­tivo, non c'è una sola decisione giuridica, né di giustizia in gene­re, che possa prescindere dalla sfera della antologia, sia pure in veste di psicologia popolare. Tuttavia, mi si potrebbe opporre: in questo modo, la differenza tra antologia ed epistemologia dipen­derebbe da soglie di percezione (non è forse quello che hai appe­na mostrato con la tabella sulla caglia della antologia?), tali che i metri e i chilometri, i giorni e gli anni, riguarderebbero l'antolo­gia, mentre le distanze cosmiche o le dimensioni microscopiche, così come i tempi geologici, riguarderebbero l'epistemologia, al punto che già un acaro costituirebbe un oggetto epistemologico

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e non antologico. E, infine, la connessione fra l'antologia e l'e· cologia non offrirebbe che una riedizione del pragmatismo, in base al quale- contro ogni evidenza -le cose esistono solo per i nostri bisogni e scopi; di modo che, per un giro un po' più !un· go, si assisterebbe a una identificazione tra antologia ed episte· mologia, nella quale, semplicemente, le cose dipenderebbero non dalla scienza bensì dalla tecnica, e il mondo non apparter· rebbe solo all'uomo, ma - con un tocco di liberalismo in più -anche a qualche animale con una taglia compatibile con l'uomo. Tuttavia, non ho mai detto (almeno qui)~ 1 che l'antologia sia la fisica ingenua. Poiché la fisica ingenua non ci dice la verità delle cose, limitandosi a fornirci un potente strumento per falsificare l'idea di una identità archeologica tra scienza cd esperienza, non ci fornisce un resoconto della antologia, ma indica lo strato in cui hanno luogo le assunzioni antologiche. In secondo luogo, se c'è un equivoco possibile, riguarda piuttosto l'ecologia, che sem· bra definire positivameme un ambiente da idemificarsi con l'an· tologia. Però, nella antologia si incorpora la convinzione che ciò che c'è c'era prima di me e ci sarà dopo di me, ciò che per definì· zione non può valere in una prospettiva ecologica, dove l'am· bieme nasce con i suoi abitanti. Ecco il limite dell'ottica ecologi· ca: ridurre l'ambiente a qualcosa di accessibile all'animale, in luogo di pensare al mondo come ciò che c'è in assenza di qua· lunque animale.

3. Il mondo. Ciò che si incontra è in un mondo, che non è un oggetto, bensì la somma di tutti gli oggetti, un piano primario comune all'uomo, al verme e alla ciabatta, e non semplicemente in un ambiente diverso di voha in volta secondo gli esseri che lo popolano. Quanto risulta davvero caratteristico nell'incontrato è che lo si può incontrare o meno (il verme non incontra il rrian· gola di Kanizsa, perché non lo vede, noi non incontriamo i pro· toni); tutravia, mentre si potranno cambiare quanto si vorrà le teorie a proposito di ciò che si incontra, l'incontrato un11. volta che lo Ji Jia incontrato, non lo si potrà emendare: è così e non al· trimemi. t: proprio sulla base di un incontrato inemendabile che si costruisce un concetto di "mondo" che trascende quello di "ambiente", dove si può osservare come il riferimento all'"incon· trato" non abbia un valore puramente psicologico, ecologico o fenomenologico. Facciamoci caso: se dico "il mondo come lo co·

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MAURIZIO FERRARIS

nasco" o aJ limite "il mondo come lo incomro", posso far riferi­mento a schemi, concettuali e sensibili; se tuttavia dico "il mon­do come l'ho incontrato", ~ 2 mi riferisco a qualcosa di diverso: aJ mondo che c'era prima di me e che resterà dopo di me, al mon­do come era prima che lo conoscessi e come rimarrà quando smenerò di conoscere, fuori dai miei schemi concettuali o sensi­bili: a quel mondo che è prima della mia nascita e dopo la mia mone, dunque fuori di qualsiasi psicologia, ecologia o fenome­nologia, ma non senza di esse, poiché la loro funzione è quella di un differenziale che fornisce una scala di livelli della realtà.

Tuttavia, negare l'onnipresenza di schemi, concetti e scienza­e, soprattutto, la loro concatenazione teleologica -, ma non lari­levanza di strutture e capacità mentali naturali per la costituzio­ne dell'esperienza, depone certo a favore della circostanza secon­do cui la nostra esperienza perceniva non risulra mediata infe­renzialmente o concercuaJmeme; ma non procura un argomento per l'esistenza degli oggetti della nosua esperienza indipendente­mente daJie nostre capacità mentali. b dunque necessario un passo ulteriore per corroborare l'Argomento della Ciabatta: trac­ciare la differenza tra verità epistemologica e realtà antologica, spiegando in che senso il realismo ingenuo non vada confuso con l'empirismo, con la fenomenologia né con la filosofia del linguaggio ordinario, quanto dire con atteggiamenti che intrat­tengono, in forme sempre più tenui, un nesso genetico tra anto­logia ed epistemologia. Poi definirò in positivo la sfera del reali­smo ingenuo, e di Il andrò al mondo esterno.

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Seconda distinzione: verità/realtà

Empirismo. Non è vero che l'alternativa al trascendentalismo è l'empirismo. Sono due volti della medesima medaglia, in cui l'argomento trascendentale funziona a pieno tirolo: per il rra­scendentalismo, una esperienza direna non si dà in nessun caso, sicché bisogna trascrivere le teorie dell'esperienza all'imerno di un quadro di teorie della scienza che renderanno possibile l'espe­rienza; e se una te.~i del genere, a dir poco paradossale, viene spesso assuma senza reticenza, dipende dalla circostanza per cui il rrascendentalismo risulta parassitario rispetto all'empirismo, condividendone il principio di una reversibilità senza residui tra scienza ed esperienza. Il caso di Kant è paradigmatico, perché, alla base della scelta di idemificare il reale con la fisica matemati­ca, giaceva l'idea che il mondo sia essenzialmente contingeme, vale a dire incapace di fornire conoscenze certe. Ora, neanche cosl si sarebbe potuto dar fiato a un argomento radicalmente scettico, però Kam non era del medesimo avviso: fra la certezza al 100% e la probabilità al 99% si scaverebbe un baratro, ben più profondo della differenza tra la probabilità al 99% e quella all'l%; che quest'ultimo caso appaia nettamente implausibile, e il primo altamente probabile, non concerebbe.

Tuttavia, come sarebbe grave pretendere c~e per parlare si debbano conoscere le essenze di ciò cui si riferisce, e che per ma­nifestare un dolore o usare uno strumento se ne debbano cono­scere, con competenza fisiologica o tecnologica, cause e modi di funzionamento, così la vita si rivelerebbe impossibile se non po­tessimo operare generalizzazioni induttive basate su un numero

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MAUIUliO f-ERRARIS

anche esiguo di casi. Pretendere che non ci siano induzioni legit· rime a meno che non si sia esaminata la casistica completa, o al· meno si sia dimostrato che il contrario è falso, ci consegnerebbe alla paralisi. In effetti, procedo per induzione dicendo che l'A· driarico è salato, il Baltico è salato, il Caspio è salato, dunque tutti i mari sono salati; ove poi si constatasse che il Baikal non è salato, si concluderebbe che tutti i mari lo sono, tranne il Baikal, ovvero che il Baikal non è un mare. Il preteso fatto ignoto non disturba in alcun modo l'induzione precedente. Non così per Kant: dall'esperienza non si può ricavare alcuna certezza, se la certezza che chiediamo è quella che ci assicura la matematica, SU·

bito, e la scienza, ma in un tempo infinito, dunque di fatto mai, però di diritto sempre; e, per un sistema basato sulla pura espe· ricnza e insieme bisognoso di certezza geometrica, la dissoluzio­ne scettica risulta inevitabile: siamo cerci di esistere, mentre ab­bi~m_o ragione di du~itare di tutto il resto, anche del modo in cu1 c1 auto-rappresentiamo.

Il difetto, al solito, sta nel concepire l'esperienza come il pre­cursore della scienza, c non come una sfera autonoma, e qui si tocca una difficoltà tradizionale. L:immagine aristotelica dell'e­spericnza,H per cui la fuga delle sensazioni, al modo di un esercì­w in rotta, a un certo punto si arresta, come quando un soldato smette di fuggire e rincuora i compagni, di modo che la falange si ricompatta, omette di spiegare il punto critico: un bel mo­mento, non si sa bene come né perché, la fuga disordinata delle sensazioni si ferma e si riorganizza in una compagine coerente. Tuttavia, perché mai dovrebbe farlo, se non possedesse già una organizzazione interna? Una simile concezione è forse la cosa meglio distribuita nel mondo, vigendo anche in rappresentazio· ni platoniche della nascita della scienza: l'immagine iniziale di 2001 odissea nello spazio, in cui- dopo che la geometria è caduta dal cielo sotto forma di monolito nero e liscio - lo scimmione lancia in aria un osso divemato, per lui e di un tratto, una clava che si trasforma in astronave, traduce in termini di continuità una discontinuità di fondo. Le clave servono agli scimmioni, agli aborigeni, a noi stessi in certe circostanze, e non rappresentano minimamente le antenate imperfette delle astronavi, laddove le teorie dei presocratici costituiscono i rudimentali precursori del­la fisica contemporanea. Cosl,.Je clave e i poemi Perì physeos pos-

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sono venire assimilati solo a condizione che si concepisca l'espe­rienza come tcleologicamente proiettata verso la scienza, con ri­cadute pesanti, e in particolare quella di pensare che la maggior parte dell'umanità, tolto un manipolo di scienziati di punta, non abbia un mondo, bensl un canovaccio approssimativo di pregiu­dizi, teorie incompiute, domine sballate, sicché la vita sarebbe la favola incoerente raccontata da un pazzo.

Entrambe le versioni, l'aristotelica come la platonica, vanno riviste, giacché descrivono due cose distinte: da una parte, una dottrina della verità, dove forse possono funzionare, almeno in teoria e secondo talune descrizioni; dall'altra, una fenomenolo­gia della realtà, dove ben difficilmente possono venir ricevute. Se il ricompattarsi dell'esercito in fuga risulta puramente aleatorio, e non appare invece condizionato dalla natura delle cose e delle loro relazioni, non si capisce perché mai le nostre e altrui espe­rienze esibirebbero una così notevole costanza, e sopranuno per­ché, se invece il tribunale dell'esperienza non conduce le proprie indagini volta dopo volta, bensì riesamina le credenze tutte insie­me, possa giungere un momento in cui si decide di avviare la re­visione. Di nuovo, per come la cosa vien messa di solito, il mo­mento dovrebbe o non venire mai, oppure andrebbe essere ri­messo all'arbitrio del giudice; e l'apparente auto-organizzarsi dei dati, come quando scriviamo la nostra autobiografia o facciamo il punto sulla situazione, è possibile solo perché dobbiamo pren­dere una decisione o formulare un verdetto su noi stessi, cioè ha luogo sotto l'impulso di una pressione che viene dal mondo esterno. Se d'altra parte (venendo alla versione platonica) la geo­metria cadesse dal cielo, ossia avesse inizio un giorno, per un protogeometra, fosse Talete o chiunque altro (nella fanispecie, uno scimmione), ma comunque per un singolo, allora neanche per questa via risulterebbe vero che l'esperienza costituisce l'an­tefatto della scienza, giacché solo certi scimmioni sono arrivati alle astronavi, e gli altri si sono fermati alle clave.

Se queste descrizioni non funzionano, è perché mettono la realtà all'origine della verità, mentre è vero il contrario: la verità non risulta archeologicamente fondata nella realtà; è teleologica­mente ordinata verso di essa: gli astronomi non guardano più le stelle, però le stelle, in quanto osservabili a occhio nudo in una notte chiara, continuano a costituire l'oggetto dell'astronomia.

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La distinzione tra fatto e diritto costituisce una norma, ma al suo interno racchiude l'idea della possibilità di riscontrare, in un tempo più o meno lungo, il fatto con il diritto. La possibilità di riscontro con la realtà ostensibile e percepita è dunque imma­nente alla verità, che tuttavia non vi si identifica, giacché le espe­rienze possono aver luogo indipendentemente dal sapere. Chiunque faccia una scorpacciata di acciughe sotto sale la sera va incontro alla concreta eventualità di patire sonni agitati da una digestione difficile c dalla sete; dai tempi di Aristotele (il primo del quale- che io sappia- sia stata tramandata l'osservazione, il che non significa che non la si possa forse trovare in qualche pa­piro della quarta dinastia) sono state elaborate svariate classifica­zioni naturalistiche delle acciughe, il sale e le sue proprietà sono stati organizzati e spiegati in moltissimi modi, la fisiologia della veglia e del sonno è stata sottoposta a un gran numero di descri­zioni scientifiche, si sono formulate tantissime teorie del sogno ecc. Eppure, anche oggi, se prima di coricarmi mangio un barat­tolo di acciughe sono sale, facilmente sarò soggetto a sonni agi­tati, sia che conosca lo stato attuale di iniologia, chimica e fisio­logia, o addirinura ne conosca la storia, sia che non ne sappia proprio nulla, magari neppure per esperienza personale (ponia­mo che sia la prima volta che le mangio, o persino che le vedo).

Fenomenologia. Non per questo l'onrologia si identifica con la fenomenologia, giacché parlare di "fenomeni" significa riferirsi a ciò che per definizione è un momento transitorio, destinato a trovare la sua verità altrove, mentre non si capisce per quale mo­tivo le cose dovrebbero essere diverse da come appaiono, né per­ché ci si debba accontentare di possedere eide nella coscienza, quando poi si schivano automobili e moscerini e non àde.

Questa è l'intima debolezza della fenomenologia. Per Hus­serl, diversamente che per il posirivismo, non si tratta di ricono­scere l'unica realtà nel mondo indagato dalle scienze della natu­ra; e, diversamente dallo storicismo, non è questione di isolare un campo parallelo, il mondo dello spirito, da contrapporsi al mondo fisico. È piuttosto questione di indagare il reale, sia fisico sia psichico, cercando di stabilire leggi necessarie, e superiori a quelle delle scienze naturali, giacché queste ultime risultano sì più esa ne di quelle storiche, la storia ripetendosi più approssima-

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rivameme della natura, però si rivelano congetturali in un modo ancora più insidioso e decisivo. Mentre il mondo dello spirito­non di quello di Giulio Cesare, ma di ognuno di noi quando si osserva- appare indubitabilmente presente, quello della natura è Il fuori, ci sembra che ci sia, tuttavia non ne sappiamo niente, sicché tuno ciò che dicono le scienze naturali pouebbe risultare radicalmente falso. Però - si potrebbe obiettare e in effetti si è obiettato - pare assurdo pretendere di conoscere datità senza avere a che fare con l'esperienza. Se Husserl non poteva accon· sentire a una simile ovvietà, è perché identificava l'esperienza con la scienza, sicché ogni riferimento a dati gli sarebbe apparso come un cedimento di fronte alla fisica, il che lo induceva a so­stenere che quando la conoscenza eidetica contrasta con l'cspe· rienza, bisogna correggere quest'ultima, diversamente da ciò che avviene con le leggi di natura.

Nondimeno - è il mio punto fondamentale - chiaramente non è cosl: a una scienza della natura importa abbastanza poco constatare che un quadrato di un certo colore appare, infallibil­mente, più chiaro o più scuro a seconda dello sfondo su cui è po­sta; ma a chi voglia parlare delle proprietà del mondo esterno importa eccome, basti pensare a quanto decisivi siano gli acca· stamenti nel vestiario, nelle arti visive ecc. Tranne che non si avrà più alcun motivo per parlare di "fenomeni": l'appello all'imma· nenza di coscienza che caratterizza la fenomenologia trascenden­tale non pare corrispondere alla maniera in cui ci rapportiamo alle cose nel mondo; e, reciprocamente, sembra assumere che l'approccio della scienza consista in una presa diretta con la realtà, la quale, ovviamente, viene assunta come il presupposto naturale delle nostre teorizzazioni: l'atteggiamento naturale, qui, è l'atteggiamento natura/iter scientifico. Così, nel momento in cui si sospende l'esistenza, si è tolto un pezzo decisivo per l'onta· logia, sebbene epistemologicamente la rappresentazione possa ri· sulcare più adeguata, giacché una carta può tornare più utile di una fotografia, e quest'ultima più maneggevole di una cosa. L'e· pochè tocca il pensiero, non l'esistenza, ma allora tanto vale diri­gersi esplicitamente verso una antologia realista.

Filosofia del linguaggio ordinario. Se il prurito è questo, tutta· via, perché non riesumare la filosofia del linguaggio ordinario?

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Ora, è vero che in poltrona, al pomeriggio, si fanno teorie, !ad­dove il linguaggio ordinario è come la ruota o come il filo per ta­gliare il burro, sedimentando consuetudini srrarificate in genera­zioni e generazioni. Nondimeno, in poltrona o sul lettino si può anche usare il linguaggio ordinario per dire, magari anche cre­dendoci, che la Luna è fatta di formaggio, o escogitare terapie as­surde e nocive. Il linguaggio costituisce effettivamente, in quan­to atrività intenzionale e concettuale, la manifestazione di una credenza, sicché può benissimo dar voce a una prato-scienza o a una pseudo-scienza. Inoltre, appare instabile, soggetto com'è alla coscienza linguistica del parlante, anche nel lessico della perce­zione, mentre un tiratore sceho non ha una esperienza visiva si­gnificativamente diversa da un miope non grave, che vede le co­se più sfuocare, però non più piccole, o lontane, di un altro colo­re, di forma diversa ecc. E allora si ha buon gioco a obiettare che il linguaggio naturale detiene un primato di fatto e non di dirit­to, di modo che non può venire considerato "sacrosanto". Così, vorrei prima tentare una difesa di una validità relativa del lin­guaggio ordinario, e poi mostrare come, se la difesa è possibile, dipende essenzialmente dalla circostanza secondo cui il riferi­mento primo di una antologia non è linguistico.

l. Revisione locale e revisione globale. Barry Smith, nel quadro di una interpretazione del mondo della vita in Husser1;44 discor­re a giusto titolo di una differenza tra revisione locale, cui l'espe­rienza del senso comune può venire sottoposta, e revisione glo­bale, cui invece si sottrae per essenza. La versione concorda con l'ipotesi che ho esposto più sopra secondo cui il più emendabile, la scienza, si confronta con un meno emendabile, l'esperienza. È una variabilità periferica non delle esperienze, bensl delle creden­ze circa le esperienze a fronte della stabilirà dell'impianto generale che le sostiene. C'è, nello stesso linguaggio, più di una sfera che non ha a che fare con la scienza: non solo l'ambito del performa­tivo, ma anche una grande quantità di espressioni che non pos­sono trovare una traduzione scientifica. Le streghe e gli angeli possono essere facilmente messi fuori gioco in una prospeniva riduzionista, ma il lessico della psicologia popolare no. C'è un senso in cui "ho male al piede", "sono triste", o anche "pa[Urnie" e "nervoso", non può essere trascritto in termini scientifici, non più di quanto "ecciterai le tue C-fibre" non traduca "ti scotterai",

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e di quanto "Lei ha avuto una infanzia difficile", detto da un ipotetico analista a Hitler, uni le nostre intuizioni morali fonda· mentali. Inoltre, l'epistemologia, alla quale abbiamo accesso at· traverso gli schemi concettuali, ci parla di atomi e di galassie; del pari, si possono studiare le reazioni enzimatiche dei cervelli degli uomini cosl come dei cani e dei cavalli. Però non si sono mai ci· rari in tribunale cani o cavalli, né atomi o galassie, così come le forme di psicologia ingenua che governano i nostri comporta· menti e i giudizi sui comportamenti altrui (''è stato sgarbato", "vorrei un bicchier d'acqua") non si prestano a venir ridotte a reazioni enzimatiche. Dunque, a questo livello, gli schemi con· cenuali della epistemologia non tengono, o intervengono solo in circostanze speciali e problcmatiche, come quando si convocano periti psichiatrici nei tribunali. Infine: chi mai si sognerebbe di emendare Delitto e cauigo? Eppure ci troviamo nel linguaggio or· dinario, che nel caso della letteratura sembra capace di creare og· getci di riferimento inemendabili quanto le case e i tavoli, dun· que di allargare l'antologia.

2. Le streghe possono tornare. C'è un secondo argomento: dav· vero le streghe non possono tornare? In fondo, la critica dellin· guaggio ordinario poggia sull'assunto che la percezione, e illin· guaggio che si forma sulla sua base, sia contingente, mentre la scienza è definitiva; laddove non è difficile vedere che è vero, al· meno in moltissimi casi, il contrario. Storicamente, è facile da constatare. La scienza non ha accresciuto la certezza, ma lo scet· ticismo, non per ragioni contingenti, bensì per morivi imma· nemi al concetto di "scienza" come ricerca infinita della verità, Oggi è H 20, domani chissà cosa sarà, c tutto quello che so è che l'acqua si può bere, si può ghiacciare, si può bollire, si può usare per lavare o per far venire i reumatismi ecc.: tutte cose alla porta· ta di un liquido che avesse le medesime proprietà dell'acqua ma una diversa composizione molecolare; e anche le vedute sul pas· saro possono cambiare, non con la rapidità della enciclopedia so· vietica, ma quasi. Diversamente vanno le cose con l'esperienza. Non diciamo: "Oggi è una sedia, domani chissà cosa diventerà", uOggi è un dito, ma verrà il giorno in cui sarà tutt'altro", "Oggi è oro ma potrebbe trasformarsi in piombo". Se le cose stanno in questi termini, tuttavia, l'impianto epistemologico fallisce in modo lampante proprio sull'esigenza di ribattere allo scettici-

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smo. Fare della scienza il migliore dei paradigmi dell'esperienza, o, più sbrigativamente, assumere che l'esperienza non è che il so­prannome popolare della scienza, è per I' appunto come dire, di fronte all'acqua: "Oggi è H 20, domani si vedrà". Il che significa almeno due cose: dal punto di vista della riferenza, suscita pro­blemi che iniziano nel passato (quello che Archimede chiamava chrysos è davvero il nostro oro?), proseguono nel presente (quan­do Pucnam dice "olmi", di che parla, visto che confessa di non saperli distinguere dai faggi?), c si proiettano verso il futuro (che cosa vorrà dire, fra cento anni, "sclerosi a placche"?); da quello della antologia, i problemi appaiono anche più seri, e ridanno fiato, loro malgrado, alla pretesa del sapere assoluto: se non so tu no di una cosa e delle sue relazioni, se non so tutto di tutto, è come se non sapessi niente. Nondimeno, anche a scartare l'iper­bole, che peraltro risulta immanente al discorso sulla inaffidabi­lità della induzione, che poggia sul problema dell'infinito, resta che uno sguardo scientifico comporta un mondo capovolto nel quale ciò che si manifesta sensibilmente è apparenza, giacché la verità risiede nei numeri, nelle molecole, negli atomi, nei quark ecc. In altri termini, come il visitatore di una galleria d'arte si li­miterebbe, per la teoria che vuole che l'arte sia soltanto l'appari­re sensibile dell'idea, a vedere le vestigia o i promemoria dei con­certi degli artisti, così chi estendesse sistematicamente l'ipotesi della scienza come miglior paradigma dovrebbe ammettere che sedie e bistecche offrono solo apparenze incomplete, e in fondo mere abbreviazioni di definizioni più complesse, quasi che fosse­ro modi di dire popolari o proverbi.

3. Verità processuale. Un terzo argomento dimostra come esi­stano sfere pubbliche di esperienza in cui la fisica non vige come miglior schema concettuale. Non parlo dei riti vodoo né del Ma­go Orelma, bensl dei tribunali. Poniamo che una conduttura del­l'acqua male installata provochi un allagamento al piano di sotto. T uni ammetteranno che è una infiltrazione d'acqua, e al massimo si tratterà di stabilire se la responsabilità vada addossata all'idrauli­co, al proprietario che aveva chiuso male un rubinetto, o magari (è meno probabile, non solo alla luce di Newton, ma anche di Ari­stotele e di Esopo) all'inquilino del piano di sotto. Chiunque do­vesse testimoniare, direbbe: c'era dell'acqua. Immaginiamo inve­ce che la norma secondo cui la sola verità è quella della fisica ve-

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nisse applicata in questo caso. Tutti direbbero "ddl'H20 è filtrata al piano di sono", però non potrebbero dirlo con pari certezza, giacché non solo non si può escludere che si trattasse di un liquido con tutte le apparenze fenomeniche dell'acqua, però con una dif~ ferente composizione chimica- poniamo che fosse x:iZ, come nelle Terre Gemelle di Putnam: si dovrebbe convocare un perito per accertarlo-, ma soprattutto nessuno potrebbe sostenere che l'acqua è H 20; lo è adesso, alla luce di ciò che dice la scienza, ma, sempre alla luce di ciò che dice la scienza, non si può escludere che prima o poi la si battezzi e la si conosca in un altro modo. Così, in fondo, anche il perito non potrebbe veramente giurare che c'era dell'H20: dovrebbe asserire che c'era ciò che allo stato attuale delle conoscenze si chiama così, pur non essendo escluso che uno svi· luppo ulteriore della scienza dimostri che si trattava di qualcos' al· ero. Perciò accade talvolta nei tribunali che la verità venga sancita per legge, altrimenti le prove non risulterebbero inquinate dai ce~ stimoni e dagli imputati, bensì da scienziati che, in un altro posto, e probabilmente in un altro tempo, stanno ribattezzando le cose e stanno formulando nuove leggi. In ahri termini, se si facesse sem· predipendere l'accertamento ultimo della realtà dalla scienza, non solo si perverrebbe a risultati paradossali, ma si emetterebbe una cambiale destinata a non essere mai onorata, non per cattiva vo­lontà, bensì, proprio al contrario, perché la ricerca non ha mai fi. ne. È ancora caratteristico che i criteri adottati nei tribunali abbia~ no spessissimo poco o nulla da spartire con l'essenza, e ben più di frequente riguardino la forma o la funzione: il divieto di accesso ai motocicli vale anche, estensivamente, per veicoli che non avessero motori a scoppio, che non usassero ruote ma cuscini, per slitte ti~ rate da renne ecc. Insomma, il problema delle Terre Gemelle sus· sisterebbe solo per il nucleo antisofisticazioni, costituendo l'ecce· zione, non la regola: e quando si invoca che il sangue non è acqua non ci si riferisce alla chimica, bensì a quello che si vede. Certo, esiste tra gli islamici un modo strettamente nominalistico per ag· girare il divieto degli alcolici, consistente nell'astenersi dal consu· mare il vino e la birra, menzionati nel divieto, e nel bere soltanto alcolici non menzionati, come whisky, vodka, gin, al limite Ama~ reno di Saronno. Uno potrebbe sostenere che, criticando la me~ schineria di chi ricorra a simili mezzucci per truffare l'Onnipoten~ te (e, nella fattispecie, non Onnisciente), non ci si appoggia all'ap·

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parcnza fenomenica, c ci si appella piunosto a proprietà essenzia­li. Non credo, malgrado tu no, che si abbia a che fare con un vero controargomento, giacché l'estensibilità del divieto ad alcolici non citati nel Corano poggia sulla identità, facilmente rilevabile a livello fenomenologico, dei loro effetti.

4. Nervoso, pttturnie e scuse. Si è inoltre leginimamente osser­varo45 che il sistema delle scuse costituisce un potente arsenale di assunzioni antologiche cui si concede a torto o a ragione Una plausibilità di fondo, e il ragionamento può venire esteso a tutta la sfera della "verosimiglianza". Nello scusarsi sono ammesse fra­si come: "Lho farro senza pensarci"; ''Avevo il nervoso"; "Non lo sapevo"; "Credevo che". E non è un dettaglio, anche se bisogna distinguere. Da una parte, ci sono scuse epistemologiche, come tali storicamente condizionate: oggi, in un tribunale, non sono ammesse giustificazioni come "un extraterrestre mi ha imposto di sfìlani il porrafogli" (ma può darsi che un giorno lo si ammet­terà) o "un demone interno mi ha ingiumo di non sottrarmi al giudizio" (ma c'è stato un tempo in cui era plausibile); mentre ci sono srati casi in cui in tribunale si è invocata la teoria delle per­sonalità multiple. D'altra parte, però, ci sono scuse ontologiche, che fanno riferimento a un ruolo grammaticale della psicologia popolare, risultando così refrattarie a una revisione storica in tempi osservabili: "Ci ho pensato bene, e poi ti ho dato un ceffo­ne" non suona come una scusa, bensì come una deliberata assun­zione di responsabilità, così come "Sapevo benissimo che pre­mendo quel pulsante avrei causato una catastrofe, perciò l'ho premuto" è il modo migliore per finire in galera; e una frase co­me "Non avevo il nervoso, e così mi sono comportato in modo sgarbato e brutale" costituisce semplicemente una provocazione. Certo, la strada non risulta troppo piana, giacché il mondo del­l'esperienza è un bric-à-brac stipato di ogni sorta di oggetti: no­zioni di scienza penetrate nell'uso comune ("paturnie", ''Alzhei­mer" invece che "rimbambimento"), espressioni irriducibili a una traduzione scientifica ("paturnie", "nervoso"), teorie di senso comune sui modi in cui ragioniamo e in cui dovremmo ragiona­re, e infine modi di percepire il mondo, refrattari a tutto dò che sappiamo in materia. E non si tratta della stessa cosa, perché possiamo emendare parti del senso comune, magari non il "ner­voso" e le "paturnie", ma cerro il "rimbambimento", allo stesso

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modo che siamo in grado di correggere le credenze intorno alla generazione spontanea o alla caduta dei gravi, ma non possiamo vedere la Terra rotonda, né ci riesce, nel ragionamento quotidia­no, di far sì che il modus tollens risulti alcrectamo evidente che il modus ponens.

5. ''Mi fa male qui". Il ricorso al linguaggio ordinario non è un errore quando riguardi l'esperienza in quanto tale, bensì al­lorché pretende di formulare, fuori da una competenza ricono­sciuta, asserzioni dotate di qualche vigore scientifico. Nel mon­do dell'esperienza, le restrizioni legate all'essenza, in quanto composizione interna della cosa, non godono di un corso indi­scriminato (un como è vedere se nella macchina ci sono turri i pezzi, un altro se ci sono curti gli atomi), non più di quanto ri­sulti sensato, in un contesto comunicativo normale, dire: "vedo il rredicesimo specchio del telescopio" invece che "vedo Sirio", oppure premettere "secondo me" a ogni affermazione, compresa la risposta alla domanda "che ora è?" Poniamo inoltre che dices­si: "Vai a prendere quella penna che mi pare blu sul tavolo che mi pare marrone"; di fronte a un ordine del genere, l'imerlocu­tore sarebbe indotto a domandarsi di che cosa io stia veramente parlando, e quale penna, di quale colore, debba cercare, su quale tavolo; e poi se quella che pare a mc una penna sia davvero una penna. Probabilmente l'interlocutore si chiederà se sto bene. Al solito, la pretesa di cogliere le essenze, di per sé interamente le­gittima, non procura, se trasferita in un ambito improprio, una maggiore certezza, ma, al contrario, porta acqua al mulino del relacivismo. Così, e a maggior ragione, per la pretesa di rendere irrilevante l'effetto riducendolo alla causa: mentre nel caso delle essenze pare lecito sperare in un consenso quantomeno all'imer­no di una cultura omogenea, in quello delle cause il dissenso può rivelarsi ingente anche tra gli esperti: un mal di resta può avere varie cause, e risulterebbe davvero imbarazzante se non potessi dire "ho mal di testa", e fossi costretto a formulare una diagnosi. Se, assecondando le mie ipotesi pessimistiche, dichiarassi: "Ho un mmore al cervello", probabilmente alcuni mi risponderebbe­ro "no, lei non ha un tumore al cervello", altri formulerebbero diagnosi diverse; nella peggiore delle ipotesi, qualcuno mi dareb­be ragione. Dopotutto, appare ben più ragionevole tagliare corto e dire "ho mal di testà'. E si noti che, almeno nel caso del "tu-

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MAUitiZIO ~ERRAIUS

more al cervello", disponevo di una referenza, mentre il paziente che va dal medico lamentando una artrite aHa coscia (suscitando b. domanda: costui si sta riferendo a qualcosa? E, se sì, a che co­sa, giacché non si possono avere amici alla coscia?), avrebbe fatto mille volte meglio a dire di avere male alla coscia o, meglio anco­ra, alla gamba. Sarebbe stato perfetto indicare la parte indolenzi­ta e dire: "Mi fa male qui".

Realismo ingenuo. Cartesio ironizzava sulla circostanza per cui il senso comune appaia la cosa meglio ripartita nel mondo. Tue~ tavia, il senso comune risulta generaJmente adeguato ai suoi sco­pi, non per un qualche accesso speciale alle cose, che lo porrebbe in una posizione vantaggiosa rispetto alla scienza (è un assunto incredibile e controinruirivo, giacché allora ci si metterebbe a far scienza solo per imbrogliare la matassa), bensl perché risulta eco~ logicamente adeguato. Se tuttavia il buon senso può appoggiarsi a quanto è nudamenre percepito, risulta chiaro che una simile sfera non appare introvabile perché o troppo rozza o troppo sot­tile: al con erario, è pubblica c stabile, vaporizzandosi solo quan­do accede all'orizzonte di una scienza possibile. Lo stesso può dirsi della percezione: è senza processi inferenziali, innata, velo­ce, immediata, inevitabile, srrutturata come un tutto, e tale da postulare che l'informazione risulti sempre sufficiente, ossia non abbisogni di integrazioni,46 se non altro perché non è elettiva­mente orientata alla conoscenza. Ceno possiamo qualificare il nostro rapporto con le cose in termini di credenza (''Credevo che l'acqua fosse fredda, e invece mi sono scortato"), ma appunto siamo già sul piano di una descrizione di secondp livello. Quan­do ho awicinaro le mani alla pentola, non credevo proprio nien~ te, avvicinavo le mani e basta; soprattutto, quando nello scolare la pasta uno schino mi scotta la gamba, non credo che l'acqua mi scotti, mi scotto; proprio come il pirroniano del Mariage forcé, che smene di dire "credo che mi battiate", e riceve i colpi come effettivi e reali giacché li percepisce, non perché pensi che siano veri (il pirroniano continua a ritenere che siano apparenti, d'accordo con la sua teoria). Del pari, chi cammina per strada senza pensare che la Terra è rotonda non pare assimilabile a chi asserisca la legittimità dei sacrifici umani a scopo ritua1c, e il

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punto è decisivo: segnando una differenza tra vedere e pensare, assicura il passaggio dal senso comune al realismo ingenuo.

Quando assumo che esistono tavoli, sedie, colori, che manife~ stano proprietà e costanze indipendentemente non dico da ciò che ne so, ma addiriuura da quanto ne penso, non mi com porro da crascendentalista, ma non sono nemmeno intento, come po~ rrebbe esserlo un empirista, a verificare se simili proprietà risulti~ no sufficienti per stabilire una legge. Non enuncio nemmeno una credenza: che io sappia, nessuno si è mai sognato di fondare religioni percenologiche, dove i credenti si prosternano di fronte a una qualche illusione ortica o si genuflettono davanti a un co~ !ore. Come osservava a giusto titolo Wittgensrein nella sua cri ti~ ca a Moore, in Della certezza ma già nelle Ricerche filosofiche, non ha senso sostenere che un enunciato come "ho due mani" costi~ wisce una verità; si trana piunosto di una ovvietà e di una realtà, che non mette conto di essere considerata come una scienza né come la base per un sapere, sebbene procuri la teleologia di ogni scienza nel momento in cui deve fare i conti con il mondo. Se un giudice islamico dispone che si tagli una mano a un ladro, non crede per scienza che il condannato possieda almeno una mano, giacché: "So di avere due mani" non equivale a: "So che Napo~ leone è nato nell769".47 La mano, non posso emendarla, posso cagliarla, mentre sono in grado di correggere chi creda che Na~ poleone sia nato nell768. Reciprocamente,48 non ha senso ordi­nare una birra "piccola, chiara e reale''; magari potrei dire "voglio una vera Ceres", nel caso mi avessero dato una Corona, per sba~ glio, anche se suona vagamente ironico (ma, lo si ammetterà, non quanto "voglio una Ceres reale"). Così, il realismo ingenuo non costituisce l'origine della scienza, né un "sapere di sfondo" da cui muoverebbero le teorie, bensl ciò verso cui la scienza deve teleologicamente rivolgersi senza tuttavia sperare di poter trarre sistematicamente dei fondamenti affidabili per le proprie teorie. Diversamente da Moore, non mi sogno minimamente di elenca~ re tutte le cose che sono evidenti per me, mi impattano piutto~ sto le soglie che né io né voi porremmo oltrepassare: che non si dia concordia necessaria tra il mondo incontrato e quello pensa~ to ed emendato costituisce, cosl, la roccia che oppone resistenza agli schemi concettuali, ma non la pietra su cui si può pensare di edificare un castello di teorie alternative.

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Terza distinzione: mondo interno/mondo esterno

Autonomie e antinomie. Donde il valore paradigmatico della fisica ingenua, che mostra come il mondo copernicano non rap­presenti necessariamente la verità del tolemaico, e come que­st'ultimo cosdtuisca un livello di realtà con cui anche il mondo copernicano deve fare i conti; solo perciò la fisica ingenua assu­me un valore normativa rispetto alle teorie, definendosi più co­mc telos e come elemento di falsificazione del sapere che non co­me strato autonomo di verità. Se la fisica ingenua assicurasse il presupposto delle nostre teorie, dovrebbe risultare o falsa o vera: ave fosse falsa, cadremmo nella classica situazione in cui l'espe­rienza costituisce il triste precursore della scienza, e di n a poco ci troveremmo a collezionare illusioni ottiche e a biasimare l'occhio che non vede e l'orecchio che rimbomba di suoni illusori; ove poi fosse vera, saremmo costreni a giurare sul geocentrismo, sul­la generazione spontanea delle farfalle dalla corruzione della car­ne, e a credere che i gravi più pesanti scendano più velocemente di quelli più leggeri, c che le ruote a raggi delle Jaguar girino al contrario del senso di marcia del veicolo. Però la fisica ingenua non è un deposito di verità, bensl un ripostiglio di falsificazioni della ipotesi di un continuismo tcleologico tra esperienza e scienza. Cosl, alla filosofia c alla scienza, la fisica ingenua dice so­lo che il telos non è necessariamente nella physis. Adottando la fi­sica ingenua come reagente, si possono trovare tre distinzioni principali tra mondo interno e mondo esterno.

l. L'autonomia dell'estetica rispetto alla logica, vale a dire l'indi­pendenza della percezione da schemi concettuali o, in positivo,

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l'esistenza di contenuti non concettuali. Dopo aver rilevato a suo tempo l'inconsistenza onrologica della resi secondo cui le intui­zioni senza concetto sono cieche, mi propongo di dimostrare che l'idea della contingenza della percezione costituisce solamente l'e­sito della indebita trasposizione della epistemologia nella antolo­gia, tale che la contingenza di leggi non percective tratte dalla per­cezione viene dogmatizzata nella contingenza della percezione.

2. L'antinomia dell'estetica rispetto alla logica. Invece che trova­re nelle costanze del mondo osservato i sostrati della logica e del­la scienza (denunciando le presunte irregolarità come inganni percenivi), conto di dimostrare che le imputazioni addossate alla percezione rappresentano una iperbole dell'assunto secondo cui percepire non sarebbe che l'oscuro antefatto del sapere; e lo si può capire esaminando in quali e quanti casi il pensare risulti di­verso dal vedere. Cos}, sebbene l'appello alla antinomia possa ap­parire ridondante, è decisivo: non basta dire che gli schemi per­cettivi sono indipendenti dagli schemi concettuali, perché poi si potrebbe sostenere che i primi sono la preforma dei secondi, mentre le asimmetrie tra vedere e pensare diventano rilevanti proprio per revocare in dubbio la legittimità della releologia.

3. L'autonomia del mondo rispetto agli schemi concettuali e per­cettivi. :t. lo scopo verso cui mi sono diretto sin dall'inizio. E conto di dimostrare che il riconoscimento di una autonomia del mondo non può venirci né dalla contrapposizione immanente/trascen­dente, né, propriamente, da un esterno contrapposto all'interno­qualora si assumesse che si tratta di una polarità topologica -, bensl dal riconoscimento di un esterno agli schemi concettuali e percettivi: esterno perché essenzialmente inemendabile.

Per capire in sintesi che cosa intendo con l'appello ad autono­mie e antinomie, prendiamo l'immagine della pagina seguente:

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Ecco una scena commovente: un signore sui sessanta, con l'a­ria stanca, passa in rassegna dei ragazzi in uniforme, piuttosto malmessi anche loro. Il signore guarda i ragazzi con occhio affet­tuoso, e ogni osservatore si commuoverebbe per quel che vede. Se il trasporto, però, viene trattenuto, è perché ogni osservatore adulto della nostra epoca sa che il signore di mezza età è Adolf Hitler, che passa in rassegna una unirà della Hiderjugend che si schiera alla difesa di Berlino. Qui dunque (z) vediamo una perso­na; (iz) proviamo dei sentimenti; (iù) li censuriamo, in base a ciò che sappiamo di quella persona. Già a quesro livello altamente culturaliz.zaro assistiamo a un contrasto tra il vedere e il pensare. Figuriamoci poi quando vediamo la Terra piana pur sapendo che è rotonda.

Autonomia dell'estetica rispetto alla logica

Critica del trascendentale. Incominciamo dalla autonomia, che non si configura come un manifesto sensista - giacché in moltissime occasioni posso aver ragione di dubitare dei miei sen-

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si - bensl come il tentativo di dare scacco al trascendentale in tre mosse: (l) roccandone il presupposto, la necessità dei concetti per i percerri, quindi (2) mostrando la fallacia del passare dal "puoi" al "devi" in ogni ambito dell'esperienza, e infine (3) sot­tolineando che il mondo funziona benissimo anche senza tra­scendentale.

l. Il presupposto. Incominciamo dalla ragione di fondo per cui, contro ogni evidenza, si è inclini a escludere che l'estetica possa stare senza la logica, e magari a stabilire l'equivalenza, tan­to largamente arresmta quanto fondamentalmente immotivata, estetica = irrazionale; ossia prendiamo le mosse dall'idea della contingenza della percezione. L ipotesi, assunta come un dogma, sorge dalla metabmù eù allo ghenos che abbiamo ravvisato nell'a­buso empiristico dell'induzione: che io non riesca a formulare una legge universalmente valida a partire dalla induzione si am­plifica e deforma in un argomemo contro l'affidabilità delle con­statazioni offerreci dalla percezione; quanto dire che il carattere solo probabile della induzione viene assimilato alla possibilità dell'inganno percettivo. Se poi si sostiene che le intuizioni senza concetto sono cieche, allora tra il percepire e il formulare una legge induttiva viene a cadere qualsiasi differenza. Tuttavia, l'ar­gomento non vale, a meno che si voglia trarre daHa percezione qualcosa che non le compete: se accendo cento volte una lampa­dina, la centunesima volta potrebbe non accendersi, giacché la lampadina è fulminata, come mostra la percezione, che dunque non è in alcun modo responsabile del fatto che la legge risulti sbagliata, non avendo pn?prio niente da spartire con quella leg­ge. Così, la presuma contingenza della percezione è solo la con­tingenza di leggi che trascendono la percezione, basandosi sulle inferenze non percettive che se ne possono trarre: sulla percezio­ne, posso formulare la legge: "Quando accendo la luce, vedo i colori, quando la spengo non li vedo", non la legge: "T une le volte che premo l'interruttore si accende la luce". L equivoco si basa su vari malintesi.

(a). L'aleatorietà. Laleatorietà perceniva dipenderebbe dalla circostanza secondo cui non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume, cioè che le percezioni risuhano transitorie o appa­renti tanto quanto la realtà fisica cui si riferiscono. Ora, durante la sua visita di stato in Italia nell'autunno del2000, Elisabetta II

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MAURIZIO FERRARIS

ha preteso a Roma l'acqua minerale inglese marca "Malvern"; valle a spiegare che non ci si bagna due vohe nello stesso fiume. Per lo più, ci si può benissimo bagnare due volte nello stesso fiu­me, a meno che si sbagli fiume; ciò che può risultare significati­vo a livello molecolare (l'acqua scorre) smette di esserlo già a li­vello geografico (il Po non diventa "Po-Ticino" dopo Pavia, né "Po-Ticino-Adige" dopo Verona). Ovviamente, uno potrebbe obiettarmi che con la sroria del fiume e dell'acqua minerale ho speculato su un semplice gioco di parole, dal momento che per me "stesso" fiume o "stessa" acqua indica una grana più grossa di quanto intenda Eraclito. Certo, ma proprio qui è il problema: "fiume" è una entità geografica dotata di cene caratteristiche macroscopiche, in cui ci si può bagnare tutte le volte che si vuo­le, purché ci sia; che l'acqua scorra non ne compromette l'inte­grità antologica più di quanto "Danubio", "Donau" e "Ister" sia­no tre fiumi diversi.

(b). La legge. Quanto alla legge, non si considera che nell'e­sperienza una cosa è vera sino a prova contraria (del resto, il katà poly aristotelico suppone che anche un certo numero di controe­sempi non costituisca un argomento decisivo contro l' affidabi­lità di una norma pratica), laddove nella scienza è falsa sino all'e­saurimento di tutte le prove contrarie. Sostenere che ogni cono­scenza è cena ed evidente, e che chi dubita non è un passo più avanti nella ricerca della verità di chi non abbia mai dubitato, appare così un principio sostanzialmente immotivato da un punto di vista antologico. Si può legittimamente opporre che chi ha molte figure, esempi, nozioni anche vaghe di tante cose ecc. ne sa di più, da un punto di vista pratico, di chi non le abbia mai viste, purché sia consapevole che non sono cose, bensl im­magini. Ora, ciò che è vago non è inesistente, né risulta mera­mente aleatorio - aleatorio può essere il calcolo sul vago, ma è un altro discorso-; però allora la chiarezza non coincide analiti­camente con la distinzione:49 possiamo disporre di conoscenze chiare ma confuse, poiché non siamo in grado di riconoscere le note caratteristiche inerenti a un colore, per esempio l'esatta in­tensità cromatica, o, meno avventurosamente, le componenti di un fiore rosso davanti a noi. E prima delle conoscenze chiare, ne possediamo di oscure, che tuttavia non sono un nulla: sbatto la testa contro qualcosa, sento un dolore sordo, ma l'ignorarne la

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causa non lo allevia. Ora, una epistemologia che non sia chiara e distinta non vale granché, in buona sostanza non è nemmeno una epistemologia; ma una chiarezza indistinta è pur sempre qualcosa, quanto dire che risulta dotata di un valore antologico: vedo il bianco a 1000 metri; un uomo a 100 metri; il figlio di Callia a lO metri ecc.

(c). L'oggettività. Quanto all'equivoco circa l'oggettività, c'è il caso dei colori. In base al solo argomento che se spengo la luce tutto diventa nero taluni hanno concluso che i colori sono con­tingenti: quanto .dire che se in un caso il rosso e il blu appaiono entrambi neri, allora siamo nella semplice anomia. Tuttavia, se spengo la luce vedo sempre nero, e, quando la riaccendo i colori riappaiono tali e quali. Al massimo, si può affermare che c'è una dipendenza logica del colore rispetto alla estensione; tuttavia, nulla vieta di sostenere l'inverso, ossia che non si danno estensio­ni che non possiedano almeno un colore: in raluni casi, addirit­tura, si preferisce usare un riferimento al colore che non un rife­rimento alla estensione, come quando in tipografia si indica con "nero" un carattere più spesso, cioè più esteso. I daltonici vedono meno colori, come noi quando guardiamo un film in bianco e nero; nondimeno, proprio come al cinema non vediamo ora il positivo ora il negativo, non è che una volta vedano blu, poi gial­lo, quindi grigio, giacché una azione causale può sortire esiti per­cettivamente diversi, e nella fattispecie semplificati, ma struttu­ralmente costanti. Del pari, i soggetti affetti da protanopia si fer­mano al semaforo perché è accesa la luce in alto, non perché di­scriminino il rosso, ossia riconoscono comunque delle costanti. Si insiste alrresl sulla grana fine della percezione: non solo i dal­tonici vedono diversamente i colori, ma anche nella norma un medesimo colore può essere visto come blu, azzurro o verde da tre soggetti diversi; questa, però, è la grana fine, non la soggetti­vità, poiché il giorno dopo, A continua a vedere blu, B azzurro, C verde. Si può infine addurre il caso delle operaie tessili che col­gono più sfumature di colori, e dei sommeltiers che affinano la percezione dei sapori: ma si assume che le nuances esistano real­mente, e che gli esperti le vedano o gustino in modo ipermetro­pe, altrimenti non sarebbero intenditori, bensì visionari. Co­munque, che un cieco non ci veda, o che un daltonico non di­scrimini raluni colori, non costituisce un argomento per sostene-

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re che i colori non esistono, o che sono soggettivi, o intersogget­rivi, o persino culturali. AJtrimenri, avrebbe senso spedire inviti con richiesta di black tie, o riferire che qualcuno indossava una giacca blu oppure che l'auto dell'investitore era rossa? Le leggi dell'Apartheid si fondavano sulla possibilità di discriminare, in modo tutto tranne che aleatorio, i bianchi dai neri, mentre risul­terebbe malagevole discriminare chi abbia un certo gruppo san­guigno; si gioca a scacchi e a dama e non ci si confonde sulle pe­dine; le squadre di calcio e gli eserciti di una volta si distingueva­no attraverso i colori, mentre quelli moderni cercano, sempre con i colori, di mimetizzarsi con l'ambiente ecc.

2. La follada. Se nondimeno è apparso cosl scontato il pas­saggio dalle costanti percettive alle inferenze metapercetrive, di­pende, al solito, dall'argomento trascendentale: se è cosl, deve es­sere cosl. Adesso vorrei far notare quanti e quamo grandi siano i casi contrari, e precisamente: (a) se è così, può anche essere altri­menti ("in qualsiasi altro modo" o "in alcuni altri modi"); (b) anche se è cosl e non altrimenti, la legge può non avere vigore al di fuori dell'ambito da cui trae origine. Che poi (c) si diano casi in cui effettivamente vige l'argomento trascendentale, non toglie che esso non procuri un principio universalmente valido.

(a). È così ma può anche essere altrimenti. Il grafo dei movi­menti caotici della materia può risultare talmente complicato da apparire come una specie di storia, sicché il principio secondo cui natura non fodt saltus non costituisce un dato osservuivo, bensl un precetto, affine al presupposto deUa perfezione nella comprensione dci testi, per definire un campo nel quale possono presentarsi delle eccezioni. D'altra parte, può andare non in qualsiasi altro modo, ma in qualche altro modo. Prendiamo le leggi gestaltiche (figura e sfondo, chiusura, direzionalità, buona forma ecc.). Sono constatabili, né appaiono meramente soggetti­ve- di solito non c'è qualcuno che riconosca uno sfondo là dove altri isolano una figura, e che talvolta possa succedere non costi­tuisce una obiezione, in una sfera in cui non si cercano leggi uni­versalmente valide -, pur risultando spesso in competizione ua loro, e paiono del tutto astratte senza perciò essere concetwali. La circostanza che- per esempio- non si adempia regolarmente la realizzazione delle leggi di coerenza strutturale e di pregnanza (contro le aspettative dei gestaltisti), non equivale a dire che nel

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mondo ognuno vede quello che gli pare: significa, se vogliamo, che la meteorologia risulta previsionalmente meno efficace della fisica teorica. Inoltre, che le leggi competano le une con le altre, non comporta che siano emendabili: è l'occhio che privilegia una soluzione in una figura bistabile, benché possa in seguito co~ glierne un'altra (e qui interviene il ragionamento: ad esempio, che si sappia di dover trovare una seconda figura). C'è poi un punto anche più importante: ci sono costanti gestaltiche, il che non comporta che discendano da una tavola dei giudizi, né che rendano possibile l'esperienza, né che ne derivino, tanto è vero che uno dei cavalli di battaglia della Gesta/t è proprio che le sue leggi spesso si applicano in contrasto con l'esperienza. Si avrebbe anche torto ad asserire che una soluzione è "più giusta" dell'altra, come viceversa si può e si deve sempre dire dei concetti; ma che un esito non appaia più corretto dell'altro non comporta che en~ rrambi siano meramente soggettivi.

{b). E cosl e non altrimenti, ma non perché deve essere così. Qui la storia è molto breve, e la si può spiegare con il problema dei nomi dei colori. Non c'è nessun motivo per chiamare "blu" il blu invece che il rosso, tranne il fatto che lo chiamiamo così: i Maori hanno 3.000 nomi di colori, ma non vedono tanti colori più di noi; non li separano dall'oggetto, con una operazione !in~ guistica e non percettiva, come quando diciamo "salmone", "malva", "ribes". Che poi un colore sia quello, dipende dalla sua onda cromatica, cioè sono fatti suoi.

{c). E cosl e deve essere così. Alla fine, ed è un ambiro ben ri~ stretto, incontriamo una sfera in cui l'argomento trascendentale calza a pennello: le bolle di sapone, i fiocchi di neve, i cristalli, le simmetrie. Qui sembra che la natura ordisca una armonia mate~ matica; è arduo però sostenere, alla luce di una casistica del gene~ re, che l'ottica viene corretta dalla geometria, vale a dire che ogni fatto deve conformarsi a un diritto, se non altro perché si può es~ sere o apparire in tutto e per tu no organizzati senza perciò posse~ dere alcuna ragione, cioè un fine esterno; tale è appunto il caso degli organismi, sicché la biologia, in ultima istanza, esorbirereb~ be già dal trascendentale.

3. Il collasso. Linserimento di ciò che vediamo nel nostro si­stema di credenze è il più delle volte facilissimo e automatico: i ca­si antinomici, come le illusioni percettive, ci svelano ralune leggi

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che rimangono inosservate nei casi normali, però fortunatamen­te non sono nulla più che casi. Nell'esperienza ordinaria, vedo una penna sul tavolo, credo che ci sia una penna sul tavolo, la prendo se mi dicono di prenderla; penso che piova, guardo alla finestra, e vedo qualcosa che rende vero il mio giudizio. Obbedire a ordini, agire in maniera riflessa, comprendere un enunciato, avere l'esperienza della realtà prima della scienza, dipende da co­mc siamo farri, c diverrebbe inspiegabile qualora la suurtura del­l'esperienza percetriva non risultasse facilmente concenualizzabi­le: il che non significa che sia concettuale, bensì che le strunure concettuali si radicano geneticamente e contenutisticamente nel­l'esperienza perccniva, senza perciò dipenderne in tutto e per tutto, giacché i sensi ragionano a loro modo. Non bisogna con­cedere un credito eccessivo all'idea che le inregrazioni siano do­vute all'inrdligenza dei nostri sistemi perceuivi, omettendo di considerare che, per intelligenti che siano, si troverebbero a mal­partito in un mondo anomico, tanto quanto siamo imbarazzati di fronte a un testo scritto in caratteri esoterici. Non è vietato so­stenere che la mente guarda sempre al di là di quanto è effettiva­mente percepito; nondimeno ci rendiamo spesso conto di quan­do effettuiamo delle inregrazioni - che del resto non appaiono esattamente pcrcenive- e di quando ce ne asteniamo. Di qui il mio punto centrale: ohre alle integrazioni riuscire, si danno casi in cui quello che vediamo non combacia con quello che pensia­mo, o esorbita rispetto al nostro sapere attuale, il che finisce per dare un taglio netto alla ragione ultima dell'argomento trascen­dentale. Se è così, però, bisogna guardare con altri occhi al pro­blema della illusione, che non si potrà più considerare come una semplice devianza, né come un fenomeno omogeneo.

Antinomia dell'estetica rispetto alla logica

Illusioni. L inflazione delle iHusioni non è generalmente moti­vata, e parlare troppo facilmente di "apparenze" non sembra una saggia strategia. Si può piuttosto conferire uno statuto ontologi­co diverso alle cose, presenti e interosservabili, ai riflessi, interos­servabili ma dipendenti da altre cose, alle immagini postume, di­pendenti da altre cose ma non interosservabili, e ai fosfeni, non

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interosservabili e senza contropartite oggettive dirette o indiret· re. Prendiamo il caso dell'arcobaleno: vedo un arcobaleno, lo mostro a un alno e lo vede; è un oggetto, non un fischio nelle orecchie, è lì fuori; però cammino, c resta là, come l'orizzonte, mentre una sedia e una montagna si avvicinano. Oppure: vedo dal finestrino di un aereo un arcobaleno. Il mio vicino no. Lar· cobaleno, per mc, è reale, e propriamente non presenta alcunché di soggettivo, "soggettivo" essendo piuttosto spaventarsi alla vista di un topo o viceversa mangiarselo, mentre per far vedere l'arco· baleno al vicino mi basterebbe farlo sedere al mio posto. Diver· samente vanno le cose per i riflessi, che risultano interosservabili, ma il cui statuto non è quello dell'arcobaleno, bensì di un'cm· bra, dipendendo da qualcosa di consistente e riscontrabile a li· vello fenomenico. In particolare, se il riflesso è ben definito (po· niamo, l'immagine aUo specchio), allora quasi ce ne dimenti· chiamo, per concludere che la cosa vera è lì fuori, con tutto che uno specchio può oggettivamente aumentare la luminosità di una stanza. Ancora altrimenti vanno le cose per i fosfeni e per le immagini postume, che non sono interosservabili e sono presen· ci nello spazio, ma non si incontrano nello spazio. Il fosfene, inoltre, non è una specie di ricordo, mentre - come ho suggerito più sopra -l'immagine postuma lo è. Svolta questa precisazione, è vero che si può parlare di "illusione" in molti modi, e in parti· colare rispetto a ciò che si sa e a ciò che si pensa. Non è la stessa cosa, e conviene distinguere.

l. 1//usioni' intrateoriche. Si danno casi in cui l'apparenza ri· suha tale solo alla luce di una teoria: ciò che si presenta è in realtà diverso da quanto ci attestano i sensi. Tuttavia, dire "in realtà" si· gnifica soltanto sostenere che c'è una teoria scientifica che può spiegare le cose in un altro modo. Dunque, abbiamo a che fare con qualcosa che è vero per la percezione e falso per l'interpreta­zione, come nel caso dell'eliocentrismo: a me pare che il Sole gi­ri intorno alla Terra, però la cosmologia dimostra che è vero il contrario. Tuttavia, posso vivere una vita intera muovendo da ipO[esi geocenrriche, e non cambierà niente, tranne esperienze marginali come i viaggi in aereo, sicché geocentrismo e eliocen· crisma sono mere teorie, esattamente come il monofisismo, rran· ne che possono venire verificare attraverso una accessibilità fisica amplificata. La verifica, però, si svolgerà generalmente su una

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scala distantissima da quella dell'ambiente in cui mi trovo, e, dunque, non appare così cruciale. Si potrà sempre opporre che è meglio sostenere che è la Terra a girare intorno al Sole, ed è leci­to: ramo, non costa niente e non cambia niente; e, in più, è an­che vero. In alni casi, però, abbracciare la versione epistemologi­ca pouebbe suscitare dei problemi. Prendiamo ancora la tesi se­condo cui la Terra appare piana, ma in realtà è rotonda. Si no­terà che, malgrado una simile assunzione, generalmente condivi­sa, un grandissimo numero di comportamenti risulta- del tutto motivatamente- orientato dalla assunzione secondo cui in realtà la Terra è piatta: nessuno costruisce le case con la cantina lievissi­mamente incurvata, non si organizzano convegni per stabilire se in Nuova Zelanda siano davvero a testa in giù, si adopera la bol­la d'aria. Quello della Terra piatta, cosl, costituisce un livello di realtà difficilmente assimilabile a una illusione, rivelandosi soli­do e inrerosservabile; e per capire che in realtà la Terra è rotonda, mi occorre una teoria, che mi poni a estendere la sfera del mio ambienre, per esempio, cercando di andare in India seguendo

- una rotta occidentale, poiché l'osservazione, anche attenta, ma condotta su scala ambientale, non mi porta a concludere qualco­sa del genere.

2. 1/lusioni' ecologiche. Si danno invece verifiche perfettamen­te attuabili a livello ecologico. Prendiamo il caso di un completo di velluto che alla luce artificiale sembra beige, e alla luce natura­le salmone. Qui, in prima battuta, si può semplicemente soste­nere che, diversamente da ciò che avviene per il vestito dell'im­peratore, il vestito è reale, laddove i due colori rappresentano rendimenti percettivi dipendenti dalla luce. Ecologicamente, pa­re più vero il salmone a luce naturale; ma se si vivesse sempre con una illuminazione artificiale? Siamo comunque portati a ri­tenere che il vero colore, purtroppo, sia il salmone, non trattan­dosi di una teoria, bensl di un fatto constatabile in una scala per noi fisicamente accessibilissima: usciamo all'aperto, e il vestito appare senza ombra di dubbio salmone, e qualora decidessimo di indossarlo solo al chiuso proveremmo una specie di imbarazzo, come se ci fossimo limi i capelli. Perciò, nessuno sosterrebbe che un trompe l'ceil è reale, come viceversa successe a Moore, duran­te una conferenza, quando mostrò una finestra che era solo di­pinta, al fondo dell'aula, e disse, non avendo potuto accertarsi da

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vicino della cosa: "Nessuno dubiterebbe del farro che lì d sia una finestra": lo statuto ontologico del trompe l'ceil è esattamente quello di un quadro o di una fotografia. Qui abbiamo a che fare con qualcosa che illude solo se manteniamo un unico angolo di visione, laddove la nostra percezione dell'ambiente suppone l'av­vicinarsi, l'allontanarsi, il guardare da prospettive differenti, il toccare ecc., il tutto in tempi ragionevoli, perché certo non pos­so escludere di toccare meglio domani, o fra cento anni, con ma­ni meno ruvide in seguito alla totale scomparsa di ogni attività manuale, però se un tessuto mi appare ruvido oggi non aspetto di cambiare idea o senso, semplicemente ne compro un altro. In­somma, è più difficile essere illusi che non accertare la realtà del­le cose, che non è una teoria, bensì un osservabile nell'ambiente. Le cose non vanno altrimenti per il bastone che, nell'acqua, ap­pare piegato, mentre in realtà non lo è. La prima volta si può credere che le cose stiano proprio così, e se uno non estrae il ba­stone o non lo tocca sott'acqua potrà sempre pensare che sia dav­vero storto. Tunavia, in una normale situazione ecologica riesce facilissimo scoprire che il bastone è dritto; e, se ci si stupisce, non è tanto perché è dritto, quanto perché sembra scorro. In altri termini, non ho bisogno di speciali teorie per capire che in realtà il bastone è diritto. Che sia storto, è una apparenza, e può essere svelata non con il ricorso a strati più fondamentali della realtà, bensì restando sul medesimo piano di esperienza: coglierlo dal­l'acqua, roccarlo son'acqua, provare a vedere se funziona meglio come leva o come piede di porco. Qualcosa del genere, in forma anche più esplicita, viene offerto dalla biglia tenuta fra l'indice e il medio incrociati: che la pallina sia una non ci stupisce, a sor­prenderei è piunosro la curiosa circostanza che il tatto, di solito tanto affidabile, possa venire ingannato e portato a concludere che le biglie siano due. I casi sono simmetrici: il basrone appare piegatO alla vista e dritto al tatto, la pallina sembra una alla vista e due al tatto. Non ci vuole più di tanto- basta un altro senso­per stabilire la verità, proprio come nel caso del rrompe l'ceil, in cui era addirittura il medesimo senso, la vista, a pmer accertare lo stato di cose, con un semplice cambiamento di prospettiva. Del pari, nessuno penserebbe che un trapezio che- per effetto di inclinazione e di prospettiva - appare quadrato, è in reahà un quadrato. A contare come vero è lo stimolo distale, non quello

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prossimalc, perché il primo non è una apparenza, come si può facilmcmc constatare toccando la fonte dello stimolo, o guar­dandolo da un'altra prospettiva, esattamente come il bastone nell'acqua o il trompe l'rei!. E, a maggior ragione, nessuno pen­serebbe che esiste davvero un cerchio ottenuto facendo girare al buio una sigaretta accesa - un cerchio che non corrisponde a nulla né a livello di stimolo distale né a livello di stimolo prassi­male, ma si forma solo sulla retina. Se si pretendesse che il cer­chio è vero, si dovrebbe concludere che anche i cartoni animati lo sono: dal che segue che il movimento nei cartoni animati non è apparente, ma reale.

3. Illusioni vere e proprie. Se vogliamo trovare autentiche illusio­ni, dobbiamo guardare altrove. Per esempio, la MU.IIer-Lyer pre­senta molti aspetti della illusione, e tuttavia, come tutte le vere illu­sioni ottiche, risulta non solo interosservabile, quanto dire che non è presente solo a livello di stimolazionc rctinica (il che:: vale an­che per il cerchio ottenuto facendo ruotare al buio una sigaretta), ma nemmeno può venire emendata, per esempio guardandola da un'altra prospettiva. Il difetto della MU.ller-Lyer è che se tutto il vi­sibile funzionasse così, la geometria forse non sarebbe sona.

L'occhio ragiona a modo suo. Quando si vedono le proprietà di un triangolo può apparire arduo distinguere il vedere dal pensa­re, e se ne conclude che, almeno in condizioni animali, le due funzioni si equivalgono. Perciò Aristotele scriveva 5° che l'intellet­to riconosce l'astratto nel concreto, e che penso il concavo quan­do vedo un naso all'insù; Kant sosteneva che penso il circolo nel piatto. Ma è vero? Soprattutto, lo è sempre e necessariamente? Che io possa anche pensare il concavo o il circolo, non compor­ta che li pensi tutte le volte che vedo un naso o un piatto, né che - ave pure ci pensassi - si tratti di una interazione funzionale e imprescindibile e non di una mcra concomitanza temporale, an­che se diverse operazioni - poniamo, prendere un piatto senza temere di ferirmi, perché non è un coltello -, postulano il rico­noscimento di una circolarità. Quando vedo una croce latina penso a una chiesa, se invece è una croce greca penso a un ospe­dale; ma c'è un nesso tra il vedere la croce e il pensare alla chiesa o all'ospedale? Sicuramente i due processi hanno luogo in con­temporanea. Nondimeno, potrebbe anche darsi che tune le volte che vedo una croce mi venga in mente, per qualche associazione

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di idee del tutto idiosincratica, un ristorante. Soprattutto, po­rrebbe darsi che mentre vedo una croce mi venga in mente, sen­za alcuna relazione con la croce, che devo passare in banca. Se l'argomento probatorio è che tutto ciò che accade nello stesso tempo imcragisce, allora la banca e il ristorante avrebbero a che fare con la croce tanto quanto la chiesa e l'ospedale. Se invece l'argomento è che il pensare è sempre costitutivo del vedere, ri­sulta davvero troppo impegnativo. Una versione ben temperata di una simile tesi potrebbe suonare nel modo seguente: l'imma­gine retinica è lacunosa, e la si integra. Con che cosa, però? La si completa forse allo stesso modo in cui si integra, pensando e non vedendo, un manoscritto lacero? I completamenti solo mentali non paiono dolati di realtà perceniva, laddove vediamo davvero il Sole più grande quando wcca l'orizzonte, e il fenomeno risulta talmente evidente che, oltre a sedimentarsi nel senso comune, ha dato luogo a un gran numero di interpretazioni fisiche. Il tutto lascia pensare che il termine "integrazione" non sia quello giusto, specie se adoperato indiscriminatamente;51 e soprattutto che le integrazioni percettive dipendano ben più dal mondo esterno che non dal mondo interno. Il discrimine si rivela importame, giacché - tracciando uno spartiacque fra integrazioni mentali e percettive- evita che si inneschi un meccanismo in base al quale, considerando che solitamente quando vedo una cosa la penso anche (o meglio, se ci penso concludo che ci penso e che potrei anche pensarci quanto voglio, solo che lo volessi), allora bisogna concludere che non c'è visione senza pensiero.

l. Vedere come. Cerchiamo prima di tutto di riconoscere i casi in cui non abbiamo a che fare con un vedere vero c proprio, ben­sì con una estensione analogica che porta a trasferire al vedere funzioni proprie al pensare. Qui i casi sono aluettante varianti del "vedere come" teorizzato da Wingcnstein nelle Ricerche filo­sofiche, in cui le interpretazioni aggiungono senso a una figura, ma non la arricchiscono oggettivamente. Tuttavia, la differenza antologica tra "aggiungere senso" e "arricchire" viene spesso tra­scurata, cosl come si dimentica che, se il discorso di Wittgen­stein ha un senso, allora il vedere come non è un vedere, ma solo qualcosa che aJsomiglia al vedere.

(a). Vedere l'invisibile. Non è difficile notare (potrei anche di­re: "non è difficile vedere", e continuerei a vedere lo schermo del

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computer invece che quanto vorrei farvi notare) che vedere una università non è vedere un albero. Così, nessuno si sognerebbe di sostenere che la circostanza che si impieghi "vedere" anche in un contesto come "vedo una forte somiglianza tra la politica di Beli­sario e quella di Badoglio" comporti che si veda la politica. In ge­nerale, non si può vedere l'invisibile, altrimenti non l'avremmo chiamato cosl.

(b). Vedere e infirire. Una seconda ambiguità consiste nell'at­tribuire a ciò che si vede proprietà che ineriscono a ciò che si pensa intorno a ciò che si vede, confondendo vedere e inferire. Tuttavia, è un equivoco banale: vedo la Luna grande come una moneta da l 00 lire, e penso che in realtà è grande circa l /6 della Terra, sicché non c'è davvero motivo di parlare di "vedere" a pro­posito del prodotto dell'inferenza.

(c). Vedere e misurare. Una cena ambiguità consiste nel confondere "vedere" e "misurare" (o più precisamente nel consi­derare la visione come la preforma di ciò che più correttamente può darsi come "misura"); tuttavia, la differenza non è solo di grado, ma ahresì di ambito, e i due livelli si ricongiungono solo nei righelli.

(d). Vedere e vùualizz.nre. Una quarta ambiguità consiste nel confondere quello che vedo a occhio nudo con quanto posso ve­dere con un apparecchio scientifico, cioè il vedere con il visualiz­zare. La confusione, malgrado le apparenze, è concettuale e non fattuale, e non riguarda tanto l'uso o meno di strumenti onici, bensì ciò che si intende, in un assetto umano normale, con "ve­dere": vedo con gli occhiali, visualizzo con un telescopio o con un microscopio, ovunque mi rrovi. Dal mio punto di osservazio­ne terrestre posso vedere la Luna e visualizzare Plutone; se rutta­via fossi su Urano mi risulterebbe agevole il contrario, così come da Giove sarei in condizione di vedere Phoibos e, volendo, porrei anche dire "guarda che bel Phoibos c'è stasera".

2. Vedere e basta. Lasciati gli equivoci verbali, veniamo a qual­che figura. Di fronte a una scritta come la seguente:

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uno potrebbe sostenere che solo chi sa leggere e magari conosce l'inglese riuscirebbe a conferire un esito coerente alla figura. Non si considera, peraltro, che un analfabeta vedrebbe comunque qualcosa. D'altra parte, l'argomento può essere capovolto. Pren­diamo la scritta:

ONTOL.GIA Qui è chiarissimo che pemo "antologia", ma vedo una cosa di­

versa; e c'è poco da fare. ~ prevedibile l'obiezione secondo cui non si riesce a capire che cosa possa essere un "puro" vedere, sic­ché tutta la distinzione, almeno all'atto pratico, non servirebbe a nulla. Ma non è cosl: posso anche far fatica a definire il puro ve­dere, ma non incontro alcuna difficoltà nel mostrare quante e quali siano le differenze tra vedere e pensare; e, in particolare, che io possa sapere una cosa e vederne un'altra. Rinviando all'ampia casistica raccolta da Kanizsa,52 vorrei !imitarmi ad aggiungere un esempio che mi sembra abbastanza suggestivo: nella illustrazione seguente, tendo a scambiare le ombre per i dromedari; so che è cosl e me ne accorgo, cioè posso emendarmi, diversamente che nella Miiller-Lyer, ma poi torno a confondere le ombre con i dromedari, perché in fondo è più semplice.

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Tutto questo porta il vedere sul piano dell'incontrato, e dun­q~e dd difficilmente emendabile. Prendiamo il triangolo di Ka-

Vedo fenomenicamente due triangoli, uno dei quali risulta più chiaro dello sfondo. Lo incontro, cosl come ci si imbatte in una persona, e l'esito vale anche per i pulcini. Però il triangolo non è fisicamente presente, lo so benissimo, e sono altresì consa­pevole di poterlo far sparire se completo i neri crasformandoli in palle. Del resto, è comunissimo il caso inverso, quello in cui non vedo fenomenìcamt:nte ciò che è fisicamente presente nel mio campo percettivo: e non parlo solo dei mascheramenti, ma an­che della penna che ho sotto gli occhi senza trovarla, della scritta "FEDERAZIONE DELLE REPUBBLICHE RUSSE" sullo c"­ta geografica che ho sotto gli occhi, e in cui vedo benissimo la serina "Mosca", dello scalatore che finalmente riesco a ricono­scere con l'aiuto di un amico che mi dia indicazioni come "un po' più a destra, dopo quel picco ecc.". E ora prendiamo la se­guente illusrrazioneB

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Nella prima immagine, posso vedere qualcosa che non signi~ fica niente per me. Poi qualcuno porrebbe suggerirmi che davan~ ti alla finestra c'è una giraffa: allora vedrei un collo, il che non mi potrebbe mai accadere nel caso della seconda figura.

Autonomia del mondo rispetto agli schemi concettuali e percettivi

Causa e struttura. Ecco- alla fine- il nocciolo del mio discorso. Lucrezio54 scriveva: "Se dal nulla si compisse la creazione, da tutte le cose potrebbe nascere ogni specie: niente avrebbe bisogno di se~ me. Prima di tutto dal mare potrebbero scaturire gli uomini, dalla Terra la razzasquamosa, e gli alati erompere dal cielo; gli armenti e le altre greggi e ogni sorta di animali selvaggi partoriti a caso in~ gombrerebbero campagne e deserti. Né sugli alberi i frutti resce~ rebbero sempre i medesimi, ma si muterebbero, e tutte le piante potrebbero ruuo produrre". Nei termini enunciati sin qui: come si può dare una azione cauta/e che non possieda un effetto strutturale? Ora, sono possibili due interpretazioni di questa azione.

l. Materia. La prima, minimalista, è che comunque bisogna riconoscere un ruolo causale del mondo esterno non solo sulle nostre costruzioni intellettuali, ma anche sul nostro sistema per~ cettivo. Chiediamo a qualcuno che forma abbia il campo visivo.

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Risponderà probabilmente che è rotondo o quantomeno ton~ dcggianre, perché avrà in mente la forma della pupilla o dell'or~ bita oculare, o magari dell'orizzonte che- guarda un po'- coin~ ciderebbe con l'occhio. Chiaramente non è cosl. La forma del campo visivo è la forma delle cose, che non sono tagliate da un cerchio rotondo, ma sfumano ai lari. Se davvero ogni cosa si adattasse alla forma del percipienre, il campo visivo dovrebbe es~ sere rotondo: e invece c'è qualcosa, che si chiama "mondo", che rcsÌS[e alla rorondirà della pupilla, e mantiene le sue forme, non quelle dell'occhio; laddove la proiez.ione piana di un globo risul­m apenamenre deformante, sicché il Canada e la Russia diven­gono ancora più grandi di quello che già sono, mentre la proie­zione non rende giustizia, in proporzione, delle vere dimensioni dei Paesi che si trovano all'Equatore.

2. Forma. Una simile interpretazione, allora, sembra difficil­mente dissociabile da una ipotesi più impegnativa, e cioè che l'a­zione dell'esterno non sia confusa e convulsa, ma possieda un preciso valore strutturale, il che però non significa "intellettua­le", come ho cercare di dimostrare attraverso l'appello all'antino­mia tra estetica e logica. Non è detto che gli unicorni siano inammissibili in zoologia, c perciò anche in logica; né che dicen­do che un giudizio affermativo è vero sostengo la stessa cosa che quando dichiaro che l'oggetto del giudizio è esistente (come la mcuiamo con i giudizi negativi?). Grazie alla distinzione tra Ve­rità e Realtà, credo che si possano guardare le cose in modo di­verso e meno impegnativo sotto il profilo epistemologico, ma utilissimo in ambito onrologico: dal mondo esterno, gli schemi concettuali e i sistemi percettivi non ricevono soltanto vortici, che oltrerutco non hanno alcun motivo per offrirsi spontanea­mente in termini di informazioni, bensl forme e strutture, e pen­sare una causa senza struttura risulta altrettanto impossibile che concepire una idea generale, invece che una idea particolare cui si aggiunge una qualche generalità. Insomma, come non si riesce a pensare un cane in generale, così non si vede come possa esser­ci una causa che si eserciti in maniera puramente informe: se mi punge una zanzara, è proprio una zanzara a pungermi, esatta­mente in quel punto e non in un altro, l'effetto della puntura ri­sulterà diverso da quello di un'ape o di una vespa ecc.; se mi ac­carezzo un polpaccio indolenzito, oppure se accarezzo un gatto,

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si daranno certamente esiti diversi (il polpaccio non farà le fusa), ma dipenderanno con esattezza dalla forma della mia mano, dal~ l'intensità e dal ritmo della pressione ecc. Tuttavia, non propo~ nendomi di costruire una antologia degli effetti, quale può esse~ re il mondo esterno cui mi appello?

!mmanenteltrascendenre. Prendiamo una tesi epistemologica tradizionale: sono certo di ciò che è immanente alla mia coscien~ za, tutto il resto pare dubbio e trascendente. Ma sarà vero? Cer~ chiamo qualche co_mroargomemo.

1. Come lo sai? E a dir poco maleducato chiedere a chi ci dica come si chiama e dove è nato: "Come lo sai?". Il dubbio di Car~ cesio è iperbolico, ma il nostro mondo non è una iperbole. Posso chiedere: "Come lo sai?" a chi mi dice "adesso è giorno" se siamo in una caverna, non se ci troviamo in una stazione termale. Po­tenziando il dubbio di Cartesio, c'è chi si è spinto sino a sostene­re che potrei non essere io a pensare, che non sembra davvero una proposizione troppo plausibile, fuori della letteramra ame­na; e, comunque, a seguire l'ipotesi immanenza/trascendenza, ci si inoltra in una selva di dilemmi: dobbiamo credere ciecamente a tutto ciò che vediamo, compreso che ciò che vediamo è lì fuo­ri? Oppure conviene relegare il tutto nella trascendenza, e fidarci solo di quanto è presso di noi, come evidenza immanente di co­scienza, delegando la fondazione della certezza alla scienza? Dob­biamo fidarci solo della logica come regno separato? Oppure bi­sogna cercare una certezza anche nella trascendenza, ma come? Qui la fallacia sonnecchia proprio nell'appello alla cecità: in che senso il nostro rapporto con gli oggetti esterni costituirebbe una fede, e per giunta cieca? Vediamo benissimo gli oggetti di espe~ rienza, laddove pochi sarebbero disposti a mettere la mano sul fuoco - della cui esistenza, dunque, non dubitano - per una qualche teoria. Sicché non abbiamo a che fare, almeno iniziai~ mente e comunque di principio, con una scienza: il tavolo è qui; io non sono il tavolo; il cavolo non è dentro di me, e solo con contorsioni eroicomiche una simile lista di truismi potrebbe qualificarsi come un "sapere".

2. L'uso delle agende. Donde l'argomento positivo. Può appa­rire sacrosanto sostenere che ci fidiamo di quanto pensiamo (è qui, in noi) più che di quanto vediamo (è là, fuori di noi), e che

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la sola cosa di cui possiamo dichiararci davvero cerri è il nostro intimo dubitare. Tuttavia, siamo soliti annotare impegni e pen­sieri su agende e taccuini. Perché? È solo un vizio, una debolezza, un cedimento naturalisrico, ovvero si rratta del riconoscimento di un carattere proprio della reahà, c di una realtà che ha la pro­prietà di esistere prima di noi e dopo di noi, e comunque in mo­do coerente c indipendente dalla nostra coscienza? Se perseguito onrologicamenrc, il criterio della immanenza non solo induce uno scetticismo vano e irrimediabilc, ma conferisce uno statuto piuttosto singolare alle immagini del mondo presenti nella no­sua meme (c già nella noma retina: fa parte dell'interno o dell'e­sterno?): per un verso sarebbero cene in quanto si manifestano nella menre; per un altro risulterebbero dubbie, in quanto si rife­riscono al mondo, o almeno sembrano farlo.

''Interno alla nostm testa''/ "esterno alla nostra testa". Uno po­trebbe osservare: ceno la coppia interno/esterno riflette con maggiore fcdehà l'atteggiamento naturale di quanto non avven­ga per la coppia immanenrc/crascendentc. Crediamo più alle co­se fuori di noi che non a quelle denrro di noi, più ai tavoli e alle sedie che non ai nostri ricordi: quante volte diciamo: "se non ri­cordo male ... ", e quante poche volte: "sarà un ravolo o un mi­raggio?". Nondimeno, non è facile dire che cosa si imenda con "esterno": non è "ciò che è esterno al mio corpo", giacché in quel caso potrei incrementare il mondo esterno tagliandomi i capelli o defecando; ma non è neanche ciò che è esterno alla mia mente, poiché non ho la più pallida idea di dove sia la mia mente, sicché l'idea di "esterno" si svuoterebbe di significato.

Consideriamo che definire interno/esterno in termini topolo­gici non solo incontra le ovvie obiezioni che ho appena enume­rato, ma soprattutto tradisce le evidenze fenomenologiche. Pro­prio evidenze dd genere, d'altra parte, vengono neglene da quel­le teorie che asseriscono che per un verso la testa è nel mondo e per un alrro il mondo è nella testa. I.: impostazione risulta apena­mente sbagliata: perché si sa benissimo cosa sia una testa nel mondo, tutcavia non si sa, se non grossolanamente, cosa sia un mondo nella testa. La percezione ha luogo laggiù, nel mondo, però si verifica "in mc". Sl, ma dove? I due spazi paiono ardui da definire e da separare. Poniamo che, d'accordo con Aristotele,

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l'anima sia come la mano, che afferra gli emi senza identificarsi con loro: sembra ragionevole; eppure non corrisponde a una ve­ra esperienza, giacché non mi pare di afferrare con l'anima tavoli e sedie: con l'anima comprendo teorie su tavoli e sedie, con la mano afferro tavoli e sedie.

"Interno ai nostri schemz"'l"esterno ai nostri schemt'. Le diffi­coltà si sfoltiscono quando si passi a una definizione funzionale. Intendo perciò con "interno" "interno ai nostri schemi concet­tuali", e con "esterno" "esterno ai nostri schemi concenuali": l'interno verrà ad essere ciò che, coglibile in forma concettuale, risulterà suscettibile di emendamento infinito; l'esterno ciò che non potrà essere emendato. Visto però che trana di una regola, il criterio si può applicare anche a enti invisibili, come le proposi­zioni logiche e matematiche. Viceversa, nel mondo interno ai nostri schemi concertuali rientra runo ciò che può essere emen­dato e interpretato, ossia, essenzialmente, i giudizi sintetici apo­steriori propri della scienza empirica. Tentiamo di raccogliere il tutto, conclusivamente, in una tavola.

Tavola 9. Mondo interno/mondo esterno

Mondo esterno: Inemendabili

Mondo interno: Emendabili

Percettivi Nonpercettivi

Oggetti della ricerca scientifica in corso

l. lnemendabili percettivi. Qui raccolgo ciò che viene dai sensi e non si può modificare a piacimento. Vorrei aggiungere a quanto detto sin qui solo qualche considerazione sui concetti ordinari, che risultano strettamente legati a caratteristiche percective, collegan­domi ai ragionamenti svolti a suo tempo a proposito del concetto di "dito" e poi ai nomi di colore. Non ha senso domandarsi se la zuppa inglese possa davvero- con opportuni espedienti- diventa-

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re più inglese, non più di quanto non sia lecito pretendere che una barca sia più grossa di quella che è, mentre è legittimo lamentare l'assenza o la contraffazione del rum nei Cuneesi al rum. Si posso­no migliorare le pizze, mettere in commercio la new Coca-Cola, fabbricare birre analcoliche, però le migliorie non rappresentano un progresso infìniw, bensì una variazione. Così per le monete: è giusro dire che gli aurei emessi nel lV secolo dopo Cristo conten­gono meno oro di quelli coniati nel I secolo, ma non ha senso so­stenere che non sono la moneta "aureus", ramo è vero che anche al­l'epoca di Teodosio si saranno distinti gli aurei veri da quelli falsi.

2. fnemendabili non percettivi. Tra l'inemendabilità degli in­conuati percettivi e quella degli incontrati non percettivi intercor­re una distinzione essenziale: i primi risultano tali anche senza schemi concettuali, laddove i secondi esistono solo alloro interno, ma senza che gli schemi possano emendarli. Linemendabilità de­gli oggetti logici è di tipo grammaticale: cambiare le regole di un gioco è cambiare gioco; viceversa, mutare la descrizione chimica di un genere naturale non significa trasformarlo. Dunque, se le per­cezioni sono ciò che i concetti non emendano, adesso cerco di distin­guere due famiglie, quella dei concetti che non si emendano- e che, per la discussione svolta parlando del concetto di "conceuo", non rappresentano una forma eminente di "concetto" - e quella dei concetti che si emendano, che, sempre per la discussione proposta a suo tempo, sarei incline a considerare come concetti in senso pro­prio o epistemologico.

(a). Proposizioni logiche e grammaticali. In generale, le propo­sizioni logiche e grammaticali presuppongono concetti, come "proposizione", "implicazione", "quanrifìcatore", e costituiscono verità concettuali necessarie, cioè inemendabili. Non perciò rientrano nel mondo interno agli schemi concettuali, giacché qui gli schemi si identificano con l'antologia invece che costitui­re la griglia che, applicata all'esperienzà, darà luogo a una episte­mologia in senso proprio. "Nessuno scapolo è sposato" è un enunciato inemendabile, a meno di adoperare le parole in modo diverso, poniamo facendo notare che "bachelor" vuoi dire sia "scapolo" sia "baccelliere" (a Oxford e a Cambridge), e che sino all'Ottocento i baccellieri dovevano rimanere celibi. Tuttavia, è chiaro che sono accezioni diverse della medesima parola e che, a proposito dei baccellieri di Oxford e Cambridge, abbiamo a che

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fare con una proposizione sintetica smentita dai fani. Così anche le proposizioni matematiche: 7 + 5 = 12 non può essere accre~ sciuto né smentito daJI'esperienza. Sicché le proposizioni su cui, per Kam, si può fondare il mondo interno, giacciono in realtà nel mondo esterno, e possono venire conosciute come oggetti a pari titolo che tavoli e sedie, sebbene non in modo percettivo.

(b). Nomi propri. Si danno pani di linguaggio che organizza~ no realtà istituite; tuttavia, risultano perfettamente omogenee al~ la realtà che istituiscono, diversamente da ciò che avviene nel rapporto tra l'oncologia e il cancro. Un caso tipico è offerto dai nomi propri: chiamarsi "Roberta", "Gino" o "Samantha" non è una proprietà comune a tutti coloro che si chiamano così, poi~ ché ognuno di loro avrebbe potuto non chiamarsi come si chia~ ma: e in qualche caso non sarebbe smta una cattiva idea, ma non per ragioni di verità o di referenza (che una donna bruna si chia­mi "Chiara", o che una donna bionda si chiami "Brunà', non è considerato un errore, né lo si corregge).

(c). Istituzioni. Un altro caso sono le istituzioni, che risultano in parte diverse dai semplici nomi. Nel Dipartimento di discipli­ne filosofiche dell'Università di Torino confluiscono in buona parte i professori di due vecchi dipartimenti, quello di Filosofia e quello di Ermeneutica. Però, nel momento in cui si è decisa la fusione, non si è ritenuto di avvicinarsi maggiormente a uno sta~ to di cose, bens} di crearne uno nuovo. Del pari, "Si..idtirol" c "Madagascar" designano oggi cose più o meno diverse da ciò che indicavano un tempo (il termine "Si..idtirol" appare solo nel 1839, e designa all'origine sia il Tremino sia il Tirolo; addirittu­ra, "Madagascar" non indicava all'origine l'isola dell'Oceano In­diano, bens} la parte del continente africano che la fronteggia), e la Polonia uscita da Ya1ra è alquanto diversa da quella determina­ca dal Trattato di Versailles, ma non si può dire che la trasforma~ zione abbia componato una emendazione.

(d). Unità di mùura. Il ragionamento si applica anche a1le unità di misura, che si riferiscono a una rea1tà oggettiva, ma che non possono venire emendate. Avrebbe senso sostenere che nel cassetto di mio zio c'è un metro che è più metro del modello di platino-irridio? Al massimo, si potrebbe adottare una diversa mi~ sura, e magari decidere di continuare a chiamarla "metro", preci~ sando che si compone di 100 centimetri, che però nel frattempo

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sono cambiati ecc. Tuttavia, tra il metro in platino-irridio e il nuovo intercorrerebbe un mero rapporto di omonimia, dunque non si darebbe emendazione. Del pari, non ha senso affermare che allivello del mare l'acqua, col cambiamento dei nostri para­digmi, bollirà a 97 gradi Celsius. Se si cambieranno i paradigmi, si dirà qualcosa di diverso, per esempio "l'acqua bolle a 700 gra­di Banana". Tuttavia, per far bollire l'acqua a 97 gradi non è que­stione di cambiare i paradigmi, bensì di andare in montagna.

(e). Opere letterarie Un altro caso è costituito dalle opere lette­rarie. Nessuno, tranne Tasso o Manzoni, si sognerebbe di emen­dare la Gerusttlemme liberata o I promessi sposi; tolto Conan Day­le, nessuno potrà mai revocare in dubbio la frase "Sherlock Hol­mes abita a Baker Stred'.55 Visto però che sono morti tutti e tre, si può uanquillamente sostenere che proprio nessuno mai, sino agli ultimi giorni dell'umanità, potrà emendare quelle opere. Vi­ceversa, c'è stata un'epoca in cui si è sostenuto che la Bibbia con­teneva una caterva di errori cosmologici, poiché il criterio di va­lidazionc non era l'intenzione autorale, bensì il riferimento a un mondo, sicché avremmo avuto a che fare con una cosmologia da patriarchi, non con una cosmogonia mediorientale. Il che, natu­ralmente, non succede per i romanzi; ed è strettamente impossi­bile, non per motivi di fatto, bensì per ragioni concettuali, soste­nere che forse, con ulteriori ricerche sulla vita privata di Alfred Agostinelli, sapremo se Albertine Simonet era davvero fedele o infedele al Narratore della Recherche: non lo sapremo mai (inve­ce, sappiamo che Hans Castorp è stato veramente con Clavdia, anche se non è chiarissimo e quindi qualcuno può non accorger­sene), cosl come non potremo mai dire che Albertine Simonet è Alfred Agostinelli, mentre possiamo tranquillamente affermare (io ha scritto nel romanzo) che il Narratore è Marcel Proust. Sempre perciò, ci è noto tutto quello che si può umanamente sa­pere su Emma Bovary; siamo anche in grado di sostenere, sebbe­ne non con la medesima forza che nel caso Narratore=Proust, che è Gusta ve Flaubert, che lo ha dichiarato, ma non nel roman­zo; tuttavia, senz'ombra di dubbio, sappiamo molto meno non solo sui nostri migliori amici, ma anche su di noi.

(f). Regole dei giochi. Del pari, le regole dei giochi non si emendano, si trasformano, e con loro mutano i giochi. Anche qui la scienza non ha l'ultima parola: se Cuvier avesse deciso di

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cambiare il rubamazzetto, magari lo avrebbero lasciaw fare, ma non perché era un naturalista; e probabilmente, specie se le va­riazioni fossero risultare ingenti, avrebbero ribattezzato il gioco chiamandolo "cuvier".

(g). Concetti Veri e Completi. Il caso-limite nell'altro senso è fornito dalle proposizioni scientifiche ideali: i Concetti Veri e Completi, che non sono più oggetto di scienza come emendabi­lità, e dunque possono considerarsi alla stregua di giudizi analiti­ci. Resta però il dubbio circa l'effettiva realizzazione di un sapere assoluto in materia.

3. Oggetti della ricerca scientifica in cono. Sono c'une le propo­sizioni su cui si svolge la ricerca in ciò che, da un certo punto in avanti, si è chiamato "scienza". Ci è così presente e pressante, il mondo interno, almeno a livello di riflessione, che possiamo es­sere tentati di credere che nulla esista fuo,ri dehesto. Spero di aver dimostrato a sufficienza che non è-così; e, soprattutto, che il mondo esterno non è un iceberg che emerge in condizioni spe­ciali e che, alla fine, non esiste se non per tenere insieme il mon­do delle parole. Siamo ~~.!mente abituati a estorcere teorie dalle nostre esperienze che fìniamo per dimenticare che ci sono fi.n troppe esperienze da cui non traiamo un bel niente, non avendo­ne tempo, vogli~ o necessità; o anche perché se lo facessimo sa­remmo indof,J.i in errore, giacché quella secondo cui i fatti esisto­no sohanto;Per fornire una base alle nostre teorie pare una mera ipotesi, smentita del resto da una infinità di circostanze, non ul­tima quella in base alla quale "esperienza sensibile" non è solo il nomignolo superfluo di un processo che non avrebbe mai luogo come tale. Può darsi che, a metterla in questi termini, si dia l'im­pressione di quando, al millesimo "perché?" di un bambino, si risponde: "Perché è cosl". Ma è vero il contrario: se lo scienziato sa qualcosa di più di .chi non ha studiato, è proprio perché c'è uno strato dell'esperienza, come, ad esempio, la buccia di bana­na su cui scivola, che resiste a ogni emendazione concettuale. Ec­co la morale, che mi deve essere stata dettata in modo sublimina­le; è la citazione da Eliot iscritta da un anonimo utente sulla por­ta interna del gabinetto del Philosophisches Seminar della Uni­versità di Heidelberg, su cui ho avuto agio di meditare a lungo: "Oh, do not ask, 'What is it?' l Let us go and make our visit".56

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NOTE

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1 Un primo abbozzo di quamo qui esposto si trova (spesso in versione più estesa) in "Mente e mondo o scienza ed esperienza~". in Rivista di mttica, n.s, 12, 1999: 3-77 e "Il problema non è l'ornirorinco. t, Kant" ibid., 13, 2000: 110-220. Il primo saggio discuteva John McDowell, Mente e mondo (1994), trad. it. di C. Nino, Torino, Einaudi 1999: il secondo, prendeva l'avvio da U. Eco, Knnt e i'ornitorinco, Milano, Bompiani 1997. Ringrazio per le discussioni, le critiche e i commenti (in mohissimi casi tali da dettare nuove svolte all'argomentazione) Tiziana Andina, Marilcna Andronico, Ca­rola Barbero, Stefano Caputo, Roberto Casati, Massimo Dc Carolis, Anna Doni~e. Nicoleua Giorda, Tonino Griff'em, Pietro Kohau, P3olo Lcgreozi, Luca Morena, Carlo Nizzo, Roberto Poli, Alessandra Saccon, Achille Varzi, Giovanni Vicario. 2 Elementa philosophùu, si ve Ontosophin, GrOningen, Nicolai 1647. l Philosophia prima sive Onto!ogia, Frankfurt-Leipzig, Renger 1729. 4 Discorso di merafisica, § 19. ~ Nai've Physik. Arbeiten «<IS de m lnstinu jiir angewandte Psychoiogie in Ber/in. Theoretische und experimenul/e Untmuchungm Uber die Fiihigkeit zu inte//i­genttm Hande/n, Leipzig, Barth 1923. La realizzazione più matura di questa prospeniva si trova in Paolo Bozzi, Fisica ingenua, Milano, Garzanti 1990. 6 P. Legrenzi, "Naive Probability: A Menta] Mode! Theory of Exrensional Rea.soning", Psychoiogical Review, 1999 {con P.N. Johnson-Laird, VittoriO Girotro, Maria Sonino, Jean-Paul Caverni). 7 "{. .. ) Quando ho esaurito le giustificazioni arrivo allo strato di roccia e la mia vanga si piega. Allora sono disposto a dire: 'Ecco, agisco proprio così'." {Wingcnstcin, Ricerche filosofiche, § 217). 8 Gaetano Kanizsa, Hodere e pensare, Bologna, il Mulino 1991: 30 ss. 9 Cito dalla traduzione di Pietro Chiodi, Torino, Utet. A= 1781, B = 1787. lO Critica del Giudizio,§ 75. 11 Cfr. Manfredo Massironi, "La via più breve nel pensiero" visivo", Sisumi inu//igenti, a.- VII, 2, 1995: 223-261. 12 Massironi, Fenomenologia della percezione visiva, Bologna, il Mulino 1998: 152: S. Roncaw, R. Ruminati, "Naive Smics: Currem Misconcep-

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M,\URIZIO FERRARIS

tions o n Equilibrium", journa/ of Experimema! Psychology: Learning, Mt­moryandCoplition, 12, 1986:361-377. Il Roberto Casati, La scopata del/'ombrtt, Milano, Mondadori 2000. H Cfr. Cristina Becchio, Ragiotmmmto deduttivo e spazialità. Un'ipotesi spai­memnlt c alcune comidcrnzioni filosofiche, Tesi di laurea in estetica, Univer­sitàdiTorino,a.a. 1999-2000. IS Nel 1768 (Del primo fondammro dd/a dùrinzione del/t regioni dello spazio; e poi ancora in Che cosa significa orientarsi 1ul pensiero?, che è di trent'anni dopo), Kant aveva sviluppato una nozione ecologica di spazio, definita a partire dalla corporeità (la mano destra e sinistra, la testa e i piedi, il petto e il dorso), che rispondeva sl a una esigenza della rivoluzione copernicana, ma entrava in conflitto con l'idea newtoniana di spazio assoluto. 1 ~ Nuovo organo (1764) "r:enomcnologia o Domina della parvenza", sez. l, §§l, 2. 7. 17 Robeno Casati, !.n scopata dell'ombra, cit.: 172-4. 18 Paolo Bozzi, Fmommologùtsptrimmtalt, Bologna, il Mulino 1989: 165. 19 Filebo 38e-39a; è uno slittamemo epistemologico (in quella sede, legitti­mo) che si ritrova sino alla Riickftage in Husserl: il senso iniziale di una cono­scenza si dà solo come senso finale, sappiamo oggi che la Luna è un satellite fatto cosl e cosl, e che era tale anche l 0.000 anni fa, quando non si pensava che fosse fanocosìecosl. .:o A 102, corsivo mio. In molti, da Vaihinger in poi, ipotizzarono che si trat­tasse di un refuso. Del resto, nella manualisrica cui Kant aninge, l'immagi­nazione è, aristotelicameme, la ritenzione della sensazione: "nihil est in phantasia, quod antea non fuerit in sensu" (Baumgarten, Meraphysica, ed. 1757, § 559); "Sine pracvia sematione nullum in anima phantasma oriri potcst" (Wolff, Psychologin empirica, 1730 § 106). ~~Alfredo Fcrrarin, in HConmuction and Mathematical Schematism. Kant on tbc Exhibition of a Concept in lntuirion", Kant-Studien, 86, 1995: 131-174. ha svolto in proposito la miglior.:; analisi che io conosca, però ha soste­nuto la tesi opposta alla mia, ossia che c'è una differenza cruciale rra losche­matismo kantiano e il costruzionismo matematico, visro che Kant non si il­lude di poter produrre una intuizione, come viceversa avviene nella costru­zione matematica. Il punto è tuttavia: se davvero lo schcmatismo non co· struisse, se veramente le categorie si limitassero a un valore regolarivo ecc., la fìlosofia trascendentale non servirebbe a niente, e Kam non potrebbe oem· meno sperare di aver risposto a Humc. 22 Si confrontino B 225 c B 17. H Nel che non c'è nulla di male, visto che hanno delle proprietà, cfr. R. Ca· sa ti-A. Varzi, Buchi e altre mpuficialità ( 1994), nad. i t. di L. Sosio, Milano, Garzanti 1996. Ma per Kant non è cosi. ! 4 R.M. Chisholm, 'The Loose and Popular and tbc Sttict and Philosophi­cal Senses oflùcmiry" in Paception and Personal ldentity, a cura di N.S. Ca­re e R. H. Grimm, Cleveland, The Press of Case Western Reserve Universiry 1969: 82-106. Il problema è affine a quello delle qualità figurali in Ehren­fels e degli oggetti fondati in Meinong. V. nota 27.

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CHE COSA SI PROVA A ESSERE UNA CIABAITA

2~ Paolo Bozzi, Fenomenologia sperimentale, dr.: 52. 26 Ifondamentidel/apsicologiadel/a Gmalt{1941), traduzione di G.B. Vica­rio, Firenze, Giunri-Barbèra 1971 A rigore, questa distinzione si può farri­salire a Herbarr, preoccupato della riduzione idealistica del kantismo a teo­ria della rappresema:zione, avviata da Reinhold sulla base di una tendenza che, come abbiamo visto, risulta ampiamente attestata in Kanr. Per una ec­cellente esposizione, cfr. G. B. Vicario, Psi<ologia generale, Roma-Bari, Later­za200l: 93 ss. 21 AJexius von Meinong, Gli oggeni di ordine superiore in rapporto alla perce­zione interna (1899), tr. it. di E. Melandri, Faenza, Faenza editrice 1979, § 2. 28 Come in effetti scrive Agostino (Confessioni, X, 1.1): yvolo eam [verita­tem] facere in corde meo coram te in confessione, in stilo autem coram multis testibus"; a giusto titolo, del resto: è solo <onftssandosi che si fa la ve­rità; vivendo, si fa altro, nella maggior parte del tempo. E a buon diritto Proust può sostenere che quando si scrive si diventa anenri e scrupolosi, mentre quando si vive ci si rovina per delle menrogne. 19 y ... ogni tipo di agire, volere e semi re umano può diventare oggetto delle scienze" in Edmund Husserl, L'idea di Europa (1924), a cura di C. Siniga-

~i~r~i:;:;i i:S~~~.: ~~~~11ii7 ~~16o]. 31 Ma che cos't questo amore, Milano, Corbaccio 1998: 197-99. 32 Mio figlio mi ha fornito una eccellente descrizione dell'allacciarsi le scar­pe. ma l'operazione gli riesce difficile, cosi come, in generale, facile è la criti­ca e difficile l'arte. Sulla differenza tra la competenza inferenziale (collegare le parole con altre parole) e la competenza referenziale (collegare le parole con le cose), cfr. Diego Marconi, Uxical Competence, Cambridge, Mass., The Mit Prcss 1997. 33 Logik der Philosophie, 1911, in Gesammelre Schriften, Tilbingen, Mohr 1923, II: 74. 3~ EsperienZilegiudizio (1938), uad. it. di F. Costa rivista da L. Samonà, Mi­lano, Bompiani 1995, § 10. 3$ Ueuto, l97b-199c. 36 La sentenza di Ahan "mi vengono in menre delle idee che non condivido" non costituisce un caso-limite, né soprattutto una ipotesi nulla. È consueta, nei resoconti della genesi di un romanro o di una poesia, che l'autore parli di idee che gli si sono imposte fuori della sua volomà; altre volre, vorremmo ~:~:~::~: ~~;_rarci di sensi di colpa che consideriamo irrazionali, e non ci

37 Deanima432a 10-15.

:: ~~r ~:~~~~~~~tu;~;;: ~e~~:bf1?~:!:fa b~~!~~ar~~~;J;~ea~:: i!~e;:;;;st f~~ anima, 424a 18. 39 Ricerche logiche (1900-190 1), trad. i t. Di G. Piana, Milano, il Saggiata re 1968:357-8. ~o Dopo James J. Gibson, Un approcdo ecologico alla ptrcezione visiva (1979), trad. ir. di R. Luccio, introduzione di R. Luccio e di P. Sozzi, Bolo-

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gna, il Mulino 1999, questo accosramemo tra onrologia ed ecologia non ha pretese di originalità. Cfr. R. Casari-B. Smith, ~Naive Physics: an essay in Oncology", Philosophiral Psychology, 712, 1994; B. Smith, ~Truth and che Visual Fidd", in Namrali:àng Phrnomrnology. /ssurs in Conttmporary Phmo­mtnolog_y and Cognitivr Srirnu, a cura di J. Pctitot, F.J. Varela, B. Pachoud, J.M. Roy, Sranford Universiry Prcss 1999; Id., "Objects and their environ­mcms: from Arisrotle to Ecologica! Ontology", in Thr Lifo and Motion o[ Sorioetonomù: Unirs, a cura di A. Frank, London, Taylor and Francis 1999; Id .. Hmsrr/inn rrology, ms. inedito, 2000 (hnp:l/wings.buffalo.edu/acade­mic/departmenr/philosophy/faculry/smirh); Id. -A. Varli, "The Niche", Noli.s,33:2, 1999. 41 Lho derto- sbagliando- in "Ontologia come fisica ingenua", Rivista di tstrtira, n.s., 6, 1997: 133-143. ~! Tractatus Logiro-philosophirm, 5.631. La proposizione, che si ritrova anche in Schcler nello stesso giro d'anni, è trana da Avenarius. Ringrazio Kevin

vedo reoriu.azione di questa nozione a Derrida in l.a voix rt fr phtnom~nr

valore di pr~se.nza originaria all'inrui-

anziruno la certezza ( ... ) ideale e assoluta, che la forma di ogni esperienza, dunque di ogni vita, è sempre stata e sarà sempre il presente. Non c'è e non ci sarà mai altro che il presenre. Lessere è presenza o modificazione della presenza. Il rapporto alla presenza del presente come forma ultima della idealità è il movimento per cui trasgredisco l'esistenza empirica, la fanualità, la contingenza, la mondanìtà. E anzicuno la mia. Pensare la presenza come forma universale della vita trascendentale, è aprirmi al sapere che in mia as­senza, di là dalla mia esistenza empirica, prima della mia nascita e dopo la mia morte, il pmrntr r. Posso prescindere da ogni contenuto empirico{ ... ) immaginare una trasformazione radicale del mondo: la forma universale della presenza ( ... ) non ne sarà compromessa. t: dunque il rapporro con la mia morte (con la mia sparizione in generale) che si nasconde in questa de­terminazione dell'essere come presenza, idealità, possibilidt assoluta di ripe· tizione". 43 Analiticipostrriori, Il, 19. 44 B. Smith, "Common sense", in Cambridgr Compnnion to Husserl, a cura di B. Smith c D. WoodruffSmith, Cambridge Universiry Press 1995. Più in generale, ("Thc: Suucrures of Common-Sense World", Acta Philosophica

l Frnnira, 58, 1995) rende a identificare senso comune e fisica ingenua nel quadro di una definizione dell'ontologia. Pc:rsonalmc:me, preferisco usare la fisica ingenua non come definizione di un ambito positivo, bcnsl come rea· geme per distinguere omologia ed epistemologia. ~5 John L. Austin, YA Piea for Excuses", in Id., Philosophkal Paprrs, 2a ed., Oxford Universiry Press 1979: 175-204. 46 Massironi, Fmomenologia dr/la prrcrzionr visiva, cit.: 63. 47 Come viceversa ritiene Moore (G. E. Moorc, "La prova dell'esistenza del

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mondo esterno", 1939, in Saggi filosofici, trad. it. di M.A. Bonfantini, Mila­no, Lampugnani Nigri 1970: 133-159). ~ 8 Jonathan Barnes, The Onroiogica!Argument, London, McMillan 1972. 49 Leibniz, Mtditaàoni sulla conosunu, la uerità t lr idee, 1684. ~o De anima, 431b 13-17. ~~ Cosl a giusro tirolo Husserl nd § 14 della terza Ricerca Logica: ~Le espressioni indeterminate '3.o ha bisogno di intrgrazione' e '3.o è fondato in un urto mommto' hanno evidentemente lo stesso significato dell'espressione: 'a0 è non-indipendente'. Q Il che significa, d'altra parte, che c'è un bel po' di cose indipendenti, non fondare, né bisognose di integrazione. ~2 Yhkre e pensare, dt.; Grammatita del uedtre, Bologna, il Mulino 1980. B Cfr. Vincenzo Costa, L'estetica trascmtkntale ftnommologica, Milano, Vira e Pensiero 1999: 151. 54 De rerum naura., l, 159-166, trad. di Armando Fellin. ~~ U. Eco, ~Dove sta Cappuccetto RossoQ, in G. Usbeni, a cura di, Modi deli'oggmiuitir, Milano, Bompiani 2000: 137-157. 56 TheLoveSongofj.AifredPruftock,vv.10-11.

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