Facciamoci riconoscere - Tempi Moderni...Il tema migratorio è ancora oggi oggetto della campagna...

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1 marzo 2016 6 EURO TARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1 COMMA 1, DCB MENSILE DI RELIGIONI · POLITICA · SOCIETÀ mar 2016 Facciamoci riconoscere

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marzo 2016

6 EUROTARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1 COMMA 1, DCB

MENSILE DI RELIGIONI · POLITICA · SOCIETÀ

mar2016

“Facciamoci riconoscere”

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ANNO XLIIINUMERO 3Confronti, mensile di religioni, politica, società, è proprietà della cooperativa di lettori Com Nuovi Tempi, rappresentata dal Consiglio di Amministrazione: Nicoletta Cocretoli, Ernesto Flavio Ghizzoni (presidente), Daniela Mazzarella, Piera Rella, Stefania Sarallo (vicepresidente).

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Copertina e pagina 7

Andrea Sabbadini;

pagine 3, 9, 29, 31,

34 e 38

Abby C. Wheatley;

pagina 33

Umberto Feola.

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marzo 2016

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marzo 2016 le immaginimarzo 2016

FORTEZZA A STELLE E STRISCE

Sono 6.571 i morti, dal

1998 al 2015, tra i migranti che tentano di raggiungere il confine tra

Messico e Stati Uniti. Un confine lungo 3200 chilometri,

che dal 1994 in poi è stato gestito come

una barriera, un muro, da sorvegliare e proteggere.

Il tema migratorio

è ancora oggi oggetto della

campagna politica

americana, lo affrontiamo

col servizio a pagina 28.

Foto di Abby C.

Wheatley

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il sommario

il sommario

marzo 2016

GLI EDITORIALI

Tornino i voltiLuca Di Sciullo6

La strada in salita del Consiglio per l’islamPaolo Naso7

ISERVIZI

UNIONI CIVILIColmare il ritardosui dirittiFelice Mill Colorni10

Una famiglia in trasformazione(int. a) Selene Zorzi12

«Un matrimonio sotto un altro nome»(int. a) Lucio Malan14

POLITICAA che punto è l’Italia di Renzi?Biagio De Giovanni15

È Possibile un Movimento di Sinistra?Roberto Bertoni17

GEOPOLITICAIran e Arabia Saudita: così vicini, così lontaniFranco Cardini19

CHIESA CATTOLICAL’abbraccio del papa con Kirill, le inquietudini del MessicoLuigi Sandri23

IMMIGRATIUna bussola che punta al Nord globaleAbby C. Wheatley28

La faccia triste dell’AmericaMarta Bernardini30

SOCIETÀUomini e caporali, la schiavitù senza cateneMarco Omizzolo32

LENOTIZIE

Ambiente I dossier di LegambienteMal’aria e Pendolaria35

Migrazioni Azione comune di organizzazioni religiose e agenzie Onu35

Immigrazione L’Osservatorio romano sulle migrazioni dell’Idos36

Islam “Patti” dei Comuni con organizzazioni islamiche36

Diritti umaniIl rapporto di Amnesty sulla Francia37

Ortodossia In preparazione il Concilio pan-ortodosso37

LERUBRICHE

Salute e religioni Storie di lebbrae santità nel medioevoDaniele Solvi39

Diario africanoLa “campagna d’Africa” di Matteo RenziEnzo Nucci40

In genere Oltre l’8 marzoSabina Baral41

Note dal margineIl sacro in affittoGiovanni Franzoni42

Opinione Il senso della fede passa anche da Pietrelcina?Ottavio Di Grazia43

Opinione L’islam non può mai legittimare l’odio Yahya Pallavicini44

ILIBRI

Segnalazioni 45

IMMAGINI

Facciamoci riconoscereAndrea Sabbadinicopertina

Fortezza a stelle e strisceAbby C. Wheatley 3

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marzo 2016

Semi e fiori di pace Claudio Paravati

Da molti anni, questa è la diciottesima edizione, siamo impegnati come Confronti nel progetto “Semi di pace” (22-28 febbraio

2016), col quale portiamo in Italia testimoni da Israele e Palestina, operatori di pace che raccontano le loro storie, i loro progetti, le loro sfide quotidiane. Semi di pace, che non si può far altro che curare, da lontano, cercando di contribuire alla loro crescita e vitalità. Ma certo l’agone politico è ben altra cosa, gigante rispetto alle nostre forze. Eppure anche a fronte del nostro quotidiano, fatto di attività varie, vicende personali, preoccupazioni e tutto ciò che riguarda le nostre vite, il seme intanto germoglia e cresce senza che si sappia come.

Come dire: ognuno faccia la propria parte. Il programma Semi di pace propone ancora una volta uno spazio pubblico, incontri nelle scuole e con le associazioni, a Roma e in Italia, affinché quel dibattito pubblico, massmediatico, spesso facile ai toni forti e alle contrapposizioni senza se e senza ma, viva anche di queste testimonianze. Quelle di chi nel quotidiano costruisce progetti di pace.

In tanti anche da noi in Italia, disincantati o delusi, esprimono una sfiducia che talvolta rasenta la rinuncia per una possibile soluzione del conflitto in corso in un’area che, ahinoi, vive una stagione drammatica. Quel Vicino Oriente tutto, su cui la geopolitica mondiale agisce, ancora una volta sulla pelle delle popolazioni locali, il braccio di ferro, complicato, stratificato, degli equilibri politici internazionali.

Quanto è importante ricordarsi dei volti, delle singole vite e delle storie particolari, proprio in momenti come questi. Attraverso Semi di pace, ecco potremmo dire così, incontriamo volti, storie e testimonianze. Senza la pretesa di far crescere piante, ma semmai con l’impegno, quello sì, di curare i “semi”. Quest’anno abbiamo incontrato Ikhlas e Tova, dell’associazione “Parents’ Circle”; Mossi e Maysa, di Radio “All For Peace”; Nachshon e Luy, di “Road to Recovery” e “Basmat al-Amal”. Semi, dunque, ancora una volta, che però (questa è la speranza) crescono. In che modo, dipende anche da noi. Non perdetevi i loro racconti sui prossimi numeri di Confronti.

invito alla lettura

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marzo 2016 gli editoriali

Torninoi volti Luca Di Sciullo

I volti, finalmente. Quelli di una giovane mamma siriana e della

sua bambina bisognosa di cure, atterrate a Fiumicino lo scorso 4 febbraio grazie al primo “corridoio umanitario” promosso in Italia dalla Federazione delle Chiese evangeliche e dalla Comunità di Sant’Egidio, con il sostegno, tra l’altro, dell’Otto per mille della Chiesa valdese, riservato a mille profughi in condizioni di vulnerabilità che si trovino in stati limitrofi a quelli di guerra, persecuzione, morte. I volti, finalmente. Una carne e un incarnato. Tratti umani in cui cercarsi e possibilmente ritrovarsi, riconoscersi. Distinguersi, anche. Prendere le distanze, perfino. Distanze umane, però.È davvero troppo poco, una moneta uguale smerciata ai suoi quattro angoli, per fare identità. Nella sua effige avveniristica impressa su un soldo (un logo stellato, che più che mai evoca lontananze siderali, vuoti cosmici irraggiungibili), l’Europa cartolarizza il suo debito di identità. Svende se stessa, polverizzandosi. E paga così, dietro un’effige volutamente impersonale, il lavoro sporco (tre miliardi di euro) a chi (la Turchia, ndr)ha dato buona prova di spregiudicatezza per proteggere dalle nuove invasioni post-moderne la fragile bolla d’ossigeno in cui il (sempre più) vecchio continente boccheggia. Le sue “radici” seccano al sole artificiale, telematico, dei mercati

finanziari. Alla dura legge della ripresa a tutti i costi,

dei differenziali di rendimento, dell’austerity sì e no. Non capisce più chi sia, cosa sia. Perché non sa più, in fondo, dove sia. Le sue frontiere, le linee che ne tracciano il profilo, che ne disegnano il volto – i con-fini insomma: quei limiti-che-condivide, letteralmente, con il mondo “terzo”, il concorrente della porta accanto – sono sempre più liquidi. Ma di una liquidità inversa: si ergono, solidi e gelidi come il ghiaccio, non appena il “contesto” si fa caldo, rovente.

Come in estate, tempo di traversate, di barche in mare, di immersioni subacquee... e si sciolgono, fino ad appiattirsi, quando tutto si raffredda. Dublino d’estate, Schengen d’inverno. Nel mezzo: il malinconico autunno comunitario. Muraglie o distese (di sabbia o di mare): spinate o spianate. Comunque non-luoghi. Mai soglie. Morirvi significa accettare, oltre al tragico destino, l’insulto beffardo che sempre accompagna l’abitare un non-luogo: l’anonimato, la cancellazione del volto, la riduzione a cifra (prerogativa di ogni “campo” di emarginazione che la storia attesta: profughi, rom, di concentramento...).Si vive, dicono, in società complesse. Una complessità che interpola, all’interno dei rapporti intersoggettivi,

una serie di mediazioni oggettive che si moltiplicano esponenzialmente con l’estendersi dell’orizzonte sociale di riferimento. Agenzie, servizi, enti “di collegamento” che inter-vengono a “regolare” l’incontro e la relazione a tutti i livelli: tra datore di lavoro e lavoratore, tra acquirente e venditore, tra cliente e fornitore, tra risparmiatore e investitore, tra colleghi di “categoria”, tra coinquilini. E persino tra (possibili) partner sentimentali. La continua differenziazione di queste strutture, tanto più astratte e distanti quanto più operano a livelli ulteriori di mediazione (“società di società”, “servizi di servizi”, ecc.) e in forma sempre più impalpabile (“in remoto”, online, on cloud; con sempre meno sedi “materiali” o sportelli “fisici”), non solo rende i rapporti umani tanto più indiretti e impersonali, ma anche sempre più condizionati da una rappresentazione dell’altro standardizzata, precostituita.Questa complessità ha fatto dell’assenza una forma parossistica della presenza: così, l’assenza è un assedio. L’orizzonte sociale, quello che ci dà identità, diventa tanto più inafferrabile quanto più si fa pervasivo nella spessa schermatura di infrastrutture sempre più sfuggenti, dove il “faccia a faccia” è rimandato a un altrove inimmaginabile di cui il monitor (di computer, tablet, pc, televisori onnipresenti) costituisce il nuovo fantasmagorico velo di Maia. Tornino i volti, finalmente. Quelli della piccola Falak, di sua madre Yasmine, di papà e fratellino. All’aeroporto di Fiumicino, il 4 febbraio scorso.

LUCA DI SCIULLOCentro studi e ricerche Idos.

“Grazie al primo corridoio umanitario promosso da

Fcei e Sant’Egidio, centinaia di profughi hanno trovato

accoglienza nel nostro paese„

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marzo 2016 gli editoriali

La strada in salita del Consiglio per l’islam Paolo Naso

Può capitare che dopo una vita passata a descrivere, valutare e

criticare le politiche sull’islam, ci si trovi nella condizione di poter avanzare proposte e suggerimenti a chi ha il potere di prendere delle decisioni ai più alti livelli istituzionali. È accaduto al gruppo di “esperti”– alcuni dei quali firme ricorrenti su Confronti, compresa la mia – che nello scorso dicembre il ministro Alfano ha nominato membri del Consiglio per l’islam, un organismo consultivo che affianca la “Consulta” composta, invece, dai rappresentanti delle associazioni di musulmani che operano in Italia. E così, mentre in tutta Europa sale l’ondata islamofobica e da più parti si chiede di respingere alle frontiere gli immigrati musulmani, il Viminale sembra imboccare la strada opposta del dialogo e del confronto diretto con questa comunità che in Italia, come noto, ha superato da tempo il milione e mezzo di membri.Diciamo pure che la nomina di organismo consultivo non è una novità. Una prima “Consulta” era già stata istituita dal ministro Pisanu nel 2005 e confermata dal suo successore Amato nel 2006. Questo organismo, che raccoglieva le diverse anime dell’islam italiano, entrò in crisi nel 2007 per varie ragioni ma soprattutto per la “rottura” con l’Unione delle comunità islamiche d’Italia (Ucoii) seguita alla pubblicazione di un manifesto che equiparava i bombardamenti israeliani in Libano alle stragi naziste delle Fosse Ardeatine e di Marzabotto. Da destra e da sinistra

si levò un coro unanime: “fascismo islamico”, “paragone vergognoso e inquietante”, “iniziativa opposta a quella del dialogo e della pace”. Il ministro e i suoi consiglieri pensarono che la via d’uscita alla crisi interna alla “Consulta” potesse essere l’approvazione di una “Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione” che impegnasse

tutte le organizzazioni islamiche a rispettare alcuni valori fondamentali della Repubblica. Seguì un lungo lavoro che produsse un testo che in 31 articoli richiamava e sintetizzava i principi e le norme fondamentali della Costituzione. La “Carta” fu quindi presentata ufficialmente nel 2007 e sottoscritta da vari enti religiosi, non solo islamici, ma non

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dall’Ucoii che ritenne superfluo formalizzare ciò che a suo avviso era ovvio ed implicito: ovvero che l’organizzazione e i suoi aderenti riconoscono e si impegnano a rispettare le leggi del paese in cui vivono. Agli occhi dell’Ucoii e di alcuni osservatori, la richiesta di un atto formale di sottomissione alla Costituzione italiana da parte dei musulmani – o degli aderenti ad altre comunità di fede composte in prevalenza di immigrati – sembrava avvalorare il pregiudizio di una fedeltà dubbia e incerta ai principi fondamentali che reggono lo Stato democratico.

La cerimonia della firma della “Carta”, ormai quasi dieci anni fa, segnò pertanto anche la sostanziale conclusione di quel processo. Oltretutto nel 2008 cambiò il quadro politico e, dopo la breve parentesi del governo Prodi II, Berlusconi tornava a Palazzo Chigi affidando il Viminale al leghista Roberto Maroni. Fu svolta anche nella “politica islamica”: fu infatti costituito il “Comitato per l’islam”, un organismo incaricato di redigere “pareri” su temi specifici quali le moschee, il “velo”, la nomina e la formazione degli imam.Lavoro importante e per alcuni aspetti meritorio, inficiato dalla debolezza dello strumento adottato: un parere, per quanto autorevole,

non è altro che un’idea che se non viene assunta e trasformata in una norma non produce alcun effetto. E infatti siamo arrivati al 2016 con un paniere di provvedimenti “positivi” scandalosamente vuoto mentre, all’opposto, esercitano tutto il loro peso alcune norme che limitano la libertà religiosa dei musulmani e, con essi, degli aderenti ad altre comunità di fede non tutelate dalle Intese previste dall’articolo 8 della Costituzione. Ci riferiamo, ad esempio, alla legislazione della Regione Lombardia (bocciata dalla Corte costituzionale il 23 febbraio, proprio mentre andavamo in stampa, ndr) in materia di edifici adibiti al culto, definita “tagliaminareti”: definizione colorita ma inappropriata perché il provvedimento non colpisce soltanto i centri islamici ma anche i luoghi di culto di altre confessioni religiose, e non si limita affatto e condizionarne la forma architettonica ma arriva a vietarne la stessa apertura.E allora, in estrema e cruda sintesi, la fotografia dell’islam in Italia è quella di una grande comunità religiosa, diffusa capillarmente in tutto il territorio nazionale; con l’eccezione del Centro islamico culturale d’Italia che gestisce la “Grande moschea” di Roma, priva di riconoscimento giuridico; frammentata in varie rappresentanze e limitata nell’esercizio del culto; troppo spesso vittima di pregiudizi e condanne sommarie che minano la convivenza e la coesione sociale. E tutto questo in un quadro geopolitico nel quale i musulmani che credono nel dialogo e nella convivenza subiscono gli attacchi spietati dei gruppi islamisti più radicali e fanatizzati. È l’islam “in mezzo”: tra l’incudine della violenza primordiale di chi inneggia al califfato e l’islamofobia dell’Occidente impaurito dall’altra.Per definizione, un organismo consultivo ha un ruolo limitato e la sua unica forza è l’autorevolezza scientifica e la preparazione culturale dei membri che lo compongono. In un paese religiosamente sempre più analfabeta come l’Italia, è quindi

auspicabile che il Consiglio elabori e diffonda chiavi di interpretazione su che cosa è l’islam; su come nella teologia, nella storia e nello spazio pubblico si relaziona alle altre comunità di fede; sulle mappe teologiche della sua pluralità teologica e politica; sulle strategie più efficaci per promuovere processi di integrazione dei musulmani di più recente immigrazione in Italia. Ma mettiamo le mani avanti: tutto questo avrà senso solo se all’interpretazione e all’analisi si accompagnerà la decisione politica. Ferma restando la legge in vigore sui culti “ammessi” – altro discorso la sua obsolescenza e la necessità di una urgente riforma complessiva della delicata materia della libertà religiosa e di coscienza – il lavoro di un Consiglio avrà senso soltanto se decisori politici e organi dello Stato sapranno fare la loro parte. E l’arretrato che si è accumulato sulle loro scrivanie in questo decennio è poderoso: dal riconoscimento giuridico di altre rappresentanze islamiche – come avviene di routine per le altre confessioni – alla “nomina” dei ministri di culto; dalla necessità di luoghi di culto adeguati, dignitosi e trasparenti alla formazione di guide spirituali in grado di orientare la comunità nella direzione di un islam “italiano” ed “europeo” a tutti gli effetti, e cioè capace di interpretarsi nello specifico della cultura, delle tradizioni e dello spazio pubblico dei nostri paesi.All’inizio di un mandato è velleitario fare proclami, ma è doveroso indicare dove si vuole andare. E la strada sembra obbligata: la Costituzione italiana tutela la libertà di culto in pubblico e in privato, quella degli ebrei o dei cattolici al pari di quella dell’islam o dei pentecostali. Per varie ragioni sappiamo, però, che nei fatti si è costruita una gerarchia dell’accesso alla libertà religiosa che ancora oggi pone l’islam vari gradini al di sotto di altre confessioni. Si tratta di recuperare un grave ritardo: il cammino, tutto in salita, parte da qui.

“A fine dicembre il ministro Alfano ha confermato

la Consulta per l’islam, composta da rappresentanti

di varie associazioni di musulmani attive in Italia,

e nominato un “Consiglio” di esperti invitato a proporre

provvedimenti e buone pratiche. Tra coloro che lo compongono, vi sono vari

collaboratori di Confronti e un ex direttore della nostra

testata, Paolo Naso, chiamato a coordinare questo nuovo

organismo„

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i servizi

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marzo 2016 i servizi | UNIONI CIVILI

Colmare il ritardo sui diritti

Felice Mill Colorni

La maggior parte dei paesi occidentali ha già una legislazione molto avanzata in tema di riconoscimento di effetti giuridici alle convivenze omosessuali. La proposta

di legge Cirinnà (inclusa la stepchild adoption) appare “il minimo sindacale” per colmare i ritardi italiani in materia.

Nel XIX secolo l’abolizione della schiavitù dei neri era una causa progressista. Sarebbe

difficile definire progressista chi si pronunciasse contro la schiavitù dei neri nel XXI secolo. Piut-tosto, chi sostenesse la tesi opposta sarebbe da considerare, più che un reazionario, un patetico troglodita.Così una legge in materia di diritti degli omoses-suali che avrebbe potuto essere considerata ab-bastanza progredita un quarto di secolo fa può risultare oggi tremendamente arretrata.Ventisette anni fa veniva approvata in Danimarca la prima legge che riconosceva rilevanza giuridi-ca alle famiglie omosessuali. Quella legge, modello per molte altre negli anni successivi, pur non at-tribuendo alle unioni gay il titolo di matrimonio, vi applicava puramente e semplicemente, con un rinvio alla normativa matrimoniale, l’identico trattamento. La legge passò, come poi in molti al-tri paesi, senza troppe polemiche, e, fin da subi-to, la stessa Chiesa di Stato luterana cominciò a benedire le unioni gay, anche quelle contratte da suoi pastori e parroci.Si trattava di uno sviluppo del tutto naturale. Per secoli, in Danimarca come altrove, l’omosessua-lità era stata bandita e perseguita anche penal-mente. Man mano che il principio della libertà di espressione veniva “preso sul serio”, a partire dagli anni Sessanta e più animatamente nel de-cennio successivo, anche agli omosessuali “co-muni” – non più soltanto a eccentrici artisti o ad anticonformisti professi – era stato dato di testi-moniare liberamente come la loro non fosse una scelta di vita volontaria, bensì una condizione esi-stenziale ascritta, non oggetto di scelta libera e di-screzionale, ma di constatazione: la maggioranza che per secoli, finché era persistito il tabù su una libera discussione pubblica in materia, aveva na-turalmente pensato che l’omosessualità fosse una

forma di perversa o malata persistenza in quella fase di sessualità indefinita che quasi tutti speri-mentano nell’adolescenza, veniva a scoprire che, per una minoranza di esseri umani, l’evoluzio-ne del proprio orientamento sessuale li portava verso l’omosessualità, altrettanto naturalmente e spontaneamente quanto per la maggioranza avve-niva il contrario.Di qui, negli anni Sessanta, in tutti i paesi demo-cratici, l’abrogazione delle leggi che ancora puni-vano l’omosessualità; di qui la sua cancellazione dalla lista delle condizioni patologiche da parte degli organismi medici nazionali e internazionali. Di qui la presa d’atto che un trattamento giuri-dico discriminatorio nei confronti degli omoses-suali era altrettanto inaccettabile quanto quelli per secoli imposti agli appartenenti per nascita o per sorte ad altre minoranze. Le discriminazio-ni nei confronti degli omosessuali si rivelavano alla coscienza civile occidentale come fondate sul pregiudizio, esattamente come quelle, altrettanto secolari, contro le donne, gli ebrei, i neri, ecc.: non simili, ma identiche, nella loro sostanza, al razzismo in senso stretto e alla discriminazione razziale.Il processo del riconoscimento di effetti giuridici alle convivenze omosessuali sarebbe stato anche più rapido, in molti paesi, se i movimenti per i di-ritti dei gay, nati nel Nord Europa su un’iniziale base riformista, non avessero per lo più abbrac-ciato negli anni Settanta la cultura diffusa nella nuova sinistra post-sessantottina, secondo cui non si trattava di rimuovere discriminazioni ma di fare la rivoluzione: se «la famiglia borghese si abbatte e non si cambia», l’obiettivo della parità dei diritti era inutile. Per questo in Olanda furo-no per anni i movimenti gay a rifiutare le offerte di riconoscimento giuridico delle coppie, avanza-te da socialisti e liberalradicali: così la prima leg-ge sul riconoscimento giuridico delle coppie gay fu introdotta nella più pragmatica Danimarca.Con poche variazioni, quel modello danese fu gradualmente introdotto negli anni successivi in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale, in mol-

UNIONI CIVILIFelice Mill Colorni p.10Selene Zorzi p.12Lucio Malan p.14

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marzo 2016 i servizi | UNIONI CIVILI

ti Stati degli Usa e latinoamericani. Molto spesso il problema delle adozioni – non solo l’adozione del figlio del partner, ma anche l’adozione in ge-nerale – neppure si pose, dato che, in molti pae-si, era già prevista la possibilità dell’adozione da parte dei single.Parzialmente diversa fu la strada inizialmente adottata dalla Francia, che nel 1999 introdusse il pacs (patto civile di solidarietà), che, anziché estendere la legislazione matrimoniale alle coppie gay sotto una denominazione diversa, introdusse una sorta di “matrimonio leggero” con diritti e doveri attenuati, non discriminatorio, però, per-ché contraibile tanto dalle coppie eterosessua-li (che in effetti lo utilizzano di più) quanto da quelle omosessuali.Ma ormai la consapevolezza civile della illegit-timità di ogni discriminazione si era fatta stra-da nella coscienza civile e giuridica del mondo occidentale, per cui, a partire dal 2001, comin-ciarono a cadere anche le ultime discriminazio-ni formali, e in Olanda, per la prima volta, fu semplicemente soppresso il requisito della diffe-renza di sesso per contrarre matrimonio. Veniva così a cadere anche la differenza di denomina-zione e la necessità di un istituto giuridico speci-fico per i soli gay.Oggi gli omosessuali possono contrarre matrimo-nio, esattamente come ogni coppia eterosessuale, in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale e, dopo la sentenza della Corte Suprema dello scorso anno, in tutti gli Stati Uniti, nonché in molti paesi dell’America Latina. Anche in paesi di forte tra-dizione cattolica, come Spagna, Irlanda, Francia, Belgio, Portogallo, Argentina e Brasile. Nei paesi che ancora non hanno provveduto, sono comun-que previste leggi sulle unioni civili simili all’o-riginario modello danese. E quasi ovunque sono previste anche forme di regolamentazione delle

convivenze – indipendentemente dal sesso dei con-viventi – meno impegnative del matrimonio.In Italia siamo ancora a zero. Tanto che l’an-no scorso la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia. E, in caso di ulteriore ina-dempienza, l’Italia sarà condannata a pagare ri-sarcimenti insostenibili alle coppie discriminate. Di qui la corsa a una legge. Il progetto Cirinnà è davvero il minimo sindacale, necessario a evitare pesanti sanzioni.Non solo il progetto non prevede parità di diritti e pari dignità sociale per le coppie omosessua-li, dato che prevede per queste un trattamento comunque differenziato, ma finge di prendere a modello la legge tedesca, che già è la più arretrata dell’Europa occidentale perché è ormai vecchia di 15 anni. Perfino questo modello sembra ecces-sivo a una classe politica complessivamente tro-gloditica.Eppure, se non vi sono figli, in che cosa mai la convivenza fra due persone dello stesso sesso avrebbe esigenze diverse da quelle di una coppia eterosessuale che, per le più varie ragioni (età, sterilità), non possa o non voglia avere figli?Della possibilità di adozioni il progetto non par-la neppure, se non per quel che riguarda l’ado-zione del figlio naturale di uno dei due partner. E perfino questo suscita, in Italia, controversie insanabili. Tutti dicono di avere come priorità l’“interesse del minore”. Sennonché, nell’inter-pretazione di molti politicanti italiani, l’interesse del minore cui venisse meno il genitore naturale sarebbe quello di venire strappato anche all’al-tra persona che ha sempre considerato l’unico altro componente della propria famiglia. Pare agghiacciante, ma è l’orientamento di gran parte di una classe politica che fa ormai dell’Italia una terra di mezzo fra paesi democratici e paesi fon-damentalisti.

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marzo 2016 i servizi | UNIONI CIVILI

Una famigliain trasformazione

Selene Zorzi

[intervista a cura di Daniela Mazzarella]

La teologa Selene Zorzi, ideatrice del sito Co-ordinamento teologhe italiane (che ha gestito

dal 2003 al 2013), si occupa di teorie di genere e ha scritto vari libri, tra cui Al di là del “genio femminile” (Carocci editore, 2014). L’abbiamo interv-istata sulle questioni sollevate dalla proposta di legge Cirinnà, intorno alla quale si è creato un dibattito ac-ceso, con toni da vera e propria Cro-ciata da parte di un fronte cattolico politicamente trasversale ma decisa-mente compatto nella sua battaglia alla “famiglia diversa”.

Da cattolica come vive le polemiche intorno al ddl Cirinnà? Il fronte cattolico è molto meno compatto di quanto sembri, come sempre del resto. A volte si dimentica che l’adesione alla Chiesa non ha le caratteristiche di un’adesione ad un partito politico o a delle idee, ma è l’appartenenza ad una comunità che condivide un’e-sperienza di fede dove i membri hanno opinioni an-che differenti. Quello che vedo compatto è un fronte di persone, spesso anche non cattoliche, che hanno su queste questioni idee molto confuse, che non han-no dimestichezza con la terminologia degli studi di genere e che confondono le moltissime questioni in ballo. La famiglia è importantissima e resterà fon-damentale cellula della società, ma è indubbio che essa stia attraversando una trasformazione dei suoi modelli. Come cattolica vivo i toni da Crociata, che spesso emergono nel dibattito, in modo molto imba-razzato, sia quando ad impugnarli sono persone più sprovvedute nella loro formazione cristiana, biblica o teologica, che si fanno portatori improbabili di una voce cattolica popolare, sia quando sono impugnati da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Penso però che il dibattito con la parte pensante del paese spetti agli intellettuali cattolici e non vada lasciato al po-pulismo. Fu un vescovo cattolico a dire che la diffe-renza più importante non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa.

Nel mio piccolo tento di chiarire il più possi-bile, laddove mi sia possibile, la differenza tra studi di genere e “ideologia del gender”, dando in mano anche a persone semplici una strumen-tazione linguistica e concettuale capace di farli orientare nel dibattito che riguarda anche il te-sto del ddl Cirinnà.

Tanti personaggi pubblici hanno citato la Bibbia come supporto alle loro tesi in difesa della “fa-miglia naturale”, ma c’è anche chi lo ha fatto con intento contrario. Per esempio Carlo Fla-migni, ginecologo e membro del Comitato na-zionale di bioetica, ha detto che nella Bibbia si trovano casi di maternità surrogata. Da teologa, come spiega queste letture diametralmente op-poste delle Scritture?La Bibbia è tutt’altro che univoca su queste tema-tiche, ma non va dimenticato che anch’essa è frut-to di una mentalità patriarcale. Se nelle storie dei patriarchi o di altri personaggi della Bibbia tro-viamo una sorta di quella che oggi (!) noi moderni chiamiamo maternità surrogata non ci dobbiamo dimenticare che stiamo applicando categorie mo-derne ad un testo antico che non aveva queste problematiche. Anzi, la cosa era possibile in quella società perché le donne schiave non avevano una dignità ed erano considerate, al pari delle mogli, proprietà del capoclan. Non credo che la Bibbia debba essere citata per supportare o meno delle scelte che appartengono ad un’agenda moderna che essa non aveva.La Bibbia va sempre interpretata nel suo contesto, perché non c’è nessun dato senza interpretazione e la lettura letterale e fondamentalista è attualmen-te esclusa nell’interpretazione cattolica. Le Sacre Scritture non sono un codice di comportamento etico ma un racconto che vuole trasmettere un’espe-rienza spirituale. L’approccio storico-critico deve ricordar-ci la distanza linguistica, con-cettuale e mentale tra noi, la

SELENE ZORZIteologa, scrittricee docente all’Istituto teologico marchigiano.

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nostra epoca, le nostre istanze e quelle nelle quali la Bibbia è stata scritta.

Secondo lei cosa c’è alla base di questa vera e propria fobia della presunta ideologia gender che porta a una demonizzazione della stepchild adoption?Sto facendomi l’idea che l’ideologia del gender sia una scorretta interpretazione e un fraintendi-mento totale degli studi di genere e in quanto tale infatti è improponibile. Ciascuno di noi moderni europei, e forse anche la maggior parte degli ita-liani, ad un livello teorico ritiene che ogni persona di qualsiasi sesso abbia la stessa dignità e gli stessi diritti. Questo è il cuore del messaggio evangelico e in fondo il femminismo ne è un frutto, essendo sorto nelle società di cultura cristiana, come già ricordava papa Giovanni XXIII. Poi però consta-tiamo come a livello sociale si faccia ancora fatica a integrare questa convinzione teorica nelle strut-ture e nelle istituzioni sociali, comprese quelle ec-clesiali. La fobia, a mio parere, viene da un terzo e ulteriore livello, quello viscerale, in cui abbiamo

introiettato gli schemi di genere patriarcali, che se non riflettu-ti funzionano come assunzioni acritiche in cui non vediamo di essere intrappolati e che ci imbrigliano in un coacervo di preconcetti. Il modello della fa-miglia cosiddetta tradizionale si è formato e perfezionato lungo molti secoli di storia in modo da garantire il futuro della società. Era un modello in cui il padre era padrone dei suoi figli, che

erano utilizzati come forza lavoro fin da piccoli; e non parliamo poi delle condizioni della donna in questo modello. Il mondo contadino dal quale si è originato però non c’è più da almeno 50 anni neanche in Italia e siamo ineluttabilmente entrati in un diverso schema societario che richiede adat-tamenti mentali, sociali e istituzionali per la nostra futura evoluzione, come anche nuove capacità spi-rituali per affrontarla.

Pensa che una riforma del sistema delle adozio-ni in Italia, con apertura alle coppie non sposa-te e ai single, potrebbe contribuire all’accetta-zione delle diverse teorie del genere?Le teorie dovrebbero solo aiutarci a comprendere meglio il reale. Il reale è che ci sono bambini che crescono affezionandosi a persone che più di chiun-que altro potrebbero adottarli. Conosco una vergine consacrata che ha adottato una zingara. Ci sono già ora situazioni particolari in cui questa possibilità viene applicata. Le situazioni sono sempre partico-lari. La legge permetterebbe di alleggerire la buro-crazia che delega tali scelte ai tanti tribunali oramai zeppi di queste richieste. Ovviamente bisognerà vigilare, come avviene sempre, per garantire il fan-ciullo e come già succede per le coppie etero. La spi-ritualità ci ha insegnato che non è il sesso maschile o femminile a decidere della capacità morale di una persona e della sua capacità di responsabilità, cura e amorevolezza, e spesso nemmeno del suo ruolo pubblico. L’“adozione” di minorenni, che avveniva anticamente da parte delle comunità religiose, non ha mai cambiato le teorie di genere di quell’epoca. Il papato di Bergoglio sta rappresentando una vera rivoluzione per la Chiesa cattolica, che però continua a rimanere rigida su questi argomenti, tanto da sembrare in dissonanza con il corso della storia. Ci può spiegare questa anomalia?A mio parere c’è solo il peso di uno schema di re-lazioni familiari, tipico della società contadina, che forse appartiene all’età media dei membri della Chiesa cattolica o dei suoi rappresentanti. Molti cat-tolici accusano alcuni parlamentari di avere troppa fretta su queste questioni e fanno appello al rispet-to di una maggiore gradualità delle trasformazioni, come se fossimo ancora in tempo con il treno della storia e delle nuove generazioni. Io ho timore, e spe-ro di sbagliarmi, che il treno con la società una certa Chiesa cattolica lo abbia già perso, ma confido che lo Spirito sia sempre in azione, sia nella Chiesa sia nella storia; anzi mi sembra già in azione nella socie-tà, che forse sta precedendo i missionari evangelici nella trasfigurazione del mondo. Lo Spirito è capace di far risorgere i morti dai sepolcri!

“La spiritualità ci ha insegnato che non è il sesso maschile o femminile a decidere della capacità morale

di una persona e della sua capacità di responsabilità, cura e amorevolezza, e

spesso nemmeno del suo ruolo pubblico„

i servizi | UNIONI CIVILI

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marzo 2016 i servizi | UNIONI CIVILI

«Un matrimoniosotto un altro nome»

Lucio Malan

[intervista a cura di Adriano Gizzi]

Il senatore Malan ha seguito il ddl Cirinnà fin dall’inizio, in commissione Giustizia del Sena-

to, e ora la sua battaglia contro l’approvazione della proposta di legge prosegue in aula. Lo ab-biamo intervistato nel pieno dello scontro par-lamentare.

Senatore Malan, quali sono i motivi principali per i quali siete contrari all’approvazione del ddl Cirinnà?1) Perché è un matrimonio sotto un altro nome, mentre riteniamo che la tutela del tutto parti-colare dell’istituto matrimoniale vada riservata alla coppia feconda. Ciò non implica mancanza di rispetto per ogni tipo di affetto e relazione, ma non si può ignorare la realtà naturale. Per amare, per vivere insieme, per essere solidali non c’è bisogno di alcun istituto statale. Alcune pre-rogative vanno riconosciute, ma la parità con il matrimonio non ha senso. 2) Perché crea delle dispa-rità incomprensibili: a una donna che è stata una vita con un uomo, ha avuto da lui dei bambini e per questo ha rinunciato o diminuito la sua carriera lavorativa non si dà la reversi-bilità perché non è sposata, mentre se fa una unione civile con un’altra donna sì. Ha senso? 3) Perché introduce le adozioni.

Sareste disposti a votare la proposta di legge se si limitasse a prevedere solamente le unioni civili, anche per persone dello stesso sesso?Unioni civili senza adozione le voteremmo volen-tieri. Ma il ddl Cirinnà, essendo un matrimonio sotto altro nome, porterebbe comunque alle ado-zioni, anche se tolte dal testo, per via giudiziaria poiché molto presto un giudice direbbe che se è in

tutto un matrimonio l’unio-ne deve avere le medesime prerogative. Come è avve-nuto in Germania.

Cosa c’è di sbagliato, a suo parere, nel princi-pio della “stepchild adoption”?La stepchild adoption per le coppie dello stesso sesso favorisce, incoraggia e certifica il fenome-no dell’utero in affitto, dove la donna diventa incubatrice e il bambino è oggetto di un contrat-to di vendita. Con la “adozione del figliastro” per le coppie omosessuali si creano premeditatamente bambi-ni privi del padre o della madre e imporre loro di avere due madri o due padri non è un rimedio ma una grottesca imposizione ideologica. Non vale l’argomento di tutelare il bambino in caso di morte del genitore: in questo caso già la legge del 1983 (Disciplina dell’adozione e dell’affida-mento dei minori, ndr) consente l’adozione da

parte di persona che abbia con il bambino una relazione stabile e duratura.

Aver sollevato il pericolo dell’u-tero in affitto e della “mercifi-cazione dei bambini” ha lasciato intendere all’opinione pubblica che questa pratica fosse prevista dalla proposta di legge, ma i di-

fensori del provvedimento ripetono invece che resterà in ogni caso vietata...Coloro che sono favorevoli all’adozione del figliastro da anni dicono che in Italia ci sono “centomila bambini arcobaleno”. In realtà, secondo l’Istat sono 500, ma non cambia: da dove vengono se non da utero in affitto, dove si fa sparire la madre, o da una pratica dove il padre è premeditatamente tolto di mezzo? Coppie di uomini con “i loro” bambini sono intervistate in televisione e si vantano di non aver lasciato che la madre li toccasse o li allat-tasse neppure una volta, dicendo che “madre è un concetto antropologico”. Negare che questi siano i beneficiari della stepchild adoption è come negare che il sole esiste.

LUCIO MALANsenatore di Forza Italia

“Le Unioni civili senza adozione le

voteremmo volentieri. Ma il ddl Cirinnà,

essendo un matrimonio sotto altro nome,

porterebbe comunque alle adozioni„

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marzo 2016 i servizi | POLITICA

Il giudizio sull’operato del governo Renzi non è semplice, fra le luci e le ombre che accompagna-

no ogni esecutivo, e sono diversi i piani che vanno individuati per una rappresentazione realistica e possibilmente fondata del problema. Muoviamo da una costatazione: Renzi non ha nessuna al-ternativa politica al proprio governo, nemmeno lontana. E forse la prima domanda da porsi è da formulare così: come mai? La risposta è chiara: l’Italia era giunta sull’orlo di un abisso, non solo legato agli ultimi esiti del governo Berlusconi, ma, al momento della sua crisi, la soluzione che pre-valse, con il governo Monti, fermò gli aspetti più drammatici dell’abisso che si andava spalancan-do, ma non aveva la forza per poter fare altro. Il governo Letta è stato l’ombra di un governo. Il fatto è che l’Italia politica aveva perduto ogni consistenza, la sinistra storica sedeva sulle pro-prie inconsapevoli macerie non ancora evocate e poi rottamate, la destra pure (anche se in altra dimensione), i tecnici erano, appunto, una solu-zione di emergenza, Letta un governo-ombra; e dunque? Renzi ha operato, in questo quadro di macerie, con inusitata violenza politica, prima se-gretario poi premier, poi “l’uccisione” politica di Letta, degna di un duca Valentino, personaggio-chiave, com’è ben noto, del Principe di Machia-velli (non per caso scritto da un fiorentino) sia pure in presenza di una situazione più civilizzata nella quale la pozione di veleno è stata archiviata. Questa premessa per me è già un avvio di ana-lisi, non un semplice preambolo. E la ragione è chiara: la violenza politica di Renzi è stata l’uni-ca condizione per rimettere in moto l’Italia, una scossa di discontinuità, un uscire improvviso in un’aria più aperta. Dove, miracolosamente, si

decide. È possibile, per un momento almeno, distingue-re tra decisione e contenuto della decisione? Penso pro-prio di sì.

RENZI HA ROTTAMATO IL BERLUSCONISMO E L’ANTIBERLUSCONISMOL’Italia era un corpo immobile, dove l’antitesi berlusconismo-antiberlusconismo aveva blocca-to tutto per decenni e dove la sinistra era con-centrata sul proprio passato, senza riuscire a li-berarsene, e la destra si esauriva nel legame con il tramonto del suo leader. Nulla si era sottratto a questo blocco reciproco. Renzi lo ha abolito di colpo, senza passare attraverso elezioni poli-tiche! Non ha solo rottamato la sinistra antica, ha rottamato Berlusconi, dopo averlo utilizzato in un “patto” che ha sconvolto la coscienza di molti, ingessati in una politica ideologica. Ha ri-portato sulla scena le leggi eterne dell’arte politi-ca, la loro autonomia pura e nuda, l’energia allo stato nascente. Da quel che ho detto, si capisce che io penso che ciò era necessario, e che solo era assai difficile immaginare che potesse esser fatto. Ma in tutto questo si nasconde qualcosa di più profondo, che fa parte di una situazione inte-ramente in corso, e che offre uno scenario alla politica italiana: l’irrompere della democrazia del leader, che accompagna il dissolvimento dei partiti politici, il loro esser l’ombra di se stes-si; e forse non si è ben compreso (almeno a me così pare) che il famoso “partito della nazione” evocato da Renzi non è affatto un nuovo parti-to, ma proprio la presa d’atto che i vecchi par-titi sono in via di estinzione e che, perciò, tutto si sposta al livello del governo di cui il “partito della nazione”, concentrato in un Parlamento che è diventato lo specchio del dissolvimento dei partiti, è il sostegno vero. L’operazione Verdini ha questo significato, e gioca in retroguardia chi immagina l’adesione di Verdini al Pd! Sarebbe la clamorosa smentita proprio del partito della na-

A che punto èl’Italia di Renzi?

Biagio De Giovanni

Torniamo con questo servizio alla vita politica italiana, continuando a mettere a confronto vari punti di vista su governo,

Partito democratico e forze di opposizione.

POLITICABiagio De Giovanni p.15Roberto Bertoni p.17

BIAGIO DE GIOVANNI filosofo, già parlamentare europeo.

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“L’Europa ha d’improvviso incontrato la durezza della politica dopo

sessanta anni che gliel’avevano fatta

dimenticare„

zione, di renziana invenzione. Qui naturalmen-te, andando oltre, si uscirebbe dal tema “Renzi” per entrare in uno scenario ben più complica-to e incerto sul destino della democrazia come l’abbiamo conosciuta. L’Italia, spesso, è stata laboratorio politico per qualcosa che avanzava in Europa, ma mi fermo qui sul tema. Mi basta averlo nominato.

IL METODO DI RENZI È LA SUA POLITICAQuale immagine dell’Italia si sta formando nel quadro delle iniziative accelerate del governo? Renzi usa sempre lo stesso metodo, che debba rottamare Letta o debba provare (solo provare) a farlo con Juncker, il presidente della Commis-sione europea. Inutile, e forse sbagliato dire: Renzi in Europa dovrebbe usare un altro meto-do, un altro linguaggio; il fatto vero è che il me-todo di Renzi è la sua politica, e la sua politica è il suo metodo. Non è possibile diversamente, poi naturalmente la cosa può giungere in un porto o in un disastro, ma Renzi è questo. Mi riferisco in particolare alle critiche aspre rivolte al sistema dell’Unione europea, rigettate e molto criticate da tutti i soloni dell’europeismo, e che non posso negare creino parecchie perplessità anche in chi non si inscrive in quella nobile categoria. Gli ef-fetti non sono prevedibili e dipendono da troppe varianti, e non mi voglio atteggiare a indovino. Ma ancora una volta mi pare che egli abbia colto al volo un’occasione straordinariamente com-plicata e stracarica di elementi di crisi profon-damente presenti nella coscienza di molti: l’im-presentabilità di questa Europa, il suo rovinare verso un abisso.

SE L’EUROPA DIMENTICA IL SUO PASSATONon esemplifico per ragioni di spazio, ma forse non ce n’è bisogno, si tratta di cose che tutti sappiamo e che si svolgono sotto i nostri oc-chi: dalle crisi economiche all’immigrazione, alle guerre, all’impotenza di questo gran corpo che occupa un continente dalla nobile storia. Il quale ha d’improvviso incontrato la durezza della politica dopo sessanta anni che gliel’ave-vano fatta dimenticare. Merito di Renzi è di averlo detto con un linguaggio duro, ma insie-me distinguendosi da populisti ed euroscetti-ci. Con il suo “metodo”, dove al fondo ci sono sempre rottamazioni da avviare. Naturalmen-te, altro è lo scenario dell’Italia, altro quello dell’Europa, per cui mi astengo da previsioni. Ma d’improvviso l’Italia diventa interlocutri-ce. Non so dire se reggerà questo ruolo, se l’im-patto con un immenso sistema di potere come quello euro-peo non si rovescerà su una nazione indebitata e debole in tanti suoi aspetti.Ma il tattico Renzi ha afferra-to che questo era il momento per tentare di far dell’Italia una interlocutrice politica in un’Europa allo sbando. Non so se ci sarà una strategia corrispondente, che richiede più calma, più capacità di propo-sta, profonde attitudini anche culturali, e qui avanzano dubbi. Ma un dado è tratto e non sarà facile tirarsi indietro. L’Italia, però, ri-entra nel gioco, sia all’interno sia all’esterno. Vedremo.

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È Possibile un Movimento di Sinistra?

Roberto Bertoni

Mancano appena tre mesi alle elezioni ammi-nistrative previste per giugno ed è arrivato il

momento di analizzare strategie, prospettive e ca-ratteristiche dei tre principali gruppi politici più o meno alla sinistra del Pd renziano, ormai caratteriz-zato da una chiara connotazione centrista e, secondo gli osservatori più critici, addirittura tendente a destra. Ci riferiamo al Mo-vimento 5 Stelle, a Possibile (partito fondato da Pippo Civati, nato da una mini-scissione a sinistra del Pd) e a Sinistra Italiana, non ancora costitui-tosi come partito, nato dalla fusione di quel che resta del gruppo parlamenta-re di Sel con i dissidenti fuoriusciti, a loro volta, dal Partito democratico.

IL M5S: RABBIA DEI “MILLENNIALS” O SEMPLICE POPULISMO?Per rispondere a questa domanda, è opportuno volgere lo sguardo a quanto sta accadendo oltreo-ceano, dove alle primarie democratiche un anziano senatore del Vermont, Bernie Sanders, sta riuscen-do nell’impresa di tenere testa a una macchina da guerra come Hillary Clinton. Com’è possibile che un uomo non certo avvenente, con una moglie che non è Michelle Obama, lontano dai cliché tipici di un certo gossip politico, con sostegni finanziari relativamente esigui e tutto l’establishment del partito avverso stia riuscendo nell’impresa di contrastare l’ex first lady, ex segretario di Stato, sostenuta con centinaia di migliaia di dollari dal mondo delle banche, dell’alta finanza e di Wall Street? Molto semplice: Sanders si proclama socialista (parola pressoché bandita da almeno tre decenni dal lessico politico americano) ed esprime idee rivoluzionarie, almeno per quel Paese, in merito alle questioni ambientali, al model-lo di crescita e di sviluppo, all’equità fiscale e alla necessità di ridurre le disuguaglianze e di garantire

a tutti un libero accesso all’i-struzione, compresa quella di alto livello; in pratica, rinnega in toto il liberismo reaganian-clintoniano, la Terza via che ha abbagliato la sinistra mon-

diale negli ultimi vent’anni e tutte le conseguenze di un modo di governare che ha acuito la forbice fra ricchi e poveri, fra chi può e chi non può, fra chi abita nei quartieri del centro e chi è costretto a lan-guire in periferia. E in periferia, da tempo, ci è finito anche il ceto medio, che ha innervato le democrazie

occidentali del dopoguerra ma ormai non esiste quasi più, immiserito dal-la crisi, reso sempre più fragile e im-paurito dall’incertezza di questi tempi imprevedibili, timoroso per il proprio futuro, dunque incline a sostenere for-ze che un tempo avrebbe rifiutato in blocco considerandole estremiste.Il M5S, fatte le debite differenze, è la stessa cosa: un movimento/partito trasversale, con vertici orientati in parte a destra e in parte a sinistra,

un elettorato anch’esso trasversale, rappresentan-ti prevalentemente di sinistra e vicini alle idee di Sanders e un programma elettorale caratterizzato da una discreta dose di populismo, ma anche da una sconfinata volontà di ribellarsi a un modello politico, economico e sociale iniquo che minaccia seriamente l’avvenire delle nuove generazioni.A naso, l’unica città in cui possono pensare di vin-cere è Torino, dove Chiara Appendino incarna un grillismo atipico, pragmatico, con buone basi cul-turali e una solida preparazione politica. A Roma, dove pure partono favoriti, l’impressione invece è che siano loro a non voler vincere per paura di compromettere, con un eventuale insuccesso di una loro amministrazione comunale, le possibilità di vittoria a livello nazionale.

POSSIBILE: SINISTRA MODERNA O GRILLISMO GENTILE?Diciamo entrambe le cose. Civati, infatti, è stato il primo dirigente del Pd, nel 2007, ad avvicinarsi con curiosità al mondo grillino, dedicandogli an-che un saggio (nel 2012) dal titolo La rivendicazio-ne della politica. Cinque stelle, mille domande e qualche risposta. Fra gli esponenti della variegata galassia della sinistra, è senz’altro il più contiguo con quel mondo, dotato della medesima sensibili-

i servizi | POLITICA

ROBERTO BERTONIgiornalista free lance e autore di saggi, romanzi e poesie.

“Il movimento Possibile

di Pippo Civati, il Movimento 5 Stelle

e Sinistra Italiana di Stefano Fassina

alla prova delle elezioni

amministrative in importanti città„

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tà ambientale, capace di ascoltare con l’orecchio a terra associazioni e movimenti e anche in grado di inventarsi un modo di far politica allegro e al passo coi tempi. Tuttavia, a differenza del M5S, Possibile è un partito e non un movimento ed è schierato compiutamente a sinistra, con un eletto-rato di provenienza piddina ma composto anche da persone, per lo più giovani, deluse dall’inde-terminatezza di un movimento che non ha ancora sciolto il dilemma politologico se diventare un par-tito politico a tutti gli effetti o rimanere, più che altro, un gruppo di pressione.Sia i militanti che gli elettori di Possibile sono, per lo più, “millennials”, ragazzi colti e con un elevato grado di istruzione, i quali però ri-fiutano senza appello il concetto di “rottama-zione” renziano e preferiscono, di gran lunga, l’alleanza “nonni-nipoti” ipotizzata nel 2013 da Andrea Ranieri, sostenitore di Civati alle primarie del Pd poi vinte da Renzi. L’unica possibilità di successo di questa forza politica è una fusione con Sinistra Italiana, sempre che sinistra moderna e sinistra tradizionale siano ancora compatibili.

SINISTRA ITALIANA: ALL’INSEGNA DELLA TRADIZIONEFassina, Airaudo, De Magistris: basta dare un’occhiata ad alcuni dei candidati alle ammi-nistrative di Sinistra Italiana per comprendere quale sia la sua natura e quali siano le sue pro-spettive. SI è un partito classico, incarna una

sinistra tradizionale, con radici solidamente piantate nel filone socialista e un progetto po-litico per lo più ispirato a un laburismo vec-chia maniera, in linea con le principali istanze dei sindacati. I suoi temi costitutivi sono il la-voro, la centralità della persona, un modello di sviluppo anti-liberista, la presenza dello Sta-to nell’economia (si evince dai nomi di alcuni intellettuali di riferimento: Piketty, Atkinson, Krugman, Stiglitz, la Mazzucato ecc.), la pre-valenza del pubblico sul privato e la difesa dei beni comuni. Non a caso, uno dei suoi esponen-ti di punta è Alfredo D’Attorre, già ideologo e intellettuale di riferimento del bersanismo e della coalizione Italia bene comune (elezioni politiche di febbraio 2013, ndr).Il suo successo elettorale è legato alla capacità o meno che avrà questa compagine di trasfor-mare la rabbia e la delusione per la mutazione genetica del Pd renziano e per il trasformismo di una parte degli eletti di Sel, oggi piddini, in un progetto politico alternativo, caratterizzato da un misto di radicalità e sguardo al futuro. Il limite è l’età media (piuttosto elevata, so-prattutto fra i simpatizzanti) e la scarsa visi-bilità mediatica, ma anche qui non mancano parlamentari e futuri parlamentari giovani e di grande spessore culturale.Saranno gli elettori a dirci quale sarà il de-stino di tre formazioni con diversi punti in comune e altrettante differenze, speriamo non incolmabili.

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Iran e Arabia Saudita: così vicini, così lontani

Franco Cardini

Le grandi differenze tra i due paesi mediorientali non si fermano al fatto che l’Iran è sciita e l’Arabia Saudita sunnita:

il primo ha una popolazione tra le più occidentalizzate e colte di tutto il mondo musulmano, la seconda è la prima e più sicura

alleata del mondo occidentale. Un quadro articolato.

È molto difficile, anche volendo, immaginarsi qualcosa di più diametralmente eppure an-

che inestricabilmente opposto. Un nodo affasci-nante e pauroso di paradossi. Simili e contrari. Paralleli e ortogonali. Parliamo della Repubbli-ca islamica iraniana, a maggioranza musulmana sciita, e del regno dell’Arabia Saudita, retto da una dinastia sunnita wahhabita. Nella visione occidentale corrente, quella fatta di pregiudizi e di stereotipi, due “stati teocratici”, due opposte forme di “fondamentalismo”, due “tipici stati musulmani, che non conoscono la distinzione tra fede religiosa e politica”. Non arriveremo forse mai a renderci sin in fondo conto di quan-to queste frasi fatte, questi vuoti funambolismi lessicali e fraseologici, abbiano nociuto da noi alla corretta comprensione di realtà che peral-tro sono senza dubbio alcuno complesse.

L’Iran è l’erede dell’impero persiano safawide e qajar (non certo degli achemenidi, o dei sasani-di, e neppure degli abbasidi), largamente man-tenuto nei suoi confini geostorici come nelle sue tradizioni profonde, eppur passato attraverso la rivoluzione nazional-occidentalista di Reza Shah e della dinastia Palhavi, che aveva molti punti di contatto con quella di Mustafa Kemal in Turchia, e quindi rifondato a partire dal 1979 nei termini genialmente concepiti da un ayatol-lah, Rukhullah Khomeini, ch’era allievo di un filosofo marxista, Ali Shariati, che ne ha fatto una repubblica molto somigliante alla prima fase della repubblica dei Soviet, guidata e mo-derata però da un senato di teologi-giuristi. Un paese dove il chador copre – ma non nasconde... – la realtà di una popolazione non solo tra le

più occidentalizzate di tut-to il mondo musulmano, ma anche tra le più colte e pre-

parate, dove il tasso percentuale dei laureati è altissimo. L’Arabia Saudita è un giovane regno che non ha ancora un secolo, nato in un contesto nomade e tribale in cui il concetto stesso di regalità è con-cepito come ostile e straniero non meno di quan-to non lo fosse agli ebrei del tempo del profeta Samuele e agli ateniesi dell’età di Pericle.

LE PROMESSE NON MANTENUTE DI FRANCIA E GRAN BRETAGNAEppure il cinismo di francesi e inglesi durante la Prima guerra mondiale ha sconvolto e travolto antichi equilibri, ha promesso agli arabi unità e libertà per poi tradirli e abbandonarli con gli accordi Sikes-Picot, è riuscito a far fallire i piani di un emiro seriamente e sinceramente disposto a fondare nella penisola arabica un nuovo regno arabo unitario che si sarebbe dato istituzioni li-beral-parlamentari e magari sarebbe entrato nel Commonwealth e a consegnare in cambio quel subcontinente dalle viscere gonfie di petrolio a una costellazione di pittoreschi ma anche abili tirannelli sunniti che regnano spesso su popoli a maggioranza sciita. La potenza-guida di questi popoli, pur oggi fortemente contestata da alcuni (ad esempio dall’emiro catariota), è governata da una dinastia che si è assunta il compito di rappresentare e d’imporre una versione dell’i-slam immobilista e misoneista, il wahhabismo, che peraltro impedisce sì alle donne di guidar l’auto e di accedere all’istruzione senza restri-zioni, ma non alle sue élites di accedere a una gestione socio-economicamente e socio-tecnolo-gicamente esclusiva e avanzatissima del paese e delle sue risorse. Un paese il cui re spadroneggia su laghi di petrolio e montagne di petrodollari, il che lo rende obiettivamente una grande potenza mondiale.

FRANCO CARDINIstorico.

i servizi | GEOPOLITICA

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L’Arabia Saudita è la prima e più sicura allea-ta del mondo occidentale in genere, degli Usa in particolare, in tutto il Vicino Oriente. La poli-tica estera americana si è, almeno fino ad oggi, ordinariamente appoggiata su due stati entrambi confessionali – e il “laico” Israele è nondimeno uno “stato ebraico” – che s’ignorano reciprocamente, ma la rispettiva politica estera dei quali converge su Washington, la quale s’incarica di armonizzarla. Quanto all’Iran, lo spauracchio reale o apparente tanto di sauditi quanto d’israeliani, a parte le armi nucleari che almeno per il momento, fedele al “trattato di non-proliferazione”, non produ-ce (il che – attenzione! – non vuol dire che non ne abbia...), esso è sciita mentre l’Arabia Saudita è sunnita, e dell’Arabia Saudi-ta è concorrente in quanto grande produttore di petrolio. Due ragioni per rendere incandescente la fitna, la “discordia”, cioè la lotta civile-reli-giosa che può manifestarsi in mille modi.

Del wahhabismo, si dice sia una dottrina “me-dievale”. Nulla di più falso. Semmai si tratta di un “modernismo musulmano”, una sètta nuova nata nel XVIII secolo e che appoggiandosi alla scuola giuridica salafita ha “reinventato” l’islam fornendogli un aspetto messianico, rigorista nel rispetto letterale del Corano, esclusivista fino

a travolgere quegli stessi progetti coranici che garantiscono il rispetto, per esempio, dei culti fondati su una Scrittura rivelata quali ebraismo e cristianesimo. Il wahhabismo è la dottrina che

giustifica formalmente le atrocità di al-Qaeda e dell’Isis (Daesh) e che ne è alla base, specie da quando gli Stati Uniti, per battere l’Unione Sovietica che negli anni Ottanta si era appro-priata dell’Afghanistan evitando al tempo stesso che gli afghani si libe-rassero grazie all’appoggio dell’Iran dello scià, filo-Usa, “esportarono” dall’Arabia Saudita e dallo Yemen i guerriglieri-propagandisti che det-tero origine al regime dei Taliban.

Due “resistibili ascese”, quindi. Du-rante la Prima guerra mondiale, v’erano tutte le premesse perché dopo il conflitto il mondo arabo si desse un assetto unitario e liberal-parlamen-taristico sotto lo sceicco hashemita Hussein, cu-stode dei luoghi santi della Mecca e di Medina, anglofilo convinto. Emarginato dal patto Sykes-Picot, Hussein aveva comunque ricevuto il regno del Hijaz nell’Arabia sudoccidentale, mentre i suoi due figli Abdullah e Feisal divenivano rispet-tivamente re della Transgiordania e dell’Iraq. Ma gli inglesi, dopo aver cercato di far attribuire ad Hussein il titolo califfale ch’era rimasto vacante da quando il parlamento turco aveva unilateral-mente abolito il califfato, avevano favorito l’asce-

“Gli Stati Uniti, per battere l’Urss che negli anni ‘80 si era appropriata dell’Afghanistan,

esportarono dall’Arabia Saudita

e dallo Yemen i guerriglieri-

propagandisti che dettero origine al

regime dei talebani„

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sa dello sceicco della dinastia saudita Abdelaziz ben Abderrahman, che nel 1932 si proclamò re d’Ara-bia, batté Hussein e fondò un regno nel quale, nel 1938, si scoprirono immensi giacimenti di petrolio.

Secondo il diritto di successione musulmano, che affida ruoli importanti ai fratelli dei regnanti, principe ereditario sarebbe attualmente Muham-mad ben Nayef, che avrebbe dovuto succedere allo zio ottantenne Abdallah ben Abdelaziz, morto nel 2015; gli è invece succeduto il di lui fratello Sal-man, che scombinando le regole del gioco ha affi-dato molti, troppi poteri al poco più che trentenne figlio Muhammad ben Salman, un giovane arrogan-te e spregiudicato che punta addirittura alla pri-vatizzazione dell’Aramco, la compagnia petrolifera saudita ottanta volte più potente della Total.

LA PERSECUZIONE DEGLI SCIITI E LA REAZIONE IRANIANAFrattanto, la sempre più dura persecuzione degli sciiti arabi sudditi della dinastia saudita, culmina-ta nell’esecuzione dello sceicco sciita al-Nimr, ha provocato in Iran addirittura l’assalto all’amba-sciata saudita a Teheran e la successiva rottura, il 3 gennaio 2016, delle formali relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran. Se a tutto ciò aggiun-giamo che l’Arabia Saudita è a tutt’oggi uno dei massimi acquirenti di armi del mondo senza che si riesca a capire che cosa ne faccia – ma possiamo immaginarcelo, in quanto circa 2500 sauditi stanno nell’armata di Daesh – mentre un alleato sicuro dei

ISLAM SCIITAL’islam sciita è un ramo dell’islam.

Si differenzia dall’altro ramo dell’islam, il sunnismo, per la sua interpretazione della legittimità della successione alla testa della comunità islamica in seguito alla

morte del profeta Maometto. I musulmani sciiti credono che la catena di successione dovrebbe

essere determinata dalla tradizione dinastica, con la carica di califfo che passa ai discendenti del Profeta attraverso la persona di suo genero e di suo cugino Ali. Quando Ali assunse la carica di

califfo nel 656 divenne il quarto califfo a succedere

al profeta Maometto. All’epoca del suo assassinio

nel 661, Ali aveva assistito alla scissione dell’islam in sunniti

e sciiti e, come risultato, è riconosciuto come il primo imam sciita.

IL WAHHABISMOIl wahhabismo è un movimento islamico fondato dal predicatore

islamico Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab (1703-92).

Questo movimento puritano si basa sul monoteismo assoluto e professa un ritorno alle fonti

primarie dell’islam. Il wahhabismo rifiuta

anche tutte le consuetudini religiose culturali, incluse

le tradizioni sufi come la venerazione dei santi.

Il movimento acquisì importanza dopo essere stato adottato dalla

famiglia al-Saud nel 1744. A seguito della sua ascesa

al potere nella penisola arabica nel Ventesimo secolo, le dottrine

wahhabite crearono la base politica dello Stato di Arabia

Saudita, quella stessa sulla quale si basa l’ideologia dei jihadisti

di Al Qaeda e di Daesh.

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sauditi, la Turchia, acquista dal califfo al-Bagh-dadi importanti partite di petrolio clandestino, si può avere una lontana idea del garbuglio ge-opolitico e geostrategico nel quale si dibatte il Vicino Oriente. L’Iraq, il cui governo è dal 2003 sostenuto dagli Stati Uniti, è tuttavia orienta-to in senso filosciita: il che significa che esiste oggi un’alleanza stretta per quanto implicita tra Iran, Iraq e Siria assadista cui accedono anche i curdi e che è nella pratica una delle poche forze ad opporsi a Daesh, contro cui la guerra è stata proclamata da mesi da – si può dire – tutto il mondo, ma che per il momento non è pratica-mente minacciato da nessuno.

Ora, Daesh potrebbe anche farcela a imporre un mutamento territoriale e istituzionale all’Iraq facendone saltare l’unità e fondando all’interno della sua compagine uno stato indipendente ira-cheno sunnita, che fatalmente sarebbe l’alleato dell’Arabia Saudita alla frontiera con Iran. Ma come reagirebbe la potenza che si sta facendo garante dell’alleanza sciito-curdo-iraniana in funzione antisaudita e antiturca, la Russia di Putin che ha ormai le sue basi navali siro-liba-nesi che fronteggiano la Nato?Se fosse un gioco di Risiko, le forze sarebbero già perfettamente schierate per lo scontro. Per fortuna questo non è Risiko, è politica. Però...

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L’abbraccio del papa con Kirill le inquietudini del Messico

dal nostro inviato Luigi Sandri

Due eventi di grande portata nell’ultimo viaggio latino-americano di Francesco: l’incontro a Cuba con il patriarca di Mosca Kirill,

il primo del genere nella storia e, poi, la visita ad un paese di fortissimi contrasti, ma anche di grandi potenzialità. Con un doloroso

e strano silenzio in Chiapas, lo Stato più indio del Messico.

L’ultimo viaggio latino-americano di Francesco è composto da due dittici – incontro con il pa-

triarca di Mosca, Kirill, a Cuba, e visita al Messico – non componibili, per quanto abbiano qualche legame. Vanno dunque esaminati distintamen-te: e cominciamo dal paese complesso (dal pun-to di vista geografico, storico, culturale, religioso e geopolitico) che lega e insieme separa la parte Nord da quella Sud di quell’unico continente che dall’Alaska raggiunge la Tierra del Fuego.

PAESE BIFRONTE, VIOLENTO E GENTILENegli ultimi vent’anni il Messico ha avuto un im-pressionante aumento della violenza, dovuto a varie cause: la crescita esponenziale del narco-traffico (e, in merito, secondo analisi di giornali di queste parti, alcuni “cartelli” sono collegati con la ‘Ndrangheta calabrese per gestire la “esportazio-ne” della droga in Europa), resa possibile anche per connessioni ad alto livello governativo e da una devastante corruzione delle forze di sicurezza; le faide tra cartello e cartello che seminano continue vittime; l’inarrestabile fenomeno dei “desapareci-dos”, cioè il rapimento di persone a scopo di ven-detta o per ricatto economico (ventisettemila negli ultimi anni - vedi scheda nella pagina successiva); Ciudad Juárez, al confine con la statunitense El Paso, fino a quattro anni fa era una delle città più violente del mondo, con duecentocinquanta vit-time al mese (adesso la situazione è un pochino migliorata, ma resta ben grave).Nell’ultimo decennio in Messico ci sono state cen-tomila vittime della violenza: come sbarcare tran-quilli in un tal paese? Però, a mano a mano che passano i giorni, si rimane conquistati dall’estre-ma gentilezza della gente che, per strada (chie-dendo ad esempio informazioni) o a livello istitu-zionale (questioni burocratiche), fa di tutto per aiutarti. Inevitabile la domanda: com’è possibile

che in un paese così gentile ci sia tanta violenza? E Ignacio, il mio taxista: «Ce lo chiediamo anche noi, e non abbiamo risposta».Dal punto di vista religioso, il Messico è granitica-mente cattolico, anche se per molti si tratta di un cristianesimo sociologico, che ha l’asse soprattut-to nella devozione alla Madonna di Guadalupe, il cui santuario si trova alla periferia della capita-le. Per dire in poche parole di tale straordinario legame, in Messico corre questa battuta, citata anche dal papa: «Sono ateo, però guadalupano».Cresce, però, la diffusione delle comunità evan-gelical di origine nordamericana, sbrigativamen-te chiamate “sètte” dalle gerarchie cattoliche. Allo stato dei fatti, qui si afferma che, su cento-venti milioni di abitanti, i cattolici nel paese siano cento milioni. Dunque, il Messico, dopo il Brasile, è il secondo paese più cattolico del mondo.

SORRISI, ABBRACCI E SFERZATEÈ questo paese, appena sommariamente descrit-to, che il papa ha visitato dal 12 al 17 febbraio. Egli è stato accolto con indescrivibile entusiasmo. Abbracci e baci a non finire ai bambini presen-tatigli dalle mamme. Anche con il presidente En-rique Peña Nieto – sempre accompagnato dalla primera dama, Angelica – in pubblico vi è stata estrema affabilità. Ma tutto questo non ha im-pedito a Bergoglio, nelle quattro tappe del suo pellegrinaggio (Città del Messico, San Cristóbal de Las Casas, Morelia e Ciudad Juárez), di de-nunciare con taglienti parole le piaghe del pae-se: «L’esperienza ci dimostra che ogni volta che cerchiamo la via del privilegio o dei benefici per pochi a scapito del bene di tutti, presto o tardi la vita sociale si trasforma in un terreno fertile per la corruzione, il narcotraffico, l’esclusione delle culture diverse, la violenza e persino per il traffi-co di persone, il sequestro e la morte, che causano

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sofferenza e che frenano lo sviluppo». E, ancora, parlando delle masse di migranti che, fuggendo dalla violenza e dalla miseria, tentano di supera-re la barriera che impedisce l’entrata negli Usa, egli ha rilevato che molti considerano questi sfor-tunati “carne da macello”.

IL MISTERO DEGLI “INNOMINATI”Il 15 febbraio Francesco ha visitato San Cristóbal de Las Casas, la storica città del Chiapas, lo Stato messicano a maggior concentrazione di indigeni di varie etnie. Il suo nome richiama Bartolomé de Las Casas, che nel 1545 ne fu il primo vescovo. Questi, venuto in Messico dalla Spagna, mirava – come gli altri colonialisti – ad arricchirsi a spese degli in-dios. Poi però si convertì, divenne domenicano e quindi vescovo. Nel 1542 scrisse la Brevísima relación de la destrucción de las Indias, in cui denunciava le atrocità compiute dai conquista-dores contro i nativi. Il libro contribuì a spin-gere Carlo V a emanare leggi che, per quanto non sempre osservate, migliorarono la vita degli indios.Adattandola all’oggi, anche all’opera di Bartolo-mé si ispirò monsignor Samuel Ruiz García, ve-scovo di San Cristóbal dal 1960 al 2000 (quando dimissionò per ragioni di età; morirà nel 2011). Partito per “convertire” gli indigeni, a poco a poco Samuel si lasciò da essi “convertire”: im-

parò le loro lingue e si dedicò totalmente al loro riscatto e alla difesa dei loro diritti conculcati. Immaginò una teologia india e una Chiesa india; ordinò trecento diaconi sposati, forse con il se-greto pensiero di consacrarli poi presbìteri. Un’i-potesi che irritò moltissimo Giovanni Paolo II e la Curia romana, insieme alla gran maggioranza della Conferenza episcopale messicana; perciò ancor più don Samuel fu emarginato. Eppure nel 2008 lo stesso governo messicano chiamò lui a mediare tra le autorità e l’Ejército Zapatista de Liberación Nacional che portò ad una com-posizione del conflitto e all’affermazione, nella Costituzione, che il Messico è una nazione “pluri-culturale” che deve rispettare i diritti dei popoli pre-colombiani. “Jtatik [padre] Samuel” è vene-ratissimo dagli indigeni: alla sua tomba – situa-ta dietro l’altar maggiore della cattedrale – ogni giorno vengono famiglie indie a pregare.Queste premesse erano necessarie per riflettere sull’enigma del discorso papale nella città. Fran-cesco – che ha benedetto le prime copie di Bibbie tradotte in tzotzil e tseltal, due lingue indigene; e che ha concesso che la liturgia sia celebrata nelle lingue ataviche – nell’omelia della messa, di fronte a migliaia di indigeni, ha affrontato il tema dell’ecologia, ribadendo l’enciclica Lauda-to si’; e, a proposito del passato, ha affermato:

MESSICO: LE VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI

«Dalle decine di migliaia di persone scomparse al

massiccio uso della tortura, dal crescente numero di omicidi di donne alla profonda incapacità

di svolgere indagini, le violazioni dei diritti umani sono

diventate un fatto abituale in Messico», dichiarava Erika

Guevara-Rosas, direttrice per le Americhe di Amnesty international alla vigilia del

viaggio papale. «Sollecitiamo papa Francesco – proseguiva – a usare la sua grande influenza

per convincere il presidente Peña Nieto a prendere

sul serio questa terribile crisi dei diritti umani,

assicurando alla giustizia tutti i

responsabili delle violazioni».

A gennaio Amnesty international ha pubblicato un rapporto sulle sparizioni

in Messico, accusando le autorità federali e statali di

aver alimentato una crisi dei diritti umani di proporzioni

endemiche a causa della loro sistematica incompetenza e della totale mancanza di

volontà di svolgere ricerche e indagini adeguate sulla

sorte di migliaia di scomparsi. Nel rapporto si denuncia il profondo fallimento delle indagini sulla sparizione forzata di 43 studenti,

avvenuta nel settembre 2014 ad Ayotzinapa, nello stato meridionale di Guerrero,

così come su casi analoghi verificatisi nello stato

settentrionale di Chihuahua e in altre parti del Messico.

Secondo dati ufficiali, in tutto il paese non si hanno notizie di

27mila persone, molte delle quali vittime

di sparizione forzata.In molti casi – denuncia

Amnesty – le persone di cui viene denunciata la scomparsa erano state viste l’ultima volta

in stato d’arresto da parte della polizia o dell’esercito. Il fatto che in Messico

manchino registri dettagliati degli arresti consente alle

autorità di negare ogni addebito. Le indagini, quando

iniziano, subiscono ritardi e le poche che vanno avanti

solitamente non producono alcun risultato.

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«Molte volte, in modo sistematico e strutturale, i vostri popoli sono stati incompresi ed esclusi dalla società. Alcuni hanno considerato inferiori i loro valori, la loro cultura, le loro tradizioni... Quanto farebbe bene a tutti noi fare un esame di coscienza e imparare a dire: perdono! Perdono, fratelli! Il mondo di oggi, spogliato dalla cultura dello scarto, ha bisogno di voi».Nessuna parola egli ha pronunciato su Bartolo-mé e su Samuel. «Questo silenzio ci pesa come una pietra sul cuore», mi dice un cacique (capo indigeno). Per capire come sia stata possibile una tale amnesia, ho parlato nel Chiapas con varie persone del mondo civile, degli indigeni, e del clero. Questa la (provvisoria) conclusione: la grande maggioranza dei vescovi messicani non vuole nemmeno sentir parlare di don Samuel; perciò il papa, obtorto collo, non ha citato il nome proibito; e, però, andando in cattedrale a incontrare gli ammalati, ha sostato in preghiera, in silenzio, di fronte alla tomba del vescovo. La questione “don Samuel” si mescola, apprendo, con i contrasti che agitano i vertici della confe-renza episcopale, in vista della non lontana no-mina del nuovo arcivescovo di Città del Messico, dato che il suo attuale titolare, il cardinale Nor-berto Rivera Carrera, è del 1942.E il silenzio del pontefice su Bartolomé? Sem-bra che il governo non volesse che egli citasse un nome che, per gli indigeni, è una bandiera che ricorda, oggi, come i diritti concreti degli “autoc-toni” siano lungi dall’essere davvero rispettati. È arduo però ipotizzare che il papa si sia fatto condizionare da Peña Nieto. E allora? Rimane il fatto di un silenzio stridente e inesplicabile.

L’INCONTRO CON IL PATRIARCA DI MOSCA KIRILLSolo venerdì 5 febbraio si è appreso che, in viaggio verso il Messico, «sua santità Francesco avrebbe fatto una sosta all’Avana per incontrare sua santità Kirill, patriarca di Mosca e di tutta la Russia». Ma io, con altri colleghi, ero già in partenza per il Messico e così... addio Cuba. Ab-biamo seguito l’evento in diretta tv.Dopo secoli di gelo un papa, Paolo VI, e un pa-triarca di Costantinopoli, Athenagoras, si erano finalmente incontrati a Gerusalemme nel 1964. Dopo di allora tutti i patriarchi erano venuti a Roma, e i papi erano andati al Fanar, la residen-za dei patriarchi ecumenici a Istanbul. E i russi? Dal pontificato di Giovanni Paolo II si iniziò a parlare di un incontro papa-patriarca di Mosca. Con Aleksij II, in carica dal 1990, l’ipotesi comin-ciò a farsi concreta. Mosca mise però in chiaro che, se vertice ci fosse stato, esso si sarebbe dovu-to tenere in “territorio neutro”, cioè né in Russia né in Italia. Dopo molte trattative, si prospettò l’incontro a Vienna, nel giugno 1997, alla vigilia

della II Assemblea ecumenica europea prevista a Graz. Ma nell’imminenza del vertice il Santo Si-nodo bocciò l’incontro. Wojtyla – detestato dalla Chiesa russa in quanto accusato di aver favorito l’espansionismo di “missionari” cattolici in Rus-sia e il revival degli “uniati” (cattolici ucraini di rito orientale) – non desistette, e immaginò un marchingegno rocambolesco. Nell’estate del 2003 programmò un viaggio in Mongolia, con sosta a Kazan, la capitale del Tatarstan (repubblica in-terna alla Russia, ottocento chilometri a est di Mosca), per avere così l’occasione di riportare nella città una famosa icona che da là era scom-parsa dopo la Rivoluzione dell’ottobre 1917 e, dopo molti giri, finita in Vaticano. Aleksij II ri-fiutò la proposta; e il viaggio a Ulan-Bator saltò.Con Benedetto XVI e (dal 2009) con il nuovo patriarca Kirill i pourparler per l’incontro proseguirono, invano. Ripresero con France-sco: questi, sul “dove neutro” – Gerusalemme? Vienna? Pan-nonhalma (Ungheria)? Cipro? – si rimise al capo della Chiesa russa. Infine, in settembre, in visita a Cuba, Francesco toccò il tema insieme al presidente cubano Raúl Castro, e con l’ac-cordo di Kirill (e la benedizio-ne di Putin), si decise per l’A-vana, visto che mentre il papa sorvolava l’isola, Kirill si sarebbe trovato là – casualmente!? – in visita pastorale alla piccola comunità russa orto-dossa (creatasi ai tempi dei saldi legami tra Urss e Cuba). Così il 12 febbraio, in viaggio verso il Mes-sico, l’aereo papale sosta all’aeroporto dell’Avana ove già c’è Kirill. I due si abbracciano, e poi si ri-tirano, con un gruppo ristrettissimo di collabora-tori (il cardinale Kurt Koch, presidente del Pon-tificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani; il metropolita Hylarion, “ministro degli esteri” del patriarcato) e stilano la Dichiarazione comune. Un testo preparato nei mesi precedenti e, nell’incontro a tu per tu, forse ulteriormente limato. Firma, nuovi abbracci, breve commento dei Due e, dopo due ore di permanenza a Cuba, proseguimento di Francesco per il Messico.

UNA “DICHIARAZIONE COMUNE” PROBLEMATICAL’incontro non poteva essere, formalmente, di più basso profilo: nessuna preghiera in comune, nes-sun solenne discorso. Un incontro frettoloso, in un luogo laicissimo come un aeroporto. E con una Dichiarazione comune per molti aspetti – alme-no così pare a molti – deludente e problematica. Essa è composta di trenta paragrafi, e inizia con un «Rendiamo grazie a Dio, glorificato nella Tri-nità, per questo incontro, il primo nella storia...»

“Come possono convivere, in Messico,

un’estrema gentilezza di tanta gente, con la violenza

(centomila vittime negli ultimi dieci anni) che devasta il paese?„

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tra un papa romano e un patriarca russo. [1], avvenuto «a Cuba, all’incrocio tra Nord e Sud, tra Est e Ovest», «isola simbolo delle speranze del “Nuovo Mondo” e degli eventi drammatici della storia del XX secolo» [2].Ricorda poi i molti legami comuni – le Scrittu-re, la comune Tradizione spirituale del primo millennio del cristianesimo, il culto della Madon-na, dei santi e degli «innumerevoli martiri». Ma, «nonostante questa Tradizione comune dei primi dieci secoli, cattolici e ortodossi, da quasi mille anni, sono privati della comunione nell’Eucari-stia. Siamo divisi da ferite causate da conflitti di un passato lontano o recente, da divergenze, ere-ditate dai nostri antenati, nella comprensione e l’esplicitazione della nostra fede in Dio» [6].«La civiltà umana è entrata in un periodo di cam-biamento epocale. La nostra coscienza cristiana e la nostra responsabilità pastorale non ci autoriz-

zano a restare inerti di fronte alle sfide che richie-dono una risposta comune» [7]. Quindi Francesco e Kirill lanciano un vibrante appello perché la comunità internazionale si impegni a far cessare le persecuzioni che, soprattutto in Medio Oriente e in Nord Africa, fanno migliaia di vittime tra i cristiani; e a stroncare il terrorismo [7-11].Mentre poi si loda lo straordinario sviluppo della fede in Russia, dopo tanti anni di atei-smo, si esprime inquietudine perché (in Oc-cidente, sottinteso) «alcune forze politiche, guidate dall’ideologia di un secolarismo tan-te volte assai aggressivo, cercano di spingere i cristiani ai margini della vita pubblica». E, per quanto riguarda l’integrazione europea, «pur rimanendo aperti al contributo di altre religioni alla nostra civiltà, siamo convinti che l’Europa debba restare fedele alle sue radici cristiane» [14-16].

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«La famiglia si fonda sul matrimo-nio, atto libero e fedele di amore di un uomo e di una donna... Ci rammarichiamo che altre forme di convivenza siano ormai poste allo stesso livello di questa unione» [20]. Lamentano poi che «milioni di bam-bini siano privati della possibilità stessa di nascere nel mondo»; e «lo sviluppo della cosiddetta eutanasia fa sì che le persone anziane e gli infermi inizino a sentirsi un peso eccessivo per le loro famiglie e la so-cietà in generale. Siamo anche pre-occupati dallo sviluppo delle tecni-che di procreazione medicalmente assistita, perché la manipolazione della vita umana è un attacco ai fon-damenti dell’esistenza dell’uomo, creato a immagine di Dio. Ritenia-mo che sia nostro dovere ricordare l’immutabilità dei principi morali cristiani» [21].Rifiutano il metodo del proseliti-smo sleale [n. 24] e, poi, pur con-dannando il metodo dell’uniatismo – «inteso come unione di una comu-nità all’altra, staccandola dalla sua Chiesa» – affermano che «le comunità ecclesiali [gli “uniati”], apparse in queste circostanze sto-riche hanno il diritto di esistere» [25]. Infine, de-plorano «lo scontro in Ucraina che ha già causato molte vittime, innumerevoli ferite ad abitanti pa-cifici e gettato la società in una grave crisi» [26].

L’INCONTRO IN SÉ È STATO L’EVENTOQuesto testo contiene affermazioni importan-ti e positive, come un appello energico a non dimenticare i cristiani (ma anche fedeli di al-tre religioni) oggi perseguitati. Ma l’implicito attacco alla modernità e alla laicità dello Stato (con tutte le conseguenze che ne derivano), che caratterizza la Di-chiarazione, non può essere accol-to a scatola chiusa, anche perché ha venature di fondamentalismo. Rileviamo però che, sebbene più volte, negli anni recenti, esponenti ortodossi russi abbiano aspramente criticato le Chiese della Riforma che hanno accolto donne nei ministeri del pastorato ed episcopato, il te-sto non si pronuncia sul tema.Sulla questione ucraina (“uniatismo” e recen-te conflitto) è da sottolineare l’accettazione, da parte di Mosca, del diritto degli “uniati” attuali ad esistere; per ciò che invece riguarda quan-to si dice sul conflitto militare appena sedato, gruppi di “uniati” hanno accusato il papa di

“tradimento”, per aver sposato le tesi russe in proposito, e ignorato quelle ucraine; e lo stes-so arcivescovo maggiore di Kiev degli ucraini, Sviatoslav Shevchuk, ha criticato la Dichiara-zione come “reticente”.Tuttavia seppure il testo sottoscritto da Francesco e da Kirill sia, a noi pare, criticabile (il papa – per relativizzarlo? – lo ha definito di carattere “pa-storale”), la vicenda dell’Avana non passerà alla storia per esso. Quello che la renderà indimen-ticabile è l’evento in sé, frutto maturo di molti/e che hanno sofferto e lavorato per decenni perché avvenisse. Un ghiaccio che sembrava eterno è sta-to rotto; il parlarsi a tu per tu da fratelli – pur

in contrasto su molti punti – è di-ventato normale. Benissimo dunque hanno fatto a incontrarsi, il papa e il patriarca (il quale ha una parte im-portante della sua Chiesa contraris-sima ad ogni dialogo col Vaticano; di qui il voluto low profile dell’Avana).

Ora la normalità dei rapporti – e perciò altri in-contri, sia a Roma che a Mosca, non sono più ipo-tesi fanta-teologiche, seppure non siano da atten-dersi domattina – sarà la cifra del tempo nuovo inaugurato, e che potrebbe gettare qualche fascio di luce anche sul Concilio panortodosso di giugno a Creta. È tempo di grandi speranze; senza però dimenticare che il cammino della piena riconci-liazione tra cattolici e ortodossi è tutto in salita, aspro e doloroso.

“Baci e abbracci del papa a non

finire, ai bambini. Ma secca denuncia dei mali del paese„

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marzo 2016 i servizi | IMMIGRAZIONE

Una bussola che puntaal Nord globale

Abby C. Wheatley

In questo servizio, raccogliamo due testimonianze dirette dalla frontiera tra gli Stati Uniti e il Messico, dove moltitudini di persone provenienti da Honduras, Guatemala, El Salvador e Messico stesso tentano di fuggire non solo dalla povertà,

ma anche da situazioni di terrore, instabilità e violenza quotidiana.

Tucson, Arizona, USA. Mateo e io usciamo dal-la mensa gestita dalla Kino Border Initiative

e camminiamo su “El Periférico”, la strada prin-cipale che circonda per metà la città di Nogales, nello stato del Sonora. È l’inizio di novembre del 2013 e l’aria tagliente sui nostri visi preannun-cia il gelo delle notti invernali di questo deserto. Un gruppo di uomini centroamericani sta in un angolo, a passare il tempo, prima che i rifugi per migranti aprano per la sera.A un certo punto, Mateo mette le mani in tasca e tira fuori una piccola bussola. La tiene con mano ferma, in attesa che la freccia indichi una direzio-ne: tiene una lezione improvvisata sull’uso della bussola. Spiega come si deve tenere in mano lo strumento, con delicatezza, e dice che molti non riescono a utilizzare questa tecnologia così sem-plice in modo corretto proprio perché non sanno come tenerla. Molti degli uomini che ascoltano la sua “lezione” sono persone che provano ad attra-versare il confine per la prima volta, quindi non hanno esperienza del deserto; Mateo, al contra-rio, ha una conoscenza approfondita delle terre di confine, avendo affrontato più volte tutto il viaggio dall’Honduras agli Stati Uniti (oltre 4.000 chilo-metri). Portare una bussola è un modo per ridurre al minimo i rischi. Inoltre, Mateo ha con sé un po’ di candeggina per purificare l’acqua. Ha esperien-za delle guardie di frontiera, dato che è stato arre-stato e detenuto più volte in passato.Come molte persone che cercano di entrare negli Stati Uniti al di fuori dei canali ufficiali, Mateo in precedenza ha vissuto negli Stati Uniti ed è stato deportato nel suo paese di origine dopo una serie di tentativi di tornare a casa sua, dalla sua fami-

glia. La compagna di Mateo è cittadina statuniten-se e quando l’ho conosciuto avevano una figlia di quattro anni, anch’essa cittadina degli Stati Uniti.La vasta conoscenza di Mateo su come si varca la frontiera rivela in modo chiaro i rischi e i perico-li di un confine militarizzato e, di conseguenza, le numerose strategie che le persone in transito sviluppano per destreggiarsi su questo terreno pericoloso. Nei vari tentativi, i migranti acquisi-scono sempre più esperienza e intessono relazioni con gli altri, cosa che gli permette di continuare a muoversi lungo i sentieri estesi “prodotti” dalla politica migratoria degli Stati Uniti.

LA PREVENZIONE ATTRAVERSO LA DETERRENZAIl confine tra Stati Uniti e Messico è lungo più o meno 3.200 chilometri e sul lato Usa attraversa California, Arizona, Nuovo Messico e Texas; su quello messicano, Mexicali, Sonora e Chihuahua. Per molti anni, la gente si muoveva liberamen-te attraverso questa regione di confine, ma nel 1994 la polizia di frontiera statunitense ha ini-ziato ad attuare una nuova strategia di confine, nota come “prevenzione attraverso la deterren-za”. Questo approccio tenta di fermare la migra-zione internazionale rendendola estremamente pericolosa e persino mortale. Lo fa chiudendo strategicamente le aree urbane dove storicamen-te i migranti attraversavano il confine, lasciando le aree rurali “aperte”, incanalando così i mi-granti attraverso i corridoi più pericolosi e desolati del deserto, dove infatti molte persone sono scomparse e sono morte. Secondo i dati della polizia di frontiera statunitense, sareb-bero 6.571 le persone morte sulla frontiera meridionale

ABBY C. WHEATLEYantropologa e ricercatrice etnografica, California Institute of Integral Studies - San Francisco (Usa)

IMMIGRAZIONEAbby C. Wheatley p.28Marta Bernardini p.30

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tra il 1998 e il 2015: una cifra che molti ricercatori e attivisti considerano largamente sottostimata. In Arizona, dove sono stati fatti passare la maggior parte dei migranti, dal 2000 a oggi sono stati re-cuperati i resti di più di 3.000 persone. Tuttavia, come sottolinea il Binational Migration Institute, (bmi.arizona.edu) non c’è modo di conoscere il nu-mero reale delle persone che sono morte nel tenta-tivo di attraversare il confine.Dato che le persone in transito si trovano ad af-frontare questo territorio così pericoloso, la mi-grazione si è trasformata in modo drammatico. Il passaggio di frontiera viene ora concepito come uno sforzo di sopravvivenza, di sovvertimento e superamento del confine. L’attraversamento quindi può richiedere mesi e a volte anni di pre-parazione da parte dei migranti: pianificare i per-corsi, creare delle mappe, contattare gli amici e la famiglia che si trova dall’altra parte del confine, negli Stati Uniti, e anche chiedere in prestito de-naro, grazie alle reti della comunità e alle pratiche di mutuo soccorso.Nonostante gli sforzi dello Stato per controllare i flussi di lavoro attraverso la minaccia costitu-ita dalla possibilità concreta di morire, le per-sone continuano ugualmente ad affrontare dei viaggi drammatici. La migrazione deve essere intesa come 1) una risposta alla marginalizza-

zione strutturale e alle ineguaglianze globali; 2) una forma di sopravvivenza; 3) una strategia di resistenza; 4) una lotta politica per la dignità, in cui persone normali, attraverso la propria mobilità, sfidano il monopolio dello Stato sulla sfera politica; 5) una lotta per l’autodetermina-zione in cui i migranti consapevolmente prendo-no la decisione di lasciare un posto e viaggiare verso un altro luogo al fine di sostenere le loro famiglie, mantenere o acquistare un terreno, co-struire una stanza in più nella casa di famiglia e coltivare pochi ettari di terra; oppure per sfug-gire alla violenza, come nel caso dei centroame-ricani che scappano dalle aree urbane segnate dalla violenza generata dalla politica statuniten-se nella regione.Quello che sta accadendo al confine tra Stati Uniti e Messico viene replicato in tutto il resto del mondo man mano che aumenta il divario tra ricchi e po-veri, grazie agli sforzi neocoloniali del “Nord glo-bale” (quello che comunemente definiamo “Nord del mondo”, ndr) per appropriarsi delle risorse dei loro vicini, impedendo però allo stesso tempo la libera circolazione delle persone attraverso i confini internazionali. Persone come Mateo, che hanno più motivi per andarsene dal proprio paese che per restarci, continueranno a migrare nono-stante i rischi e i pericoli che devono affrontare .

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La faccia triste dell’America

Marta Bernardini

Sahuarita, Arizona, USA. È una mattina meno fredda rispetto alle scorse settimane e questa è

una fortuna, soprattutto quando siamo a Nogales, in Messico, nel rifugio per migranti che sono stati deportati dagli Stati Uniti o che sono in attesa di passare la frontiera. Questo luogo, Comedor (“sala da pranzo”), è un capannone organ-izzato alla meglio, con tende spesse per proteggere dal freddo, tavoli, panche e una piccola cucina. Gestito dai gesuiti, il rifugio offre due pasti caldi al giorno e sono i volontari a mettersi al servizio dei migranti che arrivano infreddoliti tutti i giorni. Al Comedor non si mangia soltanto, ma si ha la possibilità di condividere la propria storia e riflettere sulla pro-pria situazione. Ogni giorno gli op-eratori ricordano quali sono i diritti delle persone che arrivano, quali le leggi e quali i pericoli. È un momento educativo in cui i migranti sono fi-nalmente trattati come delle persone, a cui viene riconosciuta una dignità e una voce.Questa mattina sento tutta l’energia e la vitalità che solo i bambini riescono a portare. Inizio a di-segnare con Linda, Carol e Raul, tre fratelli rispet-tivamente di 11, 8 e 3 anni. Linda è una bambina sveglia e intelligente, ci facciamo alcune foto per giocare e lei con abilità inizia a scorrere lo scher-mo con il dito e guardare le immagini. Mi racconta che i suoi genitori sono in Honduras e lei e i suoi fratelli sono qui con l’altra loro mamma, forse una zia. Me la indica, è una giovane donna che sta par-lando con una delle operatrici, probabilmente per

avere informazioni sulla pos-sibilità di chiedere asilo ne-gli Stati Uniti. Mentre Linda continua a scorrere le foto, compare quella di una croce bianca vicino a dei cactus. Risale a qualche settimana fa quando, con un gruppo di volontari dell’organizzazio-ne umanitaria Samaritans,

sono andata a fare una ricognizione nel deserto in Arizona, operazione che il gruppo fa da qua-si 12 anni per offrire acqua e primo soccorso ai migranti in difficoltà. Linda, senza esitazione, mi chiede se è la croce di un migrante morto. Le dico di sì e le dico che è nel deserto. Mi chiede il suo

nome. Le dico che non si sa, che è de-sconoscido. Questa infatti è la parola che appare su alcune croci che sono state messe nel deserto tra l’Arizona e il Messico, dove i resti di alcune persone sono stati ritrovati quasi per caso. Vestiti, oggetti personali e ossa di diverse grandezze, a volte anche di bambini dell’età di Linda.Dico a Linda che il deserto è perico-loso e le chiedo dove sono diretti. Mi dice che vanno in Georgia e usa qual-che parola in inglese sorridendo. Il dito continua a scorrere lo schermo e ora appare la foto di una lunga recinzione, dalle sbarre rosso me-

tallico, che sale per una collina arida e gialla. Mi chiede se quello è il muro e da che parte sono los Estados Unidos. Penso se sia il caso di continuare la conversazione ma mi rendo conto che Linda sa già tante cose e che non è da queste verità che an-drebbe protetta. Trovo le parole giuste per rispet-tare la sua età e la sua intelligenza e rispondo alle sue domande. Le chiedo come lei e i suoi fratelli arriveranno in Georgia e mi dice che anche loro passeranno la frontera, ma che solo la mamma sa quando.In questo incontro c’è tutto quello che ho capito della frontiera tra gli Stati Uniti e il Messico. Chi in questo momento scappa da paesi come Hondu-ras, Guatemala, El Salvador, ma anche Messico sono per la maggior parte uomini che lasciano la famiglia sperando di mandare al più presto un aiuto economico, ma sono sempre più spesso an-che donne e minori. Non si fugge soltanto dalla povertà, ma anche da situazioni di terrore, di in-stabilità e di violenza quotidiana, dove i cartelli della droga non si risparmiano in uccisioni feroci o sparizioni ingiustificate.

MARTA BERNARDINIoperatrice a Lampedusa per Mediterranean Hope, in questo momento in Arizona per lavorare alla frontiera tra Stati Uniti e Messico.

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“Ogni giorno gli operatori ricordano quali sono i diritti delle persone che arrivano, quali le leggi e quali i pericoli. È un

momento educativo in cui i migranti sono finalmente

trattati come delle persone, a cui viene

riconosciuta una dignità e una voce„

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LA FUGA COME UNICA SALVEZZAQuesti gruppi criminali hanno un potere fortemen-te radicato nella società, intrecciato spesso con le istituzioni e la polizia, così per molti l’unica via di sopravvivenza rimane la fuga. Molte persone che scappano dall’Honduras, per esempio, per queste ragioni cercano di chiedere asilo politico negli Stati Uniti, ma non tutti ci riescono. Così, in molti cercano di passare la frontiera illegalmente. E nell’illegalità si alimenta il guadagno degli stessi criminali da cui si scappa: dopo droga e armi, infatti, i migranti sono la loro principale fonte di reddito.I trafficanti, i coyote, chiedono un prezzo caro per far attraversare il confine, e se non puoi pa-gare a volte ti obbligano a trasportare droga, per non parlare delle violenze e abusi che quasi tutte le donne subiscono. Tutto ciò senza garanzia di so-pravvivere al deserto.Così le persone che tentano di passare la frontie-ra sono rese illegali, vittime e a volte anche cor-pi senza vita e senza nome. Ma la frontiera non fa solo questo, non ti trasforma solo in un’ombra che rischia la vita per raggiungere una speranza, ti trasforma anche in un criminale. Come se inve-ce di saltare il muro ci si passasse attraverso e le larghe sbarre rosse rimanessero incise sulla pelle e diventassero parte indelebile della tua storia, di chi sei diventato agli occhi degli altri.Se vieni trovato dalla polizia di frontiera, la Border Patrol, entri immediatamente nel sistema penale degli Stati Uniti d’America. Ogni giorno, in diverse corti penali, gruppi di migranti vengono giudicati per il reato di aver passato la frontiera illegalmen-te, questa si chiama Operazione Streamline. Gli “imputati” hanno le manette ai polsi e delle catene che legano mani, fianchi e caviglie. Quan-do li vedo alzarsi per andare davanti al giudice

mi rendo conto che faticano a camminare, che le catene tintinnano come nel peggiore film dell’or-rore e che molti volti sono giovani e spaesati. Ogni persona ha solo pochi minuti per parlare con un avvocato, poi ad uno ad uno si devono dichiarare colpevoli, culpable, “guilty” traduce una voce al microfono. Ad ognuno vengono assegnati diversi giorni di detenzione, in numero maggiore se non è la prima vol-ta che passano la frontiera, e le prigioni a cui le persone vengono assegnate sono private, ricevono soldi federali per gestire questi “detenuti”, con relativi profitti. Ecco come la frontiera ti trasfor-ma. Da vittima a criminale. Ma la frontiera non ti lascia anche dopo tanti anni. In questo mo-mento, infatti, sono troppe le fa-miglie che l’attuale amministra-zione sta separando, e finanche deportando. Genitori che non sono riusciti a regolarizzare la loro condizione vengono divisi dai loro figli, cittadini a tutti gli effetti se nati sul suolo americano, per essere rimandati nei paesi da cui si è faticosamente fuggiti. Ogni volta che passo il confine per andare al Co-medor con il mio passaporto europeo, nell’attra-versarlo io non divento una criminale, non diven-to un’ombra senza diritti, ossa senza un nome. E quando parlo con Linda penso che da questo lato del mondo sto sorridendo a una bambina gioiosa e intelligente, ma se lei attraversasse la frontie-ra potrebbe diventare polvere nel deserto e sua mamma una criminale. Colpevole di voler offrire a sua figlia un futuro da vivere.

“I trafficanti chiedono un

prezzo caro per far attraversare il confine, e se

non puoi pagare a volte ti obbligano a trasportare droga,

per non parlare delle violenze e abusi che quasi tutte le donne subiscono. Tutto ciò

senza garanzia di sopravvivere al deserto„

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Uomini e caporali, la schiavitù senza catene

Marco Omizzolo

Per comprendere il fenomeno del caporalato, è utile calarsi nella realtà di sfruttamento che migliaia di braccianti

migranti vivono ogni giorno, ascoltando le loro storie con empatia. Il caso dei lavoratori punjabi, in maggioranza sikh, del Pontino.

«Io lavoro in campagna. Vado in macchina con un amico dalle 6 alle 17-18. Dipende

dal padrone: io non ho orario. Carico tutto il giorno grandi camion con zucchine o verdura. [...] Il padrone è così così. Lavoro sempre, senza mai ferie, ma non mi paga: il padrone mi dà soldi una volta ogni 4-5 mesi. Così è difficile vivere. Sono in regola con i documenti e ho un contratto di lavoro regolare ma il padrone mi paga 100 o 200 euro ogni tanto, ma io voglio tutti miei soldi perché ho una famiglia in India, in Punjab, che ha bisogno dei soldi per vivere: cosa dico loro? Chiedo io i soldi a loro? [...] Ancora da 6 mesi sono senza stipendio ma lavoro tutti giorni, an-che una domenica sì e una no, e non posso an-dare al nostro Tempio a Sabaudia. [...] Oggi c’è crisi, lo capisco, ma il padrone può vivere 6 mesi senza soldi? Io non credo e neanche io posso vi-vere così. Sono venuto in Italia perché c’era un mio amico che mi diceva che qui c’è tanto lavoro nei campi per raccogliere la verdura. [...] Ma il padrone è un ladro, io non lo dico a tutti, ma lui è un ladro e io lavoro gratis».È questo il contenuto di una delle interviste pub-blicate nel saggio “Il movimento bracciantile in Italia e il caso dei braccianti indiani in provincia di Latina dopati per lavorare come schiavi”, rac-colto nella collettanea Migranti e territori (Edies-se, 2015) a cura di chi scrive e di Pina Sodano. Un saggio che ripercorre, sia pure brevemente, le lotte bracciantili in Italia, con le leghe contadine

composte da uomini e donne che nel Sud come nel Nord del Paese hanno rivendicato terre, diritti, giustizia sociale e legalità. Dalle mondine ai moti bracciantili lucani e pu-gliesi, guidati da personalità come quelle di Michele Man-cino e Giuseppe Di Vittorio,

dalla strage di Portella della Ginestra ai primi pro-cessi contro i braccianti accusati di voler sovverti-re l’ordine democratico e di attentare allo Stato e difesi da Lelio Basso, le cui requisitorie dovrebbe-ro essere lette e discusse nelle università italiane. Si tratta di vicende che hanno contribuito a rende-re democratica l’Italia, a liberarla dal fascismo e a scrivere le norme fondamentali della nostra Carta costituzionale. Una sorta di premessa storiografica che nel saggio serve a portare la riflessione ad oggi e alle tante vertenze, situazioni, crisi e condizioni di sfruttamento lavorativo che ancora nelle nostre campagne finiscono col determinare rapporti di potere sbilanciati tra alcuni datori di lavoro e mol-ti braccianti agricoli, siano questi ultimi migranti o italiani. Il saggio analizza e approfondisce un feno-meno che assume i contorni del dramma.

SE 14 ORE VI SEMBRAN POCHE...Alcuni lavoratori punjabi, costretti a lavorare anche 14 ore al giorno, sono indotti nel Pontino ad assumere sostanze dopanti prima di recarsi nei campi o durante le relative pause. Una prati-ca che si inserisce pienamente dentro il modello di produzione agricola vigente e che configu-ra una declinazione nuova e drammatica dello sfruttamento. Un fenomeno denunciato già dal dossier “Doparsi per lavorare come schiavi” (http://www.inmigrazione.it/it/dossier/2014-do-parsi-per-lavorare-come-schiavi) della coope-rativa sociale “In Migrazione”, che descrive una tragedia quotidiana che rischia di sfociare in una pratica sociale diffusa, di generare economie il-legali e di rafforzare varie organizzazioni crimi-nali già presenti.Un lavoratore indiano intervistato è piuttosto eloquente: «Io lavoro 12-15 ore a raccogliere zucchine o cocomeri o con trattore per piantare altre piantine. Tutti i giorni, anche la domeni-ca. Io non credo sia giusto così. Troppa fatica

MARCO OMIZZOLOè presidente della cooperativa sociale In Migrazione, impegnata nell’accoglienza e nel supporto agli adulti stranieri.

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e pochi soldi. Perché gli italiani non lavorano così? Dopo un po’ io e anche altri indiani ab-biamo male alla schiena, alle mani, al collo e an-che agli occhi... Abbiamo sempre la tosse e ogni mattina un forte dolore alla schiena. Capisci? Ma io devo lavorare e allora prego il Signore e vado a lavorare tutti i giorni in campagna dal mio padrone. Lui è bravo ma paga poco e mi fa lavorare troppo. Lui non mi tratta male ma mi dice sempre di lavorare ancora, anche la dome-nica. Ma io sono un uomo di carne, non di ferro. Allora dopo sei-sette anni di vita così, che devo fare? Non devo più lavorare? Io e i miei amici prendiamo una piccola sostanza per non sentire dolore. La prendiamo una o due volte al giorno quando facciamo la pausa dal lavoro. Io la pren-do per non sentire fatica e lavorare. Altrimenti per me sarebbe impossibile lavora-re così tanto in campagna. Tu capi-sci?». Difficile restare indifferenti dinanzi a queste parole. Le sostanze indicate sono oppio, metanfetamine e antispastici. Sostanze dopanti che generano comunque dipendenza, e che stanno portando molti lavora-tori a preferire lo spaccio al lavoro agricolo e a precipitare nel vortice delle droghe pesanti.Rilevare questo genere di fenomeni non è per nulla semplice. Non servono le intercettazioni o le investigazioni “tradizionali”. Bisogna scendere dai piedistalli da cui ognuno di noi, per privilegio o per merito, è salito. Condizioni di vertice eredi-tate o conquistate, dalle quali osserviamo e giudi-chiamo il mondo. Senza però accorgerci di come il mondo funzioni realmente, e di ciò che accade ogni giorno sotto i nostri occhi. Si deve, invece, costruire un rapporto di fiducia coi braccianti migranti, ascoltare le loro storie, vivere con loro esperienze sociali di varia natura, avere la capa-cità e la pazienza di stabilire rapporti non fugaci, evitare letture superficiali e approfondire con un incedere scientifico sempre cauto e ponderato, argomenti e questioni che vengono lentamente

sviluppati. E poi, magari, fare la loro stessa espe-rienza di lavoro e sfruttamento nei campi agricoli. Si tratta, dunque, di costruire un linguaggio co-mune, fatto di significati chiari, accompagnati da pratiche sociali costantemente sviluppate insieme.

LE NUOVE FORME DI SCHIAVITÙInsomma, si deve tentare di diventare “uno di loro”. Si capirebbe anche meglio la figura crimi-nale ma socialmente ambigua del caporale, so-prattutto quando è indiano, il suo ruolo comples-so, le dinamiche di reclutamento internazionale e le ragioni che spingono organizzazioni sindacali, cooperative, associazioni come Amnesty e Medici senza frontiere, ricercatori e docenti universitari, a parlare di nuove forme di schiavitù, dove man-cano le catene o forse sono diventate invisibili solo

agli occhi di chi sta troppo in alto per poterle vedere.Intanto, ogni giorno, donne e uo-mini vengono chiamati a lavorare, spesso attraverso convocazioni più sofisticate rispetto al tradizionale reclutamento nelle “piazze o roton-de degli schiavi”, da datori di lavoro

e caporali che fanno della schiavitù, dello sfrut-tamento lavorativo, della tratta internazionale, un business economico e un sistema di potere consolidato. Ciò che accade ogni giorno nei cam-pi agricoli di questo Paese me-riterebbe un’indagine più ap-profondita, denunce puntuali, azioni volte a ripristinare non solo la legalità ma alcuni di-ritti fondamentali. Altrimenti rischiamo solo di far pagare ai più deboli la nostra mise-ra ricchezza. Scegliere da che parte stare, coi padroni o con gli schiavi, ci permette di sce-gliere che genere di società vogliamo essere e che persone vogliamo diventare.

“Io e i miei amici prendiamo una

piccola sostanza, una o due volte al giorno,

per non sentire fatica e lavorare„

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marzo 2016 le notizie

le notizie

AMBIENTEDati preoccupanti dai dossier di Legambiente Mal’aria e Pendolaria.

La situazione italiana resta critica per inquinamento atmosferico e trasporti pub-blici per i pendolari: questo ciò che emerge dai dossier di Legambiente, che denun-cia responsabilità politiche, reclama un cambio di passo per la mobilità sostenibi-le e un potenziamento del trasporto ferroviario. Sono necessari investimenti per le infrastrutture che permet-tano servizi dignitosi e ren-dano l’uso dell’auto l’ultima soluzione possibile per gli spostamenti dei cittadini.Intanto il 2015 e l’inizio del 2016 sono caratterizzati da valori di polveri e ozono fuori controllo, responsabili di patologie e morti prema-ture. Il rapporto “Mal’aria” registra una situazione pre-occupante nell’area padana e nelle grandi città del cen-tro-sud. Il trasporto su stra-da è tra le principali fonti di inquinanti nelle città. Delle 90 città monitorate dalla campagna “Pm10 ti tengo d’occhio”, nel 2015 ben 48 (il 53%) hanno superato il limite dei 35 giorni di sfo-

ramento di Pm10. Le situa-zioni più critiche si sono re-gistrate a Frosinone, seguita da Pavia, Vicenza, Milano e Torino. A livello regionale, il Veneto, la Lombardia, il Piemonte, l’Emilia-Roma-gna e la Campania.Per Legambiente è priorita-rio contrastare in maniera efficace l’inquinamento at-mosferico, puntando sulla mobilità sostenibile, poten-ziando il trasporto sul ferro e l’uso dei mezzi pubblici.Pendolaria è l’altro rappor-to presentato, nell’ambito di una Campagna che ha al centro dell’attenzione la situazione e gli scenari del trasporto ferroviario pen-dolare in Italia. Le persone che viaggiano in treno sono in aumento, ma con dinami-che molto differenti da Nord a Sud. Da un lato il succes-so di treni ad alta velocità, dall’altro la riduzione pro-gressiva dei collegamenti a lunga percorrenza sulle altre direttrici nazionali, che diminuiscono del 22,7% tra il 2010 e il 2014. Per tali spostamenti i tempi di viaggio sono rimasti fermi agli anni Ottanta. In questi anni sono stati chiusi oltre mille chilometri di linee fer-roviarie. Per Legambiente occorre porsi obiettivi am-biziosi per fare della mo-bilità una sfida prioritaria per modernizzare il Paese e realizzare gli impegni fis-sati dalla COP21 di Parigi e dall’Unione europea al 2030 in termini di riduzione delle emissioni di CO2.Cristina Zanazzo

MIGRAZIONIOrganizzazioni religiose

e agenzie Onu per un’azione comune:

«Chiudere le frontiere non è una soluzione».

Tra le misure da incentivare, citati i corridoi umanitari. Presentato anche

il progetto “Mediterranean Hope”,

promosso dalla Fcei in collaborazione con Sant’Egidio.

«La risposta dell’Europa alla crisi dei rifugiati e mi-granti - Partenza, transito, accoglienza e protezione: un appello a favore della condivisione delle respon-sabilità e alla cooperazione nell’azione»: questo il tito-lo dell’appello lanciato al termine della conferenza di alto livello sulla crisi migra-toria in Europa, organizza-ta dal Consiglio ecumenico delle chiese (Cec) e dalle agenzie delle Nazioni Unite presso il Centro ecumenico di Ginevra (Svizzera) il 18 e 19 gennaio scorsi. Diversi i punti toccati nell’appel-lo – pubblicato congiunta-mente dal Cec, dal Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), dal

Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa) e dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) – tra cui spicca la primazia del dirit-to internazionale, e quindi della necessità, in qualsiasi circostanza, di rispettare i diritti dei rifugiati e mi-granti, a prescindere dalla loro origine nazionale, et-nica, religiosa o di genere: una frecciata, tra le righe, contro l’istituzione dei cosiddetti “hotspot”, che “smistano” le richieste di asilo in base alla nazionali-tà del richiedente.L’appello, inoltre, sottolinea la necessità di una maggiore cooperazione tra i vari attori che si occupano di rifugiati e migranti in Europa, e dice chiaro e forte che «chiudere le frontiere non è una solu-zione». Non solo, ma per i partecipanti alla conferenza «è urgente espandere e faci-litare l’istituzione di corri-doi umanitari sicuri e legali per rifugiati che si spostano verso l’Europa».Alla conferenza è stato pre-sentato, tra le altre inizia-tive, anche il progetto dei corridoi umanitari “Medi-terranean Hope”, promos-so dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), in collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio. I primi corridoi umanitari, a beneficio di persone parti-colarmente vulnerabili pro-venienti dalla Siria e fuggite nel vicino Libano, sono in dirittura d’arrivo. Nev

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IMMIGRAZIONEL’Osservatorio romano

sulle migrazioni dell’Idos conferma

la città Metropolitana di Roma

e il Lazio quali principali poli di attrazione

dell’immigrazione in Italia.

È stato presentato il 18 feb-braio a Roma l’undicesimo rapporto dell’Osservatorio romano sulle migrazioni, curato dal Centro studi e ri-cerche Idos con il sostegno e la collaborazione dell’Isti-tuto di Studi Politici S. Pio V. Il rapporto si sofferma su tre macro-dimensioni: l’im-migrazione stabile, incluse le nuove generazioni; i flus-si e l’accoglienza di richie-denti asilo e rifugiati; le ri-cadute sociali, economiche e lavorative sul territorio. Come spiega il presidente dell’Idos Ugo Melchionda, per diversi aspetti l’area romano-laziale prefigura lo scenario che a metà secolo riguarderà molti altri con-testi del paese, conferman-do la necessità e l’utilità del Rapporto. La ricerca re-stituisce, attraverso i dati, la dimensione reale della

presenza immigrata, soffer-mandosi anche sulle tante esperienze di solidarietà e attivismo dal basso attivate sul territorio laziale e ro-mano.Gli immigrati che risiedo-no nel Lazio, al 1° gennaio 2015, sono 636.524: il 10,8% della popolazione totale e il 12,7% degli stranieri resi-denti in tutto il paese. Sono 7.702 le iscrizioni di bam-bini stranieri nati nel 2014 (15,3% dei nati dell’anno in regione) e 8.777 le can-cellazioni per acquisizione di cittadinanza italiana. Anche se la crescita si regi-stra in tutte le province del Lazio, naturalmente la Cit-tà metropolitana di Roma (che coincide con il territo-rio della provincia) registra la stragrande maggioranza (523.957) dei residenti stra-nieri della regione. Più di un terzo dei 363.563 stranieri residenti a Roma Capitale (il Comune) si con-centra in soli tre municipi (I, VI e V). Anche il Lazio e Roma sono stati coinvolti dalla accresciuta domanda di accoglienza di richie-denti asilo e rifugiati, come dimostra l’incremento del 50,4% di permessi di sog-giorno rilasciati nel 2014 per asilo e protezione inter-nazionale nella provincia di Roma. Continua anche il processo di stabilizzazione nel La-zio, attestato dalla presen-za di 117.396 minori stra-nieri e dalle 8.777 nuove acquisizioni di cittadinan-za italiana.

ISLAMDa Firenze e Torino

un segnale di dialogo e integrazione: le amministrazioni

comunali stipulano dei “patti” con

le organizzazioni islamiche.

Il 9 febbraio, a Torino, i de-legati di venti centri cultu-rali islamici della città (in rappresentanza di 35mila fedeli) hanno sottoscritto un “Patto di condivisione” con il Comune, che prevede la creazione di un Coordi-namento permanente tra le comunità religiose e l’am-ministrazione per gestire in modo condiviso i principali eventi cittadini. Vengono istituite – si legge in un comunicato della Co-reis italiana – delle giornate di incontro (“Moschee aper-te per tutti”) per favorire la conoscenza reciproca e il coinvolgimento dei musul-mani più giovani, a cui sarà affidata la responsabilità di gestire bacheche di servizio cittadino all’interno delle moschee, uno spazio infor-mativo per le comunicazioni del sindaco, gli eventi inte-ressanti, le risorse ed i ser-vizi che la città può offrire.

Questo documento è stato reso possibile anche grazie al percorso di questi ultimi anni voluto dall’assessora all’integrazione Ilda Curti: a Torino è già prevista la possibilità di avere menù halal nelle scuole, spazi nei cimiteri per le sepol-ture islamiche, assistenza spirituale negli ospedali e nelle carceri, fino all’edu-cazione interculturale e al pluralismo religioso nelle scuole e alla recente sala di preghiera per musul-mani aperta all’aeroporto Sandro Pertini.Intanto a Firenze, l’8 feb-braio, è stato firmato un “Patto di cittadinanza” tra il sindaco Dario Nardella e Izzedin Elzir, imam della città e presidente dell’U-coii, che prevede sermoni in italiano durante le ce-rimonie (con giovani tra-duttori che aiuteranno chi non conosce la lingua), la promozione della lingua italiana e l’istituzione di un tavolo permanente sui luoghi di culto che saranno aperti a tutti.«La comunità islamica – ha affermato il sindaco Nardella – è la nostra più grande alleata contro il terrorismo. Il nostro più grande nemico è l’ignoran-za, che genera paura e raz-zismo».Intanto il 23 febbraio la leg-ge regionale “antimoschee” in Lombardia, voluta dalla Lega, è stata bocciata dalla Corte costituzionale che ha così accolto il ricorso del governo.

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marzo 2016

DIRITTI UMANI“Vite sconvolte”:

un rapporto di Amnesty

international sull’impatto

sproporzionato dello stato d’emergenza

in Francia.

Nel pieno delle discussio-ni sull’inserimento del-le norme d’emergenza in Costituzione, in seguito agli attentati terroristici, il Parlamento francese ha prorogato lo stato di emer-genza fino al 26 maggio. Ma Amnesty international denuncia l’uso di misure spropositate adottate con il pretesto della lotta al ter-rorismo in “Vite sconvolte. L’impatto sproporzionato dello stato d’emergenza in Francia” raccoglie la te-stimonianza di 60 persone che hanno subito controlli, spesso violenti, senza che vi fossero prove contro di loro. «I governi possono usare misure eccezionali in circostanze eccezionali, ma devono farlo con cautela. Ciò cui stiamo assistendo in Francia è un aumento dei poteri esecutivi, con scarsi controlli sul loro uso, che ha dato luogo a tutta una

serie di violazioni dei di-ritti umani. È difficile com-prendere come le autorità francesi possano sostenere che si tratta di una rispo-sta proporzionata alle mi-nacce che affrontano», ha dichiarato John Dalhuisen di Amnesty. Irruzioni in case private a notte fonda o in attività commerciali hanno causato stati di ansia e perdita del posto di lavo-ro. Le misure d’emergenza colpiscono principalmente musulmani, più per la loro fede che per l’esistenza di prove. Molte moschee sono state chiuse anche quando, come per la moschea di La-gny-sur-Marne, il rapporto di polizia riportava che non vi fosse «alcun elemento per giustificare l’apertura di un’inchiesta». Delle 3.242 irruzioni eseguite nell’ulti-mo mese, solo 4 hanno dato luogo a indagini per terro-rismo e 21 per “apologia del terrorismo”.«È fin troppo facile fare pro-clami generali su una minac-cia riferita al terrorismo che richiede l’adozione di pote-ri d’emergenza. Il governo francese deve dimostrare la necessità della permanenza in vigore dello stato d’emer-genza e il Parlamento deve considerare questa tesi con attenzione. Anche se la con-validasse, dovrebbero essere ripristinate garanzie concre-te per impedire l’uso incline all’abuso, sproporzionato e discriminatorio, delle misu-re d’emergenza», ha conclu-so Dalhuisen.Monica Di Pietro

ORTODOSSIAIl grande e santo

Concilio pan-ortodosso, in preparazione da cinquant’anni, si

celebrerà il prossimo giugno, non però a

Istanbul, ma nell’isola greca di Creta. I temi, e i

problemi, sul tappeto.

Si celebrerà, dal 16 al 27 giu-gno prossimo, ma non più in Turchia come previsto, bensì in Grecia, il Santo e Grande Concilio pan-ortodosso. Così hanno deciso nella loro “si-nassi” (incontro) svoltosi dal 21 al 28 gennaio a Chambésy (Ginevra), i patriarchi e ar-civescovi delle quattordici Chiese autocefale ortodosse. Già nella sinassi del marzo 2014 a Istanbul era stato de-ciso che, nella stessa città, il Concilio si sarebbe celebrato nel 2016; un imprevisto pro-blema geopolitico ha però co-stretto a cambiare program-ma. Infatti, dopo che il 24 novembre scorso l’aviazione turca aveva abbattuto un aereo militare russo (perché aveva violato lo spazio ae-reo turco, secondo Ankara; tesi respinta dal Cremlino, secondo il quale l’aereo si trovava nei cieli della Siria), il presidente Vladimir Putin

aveva proibito viaggi di citta-dini russi in Turchia. E così, per non escludere la Chiesa russa, alla quale apparten-gono la metà dei duecento milioni di ortodossi sparsi nel mondo, ora si è optato per Creta che, pur essendo greca, ecclesiasticamente dipende dal patriarcato di Costantinopoli, che là ha la sua Accademia teologica che ospiterà appunto il Concilio, al quale parteciperanno cir-ca quattrocento vescovi.L’idea di un Concilio pan-ortodosso era stata lanciata nel 1961 dalla Conferenza pan-ortodossa di Rodi. Da allora vi sono stati molti in-contri preparatori che, dopo non poche difficoltà – so-prattutto per contrasti tra il patriarcato di Costantinopo-li e quello di Mosca –, infine hanno portato alla storica decisione. È da un millennio che l’Ortodossia non celebra un Concilio che veda riunite tutte le sue Chiese. Sei i temi dell’Assemblea: la missione della Chiesa ortodossa nel mondo d’oggi, la diaspora or-todossa, l’autonomia di una Chiesa e il modo della sua proclamazione, il sacramen-to del matrimonio e i suoi im-pedimenti, l’importanza del digiuno e la sua osservanza oggi, le relazioni delle Chiese ortodosse con l’insieme del mondo cristiano. Non discu-terà, invece, di temi – come il modo di proclamazione dell’autocefalia (indipenden-za canonica) di una Chiesa – che vedono discordi Costan-tinopoli e Mosca. Luigi Sandri

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marzo 2016 le rubriche | SALUTE E RELIGIONI

Storie di lebbra e santità nel medioevoDaniele Solvi

Nel corso della lunga evoluzione dei modelli di santità medievali si assiste al progressivo affiorare di una saldatura tra lebbra e santità. Se il culmine della santità è il sacrificio per amore degli uomini, allora la sofferenza della lebbra, se offerta a Dio per la salvezza delle anime, non è più una forma di mortificazione personale, ma la più vera “imitatio Christi”.

Il bacio di Francesco d’Assisi al lebbroso è, tra le storie che ci vengono dal medioevo, una delle più radicate nell’immaginario contemporaneo. Una storia che, se presa alla lettera, di storico ha probabilmente ben poco, ma che testimonia a un altro livello una più profonda verità. La cultura medievale non resta insensibile alla malattia dell’uomo, ne patisce anzi lo scandalo e si impegna a rispondervi alla luce delle categorie cristiane. La lebbra, endemica in Occidente fino al Trecento, rappresenta l’infermità per eccellenza, per la quale la scienza medica e le autorità cittadine non trovano altro rimedio che la segregazione dal consorzio sociale. Si concentrano e si esasperano nella figura del lebbroso i tratti più drammatici dell’esistenza precaria: la condizione di totale bisogno, l’aspetto repellente che sfigura

le fattezze umane, l’esclusione dagli affetti familiari e dal tessuto sociale, l’angosciosa condanna di una malattia incurabile. La vita del lebbroso è quella stentata e solitaria del vagabondaggio, ma anche, soprattutto tra XII e XIII secolo, l’ingresso in piccole comunità ospedaliere sottoposte a un regime sanitario e penitenziale, dove si costituisce una rete alternativa di rapporti umani, e dove anche il sano, prestando assistenza materiale e spirituale, può dedicarsi a un’attività dalla forte impronta evangelica.Ma quale immagine della lebbra e del lebbroso viene veicolata dalla cultura medievale? La letteratura profana è in fondo la maggiore artefice di una rappresentazione negativa, che fa del lebbroso il ricettacolo di ogni vizio, dalla lussuria all’ambizione. Basterà ricordare, nel Tristan di Béroul, la scena in cui un lebbroso propone al re Marco di punire Isotta consegnandola agli appetiti sessuali di cento suoi compagni di malattia. O ancora, nel 1321, la storia del complotto che sarebbe stato ordito dai lebbrosi per contagiare tutta la Francia, avvelenando i pozzi, e potersi così impadronire del potere. Più complessa è la posizione ecclesiastica. Nell’esegesi e nella predicazione, la lebbra è considerata metafora del peccato, «lebbra dell’anima», ma difficilmente il contrarre la malattia è addebitato a una colpa morale.Lo spettro più ampio e variegato di immagini del lebbroso è quello fornito da quella sorta di teologia narrativa che è l’agiografia: dall’imperatore Costantino, guarito dalla lebbra per essersi convertito alla fede cristiana, a Iosafat, figura occidentale del Buddha, principe che la vista del lebbroso spinge alla scelta monastica; dall’ex soldato Martino, vescovo di Tours, protagonista della prima e più fortunata scena di «bacio al lebbroso», alla principessa d’Ungheria Elisabetta,

fondatrice di un ospedale; fino al leggendario «saint Ladre» (ovvero «san Lebbroso»), misterioso straniero testimone della miracolosa consacrazione della Basilica di St. Denis, o ad Aleydis di Schaerbeek, monaca lebbrosa dalle folgoranti esperienze mistiche. Il lebbroso delle legendae è la personificazione di un’iperbole: la guarigione del lebbroso come manifestazione suprema di potenza divina; la vista del lebbroso come scioccante rivelazione della coincidentia oppositorum, cioè del fatto che la vita è morte e la morte vita; il bacio al lebbroso come straordinario atto d’affratellamento o d’abnegazione; il servizio al lebbroso come servizio a Cristo, fattosi lebbroso, secondo un noto passo di Isaia (53,4-5).Nel corso della lunga evoluzione dei modelli di santità medievali si assiste al progressivo affiorare di una saldatura tra lebbra e santità. Dapprima questo avviene in termini negativi: nella concezione monastica, la lebbra rivela la caducità delle cose terrene, e dunque funziona da incentivo al disprezzo del mondo e alla consacrazione dell’anima al cielo. E allora, come spiega san Luigi IX a un lebbroso dell’abbazia di Royaumont, la paziente sopportazione della sofferenza consente al malato di espiare in anticipo le pene dell’aldilà. Ma nella vita delle mistiche nordeuropee e negli scritti di Francesco d’Assisi, questa posizione è già superata. Qui il culmine della santità è il sacrificio per amore degli uomini, e dunque la sofferenza della lebbra, se offerta a Dio per la salvezza delle anime, non è più una forma di mortificazione personale, ma la più vera imitatio Christi. Emerge così una rilettura apertamente positiva: se Cristo si è rivelato nell’umiltà come lebbroso, allora ogni cristiano deve essere spiritualmente lebbroso per compartecipare alla redenzione del mondo.

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marzo 2016 le rubriche | DIARIO AFRICANO

Lacampagnad’Africa di MatteoRenziEnzo Nucci

Ultimamente il presidente del Consiglio ha visitato molto di frequente l’Africa. Naturalmente, l’obiettivo principale è radicare la nostra presenza commerciale nel continente: non a caso a questi viaggi hanno preso parte spesso delle delegazioni di imprese importanti quali l’Eni. Ma non va trascurato un altro obiettivo: ottenere l’appoggio dei paesi africani alle Nazioni Unite per portare l’Italia ad occupare un seggio tra i nuovi membri non permanenti del Consiglio di sicurezza.

Il continente africano sembra tornare al centro degli interessi diplomatici italiani. Se il nostro governo viene strattonato con sempre maggior decisione dagli Stati Uniti per intervenire militarmente in Libia, la questione Africa acquista una maggiore concretezza nell’agenda della politica romana.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a metà marzo sarà in

Camerun ed Etiopia, dove visiterà la sede dell’Unione africana. Ma è il

presidente del consiglio Matteo Renzi ad avere inaugurato un nuovo file politico-diplomatico.

Alle porte bussano i migranti e la minaccia terroristica trova sempre maggior terreno fertile nel continente nero, dove Al Qaeda per il Maghreb islamico, gli Shabaab somali e Boko Haram (collegata all’Isis) sembrano non incontrare più ostacoli nell’opera di proselitismo costante, non solo tra i settori più poveri e disperati del radicalismo musulmano giovanile. Renzi ha fatto già nel 2014 la prima trasferta in Africa, recandosi in Mozambico, Congo e Angola. Viaggio bissato nel 2015 con le visite in Etiopia e Kenya, fino ad arrivare ai recenti incontri in Nigeria, Ghana e Senegal.

Sicuramente la questione petrolifera è stato il carburante di questi viaggi, insieme all’obiettivo di radicare la presenza commerciale italiana: non a caso ad accompagnarlo ci sono sempre state delegazioni di grandi imprese ed in particolare l’Eni. Ad Accra (in Ghana, dove sono presenti mega depositi di greggio) sono stati stipulati contratti per i prossimi 20 anni. Visita d’obbligo anche in Senegal, per la presenza di importanti piattaforme off-shore, ma l’incontro più importante è stato sicuramente quello con il presidente nigeriano Mohammadu Buhari.

Sul tavolo la questione migranti (tanti sono quelli che provengono proprio dal paese più popoloso d’Africa) e ovviamente l’oro nero di cui la Nigeria è il primo produttore continentale e l’ottavo al mondo. Va ricordato che nello scorso settembre fu arrestata a Londra la signora Alison Diezani Madueke, ex ministro nigeriano del petrolio, con accuse pesanti come malversazione, peculato, corruzione, appropriazione indebita, riciclaggio di denaro pubblico. Una detenzione durata poco perché la donna è tornata in libertà dietro pagamento di una esosa cauzione, dribblando

momentaneamente le accuse mosse dall’Icu, l’agenzia istituita nello scorso agosto dal governo di David Cameron per perseguire la corruzione internazionale. Nell’inchiesta a carico dell’ex ministro ricorre anche il nome dell’Eni, la nostra società petrolifera. Ovvio che al centro dei colloqui tra Renzi e Buhari si siano affrontate anche questioni attinenti a questa indagine promossa dagli inglesi.

Ma dietro il frenetico attivismo africano di Renzi c’è anche la paziente ed inesorabile tessitura della rete di alleanze che negli intenti del nostro premier dovrà portare l’Italia ad occupare un seggio tra i nuovi membri non permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. L’Assemblea generale dell’Onu sceglierà a giugno i nuovi ingressi.

L’Italia ha buone chances. L’ingresso nel Consiglio di sicurezza darebbe l’opportunità al nostro paese di contare di più, anche in Europa, dove spesso i rapporti con la Germania non vanno a gonfie vele. Renzi punta dritto a quel seggio anche grazie al sostegno dei paesi africani, con cui nei fatti ha già avviato un atteggiamento di comprensione ed ascolto. Le nazioni africane del resto non sono contrarie all’ingresso dell’ Italia in questo organismo perché potrebbero trovare una valida sponda politica rispetto a flussi migratori, lotta al terrorismo, eccetera.

Molto dipenderà dai prossimi mesi e dall’incognita Libia. L’eventuale intervento militare dell’Italia per riportare pace tra clan e popolazioni locali presenta molte incognite, come ha ribadito Angelo Del Boca, il nostro più grande esperto di Libia, con il rischio di impelagarci in un intervento via terra delle truppe che metterebbe a rischio molte vite umane con risultati più che incerti. La Libia resta ancora una volta il nostro storico banco di prova.

ENZO NUCCI corrispondente della Rai per l’Africa sub-sahariana.

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marzo 2016

Oltre l’8 marzoSabina Baral

È proprio quando si sente minacciato e avverte la perdita di forza che il sistema patriarcale reagisce in modo violento e “disperato”. Le donne in nome di un’uguaglianza con gli uomini hanno rinunciato alla loro differenza femminile?

Ho sempre pensato che di fronte alla morte del patriarcato non ci fosse niente da ridere, perché esso diventa più aggressivo proprio quando si sente più debole e minacciato. Parlo di morte del patriarcato perché aggredire, uccidere o comprare il corpo di una donna mi sembra sempre un gesto disperato, di chi fatica a rimanere a galla e si arrangia come può.

I recenti fatti di Colonia nella notte di capodanno lo confermano: come ha scritto Ida Dominijanni su Internazionale l’8 gennaio, «le donne continuano a essere la preda succulenta che gli eserciti di maschi si contendono, o il marchio etnico che cercano di conquistare, o la presunta altrui proprietà che cercano di rapinare». Ma non bisogna cedere alla logica dello scontro di civiltà: sappiamo fin troppo bene che i colpi di coda patriarcali sono un male da combattere tanto nell’islamismo radicale quanto nelle nostre

democrazie occidentali. Ce lo insegna un trentennio che ha cambiato i

costumi del paese tentando di fare del “femminile” un giocattolo a buon mercato.L’8 marzo ci ricorda che c’è una storia politica delle donne che dobbiamo preziosamente conservare ed è utile a non farci dimenticare il negativo che macchia questa storia, oggi come per le operaie asfissiate nel 1911. Oggi, però, siamo di fronte a una sfida nuova, che va ben oltre la questione femminile e che investe quella del maschile, della quale gli uomini iniziano ad avere qualche consapevolezza. Un’autocritica severa e sincera da parte loro così come un lavoro sulla loro sessualità e identità (possibilmente senza emulare le donne in pratiche d’autocoscienza che azzerano ogni tipo di alterità e tensione positiva con l’altro sesso) non è più rimandabile. Parimenti le donne sono chiamate a rivedere il prodotto della loro emancipazione e porsi qualche domanda.

Non è che in nome di un’uguaglianza con gli uomini abbiamo rinunciato alla nostra differenza femminile? Perché l’uguaglianza è un bene irrinunciabile ma poi subentra una posta in gioco più alta: quella della messa al mondo della libertà femminile che non ha tanto a che fare con la parità ma con la capacità di reagire, di tagliare con quello che sembra ovvio per seguire un’intuizione, un’idea che sentiamo nostra, vera, giusta. Perché il femminismo non è una dottrina, una fede o un’etichetta ma è soprattutto rottura, ricerca di una discontinuità. Tutto il contrario di un vittimismo che ci rende deboli, relegandoci a una posizione passiva, in balia di chi decide di ascoltarlo e, talvolta, strumentalizzarlo. Niente di diverso da quello che avviene quando, di fronte al vittimismo di alcuni immigrati, alcuni se ne servono a proprio vantaggio.

Riguadagnare un protagonismo femminile significa dunque in prima

battuta rinunciare al ruolo di vittime: è l’immagine della donna, infatti, che si sta immiserendo, ma non le donne nella realtà. Basta guardarle affaccendarsi nel loro quotidiano, non solo per questioni visibili come la carriera o l’avanzamento sociale, ma nelle pieghe nascoste delle loro vite: rapporto con la casa, con le creature più deboli e bisognose, con l’uomo che hanno o non hanno accanto. Le donne hanno più risorse di quelle che la corsa ai diritti spesso ci riserva. Perché la corsa ai diritti rischia di essere infinita, una sorta di dipendenza alimentata da una classe politica asfittica che cerca facili consensi anziché produrre narrazioni nuove e differenti.

Nelle rivendicazioni siamo sole e agguerrite, mentre la conquista più grande è proprio poter stare al mondo ciascuna per come è: coltivando le relazioni, riconoscendoci dipendenti le une dagli altri, rifiutando di poterci autodeterminare in tutto e per tutto. In quanto donna protestante ho sempre sentito con forza il fatto di essere eterodeterminata, di avere a che fare con una signoria di Dio che mi spiazza e che rompe con gli schemi consueti.

La libertà femminile per me è anche questo: saper onorare il senso del limite, ritrovare, su temi delicati e profondi come la maternità, la sessualità, il lavoro, un alfabeto meno brutale e totalizzante. Ne guadagnerebbe anche il confronto tra i sessi che non posso che auspicare si riveli ricco e fecondo.

SABINA BARALsegreteria del moderatore della Tavola Valdese

le rubriche | IN GENERE

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marzo 2016

Il sacroin affittoGiovanni Franzoni

La figura di padre Pio, così discreta, non meritava questo trattamento. Dietro l’oggettivazione del sacro si nascondono spesso interessi materiali, mentre il sacro per sua natura si sottrae ad essere utilizzato e imprigionato nel superstizioso.

Lo spettacolare viaggio della salma di padre Pio per esporlo a Roma (dal 4 all’11 febbraio) in occasione del Giubileo della Misericordia ha ripreso in pieno tutto il penoso dispiego di espedienti atti a far crescere, nei devoti del santo, la dipendenza psicologica e l’aspettativa di benefici

e grazie. La salma è stata accomodata plastificandone il corpo proprio nei giorni liturgici.

All’inizio della quaresima si pongono delle ceneri sulla fronte dei fedeli pronunciando le parole della Bibbia: «Ricordati uomo, che sei polvere e polvere ritornerai». La salma così aggiustata è stata posta in un’urna di cristallo in modo da soddisfare il desiderio di vedere e quello di “toccare il sacro” per appagamento devozionale.

Il viaggio era partito da San Giovanni Rotondo e poi, dopo Roma, dove la salma è stata esposta nella Basilica di San Pietro tra l’entusiasmo dei devoti pellegrini. Dopo la salma è stata portata (dall’11 al 14 febbraio) a Pietrelcina (Benevento), cittadina natale di Padre Pio, destinata a sua volta a divenire santuario della sua memoria. Infine è tornata a San Giovanni Rotondo.In questo modo si è ancora una volta esaltata la figura che non meritava, per causa della sua discrezione, questo

trattamento; ed è sottinteso che dietro questa oggettivazione del sacro – a parte il rischio di cadere nell’idolatria – si nascondono interessi di bassa lega. Il sacro sfiora talvolta l’umano nella sua concretezza individuale e sociale, ma immediatamente si sottrae ad essere utilizzato e imprigionato nel superstizioso.

Si dovrebbe perennemente riflettere sull’evento narrato nel Vangelo di una trasfigurazione di Gesù che appare sul monte Tabor ad alcuni discepoli; quando però essi avanzano l’ipotesi di impiantare su quella vetta delle tende per rendere perenne la visione mistica, Gesù immediatamente si sottrae e annuncia che bisogna scendere nella condizione contingente, affrontare il tradimento, la passione e la Croce.

Distratti e pavidi, nel decorso dei secoli i cristiani, molto spesso, hanno tentato di imprigionare il sacro e il divino in una confezione di profumo o addirittura in accumulazioni di ricchezze e di potere.

le rubriche | NOTE DAL MARGINE

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marzo 2016 le rubriche | OPINIONE

Il sensodella fede passa anche da Pietrelcina?Ottavio Di Grazia

Un’analisi sul senso della scelta di Bergoglio di puntare su san Pio da Pietrelcina per farne il simbolo della Chiesa della Misericordia nell’anno del Giubileo.

«Farò più rumore da morto che da vivo». Mai profezia fu più vera di quella di san Pio da Pietrelcina che, con sant’Antonio da Padova, è, credo, il santo più invocato al mondo. Dall’8 al 14 febbraio 2016 il corpo del frate del Gargano è stato esposto nella Basilica Vaticana per l’inizio della Quaresima del Giubileo della Misericordia indetto da papa Francesco. Per la prima volta le spoglie di san Pio hanno lasciato San Giovanni Rotondo dove riposano da quasi cinquant’anni, ovvero dal giorno della morte avvenuta il 23 settembre 1968. La decisione di traslare a Roma il corpo del frate cappuccino è stata presa da Bergoglio in persona che ha voluto questo evento in preparazione al mercoledì delle ceneri dell’Anno Santo. San Pio fu canonizzato nel 2002 da san Giovanni Paolo II

che lo aveva incontrato da giovane prete durante un suo viaggio in Italia e dal

quale aveva ricevuto la grazia della guarigione per la sua amica Wanda Poltawska. Il frate del Gargano è sempre stato al centro di numerose polemiche. In vita, per due volte fu processato e sospeso dall’ex Sant’Uffizio. In morte non sono mancate le proteste sia per la mega chiesa progettata da Renzo Piano e a lui dedicata a San Giovanni Rotondo, accusata di essere d’ispirazione “massonica”, sia per la ricognizione del suo corpo, effettuata nel 2008, sotto la regia dell’allora arcivescovo Domenico D’Ambrosio. Ora la traslazione del corpo di san Pio a Roma ha dato vita a nuove polemiche. Mi rendo conto che aprire una riflessione su questo tema sia delicato, proprio per le enormi masse di fedeli che a lui si affidano con una fede assoluta e indiscutibile. Tuttavia è essenziale farlo con rispetto, certo, ma anche con assoluta chiarezza. Non tanto per i troppi punti oscuri e scottanti che hanno circondato la sua vita, quanto sul senso della scelta di Bergoglio di puntare proprio sul frate di Pietrelcina, per farne il simbolo della Chiesa della Misericordia. Nella Chiesa cattolica sembrano convivere e scontrarsi diversi tipi di modelli religiosi che, sotto la tradizionale e irrinunciabile dichiarazione di appartenenza a un’unica Chiesa, sono in realtà espressioni di opposte visioni del mondo. Da una parte molti ritengono che la Chiesa cattolica debba essere necessariamente un’istituzione forte che domini la vita pubblica, civile, sociale, politica ed economica; dall’altra vi è chi ritiene che il cristianesimo debba esprimersi nella debolezza, nella povertà, nella giustizia sociale, assumendo come esempio la pratica di vita di Gesù. Da non sottovalutare, infine, le enormi masse che fanno della vita religiosa e del culto dei Santi

qualcosa che non si può liquidare con una semplice scrollata di spalle, soprattutto quando migliaia di persone, di tutti i livelli culturali e sociali, manifestano tanta devozione, facendo prosperare una malintesa idea di religione che ha tenacemente rimosso le sue origini ebraiche e, sotterraneamente, si è legata ad antiche espressioni e manifestazioni religiose che provengono da altre tradizioni dando vita a sincretismi francamente discutibili. Spesso queste visioni convivono nella stessa persona senza che se ne percepisca la contraddizione. Bergoglio, con i richiami alla povertà di Santa Madre Chiesa ed il costante riferimento agli ultimi e agli emarginati, sembra aver impresso, fin dall’inizio, al suo pontificato un preciso tratto distintivo. Il problema è che, spesso, alle nostre analisi sfuggono diverse considerazioni, pretendendo di interpretare il pensiero di Bergoglio fornendo chiavi di lettura assolutamente estranee al suo pensiero o comunque non facilmente assimilabili entro i confini di un’agenda laica. Bergoglio si muove in maniera assolutamente diversa, seguendo una rigorosa agenda personale dove equità, protezione dei marginali, denuncia di ogni sfruttamento, lotta alla povertà non sono minimamente separabili da ciò che costituisce la fitta trama della tessitura storico-teologica del cattolicesimo. Religiosità popolare compresa. Da questo punto di vista, non deve sorprendere la scelta di far condurre il corpo di san Pio a Roma proprio in occasione del Giubileo della Misericordia toccando corde profonde, ancorché discutibili, di una forma di religiosità ampiamente diffusa. Riflesso ideologico e di costume radicato profondamente entro tematiche religiose lontane da quel senso della fede che tutti vorremmo ancorata su altre fondamenta.

OTTAVIO DI GRAZIAdocente di Storia delle religioni del Mediterraneo.

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marzo 2016

L’islam non può mai legittimare l’odioYahya Pallavicini

A fine gennaio centinaia di teologi e maestri spirituali musulmani, cristiani, ebrei, insieme a intellettuali impegnati nel dialogo interculturale e a giuristi si sono incontrati a Marrakesh, in Marocco, per discutere dei diritti delle minoranze religiose nelle comunità a predominante maggioranza musulmana, contro chi pretende di legittimare l’odio e la violenza in nome di una religione.

«La tematica che discuterete, cioè quella dei “diritti delle minoranze religiose nei Paesi islamici” non avrebbe a priori ragion d’essere, essendo ben noti gli insegnamenti e le prescrizioni dell’Islam e della sua civiltà a riguardo. Ciononostante, i fatti che hanno condotto a sollevare la questione e la congiuntura attuale impongono ai musulmani il dovere di precisare che questi fatti non si fondano su alcuna autentica e riconosciuta fonte islamica. Essi devono infatti dimostrare, all’occorrenza, che alcuni di questi avvenimenti travestiti da religione si sono prodotti in circostanze e con motivazioni totalmente estranee ad essa». Con questa citazione dal

discorso di introduzione del Re del Marocco Muhammad VI si è aperto l’evento che ha riunito a Marrakesh centinaia di teologi e maestri spirituali musulmani, cristiani, ebrei insieme a intellettuali impegnati nel dialogo interculturale e a giuristi dal 25 al 27 gennaio.

Si è trattato di un evento storico che ha visto convergere sapienti da tutte le regioni del mondo in una riunione e una dichiarazione che rinnova lo spirito di fratellanza e di collaborazione nel rispetto delle differenze e delle interpretazioni confessionali. L’occasione è stata anche benedetta dalla ferma volontà di tutti i rappresentanti di reagire con un segnale chiaro e profondo alla violenza e all’abuso di coloro che in modo organizzato pretendono di legittimare l’odio e il disordine in nome di una religione. L’incontro ha avuto il frutto di mettere in contatto referenti religiosi musulmani da Oriente e da Occidente insieme ai rappresentanti delle minoranze religiose presenti nel mondo islamico e sviluppare una rete di collaborazioni tese a monitorare e prevenire discriminazioni e soprusi dell’identità confessionale a discapito del rispetto dei diritti della persona.

Il ricordo delle coerenze dei popoli e dei governi a questa libertà e dignità del pluralismo religioso è stato richiamato dal re Muhammad VI: «Nel corso della sua storia, il Marocco ha sperimentato un modello di civiltà singolare, con la coesistenza e interazione tra musulmani e fedeli di altre religioni, tra cui ebrei e cristiani. Tra i panni luminosi di questa storia di convivenza armoniosa figura la civiltà marocchino-andalusa, originatasi da tale convergenza interreligiosa. In effetti, commerci e arti si sono sviluppati tra queste comunità, che condividevano anche i frutti della saggezza, della filosofia e

delle scienze. [...] Più approfondiamo le crisi che minacciano l’umanità, più ci convinciamo della necessità di una cooperazione urgente e ineludibile tra i seguaci di tutte le religioni. Incentrata sullo stesso credo, tale cooperazione dovrebbe essere basata non solo sulla tolleranza e sul rispetto, ma anche sull’attaccamento ai diritti e alle libertà, che la legge deve garantire e regolare a livello di ciascun Paese. Non si tratta solo di fornire regole di condotta da seguire, ma è importante anche e soprattutto osservare un comportamento civile, che rifiuta ogni forma di coercizione, di fanatismo e di arroganza».

La Coreis (Comunità religiosa islamica) è stata invitata a partecipare e rinnovare l’esperienza già vissuta ad Abu Dhabi nel precedente Forum per la Pace nelle società musulmane e a consolidare così il rinnovamento di una piattaforma internazionale dei sapienti musulmani già avviata con l’iniziativa “A Common Word” (“Una parola comune”) che ha potuto condividere con il Vaticano tre Forum di Dialogo cristiano-musulmano conclusi con l’udienza con papa Benedetto XVI e recentemente con papa Francesco. Siamo convinti che con il concorso proprio dell’esperienza delle minoranze musulmane in Europa si possa riaggiornare l’armoniosa declinazione dei valori spirituali presenti nelle interpretazioni autentiche delle rispettive dottrine religiose nel contesto del mondo contemporaneo e affrontando insieme le sfide della democrazia e della modernità.

le rubriche | OPINIONE

YAHYA PALLAVICINIvicepresidente Coreis (Comunità religiosa islamica) italiana e imam della moschea al-Wahid di Milano.

Per la traduzione italiana del documento e della dichiarazione finale di Marrakesh si può andare sul sito www.coreis.it

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marzo 2016

Segnalazioni

i libri | SEGNALAZIONI

Mauro MaginiIL MIO AMICO PLATONEEditrice Petite PlaisancePistoia 2015128 pagine, 13 euro

Questo libro – breve ma intenso – che nel titolo rinvia al famoso detto latino (Amicus Plato, sed magis amica veritas, Platone è un amico, ma la verità è più amica), e che si chiarisce con il sottotitolo “Riflessioni su società, religione, vita”, racconta l’“educazione spirituale” dell’autore (chimico di professione). Il quale, da una visione cristiana “ingenua” tipica del cattolicesimo di cinquant’anni fa, poco alla volta, aiutato dal fervore del Concilio Vaticano II, prende maggior consapevolezza della sua fede, e inizia un cammino che lo porta a partecipare all’esperienza della Comunità di base di San Paolo in Roma. Riprendendo anche riflessioni o lettere già pubblicate su diversi media, egli affronta un nugolo di temi, di rilevanza politico-ecclesiale o di peso

teologico: riguardo alla Bibbia si confronta con l’interpretazione critico-storica; riguardo alla Chiesa con le sue contraddizioni storiche e le sue luci; riguardo alla fede con un rivestimento culturale carico di secoli che oggi deve fare i conti con scoperte della scienza che sconvolgono dati prima granitici. Riassumendo il suo cammino, Magini scrive: «Sono approdato a una visione moderna e accettabile della fede, che accetta l’esegesi, non confligge con il portato della scienza ed è in grado di recepire i contributi alla Verità portati da chiunque, laico o credente. Una fede che può guardare senza sospetto, anzi con gratitudine, ai contributi di Marx nelle scienze sociali, di Freud nell’analisi del profondo, di Darwin nel miracolo dell’evoluzione e di chiunque altro, oggi e domani, sarà portatore di un tassello più o meno grande di “verità” da aggiungere al grande mosaico della “Verità” alla quale la specie umana è protesa» (pag. 97). Dunque, un itinerario culturale e spirituale, descritto in modo convincente, che potrebbe incoraggiare altri, posti di fonte ad analoghi ma forse non approfonditi problemi, mostrando esistenzialmente che abbandonare una fede ingenua per attingerne una matura e liberata (e perciò pur sempre inquieta) porta infine ad una forte serenità interiore, sempre aperta a nuovi orizzonti.Luigi Sandri

Grazia Marchianò (a cura di)CIVILTÀ INDIGENE D’AMERICAEdizioni di Storia e Letteratura, Roma 2015210 pagine, 22 euro

Grazie all’impegno sostanziale di Elémire Zolla, dal 1969 all’83 uscì Conoscenza religiosa, una rivista trimestrale, unica nel suo genere per navigare nel vasto mondo delle religioni, in particolare in quelle minoritarie, meno conosciute, e talune in via di estinzione. Accanto alla rivista uscirono anche fascicoli monografici, dedicati a un singolo tema. Riprendendo testi pubblicati nel 1970 e nel ’75, il libro ora edito ripresenta quanto a suo tempo fu scritto sulle Civiltà indigene d’America. Specialisti a parte, per i lettori comuni i temi allora trattati sono sempre d’attualità e, per i più, una scoperta. I contributi dei vari autori – con Zolla ci sono un’altra dozzina di esperti – approfondiscono singoli aspetti, o riportano esperienze di indiani, e su indiani, tanto del

Nord (Usa) che del Sud (America Latina); dunque, di “pellirosse” e di “indios”. Si entra così nel mondo dei miti, degli sciamani, della cosmologia, della visione teologica, dell’esperienza storica di popoli “primitivi” e di nazioni di cui sappiamo così poco e, spesso, con supponenza. Ma la lettura del volume curato da Grazia Marchianò scuote le nostre sicurezze, per aprirci a mondi ignoti sui quali, a parte le epopee dei film sul Far West, non sappiamo nulla. Ed è un peccato, perché da essi (seppure anch’essi solcati dalle contraddizioni dell’esistenza) avremmo molto da imparare. Basti, qui, una citazione (pagine 34-37). Il reverendo Cram – siamo vicino a New York, nel 1805 – voleva convertire gli irochesi: «Non avete mai adorato il Sommo Spirito in maniera a Lui accetta, ma siete rimasti per tutta la vostra vita in grande errore e nella tenebra. Per rimuovere questo errore e aprirvi gli occhi sono tra voi». Al che Giacca Rossa, capo della tribù Seneca, rispondeva: «O fratello! Dici che se non accetteremo la religione insegnata dai bianchi, saremo infelici in perpetuo... Ci consta che la vostra religione è scritta in un libro. Se esso era destinato a noi oltre che a voi, come mai il Sommo Spirito non ci diede notizia del libro? Perché non lo fece conoscere ai nostri avi? Come sapremo quando credervi, visto che i bianchi ci ingannano così spesso?». David Gabrielli

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marzo 2016 i libri | SEGNALAZIONI

Arrigo ColomboLA CHIESA,LA SUA DEFEZIONEMursia, Milano 2015276 pagine, 20 euro

Il sottotitolo di questo volume – il terzo di una trilogia della nuova utopia – spiega come e perché la Chiesa abbia abbandonato il progetto evangelico di comunità fraterna e il progetto e processo di liberazione dell’umanità

ma, anche, propone le vie per ravvivare e riprendere quel cammino che Gesù di Nazareth aveva indicato. L’autore (per anni docente di filosofia all’università del Salento-Lecce; fondatore nel 1998 del “Movimento per la Società di giustizia e per la speranza” e, nel 2005, con alcuni colleghi, fondatore del Centro interuniversitario di studi utopici: Università di Cassino, Lecce, Macerata, Roma Tre) in questo libro raccoglie e condensa il suo pensiero sul tema indicato. Il progetto di una società fraterna, spiega Colombo, si formula nel messianismo ebraico e nell’annunzio evangelico ma, aggiunge, entra in latenza perché la Chiesa gerarchica e poi papale soccombe al blocco della società ingiusta che domina la storia

umana, caratterizzata per secoli da dispotismo monarchico e aristocratico, conquista di popoli, formazione di imperi, guerra perenne, schiavitù, asservimento della donna, discriminazione sfruttamento oppressione del popolo e del povero. Alcune rivoluzioni negli ultimi quattro secoli hanno tentato, tra contraddizioni e insuccessi, di far riemergere quel progetto, e oggi, sostiene l’autore, ci sono dei semi che, coerentemente e coraggiosamente sviluppati, potrebbero avvicinarsi ad esso. Ma, egli prosegue, il dogmatismo e l’impostazione dogmatica vanno superati perché «contrastano con la natura critica e creativa della coscienza, oltre che con il mistero e con l’indefinita

apertura della verità divina alla comprensione umana» (pagina 264). Scrive, concludendo, l’autore: «Si dovrà dunque smontare il grandioso edificio del potere gerarchico e imperiale, potere episcopale e papale, per realizzare una rete umile e amorosa? Così come si è smontato il Sacro Romano Impero e il potere monarchico-aristocratico, che ha dominato per millenni, per restituire al popolo la sua sovranità? Nella storia umana questi passaggi tremendi e benefici, queste sorprendenti cesure e rotture non sono inusuali. Oppure si avvererà il tremendo detto di Pascal, che il Cristo nella “sua” Chiesa sarà in agonia fino alla fine del mondo?» (pagina 274).L.S.

Julian Nida-RümelinDEMOCRAZIA E VERITÀFranco Angeli, 2015128 pagine, 17 euro

In democrazia bisogna rinunciare alla verità pur di garantire la pace civile? Questo è il nodo cruciale, centrale per la filosofia politica, che Nida-Rümelin affronta nel volume. Negli ultimi anni la democrazia come forma politica e so-ciale, ma anche come forma di vita, è venuta a trovarsi chiusa fra un economicismo neoliberista e un nuovo fondamentalismo culturale: da un lato ha dovuto fron-teggiare attacchi di fanatici motivati su base religiosa, o che si spacciano per tali, e dall’altro ha dovuto misurarsi con modelli eco-nomici che la considerano un presunto ostacolo sulla

strada di un’economia mon-diale dominata dai colossi di internet, dove tutti sono produttori e consumatori di beni e servizi scambiati a livello globale. Ci sono dunque soprat-tutto ragioni politiche per dedicarsi al ruolo della ve-rità nella democrazia. Ma, poiché non esiste un metodo sicuro per separare le convinzioni vere da quelle false, che rimangono perciò sempre rivedibili, che cosa ci rimane allora? Altro non resta nella forma di vita eminentemente umana (Le-benswelt) se non affidarsi alla pratica quotidiana del dare e prendere ragioni – empiriche e normative – che

sono certamente permeate dalla razionalità scientifica, ma non sempre con essa coincidenti. La tesi dell’au-tore è che la verità sia indispensabile in politica poiché senza di essa la de-mocrazia perderebbe il suo volto umano e la sua base partecipativa. Julian Nida-Rümelin è pro-fessore ordinario di filosofia e teoria politica alla Ludwig Maximilian Università di Monaco di Baviera. È stato ministro della Cultura nel primo governo Schröder ed è uno dei più noti intellettuali in Germania. Democrazia e verità è il suo primo volume pubblicato in traduzione italiana.

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I Forum “Religioni e Politica”Studio, riflessione, comunità

15-17 APRILE 2016

(Post) SecolarizzazioneItalia e Europa al bivio

Luigi Al� eri (Università di Urbino)Massimo Aquilante (Centro di documentazione metodista)

Luca Baratto (Servizio stampa, radio e televisione FCEI) Elena Bein Ricco (Commissione studi FCEI)

Luigi Berzano (Università di Torino)Cristiano Bettega (U� cio ecumenismo CEI)

Davide Caliaro (Università di Verona)Dimitri D’Andrea (Università di Firenze)

Fulvio Ferrario (Facoltà valdese di teologia)Daniele Garrone (Facoltà valdese di teologia)

Virginio Marzocchi (Sapienza Università Roma)Alberto Melloni (Fondazione scienze religiose di Bologna)

Paolo Naso (Sapienza Università Roma) Debora Spini (Syracuse University, Firenze)

Claudio Paravati (Confronti)Alessandra Trotta (OPCEMI)

Costo 70 € con vitto e alloggio presso il Centro Ecumene (disponibili rimborsi per la partecipazione)informazioni e iscrizioni: [email protected]

CENTRO ECUMENEVia del Cigliolo 141 - Velletri (Roma)

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