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DIRITTO PENALE CONTEMPORANEO Fascicolo 12/2018

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DIRITTO PENALE CONTEMPORANEO

Fascicolo12/2018

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DIRETTORE RESPONSABILE Gian Luigi Gatta VICE DIRETTORI Guglielmo Leo, Luca Luparia

ISSN 2039-1676

COMITATO DI DIREZIONE Alexander Bell, Antonio Gullo, Luca Masera, Melissa Miedico, Alfio Valsecchi

REDAZIONE Anna Liscidini (coordinatore), Alberto Aimi, Carlo Bray, Alessandra Galluccio, Stefano Finocchiaro, Francesco Lazzeri, Erisa Pirgu, Serena Santini, Tommaso Trinchera, Maria Chiara Ubiali, Stefano Zirulia

COMITATO SCIENTIFICO Emilio Dolcini, Novella Galantini, Alberto Alessandri, Jaume Alonso-Cuevillas, Giuseppe Amarelli, Ennio Amodio, Francesco Angioni,� Roberto Bartoli, Fabio Basile, Hervé Belluta, Alessandro Bernardi, David Brunelli,� Silvia Buzzelli, Alberto Cadoppi, Michele Caianiello, Lucio Camaldo, Stefano Canestrari, Francesco Caprioli, David Carpio, Elena Maria Catalano,� Mauro Catenacci, Massimo Ceresa Gastaldo, Mario Chiavario, Luis Chiesa, Cristiano Cupelli, Angela Della Bella, Gian Paolo Demuro, Ombretta Di Giovine, Massimo Donini, Giovanni Fiandaca, Roberto Flor, Luigi Foffani, Gabriele Fornasari, Loredana Garlati, Mitja Gialuz, Glauco Giostra, Giovanni Grasso, Antonio Gullo, Giulio Illuminati, Roberto E. Kostoris, Sergio Lorusso, Stefano Manacorda, Vittorio Manes, Luca Marafioti, Enrico Marzaduri, Luca Masera,� Jean Pierre Matus, Anna Maria Maugeri, Oliviero Mazza, Alessandro Melchionda, Chantal Meloni, Vincenzo Militello, Santiago Mir Puig, Vincenzo Mongillo, Adan Nieto Martin, Francesco Mucciarelli, Renzo Orlandi, Íñigo Ortiz de Urbina, Francesco Palazzo, Claudia Pecorella, Marco Pelissero, Vicente Pérez-Daudí, Daniela Piana, Lorenzo Picotti, Paolo Pisa, Daniele Piva, Oreste Pollicino, Domenico Pulitanò, Joan Josep Queralt, Paolo Renon, Mario Romano,� Gioacchino Romeo, Carlo Ruga Riva, Markus Rübenstahl, Francesca Ruggieri,� Marco Scoletta, Sergio Seminara, Rosaria Sicurella, Placido Siracusano, Carlo Sotis, Giulio Ubertis, Antonio Vallini, Paolo Veneziani, Costantino Visconti, Matteo Vizzardi, Francesco Zacchè

Diritto Penale Contemporaneo è un periodico on line, ad accesso libero e senza fine di profitto, nato da un’iniziativa comune di Luca Santa Maria, che ha ideato e finanziato l'iniziativa, e di Francesco Viganò, che ne è stato sin dalle origini il direttore nell’ambito di una partnership che ha coinvolto i docenti, ricercatori e giovani cultori della Sezione di Scienze penalistiche del Dipartimento "C. Beccaria" dell'Università degli Studi di Milano. Attualmente la rivista è edita dall’Associazione “Diritto penale contemporaneo”, il cui presidente è l’Avv. Santa Maria e il cui direttore scientifico è il Prof. Gian Luigi Gatta. La direzione, la redazione e il comitato scientifico della rivista coinvolgono oggi docenti e ricercatori di numerose altre università italiane e straniere, nonché autorevoli magistrati ed esponenti del foro. Tutte le collaborazioni organizzative ed editoriali sono a titolo gratuito e agli autori non sono imposti costi di elaborazione e pubblicazione. Le opere pubblicate su “Diritto penale contemporaneo” sono attribuite dagli autori con licenza Creative Commons “Attribuzione – Non commerciale 3.0” Italia (CC BY-NC 3.0 IT). Sono fatte salve, per gli aspetti non espressamente regolati da tale licenza, le garanzie previste dalla disciplina in tema di protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio (l. n. 633/1941). Il lettore può condividere, riprodurre, distribuire, stampare, comunicare al pubblico, esporre in pubblico, cercare e segnalare tramite collegamento ipertestuale ogni lavoro pubblicato su “Diritto penale contemporaneo”, con qualsiasi mezzo e formato, per qualsiasi scopo lecito e non commerciale, nei limiti consentiti dalla licenza Creative Commons “Attribuzione – Non commerciale 3.0 Italia” (CC BY-NC 3.0 IT), in particolare conservando l’indicazione della fonte, del logo e del formato grafico originale, nonché dell'autore del contributo. La rivista fa proprio il Code of Conduct and Best Practice Guidelines for Journal Editors elaborato dal COPE (Comittee on Publication Ethics).

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INDICE DEI CONTRIBUTI

PAPER G. GENNARI, La macchina della verità si è fermata a Salerno…fortunatamente………… 5 R. VALLI, Valutazione dell’affidabilità dell’indagine genetica svolta con violazione di “protocolli” e linee guida: utilizzabilità del risultato raggiunto………………… 15 A. GALANTI, Il traffico illecito di rifiuti: il punto sulla giurisprudenza di legittimità…... 31 A. CIMMINO, I rapporti tra massoneria e mafia in una recente decisione della Suprema Corte…………………………………………………………………………….. 55 D. GALLIANI, Le briciole di pane, i giudici, il senso di umanità. Una lettura costituzionalmente orientata degli artt. 35, 35-bis e 35-ter dell’ordinamento penitenziario…………………………………………………………………….. 73 M.A. ACCILI SABBATINI, A. BALSAMO, Verso un nuovo ruolo della Convenzione di Palermo nel contrasto alla criminalità transnazionale…………………………... 113

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LA MACCHINA DELLA VERITÀ SI È FERMATA A SALERNO… FORTUNATAMENTE

di Giuseppe Gennari

SOMMARIO: 1. Antefatto. – 2. L’a-IAT ai fini del giudizio di revisione. – 3. Considerazioni in ordine sparso. – 4. Epilogo. 1. Antefatto.

Siamo nel 2011 quando il test a-IAT, protagonista di queste pagine, incrocia per la prima volta i propri destini con le aule di giustizia nazionali1. Il caso nasce quando una studentessa minorenne, di ritorno da uno stage breve presso lo studio di un commercialista, racconta in lacrime, alle sue amiche e ad alcuni docenti, di essere stata molestata. Durante la sessione di lavoro, il professionista le si sarebbe avvicinato da dietro, prima provocandola verbalmente, poi cingendola e infine infilandole le mani tra le gambe e cercando di introdurre le dita all’interno dei pantaloni. Pochi giorni dopo la ragazza decide di presentare una querela e avviare, dunque, un procedimento penale.

Nel corso del giudizio, definito con rito abbreviato, l’imputato dichiara insistentemente la propria innocenza, affermando in sostanza di essere vittima di un comportamento calunnioso davvero inspiegabile.

Numerosi testimoni sembrano confermare la versione della ragazza. Tuttavia, tenuto conto della “delicatezza del caso” e delle “argomentazioni dei difensori”, il giudice decide di disporre una perizia. Lo scopo dell’accertamento, sostanzialmente, è quello di verificare la credibilità2 della testimone/vittima; mentre, formalmente, si dice che è necessario valutare eventuali danni psichici rilevanti ai fini delle richieste di risarcimento.

E qui entra in gioco il nostro protagonista, perché l’esperto nominato utilizza, per rispondere al quesito del giudice, il cosiddetto a-IAT. Su quella base, egli conclude che la vittima recava il ricordo autobiografico delle molestie subite. Quindi queste erano vere! E la poveretta ancora ne subiva le conseguenze.

1 Giudice per le indagini preliminari di Cremona, 19 luglio 2011, n. 109, inedita. 2 Questo profilo non è esplicitato nel quesito formulato per le ovvie perplessità che avrebbe destato il fatto di delegare ad un perito la valutazione della credibilità del teste. Tuttavia, nelle motivazioni della sentenza si dice chiaramente che la perizia doveva servire per verificare se la vittima conservasse in sé il ricordo dell’evento.

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Di che cosa stiamo parlando? Lo IAT – nella sua versione autobiografica (quindi a-IAT) – consiste essenzialmente nel misurare, attraverso l’ausilio di un computer, i tempi di risposta del soggetto a delle proposizioni che gli vengono sottoposte come vere o false. Nella relazione che l’esperto presenta al giudice si spiega che “il soggetto esaminato … deve rispondere a delle frasi che descrivono il ricordo da “validare”. Tipicamente queste frasi rappresentano una ricostruzione secondo l’ipotesi accusatoria e una corrispondente ricostruzione secondo l’ipotesi difensiva. … La memoria vera viene riconosciuta perché può essere “raggiunta” più velocemente mentre quella falsa ha un percorso cerebrale più tortuoso, che si riflette in un allungamento abnorme dei tempi di reazione”.

Il perito spiega che il metodo utilizzato è assolutamente accreditato, dal punto di vista scientifico e sostiene che esso risponderebbe pienamente ai criteri americani Daubert. Precisamente:

– vi sarebbe ampia accettazione da parte della comunità scientifica, tanto da essere definito, lo IAT, una delle acquisizioni più citate e note negli ultimi quindici anni nel settore della psichiatria/psicologia;

– vi sarebbe ampia letteratura peer-reviewed; – vi sarebbe una percentuale di errore molto bassa, con un’accuratezza prossima

al 92% (cioè nel 92% dei casi l’esito è corretto); – la tecnica sarebbe falsificabile in senso popperiano3. Inoltre, si aggiunge anche che il risultato del test non potrebbe essere alterato

volontariamente dal soggetto che vi è sottoposto. Tanto basta per convincere il giudice per le indagini preliminari di Cremona, che

mette il “timbro” sulla piena scientificità della innovativa indagine. Il giudice inquadra in modo teoricamente corretto il tema dell’affidabilità del metodo scientifico, facendo esplicito riferimento alla sentenza Cozzini4 e quindi ai nominati criteri Daubert. Però, poi, gli elementi che il giudicante focalizza per validare il test altro non sono che quelle medesime asserzioni poste dal perito a sostegno delle sue conclusioni. A questi dati il gip aggiunge poco altro, tra cui la “statura scientifica” del perito, che – almeno questo – l’esperto non poteva auto attribuirsi.

Insomma, c’è poco da dire. Al primo incontro – in termini calcistici – uno a zero per l’a-IAT e palla al centro. La seconda partita si gioca l’anno successivo a Venezia5.

Un pediatra di una scuola elementare viene arrestato in flagranza, mentre compie atti sessuali su una bambina. Dopo l’arresto, il medico, sessantenne, confessa almeno altri sei episodi, dichiarando di avere agito sotto un impulso incontrollabile e a lui

3 Il richiamo a Popper, ormai stereotipato in ambito giudiziario, è ampiamente superato dalla filosofia della scienza; soprattutto in ambiti probabilistici come quelli della psicologia sociale. Risalgono alla metà degli anni settanta i noti lavori in cui Grünbaum evidenzia le debolezze del sistema logico posto a fondamento della tesi popperiana. Cfr. G. BONIOLO, P. VIDALI, Introduzione alla filosofia della scienza, Bruno Mondadori, Milano, 2003; D. ANTISERI, Adolf Grünbaum: contro Popper e contro Freud, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014. 4 Cass., 17 settembre 2010, n. 43786, in Dir. pen. proc., con nota di P. TONINI, La Cassazione accoglie i criteri Daubert sulla prova scientifica. Riflessi sulla verifica delle massime di esperienza. 5 Giudice per le Indagini Preliminari Venezia, 24 gennaio 2013, n. 296, in Riv. it. med. leg., 2013, 1905 ss., con nota di L. ALGERI, Accertamenti neuroscientifici, infermità mentale e credibilità delle dichiarazioni.

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inspiegabile. Il reo confesso faceva risalire a circa un anno e mezzo prima dell’arresto la nascita di questo interesse sessuale per i minori.

Nel corso del procedimento, la difesa si affida allo stesso esperto visto a Cremona, per valutare la condizione psichiatrica dell’imputato e la sua imputabilità. Tra gli accertamenti di contorno il consulente della difesa utilizza – di nuovo – il test a-IAT per valutare la credibilità delle dichiarazioni dell’imputato circa il momento in cui, per la prima volta, avvertì pulsioni pedofile. Tra le argomentazioni spese a sostegno della validità del test, in aggiunta a quanto scritto un anno prima per il giudice di Cremona, l’esperto aggiunge anche un particolare potenzialmente assai insidioso per il nuovo giudice: la metodica era stata già validata, in ambito giudiziario – appunto a Cremona –, da una corte che ne aveva verificato la corrispondenza ai criteri Daubert “italianizzati” dalla sentenza Cozzini.

Il giudice veneziano, tuttavia, la pensa diversamente. Grazie all’ausilio di un perito “forte”, il giudice evidenzia come il test a-IAT non godesse di alcun consenso generalizzato presso la comunità scientifica e lo respinge come non attendibile6.

Con questa sonora battuta di arresto, la carriera forense dell’a-IAT sembrava essersi improvvisamente e definitivamente ribaltata. Per quanto a conoscenza del sottoscritto, la decisione veneziana rappresentava il secondo, ultimo e – questa volta – fallito tentativo di affermare l’uso dello a-IAT nelle corti italiane.

In realtà non stavano così le cose. Nello stesso giro di tempo l’esca dell’a-IAT agganciava un pesce ben più grosso, con potenziali devastanti conseguenze bloccate solo grazie alla perspicacia di un altro giudice di merito. 2. L’a-IAT ai fini del giudizio di revisione.

Sempre nell’anno 2012 la Corte di appello di Catanzaro7 si trova a giudicare dell’ammissibilità di un giudizio di revisione relativamente ad una condanna per concorso in omicidio, maturato in un contesto criminale di alto livello. Il condannato, a sostegno della sua domanda, avanza rinnovati dubbi sull’attendibilità della testimone chiave8 e aggiunge poi un rivoluzionario test a cui egli stesso si sarebbe già sottoposto. Guarda un po', questo test è proprio l’a-IAT e, sempre per puro caso, l’esperto che lo aveva somministrato è lo stesso che si era presentato a Cremona e a Venezia. Qui il test serve per dimostrare che l’imputato non reca traccia mnestica dell’episodio delittuoso. La tesi è che egli non ne ha memoria perché, semplicemente, non era presente ai fatti.

Bene, la corte di Catanzaro dichiara inammissibile il giudizio di revisione per la ragione che “…non è dato desumere alcun elemento concreto dal quale potere ricavare sia la scientificità che la novità … del metodo di analisi utilizzato…; manca in definitiva una sufficiente indicazione circa il grado di consenso che il sistema descritto nell’istanza di revisione riscuote

6 Questa conclusione si colloca nel corpo di una decisione ben più complessa e che riguarda anche altri profili neuroscientifici, che però a noi non interessano in questa sede. 7 Corte appello Catanzaro, 9 gennaio 2012, inedita. 8 Questione che, qui, può essere totalmente tralasciata.

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nell’ambito della comunità scientifica e il livello di condivisione raggiunto dallo stesso”. Cioè la corte, in modo molto chiaro, enuncia semplicemente la verità.

Il discorso avrebbe dovuto chiudersi qui. E invece le sorprese sono sempre dietro l’angolo. La Corte di cassazione9 annulla la sentenza sulla base della seguente motivazione: “… il giudicante ha accollato al consulente tecnico l’onere di certificare la validità delle nuove tecniche d’indagine psicologica cui lo stesso ha fatto ricorso, quasi che non fosse, viceversa, compito, innanzitutto del giudice (documentarsi e) pronunziarsi sulla correttezza dei nuovi criteri metodologici sottoposti alla sua attenzione (in relazione alle tecniche IAT e TARA , esiste ormai letteratura, anche in ambito giuridico).

Va al proposito ricordato che la richiesta di revisione è certamente ammissibile, se prospetta una perizia nuova per (valida) metodologia e conclusioni difformi da quelle precedentemente raggiunte”. In sostanza – se è consentita una semplicistica sintesi – si dice che è onere della corte d’appello verificare la validità del nuovo metodo scientifico; in questo caso il metodo era valido e la corte, che non ha fatto il doveroso sforzo di documentarsi, non se n’è accorta. 3. Considerazioni in ordine sparso.

Purtroppo le cose stanno esattamente al contrario di come le ha pensate la Suprema Corte. Come si dice di consueto in questi casi, senza pretesa di completezza, ecco alcune considerazioni:

a) la prima riflessione è, forse, metagiuridica ma – si ritiene – comunque meritevole di essere svolta. Forse la Suprema Corte non ha valutato fino in fondo che quello che veniva proposto nella richiesta di revisione era la vera e propria introduzione, nel nostro sistema giuridico, della macchina della verità. Negli altri casi che abbiamo visto l’a-IAT veniva presentato come strumento accessorio, nel contesto di una valutazione psichiatrica più ampia, tendente a valutare la capacità di intendere e volere dell’imputato o il danno psichico della persona offesa. Qui si chiede all’imputato di dire se è vero o non è vero che ha commesso il delitto e si misurano le sue risposte per stabilire se dice il vero o no. Appunto, un lie-detector in piena regola! Chiaramente, non si tratta di essere contrari o meno, in linea di principio. Se esistesse una macchina della verità scientificamente “valida” come dice la Suprema Corte, si tratterebbe di una rivoluzione epocale. Finalmente potremmo evitare l’errore giudiziario ed essere certi di condannare solo colpevoli. Quale sistema giuridico democratico non ambirebbe ad un simile formidabile risultato? Il problema è che uno strumento di questo tipo non esiste.

Di consueto, il giudizio di revisione – fondato su “nuova” prova scientifica – punta l’attenzione su questa o quella prova decisiva nel processo di merito10, proponendone una lettura differente. Questo può produrre conseguenze su quello specifico processo, ma oltre non si va. 9 Corte di Cassazione, 2 gennaio 2013, n. 14255, accessibile a questo link. 10 Ad esempio, si chiede di analizzare una traccia genetica con una nuova tecnica o di applicare nuove conoscenze a residui di sparo….

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Invece, in questo caso si prospetta una metodologia concretamente applicabile a qualsiasi giudizio in cui il condannato abbia negato la propria responsabilità. Se quello che afferma il giudice di legittimità rispetto allo a-IAT fosse vero, per mera coerenza ogni procuratore generale presso ciascuna corte di appello dovrebbe promuovere giudizio di revisione in tutti i casi in cui il ritenuto responsabile si sia dichiarato estraneo. Questa considerazione avrebbe potuto indurre la corte a maggior prudenza prima di fare certe affermazioni;

b) la seconda considerazione riguarda il regime probatorio. Ora, è ben noto che “ai fini dell'ammissibilità della richiesta di revisione basata sulla prospettazione di nuove prove, l'esame preliminare della Corte d'appello circa il presupposto della non manifesta infondatezza deve limitarsi ad una sommaria delibazione degli elementi di prova addotti, in modo da verificare l'eventuale sussistenza di un'infondatezza rilevabile ictu oculi e senza necessità di approfonditi esami, dovendosi ritenere preclusa in tale sede una penetrante anticipazione dell'apprezzamento di merito, riservato invece al vero e proprio giudizio di revisione, da svolgersi nel contraddittorio delle parti”11.

Due sole riflessioni. La prova scientifica non è una prova come le altre, non è un documento o una

testimonianza. La prova scientifica pone un problema di intrinseca credibilità. Quindi, quando la corte dice che non compete al giudice dell’ammissibilità di valutare il “merito” in modo penetrante vuole dire – a me pare – che non spetta a quel giudice valutare in modo pieno quale sarà l’impatto della nuova prova sul compendio degli elementi a fondamento della condanna e dunque, in ultima analisi, sulla condanna stessa. Ma cosa diversa è dire che il giudice non debba valutare, in modo completo, l’attendibilità scientifica di quello che viene proposto. Altrimenti anche la sfera di vetro di un mago potrebbe costringere al giudizio di revisione. È stata più volte sostenuto l’inutilità, nel nostro sistema, di una fase di valutazione sull’ammissibilità della prova scientifica distinta dalla sua valutazione nel merito, secondo quello che invece è il modello americano12. Questo, per la semplice ragione che la corte italiana non prevede – diversamente da quella americana – una divaricazione tra soggetto che dirige il processo (giudice) e soggetto che valuta le prove (giuria). Bene, se questa convinzione merita una deroga forse è proprio nel giudizio di revisione. In questo caso il giudice che decide se la nuova prova è meritevole di essere “udita” è un giudice diverso da quella che la dovrà udire e valutare. Cioè si riproduce quel meccanismo a due teste che rende opportuno un filtro preliminare onde evitare che il giudice del merito si trovi a dovere ascoltare prove fuorvianti e, in ultima analisi, inutili.

La seconda riflessione è molto più semplice. Quale che sia il tipo o l’estensione del giudizio riservato alla fase di ammissibilità non sembra che vi siano ragioni per sovvertire l’ordinario svolgersi dell’onere probatorio. Se una parte vuole ottenere qualcosa deve provare i fatti che sono a fondamento della sua richiesta. Invece, per lo IAT le cose sembrano andare diversamente. Alla parte è sufficiente proporre una

11 Da ultimo Cass., 20 febbraio 2018, n. 10523, inedita. 12 GENNARI G., Nuove e vecchie scienze forensi alla prova delle corti, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 32-38.

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dichiarata nuova tecnica, mentre è compito del giudice documentarsi e valutare la correttezza della metodologia;

c) e veniamo al terzo punto, che è sicuramente il più serio. La Suprema Corte ritiene lo IAT13 valida metodologia sulla quale esisterebbe convincente letteratura, anche giuridica.

Ora, basta fare qualche ricerca mirata sul web per capire che non è affatto vero che il test proposto goda di un credito così diffuso. E forse, visto che è la corte romana a dire che il giudice deve documentarsi, questa ricerca si poteva fare anche prima di accreditare il metodo di inossidabile scientificità.

Cominciamo dal principio. Il test IAT è teorizzato, nel 1998, da Tony Greenwald14. La tecnica nasce e viene

utilizzata per discernere propensioni inconsciamente razziste e discriminatorie nella popolazione. Questo è l’ambito di prevalente studio e applicazione del test, anche con potenziale rilevanza in ambito forense15. Tutta la ricchissima letteratura americana su tema degli implicit bias nella legislazione16 e nell’attività delle corti e delle giurie (tema praticamente sconosciuto in Italia) dedica uno spazio speciale allo IAT proprio perché attraverso questa metodica (ed altre) è emersa la potente influenza degli stereotipi impliciti e delle attitudini implicite17.

Ad esempio, sembra ormai consolidato che gli americani di razza bianca (ma anche quelli di razza nera, se pure in misura inferiore) esprimano una forte “white preference” allo IAT. Infatti, si è visto che associando una parola positiva ad un viso bianco e una parola negativa ad un viso nero i tempi di reazione sono più rapidi che

13 Il lettore attento si sarà reso conto che il test a-IAT viene associato, nella richiesta di revisione, ad un altro test denominato TARA. Si tratta di una metodica affine allo a-IAT e sempre rivolto alla misurazione dei tempi di reazione. Il focus è sempre sullo studio delle attitudini individuali (religiose, sociali...) e dei bias impliciti. Un recente studio sperimentale evidenzia un’attendibilità di circa l’80% che, tuttavia, crolla quando il test viene somministrato nuovamente al medesimo soggetto. Cfr. A.P. GREGG, N. MAHADEVAN, S.E. EDWARDS, J. KLYMOWSKY, Detecting lies about consumer attitudes using the timed antagonistic response alethiometer, in Behav. Res. Methods, 2014, Sep., 46(3), 758-71. 14 A.G. GREENWALD, D.E. MCGHEE, J.L.K. SCWARTZ, Measuring individual differences in implicit cognition: The Implicit Association Test, in Journal of Personality and Social Psychology, (1998), 74, 1464-1480. 15 Si pensi alla potenziale utilità per selezionare una giuria: M.W. BENNETT, Unraveling the Gordian Knot of Implicit Bias in Jury Selection: The Problems of Judge Dominated Voir Dire, the Failed Promise of Batson, and Proposed Solutions, in Harv. Law & Policy Rev., vol. 4, 149, 2010. 16 Recentemente la Corte Suprema (Texas dept. of Housing and Community Affairs v. Inclusive Communities Project inc., 576, U.S. 2015) ha applicato la teoria degli implicit bias ai criteri con cui il Texas Department of Housing and Community Affairs ha distribuito i crediti d’imposta per la costruzione di edifici destinati a popolazione a basso reddito, spingendo l’edificazione in aree cittadine a prevalenza negra piuttosto che in aree suburbane a prevalenza bianca. In questa decisione si è voluta vedere anche l’influenza delle evidenze offerte dagli studi sullo IAT (link). 17 Due recenti studi sono quelli di J. KANG ET AL., Implicit Bias in the Courtroom, in 59 UCLA Law Rev., 1124 (2012); J.J. RACHLINSKI, S. JOHNSON, A.J. WISTRICH, C. GUTHRIE, Does Unconscious Racial Bias Affect Trial Judges?, in Cornell Law Faculty Publications, Paper 786 (2009). Sempre nel 2009 il National Center for State Courts, nell’ambito di una campagna per la “Racial and Ethnic Fairness” nel giudizio delle corti statali, ha proposto un vademecum redatto da Kang, dal titolo Implicit Bias, A primer for Courts.

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operando le associazioni inverse. Cioè la latenza di risposta è maggiore quando il test propone una figura incongruente con lo stereotipo razziale.

Dal pregiudizio razziale alla disparità di trattamento il passo è breve. Di qui, per l’appunto, gli studi rivolti a comprendere l’incidenza concreta del racial bias sull’amministrazione della giustizia.

Peraltro, la stessa utilità dello IAT – nonostante la sua indubbia popolarità – è tutt’ora oggetto di discussione. Si dice che lo IAT non sarebbe in grado di predire comportamenti futuri e che i risultati del test siano fortemente influenzati dal contesto sociale in cui vengono svolti18. Tanto che lo stesso test, somministrato alla stessa persona in situazioni diverse o in tempi diversi, fornisce punteggi differenti. Nel 2008 sul sito dell’American Psychological Association compariva un commento in cui si evidenziava proprio il ricco dibattito accademico fervente attorno al test IAT19. L’articolo poneva in luce come, secondo autorevoli opinioni, lo IAT fosse senza dubbio troppo immaturo per essere diffuso al grande pubblico o per essere utilizzato in corte20.

Se poi andiamo a cercare su PubMed21 – come farebbe un totale neofita della materia che abbia il desiderio di documentarsi – tra le pubblicazioni più recenti troviamo un lavoro in cui si studiano i meccanismi neurali sottostanti l’esecuzione dello IAT, dei quali poco o nulla si conosce ancora22. In sostanza, non sembra chiaro cosa effettivamente lo IAT misuri e quindi il significato effettivo del risultato. Ad esempio, si sostiene che il test sarebbe particolarmente sensibile a fattori perturbanti esterni e che vi sarebbe una scarsa correlazione tra condizionamento implicito e comportamento esplicito.

In questa sede, naturalmente, non interessa (né sarebbe possibile per chi scrive) stabilire se questo studio sia corretto oppure no o se le critiche siano fondate o meno. Interessa evidenziare come lo IAT non possa essere definita una tecnica sulla quale vi è un consenso scientifico consolidato.

Bene, tutto questo già pare sufficiente per dubitare che lo IAT sia così validato. Ma le cose stanno in modo ancora peggiore.

Nelle pagine precedenti il lettore attento si sarà accorto del fatto che, talvolta, l’acronimo IAT è stato preceduto da una lettera “a”. Quella singola lettera vuole dire molto, perché indica che il test di cui si discute davanti alla Suprema Corte non è affatto il comune IAT di cui tanto si parla negli Stati Uniti, ma una variante definita autobiographical IAT o IAT autobiografico. Cioè un test IAT costruito per valutare l’esistenza di una traccia mnestica del ricordo riferito dal soggetto. In poche parole un test per valutare l’attendibilità delle dichiarazioni.

18 B. AZAR, IAT: fad or Fabolous, in Monitor on Psychology, 39, 7, 44 (2009). 19 B. AZAR, op. cit. 20 F.L. OSWALD, G. MITCHELL, H. BLANTON, J. JACCARD, P.E. TETLOCK, Predicting ethnic and racial discrimination: A meta-analysis of IAT criterion studies, in Journal of Personality and Social Psychology, Vol 105(2), 2013, 171-192. 21 Come tutti sapranno PubMed è una risorsa on line del National Institute of Health, che raccoglie oltre 25 milioni di riferimenti bibliografici in ambito biomedico. Cioè è il più grosso strumento di ricerca al mondo per la letteratura di questo settore. 22 G.F. HEALY, L. BORAN, A.F. SMEATON, Neural Patterns of the Implicit Association Test, in Frontiers in Human Neuroscience, 24 novembre 2015, 9:605, doi: 10.3389/fnhum.2015.00605. La Rivista ha un impact factor di 3,6. Nel 2014 è stata la decima più citata Rivista di neuroscienze al mondo.

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Ora, tutti gli studi riportati sopra e tutte le discussioni scientifiche in corso si riferiscono solo allo IAT come strumento di misurazione di comportamenti potenzialmente discriminatori. La supposta ampia letteratura peer reviewed sulla generale attendibilità del test IAT semplicemente non esiste in materia di a-IAT. L’autore della relazione peritale nel processo cremonese fornisce dei dati di attendibilità del test a-IAT, indicando la percentuale di successo nel 92%. Ma egli trae questo dato dalla pressoché unica letteratura scientifica esistente (all’epoca) che ha un piccolo particolare: proviene dallo stesso esperto23. Questa è, quindi, la decantata letteratura di cui parla la Suprema Corte.

Deve dunque essere chiaro che il perito auto-accredita la scientificità del metodo utilizzato. Questo è un modo, francamente scorretto e deontologicamente assai discutibile, di validare per via giudiziaria la propria attività di ricercatore.

Se poi vogliamo ripetere, oggi, l’esercizio con PubMed anche per l’a-IAT troviamo un interessante articolo del 2013 relativo all’utilizzo del test per l’individuazione di soggetti consumatori di cocaina. Lo studio evidenzia un tasso assai elevato di falsi positivi e conclude per la necessità di una rivalutazione più approfondita di questa tecnica prima di un qualsiasi utilizzo in ambito forense24.

In realtà il problema del credito di cui gode l’a-IAT nella comunità scientifica viene sollevato esplicitamente nel caso di Venezia. Il contro-argomento dell’esperto è inaccettabile. Scrive il solito consulente, nelle osservazioni finali alla perizia d’ufficio, che lo IAT autobiografico è il fratello minore dello IAT e che lo IAT è un metodo generale applicabile a tante situazioni diverse25. Di generale, anzi generica, c’è solo quest’affermazione.

Prendiamo un altro esempio per far capire l’assurdità dell’asserzione. La PCR (polymerase chain reaction) è un “metodo generale” per amplificare il DNA. Questo metodo generale può essere applicato in ambito medico per studiare anomalie genetiche, su reperti forensi per identificare un colpevole, su resti umani per ricerche storiche o

23 La letteratura citata nella perizia sottoposta al GIP è la seguente: G. SARTORI, S. AGOSTA, C. ZOGMAISTER, S.D. FERRARA, U. CASTIELLO, How to accurately assess autobiographical events, in Psychological Science, 19(8), 2008, 772-780; S. AGOSTA, V. GHIRARDI, C. ZOGMAISTER, U. CASTIELLO, G. SARTORI, Detecting fakers of the autobiographical IAT, in Applied Cognitive Psichology, 2010. A questa si può aggiungere G. SARTORI, S. AGOSTA, Menzogna, cervello e lie detection, in Manuale di scienze forensi, cit., 174-188. 24 E.J. VARGO, A. PETROCZI, Detecting cocaine use? The autobiographical implicit association test (aIAT) produces false positives in a real-world setting, in Subst Abuse Treat. Prev. Pol., 2013, 8-22. La Rivista, in questo caso, ha un impact factor di 2.214. Altro interessante studio del 2017 è B. VERSCHUERE, B. KLEINBERG, Assessing autobiographical memory: the web-based autobiographical Implicit Association Test, in Memory, 2017, 25(4): 520-530. In questo caso i due sperimentatori, proprio partendo dai citati lavori di Sartori, verificano l’attendibilità di un web-based a-IAT, osservando un buon livello di attendibilità quando la verifica riguarda un’affermazione positiva, ma non quando viene verificata un’affermazione negativa. Ulteriore profilo critico deriva dalla possibilità di falsificare agevolmente il test. Cfr. B. VERSCHUERE, V. PRATI, J. HOUWER, Cheating the Lie Detector: Faking in the Autobiographical Implicit Association Test, in Psychological Science, 2009, doi: 10.1111/j.1467-9280.2009.02308.x. Si tratta della rivista dell’American Psychological Association, con impact factor 4,43. 25 G. SARTORI, P. PIETRINI, Osservazioni in merito alla relazione peritale in tema di imputabilità del Dr. Domenico Mattiello, 15.

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archeologiche... Ciascuna di queste applicazioni del “metodo” pone problemi diversi e può presentare margini di affidabilità diversi.

Anche l’analisi degli STR è un metodo generale per caratterizzare il profilo genetico di un soggetto. Ma l’attendibilità di questo “metodo generale” è molto diversa se esso viene applicato a materiale biologico abbondante, a materiale biologico misto, a materiale particolarmente scarso o deteriorato e via dicendo.

Non sembra occorrano altri esempi per dimostrare che l’asserito credito di un certo “metodo” non si trasforma in pari credito per ogni applicazione di esso. 4. Epilogo.

Si arriva all’epilogo. Dopo la sortita della Suprema Corte, la palla torna al giudice di appello, questa volta individuato in quello di Salerno. La corte di merito26, con una sentenza davvero ben scritta e di non comune chiarezza, boccia per l’ennesima e – si spera – ultima volta27 l’a-IAT. Il collegio mette in fila tutte le criticità che il sottoscritto, ben più modestamente, ha illustrato: che il test IAT, utilizzato in psicologia sociale per valutare stereotipi, pregiudizi, atteggiamenti impliciti verso prodotti di consumo o candidati politici, è cosa profondamente diversa dall’a-IAT che ricerca la traccia mnestica di un evento; che quello della memoria autobiografica è un concetto assai complesso con il quale interagisce l’auto-narrazione che il soggetto fa di un determinato accadimento (e il condannato aveva, da tempo, strutturato nella sua narrativa personale, una storia che escludeva l’evento); che non vi era alcuna validazione del metodo proposto in letteratura scientifica28.

Come in tutte le storie che si rispettino anche qui c’è una morale e la morale è che, quando si parla di prova scientifica, è necessario fare doppia, se non tripla attenzione. Il pericolo della science fascination è sempre dietro l’angolo. Il giudice, abituato ad esercitare un forte spirito critico di fronte a prove tradizionali, perde rapidamente questa capacità al cospetto della decantata ultima tecnologia presentata da quel certo esperto, magari un po' troppo assiduo frequentatore delle aule dei tribunali29 in cui si acquista un’autorevolezza che non ha nulla di scientifico. Quel sacrosanto obbligo di documentarsi di cui parla la Suprema Corte30 deve valere per tutti, con mente libera dal pregiudizio e con la necessaria umiltà per comprendere che il giurista si muove in un campo non suo e in cui è molto facile essere tratti in inganno. A tutto questo si aggiunge la considerazione che l’errore sulla prova scientifica (magari non in questo 26 Corte appello Salerno, 16 dicembre 2016, imp. Valenti, reperibile a questo link. 27 Ovviamente fino a nuove eventuali verifiche empiriche che ne dimostrino in modo scientifico l’attendibilità. 28 La sentenza reca pure interessantissime considerazioni sul rapporto tra quello che, a tutti gli effetti, sarebbe un lie detector e gli articoli 64, comma 2° e 188 c.p.p. Lascio ad altre sedi (e ad altri e più versati commentatori) i pur meritevoli approfondimenti. 29 G. GENNARI, Even Judges are CSI Fans, in For. Scie. Int., 292 (2018), e1-e2. 30 Qui lo scarto è netto rispetto a quella “legittima ignoranza” del giudice di cui parlava la sentenza Knox (Cass., 27 marzo 2015, n. 36080, in Foro it., 2016, II, 448, con nota di BRUSCO).

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caso, in cui era pro reo) rischia di avere costi altissimi proprio per l’elevatissimo livello di confidenza che genera questa prova. Il National Registry of Exoneration31 americano riporta la bad forensic science come causale principale in circa il 20% delle erronee condanne pronunciate da giudici americani, con una punta del 40% in riferimento ai reati a sfondo sessuale. Sarebbe bene iniziare a smettere di pensare che “tanto quella è l’America…” e cominciare a chiedersi – a partire dalla Cassazione – cosa fare per garantire un uso consapevole della scienza.

31 Come noto si tratta di un progetto della Law School della Università del Michigan che raccoglie tutti i casi nazionali di wrongful convinctions. Dal 1989 sono oltre 2.000 le persone scagionate dopo una condanna.

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VALUTAZIONE DELL’AFFIDABILITÀ DELL’INDAGINE GENETICA SVOLTA CON VIOLAZIONE DI “PROTOCOLLI” E LINEE GUIDA:

UTILIZZABILITÀ DEL RISULTATO RAGGIUNTO

di Roberto Valli

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Protocolli e linee guida. – 3. Possibili conseguenze in caso di violazione di protocolli e linee guida. – 4. L’accreditamento dei laboratori. – 5. Conclusioni. 1. Premessa.

Nel procedimento penale il ricorso all’indagine genetica può risultare fondamentale per attribuire un'identità all’autore del delitto in tutti i casi in cui sulla scena del crimine o su cose utilizzate dal reo, successivamente repertate, siano rinvenibili tracce biologiche1 appartenenti al medesimo dalle quali sia possibile ricavare un profilo genetico. Il rinvenimento del DNA di un soggetto in un determinato luogo è infatti dimostrativo del fatto che il medesimo è stato presente in quel luogo lasciandovi parte del proprio materiale biologico. E in assenza di una spiegazione alternativa plausibile, tale rinvenimento potrà offrire la dimostrazione del collegamento tra l’autore e il fatto delittuoso.

Sempre più spesso accade infatti che l'esperimento di accertamenti genetici possa rivelarsi decisivo per la prova della colpevolezza dell’imputato, in presenza di un

1 Di norma sangue, sudore, o saliva, ma anche sperma, capelli, frammenti di pelle e, in generale, qualsiasi tessuto umano contenente cellule nucleate.

Abstract. Sempre più spesso nelle aule giudiziarie si controverte sul rispetto di raccomandazioni, protocolli e linee guida relativi all’esecuzione di indagini scientifiche e, più in particolare, di indagini genetiche. Le norme dettate da tali “protocolli”, elaborate da enti scientifici di riferimento, così come il ricorso a laboratori accreditati secondo la norma ISO/IEC 17025, sono estremamente utili a garantire l’attendibilità del risultato di prova raggiunto. Ma entro quali limiti l’utilizzo processuale dei protocolli aiuta il giudice nella valutazione di affidabilità della prova e quando invece rischia di ledere il principio del libero convincimento?

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quadro probatorio altrimenti meramente indiziario, o addirittura in assenza di altri elementi di riscontro2.

Peraltro le modalità con cui vengono effettuati i prelievi, con le quali sono conservate le tracce biologiche, e mediante le quali vengono condotte le successive analisi – specie se non correttamente eseguite – possono determinare l'alterazione del materiale biologico con conseguente pericolo di produrre risultati non attendibili. Anzi, l'adozione di metodiche non corrette, tali ad esempio da produrre il pericolo di contaminazioni, può anche determinare risultati “falsati”.

Così ad esempio è capitato di vedere repertare in un unico involucro diversi mozziconi di sigaretta repertati sulla scena del crimine, con conseguente contaminazione delle tracce biologiche e produzione di profili misti di difficile interpretazione. Così come è accaduto che repertatori impegnati sulla scena del delitto abbiano utilizzato, per diverse operazioni di repertamento, i medesimi guanti “monouso”: è facile immaginare come in questo caso il risultato possa essere distorto.

Modalità irrituali di conservazione dei campioni biologici possono inoltre produrre ugualmente gravi pregiudizi alle indagini: ad esempio si è verificato che il materiale organico utile per la comparazione del DNA venisse custodito molto inopportunamente all'interno di buste di plastica sigillate, conservate in frigorifero: condizione ideale per la proliferazione di muffe, spore e batteri capaci in poco tempo di alterare il contenuto della traccia biologica e di rendere impossibile l'estrapolazione di alcun dato “leggibile” da essa3. In tali casi, se si tarda ad effettuare l'accertamento, vi è il rischio che il tempo trascorso, unitamente – in ipotesi – a non perfette condizioni di conservazione dei reperti, non permettano di ottenere risultati affidabili (ad esempio, a causa dell'intervenuta degradazione del materiale, si potrebbe non riuscire a ricavare un profilo di DNA utile per la successiva comparazione). 2. Protocolli e linee guida.

L’accresciuta sensibilità delle strumentazioni e kit impiegati per l’esecuzione di accertamenti genetici, se da un lato consente di ottenere risultati positivi anche in

2 La prova del DNA infatti, in quanto può fornire la certezza che la persona interessata dall'accertamento si sia trovata sul luogo in cui è stato commesso il reato ovvero che vi sia stato un contatto tra la stessa ed un determinato oggetto ivi presente, può essere legittimamente utilizzata dal giudice – in mancanza di giustificazioni su tale presenza – per fondare un giudizio di colpevolezza. In proposito vds. Cass. sez. II, sent. n. 43406 del 1 giugno 2016 (dep. 13 ottobre 2016), Rv. 268161, Syziu: “Gli esiti dell'indagine genetica condotta sul DNA hanno natura di prova, e non di mero elemento indiziario ai sensi dell'art. 192, comma secondo, cod. proc. pen, sicchè sulla loro base può essere affermata la responsabilità penale dell'imputato, senza necessità di ulteriori elementi convergenti”. Conf. Cass. sez. I, sent. n. 48349 del 30 giugno 2004 (dep. 15 dicembre 2004), Rv. 231182, Rizzetto; Cass. sez. II, sent. n. 8434 del 5 febbraio 2013 (dep. 21 febbraio 2013), Rv. 255257, Mariller. 3 La molecola del DNA tende a degradarsi col trascorrere del tempo, specie in presenza di umidità e calore. Il materiale biologico repertato deve essere conservato in modo appropriato, congelato a -20°, per evitarne la degradazione e consentirne l'utilizzazione anche a distanza di anni dal repertamento.

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presenza di tracce assai ridotte, dall’altro lato acuisce il rischio di risultati falsati per contaminazione. Per tale motivo accade sempre più di frequente che nelle aule di giustizia venga messa in discussione la validità e affidabilità dei risultati raggiunti attraverso l’esperimento di indagini genetiche.

Spesso viene invocata dalle parti del processo la violazione – operata dal genetista forense incaricato delle analisi o da parte di coloro che hanno proceduto al repertamento e conservazione delle tracce biologiche – di norme cautelari, previste da questo o da quel “protocollo” (o da linee guida e vademecum delle più svariate provenienze) per farne derivare, più o meno direttamente, l’inaffidabilità delle valutazioni proposte dall’esperto e l’inutilizzabilità probatoria dei risultati cionondimeno raggiunti4.

Occorre però ora chiederci che cosa intendiamo quando ci riferiamo a protocolli e linee guida.

Il termine “protocollo” viene utilizzato normalmente per indicare un documento destinato ad attestare il raggiungimento di un accordo internazionale, ossia un accordo tra Stati: con tale termine si fa riferimento quindi ad una serie di regole definite tra più parti, alle quali ciascuna di esse deve attenersi. Il protocollo crea in altri termini delle procedure obbligatorie e, come tale, ha una accezione generalmente vincolante5.

Nel linguaggio comune è peraltro di uso frequente il riferimento a “protocolli” per indicare un complesso di regole e procedure che, in un determinato ambito o disciplina (es. medicina), devono essere osservate per la corretta esecuzione di una determinata attività (es. uno specifico trattamento sanitario).

Il termine “linee guida” indica invece, non già una serie di adempimenti vincolanti, bensì delle direttive generali, degli orientamenti o raccomandazioni di massima6.

Si comprende quindi come spesso il riferimento al termine “protocollo” – correntemente impiegato quale sinonimo di “linee guida” – per indicare raccomandazioni inerenti la corretta procedura da adottare, benché ricorrente nelle motivazioni di provvedimenti giudiziari, sia improprio. Affinché siffatte raccomandazioni possano acquisire correttamente la denominazione di “protocollo”, le stesse dovrebbero a rigore essere recepite o quanto meno richiamate a livello normativo, dovrebbero cioè divenire effettivamente vincolanti.

Anche gli istituti scientifici di riferimento nelle singole discipline ad applicazione forense, sia nazionali sia internazionali, allorché adottano raccomandazioni utili per la corretta esecuzione degli accertamenti che intendono disciplinare, non utilizzano mai il 4 Possibilità questa favorita dalla proliferazione, specie in epoca recente, di linee guida, raccomandazioni, vademecum, procedure operative, elaborate dalle più diverse fonti per regolamentare il ricorso, nell’ambito del procedimento penale, agli strumenti di indagine tecnico-scientifica. In proposito v. A. CAMON, La prova genetica tra prassi investigative e regole processuali, in Proc. Pen. Giust., n. 6/2015, 167: “in questi anni si stanno moltiplicando i protocolli operativi per l’esame della scena del crimine…”. 5 V. BOVE, Brevi riflessioni su protocolli e linee guida: è a rischio il principio di legalità?, in questa Rivista, 17 luglio 2015. 6 In tal senso, similmente, sia pur in relazione all’attività medico chirurgica, Cass. sez. IV, sent. n. 16237 del 29 gennaio 2013 (dep. 9 aprile 2013), Cantore.

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termine “protocollo”, bensì quello di “linee guida”, “raccomandazioni”, o altri termini che comunque evocano il significato di “suggerimenti”, benché autorevolmente dati.

In tal senso si possono richiamare le raccomandazioni adottate dall’E.N.F.S.I. (European Network Forensic Science Institutes7, istituto scientifico europeo di riferimento in ambito scientifico–forense, al quale aderiscono molti tra i più autorevoli enti scientifici nazionali), le quali assumono di regola la denominazione di “guidelines”, “recommendations” o “best practices”8. Così pure, restando all’interno dei confini nazionali in ambito genetico, sono denominate “raccomandazioni” quelle recentemente adottate dai Genetisti forensi italiani (GEFI), nel gennaio 2018,9 oppure “criteri minimi” le linee guida adottate dalla Società italiana di genetica umana (SIGU) nel dicembre 201610, e gli esempi si potrebbero moltiplicare11.

Prendiamo atto comunque che, nel linguaggio giuridico corrente, si evidenzia la tendenza a riferirsi a “protocolli” e “linee guida” nell’accezione di “raccomandazioni”

7 ENFSI (o Rete europea degli Istituti di scienze forensi) è stata istituita il 20.10.1995, a seguito di una condivisione di intenti tra i Direttori degli Istituti governativi forensi dell’Europa occidentale, con lo scopo di implementare il reciproco scambio di informazioni in campo scientifico-forense, e di accrescere gli standard di qualità delle scienze ad applicazione forense. Oggi l’organizzazione rappresenta oltre cinquanta Paesi membri ed è riconosciuta dalla Commissione europea come organizzazione di riferimento nel settore delle scienze forensi. In proposito, volendo: U. RICCI, Un lampo di consapevolezza nella normativa italiana: il DNA oltre la suggestione e il mito, in Dir. pen. proc., n. 6/2016, p. 712, § 2; S. LORUSSO, L'esame della scena del crimine nella contesa processuale, in Dir. pen. proc., n. 3/2011, p. 261, § 3. 8 Per rimanere nell’ambito della genetica, si possono menzionare le “DNA database management review and recommendations”, dell’aprile 2017, il “Best Practice Manual for the internal validation of probabilistic software to undertake DNA mixture interpretation”, del 17.05.2017, e le “DNA contamination prevention guidelines”, del 27.04.2017, elaborate dall’ENFSI DNA Working group e reperibili online sul sito internet di ENFSI (www.enfsi.eu). 9 “Raccomandazioni Ge.f.i. nelle indagini di identificazione personale”. 10 “Criteri minimi di qualità delle analisi di Genetica Forense ad uso identificativo”. 11 Così si veda ad esempio il “manuale” elaborato dal Federal Bureau of Investigation negli U.S.A. – Handbook of Forensic Services (revisione 2013) – il quale appunto “provides guidance and procedures for safe and efficient methods of collecting, preserving, packaging, and shipping evidence and describes the forensic examinations performed by the FBI’s Laboratory Division” – nonché il Reference Manual on Scientific Evidence (giunto nel 2011 alla terza edizione), elaborato da Accademie nazionali delle scienze, dell’ingegneria e della medicina in collaborazione con il Centro giudiziario federale americano con lo scopo di offrire indicazioni su come impostare correttamente e risolvere i principali problemi posti in ambito processuale dalle diverse discipline scientifiche (tra le quali ampio spazio viene riservato alle prove di identificazione del DNA), su cui v. S. ARCIERI, Il giudice e la scienza. L’esempio degli Stati Uniti: il Reference manual on Scientific Evidence, in questa Rivista, 6 marzo 2017. In ambito nazionale si possono altresì ricordare le “linee guida per il primo intervento sulla scena del crimine” elaborate dall’Istituto superiore di tecniche investigative dell’Arma dei Carabinieri, del 2017, o ancora le “procedure” elaborate dal servizio di Polizia Scientifica della Polizia di Stato, quali ad esempio: la “procedura gestionale” (PG14) per il “sopralluogo di polizia scientifica”, revisione del giugno 2017, la “procedura tecnica” (PT59) per il “prelievo immagazzinamento e conservazione di reperti biologici e tracce biologiche in fase di sopralluogo”, del novembre 2014, la “procedura tecnica” (PT15) per la “identificazione, manipolazione, documentazione e immagazzinamento dei reperti di natura biologica da sottoporre ad inizio operazioni della sezione/laboratori di genetica forense”, revisione del dicembre 2016. Per ulteriori riferimenti relativi a linee guida e vademecum contenenti preziose indicazioni sulle regole da seguire nell’espletamento dell’attività di sopralluogo: A. CHELO, Le prime indagini sulla scena del crimine. Accertamenti e rilievi urgenti di polizia giudiziaria, Cedam, 2014, pp. 12 e ss.

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non direttamente vincolanti e, con questa consapevolezza, nel prosieguo della presente trattazione riporteremo il riferimento a tali fonti.

L'adozione a livello normativo12 di raccomandazioni vincolanti per tutti gli operatori chiamati a svolgere accertamenti tecnici o scientifici, assicurerebbe certamente una maggior efficacia all'azione investigativa, evitando le frequenti bagarre giudiziarie in cui ciascuna parte invoca “protocolli” attinti dalle più svariate fonti per avvalorare o screditare le metodiche adottate in fase di indagine, in tal modo contribuendo peraltro ad aumentare la confusione. Una tale opzione avrebbe inoltre significativi risvolti in tema di garanzie difensive: la violazione delle prescrizioni e cautele imposte dai protocolli potrebbe avere come conseguenza addirittura la inutilizzabilità del risultato probatorio in ipotesi raggiunto, rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo, ove lo stesso sia stato acquisito in violazione a specifico divieto posto dalla legge (art. 191, co. 1 e 2, c.p.p.).

Peraltro, la mancata indicazione normativa di protocolli di indagine da seguire per l'espletamento di indagini tecniche13 rende al contrario impraticabile una tale soluzione14. 3. Conseguenze in caso di violazione di “protocolli” e linee guida.

Si pone dunque il quesito di quale debba essere la conseguenza annessa alla violazione dei protocolli o linee guida elaborate dagli esperti di settore, specie quando le stesse siano state accreditate da organismi scientifici istituzionali o comunque riconosciuti15.

12 Naturalmente non nel corpo del codice di rito ma mediante rinvio a norme regolamentari che meglio potrebbero assicurare il necessario aggiornamento a fronte della continua evoluzione tecnologica e scientifica. Sembra muoversi in questa direzione il recente D.P.C.M. 24.11.2017, intitolato “Linee guida nazionali per le Aziende sanitarie e le Aziende ospedaliere in tema di soccorso e assistenza socio-sanitaria alle donne vittime di violenza”, pubblicato nella Gazz. Uff., Serie Generale n. 24, 30 gennaio 2018, n. 24, il quale contiene in allegato (all. C) le “linee guida per la repertazione di tracce biologiche per le analisi di genetica forense nel percorso assistenziale delle vittime di violenza sessuale e/o maltrattamento”. 13 Soluzione questa che peraltro, come giustamente osservato da C. CONTI, L’inutilizzabilità, in: A. Marandola (a cura di), Le invalidità processuali, Utet, 2015, p. 129, presenterebbe ulteriori profili problematici: “…l’ostacolo più arduo va ravvisato nel rilievo che le norme di legge non sono in grado di spingersi fino a precisare nel dettaglio i singoli metodi scientifici ai quali fare ricorso: un’indicazione specifica, in materie caratterizzate da una quotidiana evoluzione, sarebbe destinata ad una pressoché istantanea obsolescenza”. Similmente, A. CAMON, La prova genetica, cit., p. 167: “i protocolli per l’analisi della scena del crimine cambiano troppo velocemente; finiremmo per sclerosare la disciplina e ci troveremmo presto a fare i conti con una normativa – a quel punto, non tecnica ma giuridica – superata”. 14 Il che non toglie che la previsione di linee guida, quanto meno da parte degli organismi scientifici forensi, rispetto agli ambiti di specifica competenza, sia quanto meno opportuna. Sul punto vds. G. GENNARI, Nuove e vecchie scienze forensi alla prova delle corti. Un confronto internazionale e una proposta per il futuro, Maggioli, 2016, p.145: “Lo sviluppo di linee guida validate rappresenta, infatti, uno dei più comuni modi per cercare di accreditare e verificare la scientificità di procedure forensi […] E un piccolo, ma fondamentale contributo, dovrebbe venire anche dalle società scientifiche nazionali. Perché non provvedono loro stesse a produrre linee guida condivise da imporre – come buona pratica – ai loro iscritti?”. 15 Sul tema e, più in particolare, sul valore da assegnare alle raccomandazioni della comunità scientifica,

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Un caso emblematico in tal senso è rappresentato dalla richiesta di revisione del processo Stasi avanzata nel dicembre 2016, mediante deposito di memoria presso la Procura Generale della Corte d’appello di Milano, nella quale sostanzialmente si chiedeva di rivalutare gli esiti della perizia genetica eseguita nel corso del processo di merito (anche) sui margini ungueali di Chiara Poggi. Il risultato raggiunto dal perito aveva permesso di identificare, a fianco del DNA della vittima – nettamente preponderante – la presenza di un DNA maschile (attraverso l’analisi dei marcatori siti sul cromosoma Y), non anche di attribuire detto DNA all’imputato o a terzi.

Esaminando la perizia espletata nel corso del processo di merito e le dichiarazioni rese dal perito nel corso dell’esame svoltosi in dibattimento, emergeva un dato significativo: il perito non aveva proceduto alla quantificazione del DNA estratto, in particolare del DNA maschile rinvenuto sui margini ungueali della vittima. Alcuni protocolli in materia richiedono tuttavia che il DNA sia quantificato, prima di procedere alla sua amplificazione, al fine di garantire la validazione dei risultati ottenuti e permetterne una più completa valutazione. La quantificazione è infatti indispensabile per identificare i limiti di affidabilità dei dati prodotti attraverso l’analisi: al di sotto di determinate soglie il risultato prodotto può divenire incerto16.

Nell’elaborato peritale veniva comunque dato atto che (p. 3): “per quanto atteneva i frammenti ungueali, il Perito dichiarava che per un’analisi esaustiva … non si sarebbe proceduto alla quantificazione dell’estratto per non sacrificare alcuna quota di DNA ottenuto”.

A prescindere dalle considerazioni del perito, alla luce delle quali il suo operato può apparire giustificato, resta il dato di fondo dell’avvenuto discostamento dai protocolli in materia. Come abbiamo visto infatti il perito risulta essersi discostato dalle norme tecniche dettate dalle linee guida elaborate dalla comunità scientifica di riferimento. Quale conseguenza deve essere riconnessa allo “scostamento” dalle linee guida o protocolli dettati in materia?

Sul punto si è pronunciata la Suprema Corte chiarendo come dalla violazione dei “protocolli” non potesse di per sé farsi discendere alcuna conseguenza in termini di nullità o inutilizzabilità degli elementi di prova acquisiti a seguito di violazione degli stessi. Nella specie la Corte, sia pur in tema di rilievi dattiloscopici, ha escluso che gli stessi fossero inutilizzabili sol perché eseguiti in difetto della documentazione fotografica dell'asportazione delle tracce dell'impronta, prevista dalla procedura codificata nei protocolli “standard”17.

condensate in linea guida di indirizzo metodologico accertativo-valutativo, si veda S. PELOTTI, Adriano TAGLIABRACCI, Le linee guida del Gruppo Genetisti Forensi Italiani (GE.F.I.) in tema di identificazione personale a scopo forense, in Riv. it. med. leg., fasc. 1/2016, p. 253. 16 Del resto le linee guida elaborate dal GE.F.I. (Genetisti Forensi Italiani) – pubblicate l’8 gennaio J.M. BUTLER, “Advanced Topics in Forensic DNA typing: methodology”, Academic Press, 2011, p. 49 (opera di riferimento in materia di genetica forense): “Determination of the amount of the DNA in a sample is essential for most PCR-based assays because a narrow concentration range works best with multiplex short tandem repeat (STR) typing”. Indica come imprescindibile la quantificazione del DNA per il processo di tipizzazione, anche U. RICCI, D.N.A. Oltre ogni ragionevole dubbio, Nerbini, 2017, p. 200 ss.. 17 Cass. sez. II, sent. n. 11693 del 10 gennaio 2012 (dep. 28 marzo 2012), Dabellonio: “La dedotta inutilizzabilità assoluta e patologica dell'indagine dattiloscopica è infondata. Secondo la tesi difensiva, il divieto probatorio a

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Del resto, in virtù del principio di tassatività di cui all’art. 177 c.p.p., perché possa prodursi una nullità in relazione alla violazione di protocolli, occorrerebbe che vi fosse una norma che la prevedesse espressamente. Parimenti, per verificarsi un’ipotesi di inutilizzabilità della prova, in ipotesi assunta non osservando divieti posti da determinati protocolli o linee guida, occorrerebbe che il divieto fosse imposto da una norma, dal momento che l’art. 191 c.p.p. prevede che siano inutilizzabili (solo) le prove assunte in violazione dei divieti posti dalla legge. Non consta peraltro esservi alcun divieto normativo in tal senso, tanto più che i protocolli in parola, quand’anche adottati da enti di autorità riconosciuta a livello nazionale o internazionale, non risultano recepiti da alcuna norma di legge e come tali non possono assurgere a presupposto applicativo della sanzione di inutilizzabilità della prova esperita in spregio ad essi18.

Tuttavia, in un caso a tutti noto per la rilevanza mediatica assunta, la Suprema Corte è giunta a ben altre conclusioni. Si tratta del caso dell’omicidio di Meredith Kercher19, nel quale la Corte si è confrontata con il tema delle analisi genetiche LCN–DNA (Low copy number–DNA)20 eseguite sul gancetto del reggiseno di quest’ultima.

fondamento dell'eccezione dovrebbe dedursi dalla ‘procedura codificata nei protocolli standard', che imporrebbe la documentazione fotografica dell'asportazione delle tracce dell'impronta; ma si tratta di tesi che non può essere accolta, poiché la sanzione di inutilizzabilità, stante la regola della tassatività, non può essere allargata sino a comprendere l'inosservanza di regole scientifiche che non siano codificate in una apposita e specifica normativa di legge.” In motivazione peraltro la Corte dà atto che le regole scientifiche asseritamente violate non influivano comunque sulla valutazione del risultato di prova. Sostanzialmente conforme: Cass., sez. III, sent. n. 33584 del 5 luglio 2012 (dep. 31 agosto 2012), non massimata, con riferimento alla asserita violazione dei parametri elaborati dall’ENFSI per la conservazione delle tracce biologiche. 18 In tal senso, similmente, anche M. DANIELE, Prova scientifica e regole di esclusione, in G. Canzio – L. Lupària

(a cura di), Prova scientifica e processo penale, Cedam, 2017, pp. 505 e ss.: “Occorre a questo punto chiedersi se, al di là dell’inosservanza dei requisiti giuridici finora considerati, operino delle regole di esclusione pure quando risultino violati i protocolli tecnici che è necessario adottare affinché le prove scientifiche diano origine a risultati affidabili dal punto di vista cognitivo. La risposta al quesito è negativa, e ciò per una ragione ben precisa: in nessun caso il legislatore individua i protocolli in questione. […] Vi è, a dire il vero, chi ricava una generale inutilizzabilità delle prove scientifiche raccolte in violazione delle best practice. Ma tale divieto probatorio non trova supporto nella disciplina vigente, dalla quale non emerge, nelle situazioni in esame, nessuna carenza di potere istruttorio da cui diagnosticare regole di esclusione”; P. FELICIONI, L’acquisizione di materiale biologico finalizzata alla prova del DNA tra regola ed eccezione, in Proc. pen. giust., n. 3/2018, p. 506, osserva inoltre che “la previsione espressa di un’ipotesi di inutilizzabilità in materia, non sarebbe neanche auspicabile in quanto finirebbe per rimettere la sussistenza della causa di invalidità alle valutazioni inevitabilmente soggettive degli esperti con il rischio di abuso o di disparità di trattamento”. La soluzione dell’inutilizzabilità quale conseguenza della violazione dei protocolli è invece auspicata, sia pur con la consapevolezza del limite rappresentato dalla mancata tipizzazione dei protocolli standard, da M. MONTAGNA, Il sopralluogo, in A. Scalfati (a cura di), Le indagini atipiche, Giappichelli, 2014, pp. 224 e ss. 19 Sul tema vds. L. LUPÀRIA, F. TARONI, J. VUILLE, La prova del DNA nella pronuncia della Cassazione sul caso Amanda Knox e Raffaele Sollecito, in Dir. Pen. Cont. – Riv. trim., 1/2016, p. 155. V. anche G. GENNARI, Nuove e vecchie scienze forensi alla prova delle corti, cit., pp. 71 ss. 20 Per la definizione di tale nozione, alla quale oggi si tende a preferire il termine LT-DNA (Low Template DNA), si può richiamare C. PREVIDERÈ, P. FATTORINI, La complessità in genetica forense: l’analisi di DNA in limitata quantità (Low copy number DNA) e l’interpretazione di tracce commiste, in Riv. it. med. leg., 1/2016, p. 184: “In presenza di una ridotta quantità di DNA […], alcuni laboratori, soprattutto nel Regno Unito, avevano messo a punto, già a partire dal 1999, protocolli analitici che prevedevano di aumentare i cicli di PCR da 28 fino a 34, incrementando cosi la sensibilità della reazione di amplificazione […]. Inizialmente, quindi, il termine LCN-DNA si riferiva alla variazione di un singolo parametro analitico (numero di cicli di PCR) allo scopo di ottenere risultati da

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Già nel processo di secondo grado la Corte d'assise d'appello di Perugia, con sentenza del 3 ottobre 201121, aveva precisato che il rispetto delle best practices nel repertamento dovesse consentire di escludere che il DNA dell'imputato si fosse depositato accidentalmente sul campione per contaminazione, affermando che nel caso in esame la mancata osservanza di detti criteri non aveva consentito di escludere tale ipotesi, avvalorandone anzi la fondatezza22.

Successivamente la sentenza è stata annullata dalla Cassazione, che ha rinviato per la decisione ad altra sezione della Corte d’appello di Perugia. A seguito della condanna emessa in sede di rinvio è stato sollecitato nuovamente l’intervento della Cassazione che ha quindi posto la parola fine sull’intera vicenda23, prosciogliendo gli imputati dal reato di omicidio.

In tale sentenza la Corte, dopo aver correttamente ricordato che affidabile parametro di correttezza dell’attività di ricerca tecnico–scientifica “non può che essere il rispetto degli standards fissati dai protocolli internazionali che compendiano le regole fondamentali di approccio prescritte dalla comunità scientifica, sulla base dell’osservazione statistica ed epidemiologica” (p. 24), e dopo aver passato in rapida rassegna le numerose violazioni agli standard operativi in vigore nello specifico settore, afferma (p. 38):

“Più singolare – ed inquietante – è la sorte del gancetto di reggiseno. Notato nel corso del

primo sopralluogo dalla polizia scientifica, l'oggetto è stato trascurato e lasciato lì, sul pavimento, per diverso tempo (ben 46 giorni), sino a quando, nel corso di nuovo accesso, è stato finalmente raccolto e repertato. È certo che, nell'arco di tempo intercorrente tra il sopralluogo in cui venne

quantità limitate di DNA. Anche altri parametri analitici e strumentali, quali l’aumento del tempo d’iniezione del campione, la purificazione dei campioni amplificati, la riduzione del volume di PCR, protocolli di nested-PCR, sono stati successivamente presi in considerazione, con risultati in molti casi interessanti. Per anni, quindi, si è tentato di identificare una soglia quantitativa per definire la condizione di LCN-DNA. Peter Gill, nel 2000, definiva LCN-DNA “the analysis of any sample that contained less than 100 pg of template DNA”, quantità corrispondente a circa venti cellule, mentre altri autori incrementano tale limite a 200 picogrammi. Tuttavia, nel corso del tempo, è maturata la consapevolezza che è praticamente impossibile fissare una soglia quantitativa precisa al di sotto della quale si può affermare – con certezza – che la caratterizzazione sarà problematica in termini di attendibilità dei risultati. Ad oggi, i genetisti forensi usano come sinonimi i termini LCN-DNA, LT-DNA (low template DNA) oppure LL-DNA (low level DNA) nel riferirsi alla condizione di essere in presenza di un campione di DNA in scarsa quantità la cui valutazione deve prevedere protocolli analitici ed interpretativi ad hoc […] In definitiva, quindi, la visione oggi prevalente è quella di definire analisi LCN tutte quelle analisi che, a prescindere dalla quantità di DNA analizzato, sono caratterizzate da profili complessi affetti da artefatti”. 21 Corte d'Assise d'Appello di Perugia, sent. del 3 ottobre 2011, dep. 15 dicembre 2011, Pres. C. Pratillo Hellmann, Giud. Est. Zanetti, imp. Knox e Sollecito, sentenza annullata dalla Cassazione in data 26 marzo 2013. 22 In proposito, P. TONINI – C. CONTI, Il processo di Perugia tra conoscenza istintuale e scienza del dubbio, in Arch. pen., n. 2/2012, p. 4, osservano che “la pronuncia di appello ha affermato con nettezza che l'onus probandi circa l'assenza di ‘inquinamento' grava sull'accusa, chiamata a dimostrare la ‘qualità' degli elementi posti a base della fondatezza dell'imputazione. Pertanto, è il pubblico ministero che deve avvalorare l'assenza di alterazioni intervenute al momento della repertazione o successivamente. Ove non si dimostri il rispetto delle best practices nella raccolta delle tracce sul luogo del delitto, l'impossibilità di escludere l'intervento di contaminazioni si ripercuote sull'attendibilità del dato raccolto”. 23 Cass., sez. V, sent. n. 36080 del 27 marzo 2015 (dep. 7 settembre 2015), Knox.

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notato e quello in cui fu repertato, vi furono altri accessi degli inquirenti, che rovistarono ovunque, spostando mobili ed arredi, alla ricerca di elementi probatori utili alle indagini. Il gancetto fu forse calpestato o, comunque, spostato (tanto da essere rinvenuto sul pavimento in posto diverso da quello in cui era stato inizialmente notato). Non solo, ma la documentazione fotografica prodotta dalla difesa di Sollecito dimostra che, all'atto della repertazione, il gancetto veniva passato di mano in mano degli operanti, che, peraltro, indossavano guanti di lattice sporchi”24.

La Corte ha posto poi un interessante quesito: “Inoltre, le tracce rivenute sui due reperti, la cui analisi ha portato agli esiti di cui si dirà

in prosieguo, erano di esigua entità (Low Copy Number; con riferimento al gancetto cfr. ff. 222 e 248), tale da non consentire di ripetere l'amplificazione, ossia la procedura volta ad «evidenziare le tracce geniche di interesse» sul campione» (f. 238), e dunque ad attribuire una traccia biologica ad un determinato profilo genetico. Sulla base dei protocolli in materia, la ripetizione dell'analisi […] è assolutamente necessaria perché il risultato dell'analisi possa ritenersi affidabile, sì da emarginare il rischio di "falsi positivi" entro margini statistici di insignificante rilievo. […] In mancanza di verifica per ripetizione del dato di indagine, c'è da chiedersi quale possa essere la relativa valenza processuale, indipendentemente dal dibattito teorico sul rilievo più o meno scientifico delle risultanze dell'indagine compiuta su campioni tanto esigui o complessi, da non consentirne la ripetizione”.

Qui la Corte, con l’interrogativo posto, indica sostanzialmente la necessità di

poter ripetere l’analisi di laboratorio, aspetto che sembra aver avuto un grande peso nella decisione finale25 (forse più che non quello, più suggestivo ma forse meno incisivo, delle scorrette modalità di repertamento del gancetto).

24 Il comportamento degli operatori che hanno eseguito il repertamento del gancetto del reggiseno – quale riferito dalla Suprema Corte (e come del resto risultante dalle videoriprese effettuate nel corso del sopralluogo, alcune delle quali reperibili online, ad es. sul sito americano www.injusticeinperugia) che ha parlato di “deprecabile pressapochismo” – risulta effettivamente inspiegabile, se solo si considera che i protocolli in materia dettano specifiche norme procedurali sulle modalità esecutive dell’attività di repertamento delle tracce del reato, allegramente ignorate dal personale operante che ha eseguito il sopralluogo. Ad es. secondo la procedura gestionale elaborata dal Servizio di Polizia Scientifica, in tema di “Sopralluogo di Polizia scientifica” del 11.11.2014 (revisione 3, del 1.06.2017): “Per l’esecuzione dell’attività di repertazione: – utilizzare DPI e materiale monouso o sanificare con clorexidina […]; – evitare il contatto tra oggetti da repertare; – maneggiare gli oggetti repertati per l'esame delle tracce biologiche il meno possibile per minimizzare l’alterazione/dispersione della traccia e per limitarne l'esposizione agli agenti contaminanti; […] – evitare qualsiasi contatto con superfici che potrebbero causare contaminazione, o comunque compromettere il successivo esame della traccia […]”. 25 Peraltro secondo G. GENNARI, Nuove e vecchie scienze forensi, cit., p. 79: “Non è scientificamente corretto dire che, se il processo analitico non può essere ripetuto, la prova genetica non vale niente. La ripetizione dell’amplificazione è certo la strada maestra per corroborare il risultato di un’analisi LCN, ma non è l’unica. Ad esempio, il laboratorio può verificare il risultato attraverso un percorso preliminare di validazione e sviluppo di protocolli che dimostrino la capacità di quella struttura di produrre risultati utili anche con scarsissime quantità di materiale”.

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E ancora (p. 39): “… indipendentemente dal rilievo scientifico, un dato non verificato, proprio perché privo

dei necessari connotati della precisione e gravità, non può conseguire, in ambito processuale, neppure la valenza di indizio. Certo, in tale contesto, non è il nulla, da ritenere tamquam non esset. Ed infatti, è pur sempre un dato processuale, che, ancorché privo di autonoma valenza dimostrativa, è comunque suscettivo di apprezzamento, quanto meno in chiave di mera conferma, in seno ad un insieme di elementi già dotati di soverchiante portata sintomatica”.

Sul punto tuttavia non possiamo nascondere qualche perplessità perché, o il dato

raccolto viene ritenuto del tutto inaffidabile, e pertanto allo stesso non può essere riconosciuta alcuna valenza processuale, neppure quale “dato processuale... suscettivo di apprezzamento”, oppure il dato deve essere ritenuto – totalmente o parzialmente – affidabile, sia pur tenendo conto del margine di errore derivante dal non ancora intervenuto accreditamento del metodo utilizzato o dalle difficoltà incontrate in sede di esecuzione, ed allora esso acquisirà un valore non già di prova piena del fatto da dimostrare, bensì di mero indizio, la cui efficacia sarà più o meno forte a seconda del maggiore o minore margine di errore riconosciuto dal giudice. Né del resto ci è dato rinvenire nel codice una terza categoria processuale a valenza dimostrativa a fianco della prova e dell’indizio26.

Ci pare dunque più corretto quanto affermato dalla Suprema Corte in altro contesto, allorquando ha a più riprese affermato che “Gli esiti dell'indagine genetica condotta sul DNA, atteso l'elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, presentano natura di prova, e non di mero elemento indiziario ai sensi dell'art. 192, comma secondo, cod. proc. pen.; peraltro, nei casi in cui l'indagine genetica non dia risultati assolutamente certi, ai suoi esiti può essere attribuita valenza indiziaria” (Cass. 8434/2013, Mariller27)28. 26 Mostra di nutrire alcune perplessità in merito all’affermazione di principio formulata dalla Suprema Corte, nel caso Amanda Knox, anche C. BRUSCO, in Prova scientifica e ragionevole dubbio: in margine a un caso di omicidio, in Foro it., n. 2/2016, p. 464: “Qualche riserva resta su questa ripartizione tra prova, indizio ed elemento «suscettivo di valutazione»: non si considera che anche per l’indizio vale il criterio che la sua forza si ricava dalla regola di inferenza che collega il fatto noto a quello ignoto da provare. Insomma, se l’indizio è debole (e quindi non grave), non è idoneo, da solo, a fondare la prova del fatto ignoto; ma non perciò perde la qualità di indizio.” 27 Cass. sez. II, sent. n. 8434 del 5 febbraio 2013, Mariller, cit. Conf. Cass. sez. II, sentenza n. 43406 del 1 giugno 2016, Syziu, cit., e Cass. sez. I, sent. n. 48349 del 30 giugno 2004, Rizzetto, cit. Similmente anche – sia pur in tema di accertamenti informatici – Cass. sez. V, sent. n. 11905 del 16 novembre 2015 (dep. 21 marzo 2016), Rv. 266477, Branchi: “L'estrazione di dati archiviati in un supporto informatico (nella specie: floppy disk) non costituisce accertamento tecnico irripetibile anche dopo l'entrata in vigore della legge 18 marzo 2008, n. 48, che ha introdotto unicamente l'obbligo per la polizia giudiziaria di rispettare determinati protocolli di comportamento, senza prevedere alcuna sanzione processuale in caso di mancata loro adozione, potendone derivare, invece, eventualmente, effetti sull'attendibilità della prova rappresentata dall'accertamento eseguito. (In motivazione, la S.C. ha precisato che è fatta salva la necessità di verificare in concreto la sussistenza di eventuali alterazioni dei dati originali e la corrispondenza ad essi di quelli estratti)”; e Cass. sez. V, sent. n. 22695 del 3 marzo 2017 (dep. 10 maggio 2017), Rv. 270139, La Rosa. 28 È tuttavia di diverso avviso L. LUPÀRIA, Le promesse della genetica forense e il disincanto del processualista. Appunti sulla prova del DNA nel sistema italiano, in Riv. it. med. leg., n. 1/2016, p. 176, secondo cui l’orientamento della Suprema Corte ora menzionato rappresenta “un approccio che malamente riecheggia l’antica accezione

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La sentenza in esame (Cass. 36080/15, Knox), più specificamente, ha formulato

ulteriori considerazioni con riferimento al mancato rispetto dei protocolli internazionali relativi alle attività di repertamento e sopralluogo (p. 37):

“…non si vede, proprio, come il dato di analisi genetica – che si sia svolta in violazione

delle prescrizioni dei protocolli in materia di repertazione e conservazione – possa dirsi dotato dei caratteri della gravità e della precisione. Ed infatti, cristallizzando i risultati di collaudate conoscenze … quelle regole compendiano gli standards di affidabilità delle risultanze dell’analisi […] Diversamente, al dato acquisito non potrebbe riconnettersi rilevanza alcuna, neppure di mero indizio”.

Tale conclusione, apparentemente condivisibile, in realtà ha una portata

dirompente e – ove dovesse venire applicata sistematicamente nella casistica giudiziaria29 – sarebbe in grado di produrre risultati quanto meno problematici30.

È evidente infatti che non ogni violazione ai protocolli può determinare la formazione di un risultato viziato. medievale dell’indizio in termini di probatio minus quam plena, quasi che la distinzione tra i due concetti dovesse essere collegata a forme di graduazione della persuasività e non già, più correttamente, alla differente struttura logica che differenzia la prova (in cui il passaggio dall’elemento al risultato è univocamente determinato) dall’indizio (che costringe ad una conclusione inferenziale tramite applicazione di massime d’esperienza o leggi probabilistiche)”. 29 Come pur auspicato da autorevole dottrina: vds. P. TONINI, Nullum iudicium sine scientia. Cadono vecchi idoli nel caso Meredith Kercher, in Dir. pen. proc., n. 11/2015, p. 1414: “Quindi, oggi dobbiamo concludere che l’indagine genetica non ha il valore di prova quando non sono stati osservati i protocolli. In tal caso, il singolo atto rimane nel fascicolo, ma non può essere giudicato attendibile. Di conseguenza, non può essere usato dal giudice per fondare la decisione”. 30 Probabilmente la stessa Corte non si è avveduta delle implicazioni pratiche connesse al principio affermato. D’altronde dalla lettura della sentenza in commento si comprende pure come forse gli stessi giudici della Corte non fossero profondi conoscitori delle regole procedurali e delle metodiche indicate dai “protocolli internazionali” ripetutamente dagli stessi citati: a p. 37 della motivazione, la Corte si lamenta del fatto che il coltello da cucina rinvenuto in casa di Sollecito e ritenuto arma del delitto, fosse stato “repertato e, poi, custodito in una comune scatola di cartone, del tipo di quelle che confezionano i gadgets natalizi, ossia le agende di cui gli istituti di credito, per consuetudine, fanno omaggio alle autorità locali”. Peccato che tale tipologia di contenitore – appunto di cartone e come tale più idoneo rispetto alle buste in cellophane che, non assorbendo l’umidità favoriscono la proliferazione di muffe e la degradazione del DNA – fosse comunque indicato per il repertamento di un oggetto che si assumeva potesse recare tracce biologiche (naturalmente sempreché si trattasse di scatola mai precedentemente usata o, meglio, sterile). Sul punto vedasi ad esempio la procedura tecnica PT59 del Servizio di Polizia Scientifica in tema di “Prelievo immagazzinamento e conservazione di reperti biologici e tracce biologiche in fase di sopralluogo”, del 7.11.2014, nelle quali si afferma (p. 8): “i reperti devono essere immagazzinati e conservati in buste di carta e successivamente posti in buste in plastica. In caso di eventi urgenti e qualora si fosse privi delle idonee buste in carta contenitori è possibile utilizzare buste di carta provenienti dalla Zecca di Stato mai usate”. V. altresì le già citate “linee guida per la repertazione di tracce biologiche per le analisi di genetica forense nel percorso assistenziale delle vittime di violenza sessuale” elaborate dal GE.F.I. (recepite dal D.P.C.M. 24.11.2017), pag. 3: “5. Conservare gli indumenti ben asciutti in buste di carta o in scatole di cartone, mai aperte o manipolate (nota bene: non usare buste di plastica per la conservazione!) e mantenerli a temperatura ambiente. 6. Fare asciugare, se è possibile, all’aria gli indumenti non asciutti, senza utilizzare fonti di calore (stufe, phon, ecc.) e conservarli in buste di carta; qualora non sia possibile, congelare gli indumenti bagnati dopo averli posti in buste di plastica e/o contenitori sterili di plastica”.

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Si può azzardare la formulazione di un esempio: i protocolli in materia di indagini genetiche prevedono l’utilizzazione di reagenti di amplificazione in corso di validità31. Le ragioni di tale prescrizione appaiono perfino ovvie: reagenti o strumenti scaduti possono comportare la produzione di artefatti nel tracciato elettroforetico e, conseguentemente, risultati alterati o comunque non affidabili. Si ipotizzi tuttavia il caso in cui il consulente tecnico utilizzi per l’esecuzione delle analisi genetiche un reagente scaduto da pochi giorni: egli tuttavia, in ottemperanza alle prescrizioni previste dalle linee guida in materia, esegue controlli negativi e positivi, con esito di conferma; inoltre l’analisi sulla traccia oggetto di indagine viene ripetuta due volte e in entrambi i casi viene estrapolato il medesimo profilo genetico, caratterizzato da picchi molto alti e assenza di significativo rumore di fondo: potremmo sostenere che il risultato in tal modo raggiunto non abbia validità alcuna, se non di mero dato processuale, solo perché lo stesso è stato raggiunto in violazione delle prescrizioni previste dai protocolli in materia?32

Un altro esempio: le “linee guida per la repertazione di tracce biologiche per le analisi di genetica forense nel percorso assistenziale delle vittime di violenza sessuale” elaborate dal GE.F.I. (recepite dal D.P.C.M. 24.11.2017), prevedono che “Le provette non devono mai essere conservate in frigorifero”33 (il divieto, dettato al fine di prevenire il rischio di proliferazione di muffe in grado di vanificare le analisi, è riportato a carattere maiuscolo). La prova genetica esperita su reperti erroneamente riposti in frigorifero – magari per pochi minuti soltanto per poi essere ripresi dall’operatore tempestivamente accortosi dell’errore – dovrebbe, per ciò solo, essere ritenuta inutilizzabile?

31 V. ad es. le linee guida adottate dai Genetisti Forensi Italiani, pubblicate l’8 gennaio 2018 – “Raccomandazioni Ge.F.I. nelle indagini di identificazione personale” – le quali, all’art. 1.2, alinea 7, prevedono che “i reagenti impiegati in laboratorio non dovrebbero essere utilizzati se hanno superato la data di scadenza”. 32 Problema analogo, relativo all’impiego di reagenti scaduti, si è posto anche nel corso del processo relativo all’omicidio di Yara Gambirasio. La Corte d’assise di Brescia (sent. n. 1, del 1 luglio 2016, dep. 27 settembre 2016, imp. Bossetti, in www.penalcontemporaneo.it – p. 79 della motivazione) in proposito, dopo aver dato atto che nel corso delle analisi genetiche eseguite in fase di indagine, erano stati utilizzati alcuni polimeri scaduti (da alcuni mesi), ha comunque osservato che “Sul punto, tutti gli altri consulenti sentiti hanno sottolineato – non smentiti dal consulente della difesa, limitatosi ad un rilievo di metodo – che la scadenza del polimero viene fissata dalle case produttrici anche a fini commerciali (tanto è vero che esiste un sistema di rivalidazione dei polimeri volto a prolungarne il periodo di utilizzabilità), che lo spirare del termine di consumo non compromette l’analisi e, soprattutto, che l’eventuale cattivo stato di conservazione del polimero impedisce la reazione e dà luogo a un profilo non leggibile, non a un profilo diverso da quello reale”. La questione è stata poi riproposta anche nel giudizio di appello, nel quale la Corte d’assise d’appello di Brescia (sent. n. 2, del 17 luglio 2017, dep. 13 ottobre 2017, in www.giurisprudenzapenale.com – da p. 251 della motivazione), richiamando il “famoso genetista, a livello internazionale”, John Butler, ha ribadito analoghe conclusioni: “…A ciò si aggiunga che lo stesso prof. Butler, nel volume ‘Forensic DNA Typing-Interpretation’, che costituisce la base di confronto e di studio di tutti i genetisti a livello internazionale, ha affermato che ‘... Vale la pena notare che la qualità del profilo del DNA non è necessariamente diminuita se vengono utilizzati reagenti scaduti’. […] Si può, quindi, condividere pienamente la conclusione formulata dal P.M. e dal P.G. secondo la quale una ipotetica inefficienza del polimero scaduto produrrebbe un risultato non leggibile o non interpretabile ma mai porterebbe alla produzione di un profilo riconducibile ad una persona specifica (e sempre lo stesso)”. La sentenza di condanna è divenuta infine definitiva, a seguito della sentenza della Suprema Corte pronunciata il 12 ottobre 2018 (dep. 23 novembre 2018). 33 Gazzetta Ufficiale della Repubblica, Serie Generale n. 24, 30.01.2018, p. 28.

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Talvolta poi le peculiarità del caso possono suggerire di discostarsi dai protocolli con riferimento ad una particolare prescrizione, giustificandone ovviamente le ragioni34. Insomma appare dirimente la verifica della tipologia di precauzione violata (fermo restando che nei protocolli vengono spesso indicate raccomandazioni non imperative ma meramente “preferenziali”35), il rilievo e l’importanza della stessa anche in relazione allo specifico accertamento eseguito, e la consistenza del discostamento dalle prescrizioni dettate. Senza contare poi che non tutti i “protocolli” elaborati nell’ambito di una specifica materia, hanno necessariamente gli stessi contenuti, con la conseguenza che può anche accadere che una determinata metodologia di indagine non violi il protocollo dettato da una società scientifica di rilievo nazionale e magari violi quello dettato da un’altra società scientifica o dal corrispondente ente scientifico forense di rilievo internazionale, o viceversa.

Tali argomenti sembrano essere stati condivisi in precedenza anche dalla stessa Suprema Corte che, infatti, nella sentenza n. 33584 del 201236, relativa al caso dello

34 Restando sempre in ambito di accertamenti genetici, può accadere che l’esperto si trovi di fronte una traccia particolarmente complessa: in tal caso egli ben può valutare di “forzare” i protocolli al fine di ottenere il miglior risultato possibile. L’ipotesi di deroghe ai protocolli sono riportate in letteratura, ed alcuni esempi possono essere: l’aumento dei cicli di PCR, l’aumento della quantità di DNA che si immette nella reazione di PCR, o l’aumento dei parametri di corsa elettroforetica. Naturalmente occorre essere consapevoli che in tali casi, poiché ci si muove in un territorio “inesplorato”, il risultato che si ottiene sarà più difficile da interpretare rispetto ai casi in cui ci si attenga scrupolosamente ad un protocollo standard. Come spiega V. BOVE, Brevi riflessioni su protocolli e linee guida, cit., p. 5, con riferimento più generale al tema dell’elaborazione delle linee guida e protocolli in campo scientifico: “Nel caso delle linee guida, trattandosi di un orientamento di partenza per modus operandi condivisi, vengono generalmente proposte direttive generali ed istruzioni di massima, che vanno poi applicate senza automatismi, rapportandole, cioè, al caso concreto”. Nello stesso senso – sia pur pronunciandosi nel diverso ambito della responsabilità medica e della rilevanza del rispetto delle linee guida per escludere la colpa lieve – Cass., sent. n. 16237 del 29 gennaio 2013, Cantore, cit., in motivazione, secondo cui “le linee guida, a differenza dei protocolli e delle check list, non indicano una analitica, automatica successione di adempimenti, ma propongono solo direttive generali, istruzioni di massima, orientamenti. Esse, dunque, vanno in concreto applicate senza automatismi, ma rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso…”. 35 Ad esempio le linee guida elaborate nel 2016 dal Gruppo di lavoro SIGU – Genetica forense, coordinato dal Prof. Emiliano Giardina, “criteri minimi di qualità delle analisi di Genetica Forense ad uso identificativo”, del 5.12.2016, prevede una serie di criteri per garantire la qualità dell’attività di ricerca espletata e l’idoneità delle metodiche impiegate e delle analisi, tra i quali alcuni sono indicati come “necessari” e altri sono indicati come “preferibili” (ossia “consigliati per garantire la migliore qualità di un processo o di un’analisi”). 36 Cass. sent. n. 33584 del 31 agosto 2012, cit., secondo cui, in motivazione: “L'unica censura residua […] riguarderebbe le modalità di prelievo e conservazione dei reperti, che non sarebbero state rispettose dei parametri elaborati dall'ENFSI. Orbene, anche sul punto la sentenza impugnata ha esaminato in termini assolutamente esaustivi le censure dell'appellante, con osservazioni pienamente condivisibili in punto di diritto, in ordine alla affermazione secondo la quale il mancato rispetto degli standard indicati dall'ENFSI non rende inutilizzabili come prova gli eventuali campioni repertati, ed in punto di fatto in ordine alla irrilevanza delle asserite violazioni delle prescrizioni dell'ENFSI. Il riferimento della L. 30 giugno 2009, n. 85, art. 11 agli standard raccomandati dall'ENFSI, come affermato nella sentenza impugnata, infatti, riguarda esclusivamente l'inserimento dei reperti e campioni biologici nella banca dati istituita dalla stessa legge per assicurare l'uniformità dei parametri di tipizzazione dei profili genetici. A tale osservazione, però, la sentenza ha aggiunto, in punto di fatto, che non vi è alcun elemento atto a dimostrare che, nel caso in esame, possa essersi verificata una contaminazione dei reperti in conseguenza delle modalità di conservazione. Parte dei reperti, infatti, sono stati conservati, così come prescritto nelle raccomandazioni dell'ENFSI, in buste di carta, mentre con riferimento ai reperti inseriti in buste di plastica e conseguentemente soggetti al pericolo

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stupratore seriale che nel 2009 aveva messo in agitazione la città di Roma, ha posto in evidenza come alcune violazioni agli standard dettati da protocolli internazionali possano in concreto rivelarsi “irrilevanti”. 4. L’accreditamento dei laboratori.

Il problema derivante dalla violazione dei protocolli potrebbe essere in parte superato, quanto meno con riferimento alle metodologie di indagine che richiedono attività di laboratorio, se solo i giudici – ma anche i p.m. o i difensori nella fase delle indagini – verificassero preliminarmente le garanzie di qualità offerte dalle metodologie utilizzate dai periti e consulenti nominati, e dai laboratori ai quali gli stessi si appoggiano37.

In tale ottica sarebbe utile verificare se il laboratorio interessato sia stato o meno accreditato secondo la norma di qualità ISO–IEC 1702538. Accade sovente infatti che l’esperto di turno pretenda garantire l’attendibilità delle analisi dal medesimo esperite in virtù non già dell’osservanza di procedure validate e riconosciute dalla comunità scientifica di riferimento, bensì in ragione della propria competenza ed esperienza. L’accreditamento39 invece garantisce il raggiungimento di standard di qualità: esso non assicura contro la commissione di errori – sempre possibili dove agiscono esseri umani – ma è garanzia di affidabilità della procedura adottata. Il metodo accreditato preciserà i limiti entro i quali il risultato è certamente attendibile, indicherà i margini di errore, dirà cosa accade al di fuori di questi limiti, riferirà le caratteristiche che deve avere il risultato di prova per essere considerato attendibile; in altri termini saprà gestire il possibile errore, minimizzandone gli effetti negativi40. Il laboratorio che ottiene

di formazione di muffe, è stato osservato, con argomentazione logica, che il verificarsi di detto fenomeno li avrebbe esclusivamente resi inutilizzabili”. 37 Così F. DE STEFANO, A. BONSIGNORE, C. VIAZZI, “La scelta dei consulenti e dei periti per gli accertamenti genetico-forensi”, in Riv. it. med. leg., n. 1/2016, p. 292: “A tal proposito uno dei principali segnali di allarme per il magistrato, ma si potrebbe dire – in generale – per il committente, è rappresentato dall’autoreferenzialità allegata dal consulente/perito, un aspetto tipicamente antitetico rispetto alle oggettive buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. 38 Sul tema vds., ampiamente, U. RICCI, Un lampo di consapevolezza nella normativa italiana, cit. 39 L’accreditamento può essere ottenuto solo a seguito di verifiche accurate sugli standard di qualità che il laboratorio è in grado di garantire. In Italia la procedura di verifica può essere condotta da un unico ente accreditatore, Accredia (ente unico nazionale senza scopo di lucro, mutuamente riconosciuto a livello internazionale, e operante sotto la vigilanza del Ministero dello Sviluppo Economico), a sua volta individuato da un ente di qualità superiore a livello europeo, l’ILAC (International Laboratory Accreditation Cooperation), che identifica in ogni Stato europeo uno e un solo ente che ha la possibilità di accreditare i laboratori. Attraverso la consultazione del sito www.accredia.it, è possibile verificare quali laboratori hanno ottenuto l’accreditamento a norma ISO/IEC 17025, con indicazione della tipologia di accertamenti per i quali lo stesso è stato rilasciato. 40 U. RICCI, La qualità nel settore della genetica forense, in Riv. it. med. leg., n. 1/2016, p. 237: “Quello dell’infallibilità di qualunque laboratorio è … un mito inesistente. La differenza tra un laboratorio che operi in conformità all’accreditamento e uno che lo paventa soltanto, è che il primo è in grado di gestire i propri errori, il secondo no”. Secondo D. CURTOTTI NAPPI, L. SARAVO, L'approccio multidisciplinare nella gestione della scena del crimine, in Dir.

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l’accreditamento offre quindi maggiore affidabilità, anche perché in questo modo si esclude l’autoreferenzialità: la norma ISO/IEC 17025 obbliga infatti il laboratorio ed il personale abilitato ad adottare un metodo di prova (la procedura) stabilito a priori, nel quale sono indicati i limiti dell’accertamento41.

Tra l’altro il D.P.R. 7 aprile 2016, n. 87 (decreto attuativo della legge 30 giugno 2009, n. 85, istitutiva della banca dati del DNA) prevede ora all’art. 10, co. 4, che per poter inserire i profili genetici estrapolati nel corso di un procedimento giudiziario all’interno della Banca dati del DNA, il laboratorio che li ha generati debba essere obbligatoriamente accreditato secondo la norma di qualità in parola42. L’eventuale conferimento di incarico a genetisti che si avvalgono di laboratorio non accreditato, impedirà quindi di conferire alla banca dati del DNA il profilo genetico eventualmente estrapolato dalle tracce biologiche repertate sulla scena del crimine o dal campione prelevato dall’imputato, con conseguente impossibilità di avvalersi dei dati presenti nel database nazionale per la ricerca di eventuali corrispondenze utili per la risoluzione del caso. La norma in parola del resto non fa altro che recepire, pure con un certo ritardo, quanto già previsto dal Consiglio d’Europa nel 2009, con la decisione GAI 2009/905 del 30.11.2009 (non a caso citata nel preambolo del decreto in parola), la quale prevede l’accreditamento, a norma EN ISO/IEC 17025, dei fornitori dei servizi forensi che effettuano attività di laboratorio43. 5. Conclusioni.

Appare dunque corretto affermare che la sanzione, in caso di ritenuta violazione dei “protocolli” relativi all’espletamento di indagini genetiche (ma il discorso vale in generale per ogni indagine scientifica introdotta nel processo) – sia essa intervenuta nella fase di repertamento delle tracce biologiche, o in quella successiva di conservazione delle tracce repertate, o infine in quella analitica vera e propria – possa essere l’attenuata

pen. proc., n. 5/2011, p. 623, § 7, “tali procedure certificate saranno esse stesse garanzia della corretta esecuzione delle operazioni o, per contro, della loro inaffidabilità”. 41 Non a caso le linee guida elaborate dal GE.F.I. – “Raccomandazioni Ge.F.I. nelle indagini di identificazione personale” – pubblicate il 18.01.2018, nella Sezione 1, § 3, prevedono che “il laboratorio di genetica forense dovrebbe porsi come obiettivo primario quello dell’accreditamento ISO/IEC 17025:2005”. 42 Art. 10, co. 4: “Il personale autorizzato ai sensi dell'articolo 12, comma 2, della legge inserisce i profili del DNA nella banca dati solo se ottenuti con metodi accreditati a norma ISO/IEC 17025, e successive modificazioni”. 43 Come ben evidenziato da R. BIONDO, Banca dati nazionale del DNA. Storia, funzionamento e tecnologie. Prima parte (Un’arma in più), inserto di PoliziaModerna, novembre 2016, p. IV, “Il passaggio si può definire storico da un punto di vista tecnico-giuridico. Nelle aule di giustizia, i magistrati e gli avvocati partiranno da un dato certo, l’accreditamento dell’analisi del DNA prima che diventi prova nel dibattimento: le varie fasi dell’analisi che portano alla tipizzazione del DNA in un laboratorio accreditato non saranno oggetto di discussione dibattimentale, poiché il metodo di prova utilizzato è stato già verificato e riconosciuto sia a livello nazionale che internazionale. Qui è bene fare una precisazione. Quando un metodo di prova […] è effettuato da un laboratorio che ha superato con esito positivo le verifiche per l’accreditamento nazionale significa che tutte le fasi del processo di tipizzazione del DNA sono scritte e descritte e hanno passato diverse verifiche tecniche che ne fanno un’analisi inattaccabile da un punto di vista tecnico-procedurale”.

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valenza dimostrativa del risultato di prova, se non addirittura la inutilizzabilità della prova stessa, non già quale conseguenza automatica della violazione dei protocolli, bensì e unicamente quale conseguenza della inaffidabilità ritenuta dal giudice – a seguito di esame della concreta incidenza della violazione nel caso specifico44.

Infatti, tanto più oggi, a fronte dell’incremento del tasso tecnico della prova scientifica introdotta nel processo, unitamente al crescente impiego in ambito forense di nuove metodologie scientifiche, il giudice (ma il discorso vale anche per il pubblico ministero e per il difensore) deve essere in grado non solo di recepire le conclusioni formulate dall’esperto, ma ancor prima di comprendere il percorso metodologico, operativo e logico–argomentativo seguito per giungere a quelle conclusioni. In altri termini egli deve saper comprendere la “sintassi” del ragionamento o del percorso seguito dall’esperto45, non per sostituirsi al medesimo – che, per ovvie ragioni, resterà sempre insostituibile – ma per non rischiare di dover rinunciare al ruolo che gli è proprio, quello di amministrare la giustizia nel caso concreto, attraverso la corretta comprensione degli elementi sottoposti alla sua valutazione46.

44 Similmente anche A. CAMON, La prova genetica, cit., p. 172: “Probabilmente la soluzione più corretta è nel senso che, in simili evenienze, sul giudice che intenda usare la prova incombe il dovere di motivare con particolare cura circa le ragioni che, malgrado l’errore, inducono a riporre fiducia sulla genuinità del reperto”. 45 Per approfondimenti sul tema, nonché sulle precauzioni che il giudice è chiamato ad adottare in sede di valutazione della prova scientifica, volendo vds. R.V.O. VALLI, Le indagini scientifiche nel procedimento penale, Giuffrè, 2013, p. 4 ss. e, in particolare, da p. 44. Vds. inoltre, per l’applicazione di un metodo di valutazione della prova genetica, “innovativo” in ambito giudiziario: F. TARONI, I. DE MARCH, P. GARBOLINO, S. BOZZA, Prova genetica del DNA e risultati dissonanti: come valutare congiuntamente gli elementi scientifici di prova, in questa Rivista, fasc. 11/2018, p. 77 ss. 46 In ogni caso il raggiungimento di elevati standard di qualità nella produzione dei risultati – specialmente in ambito di indagini genetiche, ma il discorso vale anche per le ulteriori tipologie di indagine tecniche o scientifiche tanto più ove richiedano l’impiego di metodologie articolate o complesse – può essere favorito dal giudice attraverso la scelta oculata dei propri collaboratori, consulenti o periti, i quali, nel compimento delle operazioni necessarie per rispondere ai quesiti, devono poter assicurare l’adozione di procedure e metodi di lavoro accreditati secondo norme di qualità riconosciute a livello internazionale, a garanzia della corretta applicazione del metodo.

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IL TRAFFICO ILLECITO DI RIFIUTI: IL PUNTO SULLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ

di Alberto Galanti

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Gli elementi costitutivi del reato. – 2.1. Compimento di più operazioni. – 2.2. Attività organizzate. – 2.3. condotta abusiva e condotta clandestina. – 2.4. L’ingente quantitativo. – 2.5. Il dolo. – 3. La prescrizione del reato. – 4. I rapporti con altre figure di reato. – 5. La competenza in ordine al reato di traffico illecito di rifiuti. – 5.1. La competenza “funzionale”. – 5.2. La competenza per territorio. – 6. L’applicabilità diretta dell’articolo 13 D.L. n. 306/1992. – 7. Sequestro e confisca. – 7.1. La confisca obbligatoria. – 7.2. La confisca allargata. – 7.3. Prescrizione e confisca. – 8. Danno e ripristino ambientale. 1. Introduzione.

Come noto, l’articolo 260 del d.lgs. 152/06 sanzionava la condotta di “chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti è punito con la reclusione da uno a sei anni”. Tale norma è stata trasposta, in attuazione del principio di “riserva di codice” nell’articolo 452-quaterdecies del codice penale dal d.lgs. 1° marzo 2018 n. 21.

Detta disposizione conteneva l’unica ipotesi delittuosa (ad eccezione dell’art. 256-bis, introdotto con d.l. 136/2013) contenuta nel testo unico ambientale, riproducendo i contenuti dell'articolo 53-bis del d.lgs. 22/1997 che, introdotto, con l'articolo 22 della Legge 23 marzo 2001, n. 93 (“Disposizioni in campo ambientale”), rappresentò il primo delitto contro l'ambiente1.

1 Riconosce perfetta continuità normativa tra le due disposizioni Cassazione, Sezione III, sentenza n. 9794 dell’8 marzo 2007, Montigiani.

Abstract. L’articolo, nel sottolineare gli approdi più significativi della giurisprudenza di legittimità in riferimento ad un reato, quello di traffico illecito di rifiuti, dai contorni spesso sfuggenti, tenta di fornire una ricostruzione sistematica dei confini dello stesso, così da fornire un ausilio all’esegeta nella soluzione delle problematiche che più frequentemente affliggono le aule di giustizia.

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Pur nella sua non chiarissima formulazione la norma, grazie anche al fondamentale contributo della giurisprudenza di legittimità, oggi pacificamente punisce le "attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti" (più comunemente note come “traffico illecito di rifiuti”) che vengono poste in essere attraverso modalità complesse quali, ad esempio, la miscelazione di più tipologie di rifiuti e la predisposizione di falsa documentazione per rendere impossibile l'individuazione della loro provenienza, la collocazione definitiva in discariche abusive anche attraverso l'intermediazione di altri soggetti, lo smaltimento occultato in attività apparentemente lecite (utilizzazione agronomica, uso come materia prima o combustibile etc.).

In via generale, e di prima approssimazione, si può pacificamente affermare che il bene giuridico protetto viene inoltre individuato dalla dottrina nella tutela dell’ambiente2 e della pubblica incolumità3. Si tratta, pertanto, di un reato plurioffensivo.

Ancora, la formulazione letterale della norma consente di ritenere che trattasi di reato “a consumazione anticipata”4, in cui non è necessaria la lesione del bene giuridico tutelato. Trattasi quindi di reato di pericolo astratto.

Prima di procedere oltre, occorre sgomberare il campo da una ricorrente argomentazione esibita nelle aule di tribunale, ossia che il delitto in parola sarebbe stato modellato dal legislatore prendendo a riferimento il fenomeno criminale della c.d. “ecomafia”, per cui la norma non si applicherebbe ad imprese che svolgono, anche solo in parte, attività lecita.

Tale tesi è stata smentita, anche recentemente, dalla Cassazione, la quale ha sottolineato che essa è del tutto infondata per due ordini di ragioni tra loro concorrenti:

a) perché pretende, quale metodo ermeneutico, il ricorso a modelli sociologici che vanno oltre la lettera della legge e perché presuppone la volontà del legislatore di sanzionare il "tipo di autore", piuttosto che la specifica condotta oggettivamente descritta dalla norma;

b) perché estromette, in sede di ricostruzione del fatto, proprio gli elementi costitutivi (e qualificanti) del delitto, e cioè: l'esercizio organizzato e continuativo dell'attività di gestione dei rifiuti, lo svolgimento dell'attività in assenza di autorizzazione, la consapevolezza della mancanza dell'autorizzazione, il fine di procurarsi un profitto ingiusto”5.

Sgombrato il campo da possibili interpretazioni fuorvianti, occorre adesso analizzare il percorso seguito dalla giurisprudenza di legittimità in riferimento agli elementi costitutivi del delitto. La Corte, infatti, ha nel corso degli anni disegnato un vero e proprio “statuto” del delitto in parola, attraverso una batteria di sentenze rese nel corso degli anni senza revirement o tentennamenti.

2 In tal senso, ex plurimis, Cassazione, Sezione III, Sentenza n. 18351 dell’11 maggio 2008; Sezione III, Sentenza n. 9133 del 24 febbraio 2017. 3 Cassazione, Sezione III, sentenza n. 52633 del 20 novembre 2017. 4 Cassazione, Sez. 3^, Sentenza n.9133 del 24 febbraio 2017, citata. 5 Cassazione, Sez. 3^, Sentenza n. 35568 del 19 luglio 2017.

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2. Gli elementi costitutivi del reato.

Quanto agli elementi costitutivi del reato, e in primo luogo al soggetto attivo del reato, la violazione è ascrivibile a "chiunque", assumendo così la natura di reato comune.

I requisiti della condotta sono stati individuati e, per così dire, “raffinati” nel corso degli anni dalla giurisprudenza di legittimità. 2.1. Compimento di più operazioni.

La Cassazione ha reiteratamente affermato la natura di “reato abituale” del traffico di rifiuti (ex plurimis, Cassazione, Sezione III, sentenza n. 46705 del 3 dicembre 2009; Sezione III, sentenza n. 46819 del 13 dicembre 2011). Secondo la citata giurisprudenza il delitto in esame sanziona comportamenti “non occasionali” di soggetti che, al fine di conseguire un ingiusto profitto, fanno della illecita gestione dei rifiuti la loro redditizia, anche se non esclusiva, attività, per cui per perfezionare il reato è necessaria una, seppure rudimentale, organizzazione professionale (mezzi e capitali) che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo, ossia con pluralità di operazioni condotte in continuità temporale, operazioni che vanno valutate in modo globale: alla pluralità delle azioni, che è elemento costitutivo del fatto, corrisponde una unica violazione di legge, e perciò il reato è abituale dal momento che per il suo perfezionamento è necessaria le realizzazione di più comportamenti della stessa specie (conf.: Sezione III, sentenza n. 46705 del 3.11.2009, Caserta; Sezione III, sentenza n. 29619 dell'8.07.2010, in proc. Leorati; Sezione III, sentenza n. 44449 del 15.10.2013, in proc. Ghidoli).

Sul punto, anche la recente Cassazione, Sezione III, sentenza n. 52838 del 14.12.2016: “per perfezionare il reato è necessaria una, seppure rudimentale, organizzazione professionale (mezzi e capitali) che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo, ossia con pluralità di operazioni condotte in continuità temporale, operazioni che vanno valutate in modo globale: alla pluralità delle azioni, che è elemento costitutivo del fatto, corrisponde una unica violazione di legge, e perciò il reato è abituale dal momento che per il suo perfezionamento è necessaria la realizzazione di più comportamenti della stessa specie (ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 44449 del 15/10/2013; Sez. 3, Sentenza n. 29619 del 08/07/2010; Sez. 3, n. 46705 del 3/11/2009, Caserta)”.

Tuttavia, Cassazione 35805/2010 ha ritenuto ontologicamente compatibile con l’(ex) art. 260 del d.lgs. n. 152/06 la contemporanea contestazione, nei confronti del reo, anche dell’istituto della continuazione ex art. 81 codice penale evidenziando come, “anche se il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti è reato abituale, in quanto integrato necessariamente dalla realizzazione di più comportamenti della stessa specie e quindi non vi sarebbe continuazione tra reati ma un unico reato, non di meno in generale il carattere abituale di un reato – che è caratterizzato dalla sussistenza di una serie di fatti i quali, isolatamente considerati, potrebbero anche non costituire delitto, ma che rinvengono la ratio dell’antigiuridicità penale nella loro reiterazione che si protrae nel tempo – non esclude del tutto

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la continuazione ex art. 81 c.p. ove siano identificabili serie autonome di condotte intervallate con soluzione di continuità e quindi non riconducibili ad unitarietà”.

Ciò significa che se ci si trova di fronte a diverse condotte criminose, tra loro differenti nelle modalità di realizzazione ovvero in cesura temporale tra loro, non si avrà un unico reato abituale, ma due delitti in continuazione “interna”: si prenda ad esempio l’ipotesi di un impianto di trattamento rifiuti con annessa discarica di servizio. Se le modalità della condotta riveleranno un'unica direzione degli atti, finalizzati al conseguimento di un medesimo profitto ingiusto, il delitto sarà unico. Se invece le due “filiere criminose” saranno distinte, sia sotto il profilo oggettivo dell’attività che teleologico del conseguimento del profitto, i reati saranno distinti. Analogamente si potrà convenire per il caso di delitto posto in essere in tempi diversi con modalità diverse, soprattutto se interrotte, medio termine, da vicissitudini aziendali (cambi effettivi nella compagine amministrativa o tecnica) o processuali (sequestro degli impianti). 2.2. Attività organizzate.

La norma richiede l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, che con l'attività descritta al punto precedente devono essere strettamente correlate, posto che il legislatore utilizza la congiunzione “e” (Cassazione, Sezione III, Sentenza n. 28685 9 agosto 2006 (Ud. 04/05/2006), in proc. Buttone; conf.: Cassazione, Sezione III, sentenza 17 gennaio 2002, Paggi).

Si è anche precisato (Cassazione, Sez. III, sentenza n. 40827 del 10 novembre 2005, Carretta) che “tale requisito può sussistere a fronte di una struttura organizzativa di tipo imprenditoriale, idonea ed adeguata a realizzare l'obiettivo criminoso preso di mira, anche quando la struttura non sia destinata, in via esclusiva, alla commissione di attività illecite, cosicché il reato può configurarsi anche quando l'attività criminosa sia marginale o secondaria rispetto all'attività principale lecitamente svolta”.

Sul punto si segnala anche Cassazione, Sezione IV, sentenza n. 2117 del 19 ottobre 2011, a mente della quale “la legge non richiede che il traffico di rifiuti sia posto in essere mediante una struttura operante in modo esclusivamente illecito, ben potendo le attività criminose essere collocate in un contesto che comprende anche operazioni commerciali riguardanti i rifiuti che vengono svolte in modo lecito (conf. Sez. III, sent. 15.12.2010, Bonesi). In altri termini, il delitto può essere integrato sia da una struttura operante in assenza di qualsiasi autorizzazione e con modalità del tutto contrarie alla legge, sia da una struttura che includa stabilmente condotte illecite all’interno di una attività svolta in presenza di autorizzazioni e, in parte, condotta senza violazioni …[omissis]… Ciò che rileva, infatti, è l’esistenza di «traffico» di rifiuti intenzionalmente sottratto ai canali leciti, e l’inserimento all’interno di un percorso imprenditoriale ufficiale può divenire addirittura una scelta mirante a mascherare l’illecito all’interno di un contesto imprenditoriale manifesto e autorizzato”.

Ciò significa che la norma non richiede che l’organizzazione sia rivolta in modo “esclusivo o prevalente” alla commissione del delitto in parola. Tale precisazione appare di notevole rilievo in quanto la maggior parte dei reati di traffico illecito di rifiuti

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vengono posti in essere da aziende in possesso di autorizzazioni alla gestione dei rifiuti, che però effettuano (lo si vedrà tra poco) in modo difforme rispetto all’autorizzazione.

Particolare è il caso, purtroppo verificatosi, in cui il traffico si risolva nell’affondamento una tantum di una imbarcazione carica di rifiuti, spesso pericolosi (le c.d. “navi dei veleni”). La difficoltà, in tali ipotesi, è accertare l’esistenza di quella “continuatività” richiesta dalla norma.

A parere di chi scrive, occorrerà accertare, in punto di fatto, se a monte di quell’unico smaltimento abusivo sia ravvisabile una pluralità di operazioni ad esso prodromiche. A titolo di mera esemplificazione, se saranno necessarie diversificate attività di raccolta e stoccaggio, ovvero numerosi viaggi di camion e rimorchi per portare i rifiuti a bordo dell’imbarcazione, il requisito previsto dalla norma potrà ritenersi soddisfatto, altrimenti no.

In altre parole, occorre sempre focalizzare l’attenzione sul fenomeno nel suo complesso, non sulle singole porzioni di condotta attraverso cui lo stesso si declina: atomizzare le condotte fa infatti perdere di vista l’unitarietà dell’operazione: la locuzione “attività organizzate per il traffico illecito”, infatti, costituisce una sintesi linguistica di un fenomeno solitamente a formazione progressiva, di cui lo smaltimento è solo l’ultimo atto. 2.3. condotta abusiva e condotta clandestina.

L’attività, come visto, deve svolgersi “abusivamente”. Tale requisito normativo è stato molto contestato in dottrina6, in quanto avrebbe consentito di combinare diverse operazioni in sé lecite al fine di organizzare un traffico illecito, che sarebbe rimasto impunito.

Tuttavia, il percorso della giurisprudenza nel tempo sembra avere progressivamente “sterilizzato” i timori espressi dalla succitata dottrina.

Ed infatti, Cassazione, Sezione III, sentenza n. 46029 del 15 dicembre 2008 (in proc. De Frenza), ha osservato che “è destituita di ogni fondamento giuridico la tesi secondo cui nella fattispecie criminosa in esame il carattere abusivo della gestione illecita dei rifiuti ricorre solo quando la gestione è “clandestina”, ossia svolta in totale assenza di autorizzazione, perché, al contrario, è abusiva ogni gestione dei rifiuti che avvenga “senza i titoli abilitativi prescritti, ovvero in violazione delle regole vigenti nella soggetta materia””; anche la citata Cassazione n. 46819/2011 precisa che l’attività deve essere effettuata “o senza le autorizzazioni necessarie (ovvero illegittime o scadute) o violando le prescrizioni e/o i limiti delle autorizzazioni stesse (ad 6 G. AMENDOLA, Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti: introdotto il primo delitto contro l’ambiente, commento alla legge 23 marzo 2001 n. 93, in Dir. pen. proc., 2001 p. 708; L. Prati, Il nuovo reato di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti: una norma problematica, in Ambiente – Consulenza e pratica per l'impresa, n. 7/200, p. 625 ss.; L. RAMACCI, L’articolo 53-bis del d.lgs. 22/97, in Rivistambiente, n. 10/2003; S. BELTRAME, Traffico illecito di rifiuti: tra dubbi e perplessità… alla ricerca di parametri interpretativi, in Ambiente –Consulenza e pratica per l'impresa, n. 3/2004, p. 229; A. VERGINE, Sul delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, in www.lexambiente.it; L. RAMACCI, Manuale di diritto penale dell’ambiente, Padova 2005 parte seconda, cap. III par. 12

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esempio la condotta avente per oggetto una tipologia di rifiuti non rientranti nel titolo abilitativo anche tutte quelle attività che, per le modalità concrete con cui sono esplicate, risultano essere totalmente difformi da quanto autorizzato, sì da non essere più giuridicamente riconducibili al titolo abilitativo rilasciato dalla competente Autorità amministrativa)”.

Si veda anche Cassazione, Sezione III, sentenza n. 358 dell’8 gennaio 2008, Putrone ed altri, dove si è ribadito che “anche la difformità sostanziale della gestione dei rifiuti rispetto a quanto previsto dalle autorizzazioni concesse integra il requisito dell'abusività della condotta richiesta per il delitto in questione”.

Ancor più recentemente, Cassazione, Sezione III, sentenza n. 18669 del 6 maggio 2015, Gattuso) ha stabilito che l’“attività deve essere "abusiva", ossia effettuata o senza le autorizzazioni necessarie (ovvero con autorizzazioni illegittime o scadute) o violando le prescrizioni e/o i limiti delle autorizzazione stesse (ad esempio, la condotta avente per oggetto una tipologia di rifiuti non rientranti nel titolo abilitativo, ed anche tutte quelle attività che, per le modalità concrete con cui sono esplicate, risultano totalmente difformi da quanto autorizzato, sì da non essere più giuridicamente riconducibili al titolo abilitativo rilasciato dalla competente autorità amministrativa) (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 44449 del 15/10/2013 Cc. dep. 04/11/2013 Rv. 258326; Sez. 3, n. 40828 del 6/10/2005, Fradella, Rv. 232350)”.

Ed ancora, secondo Cassazione, Sezione III, Sentenza n. 52838 del 14 dicembre 2016 (Ud. 14/07/2016): “l'attività deve essere "abusiva", ossia effettuata o senza le autorizzazioni necessarie (ovvero con autorizzazioni illegittime o scadute) o violando le prescrizioni e/o i limiti delle autorizzazioni stesse”; e per Cassazione, Sezione III, sentenza n. 9133 del 24 febbraio 2017 (Ud. 13/01/2017): “il carattere «abusivo» di una attività organizzata di gestione dei rifiuti, tale da integrare il delitto, è configurabile quando si svolga continuativamente nell’inosservanza delle prescrizioni delle autorizzazioni, precisando anche come ciò si verifichi non soltanto in totale mancanza di dette autorizzazioni (definendo, in tali casi, l’attività come «clandestina»), ma anche quando esse siano scadute o palesemente illegittime e, comunque, non commisurate al tipo di rifiuti ricevuti, aventi diversa natura rispetto a quelli autorizzati”.

Recentemente, Cassazione, Sezione III, sentenza n. 791 dell’11 gennaio 2018 (Ud. 25/05/2017), Fasano ed altri, ha ulteriormente precisato che “quanto al requisito dell’abusività dell’attività, esso deve ritenersi integrato sia qualora non vi sia autorizzazione (Sez. 3, 13/7 /2004, n. 30373), sia quando vi sia una totale e palese difformità da quanto autorizzato (Sez. 3, 6/10/2005, n. 40828)”.

Come appare evidente, la giurisprudenza si è nel tempo raffinata andando ad includere nel concetto di “abusività” anche delle semplici inosservanze dei provvedimenti autorizzativi, purché esse siano rilevanti: le varie pronunce esaminate infatti, partite dalla attività svolta in “totale difformità”, sono progressivamente passate alla “difformità sostanziale” o “palese”, in “continuativa” difformità rispetto alle autorizzazioni, fino a ricomprendere due casi particolari: con autorizzazione “scaduta” (che riporta, a parere di chi scrive, l’attività nell’alveo di quella “clandestina”) o “palesemente illegittima”.

Tale ultimo aspetto merita un approfondimento. La Cassazione ha lungamente affrontato i limiti imposti a giudice penale in ordine al sindacato sull’atto amministrativo eventualmente illegittimo. Nella prassi, appare frequente imbattersi in attività di

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gestione dei rifiuti che, sebbene regolarmente autorizzate, risultino difformi alla vigente normativa, nazionale o europea, in materia di rifiuti, e ciò in ragione di una illegittimità, più o meno evidente, del provvedimento autorizzatorio. Appare lecito quindi chiedersi se sia possibile la contestazione del delitto in parola per attività svolte contra legem ma in osservanza dell’autorizzazione.

Tralasciando per un momento l’obbligo di puntuale verifica dell’elemento psicologico del delitto in parola, che in questa ipotesi dovrà essere necessariamente più stringente, la Cassazione si è ripetutamente espressa sul punto in una materia contigua a quella in parola, ossia quella urbanistica. In proposito Cassazione Penale, Sez. III, sentenza n. 31282 del 22 giugno 2017, ha affermato che va rigettata la tesi secondo cui “sussistendo difformità dell'opera edilizia rispetto agli strumenti normativi urbanistici, ovvero alle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale, il giudice penale dovrebbe comunque concludere per la mancanza di illiceità penale nel caso in cui sia stata rilasciata la concessione edilizia”, osservando che “la concessione non è idonea a definire esaurientemente lo statuto urbanistico ed edilizio dell'opera realizzanda senza rinviare al quadro delle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle rappresentazioni grafiche del progetto approvato, con la conseguenza che, in tali ipotesi, non si configura una non consentita "disapplicazione" da parte del giudice penale dell'atto amministrativo concessorio, bensì l'esercizio, da parte del giudice penale, della potestà, attribuitagli dalla legge, di procedere ad un'identificazione in concreto della fattispecie sanzionata… [omissis] … l'attività svolta dal giudice in presenza di un titolo abilitativo edilizio illegittimo consiste nel valutare la sussistenza dell'elemento normativo della fattispecie e non nel disapplicare l'atto amministrativo o effettuare comunque valutazioni proprie della P.A.”.

La pronuncia prosegue affermando che “la "macroscopica illegittimità" del provvedimento amministrativo non è condizione essenziale per la configurabilità di un'ipotesi di reato D.P.R. n. 380 del 2001, ex art. 44, mentre, a prescindere da eventuali collusioni dolose con organi dell'amministrazione, l'accertata esistenza di profili assolutamente eclatanti di illegalità costituisce un significativo indice di riscontro dell'elemento soggettivo della contravvenzione contestata anche riguardo all'apprezzamento della colpa (Sez. III, n. 21487 del 21/3/2006, P.M. in proc. Tantillo e altro, Rv. 23446901), specificando pure che la non conformità dell'atto amministrativo alla normativa che ne regola l'emanazione, alle disposizioni legislative statali e regionali in materia urbanistico edilizia ed alle previsioni degli strumenti urbanistici può essere rilevata non soltanto se l'atto medesimo sia illecito, cioè frutto di attività criminosa ed a prescindere da eventuali collusioni dolose del soggetto privato interessato con organi dell'amministrazione, ma anche nelle ipotesi in cui l'emanazione dell'atto sia espressamente vietata in mancanza delle condizioni previste dalla legge, o in quella di mancato rispetto delle norme che regolano l'esercizio del potere (Sezione III, sentenza n. 40425 del 28/9/2006, Consiglio, Rv. 23703801)”, per concludere nel senso che “la illegittimità rilevante per il giudice penale non può che essere quella derivante dalla non conformità del titolo abilitativo alla normativa che ne regola l'emanazione o alle disposizioni normative di settore, dovendosi, al contrario, radicalmente escludersi la possibilità che il mero dato formale dell'esistenza del permesso di costruire possa precludere al giudice penale ogni valutazione in ordine alla sussistenza del reato” (Conf.: Cassazione, Sezione III, sentenza n. 12389 del 15 marzo 2017 – Ud. 21.02.2017).

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In senso conforme Cassazione, Sezione III, sentenza n. 46477 del 10 ottobre 2017 (Ud 13 luglio 2017), laddove afferma che il giudice penale ha “il potere–dovere di verificare, in via incidentale, la legittimità del permesso in sanatoria e di accertare se l'opera sia conforme alla normativa urbanistica, trattandosi di un provvedimento che costituisce il presupposto dell'illecito penale, senza necessità di procedere alla disapplicazione del medesimo … [omissis] … il giudice penale non deve limitarsi a verificare l'esistenza ontologica dell'atto o provvedimento amministrativo, ma deve verificare l'integrazione o meno della fattispecie penale, in vista dell'interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela (nella specie, l'interesse sostanziale alla tutela del territorio), nella quale gli elementi di natura extra–penale convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo. È la stessa descrizione normativa del reato che impone al giudice un riscontro diretto di tutti gli elementi che concorrono a determinare la condotta criminosa, ivi compreso l'atto amministrativo”.

Appare quindi evidente che, in presenza di tutti gli altri elementi costitutivi del reato, il delitto in parola può essere contestato anche in caso di accertata illegittimità del titolo autorizzativo emanato in violazione della normativa nazionale ed europea (purché quest’ultima sia direttamente applicabile), essendosi la fattispecie penale concretata in fatto. 2.4. L’ingente quantitativo.

Il quantitativo di rifiuti deve essere "ingente". Sul punto si rileva come Cassazione, Sezione III, Sentenza n° 47918 del 16

dicembre 2003 (in proc. Rosafio ed altri), abbia ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, in relazione all'art. 25 Cost., per contrasto con i principi di determinatezza e tassatività della norma, nella parte in cui l'individuazione dell'ingente quantitativo di rifiuti è rimessa al giudice e non è preventivamente individuata dal legislatore, in quanto il relativo giudizio “risulta condizionato, di volta in volta, dalla tipologia del rifiuto, dalla sua qualità, dalla situazione specifica del caso concreto”).

La giurisprudenza di legittimità ha in tale occasione sottolineato come "nel testo della norma non si rinviene alcun dato che autorizzi a relativizzare il concetto, riportandone la determinazione al rapporto tra il quantitativo di rifiuti illecitamente gestiti e l'intero quantitativo di rifiuti trattati nella discarica, per cui l'ingente quantità dev'essere accertata e valutata con riferimento al dato oggettivo della mole dei rifiuti non autorizzati abusivamente gestiti", con la conseguenza che il rapporto tra i rifiuti lecitamente smaltiti e quelli trattati illecitamente nella discarica può essere valido semmai "(...) per stabilire se l'autorizzazione alla discarica sia un paravento predeterminato per un'attività ontologicamente diversa da quella autorizzata". Si precisava, inoltre, che la presenza in alcuni pozzi piezometrici della discarica di parametri eccedenti i valori tabellari, con conseguente grave inquinamento delle acque di falda, costituisce un riscontro importante circa l'ingente quantità dei rifiuti pericolosi abusivamente smaltiti (Cassazione, Sezione III, sentenza n. 30373 del 13 luglio 2004, Ostuni, cit.).

Ancora. Corte di Cassazione, Sezione III, Ordinanza n. 47229 del 6 dicembre 2012 ha ulteriormente precisato che “la giurisprudenza di questa Corte non offre riferimenti

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quantitativi che consentano di individuare la nozione di "ingente quantità" ma non tanto, come pure sostiene il ricorrente, per l'indeterminatezza del concetto espresso dalla norma quanto, piuttosto, perché, come pure si è avuto modo di affermare, tale verifica va effettuata tenendo conto che tale nozione, in un contesto che contempli anche le finalità della disposizione, deve riferirsi al quantitativo di materiale complessivamente gestito attraverso una pluralità di operazioni, anche se queste ultime, considerate singolarmente, potrebbero essere di entità modesta”.

In altre occasioni si è affermato: – che il requisito dell'ingente quantitativo deve essere valutato caso per caso,

traendo elementi di comparazione anche dalle previsioni di reati contravvenzionali in tema di rifiuti e, soprattutto, considerando la specificità ed autonomia delle singole figure (Sezione III, sentenza n. 4503 del 3 febbraio 2006);

– che la nozione in esame è valutabile nella sua chiara locuzione come un “cospicuo accumulo di rifiuti”, indipendentemente dall'effettiva e concreta implicazione dei singoli carichi inquinanti (Sezione III, sentenza n. 45598 del 16 dicembre 2005);

– che l'ingente quantità non può desumersi automaticamente dalla stessa organizzazione e continuità dell'attività di gestione di rifiuti e che deve essere accertata e valutata con riferimento al dato oggettivo della mole dei rifiuti non autorizzati abusivamente gestiti (Sezione III, sentenza n. 30373 del 13 luglio 2004).

Secondo la Cassazione deve quindi “in definitiva rilevarsi che la nozione di ingenti quantitativi non può essere individuata a priori attraverso riferimenti esclusivi a dati specifici quali, ad esempio, quello ponderale, dovendosi al contrario basare, come già osservato in alcune tra le decisioni dianzi richiamate, su un giudizio complessivo che tenga conto, anche in questo caso, delle peculiari finalità perseguite dalla norma, della natura del reato e della pericolosità per la salute e l'ambiente e nell'ambito del quale l'elemento quantitativo rappresenta solo uno dei parametri di riferimento. Del resto, la peculiare formulazione della previsione normativa non consente soluzioni diverse, fondate sulla individuazione di valori preventivamente fissati, ma permette di effettuare un giudizio adeguato rispetto alle molteplici condotte che possono essere riferite all'ambito di operatività del d.lgs. n. 152 del 2006, art. 260. Si tratta, evidentemente, di un apprezzamento in fatto che è rimesso, anche in questo caso, al giudice del merito ed insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione esente da vizi logici o giuridici” (Sez. III, sentenza n. 47229 del 6 novembre 2012, in proc. De Prà; conf.: Sez. III, sent. n. 46950 del 9 novembre 2016). Tale valutazione, si è poi ribadito, “costituisce giudizio di fatto, come tale incensurabile in sede di legittimità quando il giudice abbia dato compiutamente conto, in motivazione, delle ragioni per le quali abbia optato per la scelta ritenuta maggiormente condivisibile, del contenuto dell'opinione disattesa e delle eventuali deduzioni delle parti (Sez. IV, sentenza n. 45126, 4 dicembre 2008; conf.: Sez. IV, sentenza n. 11235 del 9 dicembre 1997)”.

Cassazione, Sezione III, sentenza n. 791 dell’11 gennaio 2018 (ud. del 25 maggio 2017), Fasano ed altri, citata, ha infine aggiunto che “l’ingente quantitativo di rifiuti gestiti può essere desunta, oltre che da misurazioni direttamente effettuate, anche da elementi indiziari quali i risultati di intercettazioni telefoniche, l’entità e le modalità di organizzazione dell’attività di gestione, il numero e le tipologie dei mezzi utilizzati, il numero dei soggetti che partecipano alla gestione stessa”.

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Il requisito in parola va quindi desunto in fatto dalla concreta organizzazione aziendale, dall’attività e dalle operazioni svolte, e tale accertamento appare insindacabile in sede di legittimità. 2.5. Il dolo.

Quale elemento soggettivo si richiede il dolo specifico del fine di conseguire un “ingiusto profitto”. Ha precisato la giurisprudenza (Cassazione, Sezione III, sentenza n. 40827 del 10 novembre 2005, Carretta, cit.) che esso non deve necessariamente consistere in un ricavo patrimoniale, potendosi ritenere integrato anche dal “mero risparmio di costi o dal perseguimento di vantaggi di altra natura senza che sia necessario, ai fini della configurazione del reato, l'effettivo conseguimento di tale vantaggio”.

In altra occasione (Cassazione, Sezione III, sentenza n. 40828 del 10 novembre 2005 in proc. Fradella ed altri) si è ritenuta la sussistenza dell'ingiusto profitto con riferimento ad una vicenda nella quale gli indagati consentivano, mediante l'attività illecita, un rilevante risparmio dei costi di produzione dell'azienda ove erano impiegati, rafforzando così notevolmente la loro posizione apicale nell'ambito della struttura dirigenziale della stessa, con conseguente vantaggio personale, immediato e futuro. La Corte aggiungeva anche che “(...) la circostanza che la riduzione dei costi da parte dell'azienda, costituisca soltanto uno dei parametri da valutare ai fini del conferimento dei premi di produzione, non esclude affatto che detto parametro concorra a determinare l'erogazione dei citati incentivi economici, con conseguente profitto personale e patrimoniale da parte degli interessati”.

La succitata Cass. n. 35568/2017 ha precisato che “il carattere ingiusto del profitto, però, non deriva dal "quomodo" dell'esercizio (abusivo) dell'attività (altrimenti la sua previsione sarebbe del tutto pleonastica (in questo senso, vigente l'art. 53-bis, d.lgs. n. 22 del 1997, già Sez. 3, n. 45598 del 06/10/2005, Saretto, Rv. 232639), bensì dal fatto che l'intera gestione continuativa e organizzata dei rifiuti costituisce strumento per (ed è pensata al fine di) conseguire vantaggi (risparmi di spesa e maggiori margini di guadagno) altrimenti non dovuti”.

Da ultimo, per Cassazione, Sezione III, sentenza n. 52838 del 14.12.2016 (Ud. 14/07/2016) “non vi è dubbio che, ai fini della sussistenza del dolo specifico richiesto per l'integrazione del reato, sia necessaria la prova della consapevolezza dell'autore della condotta di utilizzare un'organizzazione illecita (anche non necessariamente plurisoggettiva) per conseguire un ingiusto profitto, che può consistere, oltre che in un ricavo patrimoniale, anche in un vantaggio personale, quale la semplice riduzione dei costi aziendali”. 3. La prescrizione del reato.

Dalla qualificazione del reato come abituale discendono importanti conseguenze in tema di prescrizione del reato. Ed infatti al reato abituale si applica la disciplina della prescrizione del reato propria del reato permanente, come ha ormai pacificamente statuito la giurisprudenza di legittimità in relazione al delitto di maltrattamenti in famiglia, reato abituale per eccellenza (v. ex plurimis Cassazione, Sezione III, sentenza n. 35568 del 19 luglio 2017, ud. 30 maggio 2017, in proc. Savoia,).

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Ed infatti, Cassazione, Sezione III, sentenza 08/02/2017 n. 5742 (udienza 20 ottobre 2016 in proc. Sassetti + 1) su tale scia ha stabilito che “il delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti, di cui all’art. 260, d.lgs. 152/2006, è reato abituale e non permanente, pertanto il giorno di inizio del decorso del termine di prescrizione del reato è da individuarsi nel giorno della cessazione dell’abitualità”.

Tale elemento è di estrema importanza. Ed infatti, come è noto, l’art. 11 della legge 13 agosto 2010, n. 136 (“Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al governo in materia di normativa antimafia”), entrato in vigore il 28 agosto 2010, ha incluso tra le competenze delle Direzioni Distrettuali Antimafia, l’articolo 260 del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, modificando a tal uopo l’art. 51, comma 3-bis, c.p.p.

Va rammentato come l’articolo 157, sesto comma, del codice penale, stabilisce che per i reati di cui all’articolo 51 comma 3-bis c.p.p. i termini di prescrizione sono raddoppiati. Pertanto, poiché l’articolo 260 TUA è edittalmente sanzionato con la pena della reclusione da uno a sei anni, il termine prescrizionale massimo è, dal 2010, stabilito in dodici anni.

La qualificazione del reato come unico e abituale fa sì che il delitto si sia “consumato” al momento della cessazione della condotta criminosa. Da tale data, pertanto inizierà a decorrere il termine prescrizionale di dodici anni per tutta la condotta contestata, anche se iniziata prima della novella legislativa. Se un delitto di traffico illecito di rifiuti è pertanto iniziato prima che la legge imponesse il raddoppio del termine prescrizionale m una parte di condotta è proseguita oltre, l’unicità del reato fa sì che al medesimo si applichi il raddoppio del termine di prescrizione.

Diverso è ovviamente il caso in cui tutta la condotta si è esaurita prima della novella del 2010. A tal proposito Cassazione, Sezione III, sentenza n. 36858 del 6 settembre 2016: “deve allora prendersi atto che, con riguardo al reato di cui al capo 1) era già maturata, in data 17 dicembre 2013 (e dunque ancor prima della sentenza impugnata), la prescrizione decorrente dal 17 febbraio 2006 quale data del sequestro probatorio operato ….Né potrebbe farsi applicazione dell'art. 157 c.p., comma 6, secondo cui per i reati di cui, tra gli altri, all'art. 51 c.p.p., comma 3 bis, i termini di prescrizione sono raddoppiati: infatti, il reato di cui all'art. 260 cit. è stato incluso tra quelli appunto previsti dall'art. 51 cit., comma 3 bis, soltanto a decorrere dal 7 settembre 2010 per effetto della L. 13 agosto 2010, n. 136, art. 11, comma 1, modificativo della norma processuale, con conseguente impossibilità di applicazione del raddoppio, quale norma di natura sostanziale, a condotte, come quelle in contestazione, poste in essere anteriormente a tale data”. In tale ipotesi, in base al principio tempus regit actum, si applicherà il regime prescrizionale più favorevole all’imputato. 4. I rapporti con altre figure di reato.

Quanto ai rapporti con l’articolo 416 c.p., la Suprema Corte (Cassazione, Sezione III, sentenza n. 18351 del 7 maggio 2008 – Ud. 11.03.2008, in proc. Roma e.a.; conf.: Cassazione, Sezione III, sentenze nn. 45057 del 4 dicembre 2008 e 25207 del 20 giugno 2008) ha stabilito che “si configura il reato di cui all'art. 416 c.p., anche, quando il programma

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criminoso, preveda la commissione di una serie indeterminata di reati non riconducibili solo alla violazione dell'art. 260 d.lgs. 152/2006. Nella specie, al fine di organizzare l'ingente e lucrativo traffico illecito di rifiuti si faceva ricorso ad una indeterminata serie di reati di falso, ad un avvio fraudolento dei veicoli non bonificati allo smaltimento presso altre ditte facendo ricorso alla falsificazione dei documenti di trasporto, celando alle ditte di smaltimento la reale natura dei veicoli conferiti”. Infine, al sodalizio, partecipavano anche soggetti estranei alla compagine sociale (ad es. autotrasportatori di "fiducia") e con diversi ruoli. Sicché anche sotto tale profilo, le condotte risultavano "assolutamente scisse dall'oggetto sociale statutariamente esistente" e qualificate "come sintomatiche di quell'affectio societatis di cui all'art.416 c.p.”.

Analogamente, secondo Cassazione Penale, Sezione III, sentenza n° 52633 del 20 novembre 2017 (udienza 17 maggio 2017), in proc. Cipolla e a.: “è configurabile il concorso tra i reati di associazione per delinquere (art. 416 cod. pen.) e di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006), in quanto tra le rispettive fattispecie non sussiste un rapporto di specialità, trattandosi di reati che presentano oggettività giuridiche ed elementi costitutivi diversi, caratterizzandosi il primo per una organizzazione anche minima di uomini e mezzi funzionale alla realizzazione di una serie indeterminata di delitti in modo da turbare l'ordine pubblico, e il secondo per l'allestimento di mezzi e attività continuative e per il compimento di più operazioni finalizzate alla gestione abusiva di rifiuti così da esporre a pericolo la pubblica incolumità e la tutela dell'ambiente”.

Com’è evidente, il reato di traffico appare pienamente compatibile con quello associativo di cui all’articolo 416 c.p., salva la verifica in punto di fatto circa la sussistenza degli elementi costitutivi di quest’ultimo.

Quanto ai rapporti con il reato di truffa, Corte di Cassazione, Sez. III Penale, sentenza n. 9133 del 24 febbraio 2017 (Ud. 13.01.2017) ha affermato che “è integrabile il concorso tra il delitto di truffa e quello di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, (art. 260 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), osservando che le due fattispecie si differenziano sia per le condotte contemplate che per i beni protetti, qualificandosi in particolare il secondo come reato offensivo dell’ambiente, a consumazione anticipata e dolo specifico e, in quanto tale, configurabile indipendentemente dal conseguimento dell’ingiusto profitto con altrui danno (Sez. 3, n. 18351 del 11 /3/2008, P.G. in proc. Roma e altri)”.

In ordine al rapporto con l’articolo 256 d.lgs. 152/2006 (gestione illecita di rifiuti), la giurisprudenza ormai pacificamente ritiene il concorso (Cassazione, Sezione III, sentenza n. 30373 del 13 luglio 2004, in proc. Ostuni), sottolineando la diversità radicale tra l'articolo 53-bis e l'articolo 51 allora vigenti (attuali 256 comma 1 TUA e 452-quaterdecies c.p.) e affermando che "(...) fra le due norme non è configurabile un rapporto di specialità, né le stesse sono alternative, sicché l'applicazione dell'una escluda necessariamente l'applicazione in concreto dell'altra, ma nella fattispecie concreta possono ricorrere sia gli elementi sostanziali indicati dell'una (l'allestimento di mezzi e di attività continuative organizzate) che quelli formali previsti dall'altra (mancanza di autorizzazione), dando luogo al concorso di entrambi i reati ai sensi dell'art. 811 c.p.. In questo senso il termine "abusivamente", contenuto nell'art. 53 bis, lungi dall'avere valore "residuale" e, quindi, alternativo rispetto alla disposizione dell'art. 51, ne costituisce un esplicito richiamo in quanto si riferisce alla mancanza

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di autorizzazione, che determina l'illiceità della gestione organizzata e costituisce l'essenza del traffico illecito di rifiuti".

Va tuttavia valutato con attenzione se, anche alla luce della recente giurisprudenza della Corte EDU sul c.d. “bis in idem sostanziale”, non possa invece parlarsi di concorso apparente per attrazione della fattispecie nell’alveo del reato complesso.

Più complessa è la questione dell’eventuale concorso tra il delitto in parola e quello di ricettazione. A chi scrive non risultano precedenti specifici sul punto, e tuttavia non vi è dubbio che il paradigma dell’art. 648 possa essere applicato ai rifiuti oggetto di attività organizzate per il traffico illecito, non solo per quanto concerne il “destino finale” degli stessi ma altresì per l’attività di eventuale “intermediazione” (la norma sanziona infatti “chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farle acquistare, ricevere od occultare”).

Ai fini presenti può essere d’ausilio l’esame della giurisprudenza formatasi in altra materia ove i confini tra concorso nel reato presupposto e ricettazione sono spesso abbastanza labili, quella della bancarotta fraudolenta per distrazione. Sovente infatti, nei procedimenti per bancarotta, ci si trova di fronte al bivio se incriminare coloro che ricevono i beni oggetto di distrazione per concorso nel reato (art. 216, primo comma, n. 1) ovvero per il delitto di ricettazione fallimentare (art. 232, terzo comma, n. 2) ovvero quelli di riciclaggio o reimpiego (648-bis e 648-ter c.p.) se su tali beni vengono compiute operazioni di camouflage o reimpiego in attività economiche.

In proposito, va evidenziato come spesso le condotte di traffico illecito di rifiuti si inseriscono in contesti associativi o para-associativi, che rendono assai difficile, in concreto, valutare la posizione dei ricettori finali dei rifiuti.

L’unico dato certo è che la conoscenza della provenienza illecita dei rifiuti non può fungere da discrimine tra le due ipotesi. Ed infatti, non può certo essere la “consapevolezza della provenienza delittuosa” a trasformare automaticamente la ricettazione in concorso dell’extraneus nel reato presupposto, in quanto ciò significherebbe implicitamente abrogare i delitti di ricettazione post-fallimentare di cui all’articolo 232, terzo comma, n. 2) L.F., e gli stessi articoli 648, 648-bis e 648-ter c.p., in quanto la consapevolezza della provenienza delittuosa dei beni costituisce l’ubi consistam dell’elemento psicologico dei reati di ricettazione, riciclaggio e reimpiego e il loro preciso ancoraggio al principio di colpevolezza, in assenza del quale si avrebbe una condotta oggettivamente illecita ma un fatto che difetterebbe di tipicità per mancanza del dolo.

Il discrimine va pertanto cercato altrove. La Suprema Corte (Sezione V, Sentenza n. 23523 del 1° giugno 2015, in proc. Angiolini e a. – Ud. 18/12/2014) ha escluso un ancoraggio al mero dato “temporale”, ossia della previa commissione del reato presupposto rispetto, almeno, all’accordo scellerato per la ricettazione del bene: “è stato, inoltre, statuito da questa Sezione che in tema di riciclaggio di denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto, il criterio per distinguere la responsabilità in ordine a tale titolo di reato dalla responsabilità per il concorso nel reato presupposto – che escluderebbe la prima – non può essere solo quello temporale ma occorre, in più, che il giudice verifichi, caso per caso, se la preventiva assicurazione di "lavare" il denaro abbia realmente (o meno) influenzato o rafforzato,

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nell'autore del reato principale, la decisione di delinquere (Cassazione, Sezione V, sentenza n. 8432 del 10 gennaio 2007, Rv. 236254)”. Analogamente, le Sezioni Unite della Suprema Corte (Sezioni Unite Penali, sentenza n. 25191 del 27 febbraio 2014 – dep. 13 giugno 2014, in proc. Iavarazzo) hanno affermato che occorre rigorosa verifica in concreto dell'”effettiva efficacia causale dell'accordo” precedente la commissione del reato: essa non può, in particolar modo, essere presunta sulla base del mero dato temporale (ossia sulla mera verifica se l’accordo fra l'autore di tale reato e il soggetto deputato al riciclaggio o al reimpiego sia avvenuto un momento temporalmente precedente la commissione del reato stesso) ma sarà necessario verificare, caso per caso, “se la preventiva assicurazione di "lavare" il denaro o di reimpiegarlo abbia realmente (o meno) influenzato o rafforzato, nell'autore del reato principale, la decisione di delinquere” (così anche Cassazione, Sezione V, sentenza n. 8432 del 10 gennaio 2007, in proc. Gualtieri, Rv. 236254). Secondo la Corte, pertanto, occorre un’opera di “rafforzamento” o “influenza” dell’extraneus rispetto alla condotta dell’agente di reato, in assenza della quale non di concorso si dovrebbe parlare ma di ricettazione.

Chi scrive ritiene che tale principio possa essere valorizzato anche nello specifico settore in esame: ferma restando la necessaria consapevolezza da parte di chi riceve i rifiuti della loro provenienza delittuosa (ma non contravvenzionale, quindi la ricettazione sarebbe esclusa in caso di violazione dell’art. 256 d.lgs. 152/2006), occorrerà verificare in qualche modo ricorra un previo pactum sceleris tra il “trafficante” e il “ricevente”, sì da poter configurare un concreto apporto causale del secondo e contestare allo stesso il concorso nel reato di cui all’art. 452-quaterdecies c.p., ovvero se la condotta del secondo sia riconducibile alla mera ricettazione. Ciò ovviamente, potrebbe determinare, lo si vedrà in appresso, conseguenze anche sotto il profilo della competenza per territorio. 5. La competenza in ordine al reato di traffico illecito di rifiuti. 5.1. La competenza “funzionale”.

Come si è visto in precedenza, nel 2010 il delitto in parola è stato inserito tra i reati di competenza distrettuale.

Sul punto, la costante giurisprudenza della Corte di cassazione (v. Cassazione, Sezione II penale, sentenza 17 febbraio 2009, n. 6783; Sezione II penale, sentenza 9 giugno 2006, n. 19831; Sezione I penale, sentenza 3 novembre 2005, n. 40012; Sezione I penale, sentenza 7 giugno 2005, n. 21354) aveva stabilito che la previsione di cui al comma 3-bis dell'art. 51 c.p.p., avrebbe istituito per i reati in esso elencati una deroga agli ordinari criteri di determinazione della competenza per territorio, di carattere assoluto, con prevalenza della attribuzione al giudice del capoluogo distrettuale su qualunque altra regola di individuazione della competenza.

La principale scaturigine di tale assunto è che in caso di reati connessi, in deroga al principio fissato nel comma primo dell'art. 16 c.p.p., il procedimento concernente un

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reato compreso nell'elencazione di cui al ricordato art. 51 c.p.p., comma 3-bis, esercita una vis actrativa rispetto ai procedimenti connessi che riguardino reati estranei a detta previsione, anche quando questi ultimi siano più gravi del primo. In sostanza, la competenza “funzionale” opererebbe in deroga agli ordinari meccanismi di determinazione della competenza territoriale.

In senso difforme, Cassazione, Sezione 3, sentenza n. 52512 del 22/05/2014 Cc. (dep. 18/12/2014, Rv. 261511), compiendo un deciso revirement rispetto alle precedenti pronunce, ha invece escluso che la contestazione del reato di cui all'art. 260 d.lgs. 152/2006 potesse attrarre alla competenza del giudice del luogo ove si è consumato tale reato anche delitti di maggiore gravità, commessi in diversi distretti.

In particolare, la Corte sosteneva che tutte le ipotesi previste dall’art. 51 c.p.p., comma 3-bis “concernono esclusivamente reati aventi una spiccata, ove non normativamente prevista, vocazione associativa”. Secondo la Corte, “Unica fattispecie nella quale non è, in linea di principio, individuabile una struttura pluripersonale organizzata a monte della commissione del reato è quella di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, art. 260”.

Conclusivamente, osservato che “Sulla base di quanto sopra rilevato, osserva questa Corte che i principi dianzi esposti, se appaiono pienamente soddisfacenti, laddove il reato dotato di vis attractiva sia il reato associativo, appaiono assai più discutibili nel diverso caso ora in esame”, riteneva che la competenza distrettuale “in ipotesi di connessione ai sensi dell'art. 12 cod. proc. pen., ove la ragione di traslazione del giudice competente in funzione della presenza fra i reati connessi di uno dei reati di cui all'art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. non concerna una fattispecie di reato associativo, essa è limitata al trasferimento al giudice in sede distrettuale della competenza già attribuita, secondo le regole ordinarie, ad altro giudice del medesimo distretto”.

La stessa pronuncia, che seppur recente appare del tutto isolata e non certo rispondente ad una “giurisprudenza consolidata” (per usare una terminologia cara alla CEDU) della Corte, dà atto di discostarsi da tutti i precedenti giurisprudenziali. A tali pronunce va aggiunta quella (recentissima) citata proprio nella sentenza dichiarativa di incompetenza (Sezione I, sentenza n. 43599 del 5 luglio 2017) e ritenuta non conferente dal Tribunale di Milano (in quanto “dirime un conflitto di competenza sorto tra il Gip di Napoli e quello di Nola, appartenenti allo stesso distretto di Corte d'appello, di tal che la fattispecie sottesa alla decisione della Corte di cassazione non è assimilabile a quella oggetto della presente decisione”).

In realtà, la lettura della sentenza racconta l’opposto. Ed infatti, il principio sollevato dal Tribunale di Nola testualmente recitava «in tema di competenza per territorio, allorquando fra i reati connessi ai sensi dell'art. 12 cod. proc. pen. siano presenti reati di natura non associativa ricompresi fra quelli di cui all'art. 51, comma 3-bis cod. proc. pen., come quello ex art. 260 d.lgs. n. 152/06, la deroga al principio generale – per il quale in caso di connessione fra reati la competenza spetta al giudice competente per il reato più grave ex art. 16 cod. proc. pen. – non è limitata al solo trasferimento al giudice circondariale appartenente ad altro distretto ma riguarda anche il giudice circondariale appartenente al medesimo distretto di quello competente ex art. 328, comma 1-bis, cod. proc. pen.». La tematica, pertanto, concerneva tutti i casi in cui si discettasse di competenza funzionale ex art. 51 comma 3-bis c.p.p.

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Ed infatti la Corte, nel precisare in modo inequivoco che “secondo la giurisprudenza di questa stessa Corte, cui il Collegio intende dare pieno seguito, la deroga prevista dall'art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. riveste una portata assoluta ed esclusiva rispetto agli ordinari criteri di determinazione della competenza, sicché qualora si proceda per uno dei reati anzidetti e per reati ad esso connessi, anche più gravi del primo, la competenza territoriale a giudicare quest'ultimo esercita una vis attractiva anche sugli altri, purché ne sia accertato il luogo di consumazione (Sez. 4, n. 4484 del 09/12/2015, dep. 2016, Breshanj Orges, Rv. 265944; Sez. 2, n. 6783 del 13/11/2008, dep. 2009, El Abbouli, Rv. 243300)”, procede alla completa “demolizione” delle ragioni addotte dalla sentenza della Terza Sezine, che si critica, affermando che secondo l’assunto del giudice remittente (sposato dall’AG meneghina), “l'eccezionalità del criterio in deroga derivante dalla previsione di cui all'art. 51, comma 3-bis, cit., imporrebbe, invero, una esegesi restrittiva, tale da limitare l'ambito operativo del criterio medesimo alle sole ipotesi in cui si tratti di un reato associativo, sia pure in senso lato. Ciò nel rispetto del principio del giudice naturale precostituito per legge e di un efficiente esercizio del diritto di difesa”.

La Corte al contrario chiarisce che “La tesi non appare convincente proprio per la sua ragione giustificatrice. Con la scelta operata all'art. 51, comma 3-bis, cit., il legislatore ha predeterminato, invero, per una serie di reati, indistintamente elencati, un criterio di attribuzione delle funzioni del pubblico ministero, su cui si radica di riflesso la competenza territoriale del giudice”. Conclude, in modo chiaro e inequivoco, che “tanto basta, a giudizio del Collegio, per ritenere i riflessi in tema di competenza territoriale che dalla norma appena menzionata si traggono, secondo la tesi ermeneutica che qui si sostiene, non distonici rispetto al principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge. Principio, che, piuttosto, sembra essere messo in discussione proprio da soluzioni esegetiche, quale quella propugnata dal Gip di Napoli, che introducono "eccezioni all'eccezione" prive di un fondamento normativo e di una logica sistemica, non avendo il legislatore, all'art. 51 comma 3-bis, operato alcun distinguo tra i reati ivi elencati … Si ritiene, pertanto, di affermare il principio per cui in tema di competenza territoriale, non è consentito operare alcun distinguo tra i reati elencati nell'art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., per cui, qualora si proceda per uno qualsiasi di essi e per reati connessi, anche più gravi, la competenza territoriale del primo esercita una vis attractiva anche sugli altri”.

Del resto, la conclusione non poteva essere diversa. La competenza c.d. “funzionale” assicura che l’imputato sia giudicato dal giudice naturale precostituito per legge; “spacchettare” per via ermeneutica il contenuto di una norma unitaria, come l’articolo 51 comma 3-bis, attribuendo, nel totale silenzio della legge, una vis actractiva esclusivamente ad alcuni dei reati inclusi nel catalogo della norma (quelli associativi), costituisce esercizio di giurisprudenza “creativa” del tutto distonica rispetto al principio costituzionale sancito dall’articolo 25, primo comma, Cost. 5.2. La competenza per territorio.

Secondo Corte di Cassazione, Sezione III penale, Sentenza n. 26182 del 22 giugno 2015, (Data udienza 14 maggio 2015 in proc. De Bellis e a.) la competenza per territorio del delitto in esame va rinvenuta “nel luogo in cui avviene la reiterazione delle condotte

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illecite, in quanto elemento costitutivo del reato (Sez. 3, n. 29619 del 08/07/2010, Leorati e altri, Rv. 248145; Sez. 3, n. 46705 del 3/11/2009, Caserta, Rv. 245605)”.

In modo più dettagliato Cassazione, Sezione III, Sentenza n. 46705 del 3 dicembre 2009 (Ud. 3 novembre 2009, in proc. Caserta e a.), secondo cui il delitto in parola “implica una pluralità di condotte in continuità temporale – relative ad una o più delle diverse fasi nella quali si concretizza ordinariamente la gestione dei rifiuti – e più operazioni illegali degli stessi. Queste operazioni, se considerate singolarmente, possono essere inquadrate sotto altre e meno gravi fattispecie, ma valutate in modo globale integrano gli estremi del reato previsto dal d.lgs. n. 152 del 2006, art. 260; in altre parole, alla pluralità delle azioni, che è elemento costitutivo del fatto, corrisponde una unica violazione di legge. Pertanto, il reato deve considerarsi abituale dal momento che per il suo perfezionamento è necessaria la realizzazione di più comportamenti della stessa specie; consegue che la competenza deve essere individuate nel luogo in cui le varie frazioni della condotta, per la loro reiterazione, hanno determinato il comportamento punibile. Ora è indubbio che alcuni fatti di illegale gestione dei rifiuti siano emersi a XXXXX, ma solo con l'arrivo dei vari camion di rifiuti ed il loro interramento a YYYYY si è avuto l'accumulo di ingenti quantitativi che sigla il perfezionamento del reato. Le condotte antecedenti, come hanno correttamente segnalato i Giudici, pur illecite, "non valgono a sostanziare la pluralità di operazioni atta configurare la attività di gestione organizzata per il traffico illecito di rifiuti oggetto della incriminazione".

Come appare evidente, l’identificazione del locus commissi delicti appare vincolato ad una ricostruzione dell’attività illecita da svolgersi in punto di fatto caso per caso, non potendosi a priori stabilire dove l’attività illecita, in quanto abituale ed organizzata, si sia svolta. Certo è che la Corte ha escluso il rilievo di dati meramente formali quali la sede amministrativa o operativa della società.

Va tuttavia evidenziato un piccolo “baco” nell’ultima sentenza citata. Ed infatti, ancorare sempre la competenza territoriale al “destino finale” dei rifiuti potrebbe comportare conseguenze aberranti; basti pensare all’ipotesi, non infrequente, in cui ad un trattamento di rifiuti svolto in modo illecito all’interno di uno stabilimento, attraverso operazioni non consentite o tramite il ricorso al c.d. “giro bolla” per declassificare i rifiuti, corrisponda il conferimento ad impianti di recupero o smaltimento operanti in diverse parti del territorio nazionale o addirittura all’Estero. In tutti questi casi non vi è dubbio che il “core” dell’operazione criminale risieda nel luogo dove i rifiuti sono stati trattati/classificati, e non in quelli della destinazione finale.

Analogamente, laddove non si rinvenga quell’opera di “rafforzamento” dell’intento criminale che consente di ritenere integrato il concorso di persone nel reato, occorrerà separare le posizioni e procedere per ricettazione nei confronti dei recettori finali. 6. L’applicabilità diretta dell’articolo 13 D.L. n. 306/1992.

Un problema che pone frequentemente, dopo l’inclusione dell’articolo di cui all’art. 260 del d.lgs. 152/2006 nel catalogo dell’articolo 51 comma 3-bis c.p.p., è quello

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relativo alla applicabilità diretta dell’articolo 13 d.l. 306/1992 in materia di intercettazione.

In buona sostanza, ci si chiede se la semplice inclusione della disposizione in esame nel catalogo dei reati di competenza DDA valga ex se a giustificare la natura di “crimine organizzato” del delitto in parola, ovvero se sia comunque necessario da parte del giudice uno scrutinio in concreto sulla sussistenza nella natura organizzata del traffico di rifiuti.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con sentenza n. 17706 del 22 marzo 2005 Cc. (dep. 11 maggio 2005) ebbero a stabilire che “a fronte della univocità di definizione della nozione "criminalità organizzata" prospettata nella riflessione socio-criminologica, è evidente, invece, l'assenza di una nozione giuridica unitaria, poiché questa si rinviene in contesti normativi diversificati e non sempre utili sul piano delle esigenze ermeneutiche specifiche. A giudizio delle Sezioni Unite, si condivide dunque la prospettazione ermeneutica finalistica dianzi illustrata ed in relazione alla stessa il disposto del 2° comma dell'art. 2 della legge n. 742 del 1969, introdotto dall'art. 21 bis del D.L. n. 356/1992 e riprodotto dall'art. 240 disp. att. c.p.p., la stessa deve intendersi riferibile non solo ai reati di criminalità mafiosa ed assimilata, e ai delitti associativi previsti da norme incriminatrici speciali, ma anche a qualsiasi tipo di "associazione per delinquere", ex art. 416 cod. pen., correlata alle attività criminose più diverse, con l'ovvia esclusione del mero concorso di persone del reato (ove manca il requisito dell'organizzazione)”.

Tale interpretazione necessita un ripensamento alla luce della legislazione successiva. Ed infatti, l’articolo 24-ter del d. lgs. 231/2001 (che disciplina la responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche), rubricato “Delitti di criminalità organizzata”, disciplina due tipi di crimine organizzato: quello di tipo mafioso o “paramafioso” al comma 17, e quello di tipo “comune”, al comma 28.

Inoltre, l’articolo 3 della legge 146/2006, che recepisce la Convenzione ONU sul crimine organizzato transnazionale, definisce come transnazionale “il reato punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, qualora sia coinvolto un gruppo criminale organizzato”. Neanche in questo caso si rinviene alcuna limitazione alle associazioni di tipo mafioso o similari. Anzi, è stato chiarito dalle SS.UU. della Corte di Cassazione (sentenza n.18374 del 23 aprile 2013) che tale locuzione, che è “capace di compendiare, proprio per ampiezza di formulazione, diversi modelli ordinamentali di incriminazione del fenomeno lato sensu associativo, l'’association de malfaiteurs’, propria dei sistemi di civil law, l'associazione per delinquere di stampo mafioso, tipicamente italiana, e la ‘conspiracy’, tradizionale strumento di contrasto giudiziario alla criminalità organizzata nei sistemi penali di common law, in cui è, notoriamente, meno netta la distinzione tra concorso di persone e fattispecie associative”, sicché va inteso, in linea con la Convenzione ONU, come

7 “In relazione alla commissione di taluno dei delitti di cui agli articoli 416, sesto comma, 416-bis, 416-ter e 630 del codice penale, ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché ai delitti previsti dall’articolo 74 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309”. 8 “in relazione alla commissione di taluno dei delitti di cui all’articolo 416 del codice penale, ad esclusione del sesto comma, ovvero di cui all’articolo 407, comma 2, lettera a), numero 5), del codice di procedura penale”.

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«un gruppo strutturato, esistente per un periodo di tempo, composto da tre o più persone che agiscono di concerto al fine di commettere uno o più reati gravi o reati stabiliti dalla presente· convenzione, al fine di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o un altro vantaggio materiale», intendendosi per “gruppo strutturato”, un gruppo «che non si è costituito fortuitamente per la commissione estemporanea di un reato e che non deve necessariamente prevedere ruoli formalmente definiti per i suoi membri, continuità nella composizione o una struttura articolata».

Pertanto, la nozione di “criminalità organizzata” meriterebbe un ampliamento anche ad ipotesi di reato, aggravate dalla transnazionalità, che vedono implicato un gruppo criminale organizzato non costituito in associazione9.

Inoltre, vi sono nell’ordinamento delle ipotesi, tutte di recente introduzione, di criminalità organizzata “monosoggettiva” (rectius, solo “eventualmente plurisoggettiva”), ossia connotata non dalla pluralità di soggetti, ma dall’oggettiva predisposizione di una struttura organizzativa. Si tratta quindi di reati a concorso non necessario, ma eventuale.

Ci si riferisce all’articolo 474-ter del codice penale, in materia di contraffazione (introdotto dalla legge 23 luglio 2009, n. 99), rubricato “Circostanza aggravante”, ma che in realtà sanziona la commissione, fuori dai casi di cui all’articolo 416, dei delitti puniti dagli articoli 473 e 474, primo comma, “in modo sistematico ovvero attraverso l’allestimento di mezzi e attività organizzate”, nonché proprio all’art. 260 del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (che qui interessa), oggi inserito nel corpo del codice penale all’articolo 452-quaterdecies.

Rammentato preliminarmente come secondo la S.C. il reato di traffico è un reato organizzato del tutto distinto dal reato associativo, occorre ora verificare se lo stesso rivesta i crismi del delitto di “crimine organizzato” proprio per l’effetto dell’inclusione nel catalogo dei reati di competenza distrettuale di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p.

A parere di chi scrive, è del tutto evidente che a fronte di attività criminali rientranti nel campo della criminalità esercitata (eventualmente anche in forma monosoggettiva) in forma organizzata, occorre interpretare le pronunce della Corte in modo evolutivo ponendo l’accento su tre aspetti:

1) in primo luogo, sul requisito dell’esistenza di quel “gruppo strutturato” richiesto dalla Convenzione di Palermo qualora si tratti di attività che involgono più Stati;

2) in secondo luogo sull’esistenza di un “apparato organizzativo” inteso in senso oggettivo, anziché soggettivo, tanto più che secondo la Suprema Corte la sussistenza di un mero concorso di persone non rileverebbe, in quanto sarebbe proprio il rilevo di tale “apparato” a colorare la condotta rispetto all'apporto causale del singolo partecipe; del resto, il giudice di legittimità insiste sull’inclusione del fatto tra i “fenomeni di elevata pericolosità sociale” o, come descritto dalla citata pronuncia delle SS.UU. “fenomeni eterogenei, accomunati però da una comune intollerabilità, che induce una forte reazione sociale”,

9 Tale interpretazione risulta confermata dalle Sezioni Unite della S.C., le quali hanno affermato che per procedimento di criminalità organizzata deve intendersi "quello che ha ad oggetto una qualsiasi fattispecie caratterizzata da una stabile organizzazione programmaticamente orientata alla commissione di più reati" (Sez. U, n. 37501 del 15/07/2010, Donadio, Rv. 247994).

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tra cui rientra sicuramente l’attività organizzata di gestione illecita di rifiuti finalizzata alla realizzazione di una discarica abusiva.

3) sul fatto che la semplice inclusione di un reato nel catalogo di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p. implica, a monte, una valutazione effettuata dal legislatore in ordine alla natura di “reato di criminalità organizzata” del singolo delitto. Sul punto, appare chiaro il principio di diritto espresso dalle SS.UU. nel noto “caso Trojan” (Cassazione, Sezioni Unite Penali, sentenza n. 26889 del 1° luglio 2016 (ud. 28 aprile 2016), che al punto 16 esprimono chiaramente il seguente principio di diritto: "per reati di criminalità organizzata devono intendersi non solo quelli elencati nefrart. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., ma anche quelli comunque facenti capo a un'associazione per delinquere, ex art. 416 cod. pen., correlata alle attività criminose più diverse, con esclusione del mero concorso di persone nel reato”.

Appare quindi confermato l’assunto secondo cui il legislatore, includendo un delitto nel catalogo di cui all’articolo 51 comma 3-bis c.p.p., abbia effettuato la scelta di considerare, per la sua particolare natura o modalità di manifestazione, il delitto stesso come di criminalità organizzata, esentando il giudice dal concreto scrutinio in ordine alla applicabilità della norma. 7. Sequestro e confisca. 7.1. La confisca obbligatoria.

L’articolo 260 del d.lgs. 152/2006 è stato oggetto di modifica per effetto della legge n. 68/2015 (c.d. “legge sugli ecoreati”), la quale ha inserito un comma 4-bis che estende notevolmente i poteri di confisca. La norma prevede infatti che «è sempre ordinata la confisca delle cose che servirono a commettere il reato o che costituiscono il prodotto o il profitto del reato, salvo che appartengano a persone estranee al reato. Quando essa non sia possibile, il giudice individua beni di valore equivalente di cui il condannato abbia anche indirettamente o per interposta persona la disponibilità e ne ordina la confisca».

Tale disposizione introduce di fatto tre distinte ipotesi di confisca, tutte mutuate dalla normativa europea (Direttiva 2014/42/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 3 aprile 2014, relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea, che peraltro non include il reato in esame nel suo catalogo):

1) quella del c.d. “strumento del reato”, ossia le cose che servirono a commetterlo, che ha una chiara funzione impeditiva (da collegarsi pertanto, nella fase delle indagini, alla previsione di cui all’art. 321 comma 1 c.p.p.);

2) quella del “provento da reato”, ossia le cose che costituiscono il prodotto o il profitto del reato (da collegarsi pertanto, nella fase delle indagini, alla previsione di cui all’art. 321 comma 2 c.p.p.);

3) la “confisca per equivalente”.

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Come è noto, la giurisprudenza, nel confermare la natura di misura di sicurezza patrimoniale dei primi di tipi di confisca, ha più volte ribadito la natura sanzionatoria della c.d. “confisca di valore”. L’attrazione nell’alveo delle sanzioni determina l’applicabilità del principio di stretta legalità in materia penale e quindi, per conseguenza, l’applicabilità a tale ipotesi di confisca del principio dell’irretroattività della legge penale sfavorevole. Essa non potrà quindi trovare spazio per i reati di traffico illecito di rifiuti interamente commessi (v. quanto si è detto prima sulla natura di reato abituale e sulla cessazione dell’abitualità) prima dell’entrata in vigore della disposizione.

Al contrario, le altre due ipotesi di confisca potranno trovare applicazione retroattiva.

La norma contiene anche una clausola di riserva, escludendo dall’obbligo di confisca tutti quei beni “che appartengano a persone estranee al reato”. Per evidenti ragioni deve escludersi che l’altruità della res debba essere intesa in senso meramente “formale”, dovendosi al contrario accertare in punto di fatto se i beni siano detenuti dagli indagati per interposta persona.

Qualche dubbio si era posto in passato circa l’obbligatorietà della confisca del mezzo di trasporto, prima non prevista dalla norma. Sul punto, Cassazione, Sez. 3^, Sentenza n. 2284 del 19 gennaio 2018 (Ud. 28/11/2017, in proc. Benedetti), ha precisato che: “in tema di gestione dei rifiuti, la confisca dei mezzi di trasporto è obbligatoria, sia nelle ipotesi di trasporto illecito di rifiuti, di trasporto di rifiuti senza formulario o con formulario con dati incompleti od inesatti ovvero con uso di certificato falso durante il trasporto, sia per il reato d'attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (art. 260, d.lgs. n. 152/2006) ove sia stato commesso mediante l'impiego di mezzi di trasporto. Pertanto, la confisca del mezzo di trasporto non viene espressamente prevista nell'art. 260, così come non era espressamente prevista dall'art. 53 bis del decreto Ronchi, perché il delitto di cui alla norma dianzi citata non presuppone necessariamente l'uso di un mezzo di trasporto, in quanto può essere compiuto anche mediante attività diverse dal trasporto di rifiuti, come ad esempio per mezzo di un'attività di intermediazione o commercio. Tuttavia, quando esso viene commesso anche mediante il trasporto, la confisca del mezzo di trasporto diventa obbligatoria, perché tale misura di sicurezza è espressamente prevista dal citato d.lgs. n. 152 del 2006, art. 259. Tale norma contiene infatti un riferimento esplicito a tutte le ipotesi di cui all'art. 256, compresa quella del trasporto, senza operare alcuna distinzione in merito all'attività di gestione illecita per la quale i rifiuti sono trasportati. Pertanto la confisca del mezzo va disposta, non solo nella ipotesi di trasporto illecito di rifiuti di cui all'art. 256, di trasporto di rifiuti senza formulario o con formulario con dati incompleti o inesatti, ovvero con uso di certificato falso durante il trasporto, ma anche per le attività organizzate per il traffico illecito dei rifiuti allorché tali attività siano compiute utilizzando mezzi di trasporto. Infatti, come ha precisato questa Corte nella citata sentenza n. 4746 del 2008 "sarebbe stato invero irrazionale prevedere la confisca obbligatoria del mezzo di trasporto nelle ipotesi contravvenzionali di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, artt. 259, 256 e 258 ed escluderla nell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 260 che assorbe la contravvenzione di trasporto illecito e si riferisce al traffico di ingenti quantitativi" [ ... ] i mezzi di trasporto impiegati per il traffico illecito di rifiuti costituiscono non già lo strumento contingentemente utilizzato per la commissione del reato, ma lo strumento essenziale che integra gli estremi della fattispecie astratta di reato, atteso che il d.lgs. n. 22 del 1997, art. 53 bis punisce una serie di condotte che devono

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essere realizzate attraverso la predisposizione di mezzi e attività continuative organizzate, quali sono gli autocarri in sequestro”. 7.2. La confisca allargata.

In tema di confisca “allargata” il legislatore aveva compiuto un piccolo pasticcio, fortunatamente sbrigliato dalla Corte di Cassazione. La Corte infatti (Sez. 3, sent. n. 28759 del 21 giugno 2018 (Ud. 11/05/2018), in proc. Carnevale e altri) ha stabilito che: “l'art. 1, comma 4 della legge 68/2015 ha modificato l'articolo 12-sexies, comma 1, del decreto-legge 306/1992, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, inserendovi il riferimento ai delitti di cui agli artt. 452-quater (disastro ambientale), e 452-octies, comma 1 (associazione per delinquere finalizzata alla commissione di delitti ambientali), nonché dell'art. 260 d.lgs. 152\06 (attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti), ora confluito nel codice penale, nell'art. 452-quaterdecies) … La legge 17 ottobre 2017, n. 161, con l'art. 31, ha modificato l'art. 12-sexies introducendovi, tra l'altro, un espresso richiamo ai delitti previsti dall'articolo 51, comma 3-bis cod. proc. pen., tra i quali, come è noto, è compreso, a seguito delle modifiche ad esso apportate dalla legge 13 agosto 2010, n. 136, l'art. 260 d.lgs. 152/06 il quale risultava, conseguentemente, richiamato due volte nell'art. 12-sexies.

A tale situazione si è poi ovviato con il decreto – legge 16 ottobre 2017, n. 148, convertito con modificazioni dalla L. 4 dicembre 2017, n. 172, il quale, nel sostituire nuovamente il testo dell'art. 12-sexies, ha mantenuto il richiamo all'art. 51, comma 3-bis cod. proc. pen. eliminando la duplicazione del richiamo con il riferimento espresso all'art. 260 d.lgs. 152/06.

Le medesime disposizioni sono ora contenute nell'art. 240-bis cod. pen. introdotto dal d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21 il quale ha ulteriormente modificato l'art. 12-sexies.

Che tale fosse l'intenzione del legislatore (e non quella di eliminare la "confisca allargata" con riferimento al delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti) risulta evidente non soltanto dagli atti dei lavori parlamentari relativi alla legge 171/2017, ove il duplice riferimento al medesimo delitto viene segnalato senza però essere preso in considerazione, ma anche dal contenuto stesso del decreto legge 148/2017, che amplia l'elenco dei reati per i quali la confisca è consentita (sono state, ad esempio, inserite, alcune ipotesi di falso nummario ed alcuni reati informatici).

Invero, sarebbe del tutto illogico ritenere che il legislatore, dopo aver introdotto i delitti contro l'ambiente, prevedendo per gli stessi pene severe ed altre rilevanti conseguenze in caso di condanna, abbia voluto definitivamente eliminare la possibilità della confisca di cui all'art. 12-sexies al solo delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, reato connotato da una obiettiva gravità, inserendo nel contempo nel medesimo articolo altri reati prima non presenti e, addirittura, non avvedendosi del fatto che il delitto di cui all'art. 260 d.lgs. 152/06, una volta espunto, restava comunque ricompreso nell'ambito di applicazione dell'art. 12-sexies in forza del richiamo contenuto nell'art. 51, comma 3-bis cod. proc. pen.

Nessuna modifica che induca a diverse conclusioni è stata poi apportata dal menzionato d.lgs. 21 /2018 che, anzi, è intervenuto sull'art. 51, comma 3-bis cod. proc. pen. sostituendo il riferimento all'art. 260 d.lgs. 152/06 con quello all'art. 452- quaterdecies cod. pen.

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Ne consegue che la confisca di cui all'articolo 12-sexies, comma 1, del decreto- legge 306/1992, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356 (ora prevista dall'art. 240-bis cod. pen.), continua, ad operare, anche a seguito delle modifiche introdotte con il decreto – legge 16 ottobre 2017, n. 148, convertito con modificazioni dalla L. 4 dicembre 2017, n. 172 in caso di condanna o applicazione pena ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen. per il reato di cui all'art. 260 d.lgs. 152/06 (ora art. 452-quaterdecies cod. pen.). il quale figura tra i delitti considerati dall'art. 51, comma 3-bis cod. proc. pen. che l'art. 12-sexies espressamente richiamava e che ora menzionato dall'art. 240-bis cod. pen.”. 7.3. Prescrizione e confisca.

Particolare è il rapporto tra confisca e prescrizione del reato. Rammentando quanto visto al par. 71., Cassazione, Sez. 3, Sentenza n. 9070, del 28 febbraio 2018, (Ud. 04/10/2017), ha stabilito due principi, il primo relativo alla confisca dello “strumento del reato”, ossia delle cose che servirono a commettere il reato, il secondo relativo alla confisca del “profitto” del reato, precisando che:

– “la confisca del mezzo di trasporto, utilizzato per la commissione del reato di traffico illecito di rifiuti (art. 260, d.lgs. 152/2006), non può trovare applicazione nelle ipotesi di estinzione del reato per prescrizione, ma solo nelle ipotesi di condanna o di decisione ex art. 444, cod. proc. pen., come espressamente previsto nell'art. 240, comma 1, cod. pen. (e anche dall'art. 259, comma 2, d.lgs. 15272006); inoltre la disposizione dell'art. 260, comma 4 bis, d.lgs. 152/2006, introdotta con la I. n. 68/2015 non può avere effetto retroattivo, ex art. 2, cod. pen. e 7 CEDU”.

– “il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può disporre, a norma dell'art. 240, comma secondo, n. 1 cod. pen., la confisca del prezzo e, ai sensi dell'art. 322 ter cod. pen., la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l'accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell'imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio, (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015 – dep. 21/07/2015, Lucci). Cosa diversa è la confisca del mezzo utilizzato per commettere il reato (non del prezzo e del profitto del reato)”.

Ovviamente, tale possibilità sarà preclusa in riferimento alla confisca per equivalente, stante la sua natura sanzionatoria. 8. Danno e ripristino ambientale.

Si è visto in precedenza come la giurisprudenza della Corte consideri il delitto in parola come reato di pericolo e non di danno. Tale impostazione, senz’altro corretta, trova conferma e portato logico in tema di ripristino dello stato dei luoghi come condotta riparatoria.

In proposito, Cassazione, Sez. III, sent. n. 791 dell’11 gennaio 2018 (ud. del 25 maggio 2017, in proc. Fasano e a.), ha precisato che “non rientrano tra i presupposti del reato

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di cui all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 né il danno ambientale né la minaccia grave dello stesso danno, atteso che la previsione di ripristino ambientale contenuta nel comma 4 dell’art. 260 d.lgs. n.152/2006, secondo cui il giudice ordina il ripristino dello stato dell’ambiente e può subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena all’eliminazione del danno o del pericolo per l’ambiente, si riferisce alla sola eventualità in cui il danno o il pericolo si siano effettivamente verificati e non muta la natura del reato da reato di pericolo presunto a reato di danno”.

Ed ancora: “La previsione di ripristino ambientale contenuta nell’art. 260, comma 4, si riferisce alla sola eventualità in cui il danno o il pericolo si siano effettivamente verificati e non muta, perciò, la natura del reato, da reato di pericolo presunto a reato di danno (Sez. 3, n. 19018 del 20/12/2012, Accarino; conf. Sez. 3, 16/12/2005, n. 4503), sicché non assume specifico rilievo, ai fini della sussistenza del reato, il carattere pericoloso o non pericoloso dei rifiuti gestiti”.

Secondo la Corte, pertanto, il danno rientra tra i c.d. “accidentalia delicti” che non servono al perfezionarsi dell’evento, ma, in questo caso, ad imporre condotte riparatorie.

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I RAPPORTI TRA MASSONERIA E MAFIA IN UNA RECENTE DECISIONE DELLA SUPREMA CORTE

Nota a Cass., Sez. V, sent. 26 marzo 2018 (17 luglio 2018),

n. 33146, Pres. Sabeone, Est. Riccardi

di Aldo Cimmino

SOMMARIO: 1. Il caso affrontato dalla Suprema Corte. – 2. La legge “Anselmi” e l’introduzione del delitto di associazione segreta. – 3. Il fondamento del delitto di associazione segreta e l’obbligo costituzionale espresso di incriminazione. – 4. I reati associativi nel distinguo tra associazione per delinquere e che delinque: l’associazione segreta come fattispecie associativa mista. – 5. La prova dell’esistenza dell’associazione segreta e la irrilevanza penale del “mutualismo massonico”: le condotte interferenti e l’irrilevanza delle condotte meramente influenti. – 6. I rapporti con altre fattispecie incriminatrici. – 7. Conclusioni: il ruolo delle “precomprensioni sociali” nell’interpretazione giudiziale per l’efficacia della norma penale. 1. Il caso affrontato dalla Suprema Corte.

Una recente sentenza della quinta sezione penale della Corte di Cassazione si

confronta con i presupposti applicativi di una particolare ipotesi di delitto associativo

Abstract. A distanza di oltre trent’anni dall’introduzione della fattispecie di associazione segreta ex art. 2, legge n. 17/1982, può affermarsi che questa non ha avuto grande riscontro applicativo. Fatta eccezione per la vicenda legata alla loggia massonica cosiddetta “Propaganda 2”, nel 1982 e, successivamente, per quella dell’associazione segreta cosiddetta “P3”, nel 2010, che in un certo senso ha anticipato l’esistenza di un “Mondo di mezzo” poi acclarato nelle note vicende di “Mafia Capitale” e “Mafia Ostiense”, il delitto di associazione segreta è rimasto sostanzialmente inapplicato fino a quando non sono riemerse, in tempi recenti, forme di contiguità tra la massoneria e la ‘ndrnagheta. In tale contesto si inserisce la sentenza in commento la cui motivazione evidenzia come la Cassazione pretenda una prova rigorosa dell’esistenza dell’associazione segreta, che non può essere desunta dalla mera esistenza di un’organizzazione massonica e da episodi di contatto con la criminalità organizzata, così riproponendo, al centro del dibattito, il ruolo delle “precomprensioni” sociali del giudice nell’ambito dell’accertamento giudiziale e della loro validità quali massime di esperienza.

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contraddistintasi, invero, per la sua sostanziale modestia applicativa: l’associazione ex lege n. 17/1982, meglio nota come “legge Anselmi” 1.

In questa occasione, la fattispecie ha trovato applicazione nell’ambito di una complessa vicenda di cointeressenze tra “poteri occulti” ed esponenti delle istituzioni, locali e nazionali, emersa dall’operazione della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria soprannominata “Mammasantissima”, nella quale ‘ndrangheta, massoneria e potere politico hanno rappresentato il nucleo dell’inchiesta avviata, nel 2016, dalla Dda reggina che ha messo “a nudo i rapporti tra criminalità e Stato”2.

Questa particolare storia criminale, richiamata nelle pagine della sentenza qui in commento, rimanda ad un’articolata rete di indagini, decisioni di merito ed approfondimenti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie che, se da un lato ha ben messo in luce, nel corso del tempo, l’intreccio tra interessi economico-politici e mafiosi, dall’altro si è scontrata con la liquidità di un “fatto umano” di difficile cristallizzazione accertativa in tutti i suoi aspetti.

Lo sfuggente substrato criminologico della vicenda in cui si intrecciano diverse realtà associative, quella massonica e quella mafiosa, fa riaffiorare il dibattito sulla natura giuridica (e sociale) delle prime consorterie criminali sospese sullo scivoloso confine tra associazioni pure e associazioni miste.

Non a caso, è stato giustamente affermato che «il tema del rapporto tra mafia e massoneria si rinviene da tempo in una pluralità di fonti, provenienti da inchieste parlamentari (P2, IX legislatura; antimafia, XI legislatura) e atti processuali, e affiora in modo ricorrente nelle inchieste giudiziarie degli ultimi decenni, con una intensificazione nei tempi più recenti, sia in connessione con vicende criminali tipicamente mafiose, soprattutto in Sicilia e in Calabria, sia con vicende legate a fenomeni di condizionamento dell’azione dei pubblici poteri a sfondo di corruzione»3.

Per cui, la duplicità dello schema criminale, attraverso il quale si manifestano nella realtà le vicende occulte delle cosiddette “masso-mafie”, ha non solo indotto la giurisprudenza di legittimità a riprendere il distinguo tra associazioni mafiose e associazioni per delinquere semplici, ma oltretutto a chiarire lo statuto probatorio di tali delitti associativi, differenziando le prove specifiche che accertano la sussistenza di un fatto di reato aggregativo, dagli elementi di prova, soprattutto emersi dalle indagini sociologiche, che, al più, contraddistinguono la particolare cultura di contesto del giudice.

Così, se da un lato la giurisprudenza ha avuto modo di ribadire in più di un’occasione tale distinzione, dall’altro i giudici di legittimità sono stati chiamati a risolvere gli interrogativi interpretativi attinenti alla struttura del reato associativo di

1 Sul punto cfr. A. GARGANI, Strutture occulte ed interferenze sui pubblici poteri, in AA.VV., Potere e responsabilità nello Stato costituzionale. Prospettive costituzionalistiche e penalistiche, Atti del convegno, Torino, 2011, 120, il quale segnala come, fatta eccezione per i casi che hanno riguardato le note vicende delle associazioni segrete del 1982 e del 2010, di tale fattispecie si era persa quasi la memoria. 2 Operazione Mammasantissima: 'ndrangheta, massoneria e politica nel mirino, accessibile a questo link. 3 Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie, 7 febbraio 2018, Doc. XXIII, n. 38, 248.

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tipo segreto, non tralasciando, inoltre, di far intravedere, nelle pieghe della motivazione, i particolari profili di interferenza con altri delitti associativi.

Non è sufficiente, dunque, limitarsi a tratteggiare i caratteri di un complesso di relazioni sociali, più o meno identificate, ma deve altresì darsi prova dell’effettiva esistenza di un’associazione segreta che rappresenti un “contro-potere” attivo sul territorio di una realtà locale o nazionale, anche per il tramite di collegamenti e interscambi funzionali con altre realtà associative quali, ad esempio, le consorterie mafiose.

Ed è sull’esistenza di tali congregazioni criminali e sui loro rapporti che, infine, si rinviene quella “zona grigia” che sfuggendo alla tipizzazione del legislatore, si sottrae alla conoscenza giudiziaria del giudice.

Tuttavia, non appare peregrino sostenere l’esistenza di un fil rouge che lega i delitti associativi, di tipo misto o a struttura complessa, all’insieme di pre-comprensioni sociali caratterizzante la cultura sociale e territoriale del giudice che in esso opera.

Sotto tale profilo, dunque, ci si può ancora chiedere quale sia il ruolo di tali conoscenze nel ragionamento giudiziario. Se esse siano destinate indefettibilmente ad inquinarlo ovvero a rafforzarlo nelle conclusioni di merito, laddove ne appare comunque innegabile un coinvolgimento nella genesi stessa delle norme penali della criminalità aggregativa.

Per questa via, sarebbe legittimo domandarsi se l’associazione segreta ex lege n. 17/1982 e l’associazione di tipo mafioso ex art. 416 bis c.p. rappresentino, a certe condizioni, fenomeni similari e se da tale protasi possa inferirsi la apodosi per la quale, in presenza di determinati elementi relazionali e strutturali, tra le due risulti provata automaticamente l’esistenza della prima.

2. La legge “Anselmi” e l’introduzione del delitto di associazione segreta.

Tutte le vicende criminose che hanno riguardato i rapporti tra Stato e “poteri

altri” sono state affrontate dal legislatore sempre attraverso la cosiddetta legislazione d’emergenza4, ogni qual volta il profilo anticostituzionale ed antidemocratico delle stesse si è palesato in maniera eclatante.

Sin dall’Unità d’Italia, infatti, si è assistito ad un proliferare di leggi eccezionali, o connotate da straordinario rigore, approvate in via d’urgenza, per far fronte a vicende particolarmente gravi per l’equilibrio dell’assetto organizzativo dello Stato.

Ciò è riscontrabile agevolmente se solo si pone mente ai provvedimenti che furono adottati per contrastare fenomeni come il brigantaggio, che pareva compromettere le fondamenta stessa del nuovo Stato unitario5, e, in tempi più recenti, l’eversismo politico dei cosiddetti “anni di piombo”6, la prima guerra di mafia, alla metà

4 S. MOCCIA, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli, 2011. 5 P. TRONCONE, La legislazione penale dell’emergenza in Italia, Napoli, 2001, 33 ss. 6 In un ottica di mera ricostruzione del contesto socio-politico in cui venne a maturarsi l’osmosi fenomenica tra mafia e massoneria, appare interessante ciò che veniva affermato dalla Commissione parlamentare

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degli anni ’60, ed i primi consequenziali “delitti eccellenti” di matrice politico-mafiosa, nonché, infine, lo stragismo mafioso dei primi anni ‘907. Tutti eventi che, di fatto, minarono la stessa tenuta democratica dello Stato repubblicano.

Nondimeno, se si discorre di provvedimenti adottati in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, susseguitisi alla tristemente nota stagione di “mani pulite”, non può non osservarsi come dal 1990 sino ad oggi, con le odierne misure attualmente in discussione alla Camera ed al Senato8, sia stata data ampia dimostrazione della sostanziale inefficacia di leggi penali approvate sull’onda emotiva di fatti che hanno suscitato particolare clamore, recanti meri inasprimenti delle previsioni sanzionatorie.

La nomopoiesi dell’emergenza, infine, si riscontra anche nel contrasto al fenomeno delle associazioni segrete. La particolare fattispecie introdotta dal legislatore del 1982 è anch’essa connotata dall’esigenza di far fronte a vicende che destarono particolare allarme sociale, legate alle attività della loggia massonica deviata denominata “Propaganda Due”9.

Per cui, con legge 25 gennaio 1982, n. 17, meglio nota col nome di legge “Anselmi”, recante “Norme di attuazione dell’art. 18 della Costituzione in materia di associazioni segrete e scioglimento della associazione denominata Loggia P2”, il legislatore ordinario ha dato attuazione all’art. 18, comma 2 Cost. provvedendo, per la prima volta, a sciogliere legislativamente un’aggregazione associativa, interrompendo quella silenziosa tolleranza osservata per lungo tempo rispetto alle massonerie deviate.

Quali associazioni di diritto privato, infatti, le logge appaiono sulla carta compagini associative lecite e, in quanto tali, tutelate dall’ordinamento giuridico alla stregua di qualunque altra formazione sociale costituzionalmente legittima.

Tuttavia, considerata la peculiare struttura di talune organizzazioni massoniche e le particolari finalità, anche di tipo politico, che esse si prefissano, ci si è chiesti, già allora, se esse fossero o meno impermeabili alle infiltrazioni delle organizzazioni antimafia già all’inizio del 1994, allorquando si evidenziava che nell’ambito di alcuni episodi che avevano segnato la cosiddetta “strategia della tensione” nel nostro Paese tramite i tentativi eversivi del 1970 e del 1974, alcuni esponenti della massoneria avevano chiesto la collaborazione della mafia. Sul punto cfr. Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia, 12 aprile 1994, Doc. XXIII, n. 14, 59 ss. 7 Dalla legge 15 agosto 1863, n. 1409, cosiddetta legge “Pica”, alla legge 31 maggio 1965, n. 575, a quella 22 maggio 1975, n. 152, cosiddetta legge “Reale”, alla legge 13 settembre 1982, n. 646, cosiddetta legge “Rognoni-La Torre”, sino alla legislazione antimafia degli anni ’90, il normatore ha affrontato fenomeni criminali complessi e strutturati solo attraverso provvedimenti d’urgenza. 8 La Camera ha infatti approvato in prima lettura - nella seduta del 22 novembre 2018 - il disegno di legge del Governo (AC 1189-A) che introduce misure in materia di contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione, di prescrizione e di trasparenza dei partiti e dei movimenti politici e delle fondazioni, con particolare riferimento al loro finanziamento. 9 Si tratta della nota Loggia massonica coperta (i cui membri cioè non sono conosciuti dagli affiliati ad altre logge), originariamente appartenente al Grande Oriente d’Italia. Formalmente sciolta nel 1974 e surrettiziamente ricostruita nel 1975, sotto la guida di Liceo Gelli, si trasformò in una potente forza occulta in grado di condizionare il sistema economico e politico italiano. La scoperta e la pubblicazione, nel 1981, degli elenchi degli affiliati e del programma dell’associazione aprirono un caso politico e giudiziario. Sciolta d’autorità in quanto associazione segreta, fu oggetto di un’inchiesta parlamentare e di vari procedimenti giudiziari, Voce “P2” in Enc. Trec. on line, www.treccani.it

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mafiose ma, soprattutto, se, in caso di risposta affermativa, eventuali relazioni con queste ultime non rappresentassero l’elemento alchemico in grado di tramutare la riservatezza in segretezza.

Aspetto, quest’ultimo, in contrasto con l’attuale ordine costituzionale e rispetto al quale, nonostante l’intervento operato con la legge del 1982, il legislatore non sembra aver provveduto adeguatamente10.

Sul versante storico-giudiziario, appare interessante evidenziare che l'emersione del fenomeno eversivo legato all'associazionismo di tipo segreto, all'epoca rappresentato, appunto, dalla loggia massonica "P2", si aggiunse a circa tre lustri di vicende "misteriose" che dal 196511 al 1982 si susseguirono in un crescendo di episodi criminosi di eccezionale gravità12.

Soltanto in tale data, che può allora definirsi l'anno della cosiddetta "rivoluzione copernicana" nel contrasto giudiziario al fenomeno della criminalità aggregativa cosiddetta mista, si adottarono i primi provvedimenti di contrasto quali, in primis, la già citata legge di scioglimento dell’associazione “Propaganda Due” che definisce le associazioni segrete e, successivamente, la legge "Rognoni - La Torre", che positivizzò il reato di associazione di tipo mafioso.

Così, il medesimo contesto storico e politico, nonché le molteplici interferenze rilevate dalle indagini della magistratura, ancora in tempi recenti, autorizzerebbero a ritenere le due fattispecie associative solo cronologicamente distanti13, sottendendo, in realtà, il medesimo substrato materiale quanto a metodo e finalità delle stesse.

3. Il fondamento del delitto di associazione segreta e l’obbligo costituzionale espresso di incriminazione.

Dalla sostanziale privazione delle libertà minime riconosciute alle associazioni di

diritto privato, tipica del regime fascista14, si è passati alle limitazioni costituzionalmente orientate all’autonomia privata delle formazioni sociali.

10 Sul punto, è stato affermato che le norme introdotte nel 1982, volte a colpire il particolare fenomeno della “P2”, hanno finito, in realtà, per non disciplinare le associazioni segrete in generale, in Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie, 21 dicembre 2017, Doc. XXIII, n. 33, 66. 11 Il riferimento al 1965 appare utile nella misura in cui è stato accertato che la prima fase della “P2” si snoda proprio tra il 1965 ed il 1974, periodo in cui lo sviluppo della loggia massonica è strettamente legato al “cursus honorum” che Licio Gelli intraprende nell’ambito della massoneria e che culmina con la sua nomina a “segretario organizzativo della Loggia P2”, in Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2, 12 luglio 1984, Doc. XXIII, n. 2, 14. 12 Il riferimento è al periodo della cosiddetta “strategia della tensione” conclamata con il tentativo di golpe soprannominato “Piano Solo” del 1964, e poi perpetrata con la strage di Piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre 1969, e con quella di Piazza della Loggia a Brescia, il 28 maggio 1974. 13 Si consideri che a distanza di pochi mesi furono approvate tanto la legge 25 gennaio 1982, n. 17 che la legge 13 settembre 1982, n. 646 recante “Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia”. 14 Il Testo unico di pubblica sicurezza apprestava una rigida disciplina di controllo su tutte le associazioni,

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Con l’avvento della Costituzione repubblicana, infatti, l’ordinamento giuridico tutela la libertà di associazione richiedendo, però, l’osservanza di divieti posti a presidio di interessi generali, che potrebbero ritenersi corrispondenti a quegli obblighi di utilità e funzione sociali espressamente sanciti dalla Grundnorm, agli artt. 41 e 42 Cost.

In altri termini, come per la proprietà e l’iniziativa economica private, il Costituente ha chiarito che la libertà di associazione non può estrinsecarsi in attività che siano in contrasto con l’ordine sociale o, addirittura, mirino a sovvertire l’organizzazione democratica dello Stato.

Per tali motivi, l’art. 18 Cost. ha espressamente vietato, al primo comma, le associazioni che perseguono finalità non consentite ai singoli dalla legge penale. Al secondo comma, nella parte prima, le associazioni segrete e, nella parte seconda, le associazioni che perseguono scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.

L’espresso divieto di istituire associazioni segrete animò, invero, un ampio dibattito in seno all’Assemblea costituente circa l’opportunità di una simile previsione a livello costituzionale.

Secondo un primo orientamento, legato direttamente alla militanza massonica, una norma costituzionale che avesse vietato le associazioni segrete avrebbe, di fatto, leso le stesse prerogative sociali di quei cittadini che, essendo parte delle aggregazioni della massoneria, erano comunque chiamati a “certe forme particolari di riservatezza”15.

Per la posizione diametralmente opposta, e che prevalse nel citato dibattito costituente, il carattere della segretezza doveva rilevare di per sé e non in riferimento alle singole attività perseguite dall’associazione, mutuando cioè il carattere di liceità o illiceità dalla natura dell’attività posta in essere dall’ente associativo.

Il concetto di segretezza, dunque, appariva esso stesso in contrasto con quei doveri minimi, ma comunque inderogabili, di solidarietà politica, economica e sociale espressamente richiesti dalla Costituzione.

E ciò in quanto «le società segrete sono concepibili solo nei regimi dittatoriali, quando la libertà è limitata o inesistente, ma non in quelli democratici dove ogni associazione può vivere alla luce del sole»16.

Esclusa, quindi, qualsivoglia antinomia costituzionale derivante da un ipotizzato “schizofrenico” testo dell’art. 18 Cost., che al primo comma avrebbe sancito la libertà di associazione per poi negarla al comma successivo, si aprì un nuovo fronte nella disputa sulla richiamata norma costituzionale, questa volta inerente alla sua natura

gli enti e gli istituti costituiti ed operanti nel regno e nelle colonie. A norma dell’originario art. 209 t.u.l.p.s. tutte le formazioni sociali erano tenute “a comunicare all’autorità di pubblica sicurezza l’atto costitutivo, lo statuto ed i regolamenti interni, l’elenco nominativo delle cariche sociali e dei soci, e ogni altra notizia intorno alla loro organizzazione ed attività, tutte le volte che ne vengono richiesti all’autorità predetta per ragioni di ordine pubblico o di sicurezza pubblica”. La norma richiamata è stata abrogata dall’art. 6, legge n. 17/1982. 15 La posizione è riconducibile a Cevalotto, Atti Ass. Cost., Res. I s.c., 471, in Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie, 21 dicembre 2017, Doc. XXIII, n. 33, 65. 16 Sul punto, Moro, Atti Ass. Cost., Res. I s.c., 472; Tupini, Atti Ass. Cost., Discussioni, vol. III, 2754 in Relazione della Commissione parlamentare cit. Stesso orientamento è stato espresso da G. ZAGREBELSKY, Disarmati contro la setta, in Il Sole24Ore, 29 maggio 1981, per cui «l’art. 18 della Costituzione garantisce nel modo più ampio la libertà di associazione, ma richiede un corrispettivo di lealtà» in A. GARGANI, Strutture occulte op. cit., 123.

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programmatica o precettiva, nonché alla sua portata applicativa quale obbligo espresso di incriminazione imposto direttamente dalla Costituzione.

Quanto alla prima delle suddette questioni, deve osservarsi che essa è strettamente legata alla seconda. A parte quanto chiarito dalla Corte costituzionale, per cui anche una norma programmatica è sostanzialmente coercibile17, apparirebbe evidente il carattere precettivo della disposizione ex art. 18, comma 2, Cost. nella misura in cui si concluda anche per la qualificazione di norma contenente un obbligo costituzionale espresso di incriminazione.

Sebbene una parte della dottrina18 propenda per tale qualificazione di alcune delle disposizioni costituzionali19, altro orientamento lo esclude. Nel primo caso, i divieti posti direttamente dalla Costituzione impegnerebbero il legislatore ad introdurre norme penali a livello di legislazione ordinaria.

Tale assunto, però, non è condiviso dal pensiero giuridico predominante, atteso che è stato da più parti evidenziato che non reca obblighi espressi di incriminazioni quella norma costituzionale che, dopo aver sancito una determinata libertà, ne circoscriva il perimetro, vietando quei comportamenti che appaiono in contrasto con l’essenza stessa della libertà riconosciuta20.

Non si tratterebbe, dunque, di una “norma penale costituzionale”, bensì di una disposizione fondamentale che radica, tra il legislatore e la Costituzione, un rapporto di “leale collaborazione normativa”. Richiamerebbe, cioè, il legislatore ordinario alla specifica responsabilità di garantire l’attuazione dei principi costituzionali.

Così, e riportando lo scontro dottrinario sul terreno specifico del divieto di costituzione di associazioni segrete, mentre per alcuni dall’art. 18, comma 2 Cost., sarebbe desumibile un palese obbligo di penalizzazione, per altri ciò sarebbe da escludere21. Eppure, anche se è negato il carattere di “norma incriminatrice” dell’art. 18, comma 2 Cost., ciò non toglie che la tutela penale possa, nei fatti, rappresentare lo strumento di tutela più efficace a salvaguardare l’effettività del divieto posto dalla Carta fondamentale.

Come, del resto, è avvenuto proprio per le associazioni segrete, specificamente contemplate dalle norme penali introdotte, nell’ordinamento giuridico, dalla già richiamata legge n. 17/1982. 17 Corte cost., 5 giugno 1956, n. 1, con la quale il Giudice delle Leggi chiarì che la nota distinzione tra norme precettive e norme programmatiche «non e' decisiva nei giudizi di legittimità costituzionale, potendo la illegittimità costituzionale di una legge derivare, in determinati casi, anche dalla sua non conciliabilità con norme che si dicono programmatiche,tanto più che in questa categoria sogliono essere comprese norme costituzionali di contenuto diverso». 18 N. CANZIAN, La reviviscenza delle norme nella crisi della certezza del diritto, Torino, 2017, 189; M. GAMBARDELLA, Lex mitior e giustizia penale, Torino, 2013, 129, chiarisce, inoltre, le conseguenze derivanti dal riconoscimento di obblighi costituzionali di incriminazione sul versante della sindacabilità, da parte della Corte costituzionale, di norme abrogatrici di fattispecie di reato che risultino attuazione del dettato costituzionale. 19 Il riferimento è non soltanto all’art. 18, comma 2, Cost. ma, per esempio, anche all’art. 21, comma 6, Cost. che tutela la libertà di espressione. 20 C. PAONESSA, Gli obblighi di tutela penale, La discrezionalità legislativa nella cornice dei vincoli costituzionali e comunitari, Pisa, 2009, 84 ss. 21 In tal senso ancora, C. PAONESSA, Gli obblighi op. cit., 85.

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In altri termini, nonostante il divieto espresso di costituzione di associazioni segrete, deve ritenersi che la libertà di valutazione del legislatore, in ordine all’opportunità o meno di prevedere una regolamentazione punitiva, rimane intatta, non essendo esercitata alcuna pressione in ordine alle modalità attraverso cui l’obiettivo di protezione sancito deve essere concretizzato, escludendo dunque la sussistenza di un obbligo costituzionale espresso di incriminazione.

Tuttavia, però, è stato messo in luce il carattere “autosufficiente” dell’art. 18, comma 2, Cost., il quale è dotato di struttura normativa autonoma, per la quale le associazioni segrete sono di per sé antigiuridiche ed in contrasto con la Costituzione medesima.

La non necessaria mediazione del legislatore ordinario, quanto alla identificazione delle condotte illecite, comporta così il riconoscimento del potere di disporre il legittimo scioglimento delle associazioni segrete agli organi preposti al rispetto dell’ordine pubblico.

Del resto, è stato ancora osservato che l’art. 18, comma 2, Cost. pone una presunzione assoluta di pericolosità delle associazioni segrete, non facilmente trasponibile in una cornice penalistica, se non mettendo a repentaglio la tenuta dei principi di sussidiarietà, frammentarietà ed offensività della norma penale22.

4. I reati associativi nel distinguo tra associazione per delinquere e che delinque: l’associazione segreta come fattispecie associativa mista.

Una volta chiarita la base costituzionale su cui poggia il delitto di associazione

segreta ex lege n. 17/1982, la sentenza in epigrafe si sofferma sul suo inquadramento dommatico, evidenziando come, nella dicotomia proposta dalla dottrina tra fattispecie associative pure e miste23 , esso ex lege n. 17/1982, evidenziando come quest’ultima debba necessariamente ascriversi alla seconda sottocategoria.

Ad avviso della decisione in commento, infatti, la fattispecie di cui all’art. 2, legge n. 17/1982, «descrivendo, quali condotte di partecipazione qualificata, la promozione, la direzione e l’attività di proselitismo, richiede, per l’integrazione della tipicità, che il sodalizio sia già costituito; così logicamente postulando l’irrilevanza penale della condotta di mera costituzione, e, dunque, della mera esistenza dell’associazione»24.

In altri termini, la Cassazione individua nell’attività esterna il carattere saliente dei reati associativi misti che definisce alla stregua di fattispecie a formazione progressiva. Per cui, nel caso di associazioni segrete, è necessario che l’ente, pur

22 In termini analoghi, ma con riferimento al divieto costituzionale di associazioni di carattere militare per scopi politici, M. SCOLETTA, Reviviscenza di fattispecie penale illegittimamente abrogata? Il caso del reato di “associazione di carattere militare per scopi politici” al cospetto della Corte Costituzionale, in questa Rivista, 6 maggio 2011. 23 Sul punto cfr ampiamente G. SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1993. 24 Cass. pen., Sez. V, 17 luglio 2018, n. 33146.

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occultando la propria esistenza, sia già esistente e comunque in grado di interferire sull’esercizio di funzioni pubbliche.

La dottrina, invero, si è lungamente soffermata sulla distinzione tra reati meramente associativi e reati associativi a struttura complessa. La maggiore parte dell’impegno teorico si deve all’introduzione del delitto di associazione di tipo mafioso.

In tale contesto normativo, si ritenne rinvenibile, nella struttura del reato ex art. 416 bis c.p., lo schema definitorio tipico dei reati associativi, a partire da quelli di natura politica, che precisa il metodo e le modalità comportamentali che connotano il tipo di aggregazione criminale.

Così come, sul piano delle finalità perseguite, l’associazione di tipo mafioso, rispetto a quella per delinquere semplice, affianca allo scopo di commettere delitti altre finalità di per sé lecite, ma che divengono illecite a causa del metodo utilizzato per realizzarle25.

Ecco, dunque, emergere il carattere complesso dell’associazione di tipo mafioso e di tutte quelle associazioni che, non limitandosi a perseguire un mero programma criminoso per la cui realizzazione la formazione aggregativa illecita si costituisce, influiscono autonomamente sul corretto svolgimento delle relazioni sociali, economiche e politiche.

Nell’ambito del delitto di associazione mafiosa, infatti, il legislatore ha letto ed interpretato, nelle pieghe del fenomeno sociale prima giuridicamente informe, l’evoluzione di un modus operandi della criminalità associativa, come descritta in circa un decennio di giurisprudenza sulle misure di prevenzione26.

Da qui il fondamentale distinguo tra associazione per delinquere ed associazione che delinque. Mentre la prima è finalizzata al perseguimento del programma criminoso, ed è illecita ex se, cioè per il solo fatto di essere stata costituita allo scopo di commettere più delitti, indipendentemente dalla loro effettiva commissione, la seconda è contrassegnata dall’illiceità esistenziale, congenita alla struttura associativa.

Ciò in quanto, avvalendosi del metodo mafioso, anche quando si prefigge il raggiungimento di fini leciti, come l’acquisizione della gestione o del controllo di attività economiche ovvero di procurare voti in occasioni di consultazioni elettorali, essi sono comunque perseguiti illegalmente attraverso, cioè, la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva.

25 In tal senso G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2008, 111 ss. 26 Descrive l’excursus interpretativo G. AMATO, Mafie etniche, elaborazione ed applicazione delle massime di esperienza: le criticità derivanti dall’interazione tra “diritto penale giurisprudenziale” e legalità, in questa Rivista, 4 novembre 2014. L’Autore, in particolare, distingue due generazioni di letture ermeneutiche operate dalla Corte di Cassazione, che hanno contribuito a definire l’essenza del delitto associativo di tipo mafioso. Nella prima, ove rientrano, approssimativamente, le sentenze pronunciate a partire dal 1969 sino al 1972, la giurisprudenza definisce il fenomeno come connotato da grave antisocialità esattamente individuato e circoscritto sotto il profilo concettuale, sociologico e legale, dando particolare rilievo al contesto territoriale entro il quale si compiono determinati delitti, come quello di estorsione o di violenza privata. Nella seconda, invece, vengono ricondotte le pronunce che, tra il 1972 ed il 1974, partendo dalla ratio della legge 31 maggio 1965, n. 575, si soffermano ora sul metodo e sulla sistematicità dell’uso della violenza, tanto fisica quanto morale, per il perseguimento dei fini preposti dall’associazione.

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In tal senso, quindi, la “mafia” è un’associazione che delinque attraverso i metodi e le forme di cui all’art. 416 bis c.p., presupponendo che l’attività delittuosa si realizzi nel contesto associativo, funzionale a determinare quel condizionamento circostante di cui gli associati, appunto, si avvalgono27.

In tale filone si inseriscono pure quegli orientamenti della dottrina che, sin dall’origine del dibattito, hanno evidenziato che intanto esiste l’associazione che delinque, come quella mafiosa, soltanto se è riscontrabile un’attività ulteriore ed esterna, diretta alla realizzazione delle finalità della consorteria criminale28.

La medesima posizione, seppur sottoponendo a critica, alla luce del dato letterale della disposizione codicistica, l’assunto per cui, ai fini dell’esistenza dell’associazione mafiosa deve necessariamente rinvenirsi che l’attività ulteriore è proiettata direttamente verso la realizzazione delle finalità del sodalizio criminoso, è condivisa da chi29, comunque, ribadisce che l’in sé del delitto associativo di tipo mafioso, in quanto a struttura mista, è rappresentato proprio dall’attività ulteriore rispetto al fenomeno associativo.

Ne consegue che il quid pluris che distingue l’associazione mafiosa, dalle altre associazioni per delinquere, non è già la parziale realizzazione del programma criminoso quanto, piuttosto, il riflesso di un primo livello di sfruttamento, cosiddetto “sfruttamento inerziale”, della carica intimidatoria autonoma, funzionale a creare l’ambiente ideale entro cui realizzare gli scopi associativi30.

Ed è proprio su tale terreno che, di recente, si è animato il dibattito, alimentato dalle diverse posizioni espresse da dottrina e giurisprudenza, con riferimento alle note vicende di “Mafia Capitale” e “Mafia Ostensie”.

Anche in tal caso, la dottrina non ha mancato di rilevare come l’importanza della verifica di tutti gli elementi che connotano il metodo mafioso trova riscontro proprio nell’ormai condivisa distinzione tra reati associativi puri e misti31.

Ritornando, ora, nuovamente sul piano delle altre associazioni a struttura complessa, e segnatamente dell’associazione segreta ex art. 2, legge n. 17/1982, può notarsi come proprio l’elemento dell’ulteriore attività realizzata dall’ente segreto, non solo rappresenta la caratteristica che consente di ascrivere il fenomeno all’alveo delle associazioni a struttura mista, ma sembra atteggiarsi in maniera analoga a come si manifesta nell’ambito delle consorterie mafiose.

27 A. CENTONZE, Criminalità organizzata e reati transnazionali, Milano, 2008, 115 ss. 28 Sul punto cfr. G. FIANDACA, L'associazione di tipo mafioso nelle prime applicazioni giurisprudenziali, in Foro it., Vol. 108, n. 10/1985; G. FIANDACA – C. VISCONTI (a cura di), Scenari di Mafia. Orizzonte criminologico e innovazioni normative, Torino, 2010; G. SPAGNOLO, L’associazione op. cit. 29 A. INGROIA, L’associazione di tipo mafioso, Milano, 1993, 67. 30 G. TURONE, op. cit., 136. 31 Per una ricostruzione critica della qualificazione giuridica dei fatti riconducibili alla nota vicenda di “Mafia Capitale” si veda G. AMARELLI, Le mafie autoctone alla prova della giurisprudenza: accordi e disaccordi sul metodo mafioso, in Giur. it., 4/2018, 956 ss.; E. ZUFFADA, Per il Tribunale di Roma Mafia capitale non è mafia: ovvero della controversa applicabilità dell’art. 416 bis c.p. ad associazioni criminali diverse dalle mafie storiche, in questa Rivista, fasc. 11/2017, p. 271 ss.

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E ciò non soltanto perché, nel caso di specie, si fa riferimento ad un’associazione massonica che intrattiene rapporti con la ‘ndrangheta, ma è la stessa intentio legis, riversata nella particolare formulazione della norma incriminatrice, a tradire la commistione fenomenologica che può ravvisarsi alla base delle “norme di scioglimento della associazione denominata Loggia P2”.

Anche in tal caso, infatti, è necessario rinvenire una struttura associativa che attraverso l’utilizzo di un metodo ponga in essere una particolare attività a rilevanza esterna, in grado di condizionare le decisioni pubbliche, alla stregua di quel condizionamento mafioso che non è mera influenza ma vera e propria interferenza nella gestione del potere pubblico.

Del resto, i giudici di legittimità stigmatizzano quel ragionamento del giudice di merito che, volendo dimostrare l’esistenza di una aggregazione segreta, si limiti a motivare la responsabilità penale degli associati sulla sola scorta di fatti che accertano non già una vera e propria interferenza nelle attività del decisore pubblico, quanto una pluralità di condotte meramente influenti.

La precisazione appare necessaria nella misura in cui essa è gravida di conseguenze, tanto sul piano della prova dell’esistenza dell’associazione, quanto, ancora, sul ruolo rivestito dalle cosiddette “precomprensioni sociali” del giudice in tale fase di accertamento. 5. La prova dell’esistenza dell’associazione segreta e la irrilevanza penale della “mutualità massonica”: le condotte interferenti e l’irrilevanza delle condotte meramente influenti.

Dalla ritenuta appartenenza dell’associazione segreta al novero delle fattispecie

a struttura mista discendono precisi corollari inerenti allo statuto probatorio dell’accertamento della relativa responsabilità penale.

Per poter affermare la colpevolezza in ordine alle condotte di promozione, direzione, proselitismo ovvero di mera partecipazione ad un’associazione segreta è necessario anzitutto dimostrare l’esistenza dell’associazione stessa32. 32 Il problema del carattere preliminare delle componenti del thema probandum si è posto anche con riferimento al delitto di cui all’art. 416 bis c.p. Anche con riferimento al delitto di associazione di tipo mafioso, infatti, prima ancora di poter affermare la penale responsabilità dell’imputato per aver partecipato ad una consorteria criminale è necessario che il giudice accerti l’esistenza stessa dell’associazione di tipo mafioso, in relazione alla quale si contesta la condotta di partecipazione. La problematica, che ha peraltro posto rilevanti questioni inerenti i rapporti tra diritto sostanziale e regime processuale, tanto da spingere taluni autori a discorrere di una sorta di tipizzazione processuale della fattispecie associativa ex art. 416 bis c.p. (sul punto cfr. G. DI VETTA, Tipicità e prova. Un’analisi in tema di partecipazione interna e concorso esterno in associazione di tipo mafioso, in www.archiviopenale.it, 1/2017), è stata di recente nuovamente affrontata dalla Corte Suprema di Cassazione con la sentenza n. 39279/2018. In tale pronuncia la Cassazione conferma il ragionamento del giudice di merito che desume l’esistenza dell’associazione mafiosa denominata ‘ndrangheta da una lettura sistematica e concatenata di delitti-fine. Ancora, Cass. pen., Sez. II, 31.3.2016, n. 19435, ha espressamente affermato che è consentito al giudice, pur nell'autonomia del reato mezzo rispetto ai reati fine, dedurre la prova dell'esistenza del sodalizio criminoso dalla commissione dei delitti rientranti

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Sul punto, la Corte di Cassazione è lapidaria nel pretendere una prova rigorosa in ordine agli elementi costitutivi della fattispecie la quale non può desumersi da mere, seppur documentate, particolari e qualificate relazioni tra gli appartenenti ad una presunta aggregazione segreta e taluni rappresentanti del potere politico-amministrativo, a livello locale o centrale.

E ciò in quanto dai fenomeni “deviati” deve distinguersi quello “ordinario” della massoneria non penalmente rilevante. La presenza territoriale di quest’ultima, cioè, non è di per sé indice dell’esistenza di una “loggia” segreta ex artt. 1 e 2, legge n. 17/1982.

Al riguardo, il giudice della legittimità chiarisce, infatti, che una mera ricostruzione “impressionistica” del sistema massonico operante su un determinato territorio, caratterizzato da relazioni personali, capacità di influenza, pressioni esercitate per il raggiungimento di scopi non necessariamente illeciti, non è idonea a far ritenere integrata la fattispecie di associazione segreta, giacché non “coagula” un quadro di gravità indiziaria tale da accertare, al di là di ogni ragionevole dubbio, l’operatività di una consorteria segreta volta ad interferire sull’esercizio di funzioni pubbliche, ponendosi come un “contropotere” rispetto alle istituzioni democratiche33.

In altri termini, dall’esistenza della massoneria non può inferirsi, sic et simpliciter, quella di una “loggia deviata”, cioè di un’associazione segreta diretta a sovvertire l’ordine pubblico, ma deve essere fornita la prova specifica che essa sia stata effettivamente costituita e che svolga attività di vera e propria interferenza sull’esercizio di funzioni costituzionali o amministrative.

Prova che, trattandosi, come evidenziato, di associazione che delinque e non per delinquere, deve necessariamente attenere all’attività esterna, al quid pluris richiesto dal particolare tipo di illecito penale associativo ed alla sussistenza della relativa struttura organizzativa.

Quanto a quest’ultima, la Corte Suprema esclude che di essa possa darsi prova attraverso la mera elencazione di condotte la cui dubbia liceità discende da una lettura complessiva, talvolta metagiuridica, di fatti che però non sono di per sé idonei a rilevare quella stabile organizzazione richiesta per la configurazione del reato associativo.

Il giudice del merito, infatti, si sarebbe limitato a raffigurare un ampio contesto di rapporti e relazioni tra presunti appartenenti all’associazione segreta ed esponenti del mondo politico e del sistema criminale ‘ndranghetistico, tuttavia non determinante ai fini della contestazione di una stabile e segreta organizzazione illecita.

Con riferimento all’attività esterna, poi, il giudice della legittimità lascia ben intravedere il contenuto dell’agire associativo evidenziando come, ai fini dell’esistenza dell’associazione segreta, è necessario che emerga un’azione concordata e programmata di interferenze nell’esercizio di funzioni pubbliche. Deve risultare, cioè, l’esistenza di un “contropotere” occulto in grado di sostituirsi agli organi costituzionali o politico-amministrativi, deviandone le relative dinamiche decisorie.

nel programma comune e dalle loro modalità esecutive, posto che attraverso essi si manifesta in concreto l'operatività dell'associazione medesima. 33 In tal senso Cass. pen., Sez. V, 17 luglio 2018, n. 33146.

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Giova peraltro ricordare che su tale profilo la dottrina ha dibattuto circa il carattere necessariamente politico che connota l’attività esterna dell’associazione segreta. Indubbiamente, su tale elemento deve aver inciso la natura del fenomeno che ha ispirato il legislatore del 198234, tuttavia all’orientamento di coloro che sostengono la natura politica del programma criminoso, si oppone chi evidenzia che in tal modo si operi un’eccessiva restrizione delle condotte penalmente rilevanti, non giustificata, invero, neppure dal dato letterale della norma.

A ben vedere, infatti, quest’ultima non si riferisce soltanto agli “organi costituzionali” ma anche ad un complesso di soggetti pubblici comunque appartenenti all’organizzazione amministrativa dello Stato. Oltretutto, anche con riferimento all’attività interferita, la norma non richiede la natura politica della stessa, potendosi trattare anche di attività meramente amministrativa35.

Ma, al di là della sola natura politica o anche “amministrativa” del programma criminoso e, dunque, della corrispondente attività da deviare, la Cassazione ha chiarito a monte che, non solo, deve trattarsi di un’attività a rilevanza pubblicistica, ma che tale carattere deve informare l’azione esterna della consorteria segreta, nel senso che dovrà assumere il medesimo rango per poter sortire quella “reazione uguale e contraria” che il legislatore ha definito interferenza.

Ed infatti, il giudice di legittimità distingue la condotta di interferenza da quella di mera influenza, definendo i limiti dell’una e dell’altra. Secondo la Suprema Corte, deve escludersi che la norma ex art. 1, legge 17/1982, si estenda sino a contemplare le mere influenze che, sebbene esercitate con “modalità confidenziali e non pubbliche”, operano ancora su un piano di biunivocità comportando un condizionamento della volontà e delle scelte altrui ottenuto spontaneamente ed in base alla personalità o autorevolezza del soggetto agente.

Di diverso tenore è la norma richiamata che richiede, invece, l’espletamento di un’attività diretta ad interferire. In tal senso, l’interferenza è qui intesa come indebito intervento, teso ad alterare, anche contro la volontà di chi subisce l’interferenza, gli equilibri costituzionali od amministrativi delle decisioni collettive.

Del resto, è apparso certamente contrario alla ratio legis, nonché al dato letterale della norma, una generale penalizzazione delle mere opere di pressione, rischiando un’estensione in malam partem della norma penale; una simile opzione ermeneutica,

34 Non a caso, nel dibattito politico è stato evidenziato che proprio la intentio legis decretò la stessa inefficacia della norma giacché, diretta a colpire il fenomeno contingente della deviazione massonica manifestatosi con la “Loggia P2”, non si occupò di disporre una disciplina minima delle associazioni segrete. 35 G. DE FRANCESCO, Associazioni segrete e militari nel diritto penale, 1987, in Dig. disc. pen., (reperibile su www.plurisonline.it), l’Autore si pone in posizione mediana nel dibattito che vede, da un lato, coloro che ritengono l’insufficienza del dato normativo per cui resterebbe ancora insoluto il problema dello scopo dell'associazione segreta, e dall’altro quanti scorgono nella medesima fonte normativa la riconferma puntuale del carattere necessariamente politico di tale programma. Soffermandosi, per il precisa che la norma non si riferisce soltanto agli organi costituzionali come il Capo dello Stato, le assemblee legislative o i ministri, cui spetta in via primaria l'esercizio di funzioni «politiche», ma anche a soggetti od enti pubblici, le cui funzioni istituzionali non riguardano la materia politica, bensì la cura di interessi esclusivamente economici, o, comunque, attinenti alla sfera dell'attività amministrativa.

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infatti, arriverebbe a ricomprendere nel suo raggio d’azione anche attività come quella di lobbying che, sebbene non regolamentata nel nostro ordinamento, non assume comunque caratteri intrinseci di illiceità penale. Una simile distinzione consente di sancire il principio della irrilevanza penale della cosiddetta “mutualità massonica” che storicamente connota la massoneria, sin dall’origine del fenomeno sociale nato a Londra nel 1717, col fine di realizzare la mutua assistenza e l’elevazione morale e intellettuale dei suoi aderenti36.

6. I rapporti con altre fattispecie incriminatrici.

Le considerazioni espresse nel paragrafo precedente portano inevitabilmente a

interrogarsi sui rapporti del delitto di associazione segreta con le altre fattispecie codicistiche.

Un’ipotesi problematica, direttamente affrontata da dottrina e giurisprudenza e rilevante anche nella vicenda in esame, concerne le relazioni tra associazione segreta ed associazione di tipo mafioso.

Pacifico, per un primo orientamento, è il rapporto di reciproca esclusione tra il delitto ex art. 416 bis c.p. e quello ex artt. 1 e 2, legge n. 17/1982.

Pur rinvenendosi innegabili punti di contatto tra le due ipotesi incriminatrici, è stata evidenziata l’eterogeneità delle fattispecie laddove mentre le associazioni segrete prescinderebbero dalla intimidazione, dall’assoggettamento e dalla omertà, quelle mafiose, invece, dal carattere della segretezza.

Anche sul versante delle finalità si riscontrerebbero evidenti distinzioni, giacché le consorterie mafiose sarebbero dirette al conseguimento di ricchezze di natura fondamentalmente economica, mentre le organizzazioni segrete a finalità essenzialmente di natura politica37.

Se tale conclusione appare, in generale, condivisibile alla luce di un mero confronto epidermico tra norme, tuttavia non può non evidenziarsi come anche le associazioni di tipo mafioso si connotino tanto per il carattere della segretezza, essendo, invero, difficile sostenere che da esso possano prescindere; tanto per le finalità politiche, come chiaramente emerge dal testo dell’art. 416 bis, comma 3, c.p. allorquando si richiama espressamente il fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto ovvero di procurare voti in occasione di consultazioni elettorali.

Sulla scorta di tali osservazioni appare, allora, ancor più arduo delineare il rapporto della fattispecie ex art. 416 bis c.p. con quella dell’associazione segreta allorché essa venga contestata unitamente all’aggravante di cui all’art. 7, d.l. n. 152/1991, attualmente ex art. 416 bis.1 c.p38.

36 Voce “massoneria” in Enc. Trec. on line, www.treccani.it 37 B. ROMANO (a cura di), Le associazioni di tipo mafioso, Milano, 2015, 289. 38 L’art. 416 bis.1 c.p. è stato introdotto dall’art. 5 d.lgs. n. 21/2018 che ha previsto la c.d. “riserva di codice” nella materia penale. Nel presente articolo sono state trasferite le circostanze aggravanti e attenuanti precedentemente previste agli artt. 7 e 8 d.l. n. 152/1991.

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Così, qualora venga ipotizzato – come nel caso affrontato dalla sentenza in commento – il delitto di associazione segreta aggravato dall’avere commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare le attività delle associazioni di tipo mafioso39, non appare peregrino intravedere una certa sovrapponibilità tra quest’ultimo e l’associazione mafiosa.

Vanno, dunque, analizzati i tratti somatici delle due figure incriminatrici alla luce di un raffronto strutturale tra le fattispecie. Anzitutto, con riferimento alla genesi dei due delitti associativi in esame, pur volendo tralasciare il medesimo contesto storico nel quale sono maturate le norme di riferimento, non può comunque negarsi che esse sorgono anche nel medesimo contesto politico e socio-economico e per la medesima necessità di tutelare l’ordinamento costituzionale da aggressioni dirette, provenienti da formazioni sociali illecite, volte a strumentalizzare l’ordinamento statuale per il raggiungimento di fini contrari alla Costituzione40.

Ne consegue che, dalla prospettiva del bene giuridico tutelato, gli interessi in gioco appaiono similari. Ed infatti, è ormai pacifico che l’art. 416 bis c.p., in quanto reato plurioffensivo, tutela una serie di beni giuridici quale l’ordine pubblico, inteso sia nella sua dimensione oggettiva, quale complesso delle condizioni che garantiscono la sicurezza e la tranquillità comune, che in quella soggettiva, come libertà morale della popolazione di autodeterminarsi nelle proprie decisioni e scelte.

Ma la norma sull’associazione mafiosa è certamente posto a tutela anche di altri interessi di rilievo costituzionale, quali l’ordine economico e il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione41.

Ebbene, non sembra potersi seriamente negare che anche il limitrofo delitto di associazione segreta tuteli i medesimi beni giuridici. Non soltanto l’ordine pubblico, anche nella sua discussa accezione ideale42, ma oltretutto quello economico, il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione appaiono oggettività tutelate ex lege “Anselmi”.

Del resto, l’art. 1, legge n. 17/1982 tende a prevenire espressamente quelle attività criminose che mirano ad interferire con l’azione di organi costituzionali, di pubbliche

39 Nella sentenza della Cassazione, si evince chiaramente che l’originaria contestazione recava il delitto di associazione segreta aggravato dall’art. 7, legge n. 203/1991, ma che la difesa contesta in quanto la sentenza di merito non espliciterebbe le motivazioni dalle quali evincere l’agevolazione degli interessi della ‘ndrangheta. 40 Nello stesso anno 1982 il legislatore ha introdotto, il 25 gennaio, il delitto di associazione segreta, e successivamente, il 13 settembre, quello di associazione di tipo mafioso. La circostanza non è di mero interesse storico giacché è innegabile che le decisioni di politica criminale assunte in quell’anno siano la conseguenza della presa di consapevolezza, da parte del normatore, che un certo fenomeno criminale complessivo aveva ormai raggiunto un tale livello di maturazione da poter compromettere l’equilibrio stesso dello Stato di diritto. 41 G. TURONE, op. cit., 323 ss. 42 S. MOCCIA, La perenne emergenza, op. cit., 66. L’Autore individua proprio nel bene giuridico l’elemento comune “ad una trentina di fattispecie associative che il nostro ordinamento prevede”. Ma sottopone a critica il riferimento all’ordine pubblico ideale che, in quanto entità macroscopica, rappresenta, più che un bene giuridico, una ratio di tutela, per ciò incapace di svolgere una reale funzione di delimitazione dell’intervento penale.

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amministrazioni e di enti pubblici economici, nonché di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale43.

Sul versante strutturale, poi, evidente è la sovrapponibilità degli elementi costitutivi delle due fattispecie associative. Sebbene, infatti, l’associazione segreta si ascriva all’ambito della criminalità politica, mentre l’associazione mafiosa, tradizionalmente, a quello della criminalità comune ed economica, si è osservato che tale classificazione non è più in grado di cogliere gli aspetti evolutivi del fenomeno criminale di tipo mafioso.

Non a caso, si è affermato che ormai le consorterie mafiose debbano configurarsi alla stregua di aggregazioni che partecipano, allo stesso tempo, dei caratteri della criminalità organizzata comune e politica44.

Può agevolmente notarsi, infatti, come sia proprio sul terreno del conseguimento del potere senza consenso che l’associazionismo mafioso si colloca ai confini con quello segreto. Certo, quest’ultimo, in generale, non si avvale dello strumento della intimidazione diffusa45 così come probabilmente non è possibile rinvenire in esso una tipica dimensione di imprenditorialità criminale.

Per cui, qualora un gruppo organizzato presenti tutti i caratteri dell’associazionismo segreto e nel contempo siano rinvenibili anche quelle finalità “gangeristico-imprenditoriali”, tipiche dell’associazione mafiosa che agisce mediante la intimidazione diffusa, certamente si applicherà la disciplina del concorso formale di reati ex art. 81, comma 1 c.p., non ravvisandosi alcun rapporto di specialità tra le due ipotesi associative. Ma se a concorrere col delitto ex art. 416 bis c.p. è l’associazione segreta aggravata ex art. 7, d.l. n. 152/1991 il confine non appare più così netto.

Non sembra, allora, un fuor di luogo ammettere che in tal caso l’eterogeneità tra fattispecie, che spinge ad affermare l’operatività del concorso formale, scema grandemente fino a far ravvisare un vero e proprio concorso apparente di norme.

Alla luce del criterio ex art. 15 c.p., sembrerebbe poter affermarsi un rapporto di specialità tra l’art. 416 bis c.p. e la fattispecie emergente dal combinato disposto degli artt. 1 e 2, legge “Anselmi” con l’art. 416 bis.1 c.p.

43 Al riguardo, è stato anzitutto evidenziato come la norma non si riferisce soltanto agli organi costituzionali ma anche a soggetti od enti pubblici, le cui funzioni istituzionali non riguardano la materia politica, bensì la cura di interessi esclusivamente economici, o, comunque, attinenti alla sfera dell'attività amministrativa. Sul versante della tutela dell’ordine economico si è fatto riferimento ad un'associazione che, attraverso contatti informali con gli organi dell'amministrazione postale, faccia pressione allo scopo di ottenere una modifica al sistema di distribuzione di determinati tipi di corrispondenza, al fine di agevolare le relazioni commerciali tra imprese operanti in settori affini. In tal senso cfr. G. DE FRANCESCO, op. cit. 44 Ancora, G. TURONE, op. cit., 339. 45 Tuttavia, non deve neppure trascurarsi quanto affermato dalla dottrina in ordine alla capacità di condizionamento, delle associazioni segrete, duraturo nel tempo. Al riguardo si è evidenziato che l’interferenza sull'esercizio delle funzioni potrebbe derivare anche da un'azione di persuasione non immediatamente correlata alla prospettazione di concreti vantaggi — o, all'opposto, di specifiche conseguenze sfavorevoli — ma tuttavia capace alla lunga di condizionare le scelte dei destinatari in senso conforme alle direttive e alle sollecitazioni del potere occulto, così equiparandosi ad una “carica intimidatoria autonoma” tipica del metus mafioso, sul punto cfr. G. DE FRANCESCO, op. cit.

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Ciò in quanto, gli aspetti che la dottrina ha ritenuto essere meri indici rivelatori di una certa contiguità tra fattispecie, si fondono ora in un’unica associazione segreta che, avvalendosi del metodo mafioso, ovvero agendo con la finalità di agevolare il sodalizio mafioso, finisce con il partecipare della sua stessa essenza.

In altri termini, ci si troverebbe dinanzi non ad una mera associazione segreta, bensì ad una formazione sociale criminale segreta, diretta al perseguimento di fini politici ed economici, fondata su un apparato strutturale-strumentale intimidatorio che gli deriva, alternativamente, o dal ricorso diretto al metodo mafioso, ovvero dalla particolare finalità che ne condiziona l’agire, atteso che quest’ultima non si fonda su una generica rappresentazione di un possibile effetto derivante dalla “causale di agevolazione”, bensì sul preciso intento di favorire il sodalizio criminale. 7. Conclusioni: il ruolo delle “precomprensioni sociali” nell’interpretazione giudiziale e per l’efficacia della norma penale.

Le questioni sollevate dalla sentenza in commento fanno riemergere, come

accennato più volte, la problematica del ruolo assunto dalle precomprensioni sociali e dalle c.d. massime di esperienza, tanto nell’attività legislativa di costruzione dei tipi legali generali ed astratti, quanto in quella giudiziaria di accertamento della loro sussistenza nei singoli casi concreti

Sul primo aspetto, a meno che non si ritenga che l’apparente difetto di determinatezza non sia in realtà una sorta di “delega all’interprete”, per consentire al giudice di tenere conto delle molteplici condizioni di variabilità criminologica nell’applicazione della norma46, soccorre il principio di legalità che impone al legislatore di porre norme che siano rispettose del dettato ex art. 25 Cost., sotto il profilo della tassatività e sufficiente determinatezza delle fattispecie legali. Ragion per cui le massime di esperienza di tipo socio-criminologico possono anche incidere sulla redazione delle norme incriminatrici, ma a patto che non diano vita a tipi criminosi eccessivamente vaghi ed inafferabili.

Sul versante dell’attività ermeneutica – che in questa sede maggiormente rileva –, invece, ci si domanda se tale complesso di conoscenze sociali possa, addirittura, integrare il dettato di una data disposizione normativa, ovvero sostenere la motivazione di un provvedimento giurisdizionale che sottenda un vulnus, apparente, nella spiegazione del meccanismo causale tra determinati fenomeni che si intendono stigmatizzare.

In effetti, le opzioni interpretative della norma incriminatrice, così come l’apprezzamento della ricostruzione probatoria dei suoi elementi costitutivi, è condizionato in casi del genere da una precomprensione del fatto e dei valori connessi47.

46 G. FIANDACA – C. VISCONTI (a cura di), Scenari di Mafia. op. cit., 543. 47 F. GIUNTA, La legittimazione del giudice penale tra vincolo di soggezione alla legge e obbligo di motivazione, in La Giustizia Penale, Fasc. X, ottobre 2011, 278.

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Proprio per tali ragioni, la Corte regolatrice, nella sentenza in epigrafe, ha evidenziato che la verosimiglianza dell’esistenza di relazioni tra mafia e massoneria che giustificherebbe una rete di relazioni sfruttata per il conseguimento di fini illeciti non implica di per sé che l’appartenenza alla massoneria determini un’azione programmata di condizionamento ed interferenze delle decisioni pubbliche.

Detto altrimenti: per la S.C., o si fornisce la prova della relazione causale tra determinati fenomeni (attività massonica, relazioni con organizzazioni di tipo mafioso e determinazioni ‘favorevoli’ di funzionari pubblici), ovvero si rinuncia all’affermazione della penale responsabilità, giacché le eventuali precomprensioni del giudice in materia, fondate su mere massime di esperienza, non valgono a supplire la mancanza degli elementi necessari per accertare che un fatto sia veramente accaduto.

Queste ultime, pur essendo necessarie in tali ambiti – come peraltro ha dimostrato la giurisprudenza rispetto ai casi di relazioni ambigue tra associazioni mafiose e imprenditori48, potenzialmente interpretabili o come forme di estorsione o, all’opposto, di concorso esterno –, devono essere sempre oggetto di attento riscontro onde evitare eccessi di discrezionalità del potere giudiziario e applicazioni disomogenee, se non contraddittorie, delle norme incriminatrici che contribuiscono a definire. Per confermare la loro validità in un caso come quello in esame non è sufficiente, quindi, una ricostruzione “impressionistica e puntiforme” dei fatti oggetto di giudizio, ma è necessario un vaglio analitico e completo delle effettive dinamiche di comportamento della associazione.

48 G. FIANDACA – C. VISCONTI (a cura di), Scenari di Mafia. op. cit., 552, in cui gli autori considerano proprio il fenomeno della collusione tra associazioni mafiose ed imprenditori. Al riguardo, infatti, si è evidenziato che soprattutto in territori connotati dalla pervasiva presenza di consorterie mafiose, le indagini storico-sociologiche hanno rilevato come per alcuni operatori economici la mafia rappresenti un vincolo; per altri una opportunità. Sicché, nell’evolversi di talune forme di interazione, non di rado accade che imprenditori inizialmente siano vittime di estorsione e successivamente diventino complici dei mafiosi.

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LE BRICIOLE DI PANE, I GIUDICI, IL SENSO DI UMANITÀ. UNA LETTURA COSTITUZIONALMENTE ORIENTATA

DEGLI ARTT. 35, 35-BIS E 35-TER ORD. PENIT. ( )

di Davide Galliani SOMMARIO: 0. I temi. – PARTE PRIMA. – 1. Le briciole di pane in carcere. – 2. Il senso degli artt. 35, 35 bis e 35 ter dell’ordinamento penitenziario. – 3. L’art. 35 bis scinde ciò che non è scindibile. – 4. L’art. 35 ter non ha progettualità. – 4.1. I dubbi di utilità. – 4.2. A cosa è soggetto il giudice? – 4.3. La fissità incostituzionale. – 5. L’art. 35 è antistorico e pericoloso. – 6. Una proposta: unificare i reclami, proteggere le persone. – 6.1. Un caso ipotetico, non di scuola. – 7. Ritorno al passato, per orientarci nel futuro. – 7.1. Lo stato di diritto nelle carceri. – 7.2. Senza un (vero) giudice non esistono diritti. – PARTE SECONDA. – 8. I giudici e il consolidamento giurisprudenziale. – 9. Il consolidamento e i giudici italiani. – 10. Il consolidamento e i giudici convenzionali. – 11. Il consolidamento in sé, oggi. – 12. Conclusioni. 0. I temi.

In questo scritto vorrei tentare di esporre alcune argomentazioni di taglio generale sul senso degli artt. 35, 35 bis e 35 ter dell’ordinamento penitenziario e sul rapporto tra il giudice italiano e la Corte europea dei diritti umani, per giungere a qualche riflessione finale su quello che non possiamo permetterci di perdere, da giuristi, quindi da persone.

Anticipo le due tesi principali. Da un lato, cercherò di ragionare circa la necessità di unificare in un unico contenitore le tre disposizioni appena citate. Con il risultato di permettere a ciascun detenuto, nel caso lamenti la violazione del senso di umanità della detenzione, di rivolgersi ad un giudice vero e proprio. Il connettore è l’art. 35 bis, entro il quale dovrebbero rifluire tanto il reclamo generico quanto quello riparatorio. Dall’altro lato, vi è il tema dei rapporti tra giudici, oggi disciplinati in modo insoddisfacente dall’art. 35 ter. Si evidenzierà, a tale proposito, la necessità di badare non al fondamento di autorità di una decisione, semmai al suo portato di valore. Peraltro, in un contesto culturale generale non qualsiasi, ma in quello neoliberista odierno.

( ) Il contributo, aggiornato al 15 dicembre 2018, riproduce, con alcune modificazioni, il testo destinato al volume La tutela preventiva e compensativa per violazione dei diritti dei detenuti, a cura di F. FIORENTIN, prefazione di P. Pinto de Albuquerque, Giappichelli, Torino, 2019, in corso di pubblicazione. Desidero ringraziare Fabio Fiorentin, Paolo Cendon, Lello Magi, Roberto Bin, Fabio Gianfilippi e Carlo Renoldi per la lettura e i suggerimenti. Un sentito ringraziamento anche al revisore anonimo di Diritto penale contemporaneo. In ogni caso, la responsabilità è solo di chi scrive.

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Voglio ad ogni modo preavvertire il lettore che sposo pressoché integralmente quel vecchio proverbio arabo, in base al quale non bisogna mai arrendersi perché si rischierebbe di farlo un’ora prima del miracolo. Il miracolo è cambiare prima di tutto il nostro approccio alla tematica penitenziaria. Solo così anche la società nel suo complesso può cambiare. E solo così può cambiare anche il carcere, che, oggi non meno di ieri, è lo specchio del nostro modo di essere, come individui e come società. PARTE PRIMA 1. Le briciole di pane in carcere.

Da dove partire? Da Sergej Dovlatov, uno scrittore russo che ci ha lasciato un racconto straordinario della sua esperienza come secondino in un carcere situato nella Repubblica autonoma dei Komi, ad ovest degli Urali. Siamo intorno alla fine degli anni cinquanta del Novecento. Le sue parole sono eccezionali, atemporali:

“Per la prima volta ho compreso cosa sia la libertà, la crudeltà, la violenza. Ho visto la libertà dietro le sbarre. Ho visto la crudeltà, insensata come la poesia. Ho visto la violenza, banale come l’umidità. Ho visto un uomo completamente ridotto allo stato animale. Ho visto di cosa poteva gioire. E, potrei dire, mi si sono aperti gli occhi”. L’importanza del vedere. La conosciamo. Esattamente, che cosa si è compreso? “In quella vita c’era di tutto. Lavoro, dignità, amore, depravazione, patriottismo, ricchezza, miseria. Là c’erano sottoproletari e parassiti, carrieristi e gaudenti, scialacquatori ed eversivi, funzionari e dissidenti. Tuttavia il contenuto di questi concetti era alterato in modo sostanziale. La gerarchia dei valori era stata radicalmente infranta. Quello che prima sembrava importante passava in secondo piano. L’orizzonte era occupato dalle piccole cose. Si era costituito un nuovo ordinamento di priorità vitali. Secondo questo ordinamento, venivano apprezzati in modo straordinario il cibo, il calore, la possibilità di evitare il lavoro. Le cose ordinarie divenivano preziose. Quelle preziose – irreali. Una cartolina da casa sconvolgeva. Un calabrone che entrasse dentro la baracca era un evento sensazionale. Un alterco col sorvegliante era recepito come una sfida intellettuale. Al regime speciale conoscevo un uomo che sognava di diventare taglia pane. Questo incarico comportava privilegi enormi. Chi lo otteneva era equiparato a Rotschild. Le briciole di pane erano come manciate di diamanti”. L’orizzonte di importanza è delle piccole cose. Le briciole di pane al pari di

manciate di diamanti. Altri esempi? “Ricordo questo episodio. Non lontano da Iosser i detenuti stavano scavando una trincea. Tra loro c’era uno svaligiatore, il cui cognome era Enin. Era quasi ora di pranzo. Enin aveva gettato con la pala l’ultima zolla. L’aveva sminuzzata con cura, poi si era chinato su un mucchietto di terra. I detenuti ammutoliti lo avevano attorniato. Enin aveva sollevato da terra un microscopico oggetto e lo aveva strofinato a lungo con la manica. Era un coccio di tazza non più grande di una monetina, su cui era ancora visibile il frammento di un disegno: una bambina con un vestitino azzurro. Era

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rimasta solo la spalla e la manica azzurra. Al detenuto si erano riempiti gli occhi di lacrime. Si era portato quel pezzetto di vetro alle labbra e aveva proferito piano: Spettacolo!”. A quali lidi approdava la sua nuova consapevolezza? “Ci sono due gerarchie etiche. Due sistemi di misura ideologici. Secondo il primo, il deportato è una figura sofferente, tragica, che merita passione e compassione. Il sorvegliante – di conseguenza è un mostro, un malfattore, l’incarnazione della crudeltà e della violenza. Secondo l’altro, il deportato è un essere raccapricciante, un’emanazione infernale. E il poliziotto, di conseguenza, è un eroe, un essere morale, una luminosa personalità creativa. Quando sono diventato sorvegliante, ero pronto a guardare al detenuto come a una vittima. E a me stesso come a uno squadrista e a un assassino. Cioè propendevo per il primo sistema di misura, quello più umanitario. (…). Dopo una settimana, di queste fantasie non c’era più traccia. Il primo sistema di misura si era rivelato del tutto falloso. Tanto più il secondo. (…) io avevo trovato una terza strada. Avevo rinvenuto una stupefacente somiglianza tra il campo di prigionia e il mondo libero. Tra i detenuti e i sorveglianti. (…). Da entrambi i lati della colonia penale si estendeva un unico mondo spietato. Parlavamo lo stesso linguaggio della mala. Cantavamo le stesse canzoni sentimentali. Subivamo le medesime privazioni. Persino il nostro aspetto fisico era identico. Ci rapavamo con la macchinetta. Le nostre facce corrose dalle intemperie erano cosparse di macchie rosse. I nostri stivali emanavano odore di stalla. Da lontano, le divise dei detenuti non si distinguevano dalle giubbe dei soldati. Eravamo molto simili e persino intercambiabili. Praticamente ogni prigioniero andava bene per assolvere alle mansioni di sorvegliante. Praticamente ogni sorvegliante si meritava la galera”. Certo che questo Dovlatov non era una persona qualunque: “Io non scrivo saggi fisiologici. E in generale non ho scritto sul carcere e sui detenuti. Ho voluto scrivere solo della vita e degli esseri umani. E non invito i miei lettori in un museo degli orrori. Ovviamente sa il cielo cosa avrei potuto mettere insieme. (…). Lo ripeto ancora una volta, a me interessa la vita, non il carcere. Gli esseri umani, non i mostri. (…). Ho sempre sognato di essere un allievo delle mie stesse idee. Può darsi che ci riuscirò in vecchiaia…”1.

2. Il senso degli artt. 35, 35 bis e 35 ter dell’ordinamento penitenziario.

Cinque passaggi, quelli riportati, che, messi insieme, risultano utilissimi per quanto intendo argomentare. Aiutano a guardare nel giusto modo la triplice alleanza, di cui all’art. 35, all’art. 35 bis e all’art. 35 ter dell’ordinamento penitenziario, destinata, nel lungo periodo, alla sicura sconfitta. Un insieme di cose differenti, nate in periodi molto diversi, che tuttavia parlano della nostra cultura giuridica, della sua difficoltà di comprendere una volta per sempre che in un carcere le briciole di pane sono come dei diamanti, che l’orizzonte di importanza è delle piccole cose.

L’art. 35 bis non sembra comprenderlo appieno. L’art. 35 ter è emergenziale, non adatto alla normalità, manifesta dubbi di costituzionalità. L’art. 35, a sua volta, è antistorico e pericoloso. Vediamo con ordine.

1 Cfr. S. DOVLATOV, Regime speciale. Appunti di un sorvegliante, a cura di L. Salmon, Sellerio, Palermo, 2002, rispettivamente, p. 23, p. 24, p. 25, p. 64-65 e p. 170-171 (ed. orig. Zona, 1982).

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3. L’art. 35 bis scinde ciò che non è scindibile.

Nel primo caso, l’art. 35 bis – quasi di certo in buona fede – scinde ciò che non è scindibile, i diritti da qualsiasi altra cosa non costituisca diritti. Il problema principale di questa disposizione non è da riscontrare nei requisiti della attualità e della gravità del pregiudizio, semmai nella impostazione secondo la quale esistono dei diritti, la cui tutela ricade sotto l’art. 35 bis e, allo stesso tempo, esistono altre cose, le quali, invece, non ricadono sotto la previsione dell’art. 35 bis. Esisterebbe un mondo di qua ed un mondo di là.

Non cerchiamo la migliore definizione a proposito di cosa può essere inserito nel mondo di qua e cosa nel mondo di là. Tentare non nuoce, ma lo scopo delle definizioni è definire. Se non definiscono, non servono. Come uscirne? Dal grande cielo stellato delle idee, mi catapulto (molto) volentieri nella piccola terra illune dei casi della vita.

Se a qualcuno piace farsi male, ma più che altro bene, consiglio la lettura dei rapporti del Comitato Internazionale della Croce Rossa, che non ha vinto per caso tre premi Nobel per la pace. Lì si trova davvero tutto quello che serve, considerando che si basano sulla visita ogni anno di una cosa come 500.000 detenuti, un numero cospicuo rispetto a tutti i detenuti al mondo, circa 10.000.000. In fondo, a differenza delle idee, delle quali ogni tanto possiamo anche essere a corto, i casi della vita non finiranno mai.

Potrei quindi fare decine, centinaia e migliaia di esempi. Ne scelgo solo due, per amore del lettore.

Primo esempio. Ad un detenuto viene trattenuta, da parte del carcere, la foto della propria madre. La persona traeva beneficio da questa foto, anche perché la madre era purtroppo defunta.

Perché il trattenimento? La foto misurava 18x15cm, mentre il regolamento interno del carcere prevedeva la possibilità di tenere foto della misura massima di 10x15cm. La foto sforava di 8 cm, non ho idea (nemmeno mi interessa) se in altezza o in larghezza. Il detenuto si rivolge al magistrato di sorveglianza, chiedendo la restituzione della foto, per lui funzionale alla cura del proprio diritto alla affettività.

Cosa fa il giudice? Quello che la legge gli permette di fare, ci mancherebbe. Classifica la domanda in termini di reclamo generico, sostenendo che non si era in presenza di alcun diritto. Mi fermo qui, aggiungendo solamente che, per fortuna, esiste sempre un giudice a Berlino, ossia in Piazza Cavour a Roma, che non chiude la questione, ma dice (bene) come deve muoversi il giudice2.

Ho detto quanto sia importante la lettura dei rapporti del Comitato Internazionale della Croce Rossa. Eppure, non penso di sbagliarmi, non ho mai letto in nessuno di questi rapporti, dettagliati all’inverosimile, che un detenuto deve poter tenere in cella la foto della madre defunta. Se si dicesse che è normale che sia così, si starebbe dicendo una cosa esatta, ma, allo stesso tempo, si finirebbe con il contestare 2 Si veda Cass., Sez. 1, 14 giugno 2017, n. 54117, Costa, e lo stimolante commento di F. DALLA CASA, Una foto “oversize” nella cella del detenuto? Se latita il buon senso, può supplire il reclamo ex art. 35-bis ord. penit., in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2018, p. 273 ss.

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l’art. 35 bis nel momento in cui utilizza le parole “diritto” e “diritti”, dando per scontato che esista qualcosa di altro, di diverso, qualcosa che non è un “diritto”, con tutte le conseguenze del caso3.

Intendiamoci ancora meglio. Non sto sostenendo che il giudice avrebbe dovuto dare ragione al detenuto. Con qualche acrobazia, avrebbe potuto sostenere che le misure massime di una foto servono per garantire l’ordine e la sicurezza interna ai penitenziari. Fatto l’usuale bilanciamento, tra questa esigenza e quanto il detenuto reclama, avrebbe potuto dichiarare il rigetto del ricorso.

Non è questo quello che fa il giudice. Intanto, sbaglia una prima volta poiché, se lo scopo era quello di indirizzare il detenuto al reclamo generico, avrebbe dovuto dichiarare la inammissibilità, non il rigetto. Soprattutto, commette un secondo errore, che in realtà (questo il punto) è prima di tutto un errore della legge, che parla di “diritto” e di “diritti” presupponendo l’esistenza di qualcosa di altro.

Vediamo il secondo esempio, il quale, a differenza del primo, si è risolto positivamente direttamente dinanzi al magistrato di sorveglianza, senza necessità di un intervento della Cassazione. A differenza del primo caso, in questo abbiamo qualche dettaglio in più. Un detenuto, di 71 anni, completamente cieco dall’occhio destro e gravemente ipovedente dal sinistro, si rivolge al magistrato di sorveglianza, sempre ai sensi dell’art. 35 bis, perché il carcere non ha risposto in alcun modo ad una sua richiesta.

Quale? Nella sua cella era installato un televisore, di 15 pollici, ad un’altezza di circa 1 metro e 70 cm. Date le sue condizioni era costretto, per vedere le immagini, a stare molto vicino al televisore. Con le conseguenze che ciascuno può facilmente comprendere: doveva tenere il collo completamente esteso all’indietro per tutta la durata della visione, assumendo una posizione del tutto innaturale e scomoda per qualsiasi persona, ancora di più per una persona della sua età. D’altro canto, sostiene il detenuto, in un precedente carcere la sua richiesta – spostare il televisore ad un’altezza più bassa – era stata accettata.

Durante l’istruttoria del magistrato, il carcere, finalmente, invia una nota. Il che è già indicativo, ma tralasciamo questo (non piccolo) dettaglio. Cosa dice la nota? L’installazione del televisore al muro è conforme alle prassi vigenti, non vi sono ostacoli che ne impediscono la visione e, in ogni caso, il televisore risulta visibile da qualsiasi punto della cella. Non finisce qui. Nella ulteriore memoria difensiva, il detenuto allega una nota del Garante dei detenuti locale, che aveva ispezionato la cella e verificato la situazione. Il Garante non solo conferma il problema, ma riporta l’osservazione che gli era stata fatta da personale del GOM: non si potevano praticare ulteriori fori nel muro, visto che era in cemento armato.

Ecco cosa decide il magistrato, particolare di non poco momento, che aveva dalla sua parte il parere del pubblico ministero, espressosi a favore dell’accoglimento del reclamo. Il giudice considera il reclamo fondato e lo accoglie. È del tutto irrilevante l’assenza di ostacoli davanti al televisore, poiché quello che importa è che, per vederlo,

3 Quando parlo dell’art. 35 bis lo faccio sempre riferendomi, salvo esplicita indicazione contraria, al combinato disposto tra l’art. 35 bis e l’art. 69, comma VI, lett. b).

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se fissato a quella altezza, bisogna per forza porsi, per ottenere un angolo visuale accettabile, ad una certa distanza. A meno che, precisa, si voglia stare sotto il televisore con il collo costantemente all’indietro, assumendo una posizione innaturale e scomodissima per chiunque, a maggior ragione per una persona anziana come il detenuto.

Inoltre, quasi facendosi beffa delle argomentazioni del GOM, il magistrato sostiene che, da un lato, anche il cemento armato può essere forato, magari è più difficoltoso farlo, ma di certo non è impossibile; dall’altro lato, anche a concordare sulla circostanza (che definisce improbabile) secondo la quale un nuovo foro comprometterebbe la sicurezza strutturale della parete, resta che esistono altre soluzioni per installare un televisore ad un muro, essendo oggi disponibili sul mercato molti prodotti ad hoc. Il finale è commovente: il giudice tra parentesi riporta che il detenuto si era reso disponibile a sostenere eventuali spese4.

Il nostro secondo caso si è concluso nel migliore dei modi. Almeno, tale è la mia valutazione. Ma non è questo il punto. E se il magistrato avesse detto che il reclamo non riguardava alcun diritto e che, di conseguenza, andava semmai riproposto sotto forma di reclamo generico? Non importa indagare come il giudice avrebbe potuto argomentare in questo modo. Quello che rileva è mettere in risalto che l’art. 35 bis ammette questa possibilità, visto che esistono diritti che sono diversi da qualche cosa che diritto non è.

A differenza del primo caso, quello della foto della madre defunta, nel quale si chiama in causa il diritto alla affettività, in questo secondo, invece, in nessuna parte della motivazione del magistrato si fa riferimento ad un qualche diritto del detenuto. Zero, non si dice alcunché. La parola “diritto” non compare. Non si richiama il diritto alla salute. Non si fa riferimento al diritto di conformare la dimora secondo elementari esigenze di vita. Niente, nulla si dice5.

Perché il giudice non parla in alcun modo di alcun diritto? È forse indice del nostro problema: se il giudice si fosse avventurato alla ricerca di cosa è diritto e di cosa non è diritto, il risultato sarebbe anche potuto essere differente. Qui sta il maggior problema dell’art. 35 bis. Il suo merito è quello di aver finalmente considerato il detenuto come qualsiasi altro essere umano, il quale, se non ha la possibilità di rivolgersi ad un giudice vero e proprio, rischia di avere le peggiori gratificazioni, quelle che rimangono sulla carta. Ci torneremo. Non di meno, se in un carcere le briciole di pane contano come dei diamanti, il legislatore avrebbe dovuto usare più cautela: queste benedette briciole di pane cosa sono, diritti o altro? Da che parte stanno, nel paradiso dell’art. 35 bis, nell’inferno dell’art. 35 o nel purgatorio ex art. 35 ter?

4 Magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia, ordinanza n. 958, 17 maggio 2017, Madonia (SIUS 2016/3814). 5 La questione è spinosa. Non posso qui fermarmi. Sarei però cauto nel definire la cella al pari di un luogo aperto al pubblico. Non mi interessa l’evidente ossimoro, guardo alla sostanza del problema. Non sarà la classica dimora privata, ma forse ci sono gli elementi per considerare la cella un luogo privato sui generis, poiché contornato da garanzie specifiche, che problematicizzano il criterio dell’apertura ad una quantità indeterminata di persone, per il giudice di legittimità alla base della tesi della cella quale luogo aperto al pubblico (così, da ultimo, Cassazione penale, Sez. V, n. 26028, 15 maggio 2018, D.R.G.).

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4. L’art. 35 ter non ha progettualità.

Vediamo ora quest’ultimo, l’art. 35 ter. Oserei definire questa disposizione senza progettualità. Forse è normale che sia così, visto che è nata avendo in mente solo l’immediato placebo di non dover di continuo rispondere delle violazioni evidenziate dalla Corte di Strasburgo. Lo so bene che si era in emergenza e che conviene adeguarsi alle decisioni di Strasburgo, altrimenti si finisce con il dover sborsare non pochi soldi.

Tuttavia – posto che Torreggiani ce la siamo cercata, nemmeno troppo arrossendo di vergogna quando è arrivata – non esiste mai un solo modo di adeguarsi ad una sentenza di Strasburgo, tranne il caso, rarissimo, nel quale è indicato uno specifico obbligo di fare6.

Potevamo quindi adeguarci a Torreggiani in modi differenti. Qualunque avessimo scelto, avremmo dovuto metterci dentro progettualità. L’art. 35 ter non pensa al medio-lungo periodo. Non ha futuro, manca di progettualità. Punta il binocolo solo verso i giudici che risiedono a Strasburgo, ritraendolo quando si tratta di considerare i giudici italiani di sorveglianza, di legittimità e pure costituzionali.

Che cosa significa che il magistrato di sorveglianza “dispone” (si badi: non “può disporre”) una riduzione di pena o una determinata somma di denaro quando si sono verificate delle condizioni di detenzione tali da violare l’art. 3 della Convenzione “come interpretato” dalla Corte europea dei diritti dell’uomo? Siamo alle prese, è innegabile, con una anomala disposizione. Difficile da definire. Utilizzerei con cautela il termine rinvio mobile. A me sembra molto fisso. Il rinvio del quale parliamo ricorda quelle cose che, da qualunque parte le si guardi, risultano indigeste. Girate in un verso, creano problemi di utilità. Girate nell’altro, ingenerano problemi di costituzionalità. Non proprio il massimo. 4.1. I dubbi di utilità.

Iniziamo dai problemi di utilità. Perché alla lunga il rinvio potrebbe rivelarsi una previsione poco utile? Direi che il legislatore, prima di scrivere una cosa del genere, mai scritta prima, nemmeno nella legge Pinto, avrebbe dovuto considerare almeno tre cose.

6 Lo Stato deve scarcerare il ricorrente, punto e basta. In questo specifico caso, vi è poco da fare: alla fine, se non ti adegui, significa che accetti di uscire dal sistema, come sta avvenendo nei confronti del primo paese per il quale è stata approvata la procedura della bomba atomica, proprio in riferimento al diktat di Strasburgo che ha ordinato al paese di scarcerare una persona, senza mai ottenere nulla dallo Stato. Per la prima volta nella storia del sistema convenzionale, il Comitato dei Ministri ha attivato la procedura di cui all’art. 46 § 4 della Convenzione, introdotta nel 2010. Il Comitato ha domandato alla Corte di valutare se lo Stato ha adempiuto all’obbligo di rispettare/conformarsi (to abide, se conformer) ad una sentenza finale/definitiva (final, définitif) della Corte. La richiesta del Comitato dei Ministri del 5 dicembre 2017 è stata ricevuta dalla Corte sei giorni dopo (11 dicembre). Spetterà alla Grande Camera adottare la storica sentenza (anche in ipotesi tenendo udienza pubblica), propiziata (importante ricordarlo) dalla mancata esecuzione di una sentenza di Camera (Ilgar Mammadov v. Azerbaijan, I Sez., 22 maggio 2014, definitiva 13.10.2014, unanime).

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Elementari, pratiche, quindi essenziali. Mi si perdoni la franchezza, ma i problemi sono seri. Ecco cosa il legislatore non ha considerato:

1) che il concorso per diventare magistrati non prevede di superare l’esame né di lingua inglese né di lingua francese; questo è un primo problema, dal momento in cui le sentenze della Corte di Strasburgo sono redatte in inglese o in francese, essendo solo quelle di Grande Camera redatte in entrambe le lingue; per esaudire al comando legislativo, il giudice italiano deve sapere (direi molto bene) sia l’inglese sia il francese; iniziando dalla laurea in giurisprudenza, per conseguire la quale si deve fare solo un minuscolo esame di una sola lingua straniera (tre crediti su trecento totali), finendo con il concorso in magistratura, la domanda è: noi prepariamo e valutiamo persone che vogliono fare i giudici anche in termini di conoscenza della lingua inglese e di quella francese? Non sto proponendo né l’innalzamento dei crediti per la lingua ai fini di conseguire la laurea né l’introduzione dell’esame di lingua per il superamento del concorso. Quello che voglio dire è che il legislatore, con un rinvio del tipo di quello dell’art. 35 ter, presuppone un sistema di formazione dei magistrati che non è quello attualmente esistente; se la corte cui il legislatore rinvia fosse quella del Lussemburgo saremmo a posto, ma così non è;

2) che non esiste una fonte di cognizione ufficiale nella quale reperire tutte le sentenze e le decisioni della Corte, né in generale né tanto meno sull’art. 3 della Convenzione; quando dico fonte di cognizione ufficiale non per forza mi riferisco ad una edizione cartacea, anzi; il punto è che HUDOC è un database, ottimo, non vi è dubbio, ma come tutti i database per forza di cose è differente da una fonte di cognizione ufficiale; in altri termini, il legislatore è come se dicesse al giudice italiano che, ogni volta un detenuto gli rivolge un’istanza ai sensi dell’art. 35 ter, egli (il giudice) deve sapere utilizzare in modo accurato il database presente nel sito internet della Corte di Strasburgo; anche se lo sapesse fare (esiste una qualche formazione obbligatoria permanente in tal senso?), torneremmo punto a capo: in quel database compaiono sì tutte le sentenze, ma solo “a large selection” delle decisioni; non compaiono da nessuna parte le decisioni adottate dal giudice unico (sarebbe importante conoscerle, almeno a fini statistici), così come compaiono le decisioni di comitato solo a partire da quelle adottate dopo l’aprile 2010; allora il legislatore avrebbe dovuto riferirsi unicamente alle sentenze, gli unici provvedimenti che di certo si trovano in HUDOC; questo il punto: se il giudice vuole fare il suo mestiere, che, nel minimo, significa essere soggetto alla legge (al nostro art. 35 ter e al suo rinvio), deve frequentare corsi di lingua di livello avanzato e deve frequentare corsi di formazione per utilizzare HUDOC, immagino il tutto (prevalentemente) a sue spese7; 7 Lo sforzo della Corte per potenziare e migliorare HUDOC è fuori discussione. E, infatti, il problema non è suo, ma del nostro legislatore, che prima di inventarsi un rinvio come quello dell’art. 35 ter avrebbe dovuto riflettere circa la possibilità di ritrovare in HUDOC tutti i provvedimenti che possono servire alla bisogna al giudice italiano, così come i non pochi problemi che possono sorgere nel momento in cui si utilizza HUDOC senza una preventiva adeguata preparazione. Quanto al problema linguistico, lascio la parola a Roberto Conti, che di certo non è un giudice (di legittimità) poco frequentatore della giurisprudenza convenzionale: “L’acquisizione di un ruolo nuovo impone, prima di ogni cosa, l’individuazione di linee formative che consentano a quell’operatore di espletare nel miglior modo possibile le funzioni allo stesso demandate dalla

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3) diamo per minori i primi due problemi, anche se qualsiasi giudice sa bene che in realtà non sono minori; passiamo a considerare un terzo aspetto, sempre riguardante l’utilità del rinvio ex art. 35 ter: il legislatore davvero pensava che ogni giudice italiano di sorveglianza potesse – realmente, veramente, ogni volta – affrontare un problema postogli da un detenuto comprendendo se vi è giurisprudenza convenzionale in base alla quale considerare o meno la violazione dell’art. 3 della Convenzione? Mi sembra che la stessa domanda può porsi in riferimento al giudice di legittimità, nel momento in cui un ricorso contesta la violazione di legge: in sede di sorveglianza non si è disposto il rimedio, nonostante la presenza di una determinata giurisprudenza convenzionale, che il giudice non ha considerato, quando invece avrebbe dovuto (per legge) farlo8.

Altro che giudici Ercole. Il legislatore aveva in mente un giudice impossibile. Ed il problema è che, anche se non è questo che aveva in mente, è quello che ha scritto nell’art. 35 ter: il giudice dispone il rimedio se riscontra violazione dell’art. 3 della Convenzione come interpretato dalla Corte di Strasburgo.

Il legislatore sapeva che l’art. 3 è come se dicesse che la dignità umana è inviolabile? Aveva contezza del fatto che dentro l’art. 3 e dentro quindi la dignità umana vi è davvero di tutto, ogni problema che una persona detenuta in un carcere, sotto una giurisdizione di uno Stato membro del Consiglio d’Europa, ha deciso di portare all’attenzione della Corte? Lo sapeva il legislatore che negli Stati del Consiglio d’Europa sono detenuti un milione e mezzo di persone? E certo era verificabile che la Corte di Strasburgo non era più la corte del solo equo processo, ma era ormai diventata la corte dei detenuti europei e dei problemi delle carceri europee. Per quale motivo il legislatore non ha fatto nessun tipo di specificazione? Visto che c’era, perché non ha pensato a qualche limite, ad esempio in riferimento allo Stato resistente, ad una pronuncia emessa dalla Grande Camera, solo per fare due esempi? Sarebbero stati esempi da criticare, ma almeno avrebbero dimostrato che il legislatore, conscio del problema, aveva pensato ad una sorta di perimetro dentro il quale i giudici italiani potevano lavorare. Sempre un legge. È venuto il momento di fornire ai giudici nazionali la traduzione di tutte le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo” (cfr. R. CONTI, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Aracne, Roma, 2011, p. 507). Lo sfogo di Roberto Conti ha tutte le ragioni del mondo. Ma resta che il sistema messo in piedi dall’art. 35 ter, se vuole davvero funzionare come lo ha scritto il legislatore, implica che si debba conoscere (direi bene) la lingua inglese e la lingua francese. Potremmo aspirare ad avere tradotte in italiano, entro un ragionevole periodo di tempo, moltissime sentenze. Dubito però che ci siano le risorse per tradurre tutte le sentenze, si dovranno per forza di cose concentrare gli sforzi su quelle con parte resistente il nostro paese. Ecco quindi che, anche nella migliore delle ipotesi, il nostro problema non si risolve e, mi permetto di dire, potrebbe anche compromettersi: non è che averle tradotte in italiano diventerà un invito irresistibile per il giudice, che deciderà di concentrarsi solo su quelle rivolte al nostro paese? 8 A prima vista, il compito della Cassazione è meno gravoso, ma forse si tratta solo di una impressione. In sorveglianza si sono richiamate cinque sentenze di Strasburgo. Il reclamante si era invece riferito ad altre sette. Nel momento in cui la sorveglianza nega il rimedio, l’eventuale ricorso in Cassazione chiederà di verificare se il giudice ha violato o meno la legge. L’art. 35 ter, la legge nel nostro caso, prevede che il giudice dispone il rimedio se constata violazione dell’art. 3 come interpretato dalla Corte di Strasburgo. Siamo sicuri che il giudice di legittimità abbia un compito meno arduo di quello della sorveglianza? La Cassazione potrebbe benissimo partire dalle cinque sentenze esaminate dalla sorveglianza, verificare le altre sette alle quali si riferisce il ricorrente, ma nulla nega che, per argomentare a favore o meno del ricorso, si rifaccia lei stessa ad altre sentenze della Corte di Strasburgo.

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lavoro immane, ma almeno perimetrato. Invece, è come se il legislatore dicesse: me ne lavo le mani, ci pensino i giudici.

Questo significa disegnare una disposizione legislativa senza progettualità. Una disposizione che evidenzia fortissimi dubbi quanto alla sua utilità. E se un giudice italiano conosce solo l’inglese e non il francese? E se invece è bravissimo con il francese, meno con l’inglese? E se si perde qualcosa nella non facilissima ricerca giurisprudenziale in HUDOC? Non è che il giudice italiano, una volta resosi conto dell’ampiezza dell’oceano nel quale il legislatore gli ha ordinato di nuotare, finisce con l’arrendersi, gettando la spugna?

Capita diverse volte. Si passano ore a fare ricerca giurisprudenziale. Non si trova nulla. Se si è testardi, si riprende la ricerca e le ore si accumulano, a volte diventano, senza accorgersene, giorni. Cosa fa lo studioso a questo punto? Getta la spugna e, in una nota a piè di pagina, scrive di non essere riuscito nell’impresa di trovare un precedente specifico nella giurisprudenza convenzionale. Non è il massimo, ma è accettabile. Laddove non arriva la cocciutaggine, supplisce la trasparenza.

Ma il nostro povero giudice, è il caso di lasciarlo in quel modo, siamo veramente sicuri che possa realmente fare quello che spesso non riesce a fare un normalissimo studioso? Bene che vada, getta in fretta la spugna, non è che può stare tre giorni interi a cercare il caso che gli risolverebbe tutti i problemi. Male che vada, non si butta nemmeno in questo oceano giurisprudenziale. E ci credo: nessuno gli ha insegnato a nuotare, ad un certo momento penserà anche alla sua sopravvivenza. Una bella disposizione finale del decreto legge che ha introdotto l’art. 35 ter avrebbe dovuto assegnare ad ogni magistrato di sorveglianza italiano almeno cinque tirocinanti, da impiegare come minatori alla ricerca dell’oro. Ottima idea, ma è proprio la sorveglianza il luogo nel quale non è poi così semplice mandare una persona a fare tirocinio.

Se venisse in mente di introdurre un filtro, per il quale il giudice deve riferirsi alla giurisprudenza convenzionale consolidata, si dovrebbe essere consci dei problemi, che non mi pare proprio riescano a diminuire grazie al test del consolidamento. Ogni cosa a suo tempo, tornerò sul punto nella parte seconda. Qui dico unicamente che, in generale e nello specifico per quanto riguarda l’art. 35 ter, è necessario pensare a qualche utile supporto per i giudici italiani. Non si tratta di limitare l’entrata nel nostro ordinamento della giurisprudenza convenzionale. Piuttosto, di fornire qualche cartina utile per permettere al giudice italiano di orientarsi in quello che è a tutti gli effetti un vastissimo oceano di casi, uno inevitabilmente differente da un altro. 4.2. A cosa è soggetto il giudice?

Ciò che tuttavia rende l’art. 35 ter una disposizione problematica nel lungo

periodo è la sua dubbia costituzionalità. Che poi è un altro modo per dire che manca di progettualità.

In un caso, un dubbio di costituzionalità non semplice da costruire. Mi accontento di segnalare il problema. In un altro caso, invece, spero che presto andrà all’attenzione della Corte costituzionale, alla quale spetta il compito di sciogliere i dubbi

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di costituzionalità, in assenza di qualsivoglia possibilità di interpretazioni costituzionalmente orientate.

Il primo caso. Se il giudice è soggetto soltanto alla legge (art. 101, II comma, Cost.) e se una legge dice che il giudice dispone una determinata cosa quando la detenzione ha violato l’art. 3 della Convenzione come interpretato dalla Corte di Strasburgo (art. 35 ter), non siamo in presenza di un problema di inquadramento costituzionale? Avrei difficoltà nel costruire un vero e proprio dubbio di costituzionalità, ma il problema esiste.

Vale sostenere che è pur sempre la legge che assoggetta il giudice italiano a quello che dice il giudice di Strasburgo? Non saprei. Pensiamoci bene: se una legge potesse dire che un giudice è soggetto ad un altro giudice, cosa rimarrebbe della (costituzionale) soggezione del giudice soltanto alla legge? Così come non saprei se il nuovo ruolo delle Sezioni Unite della Cassazione rispetto alle Sezioni si possa inquadrare perfettamente nella cornice costituzionale, così, allo stesso modo, mi limito ad evidenziare il problema del rapporto tra il giudice italiano e quello di Strasburgo, per come disegnato dall’art. 35 ter. Che, ridotto all’osso, è questo: una legge può, senza violare la Costituzione, disporre che un giudice è soggetto a quello che dice un altro giudice, qualsiasi altro giudice, nel nostro caso con sede a Strasburgo? 4.3. La fissità incostituzionale.

Esiste un secondo problema, rispetto al quale mi sembra agevole costruire un

dubbio di costituzionalità non manifestamente infondato. Mi riferisco, ovviamente, alla fissità dei rimedi previsti dall’art. 35 ter. Una riduzione di pena di un giorno per ogni dieci nei quali la persona ha subito il pregiudizio, otto euro per ciascuna giornata nella quale si è subito il pregiudizio. Non contesto politicamente la quantità, dubito costituzionalmente della fissità.

Siamo al cospetto di due previsioni di dubbia costituzionalità per almeno tre motivi. Al lettore considerare se la dubbia costituzionalità riguarda solo articoli della nostra Costituzione oppure può riferirsi, grazie al ponte del I comma dell’art. 117 Cost., anche ad articoli della Convenzione:

1) l’ammontare del rimedio, se fisso, non può essere individualizzato, quindi non può considerare la concreta situazione nella quale si trovava o si trova la persona;

2) l’ammontare del rimedio, se fisso, non può tenere in considerazione l’eventualità che la persona lamenti non uno, ma più pregiudizi;

3) l’ammontare del rimedio, se fisso, non valuta lo scopo rieducativo della pena: detenere una persona in condizioni inumane e degradanti significa stoppare, per un determinato periodo, il programma trattamentale; di conseguenza, essendo il programma un progetto di sviluppo della personalità, ogni sua interruzione merita di essere valutata (almeno) a seconda di quando è avvenuta e dei riflessi, specifici e generali, sull’intero progetto trattamentale.

Solo tre esempi, uno per ciascuno dei tre dubbi di costituzionalità:

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1) se il rimedio è fisso, non può tenere in considerazione l’età della persona che ha subito il pregiudizio, così come valuterà in modo identico un pregiudizio sofferto per tre mesi rispetto ad uno subito per tre anni; che forse un pregiudizio subito da un ventenne è uguale a quello subito da un cinquantenne e un pregiudizio di tre mesi è uguale ad uno di tre anni?

2) se il rimedio è fisso, non può dare il giusto peso a ciascun pregiudizio, dal momento che stare in una cella senza luce naturale non è la stessa cosa che stare in una cella senza luce naturale, senza ventilazione, con la compagnia di qualche topo, potendo al massimo consumare pasti del tutto inadeguati sotto il punto di vista dell’apporto proteico e vitaminico;

3) se il rimedio è fisso, si finisce con il non considerare la diversa gravità del pregiudizio a seconda che occorra verso l’inizio, durante o verso la fine del programma-progetto trattamentale; se è giusto riservare una particolare attenzione alle fasi iniziali (rischio suicidio) e finali della detenzione (rischio libertà), non è allo stesso modo giusto considerare in modo differente le ipotesi di trattamenti inumani e degradanti?

Spero che a questi interrogativi prima o poi possa rispondere la Corte costituzionale. Ma il punto che qui interessa non è cosa potrebbe decidere la Corte, se decidesse di entrare nel merito. Quello che rileva è evidenziare, ancora una volta, il fiato corto della disposizione di cui all’art. 35 ter. Ben più lungimiranza avrebbe dimostrato il legislatore prendendo in considerazione quello che forse è l’unico caso in qualche modo confrontabile con il rimedio per trattamento inumano e degradante: il danno esistenziale, declinato in termini biologici o abiologici a seconda dei casi. È fisso? No. Perché no? Perché non lo potrebbe essere. Un danno esistenziale fisso sarebbe una mostruosa e aberrante contraddizione. Vorrebbe dire che una persona non è diversa da un’altra persona. Il nostro progetto di vita e la nostra attività realizzatrice sono interrotti se subiamo un danno esistenziale, così come lo sono, nel momento in cui patisce un trattamento inumano e degradante, il progetto di vita e quello trattamentale di una persona ristretta. Bella soluzione inumana quella di risarcire in modo fisso un trattamento inumano9.

9 Guardare al danno esistenziale aiuta anche a comprendere che i problemi dei detenuti non riguardano solo la salute psico-fisica (art. 32 Cost.), ma anche gli ostacoli che ne impediscono il pieno sviluppo della personalità (art. 3.2 Cost.). Il che significa una forte responsabilizzazione in capo ai giudici, ai periti, agli avvocati. Grazie al danno esistenziale, biologico e abiologico, la responsabilità civile, nel solco della Costituzione, è andata sempre più antropologizzandosi. Allo stesso modo, nel solco costituzionale dovrebbe andare il rimedio ex art. 35 ter, anche in questo caso mettendo al centro l’essere umano e le sue condizioni esistenziali. Devo molto a Paolo Cendon per questi spunti, del quale si veda almeno P. CENDON, Il corpo, l’esistenza, il dolore, in Resp. civ. e prev., 12/2010, p. 2420 ss. e ora ID., I diritti dei più fragili. Storie per curare e riparare i danni esistenziali, Rizzoli, Milano, 2018. Sottolineo che il riferimento al danno esistenziale potrebbe quanto meno problematicizzare l’assenza di rime obbligate evidenziabile dalla Corte costituzionale a fronte della fissità del 35 ter. Siamo sicuri che le scelte siano moltissime e che il legislatore sarebbe libero di decidere come meglio crede? Inoltre, non mi sembra che il danno esistenziale sia una sorta di proprietà privata del giudice civile: a quello ci si dovrebbe ispirare, ma poi sarà la sorveglianza a costruirne le coordinate di riferimento, che non per forza dovranno condurre al sistema tabellare. Si potrebbe discutere di devolvere tutto il problema del risarcimento al giudice civile, tuttavia non penso sia la soluzione ottimale, che è invece quella di concentrare nel giudice della sorveglianza il giudice dei detenuti.

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5. L’art. 35 è antistorico e pericoloso.

Infine, scrutiamo l’art. 35 per così dire secco, quello che esiste dal 1975. Siamo alle prese con una disposizione che, nulla aggiungendo, è indice di una determinata concezione della persona sottoposta a restrizione di libertà. Una concezione che non ci vuole abbandonare. Considero l’art. 35 antistorico perché aveva (quasi) un senso circa mezzo secolo fa, mentre, oggi, non ne ha più alcuno, anzi è pericoloso.

La rubrica di un articolo, anche se non può ritenersi da sola risolutiva per sciogliere taluni nodi interpretativi, è sempre un interessante punto di partenza. Cosa significa “diritto di reclamo”, che è il titolo dell’art. 35, scritto nel 1975 e ancora oggi non modificato?

Non è forse vero che dal 1 gennaio 1948 ogni essere umano detiene questo diritto? Non è forse vero che appare niente di altro che una ripetizione del diritto di ogni persona di manifestare liberamente il proprio pensiero? Diciamo che reclamare significa gridare, protestare, lagnarsi. A me piace la via di mezzo: protestare. Che si debba scrivere nero su bianco in una legge che il detenuto ha il diritto di protestare non è di poca rilevanza. Forse nel 1975 aveva un senso perché eravamo purtroppo ancora all’anno zero, oggi, invece, assomiglia più che altro ad un titolo simbolico, quasi pubblicitario. In altri termini: inutile10.

Questo reclamo il detenuto a chi lo può rivolgere? Le istanze o reclami, orali e scritti (in questo secondo caso, anche in busta chiusa, precisa il legislatore…), potevano essere rivolti, nella formulazione originaria, a cinque categorie di destinatari: 1) al direttore dell’istituto, nonché agli ispettori, al direttore generale per gli istituti di prevenzione e di pena e al Ministro di grazia e giustizia; 2) al magistrato di sorveglianza; 3) alle autorità giudiziarie e sanitarie in visita all’istituto; 4) al presidente della Giunta regionale; ed, infine, 5) al Capo dello Stato.

Nella sua formulazione attuale – risultante dalle modifiche introdotte dal d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modifiche dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10, siamo quindi immediatamente dopo Torreggiani – l’elenco è stato arricchito, introducendo tra i destinatari anche il Garante nazionale e i Garanti regionali o locali dei diritti dei detenuti11. Non difficile sostenere che l’aggiunta del Garante nazionale e dei Garanti regionali o locali poteva anche omettersi: anche a questo servono, ad accogliere la voce protestante dei detenuti. Vero che la modifica può risultare importante per comprendere le attribuzioni dei Garanti regionali o locali, ma se il problema sono i colloqui dei

10 Nella lingua inglese, il reclamo è il claim, una richiesta, che tuttavia, come termine, deve la sua fortuna all’erompere delle moderne tecniche manipolative della pubblicità e del marketing. In effetti, il claim altro non è che una promessa fatta ai consumatori e ai clienti nel corso di una campagna pubblicitaria o di un accordo commerciale. 11 Sono apportate lievi modifiche nominative: scompaiono gli ispettori e compare il provveditore regionale, si sostituisce il direttore generale degli istituti di prevenzione e di pena con il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al Ministro di grazia e giustizia succede il Ministro della giustizia.

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detenuti al carcere duro penso che la previsione dell’art. 35 da sola non possa essere risolutiva.

Quello che voglio dire è questo. Nella logica di fondo dell’art. 35 risiede una duplice prospettiva pericolosa. Da una parte, è come se alimentasse qualcosa che avrebbe bisogno di essere abbandonato. Se nel 1975 poteva anche apparire “a difesa dei detenuti”, oggi a me sembra che prevedere una disciplina specifica sul diritto di reclamo generico aiuti unicamente coloro che pensano che la detenzione, oltre alla libertà personale, possa (e debba) limitare anche altro. Non vale rispondere che è solo una previsione che procedimentalizza l’effettività di un diritto.

Infatti, dall’altra parte, l’art. 35 legittima la tesi che per “alcune cose” esiste una via e per “altre” una differente. Il fatto che ancora esista l’art. 35 autorizza i giudici a ritenere che per alcune cose al detenuto è dato di rivolgersi al direttore del carcere, mentre per altre al giudice. Se al detenuto è sequestrata una foto della madre defunta, perché eccede di pochi centimetri le misure massime consentite dal regolamento del carcere, ecco che la via giusta da seguire è il reclamo generico: la sua voce protestante, la sua irresistibile penna devono essere rivolte al direttore del carcere, al provveditore, al capo del DAP; se è fortunato, potrà approfittarne e confrontarsi con le autorità giudiziarie e sanitarie in visita; in ogni caso, ci sono sempre i Garanti, così come il presidente della Giunta regionale; e proprio per non farsi mancare nulla, potrebbe scrivere anche al Capo dello Stato, coinvolgendolo in quello che per il detenuto è un dramma, non poter vedere la madre morta nemmeno in una foto, non gigantesca, ma di misure normalissime. Cosa volete che abbia da fare di altro il Capo dello Stato…

Rimane scoperto un solo destinatario: il magistrato di sorveglianza. Tuttavia, il fatto che sia compreso tra i destinatari del reclamo generico aggrava la questione. Ma che senso ha potersi rivolgere ad un giudice e ottenere da un giudice quello che si potrebbe ottenere dal direttore del carcere o per immensa fortuna dal Capo dello Stato?

Per forza poi la magistratura di sorveglianza è sentita (e forse anche vissuta da alcuni diretti interessati) come una sorta di giurisdizione di seconda categoria, una sorta di giurisdizione amministrativa penitenziaria. Sta progressivamente facendosi spazio, questa magistratura di sorveglianza. Ma non è ancora una giurisdizione di serie A! Un pensiero folle, ma è vero o no che la filosofia di fondo dell’art. 35, passata immune anche dopo Torreggiani, è del tutto insufficiente, anzi indicativa di come il nostro ordinamento guarda al mondo del carcere, dei detenuti e dei magistrati che devono garantire l’umanità della detenzione?

Qualcuno potrebbe sensatamente negare ad un detenuto di scrivere al Capo dello Stato in una busta…chiusa? Vi è bisogno di scriverlo nero su bianco? L’affermazione legislativa di un ovvio costituzionale rischia di compromettere le tutele che spettano al detenuto: se il problema è risolvibile dal direttore del carcere, non è che serve dire che il detenuto può rivolgersi al direttore del carcere, quello che conta è dare la possibilità al detenuto di potersi rivolgere ad un giudice, il quale deve avere determinati poteri per obbligare il direttore a rimediare la protesta12.

12 Si potrebbe sostenere che il 35 secco ha un suo residuale senso. Questo: quello di evitare una marea di

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Tutti sappiamo benissimo che, se il detenuto si rivolge al magistrato, utilizzando l’art. 35 secco, la situazione che si produce è davvero ai limiti della tolleranza: nessun obbligo di risposta in caso di accoglimento del reclamo, nessuna possibilità di impugnazione, nessun contraddittorio, niente, lo zero più assoluto, un deserto che non va riempito, ma va cancellato, per concentrarsi sulla vera disposizione importante, quella di cui all’art. 35 bis. 6. Una proposta: unificare i reclami, proteggere le persone.

Cerchiamo ora di riavvolgere i fili del discorso fin qui avanzato. Come ho detto in apertura, lo scopo che mi sono prefissato è quello di svolgere delle argomentazioni di taglio generale. Tengo fede a questo impegno, tuttavia devo anche dire che non riesco a costruire una griglia di ipotesi che dovrebbero ricadere sotto il reclamo generico, quasi a giustificarne l’esistenza. Davvero non riesco a comprendere il motivo per il quale, anche a fronte di un’aspettativa di mero fatto – del tipo di quelle che provocano una risata da parte di molti – si debba prevedere che a rispondere ad un detenuto sia un soggetto che giudice non è (il direttore, il provveditore, il Presidente della Giunta regionale, il Capo dello Stato, il Garante) o un giudice ma solo con una procedura, come si dice, de plano. Il detenuto ha di fronte un non giudice o un quasi giudice.

Perché, se un detenuto si lamenta del fatto che i colloqui con i famigliari non sono calendarizzati, noi dovremmo affidare la risposta a questa lamentela ad un giudice che adotta una procedura de plano, che significa in un deserto di garanzie? Siamo forse certi che si tratti di una aspettativa di mero fatto o comprendiamo benissimo che, in realtà, può essere un momento fondamentale del programma-progetto trattamentale e quindi della rieducazione come scopo della detenzione? Non ho la soluzione, dico solo che la risposta la dovrebbe dare un giudice, il giudice di cui all’art. 35 bis, depurato dal riferimento ai soli diritti. Perché noi dobbiamo in partenza pensare che esista qualcosa di mero fatto e qualcosa che invece è diritto? La conseguenza, affidare il primo caso a organi non giurisdizionali o a giudici che non sembrano giudici, che lavorano de plano, mentre il secondo caso ad un vero e proprio giudice, viene da sé.

Quello che veramente serve è un diverso approccio in termini generali. Altrimenti poi rimaniamo meravigliati quando un giudice coraggioso, questa volta di legittimità, ha detto una cosa semplicemente sacrosanta, in merito all’onore della prova dentro il perimetro dell’art. 35 ter. Se un detenuto presentava un reclamo, se il giudice chiedeva conto all’amministrazione e se l’amministrazione non rispondeva, è mai possibile che la soluzione era che il reclamo andava rigettato? Il nostro problema è di

iscrizioni di reclami ex art. 35 bis, anche laddove i problemi evidenziati sono davvero bagatellari, risolvibili per le vie brevi dal carcere. Il giudice chiede chiarimenti al carcere e il problema riesce in fretta a risolversi. Vero, si tratta di un beneficio non trascurabile. Tuttavia, non è forse vero che, anche senza la formale presenza dell’art. 35 secco, il magistrato potrebbe benissimo fare le sue interlocuzioni con il direttore del carcere? Io pensi di sì, bastando a tale proposito il ruolo generale che la legge assegna alla magistratura di sorveglianza.

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approccio generale13. Dobbiamo sforzarci affinché le decisioni del magistrato di sorveglianza siano eseguite. Non dobbiamo ingegnarci per impedire che il magistrato possa fare appieno il proprio mestiere!

In una delle più importanti decisioni delle Sezioni Unite della Cassazione, riguardanti i nostri problemi, vi è un passaggio molto significativo. Mi riferisco a Sezioni Unite, n. 25079, 26 febbraio 2003, Gianni. Ecco cosa dicono le Sezioni Unite, ai §§ 8 e 9.

Per quale motivo il caso che si andrà a risolvere merita di essere inquadrato rispetto ai soli colloqui visivi e telefonici? La domanda che le Sezioni Unite si pongono serve perché le stesse Sezioni Unite ritengono “davvero indispensabile” dissipare ogni equivoco circa la prospettabilità nel sistema di un’indiscriminata attività “sostitutiva” (le virgolette sono delle Sezioni Unite) da parte del giudice nell’ambito della normale gestione della vita in istituto.

Per quale motivo si vuole dissipare ogni equivoco? Per due motivi. Se la Cassazione andasse oltre, riferendosi a situazioni nelle quali non è in discussione una posizione soggettiva tutelabile da un giudice, si correrebbe il rischio di 1) “immobilizzare l’attività amministrativa” e 2) di “cancellare un modello”, quello del reclamo generico, il quale, fuori dalle materie oggetto di riserva giurisdizionale, “può ancora esplicare una sua funzione, lato sensu, di garanzia”.

Spiego il motivo perché dissento radicalmente da questa affermazione. Da una parte, non capisco il motivo per il quale, se ogni atto dell’amministrazione potesse essere portato dinanzi ad un giudice con il reclamo giurisdizionale, la conseguenza sarebbe immobilizzare l’attività amministrativa. Chi lo dice? È possibile dare per scontato un esito che può essere differente? In ogni caso, questo è lo stato di diritto, potremmo tagliare corto. Che poi il rischio possa essere immobilizzare l’attività amministrativa, è un rischio che dobbiamo dirci pronti a correre, se crediamo nella sottoposizione di ogni potere al diritto e ad un giudice che esercita le sue attribuzioni in chiave giurisdizionale.

Non di meno, è la seconda precisazione delle Sezioni Unite quella più interessante. Se tutto quanto decide l’amministrazione penitenziaria potesse essere portato dinanzi ad un giudice vero e proprio, ad un giudice giurisdizionale, non ad un giudice de plano, il rischio sarebbe quello di cancellare il modello del reclamo generico che, invece, può avere ancora una sua funzione “lato sensu” di garanzia. Non comprendo il “lato sensu”. È una “lato sensu” garanzia quella di adire un giudice il quale al massimo può rivolgersi al direttore del carcere per esporgli un problema sollevato dal detenuto, che può fare la stessa cosa da solo, non ottenendo giuridicamente nulla dal

13 Si veda Cassazione, Sez. I, 11 maggio 2018, n. 23362, Lucchese, il cui approccio non è stato ancora contestato da altre pronunce di legittimità. Il motivo è semplice: il buon senso è uno. Ma non è solo l’onere della prova quello che conta. Ciò che rileva è che in Lucchese della Cassazione vi è una sorta di progetto e di promessa, che riguarda in termini più generali l’approccio da tenere di fronte alla materia penitenziaria. Vedremo se ci saranno altri casi da risolvere con la medesima impostazione e vedremo se sull’onere della prova ci saranno altre occasioni per limare il contenuto minimo che deve avere l’istanza del detenuto. Tuttavia, il dado la Cassazione lo ha tratto, proprio perché riguarda sia il tema concreto del caso sia l’approccio generale al penitenziario. Per un utile riferimento anche al favor rei in tema di onore della prova, cfr. E. GRISONICH, Ancora incertezze interpretative sull’art. 35-ter ord. pen.: dubbi in materia di ripartizione dell’onere della prova, in questa Rivista, fasc. 10/2018, p. 5 ss.

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reclamo generico al giudice? Io sarei per dire che non è una garanzia, punto e basta. Non lo è per il detenuto, ma non mi sembra nemmeno appagante la prospettiva che ne viene fuori per il giudice stesso, che nel perimetro del reclamo generico è come se fosse un giudice “lato sensu”.

Capovolgiamo radicalmente il nostro approccio. Diviene più immediato comprendere che una garanzia esiste o non esiste. Delle garanzie “lato sensu” non ne abbiamo bisogno. Proviamo a partire dai casi della vita per giungere a considerazioni di taglio generale, che possono spingere verso l’idea che qui sostengo, la necessità omogeneizzare la triplice prospettiva dell’art. 35, dell’art. 35 bis e anche dell’art. 35 ter.

Mi vengono in mente tre casi, realmente accaduti14. Il detenuto chiede di poter incontrare periodicamente il proprio cane; si lamenta di essere collocato in un circuito penitenziario; e vorrebbe gli fosse assegnato un educatore piuttosto che un altro. Tutti casi risolti, negativamente, ai sensi dell’art. 35 secco.

Tutte aspettative di mero fatto? Tutte questioni che ammettono al massimo una decisione de plano? Non voglio argomentare nel merito, vorrei unicamente che si potesse ragionare come se si fosse di fronte ad una normalissima doglianza di un detenuto che ritiene il suo trattamento pregiudicato dal non poter vedere il proprio cane, dall’essere collocato in un circuito penitenziario, dal non poter dire la propria circa l’educatore più congeniale alle sue esigenze. Per me sono doglianze che meritano una risposta con tutti i crismi della giurisdizionalità, con il fondamentale contributo in contraddittorio della parte pubblica, con la possibilità di impugnare la decisione e via dicendo.

Se anche si dicesse, come dice la sentenza Gianni delle Sezioni Unite, che esistono delle scelte di puro merito amministrativo, resta il fatto che, per comprendere se si è in ipotesi di eccesso di potere, il minimo è giurisdizionalizzare la procedura. Certo che alcune scelte competono all’amministrazione penitenziaria, ma, una volta prese, è incomprensibile come si possa accettare una procedura che, al massimo, potrà finire con il magistrato di sorveglianza che si limita a segnalare il problema all’amministrazione penitenziaria che quelle scelte ha preso15.

Non che lo sfacelo delle carceri italiane e la inumanità nella quale vivono i detenuti si possano imputare solo al reclamo generico. Ma qualche colpa ce l’ha e la logica che lo sorregge ne ha più di una. In fondo, se un detenuto chiede di poter vedere il proprio cane, saprà il direttore del carcere quello che si deve fare. Faccia eventualmente

14 Devo questi casi e quelli che farò in seguito al ricchissimo e stimolante contributo di C. RENOLDI, Poteri del giudice di sorveglianza e doveri dell’amministrazione penitenziaria, in Antigone, 2-3/2001, p. 80 ss., al quale il lettore si può riferire per le specifiche indicazioni. Le conclusioni cui giungerò divergono da quelle prospettate dall’Autore, ma resta il fatto che molto dipende dall’approccio, poiché poi nel merito ciascun caso della vita può essere sicuramente risolto non a favore del detenuto. 15 Se il magistrato di sorveglianza può far valere un vizio interno all’atto amministrativo, ad esempio la contraddittorietà della motivazione, che da figura sintomatica dell’eccesso di potere è divenuta violazione di legge, il punto dal quale partire è che il suo controllo-critica non è ristretto a questioni procedurali o per così dire formali. E la conseguenza è che per un’attività di questo tipo si deve poter procedere in chiave giurisdizionale, disponendo del contraddittorio tra le parti. In materia disciplinare, è questo il convincente ragionamento che si trova in Magistrato di sorveglianza di Alessandria, ordinanza 15 settembre 1995, Carta, pubblicata in Cass. pen., 1996, p. 1635 ss., un giudice che seppe vederla molto lunga, un giudice lungimirante.

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qualche concessione, ma non esageri, in fondo sono detenuti. E poi i giudici hanno altro di meglio di cui occuparsi16. 6.1. Un caso ipotetico, non di scuola

Resto convinto che invece di straparlare sia meglio ragionare. Lo faccio costruendo un esempio, che è ipotetico, non essendo riuscito a trovare un caso di questo tipo nella realtà17.

Il detenuto ha messo in vendita la propria abitazione. Oggi non è facile vendere casa. Ha ricevuto qualche offerta, ma sono troppo basse. Ad un certo momento, la moglie lo avvisa che è arrivata l’offerta giusta, ma l’affare si deve concludere in brevissimo tempo. Il possibile acquirente deve partire per un lungo periodo di lavoro. Normale, no? Ad una persona può andare bene comprare un immobile solo entro una certa data, altrimenti non se ne fa nulla. A questo punto, il detenuto domanda la possibilità di incontrare il tutore, al quale spetta formalizzare l’atto di vendita nel caso di interdizione legale. Possono sorgere dei problemi: il detenuto ha esaurito il numero di colloqui oppure in quel penitenziario si effettuano i colloqui solo i primi due giorni della settimana. Consideriamo questa seconda ipotesi.

Stiamo davvero discorrendo di una situazione di mero fatto, da risolvere solo con il direttore del carcere? E se il detenuto riceve una risposta negativa? Nulla è perduto. Ancora potrebbe farcela. Gli rimangono alcuni giorni a disposizione. Decide di rivolgersi al giudice. Invece di finire, i suoi problemi aumentano.

Se è il giudice del 35 secco, bene che vada il giudice può telefonare al direttore per dirgli esattamente le stesse cose che gli ha detto il detenuto. Penso che il magistrato possa telefonare al direttore. Se non telefona, può andare in carcere, sperando non debba aspettare ore per essere ricevuto, come capitava a Sandro Margara. Potrebbe andare in carcere, ma per fare cosa? Per raccontare la stessa storia che il direttore già conosce perché gli è stata esposta dal detenuto? Non saprei proprio, se fossi un detenuto, rilevare l’utilità del reclamo generico al magistrato. Sarebbe inaccettabile se si dicesse che la parola del magistrato conta più di quella di un detenuto. 16 E voglio essere sincero: non è la logica che sta dietro l’eliminazione del ricorso personale in Cassazione anche nel penale? Voluta dalla Cassazione, recepita dal legislatore, fino ad ora graniticamente difesa dalla stessa Cassazione. Certo che si riducono i ricorsi, tuttavia a me suscita davvero un senso di ingiustizia vedere delle ordinanze tutte identiche della Cassazione che dichiarano l’inammissibilità, dopo che è proprio grazie ai ricorsi personali che il giudice di legittimità ha costruito la sua recente giurisprudenza sugli artt. 35 bis e 35 ter. Non si riesce a comprendere che quando un detenuto scrive di suo pugno un ricorso sta concretizzandosi la rieducazione. Usa lo stato di diritto per chiedere di porre fine ad una ingiustizia, esattamente quanto non ha fatto prima di finire in una cella. Dietro ad un ricorso personale ci sono mesi e mesi di educatori che hanno aiutato il detenuto, ci sono mesi e mesi di confronto con altre persone, ma soprattutto vi è una persona che inizia a comprendere cosa si deve fare in uno stato di diritto. Spero che qualche giudice di legittimità si ribelli, sollevando questione di costituzionalità, anche in caso di ricorso inammissibile. 17 Devo lo spunto del caso sempre allo scritto di Carlo Renoldi sopra citato, che tuttavia lo risolve in modo diverso.

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Alcuni potrebbero sostenere che il reclamo generico al magistrato garantisce celerità alla trattazione delle proteste dei detenuti. Sarà, ma se il direttore è testardo la celerità è quella con la quale i reclami finiscono nel cestino. E il direttore non avrebbe tutti i torti se si scocciasse: mi hai chiesto di incontrare il tutore per la vendita della casa e ti ho già risposto che i colloqui qui si fanno dal lunedì al martedì; essendo oggi giovedì, non ti posso concedere un bel nulla; se a domandarmelo è il magistrato del reclamo generico, dirò a lui la stessa identica cosa. Sei contento? Tutto in fretta, tutto uguale.

Vediamo il caso del 35 bis. Ho ottenuto il diniego del direttore, mi sono rivolto al giudice, ma in entrambi i casi non ho ottenuto nulla dal reclamo generico. Propongo immediatamente reclamo giurisdizionale. Nulla vieta che il magistrato fissi rapidissimamente la trattazione del reclamo. Vi è scritto da qualche parte che è fatto divieto fissare la trattazione di un reclamo il giorno dopo averlo ricevuto? Non penso. Capito il problema, il magistrato fissa subito la trattazione, alla quale ha diritto di comparire l’amministrazione interessata. Verrebbe da dire: finalmente, ci siamo. Se poi il giudice darà ragione o torto al detenuto è un’altra questione, quello che conta è essere di fronte ad un giudice vero, non al giudice de plano.

Cosa potrebbe accadere? Nella migliore delle ipotesi, il giudice dà ragione al detenuto: è attuale e grave il pregiudizio del quale si lamenta il detenuto, che limita (in realtà azzera) la possibilità di disporre liberamente delle cose di proprietà, quindi anche di venderle, che in salsa convenzionale significa rispettare i beni delle persone, cosa che include appunto la possibilità di venderli. Non sarebbe difficile, per il giudice, concludere in questo modo: comprendo la necessità di un ordinato accesso alle sale colloqui, ma il carcere è fatto per limitare la libertà personale, non è progettato per non far vendere le case.

Nella peggiore delle ipotesi, al contrario, ecco cosa potrebbe avvenire: il giudice decide di non decidere perché pensa di trovarsi di fronte a mere situazioni di fatto. La cosa giusta da fare è il reclamo generico. Si renderà conto che questa soluzione apparirà quanto meno singolare (è stato già fatto il reclamo generico…magari allo stesso giudice), tuttavia è quello che gli permette di fare il 35 bis.

Non è finita. Chi non farebbe, a questo punto, un ricorso ex art. 35 ter? Mi sono rivolto al direttore del carcere e ha detto che non si può fare. Ho poi diretto la mia protesta al giudice de plano e anche a lui il direttore ha risposto picche. Ho deciso allora di rivolgermi ad un giudice vero e proprio, ma mi ha detto che il mio era una mera situazione di fatto. Morale: la casa non è stata venduta, l’acquirente si è volatilizzato, io penso di aver subito un trattamento inumano e degradante. Lo faccio o no il ricorso ex art. 35 ter? Se fossi il nostro detenuto immaginario, io lo farei.

Chiedo scusa per i numeri che seguono, ma sono per intendere il motivo del ricorso ex art. 35 ter.

Anche se, per diverse cause, il 2017 è stato un anno (molto) anomalo, al 31 dicembre pendevano alla Corte di Strasburgo circa 50.000 casi. Ogni giorno arrivano a quella Corte circa 10 ricorsi provenienti dal nostro paese. Il nostro detenuto potrebbe ringalluzzirsi: perché non dovrei provarci?

Sempre durante il solo anno 2017, la Corte ha preso posizione su circa 86.000 casi, adottando un migliaio di sentenze. Se anche volessi limitarmi a questo migliaio, forse

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riuscirei a trovare un caso non molto dissimile dal mio. Se non lo trovo, inizio a fare la ricerca storica, di anno in anno fino alla prima sentenza della Corte. Sono decenni e decenni di sentenze. D’altro canto, sempre stando al 2017, ma questo dato è lineare da molti anni, su un migliaio di sentenze sono state ben novecento le sentenze che hanno dichiarato la violazione di (almeno) un articolo della Convenzione. Uno sprono per chiunque, anche per il detenuto del nostro ipotetico caso.

Ma ecco le sue migliori cartucce da spendere. Di queste novecento violazioni, 180 riguardavano trattamenti inumani e degradanti (e 13 il caso di tortura, che obbiettivamente non è il nostro). Il 20% delle violazioni riscontrare nel 2017 riguardavano trattamenti inumani e degradanti. Una volta su cinque, quando quella Corte si è espressa, ha parlato di trattamenti inumani e degradanti.

Rimane qualche dubbio? Scompare subito. Abbiamo detto che, nel 2017, le violazioni per trattamenti inumani e degradanti sono state 180. Quante sono state in un arco temporale più esteso? Dal 1959 al 2017, la Corte ha adottato 20.637 sentenze, delle quali 17.307 di violazione di (almeno) un articolo della Convenzione. In quanti casi la violazione ha riguardato trattamenti inumani e degradanti? La risposta esiste e si porta via i rimanenti dubbi del detenuto: in 2.044 casi, dal 1959 al 2017, la Corte di Strasburgo ha dichiarato la violazione dell’art. 3 (quelle legate al divieto di tortura sono meno, “solo” 148)18.

Il detenuto si è convinto, farà ricorso ex art. 35 ter. Dato che non deve essere il reclamante ad indicare un caso specifico, basta descrivere i fatti come sono andati e domandare al giudice se l’impossibilità di vendere la casa si può considerare un trattamento inumano e degradante.

Il lettore forse si aspetterà che chi scrive tiri fuori dal cilindro il caso perfetto già deciso a Strasburgo, uguale a quello ipotetico qui ricostruito. Mi spiace, non ho fatto questa ricerca. Voglio però unicamente dire che se il giudice italiano si mettesse davvero ad indagare tutte le 2.044 violazioni dell’art. 3 della Convenzione, così come gli impone di fare l’art. 35 ter, non dico che è probabile trovi qualcosa di interessante, ma di certo non sarebbe una ricerca perdente in partenza. Qualcosa potrebbe trovare, questo mi limito a dire.

Ripeto quanto sostenuto in precedenza. Dentro l’art. 3 della Convenzione può esserci di tutto e veramente si trova di tutto: se è un trattamento inumano e degradante privare il detenuto dei propri occhiali per alcuni mesi, perché dovremmo in partenza dire che non lo è il non aver dato la possibilità al detenuto di vendere la casa per esigenze di un ordinato accesso ai colloqui in carcere19?

18 Tutti i dati riportati sono ufficiali, dal momento che compaiono nella sezione Statistics del sito internet della Corte. 19 Il caso degli occhiali è T.K. v. Lituania, Quarta Sezione, 12 giugno 2018, unanime per quanto riguarda la violazione dell’art. 3 (al momento in cui scrivo, pende l’esame per il referral). Faccio presente che la Corte si sofferma anche su cosa ha fatto il detenuto per avere indietro gli occhiali. E conclude che ha fatto quello che avrebbe potuto fare. Il punto è interessante. La soluzione del caso sarebbe stata forse differente di fronte all’inerzia del detenuto. Ma, tornando al caso ipotetico del quale abbiamo discusso nel testo, è chiarissimo che il detenuto ha fatto praticamente tutto quello che l’ordinamento gli consentiva di fare.

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Quando pensiamo all’articolo 3 della Convenzione è come pensassimo all’art. 2 della Costituzione, in entrambi i casi possiamo leggerle come disposizioni che implicitamente tutelano la dignità umana. Con una differenza: l’art. 2 riguarda il nostro paese, l’art. 3 ha in pancia i casi occorsi sotto la giurisdizione di tutti i 47 Stati parti della Convenzione.

Proviamo a metterci nei panni del magistrato di sorveglianza italiano, concedendogli qualche filtro. Non si deve occupare di tutta la Convenzione. Ragioniamo sulle sole violazioni sostanziali e non procedurali di un articolo convenzionale, nel nostro caso l’art. 3. E concediamo anche il filtro più rilevante, proviamo a ragionare solo in riferimento ai detenuti, ai trattamenti inumani e degradanti che da un punto di vista sostanziale (non procedurale) hanno riguardato un detenuto.

Anche con questi filtri, quello che ne viene fuori è un panorama incredibile20. Non penso esista ad oggi una pubblicazione né della Corte di Strasburgo né della dottrina che riporti tutti i casi di violazione riscontrati a fronte di un trattamento inumano e degradante occorso nei confronti di un detenuto in un carcere. Se la Corte ha considerato inumano e degradante proibire al detenuto di possedere un orologio, una penna e una bustina di tè, non è certo impossibile un caso nel quale la Corte ha accertato un trattamento inumano e degradante nei confronti di un detenuto al quale è stata negata la possibilità di vendere la propria casa per esigenze di ordinato accesso al carcere21.

E se, invece del nostro ipotetico caso riguardante la vendita della casa, il detenuto avesse chiesto al carcere di avere nella propria cella un pendolo, l’unico oggetto lasciatogli dal defunto padre? Il reclamo generico potrebbe non avere esito. Quello giurisdizionale potrebbe non risolvere nulla: la solita questione di mero fatto, che non interessa a nessuno. Ecco che la persona pensa al 35 ter. E cosa fa il giudice italiano? Ancora una volta, non può escludere proprio niente, perché un pendolo vale come un orologio, una bustina di tè, una penna.

Un sistema del genere, alla lunga, può reggere? La proposta della quale qui discuto è di concentrare tutto in un unico articolo. Intendo dire, da un punto di vista intellettuale, senza necessità di pensare subito e immediatamente ad una riforma legislativa.

Da un lato, eliminiamo dal nostro orizzonte di pensiero il 35 secco. Il detenuto potrebbe fare tutto quello che è scritto dentro lì anche senza la previsione legislativa. Dall’altro lato, portiamo il 35 ter dentro il 35 bis. In primo luogo, andiamo oltre il riferimento al pregiudizio all’esercizio dei “diritti”, ritenendo più che sufficiente, per comprendere se il pregiudizio esiste o meno, la valutazione del magistrato. In secondo luogo, riprogettiamo mentalmente il contenuto dell’art. 35 ter confluito nel nuovo art. 35

20 Sono filtri che in ogni caso meritano di essere utilizzati con cautela, visto che proprio la giurisprudenza convenzionale sull’art. 3 dimostra che la dignità umana è indivisibile, non si può considerare una cosa in un carcere, un’altra in un centro di detenzione amministrativa, in un commissariato, in una questura e via dicendo. 21 Il caso della bustina di tè, dell’orologio e della penna è Csullog v. Ungheria, Seconda Sezione, 7 giugno 2011, definitivo 7 settembre 2011, unanime. Il detenuto non era pericoloso, ma dubito che, se lo fosse stato, sarebbe cambiato moltissimo.

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bis, in modo tale di tentare di risolvere, primo, i profili di dubbia costituzionalità e, secondo, la questione del rinvio che definiamo mobile. Qualcuno è in grado di spiegare il motivo per il quale si deve accordare una riduzione di pena o il risarcimento solo quando vi è una violazione della Convenzione? Forse violare la Costituzione è meno rilevante? Nell’ipotesi dell’unificazione, il giudice potrebbe, se decidesse di accogliere l’istanza, intanto ordinare all’amministrazione di porre rimedio, poi, se necessario, disporre l’ottemperanza con tanto di commissario ad acta e, infine, decidere di accordare vuoi una riduzione di pena vuoi il risarcimento.

Il mio intento è quello di sottoporre al lettore una serie di idee. Se discuto di unificazione è per meglio evidenziare i problemi sul tappeto, che voglio affrontare in termini generali, non come se avessi nel cassetto bella e pronta una proposta di legge. E di certo servirebbe comunque un intervento legislativo per disciplinare i casi nei quali il pregiudizio è cessato e il detenuto avanza una domanda riparatoria. 7. Ritorno al passato, per orientarci nel futuro.

Vale la pena discutere un altro profilo che può avere importanza nell’ottica del

ragionamento esposto. È sicuramente importante disporre di un unico plesso giurisdizionale che si occupi di tutto ciò che attiene al trattamento penitenziario. Tuttavia, si possono prevedere dei procedimenti tipizzati dinanzi alla magistratura di sorveglianza, riguardanti, solo per fare un esempio, il trattamento differenziato ex art. 41 bis.

Questo primo appunto mi pare possa giocare a favore della omogeneizzazione della quale discuto. O noi dimostriamo che il 35, il 35 bis e il 35 ter hanno ciascuno una propria logica e che, di conseguenza, possono essere in qualche misura previste tre distinte procedure, oppure corriamo il rischio di tipizzare qualcosa di non tipico. Ed il punto è che non riesco a rintracciare tre distinte logiche di fondo che giustificherebbero il mantenimento della triplice. Detto che, dal mio punto di vista, l’art. 35 non ha proprio alcuna logica, non ne vedo molta nemmeno nell’art. 35 ter. Se il problema è il sovraffollamento, non è forse vero che il sovraffollamento è una questione prima di tutto costituzionale? La risposta è sì. E ciò significa anche inglobare nel problema il rispetto degli obblighi internazionali: rispettando la Costituzione italiana noi rispettiamo anche la Convenzione europea, poiché, da un punto di vista concettuale, un trattamento contrario al senso di umanità non è poi così differenziabile da un trattamento inumano e degradante22.

Tutto pertanto ruota attorno al 35 bis. Uno dei problemi da risolvere, quello della distinzione tra i diritti e tutto quello che non costituisce diritti, trova una soluzione direttamente nelle due storiche sentenze del 1999 e del 2000 della Corte costituzionale, la n. 26, relatore Gustavo Zagrebelsky, la seconda, la n. 520, relatore Valerio Onida.

22 Non saprei argomentare meglio di quanto ha fatto a tale proposito A. PUGIOTTO, La parabola del sovraffollamento carcerario e i suoi insegnamenti costituzionalistici, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2016, p. 1204 ss.

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7.1. Lo stato di diritto nelle carceri.

Proviamo a passarle ai raggi X per l’ennesima volta. Non è questo il punto più

rilevante della sentenza n. 26, ma voglio evidenziare che per l’Avvocatura dello Stato la questione di costituzionalità era infondata, tra gli altri motivi, perché il detenuto può “trovare comunque la propria tutela nei comuni mezzi e secondo le ordinarie regole di competenza previsti dall’ordinamento”. Ricordiamoci che nel 1999 esisteva solo il 35 secco, il reclamo generico. Perché reputo interessante questa impostazione? Perché se l’Avvocatura dello Stato sostiene che il detenuto può andare dinanzi al giudice ordinario e al giudice amministrativo per far valere la sua doglianza, implicitamente afferma che non si deve per forza di cose trattare di diritti, ma possono essere altre e differenti cose. Sarei per sposare appieno questa tesi, concentrando tutto in un unico giudice, che è stato istituito apposta.

La magistratura di sorveglianza, per un detenuto, è tante cose insieme. È il suo giudice ordinario, visto che può risarcirlo. È il suo giudice amministrativo, visto che può porre fine a un pregiudizio causato da un atto dell’amministrazione penitenziaria. È il braccio armato del giudice costituzionale, una sorta di giudice della Costituzione nelle carceri. Soprattutto, la magistratura di sorveglianza è quella magistratura alla quale il detenuto deve potersi rivolgere quando ritiene che il suo trattamento contrasti con il senso di umanità: in questa forse banale considerazione sta la proposta della quale qui discuto.

Dato che siamo di fronte ad una vera e propria magistratura, a veri e propri giudici, questi devono esprimersi con sentenza o ordinanza, all’esito di un contraddittorio. A questi giudici di sorveglianza deve essere dato il privilegio di sapere che, se non compiono nel migliore dei modi il proprio mestiere, esiste un giudice che ne potrà criticare i risultati ai quali si è pervenuti, che sia il tribunale di sorveglianza e la Cassazione o la sola Cassazione è un’altra questione. Parlo di privilegio perché il pluralismo giurisdizionale deve riempire di orgoglio ogni giudice, che proprio perché sa di poter essere criticato da un altro giudice si dovrà impegnare nel migliore dei modi. Non è solo un problema per il detenuto non poter proporre “appello” ad alcun altro giudice, è un problema per l’intera giurisdizione, poiché la possibilità di essere criticati spinge a prendere sul serio il proprio mestiere.

Torniamo alla n. 29. Ecco una carrellata di termini che utilizza come alternativi alla parola “diritti”23.

23 Che con la n. 26 del 1999 in discussione fosse la qualificazione del significato stesso della funzione della magistratura di sorveglianza è fuori discussione. La stessa Consulta poi ribadisce un concetto espresso nell’ordinanza di rimessione: se il reclamo generico fosse giurisdizionalizzato, una conseguenza sarebbe anche quella di far diventare la Cassazione il garante di una uniforme applicazione del diritto nella materia penitenziaria. Due piccioni con una fava: se esiste solo il procedimento de plano, il magistrato di sorveglianza, così come la Cassazione, non possono fare il loro mestiere.

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Partendo, dice la Corte, dal primato della persona umana, sul quale si basa la Costituzione, è la stessa Consulta che discute di diritti, ma anche di beni24, di posizioni soggettive25, di soggettività26, di posizioni giuridiche di diritto sostanziale27. Una vis espansiva indiscutibile. Dimostrata dal passaggio più emozionante che si trova in questa emozionante sentenza costituzionale:

“La questione prospettata invita a procedere oltre nell’opera, intrapresa da

tempo dal legislatore e dalla giurisprudenza, di diffusione delle garanzie giurisdizionali entro le istituzioni preposte all’esecuzione delle misure restrittive della libertà personale, innanzitutto gli istituti carcerari, e a perseguire in tal modo, come obbiettivo, la sottoposizione della vita in tali istituti ai principi e alle regole generali dello stato di diritto” (§ 3.2 cons. dir.).

A fronte di un’affermazione del genere, a fronte di un uso indistinto di diversi

termini per parlare di diritti, quale il senso della tripartizione art. 35/art. 35 bis/art. 35 ter? Se il giudice del 35 bis non ritiene lesi diritti, deve entrare nel merito della questione e risolverla in senso negativo, dichiarandola infondata. A quel punto, la persona non avrà un diritto. Ma non può il giudice del 35 bis rigettare la questione sostenendo che non si tratta di un diritto ma di qualche cosa di altro (un mero fatto, una mera aspettativa e via dicendo) e che, pertanto, la strada corretta è il reclamo generico. Per sostenere che non è un diritto, ma qualcosa di altro, deve entrare nel merito.

24 Il passaggio è noto. L’ordinanza di rimessione discuteva di diritti costituzionalmente garantiti, mentre la Corte, quasi sgridando il giudice a quo, sostiene che il problema riguarda diritti e appunto beni che devono essere garantiti indipendentemente dalla loro collocazione, anche nel caso di diritti e beni “non aventi fondamento costituzionale” (§ 3.2 cons. dir.). L’ordinanza di rimessione, in ogni caso, chiedeva di valutare la costituzionalità (rispetto agli artt. 3 e 24 Cost.) della mancata estensione della procedura dell’art. 14 ter anche nel caso di reclamo del detenuto avente ad oggetto la “lesione immediata e diretta di diritti costituzionalmente garantiti”. Una formulazione interessante: immediata e diretta sono forse termini migliori di attuale e grave, specie rispetto alla intensità della lesione, nel senso che la seconda formulazione, che poi è quella oggi in vigore, sembra implicare che ci siano lesioni gravi e lesioni lievi, quando in realtà siffatta distinzione appare quanto meno discutibile. Non sarebbe molto meglio la formulazione utilizzata dal giudice a quo? Per me si, perché l’entità della lesione la deve decidere il giudice, senza partire da alcuna base normativa che la definisca grave, visto che un trattamento contrario al senso di umanità per essere tale non deve essere anche grave. 25 Il disconoscimento delle posizioni soggettive attraverso un generalizzato assoggettamento all’organizzazione penitenziaria è estraneo al vigente ordinamento costituzionale, il quale si basa sul primato della persona umana (§ 3.1 cons. dir.). 26 Siamo sempre al § 3.1 cons. dir. e appena dopo aver parlato di soggettività, la Corte sostiene che “la dignità della persona (art. 3, primo comma, della Costituzione) anche in questo caso – anzi: soprattutto in questo caso, il cui dato distintivo è la precarietà degli individui, derivante dalla mancanza di libertà, in condizioni di ambiente per loro natura destinate a separare dalla società civile – è dalla Costituzione protetta attraverso il bagaglio degli inviolabili diritti dell’uomo che anche il detenuto porta con sé lungo tutto il corso dell’esecuzione penale”. 27 Il principio di assolutezza, inviolabilità e universalità della tutela giurisdizionale dei diritti esclude che possano esservi posizioni giuridiche di diritto sostanziale senza che vi sia una giurisdizione innanzi alla quale esse possono essere fatte valere (sempre § 3.1 cons. dir.). Questo punto sarà ripreso dalla n. 526 del 2000, come vedremo.

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Ecco il motivo per il quale il mantenimento del 35 secco è pericoloso, così come andrebbe letta in termini espansivi, come fa la Corte costituzionale, la parola diritti del 35 bis. E, per quanto riguarda il 35 ter, fissità e rinvio a parte, il suo cuore è già dentro nel 35 bis, poiché il magistrato di sorveglianza ha il compito di valutare se è o meno contro il senso di umanità un atto o un comportamento dell’amministrazione che il detenuto ritiene lesivo della propria persona e della sua vita dentro un carcere. Un diritto, un bene, una posizione soggettiva, la sua soggettività, una posizione giuridica di diritto sostanziale. A chi importa quale sia il termine corretto? A me importa che il giudice con il reclamo giurisdizionale si pronunci sul chiesto.

La incostituzionalità per omissione dichiarata nel 1999 è stata colmata dal legislatore più attento alle sentenze pilota di Strasburgo che alle formidabili sentenze della Consulta. Ci sono voluti più di dieci anni, ma alla fine il legislatore è arrivato. Il punto è che la soluzione escogitata non sembra perfettamente in linea con l’origine di tutto, quella sentenza n. 26 che davvero andrebbe letta e riletta, come dice essa stessa, per portare finalmente lo stato di diritto (e la Costituzione) dentro il carcere e dentro ciascuna cella. 7.2. Senza un (vero) giudice non esistono diritti.

Vediamo brevemente la n. 526 del 2000, non meno emozionante. Non sono affatto

persuaso dalla distinzione, che anche questa sentenza conferma, tra il “famoso” residuo di libertà personale e il trattamento penitenziario vero e proprio. Ma è un’altra questione. Quello che interessa è che, ancora una volta, la Corte usa in modo indistinto, per parlare dei diritti dei detenuti, almeno tre altri termini.

Intanto, i limiti sostanziali in materia di perquisizioni riguardano il rispetto della personalità, che ha una portata sostanzialmente equivalente al rispetto della dignità (§ 6 cons. dir.). Sempre poi in riferimento al problema del quale si occupava, appunto le perquisizioni, la Corte discute di diritti della personalità, dai quali derivano i limiti sostanziali al potere di perquisizione (§ 7 cons. dir.). La conclusione è straordinaria.

Dopo aver sostenuto che i limiti alle perquisizioni derivano anche dal diritto inviolabile alla tutela giurisdizionale, il quale accompagna per necessità costituzionale ogni situazione soggettiva protetta – introducendo un nuovo termine, il terzo, quello di situazione soggettiva protetta – ecco la frase che, tanto quanto quella sopra riportata della n. 26, merita di essere ritagliata e attaccata in copertina di un quaderno intitolato al mestiere del giudice:

“Sarebbe infatti vano rinvenire nel sistema legislativo il riconoscimento dei diritti

del detenuto, se non sussistessero forme di tutela giurisdizionale degli stessi, o queste non risultassero efficaci per mancanza dei presupposti necessari all’esercizio del controllo giurisdizionale” (§ 7 cons. dir.).

Praticamente è tutto scritto in queste tre righe. Come Norberto Bobbio per la

filosofia del diritto era capace di riassumere in sole tre righe il pensiero secolare espresso

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da decine di filosofi, così la Consulta arriva in modo semplice e chiaro al problema dei problemi.

Il 35 bis sbaglia quando usa la parola diritti, poiché questi esistono solo dopo la pronuncia del giudice. Radicale quanto possa essere, è la pura verità. Che poi sia una verità che precede o che è stata sancita dalla Costituzione italiana è un tema che qui non posso approfondire. Quello che mi sembra comunque vero è che, se non esistesse una forma di tutela giurisdizionale, sarebbe una ricerca vana quella di individuare nel sistema il riconoscimento di un diritto. Esistenza e riconoscimento di un diritto sono la stessa cosa. Se esistesse e basta, cosa sarebbe? Ci vogliono l’una e l’altra, la sua esistenza e il suo riconoscimento, se si vuole parlare di diritto.

Un detenuto poteva quanto voleva sostenere che aveva il diritto di accedere alla procreazione medicalmente assistita, ma fino a quando non vi è stato un giudice che ha detto che sì quello era un diritto anche dei detenuti, l’idea di partenza del detenuto, prima dell’intervento del giudice, era solo una idea.

Da qui nasce la convinzione che non regge, così come è oggi disciplinato, il triplice approccio di cui agli artt. 35, 35 bis e 35 ter. Il detenuto si dovrebbe rivolgere ad un solo giudice, quello del 35 bis, il quale non potrebbe dire che la richiesta del detenuto attiene a una aspettativa di mero fatto e che pertanto deve fare un reclamo generico. No, si apre e si chiude lì la partita. Se non è un diritto, pazienza per il detenuto, potrà impugnare, potrà avere un pieno diritto di difesa, anche proponendo la questione di costituzionalità e via dicendo. Se è un diritto, la pazienza la deve avere l’amministrazione, perché deve attuare quanto deciso dal giudice. Il reclamo del detenuto è fondato o non è fondato? Punto. Questa la domanda che conta. Rigettarla perché non riguarda un diritto, sottintendendo o dicendo che la via giusta è il reclamo generico, non ha veramente alcun senso.

Ho già detto sopra rispetto al 35 ter: non è difficile sostenere che non poter mettere al mondo un figlio, solo perché si è in carcere, potrebbe consistere in un trattamento inumano e degradante, che sarebbe in contrasto con la Convenzione e, allo stesso identico modo, potrebbe rivelarsi un trattamento contrario al senso di umanità, che andrebbe ricostruito in termini di contrasto con la Costituzione. Ovviamente, un bravo avvocato, così come un bravo giudice, devono sapere che le due violazioni non sono alternative, ma possono essere congiunte. A volte può essere così, a volte no, ma deciderlo è il mestiere del giudice, al quale vale la pena solo fare presente che, nella stragrande maggioranza dei casi, se noi rispettiamo la nostra Costituzione stiamo anche rispettando la Convenzione. Per questo il cuore dell’art. 35 ter è rinvenibile dentro l’art. 35 bis.

Lasciamo perdere gli approcci formali. Anche la sentenza n. 526 del 2000 aggiunge termini secondo i quali qualificare un diritto. Discute di personalità, che dichiara equivalente a dignità; parla di diritti della personalità; infine, di situazioni soggettive protette. Scegliamo il termine che vogliamo, ma non è questo il problema. Nemmeno conta dove il reclamo del detenuto può trovare collocazione, se nel testo costituzionale direttamente, in una legge, in un regolamento e anche molto più semplicemente nel buon senso e nella comune esperienza. Nemmeno importa se la normativa cui riferirsi discute di diritti o di interessi o utilizzi qualsiasi altro termine.

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Quello che veramente fa la differenza è il problema del detenuto e la risposta nel merito che un giudice (vero, non de plano) gli darà. È così che va avanti la giustizia, è così che il mondo del diritto non resta sempre uguale a sé stesso. L’idea che un detenuto abbia il diritto di poter vedere al colloquio il proprio cane è oggi probabilmente simile all’idea che poco tempo addietro si aveva quando si pensava al detenuto che voleva accedere alla fecondazione medicalmente assistita. L’idea pazza di allora oggi è realtà, è un diritto. L’idea pazza di oggi (riguardo al cane) chissà che non diventerà anche questa, un domani, un diritto.

Un detenuto ha tutto il diritto del mondo di rivolgersi ad un giudice sostenendo che ha dovuto fare la doccia per sette mesi con poca acqua e sempre fredda e che questo ha leso la sua persona. È quello accaduto a Nelson Mandela per dieci anni della sua lunghissima detenzione. Non saranno tutti Nelson Mandela i detenuti italiani, ma in molti sanno cosa significa fare la doccia fredda, per molti mesi, anche di inverno28.

Nel momento in cui il giudice dovesse ricevere questo reclamo riguardante la doccia fredda, a lui la parola, con la sua motivazione si deve pronunciare sul chiesto: il senso di umanità è stato violato, si o no? Come funziona oggi? Il giudice dell’art. 35 bis può rigettare perché l’istanza non riguarda l’esercizio di un diritto. A questo punto, se già non lo ha fatto prima, il detenuto farà il reclamo generico. E attenzione: siamo già in un campo nel quale non si può parlare di tutela qualificabile in termini giurisdizionali, sembra un paradosso, anche se il detenuto si sta comunque rivolgendo ad un giudice.

E cosa potrà mai fare questo giudice del reclamo generico? Niente, una cosa fine a sé stessa, come disse la Consulta nella n. 29 del 1999 (§ 3.3 cons. dir.). Il giudice informerà “nel più breve tempo possibile” il detenuto che ha presentato istanza o reclamo, orale o scritto. Di cosa? Dei provvedimenti adottati e dei motivi che ne hanno determinato il “mancato accoglimento” (così l’art. 75, comma 4, reg. esec.). Si badi, dei motivi, termine scaltro che fa intendere che di motivazione nemmeno l’ombra. Un giudice normale scrive una motivazione, il giudice del reclamo generico i motivi. Siamo davvero sicuri che valga la pena mantenere in vita una cosa del genere, considerando anche la pericolosità insita nel fatto che è proprio l’esistenza del reclamo generico a poter giustificare il comportamento del giudice dell’art. 35 bis quando ragiona di interessi di mero fatto, scegliendo la via del rigetto e non quella della infondatezza?

Posto che un altro argomento per sostenere che l’art. 35 secco merita di essere oscurato in sé è appunto legato al fatto che la motivazione è la dignità del giudice e che, di conseguenza, il 35 secco viola la dignità del giudice, è chiaro che la sua eventuale cancellazione obbligherebbe il giudice dell’art. 35 bis a fare veramente il suo mestiere, a convincersi che non si rigetta una istanza perché riguarda un mero fatto non valutabile dal giudice. Si rigetta perché quanto subito dal detenuto (la doccia fredda per mesi) non costituisce un trattamento contrario al senso di umanità. Se questa sarà la pronuncia del giudice, nessun diritto sarà riconosciuto, avanti con le docce gelate anche a gennaio!

28 È uscito da poco N. MANDELA, Lettere dal carcere, a cura di S. Venter, il Saggiatore, Milano, 2018. Più di ottocento pagine di lettere. Alla fine della lettura, la terribile sensazione che ho provato è stata questa: non abbiamo fatto dei grandissimi passi avanti.

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Dobbiamo cambiare prima di tutto il nostro approccio alla tematica penitenziaria per poi attenderci dei miglioramenti nelle carceri. Questo è l’insegnamento che ci ha lasciato Igino Cappelli discutendo degli avanzi della giustizia. Senza il nostro cambiamento, non ci potrà essere un vero cambiamento in un carcere. PARTE SECONDA 8. I giudici e il consolidamento giurisprudenziale.

A questo punto, esposte le argomentazioni a sostegno di una unificazione sotto il cappello dell’art. 35 bis tano del 35 secco quanto del 35 ter, serve quanto meno concludere le riflessioni approfondendo la questione che sembra rimanere in ombra. L’art. 35 ter è stato introdotto per regolare i rapporti tra i giudici italiani e quelli di Strasburgo. Anche incorporando la questione nel rimedio giurisdizionale di cui all’art. 35 bis, il problema rimane intatto: come si devono muovere i giudici italiani rispetto alla giurisprudenza convenzionale?

Se non vi è un motivo per il quale la magistratura di sorveglianza debba avere rapporti con la Corte di Strasburgo diversi da quelli che hanno tutti gli altri giudici italiani, allora il traffico giurisprudenziale sull’asse Italia-Strasburgo deve essere riguardato in termini generali. Pensarla diversamente sarebbe come dire che la giustizia amministrativa deve avere le sue regole rispetto a Strasburgo, diverse da quelle della giustizia ordinaria (civile e penale), a loro volta diverse da quella contabile e via dicendo. A mio modo di vedere, non serve differenziare. Già è difficile disegnare un traffico giurisprudenziale che sia in grado di garantire certezza e giustizia, figuriamoci stabilire le tipicità di ogni giudizio e di ogni giudice per poi tracciare per ognuno un determinato modello di rapporti con Strasburgo.

Ora, da dove siamo partiti e dove siamo arrivati è noto a tutti. Mi si conceda il minimo sindacale. Non è che il legislatore non sia mai intervenuto in modo incauto. Purtroppo, anche il legislatore costituzionale in alcune occasioni non ha molto usato la ragione. Non saprei dire cosa ha usato, ma la ragione e la cautela proprio no. Tuttavia, non ci possiamo fare niente. Questo è stato, con questo dobbiamo confrontarci. Lasciamo stare l’ennesima riforma costituzionale. Spero che a nessuno venga in mente una cosa del genere.

Il nuovo art. 117, I comma, Cost. è stato davvero una rivoluzione, per quanto incauta. Inizialmente, la Corte costituzionale si è limitata a prenderne atto, cercando in qualche modo di salvare il salvabile. Con il tempo, i ponti hanno iniziato ad assumere una diversa fisionomia. Oggi, non sono diventati muri, ma di certo il flusso giurisprudenziale convenzionale incontra non pochi ostacoli nel momento in cui intende attraversare la catena alpina.

L’iniziale approccio della Corte costituzionale è stato mosso da due esigenze. Da un lato, evitare la disapplicazione della legge italiana per contrasto con la Convenzione come interpretata dalla Corte di Strasburgo. Dall’altro lato, non mandare in rovina

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decenni di giurisprudenza, grazie ai quali si erano costruiti in un determinato modi i rapporti tra i nostri giudici e quelli del Lussemburgo. In entrambi i casi, il nucleo del ragionamento è lo stesso: l’Unione Europea è una cosa, il sistema convenzionale un’altra, con tutte le conseguenze che questa differenziazione comporta.

Siffatta premessa maggiore meriterebbe di essere ampiamente discussa. Due soli appunti. Se Strasburgo utilizza una norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta, è la stessa Consulta a dire che, in questo caso, la porta di ingresso è l’art. 10, I comma, Cost. Inoltre, se la Corte del Lussemburgo modella la sua giurisprudenza su quella di Strasburgo, riusciamo a dire al giudice italiano che deve adottare due approcci distinti, uno per il Lussemburgo e uno per Strasburgo? Non sarà così difficile, per il giudice italiano, disapplicare, formalmente, per contrasto con la giurisprudenza del Lussemburgo, ma, sostanzialmente, per quanto ha detto sul punto la Corte di Strasburgo29.

Gli appunti potrebbero essere molto di più, fino a mettere in risalto problemi giganteschi, quelli che solo a pensarli mettono i brividi, figurarsi risolverli una volta per sempre. Esempi: possiamo sostenere che la nostra sovranità è limitata solo dall’Unione, mentre il sistema convenzionale non tocca la questione? Se non è difficile evidenziare le differenze tra l’Unione e il sistema convenzionale, perché non riusciamo a comprendere che, in ogni caso, il sistema convenzionale è comunque caratterizzato da suoi elementi propri, che lo rendono sì diverso da quello dell’Unione, ma non per questo meno materialmente costituzionale?

Dobbiamo però prendere atto che la Corte costituzionale è ferma su questi due punti: no alla disapplicazione per contrasto con la Convenzione, come interpretata da Strasburgo e no alla parificazione del sistema convenzionale con quello dell’Unione. Domandiamoci da cosa prende le mosse questo orientamento.

Posso sbagliarmi, così come gli aspetti rilevanti da tenere in considerazione sono diversi, tuttavia, a mio modo di vedere, la Corte costituzionale è preoccupata di garantire il principio di eguaglianza, chiamiamola la certezza del diritto. Che sia per una sorta di diffidenza verso il metodo casistico alsaziano, che sia per una sorta di apprensione per la tenuta dei precedenti di legittimità nel nostro ordinamento, a me sembra che la Corte costituzionale abbia una paura pazzesca che il sistema si disintegri, che non si possa più parlare di certezza del diritto e quindi di eguaglianza.

Messa in questi termini, la preoccupazione della Corte è pienamente condivisibile. Diviene importante comprendere se gli strumenti messi in campo per garantire questo obbiettivo sono confacenti allo scopo. Non discuto qui lo scopo in sé, provo a darlo per scontato.

Dopo una serie di passaggi e di aggiustamenti, trascorso un decennio dalle sentenze quasi gemelle del 2007, ad oggi lo strumento cui la Corte costituzionale fa riferimento è quello del consolidamento. I giudici italiani devono comportarsi in modo differente a seconda che siano al cospetto di un orientamento consolidato o non consolidato da parte della Corte di Strasburgo. Se non è consolidato, possono decidere

29 Lo ha fatto, riuscendoci molto bene, Cassazione penale, Sez. I, 18 maggio 2017, n. 49242, Haruna.

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come procedere e quindi anche non considerare quell’orientamento. Se, invece, è consolidato, devono dargli corso e, se l’eventuale contrasto con la legge non è sanabile in via interpretativa, il giudice altro non può fare che sollevare la questione di costituzionalità. Si tratta di un approdo raggiunto dalla Consulta in riferimento a tutti i giudici italiani, che, di conseguenza, potrebbe anche essere esteso ai giudici della sorveglianza, art. 35 ter permettendo, nel senso che in questa disposizione non vi è alcuna precisazione in riferimento ad un orientamento consolidato di Strasburgo.

Espongo tre avvii di riflessione. In primo luogo, una domanda preliminare: l’approdo raggiunto con il test del consolidamento vale solo per i giudici italiani o vale anche per la stessa Corte costituzionale? In secondo luogo, un problema per così dire esogeno: il test, anche se fosse valido in sé, lo è in riferimento alla giurisprudenza verso la quale si intende utilizzare? Insomma: appare opportuno discutere di consolidamento a fronte della giurisprudenza convenzionale? In terzo luogo, una questione per così dire endogena: è un criterio vincente quello del consolidamento oppure è destinato ad incontrare formidabili ostacoli? In altri termini: se anche fossimo di fronte ad un orientamento del tutto consolidato, cosa fare se si tratta di una giurisprudenza sbagliata? Quando la certezza può cedere di fronte alla giustizia del diritto? Il dilemma di ogni giudice in ogni parte del mondo, compresi i nostri giudici di sorveglianza: a chi penso, alla persona che ho di fronte o a tutte le altre giudicate prima e che saranno giudicate dopo?

I tre interrogativi meriterebbero ciascuno un libro a parte. Quello che posso fare, per spazio e capacità limitati, è solo proporre una valutazione dubitativa. La quale però parte dal presupposto che, qualsiasi nostra meditazione che intenda essere di taglio generale, rischia un secondo dopo di essere spazzata via dal caso concreto della vita che non riesce a risolversi nello schema generale di riflessione. Dubbi, non certezze. Ponti, non muri. Questo intendo fare, avendo in mente il mestiere di ogni giudice italiano, compreso quello del giudice di sorveglianza. 9. Il consolidamento e i giudici italiani.

La prima domanda. Per chi vale lo standard del consolidamento? La Corte lo

rivolge anche a sé stessa oppure solo ai giudici italiani? Non vi è traccia nella giurisprudenza costituzionale di alcuna risposta esplicita a

questo interrogativo. L’unica cosa che possiamo fare è comprendere come la stessa Consulta ha utilizzato la giurisprudenza convenzionale. Quello che mi sento di dire a tale proposito è questo: non sempre la Corte ha utilizzato il test, spesso lo ha fatto, ma non sempre. In alcuni casi, si è rifatta a quello che si diceva in una sola sentenza della Corte di Strasburgo, che peraltro contrastava con precedenti orientamenti. Di certo, quando la Corte usa la giurisprudenza convenzionale vi è la tensione verso una ricostruzione del pensiero del giudice di Strasburgo, non limitandosi a quanto ha detto in un singolo caso. Tuttavia, non è un’operazione costante. Lo dimostra, d’altro canto, un altro aspetto. Degli indici elaborati nella n. 49 del 2015 non vi è più alcuna traccia nella giurisprudenza costituzionale successiva. A volte, si pone una sorta di enfasi sul

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fatto che la sentenza è di Grande Camera. Altre volte, sul fatto che è unanime. Non di meno, non sono stati né costantemente impiegati né ulteriormente approfonditi.

Il cantiere è ancora aperto, il cartello appeso fuori è work in progress. La Corte ha dedicato un certo peso alla questione del consolidamento, ma nel modo con il quale la Consulta tratta la giurisprudenza convenzionale non è ancora dato rilevare un orientamento consolidato. Mi scusi il lettore per l’imbarazzante gioco di parole, ma il consolidamento non si è ancora consolidato, stando all’uso che la Corte fa della giurisprudenza convenzionale. A volte lo usa, altre no, altre volte con qualche indice, altre senza. Un cantiere appunto in costruzione.

A ragionarci bene, non diversa la conclusione rispetto allo standard del consolidamento indicato ai giudici italiani per regolare il loro traffico giurisprudenziale con Strasburgo. Posto che il diktat sul divieto di disapplicazione non mi pare essere stato sempre rispettato, a proposito del consolidamento vi è che alcuni giudici italiani lo utilizzano, altri no. Alcuni lo adoperano male, altri bene. Nel primo caso, si degrada al nulla di giuridicamente rilevante una sentenza non unanime di Camera, nel secondo si compiono ricostruzioni molto dettagliate per dimostrare se si è in presenza o meno di un consolidamento. Ma sta di fatto che non poche volte del test semplicemente non vi è alcuna traccia.

Questa pertanto la risposta che mi sento di dare alla prima domanda. Il test del consolidamento sembrerebbe avere valenza universale. Dovrebbe riguardare tanto i giudici costituzionali quanto tutti gli altri giudici italiani, sorveglianza compresa. In entrambi i casi, è forse ancora presto per tirare una qualche conclusione, quello che mi sento di dire è che il test del consolidamento è in cerca di consolidamento. 10. Il consolidamento e i giudici convenzionali

Il secondo problema è ancora più complesso. Tra i diversi criteri che si possono

utilizzare per regolare l’entrata della giurisprudenza di Strasburgo nel nostro ordinamento, il più persuasivo è quello del consolidamento?

Chiaro che un approccio formalista potrebbe anche sconfessare del tutto il test impiegato dalla Consulta. Non vi è scritto da nessuna parte che il nostro paese debba rispettare gli obblighi internazionali a seconda del grado di consolidamento della giurisprudenza dalla quale quegli obblighi scaturiscono. Non vi è traccia né in Costituzione né nella Convenzione. Semmai, solo nella seconda, si differenzia, in un qualche modo, tra lo Stato parte resistente nel caso e gli altri che non lo sono (art. 46, § 1). Non sto affatto sostenendo che questa differenziazione abbia senso, anche perché al contrario penso che non ha sostanzialmente e realmente alcun senso. Sto unicamente dicendo che, da un punto di vista formale, la tesi del consolidamento non ha basi formali esplicite, indiscutibili e certe alle quali appoggiarsi30. E ovviamente vale la pena sottolineare che nulla è previsto in questo senso dall’art. 35 ter.

30 E non mi sembra proprio che l’art. 28, § 1, lett. b della Convenzione possa essere preso a modello dell’intero

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Chi di forma ferisce, però, alla fine di forma perisce. Non ha forse fondamento costituzionale la certezza del diritto, che deriva direttamente dal principio di eguaglianza? Vediamo allora di guardare alla sostanza dei problemi.

Intanto, preme mettere in risalto che, per la Corte di Strasburgo, la stabilizzazione di un orientamento è di fondamentale importanza. Ma, come fanno praticamente tutte le corti al mondo, si precisa sempre che il diritto non può fermarsi una volta per sempre. E che, di conseguenza, l’importanza del consolidamento non può significare congelamento degli orientamenti, che devono tenere in considerazione tutte le diverse modificazioni che accadono nel contesto più generale di riferimento e, pertanto, stare al passo con i tempi. Insomma, la certezza del diritto anche a Strasburgo esiste, non stiamo parlando una corte e di una giurisprudenza che vivono nell’anarchia, senza riferimenti stabili nel tempo, con orientamenti che cambiano con il cambiare del tempo, per un soffio di vento, per un grado in più e uno in meno di temperatura atmosferica.

Non di meno, una cosa è sostenere che il substrato che pervade il test del consolidamento è universalmente valido, vale ovunque e quindi anche alla Corte europea dei diritti umani, che conosce bene l’importanza della certezza del diritto; altra e differente cosa è riferirsi come criterio per regolare il traffico giurisprudenziale sull’asse Italia-Strasburgo.

Esistono delle caratteristiche di funzionamento di quella Corte che ne suggeriscono un utilizzo quanto meno cauto. Io direi che non va buttato via del tutto, ma merita di essere meglio approfondito, in parte riprogettato, non dovrebbe essere un test buono una volta per sempre. Opportuna sarebbe una qualche flessibilizzazione, una qualche elasticità, come se fosse un criterio utile da tenere in considerazione, ma non l’unico e soprattutto non obbligatorio. Mi sembra poco rispettoso del (costituzionale) rispetto degli obblighi internazionali sostenere che, a fronte di un orientamento di Strasburgo non consolidato, il giudice italiano può anche non tenerlo in considerazione, come se non esistesse.

Perché dico questo? In primo luogo, utilizzare un test così delicato come quello del consolidamento implica la possibilità di utilizzarlo nei confronti di una corte

funzionamento della Corte di Strasburgo. Infatti, non tocca minimamente le attribuzioni né delle camere né della grande camera, ma solo del comitato, il cui ruolo è residuale tanto rispetto al giudice in formazione monocratica quanto rispetto ai collegi di camera e di grande camera. In ogni caso, rispetto all’art. 46, § 1 della Convenzione, vale la pena evidenziare che quando il Governo italiano si difende dinanzi alla Corte di Strasburgo non si rifà alle sole sentenze di quella Corte che riguardano il nostro paese. Di conseguenza, ogni sentenza della Corte è figlia di una genesi indiscutibile: riguarda uno Stato, quello resistente, ma si basa su casi decisi nei confronti anche di altri Stati. Per questo ritengo del tutto discutibile che alcuni giudici italiani distinguano l’efficacia di una pronuncia di Strasburgo a seconda che riguardi il nostro paese o un altro. È una tesi che la Corte costituzionale non ha mai sposato in modo esplicito, anche se va detto che i (misteriosi) tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, dei quali discute la n. 49 del 2015, potrebbero implicitamente legittimare l’assunto di alcuni giudici nostrani. Io però mi sento di dire che, da un punto di vista sostanziale, non ha alcun senso limitare l’efficacia di una sentenza di Strasburgo a seconda dello Stato parte resistente. Il che significa anche l’impossibilità di considerare la revisione europea solo se l’istanza è avanzata da un soggetto (italiano) vittorioso a Strasburgo. Quello che serve fare è quindi verificare se ci si trova in una situazione corrispondente e, ovviamente, comprendere il taglio delle argomentazioni della Corte europea dei diritti umani.

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trasparente, il cui modo di lavoro sia conosciuto in tutti i suoi minimi dettagli. Mi sembra il minimo. Faccio solo due esempi. Siamo consapevoli noi osservatori esterni di come funziona il lavoro del panel incaricato di assegnare o meno un caso dalla Camera alla Grande Camera? Abbiamo a disposizione dei dati dettagliati su come nella realtà funzionano il relinquish e il referral?

Alla prima domanda è molto difficile rispondere. Di sicuro, però, il ruolo dei giuristi è moltissimo rilevante, almeno pari a quello che hanno in sede di ammissibilità. Posso in ogni caso rispondere con certezza pressoché assoluta alla seconda domanda: fino a quando non saranno rese pubbliche le motivazioni alla base dell’accoglimento e del respingimento, tanto dell’uno quanto dell’altro, non possiamo dire alcunché circa il loro reale e concreto funzionamento. Se ci fermassimo alle regole convenzionali, di certo il relinquish può aversi nel caso di una decisione inconsistent con la giurisprudenza precedente, mentre per il referral devono aversi serious question affecting the interpretation or application of the Convention o serious issue of general importance. Anche ammettendo che pure il referral possa essere utilizzato per il consolidamento, nessuno è autorizzato a sostenere che, dato il respingimento della richiesta di referral, allora l’orientamento della Camera è consolidato. Sarebbe verosimile, ma non vero. Sarebbe possibile, ma finché non potremmo leggere le motivazioni alla base del respingimento io non mi sbilancerei nemmeno di un centimetro. E se non fosse quello il motivo?

Anzi, a volerla dire tutta, se proprio intendessi sbilanciarmi arriverei ad altre conclusioni. È lo stesso testo convenzionale che perimetra la possibilità di referral a casi eccezionali (art. 43, § 1). Se anche fosse dimostrabile che il referral serve per il consolidamento (cosa che oggi non possiamo dimostrare), in ogni caso dovremmo dedurre che il consolidamento a Strasburgo avviene, secondo lo stesso testo convenzionale, in casi eccezionali. Cautela quindi.

Per quanto si possa e si debba criticare il sistema convenzionale – io ho a cuore la motivazione di un provvedimento di un giudice, quindi il mio bersaglio prediletto è proprio quella Corte – sta di fatto che è un sistema di straordinaria coerenza. Dal 2013 al 2016 compresi, ecco i numeri delle sentenze di Grande Camera e di Camera: 15 su 916, 19 su 891, 22 su 823, 27 su 993. Vale a dire, in questi quattro anni, il 2,2%. O la Corte di Strasburgo è in grado di consolidare pochissimo oppure il nostro criterio del consolidamento, appoggiato sull’indice delle decisioni di Grande Camera, non è appropriato. Il bello è che, qualunque sia la risposta che si vuole dare, implica che il test del consolidamento merita quanto meno di essere utilizzato con cautela, se non rimodellato e riprogettato. Ripeto: serve, anche per il giudice di sorveglianza può avere utili ripercussioni, tuttavia non può essere che preso con le pinze, appunto con particolare accortezza.

In secondo luogo, vi è anche un problema per così dire più connaturato al sistema convenzionale che merita di essere tenuto in considerazione rispetto al consolidamento. Il primo ragionamento che fa il giudice di Strasburgo non è quasi mai astratto. Il suo rapporto con la Convenzione non ha filtri: non dimentichiamolo, non esiste una legge mediana tra Convenzione e la realtà della vita. Esistono solo il caso concreto, il giudice, la Convenzione. Più il ragionamento del giudice di Strasburgo si allarga, più arrivano le insidie. Le carceri turche non sono quelle italiane, che a loro volta non sono quelle

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norvegesi. Come si può dire una determinata cosa valida per ogni penitenziario presente in tutti i 47 Stati parti della Convenzione? Meglio, molto meglio, volare basso, iniziare a fare giusta giustizia. La questione dei metri quadrati a disposizione in una cella è emblematica: uno standard che vorrebbe essere valido ovunque, ma che allo stesso modo, nel giro di poco tempo, ha subito tutta una serie di aggiustamenti, tali da renderlo sempre meno assoluto e sempre più relativo, rispetto al singolo caso concreto (e alle ore di apertura delle celle, alla offerta trattamentale in istituto e via dicendo).

Come tutte le corti internazionali, anche quella di Strasburgo è costantemente sotto osservazione, che però va compresa. Se a nessuno (e lo spero con tutto il cuore) verrà mai in mente di chiudere la Cassazione o la Corte costituzionale dopo una decisione che ritiene del tutto sbagliata, la questione rispetto alla Corte di Strasburgo è molto differente31.

Non solo. È come se pensasse in questo modo il giudice di Strasburgo. Ogni volta che apro bocca, irrito gli Stati. Lo devo fare, è il mio mestiere, ma meglio adottare una serie di cautele. Non volo alto, ma volo basso. Devo decidere un caso verso l’Ucraina, non verso la Svezia. Se poi lo Stato resistente è uno dei fondatori, se poi è uno Stato riottoso nei confronti di tutto ciò che è europeo, se poi il rischio è quello di parlare ai mulini a vento (del resto, non posso cancellare una legge), allora forse è meglio dire una cosa ragionevole, essenzialmente giusta, quasi inattaccabile. È come se il giudice lasciasse parlare il ricorrente, che di norma racconta nei ricorsi tutte le nefandezze che ancora oggi esistono e subiscono le persone nella nostra Grande Europa. Per tutto il resto, i grandi principi, le impostazioni generali, verrà il tempo, se verrà. La precedente giurisprudenza si tiene sempre in considerazione, ma l’esigenza è sempre quella di adottare un approccio verso il basso, non verso l’alto, l’alto dei grandi principi, l’alto dei grandi orientamenti. Ovviamente ci sono giudici che si ribellano, che dissentono, che vanno alla ricerca di uno jus cogens universalmente valido. Ma la realtà, per come la vedo io, è che la Corte di Strasburgo difficilmente fa un passo in più rispetto a quello che serve per fare giusta giustizia per il ricorrente.

Il lettore deve sapere che chi scrive non si priverebbe mai di una corte di questo genere, per nessuna ragione al mondo. Ne abbiamo viste di ogni e continuiamo a vederne di peggio, in Europa e ovviamente nella nostra bella penisola, nelle sue bellissime isole. Abbiamo visto aberrazioni combinate da chiunque: legislatori, giudici, amministrazione, persone qualunque. Ho quasi la sensazione che, nel nostro paese, da

31 Chiudere la Corte di Strasburgo? Cinque o sei Stati di quelli pesanti non pagano più il contributo al Consiglio d’Europa (seguendo l’esempio odierno della Russia), il Consiglio d’Europa deve ridurre il capitolo di bilancio dedicato ai diritti umani, dato che in questo capitolo la voce grossa è quella destinata alla Corte, ecco che nel giro di tre giorni la Corte di Strasburgo non rinnova più i contratti dei giuristi a tempo determinato, non ne assume più di nuovi, taglia in modo drastico il numero di traduttori e interpreti. Potrà anche decidere di andare a fare Camera e Grande Camera in un giardino pubblico, ma la realtà nuda e cruda è che fare (bene) il giudice alla Corte di Strasburgo è molto difficile. Non sei solo criticato se sbagli, cosa normalissima. Hai l’atroce pensiero che la tua posizione possa addirittura andare a compromettere non la fama, non l’autorevolezza, non la collocazione della Corte nella quale lavori, ma la sua stessa possibilità di esistere.

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qualche parte si debba per forza fare delle ingiustizie. Meglio avere la Corte europea dei diritti umani, altro che. Ne servirebbero altre dieci!

Il problema però non è questo. È utilizzare il criterio del consolidamento a fronte di una Corte che lavora in questo modo. Un tribunale di piccole dimensioni, con competenza su un territorio di piccole dimensioni, dove regna la pace e la tranquillità: in questo caso sì che posso sperare in una buona riuscita del test del consolidamento. Gli altri giudici, quando si devono rapportare con questo tribunale, dovranno tenere in considerazione in modo particolare gli orientamenti consolidati. E se vorranno comunque distaccarsene, lo potranno certamente fare, con una bella e buona motivazione rinforzata. Tutto fila, tutto torna, tutto è, almeno in partenza, costruito per funzionare.

Se, invece, il nostro riferimento è una Corte con quarantasette giudici, ciascuno con la propria cittadinanza e cultura giuridica; che lavora grazie ad una macchina di giuristi davvero sbalorditiva, quanto a numeri e quanto a potere; alla quale si può rivolgere ogni persona tra i sette miliardi e seicento milioni di essere umani oggi presenti sulla terra, alla sola condizione di essere sotto la giurisdizione di uno Stato parte della Convenzione; una Corte che lavora, non nella pace e nella tranquillità di un cantone al centro della Svizzera, ma in questa Grande Europa che, se non succede un miracolo, sta scavandosi la fossa in termini di umanità, rendendo sbiadite le pagine di Primo Levi; non ci saranno più il nazismo, il fascismo, il franchismo, il comunismo, i colonnelli al potere, ma la realtà è che, in termini di rispetto della persona umana, siamo sprofondati in un abisso da fare paura solo a guardarci dentro; ecco, usare il criterio del consolidamento, a fronte di una corte come quella di Strasburgo, non appare del tutto persuasivo.

Il problema non sono gli indici, evidenziati nella n. 49 del 2015 e in seguito non ulteriormente specificati, solo in alcune occasioni richiamati e utilizzati. No, il problema viene prima ed è il test del consolidamento, non gli indici messi in campo per dare manforte al lavoro dei giudici italiani, compresi quelli di sorveglianza. 11. Il consolidamento in sé, oggi.

Vi è poi la terza questione che ruota attorno al consolidamento, il problema per

così dire endogeno. Che non dipende dal giudice verso il quale si intende impiegare il test, ma dallo

suo essere. A questo proposito, conviene tagliare corto. Il lettore, soprattutto italiano, conosce da decenni quali sono i pregi e (in specie) i difetti del riferirsi al consolidamento quando si parla di rapporti tra giudici. Non potrei aggiungere nulla. Se è così (ed è così) meglio tacere. Dato che di tacere in termini assoluti il giurista non dovrebbe sapere cosa farsene, mi permetto niente più che una suggestione, sicuramente anche questa già avanzata, ma che ritengo riguardi problemi talmente grandi e complessi che il sorvolarci sopra sarebbe un gravissimo errore. Se ritieni una cosa sbagliata, non dirlo significa esserne vittima ma anche complice.

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Discutere di consolidamento nel contesto culturale odierno incontra complicazioni che solo in parte esistevano ieri. Non è un problema solo italiano, ma di certo è un problema anche italiano. La ragionevole durata dei processi, se interpretata in modo estremo e quindi sbagliato, altro non è che un figlio come tanti altri del modo con il quale oggi si guarda al fenomeno giuridico. A farla da padrone è il pensiero neoliberista, che pervade ogni aspetto della nostra vita. Un pensiero che è la madre dei tanti figli che non fanno altro che seguirne le orme, uno dei quali è appunto la ragionevole (leggasi, la più breve possibile) durata dei processi.

Il pensiero neoliberista ci fa ragionare con logiche e archetipi economici e soprattutto quantitativi. Scompare il margine di errore. Il dubbio è un difetto da guarire, non un bene da preservare. La forza del conflitto, che è forza che si dimostra nel medio-lungo periodo, deve cedere il passo alla forza dei numeri, dei dati, dell’efficienza. Alla sentenza si sostituisce il prodotto. Al mestiere del giudice, per come lo abbiamo sempre inteso, si sostituisce qualcosa di diverso, una sorta di impiego come tantissimi altri, del quale se ne deve rispondere in termini di risultati. Il processo si può misurare in termini di giorni, settimane, mesi e quindi anni. Così la motivazione, che molto meglio se fosse ridotta all’osso. Più il giudice si scervella e vuole capire veramente bene, più il giudice mette nero su bianco i suoi argomenti, più il giudice rischia di vedersi decurtare lo stipendio. Non semplifichi, ti pago meno. Il giudice che viene dopo non è più il giudice che critica quanto fatto dal giudice prima. È un giudice che controlla quanto fatto da quello prima. Siamo costretti a mettere in discussione anche il bellissimo termine che abbiamo sempre utilizzato quando parliamo di cosa fa il giudice. Siamo ancora sicuri che si possa oggi discutere del mestiere del giudice?

La logica dei metri quadrati, che ha sostituito quella del senso di umanità, non è che una conseguenza perfettamente inquadrabile nell’ottica odierna entro la quale si sviluppa il nostro pensiero in generale, nello specifico quello giuridico. Pensare la detenzione in termini di umanità significa ragionare, ammettere che il pensare corrisponde al faticare. Pensarla in termini di metri quadrati è molto più semplice, quanto meno è più lineare, è più facile arrivare alla risposta violazione si/violazione no. Una volta, non so chi l’ha detto per primo, si diceva che al cuore non si comanda, oggi a tutto ciò che ci aiuta a misurare, a calcolare…non si comanda.

Ha scritto Francesco Carnelutti, il maestro dei maestri, che il mestiere del giudice non è che pensare. Da un certo punto di vista, gli ha fatto eco Hans George Gadamer, un altro maestro dei maestri, quando ha sostenuto che il giudizio non si può insegnare in termini generali, ma si deve esercitare caso per caso. In questo, concludeva, è una sorta di facoltà analoga ai sensi32. Bellissime e per me inarrivabili affermazioni, fatte da giganti del pensiero e del pensiero giuridico. Ma che cosa ne rimane, oggi?

Quello che vorrei mettere in rilievo rispetto al tema del consolidamento, non da un punto di vista astratto, ma nel concreto contesto generale e culturale nel quale oggi viviamo, tutti noi, giudici compresi, è questo. Va da sé che ragionare in termini di

32 Cfr. F. CARNELUTTI, Giurisprudenza consolidata (ovvero della comodità del giudicare), in Rivista di diritto processuale, 3/1949, p. 41 ss. e H. G. GADAMER, Verità e metodo (1960), Bompiani, Milano, 2001, p. 85.

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consolidamento significa riprodurre il non solubile problema che già i romani evidenziavano, quando mettevano in guardia dal fatto che error communis facit ius, che, detto in termini volgarissimi, significa che cosa fare di fronte ad un orientamento consolidatissimo ma anche sbagliatissimo; rifarsi al consolidamento può sicuramente garantire la certezza e l’eguaglianza, non di meno rischia sempre di pagare pegno alla necessità di fare giustizia nonostante il consolidamento, perché lo si ritiene sbagliato. Ma questo è un problema secolare, non solo del nostro oggi.

Il dramma odierno del consolidamento è che si deve per forza collocare entro il pensiero assolutamente dominante, quello neoliberista, con il quale siamo tutti costretti a vivere; il criterio del consolidamento è un approccio rischioso per i giudici italiani, ovviamente compresi quelli della sorveglianza, perché altro non fa che aggiungersi come nuovo figlio alla madre che è sempre quella, la mentalità economica, quantitativa, efficientistica, aziendalistica, quella dei metri alla mano, della soluzione alla mano, non dico la più comoda, ma sicuramente quella che permette di dare una qualche risposta che all’apparenza non fuoriesce da uno schema predefinito. Uno schema, un flusso che è bene non intaccare, va mantenuto intatto, perché il diverso, il dubbio, l’alternativo, il dissidente nuoce al sistema, non garantisce eguaglianza, disomologa, non consolida. Pensiamoci. Oggi dissentire dall’autorità è difficilissimo, così come dissentire dal consolidamento, che infatti fa di tutto per arrivare ad essere autorità.

Sia chiaro. La Corte costituzionale, nel momento in cui si è rifatta al test del consolidamento, sapeva benissimo che non poteva essere un vero e proprio diktat. Le guerre tra corti di apice nostrane hanno infatti dimostrato che a nessuno conviene imporsi come se si fosse detentori dell’ultima parola. I giudici di legittimità e di merito, di norma, seguono le interpretative di rigetto e, se non lo fanno, hanno un obbligo di motivazione rinforzata. A loro volta, i giudici costituzionali attribuiscono un peso particolarmente rilevante al diritto vivente giurisprudenziale. I rapporti tra corti funzionano in questo modo, passo dopo passo si trova l’accordo che, da un certo punto di vista, accontenta tutti, non scontentando nessuno.

Se la Corte costituzionale si è rifatta al consolidamento, per tentare di regolare il traffico giurisprudenziale Italia-Strasburgo, è perché lo riteneva davvero il più persuasivo. Eppure: c’è un bisogno disperato di certezza e di eguaglianza che, a mio parere, non è meno importante della necessità, anche questa formidabile, di giustizia. Non stiamo andando meglio. Come società stiamo andando peggio. In un quadro per così dire armonioso, nel quale vi è qualcosa da costruire, in cui credere, è più che normale la tensione verso il consolidamento. Ma in un contesto nel quale tutti spaccano tutto, non vi è più niente di comunitario al quale ci si può affidare, non esistono più i progetti rivoluzionari per un mondo migliore, non sarebbe forse più conveniente valorizzare le spinte coraggiose, i sussulti di umanità, i giusti dissensi, i quali, per quanto fuori dagli schemi (e dal consolidamento), potrebbero essere un serio argine al pensiero dominante, uniformato e impacchettato per essere funzionale agli scopi di una società neoliberista?

Da un certo punto di vista, l’art. 35 ter è folle perché non lascia scampo al magistrato di sorveglianza. Egli deve ridurre la pena o risarcire nel momento in cui constata una violazione dell’art. 3 della Convenzione per come interpretato dalla Corte di Strasburgo. Ma il calmiere del consolidamento, questa specie di filtro di primo istinto

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utile e ragionevole, è davvero capace di essere d’aiuto ai giudici italiani? Non rischia di far perdere loro il senso più profondo del mestiere del giudice, che è quello di pensare ciascuno con la propria testa, nello splendido e traumatico isolamento intellettuale, nel quale il giudice si ritrae per decidere il caso secondo giustizia?

Non ne faccio nemmeno una questione che si tratta di uno standard troppo cassazionista, che infatti partorisce l’indice del principio di diritto, facile da trovare a Strasburgo come un ago nel pagliaio. Non è questo il problema più importante del consolidamento, che è invece questo: quello di tenere legate le energie giurisprudenziali, di imbrigliarle rispetto a quanto ha deciso un altro giudice. L’indipendenza del giudice chiama in causa prima di tutto e prima di ogni altra cosa la sua coscienza, che può anche lavorare ad occhi chiusi. Dopo si alza la benda. E si inizia a ragionare su cosa hanno detto altri giudici, da quanto tempo, in che modo, con quali differenze e via dicendo.

Discutere di consolidamento è come servire su un piatto d’oro la pietanza che più si aspetta il giudice di oggi, sovraccaricato all’infinito di lavoro, peraltro anche lui, come tanti altri mestieri, senza più quella aureola di sacralità che per lo meno ricompensava tante fatiche. Il modo neoliberista di guardare al mondo si è portato via tutto: la figura del padre, quella del maestro, quella del medico e ovviamente quella del giudice, tutti oggi guardati dalla società come se facessero un lavoro come ogni altro, senza più nemmeno un briciolo di considerazione che, almeno in parte, ti ripaga dalle fatiche.

Non amo alcuna categoria in termini generali. Ci saranno gli ortolani da stimare, così come quelli da biasimare. È pieno il mondo di ottimi professori, ma di certo non mancano quelli meno ottimi. Lo stesso penso debba valere per i giudici. Non di meno, se dovessi fare riposare le mie speranze per un mondo migliore, non avrei alcun dubbio su quale letto accasarle. La giurisprudenza è il nostro futuro, perché la giurisprudenza ha in sé tutto quello che serve per far progredire il diritto in termini di maggiore aderenza agli esseri umani. Il giudice deve dare conto, deve motivare. Se ritieni che stia sbagliando, puoi andare da un altro giudice che è autorizzato a criticare il primo. Il giudice non decide mai da solo. Ha una fidanzata con la quale, in un modo o nell’altro, amoreggia sempre, la dottrina. E fino a che qualcuno non salterà fuori dicendo che, in fondo, i collegi non servono a niente, il giudice spesso lavora in gruppo. Il bello della giurisdizione non è soltanto il pluralismo esterno, che poi significa conflitto misurato, ma anche quello interno, la possibilità che una testa, prima di decidere, si confronti con un’altra testa. Il giudice è il massimo che siamo stati in grado di inventare per proteggere quello che ci siamo conquistati, che è sempre in bilico, oggi tremendamente in bilico.

Se queste, insieme a mille altre, possono essere delle motivazioni a fondamento della valorizzazione del mestiere del giudice, ecco perché il tema del consolidamento andrebbe sottoposto a forte rimeditazione, in generale e poi (andrebbe da sé) anche rispetto al traffico giurisprudenziale Italia-Strasburgo, che coinvolge anche la magistratura di sorveglianza. Ci conviene ragionare in termini di consolidamento? Abbiamo valutato gli scenari che si potrebbero aprire o che contribuiamo a plasmare, in questo mondo che altro non aspetta che di avere una giustizia certa? Sia quel che sia, basta che sia certa. Meglio se anche giusta, ma basta che sia certa, almeno uno si organizza, in termini di tempo da impiegare, soldi da investire, calcoli da fare. Ditemi

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che devo morire, va bene, basta che me lo diciate presto. Come la pena, anche la giustizia non ha altra possibilità, se non quella di essere certa. Il consolidamento è lì bello e pronto per servire a questo scopo, che, lo provo a dire ancora in termini più generali, rischia di disumanizzare il mestiere umanissimo del giudice, di ogni singolo giudice sparso in ogni angolo sulla faccia della terra.

Abbiamo la fortuna, che in molti non hanno, di vivere in un paese democratico. E la tenuta della nostra democrazia è affidata anche, senza alcun dubbio, alla Corte costituzionale, che giustamente cerca di ritagliarsi il proprio spazio. E che lo faccia anche in riferimento al mestiere del giudice italiano è del tutto logico. La forza dei suoi criteri non è mai dettata dal fatto che sono posti dalla Corte costituzionale, bensì dipende dalla loro bontà. Deve quindi, se vuole essere ascoltata e pertanto perseguire gli scopi che si prefigge, mettere in campo criteri per la regolazione del traffico giurisprudenziale Italia-Strasburgo che riescano a persuadere i giudici. Se i giudici italiani non si convinceranno della bontà del riferimento al consolidamento, spetterà a loro intavolare un continuo e costruttivo confronto con i giudici costituzionali. In gioco non vi è solo il come entrerà nel nostro ordinamento la giurisprudenza convenzionale, ma il destino del mestiere del giudice, che poi, a conti fatti, è anche il destino di molti esseri umani, ai quali rimane davvero solo e soltanto il giudice al quale rivolgersi. A questi esseri umani non ho idea di quanto interessi il discorso attorno al consolidamento. Hanno fame e bisogno di giustizia, che magari può essere pronunciata proprio da quel giudice che si distacca e dissente da tutti gli altri.

E se esiste un giudice che più di altri deve necessariamente valutare le ripercussioni su ogni singolo essere umano di un determinato trattamento, ebbene questo è il magistrato della sorveglianza. Altro che ripetitore interno di quanto dice la Corte di Strasburgo, altro che valutatore del grado di consolidamento della giurisprudenza convenzionale: siamo alle prese con un giudice che non deve alzare lo sguardo verso l’alto, ma tenerlo ben fisso verso il basso, per pronunciarsi sul chiesto di ogni singolo detenuto. 12. Conclusioni.

L’essere umano è una fonte incessante di idee e di progettualità. Anche quando

stremato, ridotto a niente, a semplice oggetto, trattato meno bene di un animale, per lui parla il suo essere un essere umano. Da qui si deve ripartite. E che sia un detenuto, un immigrato, che il suo vissuto sia dentro o meno una sentenza della Corte di Strasburgo, non fa alcuna differenza. Del resto, la nostra Costituzione è piena di dolore, è lo strumento più concreto che abbiamo nelle mani, ci parla delle persone qui e ora, per loro è stata pensata e voluta.

Mettiamoci nei panni del più debole tra i deboli al mondo. Da lui impariamo l’essenza del significato di essere un essere umano. Non siamo mai solamente il prodotto del mondo esterno. Ogni persona ha un suo perché. È l’approccio ai problemi quello che fa la differenza, più ancora di come si tenta di risolverli. Perché i problemi sono ovunque, se si riescono a vedere. Se non li vedi, non puoi risolverli.

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Dentro ciascun essere umano ci sono innumerevoli potenzialità, basta saperle guardare, accoglierle, anche tirarle fuori. Se questo dovesse essere l’approccio dei giudici italiani di fronte agli artt. 35, 35 bis e 35 ter, ecco che il senso di umanità costituzionale e se del caso convenzionale entrerebbe nei penitenziari italiani.

Non diverso quanto potrebbe accadere rispetto al tema dei rapporti tra giudici: ciò che dovrebbe contare non è chi afferma una determinata cosa, ma la determinata cosa. Se per il giudice è giusta, il giudice fa il suo mestiere se decide di darle corso. Se per il giudice è sbagliata, lo stesso fa il suo mestiere se non la segue. Se non fonda i suoi giudizi su riferimenti di valore, ma su basi di autorità, ha già cambiato l’approccio, perché distoglie lo sguardo dall’essere umano. E pensa ad altro, non lo ascolta, non si mette nei suoi panni. Pensa agli altri giudici, alle loro precedenti e consolidate pronunce.

Il nucleo essenziale degli articoli 35, 35 bis e 35 ter non è poi diverso da quello del consolidamento. Eludono il soggetto, rispettivamente, non considerandolo, considerandolo solo quando parla di diritti, immobilizzandolo in un precedente di Strasburgo, incastrandolo in chissà quali logiche concrete e reali governano di fatto il consolidamento giurisprudenziale. In questo ultimo caso, logiche capaci di appagare a prima vista il bisogno di certezza e di eguaglianza, ma nel medio-lungo periodo perdenti di fronte alla specificità e singolarità di ogni essere umano che domanda giustizia prima di tutto per lui.

Non rispetto ad altri, ma per lui. Spetta al giudice svolgere appieno il proprio mestiere, che nel minimo è quello di non denegare giustizia. Che non significa dare ragione. Ma capovolgere il punto di partenza: se fosse stato lui al posto di chi ora gli chiede di pronunciarsi, cosa si sarebbe aspettato dal giudice? La giustizia è denegata quando il giudice non risponde al chiesto, fosse anche per dare torto. È nel senso di umanità il destino della giurisdizione, che poi è anche, piaccia o meno, il destino di tutti noi. Il giudice non può dissentire dall’essere umano che gli rivolge una domanda. Da lì deve partire, non può considerarlo altro che un essere umano, al quale poi deciderà di dare torto o ragione.

La più importante briciola di pane che non possiamo permetterci di perdere è questa. È il diamante più prezioso del quale possiamo disporre, il quale va tenuto al riparo dal modo di pensare odierno, che tanto influenza anche il pensiero giuridico. Comunque lo si voglia guardare, un essere umano è sempre un essere umano, che deve essere considerato come tale. Potenziale generatore di progresso, riluttante ad ogni uniformazione, omologazione, geometrica-razionale costruzione.

Ha scritto uno dei più grandi pensatori del Novecento: “nel rituale l’uomo si dissolve”. Il termine rituale a me ricorda il termine consolidato. Non possiamo permetterci di dissolvere l’essere umano. Perderemmo prima di tutto noi stessi33.

33 Cfr. V. HAVEL, Il potere dei senza potere (1979), La Casa di Matriona, Milano, 2013, p. 45 (e si legga anche la bellissima prefazione di Marta Cartabia, ivi, p. 21 ss.).

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VERSO UN NUOVO RUOLO DELLA CONVENZIONE DI PALERMO NEL CONTRASTO ALLA CRIMINALITÀ TRANSNAZIONALE

Dopo l’approvazione del Meccanismo di Riesame ad opera della Conferenza delle Parti

di Maria Assunta Accili Sabbatini e Antonio Balsamo

SOMMARIO: 1. Uno strumento progettato guardando al futuro. – 2. L’importante novità del Meccanismo di Riesame. – 3. Il fondamentale contributo di Giovanni Falcone. – 4. La Convenzione di Palermo e la confisca: il potenziamento della cooperazione internazionale anche per le misure di prevenzione patrimoniali… – 5. …e la neutralizzazione dell’infiltrazione criminale nel tessuto economico. – 6. Lo sviluppo di nuove forme di cooperazione giudiziaria. – 7. La valorizzazione delle indagini comuni con l’impiego della “sorveglianza elettronica”. 1. Uno strumento progettato guardando al futuro.

A quasi venti anni dalla sua adozione, avvenuta a Palermo nel 2000, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale (con i suoi Protocolli volti a contrastare la tratta di esseri umani, il traffico illegale di migranti, la fabbricazione e il traffico illeciti di armi da fuoco) è sul punto di assumere un nuovo ruolo nel contrasto ad una vasta gamma di fenomeni delittuosi, che vanno dal riciclaggio al traffico di beni culturali, fino alle nuove frontiere del cybercrime. Non sono mancati, nella prassi più recente, casi assai significativi di utilizzazione della Convenzione ai fini della cooperazione internazionale contro il terrorismo internazionale, ad esempio nel contesto sudamericano e nordafricano.

Nel momento storico in cui venne varata la Convenzione, furono ben pochi a rendersi conto del valore aggiunto che il nuovo strumento poteva apportare alla lotta contro la criminalità organizzata nel contesto italiano. Prevaleva, allora, la convinzione che il quadro normativo e giudiziario interno fosse, nel suo complesso, molto più avanzato di quello appena impiantato a livello internazionale; e, in ogni caso, si pensava che la “nuova frontiera” in cui collocare l’azione antimafia potesse essere agevolmente rappresentata dalla dimensione europea.

Entrambi questi punti di vista devono, oggi, fare i conti con una innegabile realtà: – da un lato, è del tutto illusorio pensare che la dimensione della criminalità

organizzata transnazionale, sempre più attiva in una serie di traffici delittuosi che coinvolgono in modo strutturato e intenso altri continenti (basti pensare allo smuggling of migrants, alla tratta di persone, alla circolazione illegale di beni culturali, al commercio illecito di armi e di stupefacenti, a molteplici forme di cybercrime), possa essere

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combattuta esclusivamente facendo leva su un’azione coordinata dei Paesi europei, senza stabilire una cooperazione rafforzata con una ampia serie di Stati posti al di fuori dell’Unione;

– dall’altro lato, la legislazione “eurounitaria” continua a presentare problemi applicativi che riguardano rispettivamente la definizione del concetto di criminalità organizzata e la esecuzione all’estero delle misure di prevenzione patrimoniali, e che condizionano sensibilmente la effettività dell’azione antimafia intrapresa dalle autorità italiane.

Per converso, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale appare sempre più come uno strumento progettato guardando al futuro, tanto da conoscere una specie di seconda giovinezza. Sono frequenti i richiami alla Convenzione di Palermo in tutte le sedi dell’ONU in cui si discute delle nuove forme di manifestazione della criminalità, comprese quelle che neppure esistevano al momento in cui essa venne firmata. Sotto questo profilo, la nozione estremamente generale di “gruppo criminale organizzato”, che nel 2000 poteva apparire come un fattore di debolezza, oggi è divenuta un punto di forza, perché consente di adattare con la massima immediatezza la disciplina convenzionale all’incessante mutare della realtà.

A ben vedere, sono tre i pilastri su cui poggia il valore aggiunto della Convenzione di Palermo rispetto a tutte le altre produzioni normative intervenute sulla medesima materia a livello nazionale e sopranazionale:

a) l’ampiezza del suo ambito oggettivo di applicazione, che copre non solo i fenomeni della criminalità organizzata (intesa in senso ampio), del riciclaggio, della corruzione e dell’intralcio alla giustizia, ma tutti gli altri reati gravi (nel senso di punibili con una pena detentiva massima di almeno quattro anni: una categoria, dunque, vastissima), purché abbiano natura transnazionale e vedano coinvolto un gruppo criminale organizzato;

b) l’elevato numero degli Stati che vi hanno aderito (ben 189 su un totale di 193 Stati membri dell’ONU), che comporta una “universalità reale” dello strumento1;

c) l’incisività e vastità delle obbligazioni da essa imposte, che comprendono l’incriminazione di una serie di fenomeni delittuosi, rilevanti misure processuali, molteplici forme di cooperazione giudiziaria e di polizia, attività di prevenzione, di assistenza e tutela delle vittime, di protezione dei testimoni, di raccolta, scambio e analisi di informazioni, di formazione e assistenza tecnica, fino allo sviluppo economico.

Per tutte queste ragioni, la Convenzione di Palermo (con i suoi Protocolli addizionali) è divenuta lo strumento privilegiato per far compiere un salto di qualità alla lotta contro i più allarmanti fenomeni criminali, che non hanno formato oggetto di analoghi strumenti internazionali. 1 Cfr. G. MICHELINI – G. POLIMENI, Il fenomeno del crimine transnazionale e la Convenzione della Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, in Criminalità organizzata transnazionale e sistema penale italiano: la Convenzione ONU di Palermo, Ipsoa, 2007, p. 3.

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2. L’importante novità del Meccanismo di Riesame.

In dottrina è stata sottolineata la stretta correlazione che intercorre tra la qualificazione come “diritto” del diritto internazionale e l’esistenza di meccanismi che ne garantiscano l’applicazione2. Anche per la Convenzione di Palermo e per i suoi Protocolli aggiuntivi, la previsione di adeguati meccanismi internazionali di controllo sull’osservanza degli impegni assunti degli Stati-parte risulta cruciale per garantirne una efficace attuazione3. È chiaro che la mancata attuazione di un meccanismo specifico per verificare il grado di rispetto degli impegni assunti dalle Parti contraenti rappresentava, a livello universale, una occasione mancata4.

Questa lacuna è stata colmata proprio attraverso un recentissimo sviluppo, che crea le condizioni per dare alla Convenzione di Palermo un ruolo centrale nella strategia di contrasto alle “mafie in movimento” e ai più gravi fenomeni delittuosi emergenti.

È, infatti, stata data attuazione alla previsione dell’art. 32 della Convenzione di Palermo, secondo cui la Conferenza degli Stati Parte deve adottare un meccanismo per la revisione periodica della implementazione della Convenzione.

Si tratta di una disposizione analoga a quella contenuta in altri strumenti multilaterali (per esempio la Convenzione di Merida delle Nazioni Unite o la Convenzione del Consiglio d’Europa contro la corruzione), che hanno condotto a importanti riforme negli ordinamenti di numerosi Stati membri.

Nel 2016, per effetto della risoluzione 8/2 adottata dalle Nazioni Unite su iniziativa congiunta Italia-Francia, erano state definite l’architettura complessiva del meccanismo (che sarà un esercizio di peer review tra gli Stati, sotto l’egida della Conferenza degli Stati Parte) e le aree tematiche in cui raggruppare le diverse disposizioni della Convenzione (criminalizzazione e giurisdizione; prevenzione, assistenza tecnica e misure di protezione; sistema giudiziario e forze di polizia; cooperazione internazionale, assistenza giudiziaria e confisca).

Nella Nona Conferenza degli Stati Parte, svoltasi a Vienna dal 15 al 19 ottobre 2018, è stata approvata la risoluzione, proposta dall’Italia insieme con altri paesi e co-sponsorizzata da tutti gli Stati-parte, che istituisce il Meccanismo di revisione della implementazione della Convenzione di Palermo e dei relativi Protocolli, adottando altresì la Procedura e le Regole per il suo funzionamento.

Si tratta di uno strumento di valenza fondamentale per “radiografare” la legislazione dei 189 Paesi che hanno aderito alla Convenzione in materia di criminalità organizzata, riciclaggio, corruzione, traffico di migranti, tratta di esseri umani, fabbricazione e commercio illeciti di armi da fuoco; per scambiare le informazioni occorrenti ai fini del migliore funzionamento della cooperazione internazionale; per identificare le lacune che impediscono di contrastare efficacemente questi fenomeni

2 G. DIMITROPOULOS, Compliance through collegiality: peer review in international law, in Max Planck Institute Luxembourg for International, European and Regulatory Procedural Law, Working Paper Series, 2014, n. 3. 3 S. FORLATI, I meccanismi internazionali di controllo, in ID. (a cura di), La lotta alla tratta di esseri umani. Fra dimensione internazionale e ordinamento interno, Jovene, 2013. 4 S. FORLATI, op. cit., p. 39.

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delittuosi a livello globale; per promuovere le riforme legislative e organizzative necessarie in tutti i paesi coinvolti.

Tale sistema di controllo comprende una revisione di carattere generale (general review), affidata alla Conferenza degli Stati parte nella sua composizione plenaria, e le revisioni riguardanti i singoli ordinamenti nazionali (country reviews), al fine di identificare le migliori prassi adottate, le lacune esistenti, le sfide da fronteggiare, le esigenze di assistenza tecnica.

Le country reviews si svolgeranno secondo il metodo della peer review, con la previsione che per ciascuno Stato parte l’attuazione della Convenzione e dei relativi Protocolli verrà rivista da altri due Stati parte in un processo strutturato in quattro fasi tematiche in un arco di tempo di otto anni, con la adozione di rapporti intermedi al termine di ognuna delle fasi.

Il sistema così costruito conserva la sua natura intergovernativa, suscettibile di agevolare una collaborazione fruttuosa con il Paese oggetto di esame5. In esso viene, però, particolarmente valorizzato il ruolo della società civile, che sarà coinvolta in una pluralità di fasi del procedimento di revisione e sarà protagonista di un dialogo costruttivo da sviluppare regolarmente con i Gruppi di lavoro incaricati di formulare raccomandazioni di carattere generale sulla base delle liste di osservazioni relative ai singoli paesi. Tale modello di confronto costituisce un indubbio progresso rispetto a quello modello adottato nel contesto della Convenzione di Merida contro la corruzione.

Nella Conferenza internazionale conclusasi con l’approvazione della risoluzione che lo istituisce, è stata espressa in modo unanime la valutazione che tale meccanismo di revisione permetterà di rilanciare l’utilizzo della Convenzione di Palermo come “strumento vivente” (l’unico di natura universale) per la lotta al crimine organizzato internazionale, dando nuova linfa alle attività della stessa Conferenza e dei relativi gruppi di lavoro.

È evidente il particolare impulso che questo recentissimo sviluppo potrà dare al processo di progressiva armonizzazione delle legislazioni di tutti i paesi impegnati nel contrasto alle più gravi forme di criminalità, eliminando quei vuoti di tutela e quei disallineamenti di regolamentazione che ostacolano l’attività di contrasto a una vasta pluralità di fenomeni illeciti aventi sempre più una dimensione globale. 3. Il fondamentale contributo di Giovanni Falcone.

“Oggi si realizza il sogno di Giovanni di una piena cooperazione tra gli Stati nella lotta alla criminalità organizzata. Davanti a mafie globali che operano ben oltre i confini nazionali, dare piena attuazione e migliorare la Convenzione di Palermo del 2000 era fondamentale. Giovanni aveva intuito quanto fosse importante un'azione comune a tutti i Paesi contro la criminalità organizzata già negli anni '80, quando, da pioniere, avviò la sua collaborazione con

5 Cfr. S. FORLATI, op. cit., p. 31.

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gli investigatori americani nell'inchiesta Pizza Connection. Il risultato raggiunto oggi è la realizzazione di una sua lungimirante visione”. È questo il commento espresso, al momento della approvazione del Meccanismo di Revisione, da Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso nella strage di Capaci e presidente della Fondazione a lui intitolata6.

In effetti, alle radici della Convenzione di Palermo, e della sua speciale modernità, vi è la visione anticipatrice di Giovanni Falcone, che, proprio un mese prima della strage di Capaci, partecipò alla Prima Sessione della Commissione delle Nazioni Unite sulla Prevenzione della Criminalità e sulla Giustizia Penale, organizzata a Vienna dal 21 al 30 aprile 1992.

Si tratta di una riunione che ha segnato un netto salto di qualità nell’azione delle Nazioni Unite nel campo del diritto penale: da tale momento, e fino ad oggi, è stata data priorità alle questioni della cooperazione internazionale nella lotta alla grande criminalità, rispetto alle ben diverse tematiche che in precedenza avevano avuto la prevalenza7.

In quello che, con ogni probabilità, fu il suo ultimo discorso pubblico in una conferenza internazionale, Giovanni Falcone lanciò l’idea di una conferenza mondiale di alto livello politico per porre le fondamenta di una cooperazione internazionale contro la criminalità organizzata, considerata come un fenomeno di dimensione non più soltanto nazionale8.

Tale idea trovò poi realizzazione nella Conferenza Ministeriale Mondiale di Napoli sulla Criminalità Organizzata Transnazionale del 21–23 Novembre 1994: uno dei più importanti eventi mai organizzati dalle Nazioni Unite in questa materia, che adottò all’unanimità la Naples Political Declaration and Global Action Plan against Organized Transnational Crime, la quale un mese dopo fu adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU e richiese alla Commissione sulla Prevenzione della Criminalità e sulla Giustizia Penale di esaminare la possibilità di una Convenzione sulla Criminalità Organizzata Transnazionale9. A ciò seguirono le negoziazioni che hanno condotto, sei anni dopo, all’adozione della Convenzione di Palermo.

Al riguardo, il pensiero di Giovanni Falcone aveva già trovato un ampio consenso internazionale in occasione dell’incontro ministeriale sulla Creazione di un efficace programma delle Nazioni Unite in materia di prevenzione della criminalità e giustizia penale, convocato dal Segretario Generale dell’ONU a Versailles dal 21 al 23 novembre 1991.

6 V. sul punto l’articolo dal titolo: Aggiornata la convenzione di Palermo. Più cooperazione fra Stati contro le mafie, in La Repubblica, 20 ottobre 2018. 7 Cfr. G. MICHELINI – G. POLIMENI, Il fenomeno del crimine transnazionale e la Convenzione della Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, in Criminalità organizzata transnazionale e sistema penale italiano: la Convenzione ONU di Palermo, Ipsoa, 2007, p. 3. 8 V. sul punto la puntuale ricostruzione di D. VLASSIS, The global situation of transnational organized crime, the decision of the international community to develop an international Convention and the negotiation process, in Current situation of and countermeasures against transnational organized crime, Unafei, 2002, p. 480. 9 Cfr. M.C. BASSIOUNI – E. VETERE, Organized Crime, Transnational Publishers, 1998, xix ss.; VLASSIS, op. cit., p. 48.

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L’incontro di Versailles, al quale, secondo le testimonianze dei partecipanti, fu presente anche Giovanni Falcone, sviluppò una dichiarazione di principi e un programma d'azione, che l'Assemblea Generale dell’ONU adottò nella risoluzione 46/152 del 18 dicembre 1991. In questo documento si stabilì che il nuovo programma avrebbe concentrato le sue attività su aree specifiche di priorità, e avrebbe indirizzato le sue energie nel fornire tempestivamente assistenza pratica agli Stati su loro richiesta. L’azione contro il crimine organizzato figurava in modo prominente tra le aree di attenzione prioritaria per il nuovo programma. Sul piano istituzionale, l'Assemblea dell’ONU decise che il Comitato sulla prevenzione e sul controllo della criminalità sarebbe stato sostituito dalla Commissione sulla Prevenzione della Criminalità e sulla Giustizia Penale, una commissione funzionale del Consiglio Economico e Sociale, composta dai rappresentanti di quaranta governi.

La nuova Commissione iniziò i suoi lavori a Vienna il 21 aprile 1992. La discussione generale si concentrò sin dall’inizio sulla implementazione delle raccomandazioni dell’incontro ministeriale di Versailles. Tra i primi ad intervenire vi fu Giovanni Falcone, che guidava la delegazione italiana. Il contenuto della sua dichiarazione è così riassunto nel comunicato stampa del 21 aprile 1992 del Servizio Informazione delle Nazioni Unite:

«Giovanni Falcone (Italia) ha detto che la Commissione ha il compito difficile di rendere il nuovo Programma sostanziale e concreto, mentre le relative risorse rimangono limitate. Nella sua prima sessione, la Commissione dovrebbe concentrarsi sulla definizione degli aspetti organizzativi del lavoro e sulla selezione dei temi prioritari per un'azione concreta.

La Commissione dovrebbe definire obiettivi specifici per ciascun tema prioritario scelto e adottare progetti operativi per il raggiungimento di tali obiettivi, egli ha continuato. Devono essere indicati ciò che ciascun progetto comporta e il tempo richiesto per la sua implementazione, in modo che possa essere monitorato. Nella scelta dei temi prioritari la Commissione dovrebbe prendere in considerazione le attività attualmente in corso di elaborazione e includerle in programmi futuri di azione, se necessario.

Gli standard e le norme delle Nazioni Unite per la giustizia penale e i trattati-modello sviluppati nel corso degli anni sono di grande valore, ha detto. Ma, in futuro, l'obiettivo dovrebbe essere quello di accrescere la loro utilità con le attività di cooperazione tecnica, piuttosto che effettuare aggiunte o perfezionamenti su quelli esistenti. Dovrebbero essere intraprese attività operative, come lo scambio di esperienze, i servizi di consulenza legale, i seminari informativi e la preparazione di manuali pratici. Anche la raccolta di dati correlati alla criminalità dovrebbe essere rafforzata. La partecipazione di organizzazioni non governative nel lavoro delle Nazioni Unite nella prevenzione della criminalità e nella giustizia penale dovrebbe essere incoraggiata.

Per quanto attiene ai temi prioritari, egli, ha suggerito di affrontare la criminalità organizzata e la criminalità economica come una priorità assoluta poiché questi reati hanno colpito le istituzioni nazionali e il tessuto sociale dei paesi di tutte le regioni del mondo. I reati in esame includono droga e altri traffici illeciti, riciclaggio di denaro sporco, corruzione e frode. Le Nazioni Unite avrebbero potuto collaborare alla lotta contro tali attività criminali contribuendo alla preparazione di misure nazionali e alle norme di cooperazione tra le nazioni. Dovrebbero essere individuate forme di coordinamento adeguate con il programma internazionale di controllo

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delle droghe delle Nazioni Unite (UNDCP) in campi come il traffico di droga e il riciclaggio di denaro».

L’impulso dato da Giovanni Falcone a quelle iniziative internazionali che hanno portato alla Convenzione di Palermo fu il momento finale di una serie di attività da lui svolte presso la sede di Vienna delle Nazioni Unite, che presentano un importantissimo tratto in comune: il passaggio da una visione “individualistica” ad una analisi in termini collettivi, strutturali ed economici dei fenomeni criminali più gravi, tra cui, in particolare, il traffico di stupefacenti.

Si trattò, in effetti, del principale settore di interesse internazionale seguito da Giovanni Falcone, insieme allo sviluppo della cooperazione giudiziaria, specialmente con gli U.S.A. e altri paesi dell’America settentrionale, centrale e meridionale.

In particolare, Giovanni Falcone partecipò ai seguenti incontri presso le Nazioni Unite:

1) la riunione del gruppo di esperti incaricato di redigere uno studio in tema di confisca dei proventi illeciti del traffico di stupefacenti, organizzata a Vienna dal 24 al 28 ottobre 1983;

2) la riunione di esperti su “confisca prodotti e ricavi del traffico di droga”, organizzata a Vienna dal 29 ottobre al 2 novembre 1984;

3) l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite tenutasi a New York dal 19 al 23 febbraio 1990 ed avente ad oggetto la cooperazione internazionale nella repressione del traffico internazionale di stupefacenti;

4) le riunioni del gruppo di esperti intergovernativi per studiare le conseguenze economiche e sociali del traffico di droga, organizzate a Vienna dal 21 al 25 maggio e dal 9 al 20 luglio 1990.

Per comprendere il rilievo assunto già dalle prime attività di Giovanni Falcone nel contesto delle Nazioni Unite, svoltesi negli anni 1983-84, deve tenersi presente che la prima Convenzione dell’ONU che contiene una dettagliata disciplina della confisca è proprio quella contro il traffico illecito di stupefacenti, conclusa a Vienna il 20 dicembre 1988.

Contemporaneamente, Giovanni Falcone si rese protagonista, nel mondo della giustizia italiana, di un radicale cambiamento di impostazione che metteva in primo piano l’intervento patrimoniale, visto come uno snodo essenziale per potenziare l’efficacia dell’approccio giudiziario al fenomeno mafioso, nella sua dimensione imprenditoriale e nel suo collegamento con il traffico internazionale di stupefacenti.

Risale, appunto, al 1983 una famosa riflessione in cui Giovanni Falcone segnalava che “il vero tallone d'Achille delle organizzazioni mafiose è costituito dalle tracce che lasciano dietro di sé i grandi movimenti di denaro, connessi alle attività criminose più lucrose”, con la conseguenza che “lo sviluppo di queste tracce, attraverso un’indagine patrimoniale che segua il flusso di denaro proveniente dai traffici illeciti, è quindi la strada maestra, l’aspetto decisamente da privilegiare nelle investigazioni in materia di mafia, perché è quello che maggiormente consente agli inquirenti di costruire un reticolo

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di prove obiettive, documentali, univoche, insuscettibili di distorsioni, e foriere di conferme e riscontri ai dati emergenti dall’attività probatoria di tipo tradizionale”10.

Si tratta di una precisa scelta di campo: in un sistema nel quale le dinamiche patrimoniali e finanziarie trascendono i confini nazionali, orientano le strutture illegali secondo criteri di razionalità imprenditoriale e le rendono largamente insensibili all’identità ed alle vicende giudiziarie dei singoli componenti, una valida strategia di lotta alle mafie – di qualsiasi matrice etnica – deve incidere con forza sulle basi economiche del crimine organizzato, cioè su quella vastissima rete di beni e rapporti economici destinati alla conservazione ed all’esercizio dei poteri criminali11. 4. La Convenzione di Palermo e la confisca: il potenziamento della cooperazione internazionale anche per le misure di prevenzione patrimoniali…

Proprio nel settore della confisca può individuarsi uno dei principali elementi di modernità e efficacia della Convenzione di Palermo, le cui disposizioni offrono una valida soluzione per alcuni dei maggiori problemi incontrati dalle autorità giudiziarie nazionali nel contrasto alle forme più gravi e insidiose di criminalità organizzata:

– da un lato, la cooperazione internazionale per la confisca di patrimoni situati, in tutto o in parte, all’estero;

– dall’altro lato, la neutralizzazione della dimensione imprenditoriale delle associazioni criminali.

Iniziando dal primo problema, va osservato che nella normativa dell’Unione Europea è stato affrontato, e in modo non del tutto definitivo, soltanto con il recentissimo Regolamento (UE) 2018/1805 del 14 novembre 2018 relativo al riconoscimento reciproco delle decisioni di sequestro e di confisca emesse all’esito di un procedimento di natura non penale.

Si tratta di tutte quelle ipotesi di non-conviction based confiscation che vengono applicate all’esito di una procedura relativa al patrimonio (c.d. actio in rem), la quale non presenta come condizione indispensabile la pronunzia di una condanna penale, pur richiedendo l’accertamento della matrice illegale dei beni.

Alla confisca penale “classica” si affiancano, così, nuovi tipi di confisca, che non restano limitati al profitto ottenuto in virtù del singolo reato, si ricollegano a forme sintomatiche di pericolosità, ed intervengono su centri di ricchezza che, per la loro origine o destinazione sospetta, legittimano forme penetranti di controllo. L’oggetto del giudizio viene a concentrarsi sugli aspetti economici del fenomeno criminale.

Il prototipo di tale modello è rappresentato dalla civil forfeiture sempre più diffusa negli ordinamenti di common law (inglese, scozzese, irlandese, statunitense, australiano); in tale ambito si colloca, dopo le riforme intervenute tra il 2008 e il 2011, il sistema

10 G. FALCONE – G. TURONE, Tecniche di indagine in materia di mafia, in AA.VV., Riflessioni ed esperienze sul fenomeno mafioso, a cura del Consiglio Superiore della Magistratura, Roma, 1983, p. 46 ss. 11 L. FORNARI, Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie, Cedam, 1997, p. 5-102.

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italiano delle misure di prevenzione patrimoniali, che ha rappresentato il modello delle riforme recentemente introdotte in altri ordinamenti, come quello albanese.

La non-conviction based confiscation, nelle sue varie forme, rappresenta una delle più importanti espressioni della scelta di adeguare la risposta giudiziaria alla dimensione economica e collettiva che la criminalità del profitto sta assumendo con sempre maggiore estensione nell’epoca della globalizzazione.

Nella stessa direzione si collocano le tendenze di fondo che caratterizzano l’evoluzione del “diritto dell’intervento patrimoniale” nei principali ordinamenti esposti al rischio di una pesante destabilizzazione per effetto dell’emergere del fenomeno del terrorismo internazionale. La trasposizione a tale settore di strumenti già collaudati contro la criminalità organizzata discende dalla necessità di adeguare la reazione giuridica all’attuale realtà del finanziamento del terrorismo, che si caratterizza per la diffusa compresenza di risorse lecite e illecite, l'utilizzo di canali informali e lo sfruttamento dell'economia legale12.

Grazie alle figure “moderne” di confisca presenti nell'ordinamento italiano, è stato possibile sequestrare beni per un ammontare di decine di miliardi di euro, secondo la stima effettuata in diverse occasioni dal Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo.

Risultati di questa portata sono stati conseguiti attraverso un sistema processuale e probatorio che, nelle sue linee portanti, ha ricevuto una valutazione nettamente positiva da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale, con un orientamento ormai consolidato, muovendo dalla constatazione che «gli enormi profitti che le organizzazioni mafiose traggono dalle loro attività illecite conferiscono a tali organizzazioni un potere che mette in causa il primato del diritto all’interno dello Stato», ha riconosciuto che la confisca di prevenzione rientra nel margine di apprezzamento spettante agli Stati nel regolamentare l’uso dei beni conformemente all’interesse generale, particolarmente nel quadro di una politica criminale volta a combattere il fenomeno della grande criminalità.

Valutazioni parimenti positive sono state espresse dalla Corte di Strasburgo a proposito di varie ipotesi di non-conviction based confiscation previste da altri ordinamenti, segnatamente per reati di narcotraffico e di corruzione.

Tutte queste forme di confisca, tanto efficaci quanto rispettose dei diritti fondamentali, solo in epoca recentissima hanno formato oggetto di disciplina nell’ambito della normativa “eurounitaria”, che in passato aveva già applicato il principio del reciproco riconoscimento alle decisioni giudiziarie della più diversa natura.

Precisamente, il Regolamento (UE) 2018/1805 del 14 novembre 2018, relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca, dovrebbe applicarsi, secondo il “considerando” n. 13, a tutti i provvedimenti di congelamento e tutti i provvedimenti di confisca emessi “nel quadro di un procedimento in materia

12 A. BALSAMO, La prevenzione ante-delictum, in AA.VV., Contrasto al terrorismo interno e internazionale, a cura di R.E. Kostoris – R. Orlandi, Giappichelli, 2006.

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penale”, con la precisazione che quello di “procedimento in materia penale” è “un concetto autonomo del diritto dell'Unione interpretato dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, ferma restando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo”.

Si tratta di un concetto che ricomprende tutti i tipi di sequestro e di confisca “emessi in seguito a procedimenti connessi ad un reato” e va sicuramente oltre i confini della Direttiva 2014/42/UE, del 3 aprile 2014, relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea, la quale aveva perseguito l’obiettivo della armonizzazione delle legislazioni nazionali in questa materia. Nel suddetto “considerando” viene, infatti, espressamente affermato che il nuovo Regolamento “contempla inoltre altri tipi di provvedimenti emessi in assenza di una condanna definitiva”, e si aggiunge che “benché tali provvedimenti possano non esistere nell'ordinamento giuridico di uno Stato membro, lo Stato membro interessato dovrebbe essere in grado di riconoscere ed eseguire tali provvedimenti emessi da un altro Stato membro”. Per converso, però, si precisa che i provvedimenti di sequestro e confisca “emessi nel quadro di procedimenti in materia civile o amministrativa” dovrebbero essere esclusi dall'ambito di applicazione del Regolamento.

Si è, dunque, in presenza di un persistente problema applicativo a proposito della applicabilità del Regolamento alle misure di prevenzione patrimoniali italiane, le quali, al pari di analoghe ipotesi contemplate da altri ordinamenti, da un lato sono qualificabili come provvedimenti “emessi in seguito a procedimenti connessi ad un reato”, ma dall’altro lato, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, restano soggette soltanto ai principi del “processo equo” valevoli per le controversie su diritti ed obbligazioni di carattere civile, di cui all’art. 6, § 1, della CEDU, in quanto sono applicate attraverso una procedura in rem, si sostanziano in forme di regolamentazione dell’uso dei beni in conformità all’interesse generale, e sono quindi riconducibili alla previsione dell’art. 1, § 2, del Protocollo n. 1 addizionale alla CEDU13.

Per eliminare ogni dubbio sulla inclusione delle misure di prevenzione patrimoniali nell’area di operatività del nuovo regolamento, la soluzione preferibile sembra essere quella di una estensione al relativo procedimento di tutte le garanzie previste dall’art. 6, § 1, della CEDU in rapporto alla materia penale.

Negli ultimi quindici anni, si è comunque registrato un deciso impulso a favore della cooperazione giudiziaria internazionale in relazione alle misure di prevenzione patrimoniali italiane, avvalendosi delle previsioni della Convenzione di Strasburgo dell’8 novembre 1990 sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato. Di particolare interesse appaiono, in proposito, la pronuncia emessa in data 13

13 Cfr. C. Eur. Dir. Uomo, 22.2.1994, Raimondo c. Italia; 15.6.1999, Prisco c. Italia; 5.1.2010, Bongiorno e altri c. Italia. Con riguardo alle forme di forfeiture previste nell’ordinamento inglese rispettivamente dal Drug Trafficking Act 1994 e dal Criminal Justice (International Co-operation) Act 1990, v. C. Eur. Dir. Uomo, 27.6.2002, Butler c. Regno Unito, e 10.2.2004, Webb c. Regno Unito, che le qualificano come misure preventive non assimilabili a sanzioni penali, in quanto finalizzate a togliere dalla circolazione denaro presumibilmente connesso al traffico internazionale di sostanze stupefacenti, all’esito di un procedimento che non implica una decisione su un’accusa penale.

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novembre 2003 dalla Corte di Cassazione francese14, e la sentenza del 21 gennaio 2011 del Tribunale penale federale svizzero15.

Alla Convenzione di Strasburgo, tuttavia, hanno aderito soltanto 49 Stati, tutti membri del Consiglio d’Europa, eccetto l’Australia e il Kazakistan. Si tratta dunque di uno strumento che non consente di colpire i patrimoni di organizzazioni criminali situati fuori da tale, limitato, contesto territoriale.

L’esigenza, manifestata ripetutamente anche nell’ambito delle Nazioni Unite, di assicurare il riconoscimento e l’esecuzione all’estero dei provvedimenti di confisca di qualsiasi natura (penale o extrapenale), purché conformi agli standard internazionali di tutela dei diritti fondamentali, a ben vedere può trovare attuazione proprio grazie alla Convenzione di Palermo.

L’art. 13 della Convenzione, infatti, impegna gli Stati-parte ad una intensa cooperazione internazionale ai fini della confisca.

Precisamente, lo Stato-parte, che abbia ricevuto da un altro una richiesta di confisca di “proventi di reato, beni, attrezzature o altri strumenti” situati sul suo territorio, dovrà presentarla “nella più ampia misura possibile nell’ambito del suo ordinamento giuridico interno” alle sue autorità competenti al fine di ottenere un provvedimento di confisca ovvero la esecuzione dell’ordine di confisca emesso dall’organo giurisdizionale dello Stato richiedente. Lo Stato-parte, inoltre, dovrà adottare “misure per identificare, localizzare, congelare o sequestrare i proventi di reato, i beni, le attrezzature o altri strumenti” ai fini di un’eventuale confisca, disposta secondo le anzidette modalità.

Tali obblighi prescindono del tutto dall’esistenza di una condanna e dalla natura penale del procedimento nel quale viene emesso l’ordine di confisca: si richiede soltanto che tale provvedimento abbia ad oggetto “proventi” derivanti dai reati previsti dalla Convenzione, o beni di valore corrispondente a tali proventi, ovvero “beni, attrezzature e altri strumenti utilizzati o destinati ad essere utilizzati per la commissione di reati” previsti dalla Convenzione.

Questa conclusione è agevolmente desumibile dal tenore letterale dell’art. 13, che richiama esclusivamente la nozione di confisca contenuta nell’art. 2 della Convenzione, la quale, a sua volta, “include – laddove applicabile – l’ipotesi della forfeiture” (cioè il prototipo della categoria della non-conviction based confiscation) e “indica la definitiva ablazione di beni a seguito di decisione del tribunale o di altra autorità competente”, senza alcuna specificazione in ordine alla natura penale o extrapenale della decisione de qua o dell’autorità competente ad emetterla.

14 Cfr. G. MELILLO, L’esecuzione all’estero delle misure di prevenzione patrimoniali (Una interessante pronuncia della Corte di cassazione francese), in Quest. giust., 2004; A. BALSAMO – G. DE AMICIS, L’art. 12-quinquies della l. n. 356/1992 e la tutela del sistema economico contro le nuove strategie delle organizzazioni criminali: repressione penale “anticipata” e prospettive di collaborazione internazionale, in Cass. pen., 2005, p. 2078 ss. 15 La pronuncia è pubblicata in questa Rivista, 11 luglio 2011, con nota di E. NICOSIA, Il Tribunale penale federale svizzero accoglie una rogatoria della Procura di Milano finalizzata alla confisca "di prevenzione" di conti bancari.

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Alle stesse conclusioni conduce il contenuto della Legislative Guide, che al n. 375 contempla espressamente la possibilità, per il legislatore nazionale, di “non richiedere una condanna penale come condizione per ottenere un ordine di confisca”.

Non vi è dubbio, quindi, che attraverso la Convenzione di Palermo sia possibile ottenere l’esecuzione all’estero del sequestro e della confisca di prevenzione, come pure delle analoghe ipotesi di civil forfeiture, persino in misura più ampia di quella consentita dalla Convenzione di Strasburgo (che richiede pur sempre una condanna, anche se emessa in un diverso procedimento). 5. …e la neutralizzazione dell’infiltrazione criminale nel tessuto economico.

Ma la Convenzione di Palermo presenta un ulteriore vantaggio sul piano dell’efficienza della confisca: quello di incidere sulle varie forme di penetrazione della criminalità organizzata nel tessuto economico, fino a colpire il fenomeno emergente dell’impresa a partecipazione mafiosa.

Si tratta di una conseguenza del concetto estremamente ampio di “provento del reato” desumibile dall’art. 2 della Convenzione, che indica “qualunque bene derivato o ottenuto, direttamente o indirettamente, attraverso la commissione di un reato”.

Il provento, così inteso, deve formare oggetto di confisca, per consentire la quale gli Stati parte “adottano, nella più ampia misura possibile nell’ambito dei loro ordinamenti giuridici interni, le misure necessarie”.

A ciò vengono ad aggiungersi le previsioni contenute nei paragrafi 3, 4 e 5 dell’art. 12, che (come chiarito dalla Legislative Guide) richiedono di estendere la confisca anche:

– agli altri beni in cui il provento di reato è stato trasformato o convertito, in tutto o in parte;

– ai beni acquisiti da fonte legittima, con i quali il provento di reato è stato confuso (in tal caso l’ablazione è consentita “fino al valore stimato del provento di reato”);

– agli “incassi o altri vantaggi” derivati dal provento di reato o da tutte le suddette categorie di beni.

Peraltro, i Travaux Préparatoires (p. 115) specificano che nella nozione di “altri vantaggi” rientrano non solo i vantaggi materiali, ma anche tutti i diritti e le pretese opponibili a terzi: in altri termini, quel vasto complesso di rapporti giuridici di cui è composta l’azienda.

A ben vedere, le previsioni dell’art. 12 della Convenzione di Palermo impongono di adottare, ai fini della individuazione dell’oggetto della confisca, quel criterio interpretativo attraverso cui la giurisprudenza italiana ha incluso nell’ambito delle misure di prevenzione patrimoniali non solo le più varie fattispecie concrete di utilizzazione ovvero di sostituzione di beni illegalmente acquisiti, ma anche tutte le condotte di immissione di beni di provenienza illecita (diretta o indiretta) nei normali circuiti economici e finanziari, e le situazioni nelle quali una determinata iniziativa

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imprenditoriale abbia potuto sorgere o espandersi grazie allo stretto collegamento del suo titolare con un’organizzazione criminale.

Per effetto della suesposta interpretazione, le misure di prevenzione patrimoniali hanno manifestato una forte modernità sul piano del contrasto delle nuove forme di intreccio tra mafie ed economia che rappresentano tipiche espressioni della “circolazione di modelli criminali” connessa al più generale fenomeno della globalizzazione.

In particolare, la confisca di prevenzione è stata applicata in modo significativo rispetto alla realtà emergente dell’impresa a partecipazione mafiosa, caratterizzata dalla compresenza di interessi illegali con interessi legali, in un rapporto di società di fatto che può anche prescindere da attività di riciclaggio.

Tale orientamento interpretativo muove dalla premessa che ciò che definisce il carattere mafioso di un’impresa può essere, alternativamente: a) la natura del processo di accumulazione che ha determinato la sua formazione e che continua a sorreggerla, ovvero che determina l’immissione di capitale nell’impresa da una certa fase in poi; oppure b) il carattere della forza specifica che costituisce il suo principale strumento di affermazione economica. In quest’ultimo caso, l’impresa trova la propria capacità competitiva essenzialmente nella forza di intimidazione del sodalizio criminale, la quale consente di regolare il mercato, dettando criteri di comportamento a tutti gli operatori, e di eliminare la concorrenza.

Si tratta di un’operazione interpretativa pienamente coerente con tutte le sopra menzionate disposizioni della Convenzione di Palermo, a partire dall’art. 2 che non a caso accompagna all’ipotesi del bene “derivato” dalla commissione di un reato quella, ulteriore, del bene “ottenuto” mediante la commissione del reato: fattispecie, questa, che descrive perfettamente la situazione delle imprese che, per quanto non finanziate con capitali illeciti, si sono affermate sul mercato attraverso il ricorso alla forza intimidatrice o corruttiva di un gruppo criminale transnazionale.

Inoltre, in forza del paragrafo 4 dell’art. 12, la confusione – tipica delle attività imprenditoriali – del provento dei reati con altri beni di origine lecita non impedisce di procedere alla confisca “per equivalente”.

La suesposta estensione dell’oggetto della confisca opera pure in relazione ai beni situati nel territorio di altri Stati-parte della Convenzione di Palermo, come si desume dai Travaux Préparatoires (p. 123) che assimilano pienamente, sul piano degli obblighi di cooperazione giudiziaria internazionale, l’ipotesi dei proventi di reato e le ulteriori situazioni disciplinate dai paragrafi 3-5 dell’art. 12 (conversione, confusione, ecc.).

La Convenzione di Palermo, dunque, può dare un forte impulso alla neutralizzazione della capacità di condizionamento esercitata delle organizzazioni criminali transnazionali sul tessuto socio-economico di uno o più Stati, inserendo pienamente anche le forme più avanzate di confisca nel circuito della cooperazione giudiziaria internazionale.

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6. Lo sviluppo di nuove forme di cooperazione giudiziaria. La straordinaria utilità della Convenzione di Palermo sul piano della

cooperazione giudiziaria internazionale è stata ben compresa da quei Paesi – come gli U.S.A. – che sulla base di essa hanno sviluppato centinaia di richieste di assistenza giudiziaria. Si tratta, oltretutto, di uno strumento che, per la sua duttilità, consente di fronteggiare tutte quelle nuove forme di criminalità che sono contraddistinte da un particolare allarme sociale ma restano prive di specifica considerazione in altre Convenzioni internazionali.

L’art. 18 della Convenzione di Palermo viene attualmente utilizzato, sulla base di un recentissimo progetto finanziato dall’Italia e dall’Olanda, come base per nuove forme di cooperazione giudiziaria contro il traffico illegale di migranti, attraverso la continuativa collaborazione di un magistrato nigeriano con le Procure di Catania e di Palermo, così da potenziare efficacemente lo scambio di informazioni con i paesi di origine dei flussi migratori.

La Convenzione di Palermo, inoltre, svolge un ruolo essenziale nella promozione dei programmi di assistenza tecnica ai Paesi in via di sviluppo. In particolare, l’art. 30 costituisce il fondamento di fondamentali iniziative finalizzate alla costruzione delle capacità degli organi giudiziari e investigativi e alla adozione delle riforme legislative occorrenti nei Paesi extraeuropei; si pensi, ad esempio, alla necessaria criminalizzazione del delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, tuttora mancante in diversi Stati.

Se, da un lato, matura sempre più la consapevolezza di come, in presenza di una combinazione di specifici fattori economico-sociali, qualunque area geografica sia a rischio di infiltrazione da parte di organizzazioni criminali16, dall’altro lato di è in presenza di una significativa circolazione di modelli giuridici, che può trovare la sua base giuridica e tecnica proprio nella Convenzione di Palermo, soprattutto dopo il maggiore livello di effettività che essa potrà conseguire grazie al Meccanismo di Riesame.

7. La valorizzazione delle indagini comuni con l’impiego della “sorveglianza elettronica”.

Appaiono di straordinaria modernità gli artt. 18, 19, 20 della Convenzione di

Palermo che vertono su temi come l’assistenza giudiziaria reciproca, le indagini comuni e le tecniche investigative speciali (comprese la sorveglianza elettronica e le operazioni sotto copertura). Si tratta di disposizioni che possono rivelarsi autentiche armi vincenti per:

16 Come evidenziato, del resto, dai migliori studi scientifici, condotti anche su Paesi molto diversi dall’Italia: F. VARESE, Mafie in movimento, Einaudi, 2011, XIII

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– realizzare con i paesi terzi, estranei all’Unione Europea, nuove forme di cooperazione giudiziaria, indispensabili per contrastare fenomeni criminali aventi natura globale;

– superare gli ostacoli che si frappongono alla raccolta delle prove in paesi dove le istituzioni dello Stato attraversano un difficile processo di ricostruzione, mentre vaste zone del territorio sono sotto il controllo di organizzazioni criminali impegnate in molteplici attività delittuose, dal traffico dei migranti al commercio illegale di armi e di stupefacenti;

– predisporre un quadro di standard internazionali che rafforzino la funzionalità, e al tempo stesso le garanzie, per le nuove tecniche investigative rese necessarie dall’evoluzione tecnologica.

Sotto quest’ultimo profilo, va osservato che una utilizzazione congiunta degli gli artt. 18, 19, 20 della Convenzione può far compiere un vero e proprio salto di qualità alle indagini su molteplici fenomeni criminali transnazionali (dal traffico di migranti fino alle attività del terrorismo internazionale) attraverso la valorizzazione della reciproca assistenza tra autorità giudiziarie e forze di polizia, e lo sviluppo di investigazioni comuni, imperniate sui nuovi strumenti di ricerca della prova, come la “sorveglianza elettronica”.

Nella nozione di “sorveglianza elettronica” – che la Convenzione di Palermo ha espressamente impiegato all’art. 20 – possono comprendersi tutti quei nuovi strumenti investigativi (il c.d. “captatore informatico”) capaci di realizzare, attraverso un meccanismo tecnologico di semplice implementazione (un programma del tipo trojan horse installato in modo occulto su un dispositivo elettronico), tutto il complesso degli effetti di una pluralità di mezzi di ricerca della prova, sia tipici che atipici: le intercettazioni telefoniche, ambientali, di comunicazioni informatiche o telematiche, la perquisizione di un sistema informatico o telematico, il sequestro di dati informatici, le videoriprese, ecc.

È evidente la indispensabilità di simili strumenti in una fase storica che ha conosciuto una rapidissima evoluzione sia del sistema globale delle comunicazioni (sempre più spesso veicolate da sistemi informatici o telematici, tanto che ormai si riscontra un netto ridimensionamento delle distinzione tra telecomunicazioni e flussi informatici), sia delle modalità di azione degli ambienti criminali (sempre più caratterizzate dall’uso della tecnologia informatica, anche al di fuori dell’area del cybercrime in senso stretto: si pensi al ruolo-chiave che le comunicazioni via internet hanno assunto per lo sviluppo del terrorismo, o dei traffici internazionali di stupefacenti, o del riciclaggio). Tuttavia, in mancanza di una base giuridica adeguata che ne consenta l’impiego su obiettivi situati all’estero, la sorveglianza elettronica rischia di divenire un’arma spuntata: i confini nazionali, che non riescono a frenare la estrema mobilità dei traffici illeciti, imbriglierebbero inflessibilmente la più moderna attività investigativa. Le nuove forme di indagine rese possibili dagli sviluppi della tecnologia possono invece esprimere le loro potenzialità rispetto ai fenomeni criminali transnazionali se si collegano agli altri strumenti previsti dagli artt. 18 e 19 della Convenzione di Palermo (Mutual legal assistance e Joint investigations). Strumenti, questi, che possono compiere un salto di qualità proprio

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grazie al nuovo Review Mechanism, finalizzato a rafforzare la cooperazione giudiziaria internazionale e a programmare tutte le forme di assistenza tecnica necessarie per i paesi coinvolti.