Fabrizio Turoldo. Verità del metodo. indagini su Paul Ricoeur

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Fabrizio Turoldo DEL METODO Indagini su Paul Ricoeur VERITÀ Presentazione di Carmelo Vigna con un saggio inedito di Paul Ricoeur

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Fabrizio Turoldo

DEL METODOIndagini su Paul Ricoeur

VERITÀ

Presentazione di Carmelo Vignacon un saggio inedito di Paul Ricoeur

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Copyright © maggio 2000 Il Poligrafo casa editrice s.r.l. Padova - via Turazza, 19 tel. 049 776986 - fax 049 8070910 e-mail: [email protected] ISBN 88-7115-191-7

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INDICE

Presentazione Carmelo Vigna

Promenade au fil d’un chemin Paul Ricoeur

LA VERITÀ DEL METODO

IntroduzioneL’iter speculativo di Paul Ricoeur

1. I primi maestri2. Gli scritti su Jaspers, Marcel e Husserl3. Il volontario e l’involontario4. Finitudine e colpa5. Il confronto con lo strutturalismo6. Il saggio su Freud7. Il conflitto delle interpretazioni8. La metafora viva9. L’ermeneutica testuale, la dialettica

tra comprensione e spiegazione, la filosofia10. L’intersezione tra l’insegnamento di Husserl

e quello di Gadamer11. Tempo e racconto12. Sé come un altro

Parte PrimaTEORIA DELLA VERITÀ

La teoria della verità nel pensiero di Ricoeur Introduzione

1. Il concetto di verità nel pensiero di Ricoeur2. La plurivocità del vero3. Verità e azione4. Verità filosofica e verità scientifica:

il dibattito con Canguilhem

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69 5. Il vero come rivelazione e disvelamento70 5.1 La verità delle singole filosofie intesa

come scoperta e rivelazione 72 5.2 La verità-scoperta come ciò che rivela

e che trasforma 76 6. Primo bilancio provvisorio

Parte Seconda EPISTEMOLOGIA

81 Introduzione83 1. Alcuni esempi dì mediazioni dialettiche

93 2. Il conflitto tra interpretazione archeologicae interpretazione teleologica del simbolismo religioso

93 Premessa94 1. Interpretazione archeologica e interpretazione

teleologica del simbolismo religioso 97 2. I maestri del sospetto99 3. Composizione del conflitto ermeneutico e ruolo

arbitrale del discorso filosofico 102 4. Fenomenologia dello spirito e fenomenologia

della religione

105 3. Spiegare e comprendere nei tre campidella teoria del testo, detrazione e della storia

105 Premessa106 1. La teoria del testo107 2. La teoria dell’azione110 3. La teoria della storia

113 4. Secondo bilancio provvisorio113 1. Bilancio storiografico113 1.1 La filosofia come discorso sui limiti

e sullo spazio di validità delle varie interpretazioni ingaggiate nel conflitto: kantismo ed ermeneutica

118 1.2 La dialettica di Ricoeur e quella di Hegel119 1.2.1 II pensiero di fronte all’enigma del male120 1.2.2 II pensiero di fronte all’inscrutabilità del tempo125 1.2.3 Ricoeur, Gadamer, Hegel126 2. Bilancio critico126 2.1 II conflitto tra ermeneutica archeologica

ed ermeneutica teleologica

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2.1.1 Condizioni di possibilità della mediazione di un conflitto tra teorie opposte2.1.2 Sullo statuto epistemologico del discorso che opera la mediazione all’internodel conflitto ermeneutico2.2 II conflitto tra spiegazione e comprensione

Parte Terza ONTOLOGIA

1. L’ontologia nel pensiero di Ricoeur1. Dalla fenomenologia all’ontologia1.2 Poetica della volontà e ontologia2. Gli scritti di ontologia2.1 L’affermazione originaria2.2 Metafora e discorso filosofico2.3 Verso quale ontologia?2.3.1 Ipseità e ontologia2.3.2 Ipseità e alterità2.4 Dalla metafisica alla morale2.5 Esodo 3.14 Premessa2.5.1 Gli enigmi del testo2.5.2 Dio e l’essere: la coppia Agostino-Pseudo Dionigi2.5.3 I medioevali2.5.4 II processo dell’ontoteologia2.5.5 La proposta di Ricoeur

2. Terzo bilancio provvisorio1. Premessa2. La ricerca di un senso privilegiato dell’essere3. La semantizzazione dell’essere4. Ontologia ed ermeneutica biblica4.1 II rapporto tra ontologia ed ermeneutica biblica4.2 Sull’ipotesi di un arretramento teoretico in Soi-même comme un autre4.3 Le domande della teologia filosofica5. Il rapporto tra atto e potenza in Ricoeur5.1 I concetti di atto e potenza in Ricoeur5.2 La posizione di Heidegger5.3 Analogie tra le posizioni di Heidegger e Ricoeur6. Il rapporto tra metafisica e morale7. Sul fondamento

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241 AppendiceA COLLOQUIO CON RICOEUR

243 Primo entretien243 Premessa246 Questions

265 Secondo entretien265 Premessa268 La théorie de la vérité276 L’ontologie

291 Bibliografia

313 Indice dei nomi

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PRESENTAZIONE

Il pensiero di Paul Ricoeur è diventato negli ultimi anni un punto di riferimento obbligato non solo per i «continentali», ma anche per gli «analitici». E con buone ragioni. Ricoeur è un pensatore «fluido», che non ha preoccupazioni astrattamente si­stematiche e che può, dunque, restare in una sorta di permanente auscultazione delle volute teoriche e pratiche del tempo. In que­sto egli è un sapiente ermeneuta. Ma egli è anche un infaticabile ragionatore. Perciò piace agli analitici dell’area anglosassone.

Ma Ricoeur è soprattutto uno che vuol comprendere. Nel sen­so in cui «comprendere» indica la prima operazione dell’intelli­genza, ma anche l ’ultima, perché tutte le forme del ragionare partono dal comprendere, servono la forma del comprendere, e al comprendere si volgono come al loro fine. Comprendere come vedere. Comprendere però è un compito non di rado impossibile; altre volte è un compito che può essere solo svolto in parte. Co­munque, comprendere importa per lo più, in un essere umano, una dolorosa incertezza, se non si riesce a dimostrare che l’oppo­sto di ciò che si è fatto manifesto nel comprendere, è impossibile. Comprendere, e nulla più, eccetto l’avere a che fare col semplice o coi primi principi, espone perciò a fraintendimenti, a illusioni e ad errori. Bisogna, in altri termini, non solo comprendere, ma anche far vedere che quel che si è capito è un contenuto stabile, cioè non più controvertibile. Almeno nelle questioni di fondo. Purtroppo, Ricoeur non apprezza, o non apprezza a sufficienza, anche per motivi di genealogia teorica, questa essenziale integra­zione del comprendere. La fenomenologia, da cui egli prese le

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CARMELO VIGNA

mosse ancor giovane, ignorava tematicamente la dimostrazione speculativa. Appunto, voleva, in generale, comprendere, ma ri­fuggiva dal dimostrare alcunché. Heidegger poi consacrò questa tendenza, polemizzando esplicitamente e duramente e a più ripre­se con il sapere apofantico e apodittico, di aristotelica (e platoni­ca) memoria.

Il libro di Fabrizio Turoldo è alle prese con questa singolare «sordità» ricoeuriana, che è peraltro una sordità diffusissima; tanto da aver fatto epoca, come si suol dire, e da aver ridotto buona parte della filosofia europea del secondo Novecento al semplice lavoro ermeneutico, cioè ad un comprendere che è un interpreta­re niente affatto garantito quanto alla sua verità. Ma Turoldo non architetta, giustamente, uno scontro frontale col suo Autore. Lo scontro frontale spesso irrigidisce l’analisi e rende povero il risul­tato scientifico. Piuttosto, egli insegue Ricoeur con la duttilità, la precisione e la pazienza che Ricoeur stesso deve aver insegnato al suo giovane studioso. Lo fa, comunque, arroccandosi saldamente sulle questioni epistemologiche di fondo, che poi tutte riconducono alla questione della verità; e avendo bene in mente che la questio­ne della verità è nel contempo la questione dell’essere. Ricoeur è arrivato, dopo lungo cammino, a questa acuta consapevolezza; Turoldo da questa consapevolezza prende subito le mosse, per via della sua formazione di studioso (lo si indovina dal tenore delle preziose due interviste che stanno in appendice al volume). Ed è forse per questo che egli dà al lettore l’impressione di chi sa bene quali sono i punti forti della posta in gioco. Dà anche, diciamolo pure, l’impressione di chi governa il gioco, avendo a disposizione il potente apparato categoriale della tradizione classica, così come è venuto perfezionandosi nella Scuola e dopo.

Questa salda impostazione che prende a capo l’ontologia, evi­ta a Turoldo di cadere in considerazioni presupposizionistiche in­torno alla verità. Turoldo sa bene che l’essere e la verità fanno circolo, ma la circolazione ha un ordine e l’ordine è quello del­l’essere, sicché la verità è la verità dell’essere in un senso più originario di quell’altro, anche esso immediato, secondo cui l’es­sere è l’essere della verità. Ciò nonostante, Turoldo, per restare

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PRESENTAZIONE

fedele al suo Autore, ha ordinato l’esposizione con andamento induttivo. Una prima parte egli ha riservato all’ermeneutica come modo di intendere il lavoro filosofico, cioè poi come modo di intendere la verità; una seconda ha dedicato alle questioni epistemologiche generali, in cui la filosofia si confronta con le altre forme di sapere; una terza ed ultima parte ha fatto confluire nella grande questione dell’essere, cui la questione della verità deve necessariamente ispirarsi. Con ciò, senza forzature, la diacronia genealogica della riflessione di Ricoeur si dispone do­cilmente, nel lavoro di Turoldo, secondo una certa sincronia sem­plicemente teorica. La filosofia come ermeneutica, infatti, viene a sapere della propria portata trascendentale per via della sua funzione critica inoltrepassabile nei confronti delle varie declina­zioni del sapere; ma proprio il peso della sua funzione trascenden­tale la spinge alla ricerca di una legittimazione, in ultima istanza, ontologica. Turoldo compie a questo riguardo lo sforzo critico più rischioso e più delicato (anche attraverso le interviste). Ricoeur viene messo innanzi ai principali problemi aperti dalla sua ontologia esitante, saggiatrice, riluttante ad assumere una fisionomia suffi­cientemente definita. E proprio qui appare fin troppo evidente che le resistenze ricoeuriane sono da imputare soprattutto ad una certa inclinazione dell’Autore verso il privilegiamento dell’etica. In altri termini, tutto fa pensare che Ricoeur lasci l’ontologia relativamente indeterminata per proteggere l’etica. Eppure, dell’ontologia sembra egli avere quasi nostalgia; e in effetti ai discorsi di ontologia egli si dichiara sempre più disponibile.

Turoldo sa bene tutto questo. E volentieri asseconda Ricoeur nella sua diffidenza per certe versioni irricevibili dell’ontologia, mentre lo stimola rispettosamente a considerare alcuni nuclei della tradizione ontologica classica, perché contengono veri tesori spe­culativi e possono dare un aiuto rilevante ad una riflessione dei tempi nuovi, dove l’essere, la verità e il bene si sappiano recipro­camente solidali.

E questo il punto discriminante, cui il libro di Turoldo alla fine indirizza il lettore attento, ma come ciò che dovrebbe essere perseguito da Ricoeur stesso, per un assestamento conveniente

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della sua ricchissima produzione filosofica: il desiderio, cioè, del­la protezione originaria del bene non dovrebbe per nulla diffidare della presenza del senso della verità stabile. La verità stabile è essa stessa, infatti, un bene inestimabile, anzi è il bene supremo del­l’intelligenza, mentre il bene, a sua volta, nulla potrebbe vantare, se non apparisse nella sua verità. Ricoeur, purtroppo, ancora non vede questa circolarità virtuosa. M a sempre più si muove in que­sto senso. O almeno, così pare.

Io mi auguro che il saggio critico di Turoldo valga a testimo­niare concretamente la possibilità di una amicizia rinnovata tra chi, come Ricoeur, magistralmente propone in molti modi la decisività dell’orientazione confidente nella nostra destinazione alle cose buone della vita e chi fermamente propone (anche) la decisività della nostra destinazione alla verità della vita. Perché, alla fine, le due destinazioni sono la stessa destinazione. E inclina­re da una parte o dall’altra è una legittima rivendicazione di dif­ferenza antropologica, ma non può a nessun patto valere come una differenza di determinazione radicale del senso dell’essere. Del resto, non è forse Ricoeur studiato e ammirato da molti metafisici? Ne dà conferma eccellente e persuasiva il libro di que­sto giovane studioso.

Carmelo Vigna Università Ca’ Foscari di Venezia

CARMELO VIGNA

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PROMENADE AU FIL D’UN CHEMIN

Paul Ricoeur

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J ’ai aimé l’ouvrage de Fabrizio Turoldo parce qu’il allie de façon rigoureuse et harmonieuse un respect de mes textes, de leurs intentions, de leur organisation, de leur écriture, à une gran­de indépendance de questionnement et à une remarquable liberté d’interprétation. Il a trouvé avec ces textes la juste distance.

Une question revient à plusieurs reprises au cours de son texte, dans les conclusions provisoires, dans les pauses et dans la con­clusion: il m’est demandé de dire quelle conception je me fais de l’acte philosophique. C ’est à cette question que je veux répondre ici de façon succincte. Je ne définis pas l’acte de philosophie par sa méthode ou sa structure doctrinale, mais par l’établissement d’une problématique propre à la fois englobante et articulée. Cette manière d’aborder l’acte philosophique est pour moi d’autant plus exigeante qu’à première vue mon oeuvre est très dispersée; et elle paraît telle parce que chaque livre s’organise autour d’une question limitée: le volontaire et l’involontaire, la finitude et le mal, les implications philosophiques de la psychanalyse, l’innova­tion sémantique à l’oeuvre dans la métaphore vive, la structure langagière du récit, la réflexivité et ses stades. Ce n’est que dans les dernières années que j’ai pensé pouvoir placer la variété de ces approches sous le titre d’une problématique dominante; je lui ai donné pour titre l’homme agissant ou l’homme capable. Je voudrais dire d’abord sous quels aspects cette problématique est à la fois articulée et englobante; je dirai ensuite de quelle façon elle donne accès à des problèmes de méthode et de doctrine. C’est donc d’abord la puissance de récapitulation du thème de

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PAUL RICOÄJR

l’homme capable qui m’est apparu, par contraste avec l’apparence de dispersion de mon oeuvre, comme un fil conducteur apparenté à celui que j’ai tant admiré chez Merleau-Ponty durant ces années d’apprentissage le thème du «je peux». Déjà, dans Le Volontaire et l ’involontaire, c’était la capacité du projet qui était affrontée à ses conditions d’exercice, telles l’habitude et l’émotion, et à ses limites indépassables, le caractère, l’inconscient, la vie.

C ’est ce thème qui revient au premier plan près d’un de­mi-siècle plus tard, avec la quadruple articulation de Soi-Même comme un Autre. On peut en effet lire ce livre à partir de quatre verbes que modalise le «je peux»: je peux parler, je peux agir, je peux raconter, je peux me tenir pour moralement imputable de mes actes. Sous ces quatre titres je pouvais reprendre successive­ment mes contributions à la philosophie du langage et son orga­nisation sur la base des trois unités, du mot, de la phrase et du texte, - ensuite mes contributions à la philosophie de l’action, avec ses causes et ses motifs, son insertion dans le monde, - puis encore ma conception du récit avec sa puissance structurante dans la vie quotidienne, la littérature, l’historiographie et la spéculation sur le temps, - enfin mes vues sur la philosophie mo­rale. Je dois dire que c’est à ce dernier propos que la puissance d’organisation du thème de l’homme capable m’est le plus tardi­vement apparue. Le concept d’imputation est le dernier venu dans mon oeuvre, à l’articulation entre le plan narratif et le plan éthique. C ’est le même «je peux» qui, dirai-je aujourd’hui, circule du je peux parler, au je peux agir, raconter, m’imputer mes propres actions. Je peux rendre compte de mon agir sous le signe des catégories du bien, du permis et du défendu, de l’obligation et du devoir.

A son tour, ce thème de l’imputabilité a donné lieu à une nouvelle articulation interne entre l’éthique fondamentale régis­sant le voeu d’une vie accomplie, la morale de l’obligation avec ses règles et sa visée universelle et les éthiques qui redistribuent l’obligation morale et son horizon de bonheur dans les sphères pratiques distinctes, la sphère de l’art médical, celle de la justice institutionnelle, celle de l’historiographie (à travers ses phases documentaires, explicatives et narratives) enfin la sphère du

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PROMENADE AU FIL D’UN CHEMIN

jugement politique confronté aux univers opposés de l’économie et de la culture, de la souveraineté et de la mondialisation.

J ’ai pu ainsi voir après coup mon oeuvre comme un tissu traversé par un fil ténu mais continu, partant du je peux parler et aboutissant au je suis capable d’imputation dans les domaines où mon jugement moral est soumis à l’épreuve de situations singulières. Je suis tout à fait conscient que cette relecture est une interprétation personnelle dénuée de toute autorité, à plus forte raison dénuée de toute prétention à imposer une lecture unique à des chercheurs dont la question initiale ne coïncide pas avec la mienne.

Je veux dire maintenant comment cette structure probléma­tique, cette matrice questionnante, induit un style philosophique distinct. Passant ainsi de la problématique à la méthode et à la doctrine, je me rapproche du centre de l’oeuvre de Fabrizio Tu­roldo et de son souci majeur.

D ’abord la méthode. Selon moi, celle-ci dérive de la problématique et non l’inverse. C ’est ainsi qu’à mes débuts j’ai cru pouvoir me tenir dans les bornes de la méthode descriptive - et plus précisément de la description essentielle, «éidétique» - que Husserl avait appliquée principalement au phénomène de la perception, de la représentation et du jugement; il m’avait paru suffisant d’appliquer la même méthode à la sphère pratique et affective. Une fois terminée et publiée ma phénoménologie de l’acte volontaire confronté à l’involontaire, j ’ai compris que pour parler de la finitude et de son rapport à la culpabilité il fallait enrichir la description phénoménologique de tous les emprunts possibles à la tradition herméneutique, laquelle procédait de préoccupations toutes différentes de celles de la phénoménologie husserlienne, à savoir la tradition de l’exégèse biblique, de la jurisprudence, de la philologie. Ce déplacement méthodologique était requis par les grandes structures mythiques, poétiques, spéculatives, la grande culture étant assignée à la volonté mauvaise, au mal moral et au désir de rédemption. Mais c’est à une autre extension de l’herméneutique que je me suis senti contraint de procéder au moment de rendre compte des résistances de l’expé­rience psychanalystique concernant la même problématique de la

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culpabilité, à l’égard de toute philosophie de la conscience. J ’ai tenté alors d’élaborer une sorte de dialectique du désir et du sens, en vue d’ouvrir un accès proprement philosophique au vaste corpus freudien. Mais, entre-temps, mes lectures et mon ensei­gnement aux Etats-Unis m’avaient ouvert à la philosophie analy­tique et ses exigences logiques sans concession. De cette confron­tation est né le souci d’articuler l’approche réflexive - au sens large du terme: ouvrant aussi bien la tradition de la philosophie française réflexive illustrée de façon exemplaire par Jean Nabert que la tradition phénoménologique illustrée en France par Sartre et Merleau-Ponty - avec l’approche objectivante du structuralisme linguistique, où je retrouvais un certain écho de la philosophie analytique anglo-saxonne. C ’est à cette dialectique de la réflexion et de l’objectivation que ressortit la formule en forme de slogan que j’ai longtemps répété: expliquer plus pour comprendre mieux. C ’est ce souci d’articuler réflexivité et objectivité qui commande toute la suite de mes analyses de Soi-Même comme un Autre dont j’ai rappelé plus haut l’organisation en quatre phases. En fait, chacun de ces grands ensembles sont subdivisés entre un point de vue extérieur et objectivant, et un point de vue intérieur stricte­ment réflexif. La cohérence de l’entreprise repose sur la capacité d’intériorisation déployée par chacune des formes objectives du je peux. Le modèle, à mes yeux, est fourni par l’opération lingui­stique: l’unité de sens que structure la phrase peut en effet se laisser appréhender du dehors sous sa forme propositionnelle {sta­tement), mais se laisse réfléchir comme acte de langage (speech- act), à la faveur duquel l’énonciation (utterance) renvoie réflexi­vement à l’énonciateur (utterer) à savoir moi qui parle, toi à qui je parle, lui ou elle dont nous parlons. Toutes les autres sections de Soi-Même comme un Autre présentent le même dédoublement et la même reprise réflexive. C ’est ainsi que j’ai pensé pouvoir intégrer dans une structure englobante les formes d’observation du comportement de l’agir, les structures de narrativité chères au structuralisme enveloppées par l’intention narrative, et enfin les formes objectives de la norme, de l’obligation morale, du devoir, impliquées par l’intention éthique et la visée d’accomplissement personnel et de bonheur.

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Ces grands rythmes où se composent ensemble la description phénoménologique, l’interprétation herméneutique, l’analyse objectivante et la réflexivité, constituent la structure mélodique de l’ensemble tel que je le reconstruit rétrospectivement à mes risques et périls.

Une visée philosophique se dégage-t-elle au terme de ce parcours dans la problématique et dans la méthodologie? C ’est à ce stade que je reste le plus perplexe. Les chapitres qui explorent les confins de l’ontologie - qu’il s’agisse de la Métaphore Vive ou de Temps et Récit - sont énoncés chacun sur le mode interrogatif: vers quelle ontologie? J ’ai risqué trois excursus en direction de l’ontologie.

La première accède dans la droite ligne du je peux; reconduit à la problématique ontologique d’Aristote dans Métaphysique E 2: «L’être se dit de multiples façons». Et parmi les acceptions multiples de l’être, je lis: «L’être selon l’actualité (energeia) est la potentialité (dunamis)». J ’ai pris le risque de placer ma phéno­ménologie, mon herméneutique, mon dialogue entre réflexivité et objectivation, sous la figure tutélaire de l’être comme acte et comme potentialité. La problématique de l’homme capable se donne alors comme une expression privilégiée au plan de l’anthropologie philosophique de cette ontologie de l’acte et de la puissance, sous le règne de la polysémie du verbe être. Je voyais ainsi s’ordonner hiérarchiquement, de haut en bas, une ontologie polysémique, privilégiant l’acte comme être et comme poten­tialité, - une anthropologie philosophique centrée sur le thème de l’homme agissant et souffrant, - enfin une phénoménologie herméneutique, dispersée dans les registres multiples de l’activité cognitive, pratique et affective. La même hiérarchisation peut être parcourue de haut en bas, comme je le fais de préférence dans Soi- Même comme un Autre.

Le second excursus, plus habile, ramène au dernier Dialogue platonicien, le Théétète, le Sophiste, Philèbe, Parménide et leur exploration des «plus grands genres»: Un et Multiple, Même et Autre, Etre non Etre, Mouvement et Repose, etc... Ces plus grands genres structurent ce qu’on peut appeler la fonction méta-, qui est illustrée à la fois par le grand néoplatonisme et par les

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PAUL RICOEUR

philosophies transcendantales issues de Kant. Je ne cache pas que la conjonction de la fonction méta- - à la façon néoplatonicienne et postkantienne - qui allie la polysémie de l’être à la façon d’Ari- stote, continue de me faire problème. Mais la grande philosophie occidentale n’est-elle pas née de ce croisement entre Aristote et Platon au plus haut niveau?

Le dernier excursus est du côté de ce que, dans mon enseignement à Chicago, on appelait philosophie théologique: il s’agissait es­sentiellement d’une réflexion philosophique sur les textes canoni­ques juifs et chrétiens. J ’ai tenté, loin de toute confusion entre les domaines et les discours, une corrélation entre ce que j’appelle pensée biblique et pensée occidentale d’origine grecque. C ’est ainsi que le fameux «Je suis qui je suis» d’Exode III, 14 est une occasion de poser la question de savoir si l’usage hébraïque du verbe que nous traduisons par être augmente la polysémie encore trop limitée du verbe grec ou si la composante d’historicité et de fidélité éthique que le je suis hébraïque, puis chrétien, comporte est l’accès à une toute autre modalité de pensée que l’ontologie, comme le pense Lévinas? Je suis qui je suis me donne-t-il l’occasion de faire exploser le verbe être sans le détruire, comme je le suggère?

Cette dernière suggestion n’est pas sans lien avec l’idée que je me fais du religieux en général par rapport à la problématique de l’homme capable et plus précisément par rapport à sa capacité d’imputation; selon une interprétation que j’adopte de La Religion dans les limites de la simple raison de Kant, la fonction du religieux n’est-elle pas de libérer le fond de bonté originaire de l’homme du joug du penchant au mal, aussi radical soit-il? Et le symbole christique de l’homme agréable à Dieu qui donne sa vie pour ses amis ne constitue-t-il pas un schème majeur de l’imaginaire reli­gieux, à charge des communautés ecclésiales de le faire fructifier dans la liberté et la fraternité des enfants de Dieu?

Je m’arrête au moment de m’égarer sur les voies d’une mé­ditation abyssale mais c’est l’ami Turoldo qui m’a courtoisement contraint à assumer les risques d’une vue rétrospective sur une oeuvre frappée du sceau de l’inachèvement.

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INTRODUZIONE

Con quali obiettivi e per mezzo di quali strumenti è pos­sibile, oggi, analizzare criticamente un’opera tanto vasta e tanto attuale qual è quella di Paul Ricoeur? Un pensatore come Ricoeur, infatti, non può non creare imbarazzo e difficoltà allo studioso che si appresta ad indagarne criticamente le pro­poste speculative: Ricoeur ci mette in difficoltà, innanzitutto, per la mole dei suoi scritti e per la vastità dei suoi campi di indaginel. Non a caso una buona parte dei critici si è impe-

1 Molti studiosi del pensiero ricoeuriano hanno rilevato la grande capacità di ascolto e di confronto che ha da sempre caratterizzato l’opera di questo filosofo.

Osserva infatti J.W van Den Hengel, in un suo libro dedicato allo studio del pensiero di Ricoeur: «Veramente la sua filosofia prende la forma di una storia della filosofia. [...] Trattenere l’attenzione sulla filosofia di Paul Ricoeur significa inserirsi nella complessa storia del pensiero occidentale ed essere sol­lecitati ad una lettura di quella storia da una prospettiva fenomenologico- ermenutica» (J.W. V an D en H en g el , The Home o f Meaning, The Hermeneutics o f Subject o f Paul Ricoeur, Washington, 1982, p. ix).

K.J. Vanhoozer, a sua volta, scrive: «Ricoeur è un pensatore che media. Che cosa media? Per cominciare Ricoeur media i filosofi nella storia della filosofia. Per esempio, egli legge Kant attraverso Hegel ed Hegel attraverso Kant. Questa “inabitazione reciproca” riflette la speranza di Ricoeur che tuttii pensatori siano in qualche misura “nel vero” (Ricoeur fa eloquentemente questa affermazione in L’histoire de la philosophie et l ’unité du vrai, in Histoire et Vérité, Paris, 1955, pp. 45-60). Ricoeur cerca anche di mediare la filosofia anglosassone e quella continentale, due tradizioni che spesso non comunicano

La sua carriera personale riflette questa ambizione mediatrice: egli ha tenuto simultaneamente delle cattedre a Parigi e a Chicago per un certo numero di anni. Forse di maggiore importanza per la teologia, comunque, è la media­zione messa in atto da Ricoeur dei metodi e degli obiettivi di diverse discipline. La sua teoria narrativa, ad esempio, fornisce un contributo originale alla media-

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VERITÀ DEL METODO

gnata nella ricerca del filo conduttore del suo iter di ricerca,o di una problematica fondamentale che permettesse di indi­viduare l’unità della sua opera. Questo tipo di lavoro è stato utilissimo, perché, spesso, il lettore che affronta per la prima volta l’opera veramente monumentale del filosofo francese, rischia di trovarsi un po’ smarrito nell’inseguire un itinerario di ricerca che si è dispiegato in pressoché tutte le direzioni,: toccan do tem atiche che vanno dalla fenom enologia all’ermeneutica, dalla filosofia analitica alla psicoanalisi, dallas teoria del racconto e della storia alla problematica della me-? tafora, del sapere simbolico, sino agli interessi più recenti per la filosofia del diritto e per alcune tematiche legate alla me­moria. L’esito, per certi aspetti paradossale, di queste ricerche! consiste, però, nell’aver individuato non una, ma tante chiavi? di lettura dell’opera di Ricoeur. Ogni studio critico, infatti, hai avanzato una diversa ipotesi di lettura2. !

Un secondo fattore che contribuisce ad accrescere la dif-J ficoltà dello studioso consiste nel fatto che l’opera di Ricoeur I

zione delle diverse esigenze veritative della storia e della fiction, le due maggiori i forme della narrativa». K.W. V a nh o o zer , Biblical Narrative in the Philosophy o f j Paul Ricoeur. A Study in Hermeneutics and Theology, Cambridge, 1990, p. 5. |

2 Cito alcuni scritti critici, a mo’ d’esempio: M a urizio C h io d i ha scritto sul j pensiero di Ricoeur un libro dal titolo II cammino della libertà, Brescia 1990, j dove intende dimostrare che il tema della libertà costituisce «il cuore stesso del pensiero ricoeuriano» (ivi, p. 15).

D o m en ico J ervolino , in II cogito e l ’ermeneutica, Genova 1993 (V ed. { Napoli 1984), trova il principio di coerenza dell’intera opera di Ricoeur nella permanenza di uno stesso problema e di uno stesso metodo: il problema è ì quello del cogito, della soggettività, il metodo quello dell’interpretazione e, in ; particolare, dell’interpretazione testuale. Dunque, l’unità dell’opera di Ricoeur ; consisterebbe nella convergenza tra riflessione ed interpretazione e, quindi, nell’ermeneutica della pratica umana. Ricoeur, nella prefazione al testo di Jervolino, osserva invece «di essere piuttosto colpito dalla discontinuità tra le sue opere, ciascuna delle quali si rivolge ad una problematica determinata» (vedi ivi, p. ix), ma conclude dicendo di apprezzare il lavoro di Jervolino, che riconduce tutti i suoi scritti ad un’unica opera, che egli «al tempo stesso riconosce - in ogni senso della parola - e che si sente incapace di aver scritto» (ibid.).

T. N keram ihigo ha, a sua volta, scritto un libro (L’homme et la transcen­dance, Paris 1984) in cui individua nella poetica della volontà il tema fonda- mentale del pensiero ricoeuriano. Scrive infatti Nkeramihigo: «Attraverso tutta la sua opera, Ricoeur persegue il disegno di determinare la vera relazione tra ; la libertà umana e la Trascendenza» (ivi, p. 9).

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INTRODUZIONE

è ancora troppo recente e, dunque, troppo legata a dibattiti ancora in corso, per poter essere analizzata con il sufficiente distacco critico. Inoltre, Ricoeur è tutt’ora vivente ed intellet­tualmente attivo e, dunque, la sua opera, pur lasciando ormai ampiamente intravedere le linee di sviluppo fondamentali, rimane, per certi versi, un’opera ancora passibile di ulteriori integrazioni. Queste difficoltà sono gravi, a mio parere, per­ché tarpano le ali in partenza a qualsiasi tentativo di indagine di tipo storiografico. Ma allora, si chiederà, vale la pena di affrontare un tale tipo di ricerca? A mio parere sì e per due motivi, essenzialmente. Il primo consiste nel fatto che nel­l’opera di Ricoeur sono in gioco, a mio modo di vedere, questioni decisive, su cui occorre suscitare ed alimentare il dibattito. Il secondo motivo, invece, è dato dal fatto che non poter fare una ricerca di tipo storiografico non significa affat­to non poter fare alcun tipo di ricerca. Il mio studio, infatti, avrà un carattere prevalentemente teoretico: cercherò di di­scutere con Ricoeur su alcune tematiche centrali della sua opera, ponendo delle domande ai testi.

L’ambizione che ha mosso questa mia ricerca è quella di far luce, per quanto possibile, su di un problema che non è mai stato affrontato dalla critica ricoeuriana ma che, a mio avviso, riveste un’importanza decisiva. Ciò che mi propongo, infatti, è di capire quale idea di filosofia sia sottesa all’opera di Ricoeur. Vorrei, cioè, portarne alla luce l’implicito fonda- mentale.

Il problema dello statuto del sapere filosofico è divenuto oggi argomento di numerosi dibattiti. Si tratta, infatti, di capi­re se la filosofia possa ancora essere considerata un sapere in certa misura autonomo, capace di mettere in atto delle stra­tegie teoriche diverse e complementari a quelle delle altre discipline. Jürgen Habermas ha svolto delle considerazioni molto interessanti su questo tema nel saggio Sull'annullamen­to della differenza tra filosofia e letteratura3 e nello scritto dal

3 Contenuto nel volume dal titolo II discorso filosofico della modernità, Roma-Bari 1987.

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VERITÀ DEL METODO

titolo La ridefinizione del ruolo della filosofia 4. In quest’ultimo saggio in particolare Habermas riflette sul discredito in cui oggi è caduto l’atteggiamento fondazionale, che ha sempre caratte­rizzato il pensiero filosofico sin dalle sue origini. Non solo oggi si rifiuta il modello classico di fondazione, basato, secondo Habermas, sulla deduzione a partire da certi principi, ma non si accetta più nemmeno il modello fondativo kantiano, basato, invece, sull’investigazione relativa alle possibilità stesse della conoscenza in generale. Oggi la definizione kantiana della vo­cazione del filosofo è considerata sospetta: si pensa che la filosofia esorbiti dalle proprie possibilità ogniqualvolta pretenda di chiarificare, una volta per tutte, i fondamenti delle scienze e di determinare il posto di ciascuna scienza definendone i limiti. Kant, inoltre, fornendo i fondamenti delle tre facoltà della ragione teorica, della ragione pratica e del giudizio, ha preteso fare della filosofia una sorta di giudice supremo, non solo in rapporto alle scienze, ma alla cultura nel suo complesso. Secondo Habermas la filosofia deve passare, riguardo alle scien­ze, dal ruolo insostenibile di disciplina che designa i posti a quello di disciplina che li scopre e li preserva. È essenziale inoltre, secondo Habermas, che la filosofia conservi una refe­renza tematica alla totalità, nella sua opera di elucidazione dei fondamenti razionali del conoscere, dell’agire e del parlare; senza tale referenza essa non sarebbe in grado di assolvere al suo ruolo di guardiana della razionalità. Per esempio, costituisce oggi un problema capire come sia possibile che la ragione, divisa nei suoi diversi momenti, conservi la sua unità all’interno del dominio culturale preso nel suo complesso, e, d’altro canto, come possano le forme culturali specializzate, che si sono rifu­giate sulle altezze dell’esoterismo, conservare un contatto con la pratica comunicazionale quotidiana.

Il modo di intendere la filosofia da parte di Habermas è dunque in stretta relazione con il concetto moderno ed in particolare kantiano della filosofia, intesa come sapere che è in

4 Contenuto nel volume dal titolo Moralbewusstsein und kommunikatives Hanndeln, Frankfurt am Main, 1983.

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INTRODUZIONE

grado di conoscere, al tempo stesso, i limiti e lo spazio di validità di un certo tipo di discorso. Questa eredità kantiana è sicuramente presente anche in Ricoeur, perché anche in Ricoeur è presente il concetto habermasiano di filosofia intesa come sapere relativo ai limiti ed allo spazio di validità di un certo tipo di discorso. In Ricoeur l’influenza della filosofia riflessiva di Jean Nabert e della filosofia ermeneutica di Hans Georg Gadamer si intersecano, dando origine ad una sorta di neokantismo. La filosofia riflessiva è, infatti, anche quella fi­losofia che riflette sui limiti di validità di un certo discorso, mentre la filosofia ermeneutica, a partire da Schleiermacher, si è data il ruolo di mettere in luce la finitezza della compren­sione. Alla fine, dunque, queste due correnti del pensiero contemporaneo si intersecano, poiché la finitezza della com­prensione, nel senso in cui la intende l’ermeneutica, ed i limiti della conoscenza, in senso riflessivo, sono la stessa cosa: dire infatti che la comprensione è sempre finita, è come dire che la conoscenza è sempre limitata.

L’opera di Ricoeur, però, riveste un’importanza particola­re anche per un altro motivo. Accanto a questa nozione di filosofia, infatti, che trova il suo paradigma nel pensiero kantiano, convivono, nell’opera di Ricoeur, alcuni modelli fondazionali di matrice classica, come dimostrano gli ultimi scritti del filosofo. In un recente articolo, volto ad illustrare i rapporti che intercorrono, nel suo pensiero, tra metafisica e morale, Ricoeur, infatti, ha introdotto il concetto di «funzio­ne meta-», nel quale egli individua uno dei tratti caratterizzan­ti della metafisica e che egli definisce «attraverso due strategie distinte e complementari, l’una di gerarchizzazione, l’altra di pluralizzazione dei principi presunti od assunti da pensatori di diversa appartenenza»5. Relativamente alla prima strategia, quella di gerarchizzazione, Ricoeur osserva:

Dal momento che qualsiasi discorso filosofico mira alla coerenzami pare che esso comporti la presenza di principi tra cui gli uni

5 R R icoeur , De la métaphysique à la morale, «Revue de Métaphysique et deMorale», iv, 1993, p. 457.

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VERITÀ DEL METODO

sono considerati derivati e gli altri primitivi o fondatori. [...] Il modello di questa strategia va cercato nel Platone dei dialoghi detti metafisici, che sono anche i dialoghi dialettici. 6

Relativamente alla seconda strategia afferente alla «funzione meta-», quella che presiede alla differenziazione delle accezioni dell’essere, Ricoeur afferma che essa è stata anticipata da Aristotele nel libro Gamma della Metafisica, dove lo Stagirita enuncia la sua concezione delle accezioni multiple dell’essere in quanto essere. Negli ultimi scritti di Ricoeur il modello fondazionale basato sulle due strategie di gerarchizzazione e di pluralizzazione, afferenti alla «funzione meta-», viene messo in atto in più occasioni. In Soi-même comme un autre Ricoeur tenta di unificare i vari livelli della sua ermeneutica del sé (linguistico, prassico, narrativo, etico) alla luce di un’unica do­manda, che si ripete a tutti i suddetti livelli, la domanda relativa al «chi»: chi è il soggetto del linguaggio, dell’azione, del raccon­to, dell’imputazione morale? La domanda relativa al soggetto costituisce infatti il momento unificatore dei vari livelli dell’er­meneutica del sé e, in questo senso, essa, insieme alla corrispettiva risposta, che indica nel sé il soggetto, rappresenta una prima realizzazione della «funzione meta-». Ad un livello superiore i diversi momenti dell’agire umano, presi in esame in Soi-même comme un autre, trovano un’ulteriore unificazione nella nozione di essere come atto e potenza, che, dunque, costituisce un’altra individuazione della «funzione meta-». A sua volta, la «funzione meta-», in quanto strategia di pluralizzazione, trova una sua realizzazione nell’enucleazione dei vari momenti di alterità pre­senti all’interno stesso dell’ipseità: Palterità inerente alla corporeità, Palterità propria al rapporto intersoggettivo e Palterità presente nella relazione di sé a se stessi all’interno della propria coscienza.

La presente ricerca è divisa in tre parti. Esse fanno seguito all’introduzione, nella quale viene sinteticamente esposta la

6 Ibid.

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INTRODUZIONE

problematica in gioco in questo studio e ad una delineazione dell’iter di ricerca complessivo di Ricoeur, che vuole aiutare il lettore a collocare la problematica qui presa in esame all’inter­no del quadro generale del pensiero ricoeuriano. Le tre parti in cui si suddivide il lavoro hanno come oggetto, rispettivamen­te, la teoria della verità, l’epistemologia e l’ontologia.

Nella prima parte, dedicata alla teoria della verità, ho svolto un’indagine dettagliata sui vari sensi del vero presenti nel pensiero di Ricoeur e, visto che, nel sottolineare il carat­tere plurivoco del vero, Ricoeur si richiama esplicitamente ad Aristotele, ho istituito un confronto tra la teoria della verità aristotelica e quella ricoeuriana, confronto che mi è parso estremamente fecondo sul piano teoretico. Nella seconda parte, dedicata all’epistemologia, ho preso in esame la dialettica che si instaura, nell’opera di Ricoeur, tra la filosofia e gli altri campi del sapere, con il correlato problema del doppio ruolo che la filosofia riveste, in quanto essa costituisce sia uno dei due termini in gioco nella relazione dialettica, sia l’arbitro della relazione dialettica stessa. La prima e la seconda parte sono legate da una stretta relazione, perché esse giungono a conclusioni simili. Appare infatti, dall’analisi dei testi di Ricoeur, una maggiore attenzione dedicata dal nostro autore ad alcuni significati del vero tra cui la verità come attestazio­ne, oppure la verità come scoperta ecc., piuttosto che a quello che secondo noi è il senso più radicalmente critico del vero, ossia la verità intesa come riconduzione all’originario logico e/o fenomenologico. Nell’operare la riconduzione all’origina­rio gioca un ruolo strategico il quadrato logico delle opposi­zioni, reso celebre da Aristotele e dai logici medievali. Su questa e su altre problematiche epistemologiche Ricoeur non ha esercitato quella riflessione approfondita ed organica che ha dedicato ad altre questioni, forse a causa del suo tempera­mento, maggiormente incline a questioni più pregnanti sul piano esistenziale. L’integrazione della riflessione ricoeuriana attraverso alcuni approfondimenti di carattere epistemologico costituirà allora uno dei principali obiettivi di questo mio stu­

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VERITÀ DEL METODO*'

dio. Verrà infatti dedicata particolare attenzione al modo in cui Ricoeur istituisce la dialettica tra filosofia e non filosofia (dia­lettica che costituirà l’oggetto della seconda parte del presente studio). In questo modo ci sarà possibile dare alcune risposte al nostro problema di fondo, riguardante la crisi contempora­nea della filosofia e dei suoi modelli fondazionali. La terza parte, infine, costituisce la naturale prosecuzione delle prime due: in essa vengono alla luce quelle che sono le conseguenze ontologiche delle considerazioni svolte in sede epistemologica.

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L’ITER SPECULATIVO DI PAUL RICO EUR1

1. I primi maestri

Paul Ricoeur fu introdotto agli studi filosofici da Roland Dalbiez, suo insegnante di filosofia al liceo. Dalbiez era un neotomista di cui Ricoeur ricorda le frequenti polemiche antiidealistiche e l’interesse per Freud. Dalbiez affiancava Freud, per via del suo realismo naturalista, ad Aristotele e opponeva questi due autori, a lui cari, a Cartesio e Kant.

Ricoeur riconosce un debito nei confronti di Dalbiez, in particolare per quanto riguarda il rifiuto dell’immediatezza e dell’apoditticità del Cogito cartesiano e dell’Io penso kantiano, oltre che l’interesse ad integrare il punto di vista psicoanalitico con la tradizione della filosofia riflessiva francese.

La filosofia riflessiva francese ha costituito uno dei primi interessi di Ricoeur, come dimostra la tesi sul problema di Dio nel pensiero di Lachelier e di Lagneau, che Ricoeur scris­se durante l’anno accademico 1933-34. Attraverso lo studio di questi due autori Ricoeur fu introdotto alla tradizione della filosofia riflessiva francese, tradizione che rinvia, attraverso E. Boutroux e F. Ravaisson, sino a Maine de Biran e che sarà ripresa e rilanciata in seguito da Jean Nabert, un filosofo che

1 Per la ricostruzione del percorso intellettuale di Ricoeur mi sono basato sull’opera L.E. H a h n (a cura di), The philosophy o f Paul Ricoeur, Chicago, 1995 (febbraio). L’autobiografia intellettuale di Ricoeur, con cui inizia quest’opera, è comparsa in edizione francese nel testo P. R ico eu r , Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Paris, 1995 (ottobre).

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VERITÀ DEL METODO

avrà un’influenza decisiva sul cammino di ricerca del nostro autore.

Giunto a Parigi nel 1934 Ricoeur iniziò da subito a fre­quentare i seminari tenuti il venerdì da Gabriel Marcel. Attra­verso questi incontri Ricoeur fu iniziato al metodo socratico marceliano, che consisteva nel far trattare a ciascuno dei par­tecipanti al seminario un soggetto scelto in comune, senza l’ausilio dell’autorità di qualche filosofo riconosciuto dalla tradizione, ma facendo riferimento solo all’analisi di esperien­ze o di concetti e categorie appartenenti alla tradizione. Marcel faceva spesso appello, durante questi incontri, alla «riflessione di secondo grado», che avrebbe dovuto consentire di riafferrare delle esperienze che la riflessione primaria, considerata riduttiva ed oggettivante, obliterava e privava del loro origi­nale potere affermativo. La nozione marceliana di riflessione di secondo grado andava così a legarsi con la lezione della filosofia riflessiva.

Durante questo periodo Ricoeur iniziò a far propria anche la lezione della fenomenologia husserliana. Ciò che più colpi­va il giovane filosofo nella riflessione husserliana era il tema dell’intenzionalità; attraverso di essa, infatti, egli vedeva la possibilità di poter mettere in discussione l’identificazione cartesiana tra coscienza ed autocoscienza. La nozione di inten­zionalità, infatti, ci pone dinnanzi ad una coscienza pensata innanzitutto come rivolta verso le cose, che, in quanto tale, è meglio definita dall’essere verso cui è rivolta piuttosto che dalla coscienza di essere rivolta all’essere. L’intenzionalità è inoltre caratterizzata da una molteplicità di orientamenti og­gettivi: la percezione, l’immaginazione, la volontà, l’affettività, l’apprensione dei valori, la coscienza religiosa.

2. Gli scritti su Jaspers, Marcel e Husserl

Ricoeur durante quegli anni andava elaborando una con­cezione teorica che coniugava originalmente la filosofia rifles­siva francese, la filosofia dell’esistenza di Gabriel Marcel, la

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L’ITER SPECULATIVO DI PAUL RICOEUR

fenomenologia descrittiva di Husserl, oltre al pensiero di Karl Jaspers, che Ricoeur avrebbe lungamente meditato durante i cinque anni trascorsi in Germania come prigioniero di guerra. Jaspers, a sua volta, si coniugava molto bene con Marcel. Ricoeur infatti era stato introdotto al pensiero del filosofo svizzero dall’articolo che Marcel gli aveva dedicato sotto il titolo di Situazione fondamentale e situazioni limite in K. Jaspers.

Tutte queste suggestioni teoriche confluivano in un’attivi­tà filosofica militante, alla quale Ricoeur cercava di spingersi sull’esempio di Mounier, altro suo grande maestro. Mounier insegnò a Ricoeur a tradurre quanto più possibile le convin­zioni spirituali in posizioni politiche, mentre gli altri grandi maestri di Ricoeur, che abbiamo menzionato sopra, gli forni­rono i mezzi per dare un solido fondamento teorico alla nozione di persona, nozione costantemente presente in tutta l’opera di Mounier.

Gli anni della prigionia (1940-1945) furono molto fruttuosi per Ricoeur, che studiò Jaspers assieme a Mikel Dufrenne, anche lui prigioniero dei tedeschi. Da questa esperienza nac­que il libro, firmato da entrambi i filosofi, dal titolo Karl Jaspers et la philosophie de l’existence 2. A quel periodo risale anche il lavoro comparativo in cui Ricoeur cercava di mettere ordine tra le varie suggestioni teoriche a cui era stato sogget­to, che è stato pubblicato con il titolo di Gabriel Marcel et Karl Jaspers. Philosophie du mystère et philosophie du paradoxe3. Oltre che da Jaspers il periodo di prigionia fu intellettualmente occupato dalla lettura di Heidegger e dalla traduzione delle Ideen I di Husserl4.

2 P. R icoeur - M. D ufrenne, Karl Jaspers et la philosophie de l ’existence, Paris, 1947.

3 P. R ico eu r , Gabriel Marcel et Karl Jaspers. Philosophie du mystère et philosophie du paradoxe, Paris, 1948.

4 E. H usserl, Idées directrices pour une phénoménologie pure, Paris, 1950. Traduzione, introduzione e note di P. Ricoeur.

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VERITÀ DEL METODO

Alla traduzione dell’opera di Husserl Ricoeur allegò un’in­teressante introduzione, che gli permise di precisare la sua posizione teorica rispetto al pensiero del grande filosofo tede­sco. In questa introduzione Ricoeur cercò di dissociare il nocciolo descrittivo della fenomenologia husserliana dall’in­terpretazione idealistica in cui questo nocciolo gli sembrava essere avvolto. Ricoeur, incoraggiato dagli studi di Max Scheler, riteneva che la riduzione fenomenologica avesse il ruolo di porre in evidenza in maniera più netta i fenomeni; mentre, secondo Eugen Fink e lo stesso Husserl, la riduzione fenome­nologica rendeva possibile una sorta di produzione della feno­menalità da parte della coscienza pura, che sarebbe essa stessa la sorgente di tutto l’apparire, più originale di qualsiasi este­riorità ricevuta.

3. Il volontario e l ’involontario

Finita la guerra Ricoeur iniziò a lavorare sulla tesi di dottorato, per la quale aveva scelto il titolo di Le Volontaire et l ’involontaire5, lavoro che avrebbe assorbito tutte le sue energie durante il triennio 1945-1948. Il proposito di Ricoeur era quello di operare un ampliamento dell’analisi eidetica husserliana della coscienza, estendendola alla sfera della volizione. Il limite delle analisi husserliane era infatti determi­nato, secondo Ricoeur, dal fatto che esse si restringevano al­l’analisi della percezione e degli atti rappresentativi.

Gli elementi principali che divengono oggetto di analisi in questo libro sono il progetto ed il suo correlato oggettivo, ossia la cosa che deve essere fatta; il motivo, ossia la ragione che inclina l’azione, ma senza necessitarla; la mozione volon­taria, a cui fanno da contrappunto e da trampolino impulsi, emozioni ed abitudini e, infine, P«involontario assoluto», nel cui contesto si situano il carattere, ossia la forma stabile e non

5 R R ic o e u r , Philosophie de la volonté. I. Le volontaire et l’involontaire, Paris, 1950.

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L’ITER SPECULATIVO DI PAUL RICOEUR

scelta che caratterizza ogni esistenza, la vita, dono anch’esso non scelto o voluto e l’inconscio, ovvero quel residuo per sempre inaccessibile alla coscienza.

L’opera Le Volontaire et l’involontaire deve molto anche alla riflessione di Gabriel Marcel, oltre che a quella di Husserl. Se Ricoeur è debitore del metodo dell’analisi eidetica a Husserl, è invece debitore della concezione etica che fa da sfondo dell’opera al pensiero di Gabriel Marcel. Ne Le Volontaire et l ’involontaire si dipana una dialettica di attività e passività a cui corrisponde un’etica dominata dalla tensione tra padro­nanza di sé e consenso alla necessità. Il soggetto, inevitabil­mente individuato in una dimensione corporea, viene pensato come capace di porre i suoi desideri ed i suoi poteri ad una certa distanza; ossia viene pensato come al tempo stesso pa­drone di sé e servitore della necessità, nelle sue tre figure del carattere, della vita e dell’inconscio.

Nella prefazione al volume che stiamo esaminando Ricoeur aveva presentato il lavoro come la prima parte di una trilogia. Le Volontaire et l ’involontaire lascia infatti fuori dalle sue analisi l’ambito concreto, storico ed empirico della volontà e quello che rappresenta il suo caso paradigmatico, ossia la volontà cattiva. Il regno della volontà cattiva è infatti domi­nato dalle passioni, che Ricoeur distingue dalla sfera neutra dei desideri e delle emozioni. Le passioni, infatti, implicano una cattività del desiderio che è investito in un oggetto inte­grale quale il Possesso, il Potere e il Valore, e richiedono un’analisi di tipo empirico.

La terza parte, a cui Ricoeur avrebbe voluto dare il titolo di Poetica della Volontà, avrebbe dovuto prendere in esame la tensione del volere umano verso la Trascendenza. Questa ter­za parte si sarebbe legata molto bene con la seconda: se infatti alla seconda parte spettava di fornire un’empirica delle pas­sioni, la terza parte avrebbe avuto come oggetto la tensione verso una seconda innocenza.

La seconda parte è stata in certa misura realizzata in La symbolique du mal, ma non è stato così per la terza. Ricoeur

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VERITÀ DEL METODO

non ha mai pubblicato un volume specifico avente come og­getto la poetica della volontà. Egli ha comunque compiuto qualche passo in questa direzione attraverso i suoi studi di esegesi biblica e attraverso i tre volumi su La Symbolique du mal, La Métaphore vive e Temps et récit: l’idea di una crea­zione ordinata alla Trascendenza può essere infatti illustrata non solo dai grandi miti sulPorigine del male, ma anche attra­verso le metafore poetiche e gli intrecci narrativi. La metafora ed il racconto permettono di aprire nuovi mondi, nuove pro­spettive e, dunque, anche di rifigurare il reale secondo una prospettiva orientata alla trascendenza.

4. Finitudine e colpa

Ricoeur pubblica Finitude et coulpabilité nel 1960, il vo­lume è composto da due tomi: L’Homme faillible 6 e La Sym­bolique du mal 7. Nel primo tomo Ricoeur dimostra che il male rappresenta qualcosa di contingente e non un tratto inscritto nella finitudine umana. Per spiegare ciò egli elabora il concetto di fallibilità: l’uomo è costituzionalmente debole e fragile e, di conseguenza, esposto al male, il cui accadere è pertanto assolutamente contingente. «La fragilità umana, o la vulnerabilità al male morale, non sarebbe nient’altro che una disproporzione costitutiva tra un polo del finito ed un polo dell'infinito» 8.

Ricoeur, nel suo lavoro, distingue tre zone della fragilità umana, situate rispettivamente a livello teoretico, etico ed affettivo. La prima sarebbe quella relativa all’immaginazione, situata tra la prospettiva finita della percezione e l’intenzione infinita del verbo; la seconda sarebbe invece quella relativa al rispetto, mediatore pratico tra la finitudine del carattere e

6 Id., Philosophie de la volonté, Finitude et culpabilité. I. L'Homme faillible, Paris, 1960.

7 Id., Philosophie de la volonté, Finitude et culpabilité. IL La symbolique du mal, Paris, I960.

8 A A .v v ., The philosophy o f Paul Ricoeur, cit., p. 15.

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l’infinità della felicità e, infine, la terza sarebbe quella relativa al sentimento, diviso tra l’intimità dell’essere affetto qui ed ora e l’apertura alla totalità delle cose, delle idee e delle persone.

L’Homme faillible, con la sua analisi della fallibilità uma­na, costituisce il punto di passaggio tra l’analisi fenomenologica del volere, neutrale rispetto al problema del male, e l’empirica del male, condotta ne La Symbolique du mal. È il concetto di fallibilità infatti che rende ragione della possibilità del male.

Con La Symbolique du mal Ricoeur compie il cosiddetto innesto dell’ermeneutica sulla fenomenologia. Al fine di inda­gare sulla forma concreta della volontà cattiva era infatti ne­cessario compiere un lungo detour attraverso l’interpretazione dei simboli e dei miti trasmessi dalle grandi culture.

L’entrata in campo dell’ermeneutica segna anche la presa di distanza da Husserl, accusato, assieme a Cartesio, di non fare i conti con l’intrinseca opacità del cogito. Husserl e Cartesio presuppongono l’immediatezza, la trasparenza e l’apoditticità del cogito, mentre Ricoeur si fa sempre più con­vinto dell’impossibilità per il soggetto di conoscersi diretta- mente e della necessità di passare attraverso i segni depositati nella memoria dalle grandi tradizioni letterarie.

Ricoeur inizia La Symbolique du mal attraverso un’analisi dei simboli della macchia, del peccato e della colpa, per poi passare all’ analisi dei grandi miti della caduta: quello cosmologico, quello orfico, quello tragico e quello adamitico. È sempre nella Symbolique du mal che troviamo la prima definizione dell’ermeneutica, concepita come lavoro di deci- frazione ed interpretazione dei simboli, a loro volta intesi come espressioni a doppio senso, in cui il senso letterale guida allo svelamento del senso recondito.

5. Il confronto con lo strutturalismo

Dopo la pubblicazione della Symbolique du mal iniziò per Ricoeur un periodo di dure polemiche, com’è attestato dalla prefazione e da alcuni saggi in seguito raccolti in Essais

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*VERITÀ DEL METODO

d ’Ermeneutique II. Du Texte à l ’Action 9, polemiche che vide­ro la loro conclusione solo alla fine degli anni settanta. Gli attacchi provenivano principalmente da tutto quel variopinto insieme di scuole e movimenti di pensiero a cui era stata attribuita l’etichetta collettiva di strutturalismo. Sotto questa comune denominazione venivano raggruppati gli heideggeriani francesi, che avevano messo fine all’interpretazione esisten­zialista di Heidegger e che vedevano profilarsi nei lavori del secondo Heidegger un modello poetico di pensiero, dal quale era ormai stato eliminato ogni residuo soggettivistico; l’opera di Claude Lévi-Strauss, che concepiva tutte le strutture lingui­stiche e sociali come realtà sistematicamente organizzate, pas­sibili di essere descritte senza alcun riferimento al soggetto; il criticismo letterario che si richiamava alla linguistica struttu­ralista e che, facendo appello alla distinzione saussuriana tra langue e parole, proponeva di dissociare l’organizzazione siste­matica degli insiemi linguistici dalle intenzioni soggettive ascrit­te al soggetto parlante; quella corrente del marxismo a cui Althusser aveva impresso una curvatura strutturalista, distin­guendo il nocciolo scientifico dell’opera marxiana da ogni resi­duo di carattere umanistico; la psicoanalisi, nella lettura che ne aveva fatto Lacan, il quale aveva messo in luce le strutture linguistiche dell’inconscio, andando così contro l’ortodossia freudiana e le sue spiegazioni biologiste ed economiche.

Tutte queste correnti, così eterogene tra loro, erano co­munque accomunate da uno stesso obiettivo polemico, costi­tuito dall’esistenzialismo e, più in generale, da tutte le filoso­fie del soggetto.

Ricoeur, da parte sua, aveva cercato di includere la fase dell’analisi strutturale all’interno dell’operazione riflessiva; l’inserimento era stato in qualche modo preparato dalla criti­ca che egli aveva condotto nei confronti del concetto husser­liano di un’autocoscienza immediata, diretta e perfettamente trasparente a se stessa e dall’indicazione, che egli aveva for­

9 P. R icoeur, Du texte à l’action. Essais d ’herméneutique, II, Paris, 1986.

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L’ITER SPECULATIVO DI PAUL RICOEUR

mulato sin dall’apparizione de La Symbolique du mal, della necessità di percorrere un lungo detour attraverso i segni e le opere che vengono alPapparire nel mondo culturale.

6. Il saggio su Freud

Nel 1965 Ricoeur pubblicò De l’interprétation. Essai sur Freud10. L’interesse filosofico dell’opera del maestro viennese era determinato dal fatto che in essa viene alla luce un’erme­neutica il cui procedimento è perfettamente antitetico a quel­lo dell’ermeneutica praticata da Ricoeur ne La Symbolique du mal. Se lo stile interpretativo adottato fino a quel momento da Ricoeur era uno stile interpretativo di tipo amplificatore, ossia uno stile interpretativo mirato allo svelamento del sur­plus di significato che si presupponeva essere contenuto nel simbolo, l’ermeneutica freudiana, al contrario, si presentava con i caratteri di un’ermeneutica riduttrice, animata da un movimento regressivo orientato verso l’infantile e l’arcaico e, dunque, mirata a fare un’archeologia o una genealogia dei simboli, che ne rivelasse le mistificazioni.

Questi elementi hanno permesso a Ricoeur di accostare lo stile ermeneutico di Freud, definito, appunto, riduttore od archeologico, a quello di Feuerbach, Marx e Nietzsche, per i quali autori Ricoeur ha coniato la felice espressione di «Mae­stri del sospetto». Lo stile interpretativo di tipo restauratore, definito anche teleologico, ha invece i suoi modelli nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel e nella fenomenologia della religione di Mircea Eliade.

L’incontro con l’opera di Freud è di particolare importan­za perché è attraverso la riflessione sugli uguali diritti delle interpretazioni rivali che Ricoeur ha acquisito consapevolezza delle problematiche di carattere epistemologico sollevate dal conflitto delle interpretazioni. L’analisi di queste problematiche costituirà uno dei punti focali della nostra ricerca.

10 Id ., De l ’interprétation. Essai sur Freud, Paris, 1965.

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7. Il conflitto delle interpretazioni

Nel 1969 Ricoeur pubblicò una raccolta di saggi dal titolo Le Conflit des Interprétations. Essais d ’Ermeneutique i 11 in cui, oltre a riprendere i temi de la Symbolique du mal e di De l'Interprétation, cercava di fare i conti con la sfida lanciata dallo strutturalismo. La semiologia di Roland Barthes, la semiotica di A.J. Greimas, il criticismo letterario di G. Genette concentravano i loro interessi sulla sola struttura del testo, senza alcun riferimento alla presunta intenzione dell’autore. A Ricoeur questa operazione sembrava consistere in «un’astra­zione oggettivante, attraverso la quale il linguaggio veniva ridotto al funzionamento di un sistema di segni senza alcun ancoraggio in un soggetto» u .

Se lo strutturalismo concepiva il sistema linguistico come un sistema di segni costituito esclusivamente da relazioni inter­ne tra unità differenziali, Ricoeur, al contrario, mostra come l’unità primaria di significato in un linguaggio attuale sia co­stituita dalla frase e non dal segno lessicale, frase che contiene almeno l’atto sintetico della predicazione. Ricoeur propone la seguente definizione del discorso: «qualcuno dice qualcosa a qualcun’altro, relativamente a qualcosa, in accordo a delle re­gole (fonetiche, lessicali, sintattiche, stilistiche)»13. Questa for­mula permette di mettere in evidenza l’implicazione, nell’atto discorsivo, di un parlante e di un ascoltatore, oltre che di una relazione tra senso e referenza. Essa apre tre fronti di battaglia contro lo strutturalismo: innanzitutto viene introdotto un soggetto del discorso, inoltre il riconoscimento di una relazio­ne intersoggettiva, implicata nell’atto di discorso, solleva tutta la problematica dell’intersoggettività e della comunicazione, completamente ignorata dallo strutturalismo; infine, la distin­zione tra senso e referenza introduce un elemento di natura

VERITÀ DEL METODO

11 Id., Le conflit des interprétations. Essais d ’herméneutique, I, Paris, 1969.12 A A .vv., The philosophy o f Paul Ricoeur, cit., p. 22.13 Ibid.

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extralinguistica e va dunque contro l’assioma strutturalista se­condo cui ogni relazione rimane interna al sistema linguistico.

Il confronto con lo strutturalismo ha comunque sempre più persuaso Ricoeur della necessità di un passaggio attraver­so una lunga serie di mediazioni al fine di accedere all’auto- comprensione.

8. La metafora viva

Nel 1975 Ricoeur pubblica La Métaphore vive14, il cui centro di gravità è costituito dallo studio del fenomeno del­l’innovazione semantica, ossia della produzione di un nuovo senso attraverso il processo linguistico.

La teoria aristotelica concepisce la metafora come risultan­te dal trasferimento del significato abituale di una parola da una cosa ad un altra, la quale è priva di denominazione pro­pria ed è vicina alla prima per la sua somiglianza ad essa. Ricoeur, al contrario, individua il segreto della creazione di un nuovo significato non tanto nel fenomeno della denominazio­ne, ma in quello della predicazione, passando così dal livello della parola a quello della frase. Se la metafora consiste in una predicazione strana ed impertinente, essa cessa di apparire un ornamento retorico o una curiosità linguistica e risulta uno dei più brillanti rivelatori del potere che il linguaggio ha di creare nuovi significati. In questa prospettiva diventa particolarmente importante il settimo studio, avente per oggetto il valore referenziale della metafora. Il linguaggio poetico permette, se­condo Ricoeur, di operare una ridescrizione della realtà, di rivelare aspetti del reale inaccessibili al linguaggio ordinario.

Ne\VAutobiografia intellettuale1S, recentemente pubblica­ta, Ricoeur confessa di essere ancora convinto delle afferma­zioni fatte nel suo vecchio libro sulla metafora, ma di essersi nel frattempo accorto di aver precedentemente trascurato un

14 P. R icoeur , La métaphore vive, Paris, 1975.15 AA.vv., The philosophy o f Paul Ricoeur, cit., pp. 3-53.

L’ITER SPECULATIVO DI PAUL RICOEUR

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VERITÀ DEL METODO

passaggio tra la referenza o l’intenzionalità del linguaggio metaforico e la dimensione del reale rivelata da questa forma linguistica. L’anello mancante è costituito dall’atto di lettura: è infatti il lettore, in quanto interlocutore dell’atto di linguag­gio presente nel poema, che si riferisce-a. Una sentenza si riferisce a qualcosa solo nella misura in cui qualcuno si rife­risce a qualcosa. Se, inoltre, l’atto attraverso cui il poeta si riferisce ad una qualche realtà viene abolito nel poema che, una volta scritto, acquista una sua autonomia; allora ciò che solo risulta rilevante è l’atto intenzionale del lettore che, in un certo senso, fa la metafora. Dunque il mondo che viene ridescritto non è una realtà qualsiasi, ma quella appartenente al mondo del lettore.

Nel 1983 Ricoeur pubblica Temps et Récit, opera da con­siderarsi per molti versi gemella de La Métaphore vive, soprat­tutto perché il fenomeno dell’innovazione semantica, che ne La Métaphore vive era studiato a livello di proposizioni, ora viene studiato a livello dell’intreccio narrativo presente nei testi narrativi.

9. L’ermeneutica testuale, la dialettica tra comprensionee spiegazione, la filosofia pratica

Gli anni che separano la pubblicazione di Temps et Récit (1983) dalla pubblicazione della Métaphore vive (1975) vedono la riflessione ricoeuriana espandersi in diverse direzioni, pre­parando il terreno all’elaborazione di Soi-même comme un autre (1990).

Vi è innanzitutto la riflessione sulle dinamiche dell’erme­neutica testuale, che inizia con il saggio dedicato a Gadamer e pubblicato nel 1970, dal titolo Qu’est-ce qu’un texte? Expli­cation et compréhension16. In esso vengono messe a tema

16 P. R ic o e u r , Qu’est-ce qu ’un textef Expliquer et comprendre, in Hermeneutik und Dialektik. Aufsätze II. Spräke und Logik. Theorie der Auslegung und Probleme der Einzelwissenschaften. Hans Georg Gadamer zum 70. Geburtstag. Tubingen 1970, pp. 181-200.

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CITER SPECULATIVO DI PAUL RICOEUR

regole di comprensione più complesse di quelle messe in atto nell’elaborazione di una proposizione.

In secondo luogo Ricoeur riflette sulla dialettica tra com­prensione e spiegazione, come già il titolo del saggio del 1970 dimostra. Dilthey, com’è noto, ha posto i due termini in contrapposizione in base ad un triplice criterio:

1) La spiegazione, metodo proprio alle scienze naturali, si fonda sull’osservazione dei fatti; mentre la comprensione, con cui hanno piuttosto a che fare le scienze umane, si basa sull’appropriazione di segni esterni o della vita mentale di un altro individuo.

2) L’attitudine esplicativa ha un carattere oggettivo e distac­cato, mentre lo sforzo di comprensione implica un trasferimen­to in una vita estranea per mezzo di un atteggiamento empatico.

3) All’esame analitico delle catene causali nella spiegazio­ne corrisponde l’apprensione della coesione di connessioni significanti. Il dualismo epistemologico è inoltre rinforzato dal dualismo ontologico che oppone natura e spirito.

Ricoeur ha cercato di superare questa dicotomia mostran­do come le scienze del testo impongano il passaggio della comprensione attraverso una fase esplicativa, quale la spiega­zione genetica o quella strutturale.

Il terzo centro di interesse ricoeuriano, durante questa fase intermedia, si è costituito attorno alla filosofia della pra­tica. Nel 1971 egli aveva tenuto, a Lovanio, un corso sulla semantica dell’azione, seguito da una serie di seminari tenuti negli anni successivi a Nanterre sullo stesso argomento. I ri­sultati di questi seminari sono stati raccolti nel volume La Sémantique de l’action17, pubblicato nel 1977.

L’interesse per il mondo della pratica ha diverse motiva­zioni: vi è, innanzitutto, la risorgenza dell’antico tema della volontà, vi è poi, senza dubbio, l’influenza della filosofia analitica, con cui Ricoeur era entrato in contatto durante gli anni di insegnamento in Canada e a Chicago. La filosofia

17 Id., La sémantique de l ’action. I. Le discours de l ’action, Paris, 1977.

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analitica ha infatti sviluppato molto la riflessione sulla semantica e la pragmatica delle azioni-sentenze. Infine, il primato dato al concetto di azione, è determinato anche da un crescente inte­resse per la filosofia morale e politica. Nel 1974 infatti Ricoeur ha tenuto una conferenza a Lovanio dal titolo II posto della nozione di legge in etica18, dove afferma che Pobbligazione morale si situa ad un livello inferiore rispetto al desiderio personale di felicità e pienezza.

10. L’intersezione tra l’insegnamento di Husserle quello di Gadamer

Durante questo periodo Ricoeur si è continuamente sfor­zato di porre in relazione l’eredità della fenomenologia husserliana e quella dell’ermeneutica post-heideggeriana di Gadamer, come dimostrano lo scritto Fenomenologia ed Ermeneutica19, pubblicato da E.W Orth in Phaenomenolo- gische Forschungen (1974), e l’articolo dal titolo On Interpre­tation20, pubblicato in Philosophy in France Today (1983). Secondo Ricoeur ciò che l’ermeneutica ha distrutto non è la fenomenologia in sé, ma l’interpretazione idealistica ad essa data da Husserl nel primo volume delle Idee per una fenome­nologia pura e per una filosofia fenomenologica e nelle Medi­tazioni cartesiane.

Secondo Ricoeur, nonostante l’apparente opposizione tra ermeneutica e fenomenologia, la fenomenologia rimane l’ine­vitabile presupposto dell’ermeneutica. L’ideale di scientificità della fenomenologia si oppone all’esperienza primaria, messa in luce dall’ermeneutica, di appartenere ad un mondo speri­mentato innanzitutto nella modalità della passività e della

18 Id., Place de la notion de loi en étique, Maison Saint Jean, Louvain 1974.

19 Id., Phénoménologie et herméneutique, «Man and World», 7, 1974, n. 3, agosto, pp. 223-253.

20 Id., On Interpretation, in Philosophy in France today, a cura di A. Montefiore, Cambridge 1983.

VERITÀ DEL METODO * "

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L’ITER SPECULATIVO DI PAUL RICOEUR

recettività. La ricerca husserliana di un ritorno all’intuizione si oppone alla necessità imposta alla comprensione di passare attraverso l’interpretazione, inevitabilmente plurivoca. Cio­nonostante, la fenomenologia rimane l’insuperabile presupposto dell’ermeneutica, perché entrambe hanno optato per il senso: l’esperienza in tutta la sua ricchezza è per principio esprimibile e la domanda posta su qualsiasi ente è innanzitutto una do­manda posta sul senso di quell’ente.

L’opera di Husserl in cui la fenomenologia non appare, secondo Ricoeur, ancora affetta dalla curvatura idealistica sono Le Ricerche Logiche, dove la tesi dell’intenzionalità rivela una coscienza diretta fuori di sé.

Attraverso questa riflessione sullo statuto dell’ermeneutica e sul suo rapporto con la fenomenologia Ricoeur è giunto a superare la sua iniziale concezione dell’ermeneutica come in­terpretazione restauratrice delle espressioni simboliche, per formulare l’idea di un autocomprensione mediata dai segni, dai simboli e dai testi. Egli è inoltre giunto a superare la fascinazione precedentemente subita ad opera del testo scritto per essere condotto verso la sfera dell’azione umana, Poltre testo per eccellenza. Secondo Ricoeur è la stessa dinamica interna alla teoria del testo che ci conduce inevitabilmente dal testo all’azione: la referenza testuale e la relazione intersog­gettiva implicata dal discorso riorientano l’analisi verso il mondo pratico del lettore, che il testo ridescrive o rifigura.

11 .Tempo e racconto

Questo scivolamento dall’ermeneutica del simbolo verso l’ermeneutica del testo e dall’ermeneutica del testo verso l’ermeneutica dell’azione, intercorso nel periodo che si situa tra la pubblicazione de La Métaphore vive e quella di Temps et récit, troverà la sua conferma in Temps et récit21.

21 Id., Temps et récit, I, L’intrigue et le récit historique, Paris, 1983; Id., Temps et récit, II, La configuration dans le récit de fiction, Paris, 1984; Id., Temps et récit, III, Le temps raconté, Paris, 1985.

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VERITÀ DEL METODO

Ricoeur, nella sua autobiografia intellettuale, dice che solo De l ’Interprétation e La Métaphore vive costituiscono delle vere e proprie pietre miliari situate nelPitinerario che conduce dalla prima grande opera, La Philosophie de la Volonté, sino a Temps et récit, opera monumentale in tre volumi. Va co­munque osservato che le due opere summenzionate avevano costretto la riflessione filosofica ad un passaggio attraverso la psicoanalisi e la retorica, ossia attraverso due discipline for­matesi all’esterno del suo campo, mentre in Temps et Récit, così come nell’ultimo lavoro di grande impegno, Soi-même comme un autre, la riflessione si nutre direttamente alle fonti della grande tradizione filosofica, sia che si tratti di affrontare il problema del tempo, come nel primo caso, o del sé, visto nell’ottica della relazione dialettica dello stesso e dell’altro, come avviene invece nel secondo caso.

I tre volumi di Temps et Récit sviluppano un’unica idea guida, ossia che il processo narrativo abbia termine solo nel­l’esperienza del lettore, la cui esperienza temporale viene rifigurata dal racconto. Da questo punto di vista il tempo costituisce il referente della narrativa, dal momento che la funzione della narrativa è quella di articolare il tempo in modo tale da poter dare ad esso la forma dell’esperienza umana.

La nozione del tempo contiene, secondo Ricoeur, un vero e proprio groviglio di aporie, la maggiore delle quali consiste nell’irriducibilità dell’approccio fisico-cosmologico all’approc­cio psicologico-fenomenologico del problema del tempo. In altre parole, è impossibile derivare il tempo dell’anima dal tempo del mondo e viceversa.

Le riflessioni ricoeuriane sul tempo e sulla narrativa ave­vano seguito opposti cammini sino alla scoperta o all’inven­zione di un punto di intersezione che Ricoeur ha individuato all’incrocio tra il concetto di distensio animi, tratto dal Libro xi delle agostiniane Confessioni, e la teoria del mito tragico, presa a prestito dalla Poetica di Aristotele. All’aporia del tem­po dell’anima, che si distende tra un passato ricordato, un presente intuito e un futuro atteso, corrisponde l’intreccio narrativo dell’azione rappresentata.

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L’ITER SPECULATIVO DI PAUL RICOEUR

L’intreccio narrativo offre un notevole esempio di innova­zione semantica, paragonabile a quella di cui Ricoeur aveva parlato ne La Métaphore vive, anche se i percorsi dell’imma­ginazione creativa sono diversi nei due casi: nella metafora l’innovazione semantica è ottenuta attraverso un’attribuzione abusiva, mentre nel caso del racconto essa viene prodotta dalla combinazione originale, all’ interno di un intreccio nar­rativo, di intenzioni, cause e sorte.

Nell’opera che stiamo esaminando viene svolta inoltre una riflessione sul rapporto tra storia e fiction, riguardo al quale Ricoeur avanza alcune opinioni interessanti. Secondo il no­stro autore l’intelligenza narrativa, ossia la capacità di com­prendere gli intrecci narrativi, sta alla base della spiegazione storica; ma, dicendo questo, egli non ha la minima intenzione di ridurre la storia alla fiction. Tutt’altro; egli infatti riconosce l’esistenza di una rottura epistemologica tra i due domini culturali, determinata dal fatto che la storia, al contrario della fiction, ha la pretesa di raccontare dei fatti realmente accaduti e che quindi lo storico ha il dovere di «dimostrare» la veridi­cità del suo dire attraverso il ricorso a documenti, testimo­nianze ecc.

La configurazione narrativa, dunque, viene presa in esa­me, sia a livello della fiction che a livello del sapere storico, nella misura in cui essa costituisce un modo attraverso il quale il tempo viene ordinato.

Un ultimo problema che Ricoeur esamina a lungo in Temps et récit è quello della referenza del discorso.

Ricoeur, già a partire da La Métaphore vive, aveva parlato, seguendo R. Jakobson ed in opposizione a Frege, di una re­ferenza al reale degli enunciati metaforici. La metafora, se­condo Ricoeur, contribuisce alla ridescrizione del reale e del nostro essere al mondo, per mezzo di una corrispondenza tra un vedere-come, sul piano del linguaggio, ed un essere-come, sul piano ontologico. Successivamente alla pubblicazione de La Métaphore vive è venuta sempre più in chiaro a Ricoeur l’importanza della mediazione della lettura in tutto questo processo.

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VERITÀ DEL METODO

È, però, solo in Temps et Récit in che vengono tirate tutte le conseguenze di questo ripensamento del concetto di refe­renza metaforica, attraverso la sua estensione agli enunciati narrativi. Il retroterra di queste riflessioni è costituito dalla lezione heideggeriana sul concetto di verità e dalla polemica condotta da Heidegger contro le teorie corrispondenzialiste della verità. La verità degli enunciati metaforici e narrativi consiste infatti in una manifestazione piuttosto che in una corrispondenza esatta tra enunciato e realtà. Gli enunciati metaforici sono veri nella misura in cui permettono di scopri­re dimensioni nascoste delPesperienza umana e di trasformare la nostra visione del mondo.

La fiction e la storia rimodellano, in maniera diversa, l’espe­rienza del lettore: l’una lo fa attraverso la sua irrealtà, l’altra, invece, lo fa sulla base di una ricostruzione del passato, fon­data sulle tracce che l’uomo ha lasciato. M a questa non è l’unica forma attraverso cui la fiction e la storia si interseca­no; esse, infatti, attraverso le loro molteplici intersezioni, contribuiscono a dare forma a quella che Ricoeur chiama «l’identità narrativa» degli individui e delle comunità storiche.

12. Sé come un altro

Nel 1986 l’Università di Edimburgo chiamò Ricoeur a tenere una serie di conferenze nel quadro delle Gifford Lectures, invito al quale egli rispose proponendo come ogget­to di riflessione una serie di investigazioni, che egli andava in quel tempo conducendo, sulla nozione di soggetto. Da questa serie di conferenze prese in seguito forma l’ultima grande opera della vasta produzione ricoeuriana: Soi-même comme un autre22. In essa Ricoeur sviluppa un tema più volte accen­nato nelle opere precedenti, ovverosia la polemica contro l’im­mediatezza della posizione del cogito in tutta quella tradizio­ne di pensiero che da Cartesio conduce fino ad Husserl. La

22 Id., Soi-même comme un autre, Paris, 1990.

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CITER SPECULATIVO DI PAUL RICOEUR

critica di Cartesio alla certezza, con cui il senso comune investe l’esistenza ed il senso della realtà esterna, doveva essere rivolta contro il cogito stesso, unico baluardo che ancora si sottraeva, in Cartesio, al dubbio iperbolico. L’ultima grande opera di Ricoeur è attraversata, da cima a fondo, dalla ferma convinzio­ne che il cogito non può essere oggetto di un’intuizione imme­diata e che esso deve essere riconquistato a partire da un lungo lavoro di interpretazione dei segni che esso ha lasciato nelle culture dei popoli. Da queste premesse, prende senso e forma la distinzione ricoeuriana tra l’io, ipotetico oggetto di una presunta intuizione immediata, e il sé, conquista faticosa, frutto di un lungo detour ermeneutico.

Ricoeur, in questa sua opera, si è impegnato in un lavoro di ricostruzione dell’identità del sé che si avvale delle risorse del metodo riflessivo. Questa ricerca si snoda secondo almeno tre passaggi fondamentali:

1) Innanzitutto Ricoeur cerca di integrare le varie proce­dure oggettive concernenti il discorso e l’azione nell’operazio­ne riflessiva, di modo che il detour attraverso l’oggettivazione possa garantire l’irriducibile distinzione tra l’immediatezza delFego e la riflessività del sé.

2) In secondo luogo opera una distinzione tra l’identità propria alla medesimezza e l’identità propria all’ipseità, essen­do la prima più adatta alle caratteristiche oggettive od oggettivizzate del soggetto e la seconda invece propria della soggettività in quanto capace di essere responsabile del pro­prio dire o fare.

3) In terzo luogo elucida la componente di passività e di alterità inerente alla soggettività. Questa riflessione si riallaccia alle precedenti investigazioni relative alla dimensione dell’in­volontario condotte nell’opera del 1950, oltre che a quelle dei suoi maestri Jaspers e Marcel, relative alle situazioni limite e all’essere corporale.

Ricoeur individua tre livelli dell’alterità: l’alterità del cor­po proprio, l’alterità relativa all’ intersoggettività e, infine, l’alterità propria alla coscienza, in quanto voce che parla al­

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VERITÀ DEL M E T O D I

l’interno di noi, ma che, al tempo stesso, viene percepita come appello, come voce rivolta a noi e come ingiunzione.

Le Gifford Lectures vennero tenute nel febbraio 1986, ma, rispetto alla strutturazione definitiva di Soi-même comme un autre, in esse mancava la parte relativa all’etica, parte che verrà sviluppata da Ricoeur nel corso di una serie di conferen­ze tenute all’Università «La Sapienza» di Roma.

Nella parte etica della sua riflessione sul sé Ricoeur affer­ma che la dimensione etica è più fondamentale di ogni norma ed è definibile come desiderio di vivere bene con gli altri e per gli altri all’interno di istituzioni giuste. Il passaggio dal­l’etica alla moralità è richiesto, secondo Ricoeur, dall’etica stessa, nella misura in cui il desiderio della vita buona si trova a far fronte alla violenza in tutte le sue forme. Infine, la moralità rinvia alla saggezza pratica, a causa dei continui conflitti che si instaurano tra i doveri e che la saggezza pratica è chiamata ad arbitrare.

Il capitolo finale, l’unico a portare un punto di domanda nel titolo, ha come proprio oggetto l’ontologia. Nella prima parte di questo capitolo problematico Ricoeur prende in esa­me il fenomeno dell’attestazione o della credenza non dossica, intesa come un modo aletico dell’ermeneutica del sé. Nella seconda parte istituisce un legame tra l’agire, inteso in senso fenomenologico, e l’atto d’essere sul piano ontologico e, in­fine, nella terza parte, porta la sua analisi sulla polisemia dell’alterità, che si articola nelle tre summenzionate dimensio­ni del corpo proprio, dell’altro e della coscienza morale.

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Parte prima

TEORIA DELLA VERITÀ

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LA TEORIA DELLA VERITÀNEL PENSIERO DI RICOEUR

Introduzione

Entriamo dunque nel vivo delle nostre riflessioni con un’analisi critica della teoria della verità nel pensiero di Ricoeur. La problematica che andremo ad analizzare riveste un carattere decisivo, perché, come cercheremo di dimostra­re, data una certa idea del vero, ne conseguono un certo tipo di epistemologia e di ontologia. Inoltre, capire in che cosa consista il discorso filosofico in quanto tale e che cosa ne costituisca la peculiarità, significa anche, e soprattutto, com­prendere quale sia la specificità della verità filosofica, che cosa distingua la verità filosofica dalla verità scientifica, este­tica, teologica e dalle altre forme della verità. Aristotele e Platone distinguevano, infatti, la filosofia dal mito in virtù del diverso valore aletico del discorso mitico e di quello filosofi- co. Così, oggi, si è inclini a distinguere il concetto scientifico di verità, basato sulla verificabilità empirica di determinate ipotesi, dai vari significati che il concetto di verità riveste in filosofia.

Il concetto di filosofia che un filosofo professa è intima­mente legato alla nozione di verità filosofica che egli possie­de: vi è, infatti, addirittura chi ha pensato di poter distingue­re, all’interno della storia della filosofia, tre grandi fasi, in base alle concezioni della verità che hanno dominato ciascun periodo. Sarebbe infatti riscontrabile una predominanza del concetto di verità intesa come adeguazione del pensiero al reale nella filosofia antica e medievale, un concetto di verità

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VERITÀ DEL METODO

intesa come coerenza1 o adeguazione rispetto ad un sistema complessivo nel pensiero moderno (si pensi, in particolare, a Spinoza e a Hegel) e, infine, nel pensiero contemporaneo, una complessificazione del concetto di verità attraverso le nozioni di verità come scoperta, come veracità capace di resistere al sospetto e alla demistificazione o, ancora, come coerenza ri­spetto ad un determinato gioco di linguaggio2.

' Il termine «coerenza» non va qui inteso in senso formalistico. Ciò che vogJio dire è che, per Hegel, non possiede verità l’astratto, ossia ciò che viene pensato indipendentemente dalla sua relazione con il tutto, mentre è vero il concreto, cioè la parte in quanto pensata nella sua relazione al tutto.

2 Uno studio interessante, che ripercorre alcuni momenti della storia del pensiero occidentale alla luce del problema della verità, approdando infine ad un’analisi dettagliata delle posizioni dì Heidegger, Gadamer e Ricoeur, relativa­mente alla teoria della verità, è contenuto nel volume dello studioso americano James Di Censo dal titolo Hermeneutics and the Disclosure o f Truth. A Study in the Work o f Heidegger, Gadamer and Ricoeur, University of Virginia (usa), 1990. Dopo aver dedicato alcune riflessioni al pensiero di Platone, Aristotele e Tommaso d’Aquino, che incarnerebbero, secondo Di Censo, una concezione corrispondenzialista della verità, e a Spinoza ed Hegel, nei cui scritti sarebbe rinvenibile un concetto di verità intesa come coerenza all’interno di un sistema organico, lo studioso americano mette in luce le novità emerse con Heidegger, Gadamer e Ricoeur. Con questi tre autori emerge un nuovo modo di intendere la verità, la verità viene pensata come rivelazione, come scoperta, come illumi­nazione di dimensioni del reale insopettate ed inattese. Scrive Di Censo: «L’ap­proccio dinamico e rivelativo alla verità sviluppato da Heidegger, Gadamer e Ricoeur rimuove la chiusura degli schemi interpretativi e apre la nostra com­prensione verso dimensioni represse ed impensate dell’esistenza» (ivi, p. 143). «Per gli esseri umani l’esperienza non accade in modo immediato senza l’in­fluenza di fattori interpretativi. La percezione ed il giudizio sono formati da una varietà di forze culturali e personali che delimitano ed interpretano i fenomeni. Inoltre, l’uso linguistico contribuisce alla formazione di mondi culturali, e la sua forza mimetica è irriducibilmente creativa e trasformativa» (ivi, pp. 144- 145). «L’ermeneutica fa riferimento al problema del relativismo inerente alla natura finita, interpretativa e prospettica dell’esistenza umana. Essa non fa ciò ponendo una verità apodittica che si situi al di là della contingenza, ma vedendo la verità nella consapevolezza crescente generata dall’interscambio critico di istanze finite. [...] Essa provvede una base storica e linguistica piuttosto che ideale alla verità, e nel fare ciò articola la dimensione critico-trascendentale dell’esperienza della verità» (ivi, p. 146).

Di Censo, nel rilevare la grande novità presente nel concetto rivelativo della verità, si spinge addirittura ad un’eziologia dell’esigenza di una verità apodittica (esigenza che ha caratterizzato una gran parte della tradizione filoso­fica occidentale), esercitando in maniera egregia quella che Ricoeur definirebbe un’«arte del sospetto». Scrive infatti Di Censo: «Ciò che limita e distorce l’espe­rienza umana della verità non sono la pluralità e la finitudine in quanto tali, ma,

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TEORIA DELLA VERITÀ

Il pensiero contemporaneo ha fornito alcuni notevoli con­tributi alla determinazione del senso e dell’essenza della veri­tà. Un grosso dibattito si è ad esempio sollevato, almeno per ciò che concerne la filosofia continentale, attorno alle tesi sostenute da Heidegger su questo tema in scritti quali Essere e Tempo3, Sull’essenza della verità 4 e Domande fondamentali della filosofia5. Le teorie heideggeriane hanno fortemente scosso la concezione tradizionale, propria anche al senso co­mune, secondo cui la verità consisterebbe in un’adeguazione del pensiero al reale. Per Heidegger, infatti, la realtà non è più un dato oggettivo e stabile a cui ci si debba adeguare, ma qualcosa che può essere interpretativamente trasformato.

Anche l’altro grande filone della filosofia contemporanea, quella di matrice anglosassone, ha contribuito alla messa in discussione della concezione tradizionale della verità. Wittgen­stein, infatti, nello scritto dal titolo On Certainty 6, considera la nozione tradizionale di verità, intesa come adeguazione del pensiero ai fatti, come non informativa e sviarne. Questo perché ci sono molti modi in cui un’espressione può essere

piuttosto, la fissazione su prospettive chiuse da parte della mente finita. Una tale fissazione deriva dalla fusione di bisogni e prospettive soggettivi con un ideale oggettivo. Inoltre, la fissazione su verità statiche sembra essere associata con orientamenti mirati al dominio e al controllo. Solo se posso essere sicuro che ciò che ho afferrato è da ora in avanti immutabile ed immune alle contin­genze del fato, la mia conoscenza può darmi la sensazione di un vero dominio sull’oggetto. Un tale dominio, comunque, costituisce un’illusione di fronte alla natura radicalmente temporale ed interpretativa della nostra esistenza. La fissa­zione su forme apodittiche della conoscenza crea una chiusura della compren­sione, che diminuisce le capacità di crescita e di trasformazione di un individuo e di una cultura» {ivi, pp. 149-150).

3 M. H eidegger , Essere e Tempo, Milano, 1976, trad. it. di Pietro Chiodi dall’originale tedesco Sein und Zeit, Tübingen, 1927, sezione prima, capitolo sesto.

4 Id., Sull’essenza della verità, Brescia 1973, trad. it. di Umberto Galimberti dall’originale tedesco Vom Wesen der Wahrheit, Frankfurt a.M., 1954.

5 Id ., Domande fondamentali della filosofia. Selezione di «problemi» della «logica», Milano, 1988, trad. it. di Ugo Maria Ugazio dall’originale tedesco Grundfragen der Philosophie. Ausgewählte «Probleme» der «Logik», Frankfurt a.M., 1984.

6 L. W ittg en stein , On Certainty, a cura di E. Anscombe e G.H. von Wright, Oxford, 1974.

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VERITÀ DEL METODO

impiegata e, dunque, ci sono molte ragioni, diverse tra loro, a partire dalle quali si può decidere in favore di una propo­sizione. Detto in altri termini, poiché una proposizione può essere usata solo all’interno di un determinato gioco di lin­guaggio, è possibile fornire delle ragioni a supporto di quella determinata proposizione solo rimanendo all’interno di un particolare sistema di credenze. Da ciò segue che io non posso provare che il punto di vista di qualcuno, che si muove all’in­terno di un gioco di linguaggio diverso dal mio, sia falso, perché tutte le ragioni che io posso addurre non verranno riconosciute come ragioni dal mio interlocutore. L’unica cosa che potrei fare, in questo caso, sarebbe convertire il mio interlocutore al mio punto di vista, perché al termine di tutte le ragioni vi è solo la persuasione7.

Vedremo nei prossimi paragrafi come anche in Ricoeur sia all’opera una profonda revisione del concetto tradizionale di verità, consapevole dei più recenti contributi della ricerca fi­losofica. Vedremo inoltre come il modo di intendere la verità da parte di Ricoeur abbia delle dirette implicanze sul tipo di epistemologia e di ontologia che viene elaborata dal nostro autore. Questo ultimo punto, infatti, ci introdurrà nella problematica delle prossime due sezioni, dedicate, rispettiva­mente, all’epistemologia e all’ontologia.

7 Jo h n B. T h om p son , uno studioso inglese formatosi alla scuola della filo­sofia del linguaggio ordinario, ha scritto un volume dal titolo Criticai Hermeneutics. A study in the thought o f Paul Ricoeur and Jürgen Habermas (Cambridge, 1981), in cui prende in esame, tra le altre cose, la teoria della verità nel pensiero di Ricoeur e di Habermas, ponendo a confronto questi autori con la filosofia del linguaggio ordinario. I risultati della riflessione di Thompson sono molto interessanti. Innanzitutto egli ammette una certa insod­disfazione nei confronti della teoria della verità elaborata dai filosofi del lin­guaggio ordinario che sfocerebbe, secondo Thompson, in un inaccettabile relativismo. Di qui la necessità di interrogare su questo tema due figure di punta della filosofia continentale.

Dopo aver preso in considerazione le proposte teoriche di Wittgenstein, Strawson e Hare, a proposito del problema della verità, Thompson conclude: «Così, proprio come l’attacco di Strawson alla teoria corrispondenzialista della verità assomiglia alla critica wittgenstainiana del punto di vista tradizionale, così anche l ’analisi di Hare del linguaggio valutativo riproduce la paralisi wittgenstainiana dell’argomentazione razionale» (ivi, p. 27).

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TEORIA DELIA VERITÀ

1. Il concetto di verità nel pensiero di Ricoeur

Sono rarissimi i testi in cui Ricoeur prende esplicitamente in esame, dal punto di vista dell’analisi formale, la problematica della verità nei suoi diversi aspetti. Il pensiero di Ricoeur si costituisce, infatti, attraverso l’ impiego in acto exercitu di una serie molteplice di strategie teoriche e di metodi diversi che guidano l’andamento della riflessione, piuttosto che caratte­rizzarsi per un’ampia riflessione preliminare di carattere metodologico.

Tra i pochi documenti attestanti la riflessione ricoeuriana sul concetto e sulla teoria della verità ho trovato particolar­mente interessanti la registrazione in videocassetta di un di­battito su «Filosofia e verità», tenutosi nel 1965, presso la sede dell’Ecole Normale Supérieure di Parigi, a cui erano presenti, oltre a Ricoeur, Georges Canguilhem, Michel Fou­cault, Jean Hyppolite, Alain Badiou e Dina Dreyfus8; alcuni saggi raccolti nel volume Histoire et Vérité9, alcuni capitoli de La métaphore vìve10 e di Temps et récit11, dedicati al proble­ma del tipo di referenza proprio alla metafora e al discorso narrativo e, infine, due testi recenti dedicati alla nozione di attestazione, la quale gioca un ruolo decisivo relativamente al concetto di verità nel campo dell’agire12.

Ciò che viene subito in chiaro, a chiunque affronti i testi in cui Ricoeur riflette sulla tematica del vero, è che Ricoeur possiede una nozione polisemica della verità. Il vero si dice in molti modi, come l’essere. Da questa nozione plurivoca del vero converrà, allora, iniziare la nostra analisi, facendo però,

8 La trascrizione completa e fedele del dibattito è ora disponibile in M. F oucault, Dits et écrits, vol. i, pp. 448- 464, a cura di D. Defert e F. Ewald, Paris, 1994.

9 P. R ico eu r , Histoire et vérité, Paris, 1955.10 Id., La métaphore vive, Paris, 1975.11 Id., Temps et Récit, voll, i/ii/iii, Paris, 1983/1984/1985.12 Mi riferisco a L’attestation: entre phénoménologie et herméneutique,

contenuto in Paul R ico eu r , Les métamorphoses de la raison herméneutique, a cura di J . Greisch e R . Kerney, Paris, 1991, e a Vers quelle ontologie?, contenuto in Soi-même comme un autre, Paris, 1990.

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VERITÀ DEL METODO

prima di affrontare direttamente l’opera di Ricoeur, un passo indietro, sino ad Aristotele.

2. La plurivocità del vero

L’idea della plurivocità del vero, che Ricoeur ha sostenuto in numerose occasioni, risale ad Aristotele, il quale, per pri­mo, ha tentato una qualche sitemazione dei vari sensi in cui qualcosa può dirsi vero.

Nell’Erica Nicomachea Aristotele distingue due parti del­l’anima razionale: «una con la quale conosciamo quel genere di enti i cui principi non possono essere diversamente da quelli che sono, l’altra con la quale conosciamo gli enti che lo posson o»13. La prima di queste due parti è definita da Aristotele «scientifica» e l’altra «calcolatrice» o «deliberatrice», poiché il calcolo e la deliberazione avvengono solo a propo­sito delle cose che possono essere diversamente da quelle che sono.

Il campo morale, ad esempio, ha a che fare con le realtà mutevoli. Esso è il luogo della scelta, che viene definita come un «desiderio deliberato» e viene detta buona se è originata da un desiderio retto e da un calcolo vero. «Retto» e «vero», in questo caso, hanno una valenza pratica. Osserva infatti Aristotele: «Del pensiero teoretico, che non è né pratico né poietico, il buono e il cattivo stato sono il vero e il falso (questo infatti è il compito di tutta la parte razionale); ma il buono stato della parte pratica e razionale è la verità corri­spondente alla rettitudine del desiderio»14. Secondo Aristotele, dunque, sarebbe un grave errore identificare la verità con quello che, invece, è solo il suo aspetto teorico. Su questo punto, infatti, il nostro autore non potrebbe essere più peren­torio: «la funzione di ambedue le parti razionali è la verità;

13 A r is to te le , Etica Nicomachea, vi 2, 1139 a 7-10, trad, di Marcello Zanatta, Milano, 1986.

14 Ivi, vi 2, 1139 a 28-32.

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TEORIA DELLA VERITÀ

pertanto le disposizioni secondo cui ciascuna di esse coglieràil vero al massimo grado saranno, per l’una e per l’altra parte, le loro virtù»15.

Entrando nel dettaglio della sua analisi Aristotele precisa che «le disposizioni con le quali l’anima dice il vero, affer­mando o negando, sono in numero di cinque. Queste sono l’arte, la scienza, la saggezza, la sapienza e l’intelletto»16. La scienza, l’intelletto e la sapienza riguardano le realtà immuta­bili, mentre l’arte e la saggezza quelle mutevoli.

La scienza, osserva Aristotele, è una disposizione che di­rige la dimostrazione in maniera certa ed evidente verso una conclusione, a partire da principi primi, veri ed immediati. L’intelletto, invece, coglie quei principi primi che stanno alla base delle dimostrazioni della scienza. La sapienza, a sua vol­ta, è l’insieme di intelletto e scienza, «scienza delle realtà che sono più degne di pregio coronata dall’intelligenza dei supre­mi principi»17.

L’arte e la saggezza hanno a che fare con le realtà mutevoli e, in particolare, con la produzione e l’azione. Quindi, dal momento che l’azione e la produzione sono cose differenti, anche i modi in cui la verità si dice a proposito del produrre e dell’agire saranno diversi. L’arte è, infatti, quella disposizio­ne accompagnata da ragionamento vero che dirige il produrre (e la mancanza di arte è una disposizione che dirige il produr­re accompagnata da ragionamento falso); mentre la saggezza «è una disposizione vera, accompagnata da ragionamento, che dirige l’agire, concernente le cose che per l’uomo sono buoneo cattive»18. La saggezza non è né scienza né arte: non è scienza perché l’oggetto d’azione può essere diversamente da quello che è, non è arte perché il genere dell’azione è diverso da quello della produzione. La condotta virtuosa, infatti, è fine a sé, mentre il fine del produrre è diverso dalla produ-

15 Ivi, VI 2, 1139 b 11-14.16 Ivi, vi 3, 1139 b 15-18.17 Ivi, vi 7, 1141 a 18-20.18 Ivi, vi 5, 1140 b 4-6.

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zione stessa. La saggezza, inoltre, è diversa dalla scienza e dall’arte anche per il fatto che i suoi principi hanno bisogno di essere salvaguardati dalla temperanza. «All’uomo corrotto per il piacere o per il dolore», osserva infatti Aristotele, «il principio non appare subito, né gli appare che in vista di questo fine, né che in forza di questi motivi, deve operare tutte le sue scelte e compiere tutti i suoi atti. Infatti il vizio è distruttivo del principio»19. Al contrario, un uomo corrotto può conoscere i principi della sapienza e dell’arte allo stesso modo in cui li conosce un uomo moralmente virtuoso.

Secondo Aristotele, comunque, l’anima non dice il vero solo affermando o negando. In Metafisica ix 10, egli, infatti, porta alla luce un altro aspetto del vero, quello che ha come suo opposto non il falso, ma l’ignoranza. Scrive infatti Aristotele:

Per quanto concerne gli oggetti, il vero e il falso sono connessi col fatto che gli oggetti stessi sono uniti o divisi - di guisa che è nel vero chi crede che sia diviso ciò che è diviso e che sia unito ciò che è unito, ed è nel falso chi formula pensieri diversi dalla realtà delle cose. [...] Ma, per quanto concerne le cose non composte, in che consiste il loro essere o il loro non essere, la loro verità o la loro falsità? [...] In realtà, il vero che è presente nelle cose non composte non è lo stesso, proprio come non èlo stesso neppure l’essere, ma il vero e il falso sono presenti in esse nel senso che il vero sta nell’aver contatto diretto con una cosa e nell’enunciarla (non sono, infatti, la stessa cosa afferma­zione ed enunciazione), mentre l’ignoranza sta nel non aver contatto diretto con essa. [...] E la verità sta nel pensare siffatti oggetti, e non c’è, in merito a questi, né falsità né errore, ma soltanto un’ignoranza che, però, non è affatto simile alla cecità, giacché la cecità somiglia piuttosto alla mancanza totale della capacità di pensare.20

Questo passo aristotelico ha suscitato l’ interesse di Heidegger il quale, pur lamentando la perdita dell’esperienza

19 Ivi, VI 5, 1140 b 17-20.20 A r i s to te le , Metafisica, ix 10, 1051 b 1052 a, in Id., Opere, Roma-Bari

1988, voi. vi, pp. 273-274, trad, di Antonio Russo.

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dell’aletheia, originatasi nel pensiero greco e causata dalla sostituzione dell’aletheia con Yomoiosis (la correttezza del­l’enunciazione), riconosce che «tuttavia, un’ultima risonanza della verità era rimasta, senza essere in grado di passare nella futura storia della filosofia (cfr. Aristotele, Metafisica, ix 10)» 21. Altrove Heidegger aveva osservato che «non si può lasciar passare inosservato che presso i greci, [...], era non meno viva l’originaria se pur preontologica comprensione della verità che fu fatta valere, almeno in Aristotele (Metafisica, ix 10), anche contro il coprimento che di essa faceva la loro ontologia» 22.

Enucleato questo quadro, che ci risulterà utilissimo come punto di riferimento e termine di paragone, possiamo chie­derci quali integrazioni porti, rispetto ad esso, la riflessione di Ricoeur sul tema della verità e quali lacune, invece, esso ci consenta di mettere in evidenza.

3. Verità e azione

Aristotele, nell’Etica Nicomachea, aveva caratterizzato la saggezza come la verità dell’azione, spiegando che la saggezza è «una disposizione vera, accompagnata da ragionamento, che dirige l’agire, la quale concerne le cose che per l’uomo sono buone o cattive». Se le cose stanno così, allora noi possiamo rilevare che la saggezza ha sì a che fare con la verità dell’azio­ne, ma solo per ciò che riguarda l’aspetto morale dell’azione. Aristotele non aveva infatti riflettuto approfonditamente sul­l’aspetto premorale dell’azione e sul tipo di verità che la ca­ratterizza, aspetto a cui, invece, si è rivolta l’attenzione dei contemporanei. A queste analisi anche Ricoeur ha fornito un importante contributo23.

21 M. H eid eg g er , Domande fondamentali della filosofia, cit., p. 145.11 Id ., Essere e Tempo, c it., p. 2 7 7 .23 Si vedano, in particolare, La sémantique de l’action. 1ère partie: Le

discours de l ’action, Paris 1977 (trad. it. di Antonio Pieretti, La semantica dell’azione, Milano, 1986) e Soi-même comme un autre (terzo e quatto studio), Paris, 1990 (trad. it. di Daniella Iannotta, Sé come un altro, Milano 1993).

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Ricoeur, sulla scorta delle riflessioni di Henrick von Wright e di Elisabeth Anscombe, ha messo in evidenza il carattere specifico del rapporto intenzionale che ciascuno di noi ha con la produzione delle proprie azioni. L’affermazione semplice e diretta del proprio poter fare, che ognuno di noi pronuncia nelle più svariate occasioni, non può essere provata o dimo­strata, ma può trovare conferma solo nel proprio esercizio e nell’approvazione che gli altri le accordano. Ci troviamo di fronte, in tutte queste situazioni, ad eventi che ci sono noti senza osservazione24. Per caratterizzare questo dominio epi­stemologico Ricoeur ha coniato la nozione di attestazione25, definendola come una sorta di fiducia nelle nostre capacità di agire, la quale si caratterizza per il fatto di essere un credere- in, piuttosto che un credere-che. L’attestazione è molto vicina alla testimonianza: si potrebbe infatti dire che essa costituisce una sorta di testimonianza interiore. In questo senso, allora, l’essere vero secondo l’attestazione, che ha come proprio contrario il sospetto, assume un carattere del tutto specifico. Nella Metafisica aristotelica, infatti, il vero veniva caratteriz­zato o come opposto al falso (il senso più noto e più ovvio del vero) oppure come opposto all’ignoranza (il significato del vero che verrà più tardi ripreso e reso celebre da Heidegger).

Un secondo significato della verità propria all’ordine premorale dell’azione riguarda, secondo Ricoeur, l’adeguazione del progetto e dell’intenzione alla loro effettuazione. Noi possiamo infatti riconoscerci nella produzione delle nostre azioni e, dunque, risalire dall’effettuazione dell’azione all’in­tenzione di agire e possiamo, di conseguenza, valutare la convenienza dell’effettuazione all’intenzione. In questo senso un’azione può dirsi vera quando si adegua all’intenzione e al progetto che l’hanno prodotta.

24 P. R ico eu r , Soi-même comme un autre, cit., terzo studio.25 Vedi P. R icoeur , Soi-même comme un autre, cit., decimo studio, primo

paragrafo; Id., L’attestation: entre phénoménologie et herméneutique, in J. G reisch - R . K ea rn ey (a cura di), Paul Ricoeur. Les métamorphoses de la raison herméneutique, Paris, 1991, pp. 381-403.

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L’esigenza di elaborare un criterio di verità proprio al mondo dell’agire e distinto dall’ambito della verità scientifica, si inserisce in una linea di ricerche teoriche volte alla defini­zione dello statuto specifico della prassi e avviate da tempo, nell’ambito della filosofia analitica, da autori come Henrick von Wright ed Elisabeth Anscombe, che Ricoeur dimostra, in più occasioni, di apprezzare molto.

In Explanation and Understanding26 von Wright distingue la situazione propria a chi osserva dei fenomeni naturali e quella propria, invece, al soggetto agente. Secondo von Wright, se il soggetto dell’azione si ponesse, rispetto alla sua azione, come osservatore, egli si troverebbe nella situazione contrad­dittoria di chi sente di essere libero di agire, ma che, allo stesso tempo, percepisce la propria azione come necessaria. Von Wright immagina, infatti, un soggetto che segue su di uno schermo i cambiamenti sopravvenuti nel suo cervello quando egli muove volontariamente la mano e che percepisce il suo movimento come causato da certi eventi materiali. Questo soggetto, secondo von Wright, continuerebbe a sentirsi libero nel momento in cui valutasse il suo movimento in termini di impressioni, desideri, motivazioni e ragioni d’agire; anche se non si sente libero quando valuta lo stesso movimento come osservatore dei mutamenti fisico-chimici sopravvenuti nel suo cervello. Il vizio logico che determina questa paradossale si­tuazione in cui si trova chi crede di potersi porre come osser­vatore delle sue azioni, sta nel fatto che l’osservazione interna viene costruita sul modello dell’osservazione esterna, mentre le due andrebbero nettamente distinte. La ricerca di un even­to interiore si fonderebbe, infatti, su di un pregiudizio «contemplativo», che non tiene conto del fatto che si sa ciò che si fa solo facendolo.

Secondo Ricoeur questa affermazione semplice, diretta, del poter fare, a cui fa allusione von Wright, non può essere provata o dimostrata, ma solo attestata. In questo modo entra

26 G.H. V o n W r igh t , Explanation and Understanding, New York 1971; trad. it. a cura di G. Di Bernardo, Spiegazione e comprensione, Bologna 1977.

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in gioco una forma di credenza diversa dalla doxa platonica, che rimaneva una forma di sapere inferiore e più simile, in­vece, al Glauben kantiano. Questa forma di credenza non può essere dimostrata, ma può ricevere conferma solo nel proprio esercizio e nell’approvazione che gli altri accordano ad essa.

Similmente a von Wright Elisabeth Anscombe riprende, nel libro Intention27, la teoria dei giochi di linguaggio, per mostrare come, il discorso che parla di eventi accadenti nella natura e quello che parla di azioni intraprese dagli uomini, non facciano parte dello stesso gioco di linguaggio. Quando si parla di eventi entrano in gioco nozioni quali quelle di causa, legge, fatto, spiegazione ecc.; mentre, quando si parla di azioni, si ha a che fare con concetti quali quelli di progetto, d’intenzione, di motivo, di ragione d’agire, ecc. Elisabeth Anscombe distingue tra sapere-come e sapere-che, dove il sapere-come tratta di quegli eventi (ad es. le azioni) che sono noti senza osservazione.

4. Verità filosofica e verità scientifica:il dibattito con Canguilhem

Un dominio del vero che non poteva essere noto ad Aristotele, ma che riveste un’importanza del tutto particolare, è quello proprio alla scienza moderna.

La scienza, osserva Ricoeur, costituisce uno di quei domi­ni in cui la verità diventa un vero e proprio prodotto dello spirito, dal momento che nella scienza i fatti vengono elabo­rati dallo spirito secondo certi criteri28. La caratteristica della scienza sperimentale è, infatti, quella di porre come oggettivo il solo aspetto matematizzabile della realtà, considerando come soggettive tutte le qualità percepite. La verità sperimentale dipende strettamente dal metodo che regola il processo di verificazione e dalla decisione di definire oggettivo solo l’aspet­

27 G.E.M. An sco m be , Intention, Oxford, 1979.28 Vedi P. R ico eu r , Histoire et vérité, Paris, 1955, p. 167.

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TEORIA DELLA VERITÀ

to matematizzabile del reale. La verità scientifica si distingue dalla verità dell’agire, di cui abbiamo trattato sopra, perché noi non siamo gli autori della natura e, dunque, non abbiamo accesso alle sue modalità di produzione, come abbiamo acces­so alle modalità di produzione delle nostre azioni. La verità concernente le leggi della natura è, dunque, da un lato, una verità intesa come prodotto dello spirito (il quale decide di porre come oggettivi alcuni aspetti della realtà piuttosto che altri) e, dall’altro, una verità intesa come accordo del pensiero con la realtà (poiché è della realtà e non dei fantasmi dello spirito che si vuole rendere ragione).

La scienza ha dato spesso origine allo scientismo, che è quell’atteggiamento filosofico che consiste nell’assolutizzazione della scienza e nella considerazione della verità scientifica come l’unica forma di verità possibile. Ricoeur ha combattuto que­sto atteggiamento, sottolineando con forza l’autonomia della verità filosofica e la distinzione tra verità filosofica e verità scientifica. Relativamente alla necessità di questa distinzione Ricoeur è entrato in polemica, nel 1965, con lo scientista Canguilhem.

La videocassetta dal titolo Philosophie et vérité, in cui è contenuto il dibattito tra Ricoeur e Canguilhem, fa parte di una serie di audiovisivi realizzati nel quadro di un programma sperimentale di trasmissioni, aventi come oggetto il pensiero filosofico contemporaneo, realizzati da Jean Fléchet e prodot­ti dalla Radio-Télévision scolaire tra il 1965e il 196929.

Nella prima parte del dibattito ciascuno dei filosofi pre­senti (oltre a Ricoeur e Canguilhem troviamo, come già avevo anticipato sopra, anche Hyppolite, Foucault, Badiou e Dina Dreyfus) precisa sinteticamente la sua posizione relativamente al problema della verità in filosofia.

Secondo Canguilhem la verità è solo verità scientifica, eppure, ciononostante, la filosofia avrebbe, a suo parere, come

29 Vedi nota 8.

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VERITÀ DEL METODO

proprio compito specifico la ricerca relativa alla natura, al senso ed all’essenza della verità. Ma, proprio a causa del­l’equazione da lui posta tra verità scientifica e verità tout- court, la ricerca filosofica relativa al senso del vero sembre­rebbe non poter mai giungere a dei risultati che possano es­sere giudicati veri o falsi, in rapporto a risultati diversi acqui­siti da altre ricerche.

Il ruolo del filosofo consisterebbe, dunque, nel valutare le diverse scienze in rapporto all’esistenza umana e all’idea di totalità, senza che a questa valutazione possa convenire il valore di verità.

Hyppolite sostiene, da parte sua, la tesi, complementare per certi versi a quella di Canguilhem, secondo cui non esi­stono errori in filosofia, dal momento che la filosofia ha per compito la riflessione sull’essenza della verità. Dunque, come la riflessione sull’essenza della tecnica non è a sua volta una tecnica, così la riflessione sull’essenza della verità non può essere a sua volta una verità.

Ricoeur, invece, propone una concezione della filosofia intesa come lotta per la chiarezza, per la chiarificazione e per la coerenza, che, in quanto tale, risulta essere un’opera del linguaggio particolare e privilegiata. E, infatti, all’interno del­la speculazione filosofica che tutti i problemi di segno e di senso delle altre discipline vengono a riflettersi.

Alla proposta di Ricoeur Foucault ribatte chiedendo se non ci sia una contraddizione tra il porre come fine della filosofia l’istituzione di una certa coerenza nel discorso ed il riconoscimento, altre volte fatto da Ricoeur, di una fonda- mentale polisemia del linguaggio. Alla quale obiezione Ricoeur risponde dicendo che questa opposizione deve essere intro­dotta e mantenuta alPinterno del lavoro filosofico. La coeren­za, infatti, non costituisce per la filosofia un fine, ma il mezzo necessario, il cammino obbligato, che permette di distinguere questo sapere dalla poesia e dalla letteratura. Questa coeren­za, tuttavia, non può rappresentare che un ideale formale per la filosofia, poiché la filosofia costituisce un campo chiuso,

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TEORIA DELLA VERITÀ

dove si affrontano tra loro la ricchezza linguistica (la quale porta con sé il pericolo delFequivocità) e la legge di coerenza, che costituisce la regola della comunicazione. La filosofia, infatti, non può essere definita solamente attraverso il suo aspetto formale, dal momento che è sua caratteristica essen­ziale quella di ricondurci alla questione ontologica primordia­le: «Che cosa è?».

Neî corso delle battute seguenti il dibattito si sviluppa at­torno alla concezione, più volte difesa da Canguilhem, secon­do cui la norma di verità non conviene al sapere filosofico.

Ricoeur prende decisamente posizione contro questo modo di intendere la filosofia, dicendo che Canguilhem può giunge­re ad una conseguenza di questo tipo perché pensa al proble­ma della verità in termini di norma e di criterio. Secondo Ricoeur, al contrario, la questione della verità è la questione ultima; la questione che si pone originariamente al filosofo è quella ontologica: «Che cosa è?». La teoria della conoscenza è seconda in rapporto alla teoria dell’essere, e la scienza stessa è seconda in rapporto alla teoria della conoscenza. Ciò che Canguilhem chiama «valore» Ricoeur lo chiama «verità», de­finendo la verità come «il ricoprimento il più ampio possibile del discorso e di ciò che è»30.

Canguilhem, da parte sua, rifiuta con fermezza la defini­zione ricoeuriana di verità perché, per la scienza, ciò che è è, precisamente, ciò che essa definisce progressivamente come vero, indipendentemente da qualsiasi rapporto ad un essere presupposto come termine di riferimento.

Secondo Ricoeur, invece, il rapporto alla totalità e all’es­sere costituisce la questione della verità. Noi siamo in ciò che è, dice Ricoeur, siamo consapevoli di questo nostro essere situati, ci troviamo ad avere dei progetti e, in questo rapporto di una situazione a dei progetti, noi cerchiamo di fare una qualche luce e di rendere possibile lo spiegarsi di un discorso.

30 «Le recouvrement le plus entier qui soit possible du discours et de ce qui est», F oucault, Dits et écrits, cit., vol. i, p. 453.

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VERITÀ DEL METODO

Ora, se non definiamo ciò verità, ma valore, allora il rapporto tra i diversi valori in gioco nella nostra esistenza viene a tro­varsi completamente tagliato fuori dalla questione della tota­lità. Attraverso l’idea di totalità noi infatti recuperiamo razio­nalmente il nostro rapporto all’essere.

Ciò che invece impedisce alla filosofia, secondo Can- guilhem, di aver a che fare con quel modo del giudizio a cui convengono i valori di vero e di falso è, precisamente, il fatto che la totalità, all’interno della quale i diversi valori devono essere confrontati, viene ad essere semplicemente presupposta.

Ricoeur ritiene, dal canto suo, che occorra ritrovare la domanda propria alla filosofia e che il rapporto che noi ab­biamo con questa domanda sia propriamente un rapporto di tipo veritativo. Se così non fosse, infatti, il lavoro proprio del filosofo, che consiste nel confrontare tra loro i diversi valori alla luce dell’idea di totalità, costituirebbe semplicemente un fenomeno culturale tra gli altri.

Ora, quando Cartesio dice: «Io penso, dunque sono» non ci pone semplicemente di fronte ad un problema legato alla storia di una cultura, ma a qualcosa che, inevitabilmente, attinge ad un’altra dimensione.

Canguilhem ribatte dicendo che, a rigore, può essere de­finita verace una risposta, non una domanda. Certo, la do­manda attorno al senso della verità può essere definita una domanda di tipo filosofico, ma, nella misura in cui una filo­sofia risponde a questa domanda, essa non può essere classi­ficata in rapporto ad altre filosofie, che rispondono in manie­ra diversa alla stessa domanda, secondo un criterio di vero/ falso.

Da ciò consegue che, per Canguilhem, le filosofie si di­stinguono le une dalle altre non perché le une siano più vere delle altre, ma perché ve ne sono di più o meno grandi. Se il compito proprio di una filosofia è quello di totalizzare l’espe­rienza di un’epoca, trasmettendo poi il risultato di questa totalizzazione all’esterno della filosofia stessa, allora potrem­mo dire che vi sono delle grandi filosofie che, rispetto ad

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TEORIA DELLA VERITÀ

altre, hanno avuto il merito di riuscire in questo compito: esse sono tutte quelle filosofie che hanno lasciato un aggettivo nel linguaggio popolare (stoico, platonico, kantiano, ecc.), riuscen­do ad avere un impatto diretto sulla nostra esistenza quotidiana.

Su questo punto Ricoeur interviene dicendo che una grande filosofia, secondo lui, è quella di fronte a cui abbiamo un’im­pressione di verità. L’indizio sociale è un segno che mostra il vero, ma che, allo stesso tempo, può anche nasconderlo.

Canguilhem concorda su questo, ma precisa che, relativa­mente al problema della rivelatività dell’indizio sociale, si può porre l’accento sul fatto che esso mostri o sul fatto che esso nasconda la verità, e lui sarebbe senza dubbio portato a porre l’accento sul carattere rivelativo di tale indizio.

Ricoeur conclude su questo punto dicendo di rifiutare la riduzione ad un criterio di semplice influenza sociale il pro­blema della valutazione di un sistema filosofico. Probabilmen­te, nota Ricoeur, questa presunzione di verità è ciò che il sentimento popolare percepisce quando definisce «grande» una filosofia.

5. Il vero come rivelazione e dìsvelamento

Un dominio del vero rispetto a cui Ricoeur ha fornito notevoli contributi è quello a cui Aristotele aveva fatto cenno in Metafisica ix 10, dominio che, sino a Heidegger, non era più stato oggetto di accurate riflessioni.

In Aristotele la nozione di vero come disvelamento, come dissimulazione, conviveva con altri aspetti del vero altrettanto importanti. Quest’idea aristotelica della plurivocità e della legittimità dei vari ordini del vero è venuta del tutto a cadere in Heidegger, il quale vedeva nell’idea di verità come concor­danza tra il giudizio e la realtà una sorta di derivato o di sostituto della verità-disvelamento. Ricoeur, in questo caso, è molto più vicino ad Aristotele che a Heidegger, perché tiene ben presente il concetto heideggeriano di verità, ma senza farne il senso dominante od esclusivo. Secondo Ricoeur vi sono di­

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VERITÀ DEL METODO

versi domini in cui la verità possiede sensi diversi, mentre secondo Heidegger vi è un senso principale della verità da cui tutti gli altri derivano.

5.1 La verità delle singole filosofie intesa come scoperta e rivelazione

L’idea della verità come disvelamento viene più volte im­plicitamente ripresa da Ricoeur. Un esempio molto interessan­te ci è dato dall’articolo L’histoire de la philosophie et l ’uni- té du vrai31. In questo saggio Ricoeur riflette sul senso filo­sofico della verità: che cosa significa, si chiede Ricoeur, dire che una certa filosofia è vera ed una cert’altra filosofia invece è falsa?

La ricerca storico-filosofica, osserva Ricoeur, è stata spesso concepita come un lavoro teso ad illuminare i rapporti tra una determinata filosofia ed il suo contesto storico, oppure come ricerca delle fonti di un determinato pensiero. Nel perseguire questi scopi occorre però, secondo Ricoeur, fare attenzione ad evitare alcuni pericoli sempre in agguato. Se lo storico della filosofia concepisce il suo oggetto di studio come un effetto sociale o psicologico tra i tanti, il legame tra una filosofia ed un filosofo viene affievolito a vantaggio del contesto storico. Se, invece, egli si pone come obiettivo quello di compiere una ricerca delle fonti di un determinato pensiero, l’unità dell’in­tenzione rischia di essere smarrita, in quanto ridotta alla plu­ralità delle sue fonti. Ciò di cui questa storia critica non è in grado di rendere conto è l’unità organica, il principio organiz­zatore che dona coerenza ad una filosofia. Ecco, allora, che si profila un terzo atteggiamento possibile per lo storico della filosofia: fare pieno credito all’autore studiato, scommettere a favore della coerenza del suo iter speculativo, compiere un movimento centripeto verso l’intuizione centrale di un certo pensiero, che sia complementare al movimento centrifugo di

31 R ico eu r , Histoire et vérité, cit., pp. 45-60.

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TEORIA DELLA VERITÀ

ricerca delle fonti. Questo atteggiamento, caro a K. Jaspers e al Bergson de L’Intuition philosophique, ci permette di situarci su di un terreno ove la concezione della storia della filosofia come serie di risposte variabili a dei problemi immutabili perde completamente di significato. Vediamo perché.

1) Comprendere una filosofia attraverso la sua intuizione centrale significa concepire ciascuna filosofia come un’essenza singolare, piuttosto che come facente parte di un genere co­mune (realismo, idealismo, materialismo, spiritualismo ecc.). Una filosofia si presta alla classificazione nella misura in cui essa trascina con sé un aspetto anonimo, che essa trae dalla coscienza dell’epoca e che non fa che ripetere, senza conver­tirlo integralmente nella sua singolarità. Questa singolarità, inoltre, occorre precisarlo bene, non va confusa con la singo­larità del filosofo stesso: la singolarità in questione non è affatto quella del vissuto dell’autore, ma quella costituita dal senso dell’opera. Afferma infatti Ricoeur: «Ciò che importa alla storia della filosofia è che la soggettività di Platone o di Spinoza si sia superata in un’opera, in un insieme di signifi­cati, dove la biografia dell’autore si è espressa o mascherata, ma dove essa viene abolita in un “ senso”» 32.

2) Anche la concezione secondo la quale esistono proble­mi eterni ed imutabili, a cui la filosofia dovrebbe rispondere, è discutibile. I problemi che una filosofia si pone, anche nel caso in cui fossero ripresi da un’antica tradizione, partecipano della sua singolarità. Un grande filosofo è colui che, per la prima volta, si meraviglia di una certa modalità dell’essere al mondo e che, in virtù di ciò, sconvolge una problematica anteriormente posta. In questo senso i filosofi sono tra loro incommensurabili, si sarebbe addirittura tentati di dire che ogni filosofia è vera, nella misura in cui essa risponde inte­gralmente a quella costellazione di problemi che essa stessa ha aperto. Se la verità è stata classicamente definita come adeguazione del pensiero al reale, ora noi siamo in grado di

32 Ivi, p. 51.

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VERITÀ DEL METODO

fornire una nuova definizione della verità come adeguazio­ne delle risposte alle domande, delle soluzioni ai problemi, passando, in questo modo, da una concezione della verità come adeguazione ad una concezione della verità come sco­perta.

Arrivati a questo punto sembrerebbe che il concetto stesso di storia della filosofia sia stato gravemente compromesso: se le cose stanno come dice Ricoeur, non ci troviamo di fronte ad una storia della filosofia, ma ad una serie discontinua di totalità singolari. Le filosofie non sono più né vere né false, ma altre. Ciascun autore è inconfutabile, essendo Palterità di ogni filo­sofia al di là del vero e del falso. L’articolo di Ricoeur prosegue allora verso un aggiustamento dell’idea di verità-scoperta e una sua integrazione attraverso la nozione di verità intersoggettiva 33. Ciononostante, l’idea di verità-scoperta rimane basilare, perché la comunicazione intersoggettiva, e dunque la ricerca di un senso valido per tutti, è possibile solo sulla base del senso che la realtà ha per ciascuno.

5.2 La verità-scoperta come ciò che rivela e che trasforma

Un altro luogo in cui, a mio parere, compare il tema heideggeriano della verità come disvelamento, ma sempre con le opportune integrazioni, è costituito dalla riflessione di Ricoeur sulla metafora e sul racconto. Nel settimo studio de La métaphore vive34 Ricoeur elabora infatti il concetto di «verità metaforica». Il problema della verità della metafora, osserva Ricoeur, emerge nel momento in cui ci si interroga sulla refe­renza del metaforico e non più solo sulla forma della metafora, in quanto figura del discorso focalizzato sulla parola, oppure sul senso della metafora in quanto instaurazione di una nuova

33 Osserva Ricoeur: «La ricerca della verità - per parlare molto semplice- mente - è essa stessa tesa entro due poli: da un lato una situazione personale, dall’altro lato un’intenzionalità rivolta all’essere», ivi, p. 54.

34 P. R icoeur , Métaphore et référence, in La métaphore vive, Paris, 1975, pp . 273-321.

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TEORIA DELLA VERITÀ

pertinenza semantica. Interrogarsi sulla referenza della metafo­ra, sulla sua verità, significa indagare il potere che la metafora ha di ridescrivere la realtà e, dunque, di svelarne gli aspetti nascosti ed inimmaginati. La metafora, osserva infatti Ricoeur, nella misura in cui si rivela in grado di portare alla luce nuove ed insospettate modalità dell’essere al mondo, ha il potere di ridescrivere la realtà e di svelarne gli aspetti nascosti ed inimmaginati. Essa, dunque, ci introduce nella dimensione della verità intesa come scoperta e non come adeguazione ad un reale già dato.

La metafora contribuisce a ridescrivere la realtà, senza però voler dimostrare o provare nulla. Questo Ricoeur lo spiega molto bene attraverso un paragone, preso a prestito da Max Black, tra ruolo del modello nel linguaggio scientifico e ruolo della metafora nel linguaggio poetico. Scrive infatti Ricoeur:

La metafora è per il linguaggio poetico ciò che il modello è per il linguaggio scientifico quanto alla relazione al reale. Ora, nel linguaggio scientifico, il modello è essenzialmente uno strumento euristico che mira, attraverso la fiction, a infrangere una interpre­tazione inadeguata e ad aprire la strada ad una nuova interpreta­zione più adeguata. Nel linguaggio di un altro autore, vicino a M ax Black, Mary Hesse, il modello è uno strumento di ri-descri- zione.35

Conclude allora Ricoeur: «Il modello non appartiene alla logica della prova, ma alla logica della scoperta»36.

La verità della metafora è rivelazione e scoperta nella misura in cui apre un nuovo mondo di fronte a sé. Parlare di un mondo dell’opera, o del mondo che l’opera dischiude davanti a sé significa, innanzitutto, secondo Ricoeur, aver abbandonato la prospettiva psicologistica propria ad autori come Schleiermacher e Dilthey, per i quali l’interpretazione aveva innanzitutto come scopo quello di svelare l’intenzione dell’autore, ossia il «dietro» dell’opera. Al contrario, per Ricoeur, scopo dell’ermeneutica di

35 Ivi, p. 302.36 Ibid.

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VERITÀ DEL METODO

un testo deve essere quello di portare alla luce il «davanti» del testo, ovvero quella particolare modalità dell’essere al mondo che l’opera squaderna davanti a sé. In secondo luogo, parlare di un mondo dell’opera e della referenza metaforica significa combattere il pregiudizio scientista secondo cui solo agli enun­ciati scientifici sarebbe attribuibile una referenza alla realtà. Questo pregiudizio ha influenzato la stessa critica letteraria, secondo cui il mondo poetico avrebbe a che fare solo con l’interiorità, con l’emozione. Il linguaggio poetico, secondo questa prospettiva, sarebbe un linguaggio non referenziale e centrato su se stesso. Vi sono infatti alcuni autori che tendono a concepire il linguaggio poetico come un linguaggio che si limita a forgiare favole o finzioni, che non avrebbero alcun potere di descrizione del reale. La tesi di Ricoeur, al contrario, consiste nel ritenere che «la sospensione della referenza laterale è la condizione per­ché sia liberato un potere di referenza di secondo grado, che è propriamente la referenza poetica»37. L’eclissi della referenza ordinaria non costituisce l’annullamento di qualsiasi potere referenziale della metafora, ma la condizione stessa del dispiegamento di una potenza referenziale propria al discorso metaforico. In questo senso Ricoeur parla di una referenza sdop­piata e di una verità metaforica che deve essere intesa in maniera «tensionale». La verità metaforica ha un carattere tensionale per il fatto di essere costituita da una tensione tra verità metaforica e verità letterale. Il senso in cui si può parlare di verità metaforica viene in chiaro, secondo Ricoeur, se consideriamo il doppio senso della copula che, al tempo stesso, significa «non è» e «è come». Il «non è» esprime l’aspetto critico presente nella verità metaforica, mentre l’«è» ne esprime piuttosto la veemenza ontologica.

Per questi motivi il concetto di verità metaforica è molto vicino al concetto heideggeriano di verità come disvelamento. Anche se non vanno sottovalutate le importanti differenze tra le due nozioni.

37 Ivi, p. 11.

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TEORIA DELIA VERITÀ

Innanzitutto Ricoeur ha il merito di svincolare il concetto di verità-rivelazione da quel carattere unilaterale che gli aveva impresso Heidegger. Ricoeur valorizza l’idea di verità come disvelamento liberandola dalla portata escludente in cui l’aveva avvolta Heidegger: in Heidegger, infatti, la verità come concor­danza veniva pensata come una sorta di sostituito o di derivato rispetto alla verità-scoperta. Ricoeur, al contrario, concepisce il rapporto tra i due sensi della verità come un rapporto tra sensi diversi, ma allo stesso modo legittimi. In secondo luogo, e questo mi sembra particolarmente importante, la verità-sco­perta di Heidegger è, essenzialmente, una verità che rivela, mentre la verità metaforica di Ricoeur è una verità che rivela e trasforma al tempo stesso. In Ricoeur l’opera letteraria non solo rivela ciò che è dissimulato, ma trasforma il mondo del lettore attraverso un discorso che apre nuove possibilità. In questo consiste, infatti, la sua verità. In Heidegger, al contrario, c’è un primato dell’idea di rivelazione, per cui la verità viene pensata innanzitutto come un uscire dal nascondimento e dalla dissimulazione.

L’idea di verità-scoperta, intesa come verità che rivela e trasforma, entra in gioco anche a proposito della composizione narrativa, come ci spiega Ricoeur in Temps et récit, dove il mondo che il testo dispiega di fronte a sé viene ad interagire con il mondo del lettore, trasformandolo ed arricchendolo. Racconto e metafora, dunque, non servono a dimostrare nulla, ma solo a rivelare e a scoprire. Temps et récit prosegue l’inda­gine de La métaphore vive mostrando che se la poesia ha il potere di ridescrivere il mondo, così la narrazione lo re-signi- fica nella sua dimensione temporale.

Anche la narrativa può essere considerata un’attività pro­duttrice di verità se è vero, come Ricoeur afferma in Temps et récit, che i racconti hanno la virtù di porci di fronte a nuove possibilità esistenziali, aumentando così la nostra libertà. Il testo letterario dispiega un mondo di fronte a sé e il mondo che il testo dispiega interagisce con il mondo del lettore, trasforman­

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VERITÀ DEL M E ^ D O

dolo e arricchendolo. In questo senso si può dire che la lettura è ricerca, scoperta e, dunque, fonte di verità.

6. Primo bilancio provvisorio

In Ricoeur, dunque, compaiono tutti i sensi in cui Aristotele definisce il vero, eccetto uno: quello proprio alla sapienza (ossia alla scienza e all’intelletto). Questa mancanza è com­prensibile in Heidegger, che considera quel certo modo di concepire il vero come una sorta di deviazione rispetto al senso autentico della verità, ma non lo è più in Ricoeur, che rifiuta Punilateralismo heideggeriano, facendosi convinto assertore della plurivocità dell’idea di verità. Secondo Ricoeur vi sono molti sensi in cui qualcosa si dice vero e questi molti sensi si situano su piani diversi.

Se le cose stanno così, ci si può allora chiedere perché Ricoeur non inserisca, tra i vari sensi del vero, quello proprio alla sapienza, ossia il vero inteso come sapere necessario del necessario. La risposta a questo quesito è abbastanza semplice e relativamente banale: in realtà Ricoeur non esclude assolu­tamente il vero inteso come sapere necessario del necessario, ma, evidentemente, questo aspetto del vero non lo interessa in maniera diretta. La ricerca di Ricoeur infatti si è sempre indi­rizzata di preferenza verso tematiche aventi una certa pregnanza esistenziale o un certo rilievo morale. Minor interesse suscita­no in lui le tematiche di carattere squisitamente metafisico. Detto questo, però, occorre anche aggiungere che Ricoeur non esclude per nulla la metafisica. Per questi motivi quando Ricoeur ha affrontato tematiche relative all’ontologia lo ha fatto da antropologo e da moralista e, non, da metafisico. Questo non preclude allora che il suo discorso possa essere adeguatamente integrato sul piano metafisico, anzi, lo richie­de. Lo richiede perché Ricoeur esordisce nel dibattito con Canguilhem, Hyppolite e Foucault, che abbiamo sintetizzato, affermando di concepire la filosofia come lotta per la chiarez­za, la chiarificazione e la coerenza. Egli aggiunge anche, ri­spondendo a Foucault, che la coerenza costituisce per la filo­

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TEORIA DELLA VERITÀ

sofia il mezzo necessario, il cammino obbligato, che permette di distinguere questo sapere dalla poesia e dalla letteratura. Questa presa di posizione di Ricoeur in favore della coerenza come ideale regolativo della filosofia, nasce da un’esigenza legittima, che, però, richiederebbe un’adeguata fondazione. Si potrebbe infatti chiedere: perché preferire la coerenza all’inco- erenza? O ancora, più radicalmente: perché preferire la non contraddizione alla contraddizione? Perché il discorso filosofico deve essere coerente e non si deve contraddire? Che cos’è che impedisce la possibilità stessa della contraddizione? Rispondere a queste domande significa prolungare il discorso di Ricoeur attraverso un’integrazione di tipo metafisico, integrazione il cui contenuto ci è offerto dal quarto libro della Metafisica aristotelica. Vedremo, nelle prossime sezioni, quali siano le implicazioni epistemologiche ed ontologiche di questo giro di discorsi.

Abbiamo più sopra osservato che la teoria della verità in Ricoeur si caratterizza come una teoria che esclude i tentativi di escludenza: la verità ha molti sensi, secondo il nostro auto­re, e nessuno di essi va escluso in modo apriorico. Se le cose stanno così, si può certo concordare con tutti quegli studiosi del pensiero ricoeuriano38 che hanno sottolineato la necessità di integrare il suo discorso attraverso la metafisica e l’ontologia speculativa (attraverso, cioè, quella dimensione veritativa a cui allude Aristotele quando parla di scienza, intelletto e sapienza). Come risulta ormai chiaro dalla nostra analisi, infatti, il pen-

38 Penso, tra gli altri, a Maurizio Chiodi, Peter Joseph Albano, David Tracy e Rosaire Bergeron. Chiodi ha osservato che «la progressione etica-ontologia- teologia manca in Ricoeur dell’anello intermedio che radicalmente, a livello ontologico, fondi la struttura del rapporto tra l’uomo e Dio, sul cui compimen­to evenemenziale la teologia si incarica di riflettere criticamente» (M. C hiodi, Il cammino della libertà. Fenomenologia, ermeneutica, ontologia della libertà nella ricerca filosofica di Paul Ricoeur, Brescia, 1990, p. 555, nota 82). Albano, che ha tentato di integrare tra loro la prospettiva di Ricoeur e quella di Joseph Maréchal, scrive che «si deve fare della metafisica trascendentale per fondare l’ermeneutica. L’approccio di Ricoeur all’Essere attraverso una riflessione sui simboli può, mi sembra, e deve ricevere il complemento e la conferma di una metafisica trascendentale» (P.J. A l b a n o , Freedom, Truth and Hope. The Relationship o f Philosophy and Religion in the Thought o f Paul Ricoeur, Boston,

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VERITÀ DEL METODO

siero di Ricoeur è un pensiero che, per il suo carattere aperto e non escludente, si presta a questo tipo di integrazione.

Un problema si è però aperto in questi ultimi anni: Ricoeur ha avanzato una sua proposta ontologica, con la quale, dun­que, non erano riusciti a fare i conti tutti quegli autori che hanno tentato di integrare il pensiero ricoeuriano a partire dalla sua effettiva lacuna ontologica. Ora questa lacuna non si dà più, perché, in alcuni scritti recenti39, Ricoeur ha tentato di colmarla. Il compito che si pone, allora, oggi, allo studioso dell’opera di Ricoeur, è quello di riflettere sui risultati di questo tentativo che Ricoeur ha messo in atto. Compito che noi tenteremo di eseguire, almeno in parte, nell’ultima sezio­ne del presente lavoro, dedicata, appunto, all’ontologia e alla metafisica. Prima di affrontare questi temi, però, vedremo quali conseguenze abbia, a livello epistemologico, la mancata riflessione di Ricoeur sulle implicanze teoriche del principio di non contraddizione.

1987, p. 234). Tracy, a sua volta, sotiene che «l’approccio di Ricoeur all’essere attraverso una riflessione sui simboli può e deve essere sostenuta da una meta­fisica trascendentale quale giustificazione formale dei suoi fondamenti. Vicever­sa, l’approccio della metafisica tradizionale all’essere è necessariamente comple­tato da una fenomenologia dell’esperienza e da un’ermeneutica del linguaggio nella quale l’essere viene predicato in molti modi ma in relazione ad un Pri­mo...» (D. T racy, Blessed Rage for Order, New York, 1975, p. xvi). Bergeron che, come Albano, ha tentato di operare una sintesi tra il pensiero di Ricoeur e quello di Maréchal, nota che «Ricoeur vuole assicurare l’autonomia del pen­siero razionale, ma non essendo ancora riuscito ad elaborare una metafisica che colga l’unità del reale nelle sue diverse sfere, è costretto, malgrado le sue intenzioni, a legare la filosofia alla scienza sacra in modo tale che la rivelazione appaia come una condizione di possibilità della filosofia quanto al suo punto di partenza e al suo termine. [...] Noi abbiamo già segnalato delle vie d’accesso alla Trascendenza; qui rimarchiamo una dipendenza ambigua della verità razionale rispetto alla verità rivelata» (R. B ergero n , La vocation de la liberté dans la philosophie de Paul Ricoeur, Montréal-Fribourg, 1974, p. 249).

39 Vedi P. R icoeu r, Vers quelle ontologie?, in Soi- même comme un autre, Paris, 1990, pp. 345-410; Id., De la métaphysique à la morale, «Revue de métaphysique et de morale», n. 4, 1993, pp. 455-477; Id., De l’interprétation à la traduction, in P. R ico eu r - A. L aco cq u e , Penser la Bible, Paris, 1998, pp. 335-371.

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Parte seconda

EPISTEM OLOGIA

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INTRODUZIONE

Una delle opere maggiori di Ricoeur porta, significativa­mente, come titolo Le conflit des interprétations. Dico signi­ficativamente, perché l’intera speculazione ricoeuriana proce­de attraverso continue mediazioni di conflitti ermeneutici. Si potrebbe dire che Ricoeur possiede una naturale vocazione alla mediazione e alla sintesi e, in questo, egli lascia trasparire una evidente tendenza all’hegelismo, anche se di Hegel Ricoeur rifiuta l’idea della sintesi definitiva e del sapere assoluto. Ogni sintesi, secondo Ricoeur, è infatti provvisoria e sempre pronta ad essere a sua volta mediata.

Come esempi particolarmente significativi della strategia teorica ricoeuriana si possono considerare alcune opere quali Le volontaire et l ’involontaire, Le conflit des interprétations, Lectures on Ideology and Utopia, De l ’interprétation e Du texte à l ’action. Sarò molto succinto nel riassumere le prime tre opere che ho elencato, perché non risulta molto interes­sante ai fini della presente ricerca descriverne dettagliatamente il contenuto. Mi soffermerò invece su De l ’interprétation e su Du texte à l’action, per i motivi che verranno in chiaro in seguito. Nell’esposizione di Le volontaire et l ’involontaire, Le conflit des interprétations e Lectures on Ideology and Utopia, prenderò in considerazione soprattutto il metodo e la forma, ossia il modo in cui Ricoeur istituisce il confronto dialettico tra tesi opposte, senza entrare nel merito dei contenuti delle singole tesi.

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1. ALCUNI ESEMPI DI MEDIAZIONI DIALETTICHE

1. Le volontaire et l’involontaire è la prima opera di ampio respiro della vastissima produzione ricoeuriana. In essa vedia­mo già annunciarsi quella che costituirà una delle cifre della speculazione di Ricoeur: la mediazione dialettica di un con­flitto tra opposte interpretazioni, mediazione nella quale la filosofia è chiamata a svolgere un ruolo cardine.

In questo testo Ricoeur si propone di operare un prolun­gamento del metodo eidetico husserliano, al fine di uscire dalla dimensione ristretta della coscienza e di descrivere l’espe­rienza integrale del cogito, compreso il dominio, più oscuro, dell’esistenza corporale. Dice infatti Ricoeur: «l’esistenza del corpo è il fatto decisivo che ci ha costretti a superare il punto di vista delle essenze e ad illuminare la vita concreta»1. In questo modo Ricoeur si inserisce bene nella tradizione dei fenomenologi francesi, alla quale appartengono, tra gli altri, Merleau-Ponty e Sartre.

Per metodo eidetico Ricoeur intende fondamentalmente:a) un metodo che sia capace di operare una «messa tra

parentesi del fatto e l’affiorare dell’idea, del senso»2. In que­sto sta il significato del termine «eidetico»: il metodo eidetico è, infatti, un metodo che ha come scopo quello di cogliere le essenze (eidos) costitutive della soggettività, ossia di descriver­ne le strutture e le possibilità fondamentali;

b) un metodo che sia capace di differenziarsi dalla sua matrice husserliana, ancora gravata dal dualismo cartesiano di

1 P. R icoeur, Le volontaire et l ’involontaire, Paris, 1950, p. 129.2 Ivi, p. 7.

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VERITÀ DEL METODO

anima e corpo, per accedere ad un’esperienza integrale del cogito. In questo senso, il metodo eidetico di Ricoeur viene a differenziarsi anche dal metodo delle scienze sperimentali e della psicologia empirista, che considerano il corpo nella sua oggettività, riducendo gli atti a fatti e prescindendo dalla considerazione della soggettività che pone questi atti;

c) un metodo che sia in grado, attraverso la descrizione, di ricondurre ad unità i vari fenomeni umani, ossia di com­prendere le funzioni parziali alla luce della funzione centrale, perché «l’uno è la ragione del molteplice»3.

Ricoeur, dunque, sente l’esigenza di integrare il metodo fenomenologico husserliano attraverso una riflessione più generale sul senso dell’esistenza umana, riflessione che sia in grado di gettare luce sull’esistenza incarnata, articolando la fenomenologia su di un terreno esistenziale. Come egli dice nell’introduzione all’opera che stiamo prendendo in esame, occorre integrare il rigore formale e metodologico che trovia­mo nella fenomenologia di Husserl con la ricchezza di conte­nuti che ci fornisce l’esistenzialismo, in particolare quello marceliano, alla cui scuola Ricoeur si era formato4.

Il problema che sì affaccia sin dalle prime battute, in questo tentativo di ampliamento dell’analisi eidetica husserliana mes­

3 Ivi, p. 9.4 L’applicazione del metodo eidetico al di fuori del dominio classico della

fenomenologia husserliana non è stata, in Ricoeur, priva di ricadute sul metodo stesso. Patrik L. Bourgeois ha messo bene in evidenza la differenza essenziale tra le posizioni di Husserl e di Ricoeur riguardo a questo tema: «Secondo Ricoeur, Husserl considera i processi affettivi e volitivi della soggettività umana come fondati sulla rappresentazione. Ciò rende la rappresentazione primaria e fon­dante e questi processi fondati. Ricoeur considera il ruolo della rappresentazio­ne essere esattamente l’opposto. La rappresentazione non è la prima funzione ma la seconda. La prima e la primaria è il desiderio, lo sforzo, la volontà, mentre la rappresentazione è fondata. Questo rovesciamento rende queste fun­zioni fondanti e la rappresentazione prende il carattere di realtà fondata. L’in­terpretazione di Ricoeur allora prende il tono di un movimento che va dalla rappresentazione fondata al desiderio e allo spirito che la fondano. Secondo Ricoeur è questo modo di vedere che rende Husserl colpevole di un primato del sapere teoretico o di ciò che Ricoeur chiama il suo «logicismo» o pregiudizio logicistico» (P.L. B ourgeois, Extension o f Ricoeur’s Hermeneutics, The Hague, 1975, pp. 5-6.)

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EPISTEMOLOGIA

so in atto da Ricoeur, è il seguente: allargare i confini della fenomenologia classica alla dimensione della corporeità, dell’in­conscio, del carattere, significa far entrare in conflitto il me­todo eidetico con le metodologie delle altre scienze che hanno in precedenza indagato questi campi, in particolare, le scienze sperimentali. Ricoeur ammette l’esistenza di questa difficoltà, quando riconosce che «il corpo è conosciuto meglio come oggetto empirico elaborato per mezzo delle scienze sperimen­tali» 5.

Il conflitto tra l’interpretazione della corporeità portata alla luce dalle scienze oggettive e quella propria, invece, alla fenomenologia consiste nel fatto che per la prima l’uomo si presenta come un oggetto naturale sottoposto alle leggi deterministiche della natura, mentre la seconda vede in esso un soggetto personale cosciente e libero. Questo conflitto è tanto più grave quanto più è l’unità stessa dell’uomo ad esserne minacciata.

Ricoeur tenta una soluzione della contrapposizione metodologica tra fenomenologia del corpo proprio e scienze sperimentali attraverso una strategia di tipo dialettico, che vedremo mettere in atto più volte, nelle opere successive, tanto da costituire un vero e proprio tratto caratterizzante del suo stile di pensiero. Ricoeur, innanzitutto, riconosce i reciproci diritti e la rispettiva utilità di ciascuna delle due strategie teoriche in conflitto, precisando che i due discorsi non possono essere considerati né semplicemente coincidenti, né puramente eterogenei, né addizionabili l’un l’altro. Precisato questo, egli mette in campo il suo tentativo di dialettizzazione.

Quel che è dato osservare, nella strategia teorica ricoeu­riana, è che il discorso oggettivo delle scienze sperimentali costituisce una sorta di antitesi rispetto alla tesi filosofica in­genua del soggetto personale cosciente e libero, antitesi rispetto alla quale la filosofia si riscatta affermando, ad un livello superiore, il concetto di una libertà conscia dei propri limiti. Tutto questo, però, avviene senza che al processo dialettico

5 Ricoeur, Le volontaire et l’involontaire, cit., p. 12.

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<*»■VERITÀ DEL METODO

venga attribuito un andamento di carattere necessario: la dia­lettica messa in atto da Ricoeur è una dialettica aperta e scevra da pretese sistematiche. La sua è, in altri termini, una ripresa di Hegel che tiene conto di tutte le critiche contemporanee alPhegelismo. Ecco infatti come si esprime il nostro filosofo a proposito della dialettica tra filosofia e scienze sperimentali:

Certamente io devo rinunciare ad armonizzare all’interno di un sapere coerente l’esperienza soggettiva del volere e la conoscen­za oggettiva dell’organizzazione. E necessario rinunciare a con­ciliare in un unico universo di discorso le nozioni del Cogito e quelle della biologia, che appartengono a due universi di discor­so incomparabili. E solo all’interno del Cogito che si accordano misteriosamente volere, involontario relativo ed involontario as­soluto; ma questo patto misterioso è indicibile direttamente. M a rimane possibile offrire alla conoscenza oggettiva e costrin­gente una funzione secondaria di indice o di segno per dire la posizione subordinata della vita nell’edificio della coscienza... Noi diciamo che la vita è la condizione sine qua non della volontà e della coscienza in generale. 6

Dunque, per Ricoeur, la necessità, l’involontario non co­stituiscono un limite esterno, che si oppone alla coscienza e la limita, ma, al contrario, rappresentano una dimensione interna alla coscienza e alla libertà. Questo punto è decisivo: ciò significa, infatti, che i due tipi di discorso, quello della scienza e quello della filosofia, non sono reversibili e che, dunque, la dialettica tra i due ha, fin dall’inizio, un andamen­to ed una direzione ben precisi. La necessità diventa condizio­ne stessa della libertà. Ricoeur fa dunque uso del metodo dialettico hegeliano, ponendo il momento oggettivo nel ruolo di antitesi rispetto al discorso riflessivo che prende le mosse dal cogito cosciente e libero. Afferma infatti Ricoeur: «E l’espe­rienza totale del Cogito che dichiara l’esperienza della neces­sità come parziale» 7. Il ruolo subordinato affidato al punto di vista naturalistico rispetto a quello fenomenologico viene giustificato in questo modo:

6 Ivi, p. 395.7 Ivi, p. 397.

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EPISTEMOLOGIA

Si passa dal punto di vista fenomenologico al punto di vista naturalistico, non per inversione dall’interno all’esterno, ma per degradazione sia dell’interno che dell’esterno. [...] Non si può dunque andare dal corpo-oggetto al corpo-soggetto che per mez­zo di un balzo che trascenda l’ordine delle cose, mentre si va dal secondo al primo per diminuzione e soppressione, essendo questa diminuzione e soppressione legittime per il tipo di interesse rap­presentato dalla costituzione della scienza empirica come sapere di fatti.8

La conoscenza dei fatti empirici va inquadrata, secondo Ricoeur, all’interno di una conoscenza del loro significato complessivo.

2. La prima parte de Le conflit des interprétations raccoglie, sotto il titolo Ermeneutica e strutturalismo, tre articoli pubbli­cati tra il 1963 e il 1967 9. Attraverso questi tre articoli Ricoeur cerca di mediare dialetticamente un altro genere di conflitto ermeneutico, quello che si instaura, relativamente allo studio del linguaggio, tra filosofia riflessiva del linguaggio e scienza oggettiva del linguaggio.

Ricoeur, innanzitutto, elucida i termini dell’antinomia. Secondo la filosofia, il linguaggio costuituisce l’atto di un sog­getto e la sua funzione è quella di dire qualcosa a qualcuno relativamente a qualcosa. Esso è, dunque, un’espressione avente un senso, una referenza ed un referente. Per la filosofia, allora, l’essenza del linguaggio risiede nella soggettività.

Nella prospettiva propria alla linguistica, invece, il lin­guaggio costituisce un oggetto. Non a caso la linguistica strut­turale ha come proprio atto fondatore la distinzione e la dissociazione tra la lingua, ovverosia il linguaggio, inteso come

8 Ivi, pp. 14-15.9 Essi sono: Structure et herméneutique, originariamente Symbolique et

temporalité in Ermeneutica e tradizione (Atti del Congresso internazionale, Roma, gennaio 1963), «Archivio di Filosofia», diretto da E. Castelli, n. 3 , 1963, pp. 12-31; Le problème du double-sens comme problème herméneutique et comme problème sémantique, in «Cahiers internationaux du symbolisme», n. 12, 1966, pp. 59-71; La structure, le mot, l ’évenement, «Esprit», maggio 1967, pp. 801- 821. Ora i tre articoli sono raccolti nella prima parte di P. R ico eu r , Le conflit des interprétations, Paris, 1969.

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VERITÀ DEL METODO

sistema o come codice impersonale, e la parola, termine con cui viene indicato l’uso soggettivo del linguaggio. La lingua, secon­do la linguistica strutturale, costituisce un sistema chiuso, nel quale il valore delle unità di base, che costituiscono il sistema, è determinato esclusivamente in funzione del posto che esse occupano alPinterno del sistema. In altri termini, la lingua costituisce un sistema autonomo, che si definisce e comprende attraverso i suoi propri termini, ossia un sistema che non ha più esterno, ma solo interno, che non si riferisce ad un mondo che esiste al di fuori di esso. Lo strutturalismo, inoltre, subordina la linguistica diacronica, intesa come scienza dei cambiamenti e delle evoluzioni della lingua, alla linguistica sincronica, intesa come scienza degli stati di sistema.

Da queste poche battute già si comprende la radicalità dell’opposizione tra linguistica strutturale e filosofia del lin­guaggio: per la linguistica strutturale infatti il linguaggio non possiede né un soggetto, né un’intenzionalità, né un referente, né una referenza, al contrario di quanto invece accade nella filosofia del linguaggio.

Ricoeur tenta, anche in questo caso, un’opera di arbitrag­gio, che faccia leva sulla dialettizzazione dei termini in conflit­to. Se ne Le volontaire et l ’involontaire egli aveva ammesso la necessità di riconoscere l’importanza del momento scientifico- oggettivo, ai fini di una migliore comprensione della coscienza soggettiva e del tipo di libertà di cui essa gode, così, ora, egli riconosce l’imprescindibilità della comprensione del linguag­gio messa in opera dalla linguistica strutturale. Nel riconoscere il ruolo dello strutturalismo Ricoeur entra in polemica con Merleau-Ponty, secondo il quale il solo punto di vista possibile sul linguaggio è quello del soggetto parlante. Contro Merleau- Ponty, accusato di aver falsato il senso della linguistica saussuriana, Ricoeur afferma la necessità di prendere sul seriolo strutturalismo.

Una volta riconosciuta l’importanza della linguistica strut­turale Ricoeur propone il recupero della fenomenologia lin­guistica, al di là della critica che ne aveva fatto lo struttura­

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EPISTEMOLOGIA

lismo. Il momento astratto, costituito dall’analisi scientifica, viene allora superato e conservato nella sintesi finale, nella quale la tesi iniziale viene recuperata ad un livello più alto. Il fine di Ricoeur è, infatti, quello di elaborare una fenomeno­logia rinnovata dal confronto con lo strutturalismo.

Anche in questo caso, come nel caso delle analisi svolte ne Le volontaire et Vinvolontaire, filosofia e linguistica non ven­gono né poste in antinomia, né convertite l’una nell’altra, ma dialettizzate.

Ricoeur osserva, innanzitutto, che la semantica e la semio­logia operano a «livelli strategici diversi»10, poiché, mentre la scienza linguistica procede per analisi, la filosofia del linguaggio procede per sintesi11.

I due tipi d’approccio critico al linguaggio si incontrano nella frase. La frase, infatti, rappresenta un sistema semiologico, che il soggetto riattiva a fini semantici, impiegando i segni per dire qualcosa. La lingua, in sé, non rappresenta altro che un sistema potenziale di significazione, che diventa significante solo all’interno della frase, ossia dell’istanza di discorso.

Analogamente a quanto avveniva nel caso precedentemen­te esaminato12, il rapporto tra il linguaggio della filosofia ed il linguaggio di tipo oggettivista non è un rapporto simmetrico

10 E R icoeur , Le conflit des interprétations, Paris, 1969, p. 64.II Ecco come si esprime Ricoeur: «La via del’analisi e la via della sintesi

non coincidono, non sono equivalenti: sulla via dell’analisi si scoprono gli elementi della significazione, che non hanno più alcun rapporto con le cose dette; sulla via della sintesi, si rivela la funzione della significazione che è di dire, e in ultima istanza di “mostrare”» ivi, p. 65.

u Anche G. Brent Madison ha rilevato un’analogia tra il metodo impiega­to da Ricoeur, al fine di conciliare il conflitto tra le prospettive oggettivistiche della scienza sperimentale e della linguistica strutturalista, e le prospettive di tipo riflessivo, proprie alla fenomenologia della corporeità e alla filosofia del linguaggio. Ecco, infatti, come si esprime lo studioso: «Uno degli interessi maggiori dell’opera di Ricoeur, è che si trova in essa la preoccupazione costante di precisare il “luogo” del discorso filosofico, a partire da II volontario e l’in­volontario dove l’analisi riflessiva del pensiero fenomenologico è confrontata con le spiegazioni oggettiviste dell’uomo, sino alle riflessioni più recenti sulla scienza oggettiva del linguaggio. Ciò che unisce la scienza oggettiva dell’uomo (biologia, psicologia, ecc.) e lo studio oggettivo del linguaggio e che le mette

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VERITÀ DEL METODO

e biunivoco, come infatti Ricoeur ammette esplicitamente: «nel movimento di andata e di ritorno tra analisi e sintesi, il ritorno non è equivalente all’andata»13.

3. In Lectures on Ideology and Utopia14 Ricoeur svolge l’analisi delle nozioni di ideologia e di utopia, articolandole dialetticamente entro un’unica struttura concettuale. Anche in questo caso i due poli della relazione dialettica sono ricondu­cibili, rispettivamente, alla modalità conoscitiva dell’apparte­nenza (l’ideologia) e al sapere critico (l’utopia).

L’ideologia, secondo Ricoeur, ha a che fare con la struttu­ra simbolica della vita sociale, struttura simbolica che risulta operante anche nella più primitiva forma di azione. Ricoeur considera questa funzione dell’ideologia più radicale di quella di dissimulazione e di distorsione messa in luce da Marx. L’ideo-

tutte e due in conflitto con la filosofia, è che in esse non vi è spazio per ciò che, nella filosofia, è giustamente al centro delle riflessioni - la soggettività» (G.B. M a d is o n , R icoeur et la non-philosophie, «Laval théologique et philosophique», ni, ottobre 1973, p. 228). Ricoeur, nota ancora Madison, «ri­fiuta le pretese totalitarie del linguaggio oggettivista, accordando ad esso una validità limitata. Lo fa concependo questo linguaggio come una parte dialettica di un discorso più comprensivo (quello che ad esso accorda la sua autonomia interna, per così dire), un discorso dove giustamente ciò che è in questione è la comprensione di sé. La conoscenza dei fatti empirici deve essere subordinata ad una comprensione del loro senso. [...] La posizione che Ricoeur assume a riguardo del discorso oggettivista è, dal punto di vista della sua forma, identico a quella che prenderà più tardi relativamente allo strutturalismo e allo studio oggettivo del linguaggio» (ivi, p. 232). Madison conclude allora il suo studio osservando che il fine di Ricoeur «è la difesa e la giustificazione del discorso filosofico contro la speculare emersione dell’oggettivismo e della sua tendenza a monopolizzare la totalità del discorso vero» (ivi, p. 237).

Le analisi del Madison, però, non vengono prolungate all’analisi del con­flitto tra interpretazione archeologica e interpretazione teleologica del simboli­smo religioso e dell’ulteriore conflitto che si instaura, a livello metodologico, tra comprensione e spiegazione. Quest’ultimo conflitto, come vedremo, risulta della massima importanza, perché esso costituisce il conflitto decisivo, quello, cioè, che si instaura tra le strategie teoriche stesse che stanno alla base di tutti gli altri conflitti ermeneutici che Ricoeur ha sin qui esaminato.

13 P. R icoeur , Le conflit des interprétations, cit., p. 78.14 P. R icoeur , Lectures on Ideology and Utopia, New York 1986; trad. it.

(da cui citiamo) di Giuseppe Grampa e Claudio Ferrari Conferenze su Ideologia e Utopia, Milano, 1994.

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EPISTEMOLOGIA

logia acquista il suo ruolo più significativo in relazione al problema della legittimazione del potere e della struttura ge­rarchica della vita sociale. Il luogo privilegiato del pensiero ideologico è infatti la politica. Rifacendosi alle analisi di Max Weber Ricoeur osserva che nessun sistema di potere, nemme­no il più brutale, si fonda solo sulla forza e la dominazione. Ogni sistema di potere fa ricorso anche al consenso e alla cooperazione, vuole che il proprio potere sia riconosciuto perché la sua autorità è legittima. Ed è compito dell’ideologia legittimare questa autorità. Osserva Ricoeur:

L’ideologia deve superare il divario che caratterizza il processo di legittimazione avanzata dall’autorità e la credenza in tale legittimità offerta dai cittadini. Il divario si verifica perché mentre la credenza dei cittadini e la pretesa dell’autorità dovrebbero corrispondere al medesimo livello, l’equivalenza tra credenza e pretesa non è mai del tutto attuale ma piuttosto sempre più o meno un prodotto culturale.15

L’ideologia passa dall’integrazione alla patologia e alla distor­sione quando cerca di colmare il divario tra autorità e domi­nazione.

Il termine «utopia», etimologicamente, sta ad indicare ciò che non ha luogo nella realtà. L’utopia rappresenta una sorta di luogo che non ha luogo in nessun luogo reale: è uno spazio vuoto dal quale possiamo guardare a noi stessi. Lo sguardo esterno che ci è possibile gettare sulla nostra realtà a partire da questo «non luogo» ce ne rivela gli aspetti insoliti e per niente scontati: esso rappresenta dunque il terreno adatto per modi di vita alternativi. Anche per l’utopia, come per l’ ideo­logia, il problema decisivo è quello del potere. L’ideologia tende a legittimare un sistema di potere, mentre il ruolo del­l’utopia consiste nel far vedere che il divario di credibilità esistente in tutti i sistemi di potere supera sia la nostra fiducia in tali sistemi che la nostra credenza nella loro legittimità. Anche l’utopia, come l’ideologia, può diventare patologica: la

15 Ivi, p. 21.

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VERITÀ DEL METODO

patologia dell’ideologia è la dissimulazione, la patologia del­l’utopia è l’evasione. L’utopia può divenire un pretesto per evitare le responsabilità, le contraddizioni e le ambiguità im­plicate dal misurarsi con le difficoltà reali di una data società e con l’assunzione di autorità in una data situazione. L’utopia, per evitare la deriva patologica, deve rifuggire dalla logica del tutto o niente. Se l’utopia riesce ad essere sana essa diventa capace di svolgere una funzione importante nei confronti della patologia del pensiero ideologico, «il quale è cieco e angusto proprio per la sua incapacità a concepire un non luogo»16. Viceversa, una sana ideologia può preservare il pensiero utopico dall’evasione e dalla fuga deresponsabilizzante nel­l’immaginazione.

16 Ivi, p. 26.

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2. IL CONFLITTO TRA INTERPRETAZIONE ARCHEOLOGICA E INTERPRETAZIONE TELEOLOGICA

DEL SIMBOLISMO RELIGIOSO

Premessa

Affronteremo ora con più attenzione e con maggiore dovizia di particolari un altro conflitto ermeneutico, quello che Ricoeur prende in esame in De l’interprétation e ne Le conflit des inteprétations. Si tratta del conflitto che si instaura tra lo stile ermeneutico di tipo archeologico, che trova i suoi paradigmi nelle filosofie di Nietzsche, Marx e Freud e lo stile ermeneutico di tipo teleologico, che ha invece i suoi modelli nella fenomenologia dello spirito di Hegel e nella filosofia della religione di Mircea Eliade.

L’interpretazione archeologica ha come obiettivo quello di spiegare il fenomeno religioso, ossia di riportare la religione alle cause che l’hanno prodotta: Freud, infatti, riduce la reli­gione alla sua funzione economica, così come Marx aveva ridotto la cultura ad un semplice epifenomeno della struttura di produzione. In questo senso è facile cogliere la parentela tra l’interpretazione archeologica del fenomeno religioso, l’in­terpretazione scientifica del fenomeno della corporeità umana e l’intepretazione strutturalista dei fenomeni linguistici. Tutte queste ermeneutiche trovano il loro paradigma nel metodo esplicativo, di cui tratteremo nell’ultimo capitolo di questa seconda parte.

L’interpretazione teleologica, al contrario di quella archeo­logica, si propone piuttosto di comprendere il fenomeno re­ligioso che di spiegarlo, essa non riporta la religione alle sue cause, ma la riferisce al suo oggetto intenzionale. Anche in questo caso è agevole scoprire una parentela tra l’interpreta-

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zione teleologica del simbolismo religioso, la fenomenologia del corpo proprio e la filosofia del linguaggio. Tutte queste in- terpretazioni hanno il loro paradigma comune nel fenomeno della comprensione, di cui tratteremo nell’ultimo capitolo di questa seconda parte, unitamente a quello della spiegazione.

Nel presente capitolo affronteremo il problema del con­flitto archeologia-teleologia, premettendo il senso generale, gli obiettivi e l’angolo visuale specifico di ciascuno dei due stili ermeneutici. L’attenzione particolare che dedichiamo al conflitto tra archeologia e teleologia è dovuta al fatto che, dall’analisi della mediazione che Ricoeur ne opera, viene più chiaramente alla luce l ’esigenza di un approfondimento epistemologico della struttura della mediazione dialettica in quanto tale.

1. Interpretazione archeologica e interpretazione teleologica del simbolismo religioso

Le conflit des interprétations, testo pubblicato da Ricoeur nel 1969, raccoglie numerosi saggi apparsi in alcune riviste negli anni immediatamente precedenti la pubblicazione del libro. Di particolare interesse per la nostra riflessione risulta­no essere i due saggi dal titolo Herméneutique des symboles et réflexion philosophique17. Entrando nello specifico della sua ricerca, che ha come oggetto il problema del male e della simbolica attraverso cui questa problematica è stata espressa, Ricoeur nota che il conflitto tra i miti relativi al senso del male invita la filosofia «a tentare il passaggio da una semplice esegesi dei miti ad una filosofia che parta dai simboli»18. Ricoeur, comunque, nel compiere questo passaggio, afferma testualmente:

VERITÀ DEL METODO I

17 P. R icoeur , Herméneutique des symboles et réflexion philosophique i e n, in Id., Le conflit des interprétations, Paris, 1969, pp. 283-329.

18 Ivi, p. 292.

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EPISTEMOLOGIA

io non abbandono affatto, da parte mia, la tradizione di razio­nalità che anima la filosofia a partire dai greci; non si tratta affatto di cedere a non so quale intuizione immaginativa, ma invece di elaborare dei concetti che comprendano e che facciano comprendere, dei concetti legati tra loro secondo un ordine sistematico, anche se non all’interno di un sistema chiuso. Ma si tratta al tempo stesso di trasmettere, per mezzo di questa elaborazione razionale, una ricchezza di significato che c’era già, che ha sempre preceduto l’elaborazione razionale.19

La filosofia costituisce comunque, a suo modo, un comin- ciamento: essa, pur riprendendo enigmi che la precedono, rappresenta un cominciamento, quanto a ricerca d’ordine e ad esigenza di sistematicità. Il compito difficile della filosofia consiste nel conciliare la ricchezza di senso, fornita dal prefilosofico, ed il rigore proprio del discorso filosofico, giac­ché questi due aspetti tenderebbero ad essere inversamente proporzionali.

L’interesse di Ricoeur si è concentrato, nel corso di nume­rosi scritti, sul problema dei simboli del male, considerati però come un caso particolare del simbolismo religioso nel suo complesso. La simbolica del male è, infatti, sempre la contropartita di una simbolica della salvezza. Inoltre, l’erme­neutica del male, lungi dall’essere una provincia indifferente dell’ermeneutica, risulta invece essere, a detta di Ricoeur, la più significativa e, forse, il luogo stesso dove sorge il proble­ma ermeneutico.

Occorre, però, essere avvertiti che non è possibile affron­tare il problema della simbolica del male attraverso la stru­mentazione di una teoria generale dell’interpretazione o dei canoni generali per l’esegesi: abbiamo a che fare solamente con delle teorie ermeneutiche opposte e separate. E per que­sto che Ricoeur affronta, fin dall’inizio, il problema del con­flitto tra le due interpretazioni che rappresentano i massimi

19 Ibid.

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opposti all’interno del campo ermeneutico, ossia quella pro­pria alla fenomenologia della religione e quella psicoanalitica.

Nel tentativo di mettere bene a fuoco il problema, Ricoeur evidenzia quelle che sono, a suo avviso, le presupposizioni fondamentali della fenomenologia della religione e ad esse oppone le tre ipotesi di lavoro della psicanalisi, relative al fenomeno religioso.

Innanzitutto, la fenomenologia della religione si propone piuttosto di descrivere che di spiegare. Spiegare significhereb­be infatti riportare il fenomeno religioso alle sue cause, men­tre descrivere significa riferire il fenomeno religioso al suo oggetto. A questo primo tratto caratterizzante della fenomeno­logia della religione Ricoeur oppone il tratto corrispondente dell’ermeneutica freudiana, ossia la definizione del fenomeno religioso attraverso la sua funzione economica, anziché attra­verso il suo oggetto intenzionale.

In secondo luogo, la fenomenologia della religione vede, nel riempimento della intenzione significante dei simboli, una sorta di «verità» del simbolo. A questo secondo tratto si op­pone l’idea freudiana secondo cui la cosiddetta verità dei sim­boli non sarebbe altro che un’illusione.

Infine, vi è una filosofia del linguaggio implicita alla fenomenologia della religione, secondo la quale il linguaggio religioso è parlato agli uomini, piuttosto che parlato dagli uomini. In questo senso la filosofia implicita alla fenome­nologia della religione costituisce, in qualche modo, una ri­presa della teoria della reminiscenza. A questo terzo tratto si può facilmente opporre la tesi freudiana del ritorno del ri­mosso.

Fenomenologia della religione e psicoanalisi ricoprono lo stesso dominio: ciascuna di esse pretende di inglobare, inter­pretare e comprendere il tutto dell’uomo. Non c’è alcuna speranza di poterle distinguere in base al loro dominio reci­proco; semmai, se è possibile intravedere un limite proprio alle due interpretazioni, questo limite è piuttosto costituito dall’angustia dei reciproci punti di vista.

VERITÀ DEL METODO

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EPISTEMOLOGIA

2, I maestri del sospetto

Come esempio di un’ermeneutica demistificatrice abbiamo finora citato solo la psicoanalisi freudiana, ma Ricoeur, oltre ad opporre a Freud l’ermeneutica restauratrice del senso, in­serisce la psicoanalisi in un insieme definito complessivamente come «scuola del sospetto» dove, accanto a Freud, trovano posto anche M arx e Nietzsche. Vi sono, infatti, due diverse concezioni dell’interpretazione: quella demistificatrice e quella restauratrice, ma, al tempo stesso, ciascuna di esse comprende nel suo seno teorìe interpretative diverse e spesso in aperto conflitto tra loro.

Non c’è dubbio che le teorie di Marx, Nietzsche e Freud,i tre grandi maestri che dominano la cosiddetta «scuola del sospetto», si escludano reciprocamente. Ciò che comunque interessa Ricoeur non sono tanto le loro differenze, ma piutto­sto l’articolazione delle loro diverse prospettive teoriche, all’in- terno di un unico metodo demistificatore, che si può comples­sivamente opporre ad una fenomenologia del sacro, global­mente intesa come propedeutica ad una rivelazione del senso.

Marx, Nietzsche e Freud hanno in comune l’intenzione di considerare innanzitutto la coscienza come falsa coscienza: essi sono accomunati dalla decisione di sospettare sempre la presen­za di una menzogna dietro tutte le presunte verità, anche se è profondamente diverso il modo in cui, ciascuna volta, il sospet­to viene esercitato da ciascuno dei tre autori. Ricoeur, giusta­mente, osserva che l’operazione dei «Maestri del sospetto» con­siste, essenzialmente, in un procedere con Cartesio oltre Cartesio. Il dubbio, che Cartesio aveva rivolto alle cose, viene ora rivolto alla coscienza stessa, ossia al cuore stesso della fortezza cartesiana. Cartesio di tutto dubitava, tranne che del fatto che la coscienza apparisse a se medesima tale e quale essa è: dopo Marx, Nietzsche e Freud anche quest’ultima certezza viene revocata.

Occorre però osservare, nota Ricoeur, che «questi tre maestri del sospetto non sono tre maestri di scetticismo»20.

20 R R icoeur , De l’interprétation. Essai sur Freud, Paris, 1 9 6 5 , p . 4 1 .

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VERITÀ DEL METODO

La distruzione, come insegna Heidegger, è un momento di una nuova fondazione, essa permette di liberare l’orizzonte per lasciar spazio ad una parola più autentica. Come Cartesio ha superato il dubbio sulle cose attraverso l’evidenza della coscien­za, Marx, Nietzsche e Freud superano il dubbio sulla coscienza attraverso un’esegesi del senso. In tutti e tre questi autori la coscienza risulta essere qualcosa di diverso rispetto a ciò che essa crede di essere; l’esercizio in cui essi si impegnano diviene allora quello di comprendere la relazione tra ciò che è mani­festo e ciò che invece viene dissimulato. Essi sono alla ricerca di «una scienza mediata del senso, irriducibile alla coscienza immediata del senso»21. Tutti e tre sono accomunati dal ten­tativo di opporre alle astuzie del lavoro di occultamento, messo in atto dalla volontà di potenza, dall’essere sociale, dallo psichismo inconscio; delle astuzie ancora maggiori, volte però a smascherare ciò che prima era stato mascherato. Ciò che li distingue è «l’ipotesi generale concernente al tempo stesso il processo della falsa coscienza ed il metodo di decifrazione» 22.

Tutti e tre, inoltre, mirano ad un’estensione della coscienza attraverso la sua critica: M arx vuole liberare la prassi attraver­so la conoscenza della necessità, Nietzsche mira ad un aumento della potenza dell’uomo, ad una restaurazione della sua forza, Freud vuole rendere l’analizzato più libero e più felice, attra­verso l’allargamento del suo campo di coscienza e l’ap­propriazione di un senso che fino a quel momento gli dimorava estraneo. Gli autori che stiamo considerando mirano tutti a svelare la necessità e la realtà nuda attraverso lo smascheramento delle illusioni, necessità che assume i contorni del «principio di realtà» in Freud, della necessità compresa in Marx e dell’eterno ritorno in Nietzsche.

21 Ivi, p. 42.11 Ibid.

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EPISTEMOLOGIA

3. Composizione del conflitto ermeneutico e ruoloarbitrale del discorso filosofico

Arrivato a questo punto Ricoeur fa un’importante afferma­zione, su cui dovremmo riflettere a lungo nella parte critica del presente studio. Dice infatti il nostro autore: «Noi non ci possiamo accontentare d’una semplice giustapposizione tra que­sti due stili interpretativi; occorre articolarli l’uno sull’altro e mostrarne le loro funzioni complementari»23. Il problema, qui, risiede, come già annunciato nella parte introduttiva, nel com­prendere lo statuto epistemologico del discorso filosofico, in rapporto a quello delle interpretazioni, relativamente alle quali esso si pone in una funzione, per così dire, arbitrale. Si tratta, insomma, di rendere ragione di questo autoporsi della filosofia ad un livello privilegiato rispetto alle varie interpretazioni che entrano in conflitto tra loro. Perché, come risulta chiaro, Ricoeur, implicitamente, afferma che il discorso che articola l’uno sull’altro i due stili interpretativi in oggetto, mostrandone le loro funzioni complementari, non può, a sua volta, essere, esso stesso, un semplice stile interpretativo, alla stregua degli altri due. Se così fosse, alle due interpretazioni del simbolismo religioso che Ricoeur ha considerato, se ne sommerebbe una terza, avente lo stesso valore veritativo delle altre due. In questo modo, però, il conflitto ermeneutico, anziché ricevere la sua soluzione e la sua composizione, verrebbe ulteriormente complicato24.

23 E R icoeur , Le conflit des interprétations, cit., p. 318.24 Questo problema è stato rilevato anche da altri autori. Le loro riflessio­

ni, però, si limitano in genere ad un’analisi del conflitto ermeneutico prodotto dallo scontro tra l’interpretazione archeologica e quella teleologica del fenome­no religioso. Il problema, in altri termini, non è stato mai inquadrato nel contesto generale, che è quello dei vari conflitti qui esaminati e del loro riferirsi tutti, in ultima analisi, al conflitto tra comprensione e spiegazione. Osserva ad esempio Marco Buzzoni: «Ricoeur mostra d’intendere l ’opposizione fra ermeneutica demistificatrice ed ermeneutica del sacro come “necessaria”. [...] Occorre a questo punto chiedersi da quale prospettiva sia stata possibile quella ricomposizione delle ermeneutiche opposte che Ricoeur pretende d’aver realiz­zato, occorre cioè sollevare il quesito concernente lo statuto gnoseologico del

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■*VERITÀ DEL M ETODO

Ricoeur ritiene che entrambi gli stili interpretativi siano legittimi, ciascuno nel suo rango. L’articolazione delle due in­terpretazioni avviene a livello del rapporto tra coscienza e inconscio. La critica freudiana, secondo Ricoeur, non ha affat­to eliminato la coscienza ed il suo punto di vista, ma, al contrario, ne ha rinnovato il senso. Freud non nega la co­scienza, ma il narcisismo della coscienza, la sua pretesa di autotrasparenza. Dopo Freud occorre dire che la coscienza non è più la prima realtà ad essere conosciuta, ma l’ultima. Occorre andare verso la coscienza, piuttosto che partire dalla coscienza. Ma, al tempo stesso, bisogna riconoscere che la psicoanalisi freudiana non permette di dare delle risposte esaustive al problema della coscienza. Essa non ci consente, infatti, di comprendere come l’uomo esca dalla sua infanzia per divenire adulto e di capire quali siano le figure, le imma­gini e i simboli che guidano la maturazione e la crescita del­l’individuo. A questo livello è necessario l’impiego di un’altra ermeneutica, che ci permetta di scoprire nuove figure e nuovi simboli, che non risultino, a loro volta, essere radicati nel suolo libidinale. A questo scopo Ricoeur individua un utile strumento nella fenomenologia dello spirito hegeliana: è qui, infatti, che troviamo dei simboli che attraggono la coscienza in avanti, oltre la sua fase infantile. Nella fenomenologia dello spirito la coscienza viene decentrata in maniera diversa rispet-

discorso che riconcilia le ermeneutiche rivali. Ora, considerare questo discorso come in linea di principio indistinguibile da ogni ermeneutica particolare (per esempio da quella freudiana) conduce in effetti a sostenere che non esiste conflitto ermeneutico privilegiato (in questo caso, infatti, l’opposizione fra ermeneutica demistificatrice ed ermeneutica restauratrice cederebbe il posto ad un conflitto fra tre ermeneutiche, e il tentativo ripetuto di risolvere questo conflitto genererebbe evidentemente un’infinità di ermeneutiche rivali). Sennonché, ciò a rigore equivale a sostenere un relativismo integrale e dunque, in contrasto con l’intento perseguito da Ricoeur, toglie la possibilità in linea di principio di dirimere il conflitto delle ermeneutiche» M. B u zzo n i, Paul Ricoeur. Persona e ontologìa, Roma, 1988, pp. 39-40.

Osservazioni analoghe vengono svolte da P. W elsen in Philosophie und Psychoanalyse. Zum Begriff der Hermeneutik in der Freud-Deutung Paul Ricoeurs, Tübingen, 1986, opera che viene citata anche da Buzzoni.

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EPISTEMOLOGIA

to a quanto avveniva nella psicoanalisi. Anche per quanto ri­guarda la fenomenologia dello spirito vale il principio secondo cui la coscienza non si conosce essa stessa fin dall’inizio. La coscienza, al fine di autoriflettersi come un Sé umano, adulto, etico, deve incontrare ed appropriarsi di una serie di sfere di senso delle quali la filosofia dello spirito compie l’inventario e l’esegesi. Questo processo non rappresenta per nulla un feno­meno della coscienza immediata e, quindi, non può essere definito come una figura di quel narcisismo di cui la psicanalisi ha svolto una corretta e necessaria critica: qui il centro focale del Sé non è costituito dall’ego psicologicamente inteso, ma dallo spirito, ossia dalla stessa dialettica delle sue figure. La coscienza non rappresenta altro che l’interiorizzazione del mo­vimento dialettico delle figure dello spirito, movimento che può essere rintracciato attraverso un’ermeneutica delle strutture oggettive delle istituzioni, dei monumenti, delle opere d’arte e della cultura.

A questo punto possiamo quindi dire che, se la coscienza non riceve mai il suo vero senso in una psicologia della co­scienza immediata, essa lo riceve, invece, attraverso il tragitto lungo che attraversa il territorio delle diverse metapsicologie. Esse, infatti, consentono di comprendere il movimento di decentramento del soggetto, diretto sia verso l’inconscio della metapsicologia freudiana, sia verso lo spirito della metapsico- logia hegeliana. La dualità di queste due interpretazioni è il riflesso di due movimenti diretti in senso contrario: un movi­mento analitico e regressivo verso l’inconscio ed un movi­mento sintetico e progressivo verso lo spirito. Da un lato, nella fenomenologia hegeliana, ciascuna figura riceve il suo significato da quella che la segue, e la fine rende intelligibile l’inizio. Dall’altro lato, nella psicoanalisi freudiana, la com­prensione procede attraverso un’eziologia dei fenomeni con­sci, che tende a riportarli sempre al loro radicamento pulsio- nale e libidinale.

Gli stessi simboli possono sopportare un duplice ordine di interpretazioni, in quanto il primo si propone come compito

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quello di compiere una riesumazione di figure che si situano sempre dietro la coscienza; mentre il secondo tenta un’esplo­razione di quelle figure che si situano oltre la coscienza e che l’attraggono in avanti. Lo spirito rappresenta l’ordine dell’ul­timo, l’inconscio rappresenta l’ordine del primordiale.

4. Fenomenologia dello spirito e fenomenologia della religione

La fenomenologia dello spirito non può essere, ovviamen­te, confusa o addirittura identificata con una fenomenologia della religione. La Fenomenologia dello Spirito di Hegel ter­mina nel sapere assoluto ed il Sacro, di cui parla Ricoeur, non può essere pensato come una sorta di sostituto del sapere assoluto. Secondo Ricoeur il Sacro deve prendere il posto del sapere assoluto, perché un sapere assoluto non è possibile, ma, allo stesso tempo, il Sacro non può sostituire il sapere assoluto, perché lo scarto tra le due forme di conoscenza è netto ed insopprimibile.

Vediamo dunque, in dettaglio, le ragioni che Ricoeur porta a sostegno di questa sua tesi che, ad un tempo, nega la possi­bilità di un sapere assoluto à la Hegel ed afferma l’irriducibilità del Sacro al sapere assoluto.

La ragione principale che impedisce la realizzazione di un sapere assoluto è costituita, secondo Ricoeur, dal problema del male. Dice testualmente Ricoeur che

il fallimento di tutte le teodicee, di tutte le sistemazioni teoriche relative al problema del male, testimonia lo scacco del sapere assoluto nel senso hegeliano del termine. Tutti i simboli danno a pensare, ma i simboli del male mostrano in modo esemplare che c’è sempre di più nei miti e nei simboli che in tutta la nostra filosofia; e che una interpretazione filosofica dei simboli non diverrà mai conoscenza assoluta.25

VERITÀ DEL METODO

25 P. R i c o e u r , Le conflit des interprétations, cit., p. 328.

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EPISTEMOLOGIA

Il Sacro è inoltre irriducibile al sapere assoluto, perché nel sapere assoluto tutte le mediazioni vengono compiute all’inter­no di una totalità onnicomprensiva, mentre nel Sacro la fine è soltanto promessa attraverso i simboli: il senso del sacro non è dato, ma promesso all’interno di una dimensione escatologica. Esso pertanto non potrà mai essere trasformato in conoscenza e gnosi.

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3. SPIEGARE E COMPRENDERE NEI TRE CAMPI DELLA TEORIA DEL TESTO, DELL’AZIONE

E DELLA STORIA

Premessa

Siamo ora giunti ad un punto decisivo della nostra analisi.Il conflitto tra spiegare e comprendere, infatti, non si pone allo stesso livello di quelli sinora esaminati, perché, mentre fino a questo momento ci siamo occupati di conflitti tra interpre­tazioni rivali, che si fondavano su opposte strategie metodolo­giche, ora giungiamo a prendere in esame il conflitto tra le prospettive metodologiche stesse, su cui i diversi conflitti er­meneutici si fondano.

La strategia dialettica che Ricoeur impiega per comporre questo conflitto è simile a quella messa in atto nei casi pre­cedenti: vengono, innanzitutto, messi in luce i limiti di una comprensione che non sia ancora entrata in sintesi con il momento esplicativo; in seguito, la comprensione viene recu­perata ad un livello superiore, in quanto sintesi di sé e del suo altro, ossia in quanto comprensione che ha saputo inglobare, come suo momento essenziale, l’angolo prospettico proprio alla spiegazione.

Comprensione e spiegazione costituiscono approcci com­plementari e coessenziali: essi testimoniano, infatti, di due tendenze fondamentali dello spirito umano, nel suo processo di conoscenza della realtà e di appropriazione dell’universo simbolico e culturale. La comprensione testimonia di una ap­partenenza del nostro essere all’essere, appartenenza che pre­cede qualsiasi opposizione di un soggetto ad un oggetto, mentre la spiegazione rende conto del movimento di distanzia-

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zione, attraverso il quale questa relazione di appartenenza cede il passo al processo di oggettivazione proprio delle scienze.

La contrapposizione tra spiegare e comprendere nasconde un conflitto che è, al tempo stesso, epistemologico ed onto­logico. La posta in gioco è la frattura epistemologica tra scien­ze della natura e scienze dell’uomo. L’introduzione del con­cetto di «comprensione» risponde all’esigenza di rivendicare l’irriducibilità e la specificità delle scienze dell’uomo, mentre, l’affermazione che esiste solo una metodologia esplicativa, sta dalla parte della tesi che afferma la continuità epistemologica tra scienze della natura e scienze dell’uomo.

Secondo Ricoeur risultano molto significative le aporie che sono emerse, attraverso tragitti del tutto indipendenti, all’interno delle tre problematiche del testo, dell’azione e della storia. Tutte queste aporie conducono a rimettere in discussio­ne il dualismo metodologico tra spiegare e comprendere, per sostituire una fine dialettica all’alternativa brutale tra i due termini.

1. La teoria del testo

La teoria del testo è particolarmente significativa per la nostra problematica, perché la semiologia ha introdotto, nella stessa teoria del testo, dei metodi esplicativi. Questi metodi seguono un modello strutturale, che riposa su delle correlazioni stabili tra unità concrete.

Per quanto riguarda il racconto ci sono, da un lato, coloro che ritengono che ad esso non vada posta alcuna questione riguardante l’intenzione dell’autore, la recezione da parte dei lettori o il senso complessivo dell’opera, inteso come qualcosa di distinto dalla forma. Tutte queste problematiche sarebbero di carattere psicologistico, mentre avrebbe un senso solo l’ana­lisi dell’intreccio dei codici messi in opera dal testo. Dall’altro lato, invece, ci sono coloro i quali vedono nell’analisi struttu­rale una oggettivazione estranea al messaggio del testo, il quale è inseparabile dall’intenzione del suo autore. Per essi la com­

VERITÀ DEL METODO

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EPISTEMOLOGIA

prensione consiste, appunto, nello stabilire una comunicazione tra l’intenzione autentica dell’autore ed il lettore.

A questa reciproca esclusione Ricoeur oppone, come ab­biamo anticipato sopra, una concezione dialettica del rappor­to tra comprensione e spiegazione, relativamente alla teoria del testo. La comprensione fa appello alla spiegazione: il pas­saggio attraverso la spiegazione, e, quindi, attraverso un’anali­si strutturale del racconto, che ne metta in luce i vari codici, permette alla comprensione di mediarsi attraverso la spiegazio­ne e di sollevarsi, da un primo livello ingenuo, al livello più elevato della comprensione colta. A sua volta la spiegazione richiama la comprensione. La spiegazione mette a nudo il funzionamento dei codici di un testo, riducendo il testo ad una semplice variabile di un sistema che ha perso la sua attua­lità. L’analisi strutturale, però, non avrebbe alcuna ragione di essere, se prima il racconto non fosse stato scritto da qualcu­no per qualcun’altro, se esso non fosse lo strumento attraver­so cui una comunità si interpreta per via narrativa. Occorre, dunque, in tendere la com prensione in m aniera non psicologistica. La comprensione non è, come riteneva Dilthey, comprensione d’altri, come se si trattasse sempre e comunque di afferrare dietro un testo una vita psicologica estranea. Ciò che va afferrato, al di là del testo, non è, innanzitutto, il chi parlante, ma il tipo di mondo che viene dispiegato di fronte al testo.

2. L a teorìa dell’azione

Pur non essendo gli stessi autori ad essersi interessati alla teoria dell’azione e pur non essendo le stesse problematiche ad essere state sollevate, il dibattito sull’azione ha condotto alle stesse aporie a cui ha condotto quello sulla teoria del testo.

E. Anscombe, nell’opera Intention, riprende la teoria dei giochi di linguaggio, per mostrare come, il discorso che parla di eventi accadenti nella natura e quello che parla di azioni

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•4FVERITÀ DEL M ETODO

intraprese dagli uomini, non facciano parte dello stesso gioco di linguaggio. Quando si parla di eventi entrano in gioco nozioni quali quelle di causa, legge, fatto, spiegazione etc.; mentre, quando si parla di azioni, si ha a che fare con concetti quali quelli di progetto, d’intenzione, di motivo, di ragione d ’agire etc. Il compito della filosofia è quello di riconoscere e distinguere tra loro i giochi di linguaggio, oltre che di pre­servarne la differenza, dal momento che nessun gioco di lin­guaggio ha un diritto maggiore di un altro. In questo senso viene rifiutata una concezione della filosofia come scienza che ha il compito di articolare, gerarchizzare ed organizzare il sa­pere ed i giochi di linguaggio eterogenei.

Ricoeur oppone alle analisi della Anscombe due generi di argomenti.

Il primo consiste nel rilevare che non esiste opposizione tra motivo e causa. Si dovrebbe piuttosto dire che motivo e causa si trovano ai due estremi di una scala sulla quale si situail fenomeno umano. I motivi che guidano le nostre azioni sono più o meno razionali, più o meno condizionati da una causalità di tipo esteriore. Tutti i motivi incoscienti di tipo freudiano sono, ad esempio, molto prossimi alle cause fisiche. Vi sono, poi, dei motivi puramente razionali, come quelli che guidano il giocatore di scacchi nelle sue mosse. Il duplice aspetto del desiderio, che si presenta, al tempo stesso, come forza che spinge o che muove e come ragione dell’agire, sta alla radice dell’opposizione che facciamo tra una causa che si può spiegare ed una ragione che va compresa. Questa oppo­sizione rimane, comunque, astratta, poiché la realtà umana presenta, piuttosto, una combinazione di questi due estremi nell’ambiente propriamente umano dell’azione: essa appartie­ne, al tempo stesso, al regime della causalità e della motiva­zione e, dunque, anche ai due domini metodologici della spie­gazione e della comprensione.

Il secondo argomento si appoggia su alcune considerazio­ni di von Wright, relativamente alle condizioni dell’inserimen­to dell’azione umana nel mondo.

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EPISTEMOLOGIA

Von Wright cerca di concepire l’articolarsi dell’azione umana nel mondo a partire dalla teoria dei sistemi e dalla nozione di sistema chiuso. A partire dal concetto di sistema parziale chiuso von Wright critica la nozione di determinismo universale: le relazioni causali, che conducono un sistema da uno stato iniziale ad uno stato finale, sono infatti asimmetriche, poiché le con­dizioni sufficienti dell’ordine progressivo non possono essere scambiate contro le condizioni necessarie dell’ordine regressivo. Un sistema chiuso è costituito da un incatenamento di fasi, ciascuna delle quali apre svariate alternative nell’ordine pro­gressivo.

L’azione umana interviene nello stato delle cose esercitan­do un potere che produce lo stato iniziale di un sistema par­ziale chiuso, dando così origine ad un movimento. Ora, il nostro poter fare noi lo conosciamo attraverso un sapere senza osservazione, come ha a suo tempo osservato E. Anscombe. Qui siam o dunque di fronte ad un interessante caso d’intersezione, poiché la nozione di poter fare è assolutamen­te irriducibile ad un sapere esplicativo, ma, al tempo stesso, essa diventa essenziale all’interno della teoria dei sistemi chiu­si, funzionanti attraverso un processo causale. Vi è, cioè, un’intersezione tra teoria dei sistemi e teoria dell’azione, che fa appello ad un’intersezione di metodi. Senza la nozione di poter fare, infatti, risulta impossibile identificare lo stato ini­ziale di un sistema, isolarlo e definirne le condizioni di chiu­sura. A sua volta, poi, l’azione programmata esige, per poter essere definita, la concatenazione specifica dei sistemi sui quali essa interviene.

Giungiamo, in questo modo, a formulare la nozione di «intervento nel corso delle cose», la quale implica, assieme, una teoria dei sistemi, elaborata attraverso una metodologia esplicativa, e la nozione di motivazione, colta attraverso una criteriologia di tipo comprensivo.

Queste analogie tra la teoria del testo e la teoria dell’azio­ne non devono stupire perché, secondo Ricoeur, in un certo senso l’azione è un testo. Come un testo si fissa nella scrittu-

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VERITÀ DEL METODO

ra, così l’azione si esteriorizza e si stacca dal suo agente, acquisendo un’autonomia, simile all’autonomia semantica di un testo. Il senso dell’azione, così come il senso di un testo, può, allora, essere reinscritto in nuovi contesti ed essere oggetto di molteplici letture. D ’altro canto occorre osservare che molti testi (se non tutti, perlomeno quelli appartenenti al genere del racconto) hanno come oggetto l’azione umana.

3. L a teoria della storia

Anche la teoria della storia ha forti legami con la teoria del testo e con la teoria dell’azione, poiché la storia rappre­senta una sorta di racconto vero, che si rapporta alle azioni svolte dagli uomini nel passato. Per questo motivo il metodo storico cumula di fatto i tratti caratteristici dell’una e dell’al­tra metodologia.

Anche per quanto riguarda il metodo del sapere storico ci troviamo di fronte a due teorie che si oppongono tra di loro e che appartengono, rispettivamente, al campo della com­prensione e a quello della spiegazione.

Da un lato, troviamo alcuni storici di lingua inglese, in­fluenzati da Collingwood, ed altri di lingua francese, quali Raymond Aron ed Henry Marrou, influenzati a loro volta dalla sociologia comprensiva tedesca di Rickert, Simmel, Dilthey e Weber. Tutti questi autori privilegiano un approccio di tipo comprensivo, sottolineando come la storia abbia a che fare con delle azioni umane, che sono guidate da motivazioni, progetti ed intenzioni, che vanno comprese attraverso un movimento intropatico, che coinvolga la soggettività stessa dello storico.

Dall’altro lato, invece, incontriamo le procedure esplicati­ve della cosiddetta storiografia scientifica, di cui fa parte, ad esempio, la scuola analitica di lingua inglese che si ispira a Cari Hempel e alla sua nota opera del 1942, dal titolo The Function o f General Laws in History. Secondo questa scuola la spiegazione storica segue lo schema della spiegazione di un

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EPISTEMOLOGIA

evento fisico, dove si deduce un evento dalla congiunzione di due premesse: quella relativa alle condizioni iniziali, che han­no prodotto quel determinato evento, e quella relativa alla legge generale, che garantisce quella certa regolarità in cui è implicato l’evento considerato.

Ricoeur, di fronte a quest’ultima prospettiva, ha buon gioco nel dimostrare la debolezza scientifica delle leggi generali invocate dallo storico, mentre rimprovera alla prospettiva opposta la mancanza di un momento critico, all’interno di una teoria che si basa, quasi esclusivamente, su di una relazio­ne immediata di intropatia.

La mediazione tra le posizioni delle due scuole può essere ottenuta, secondo Ricoeur, attraverso l’introduzione di un nuovo elemento: la competenza specifica richiesta dal seguire una storia. Questa competenza richiama immediatamente la comprensione e, a sua volta, la comprensione spontanea di primo grado richiede l’ulteriore sviluppo della spiegazione, al fine di poter essere ancora rilanciata. Il momento non meto­dico costituito dalla comprensione si compone con il momen­to metodico costituito dalla spiegazione, poiché la compren­sione precede, accompagna, chiude, ed in qualche modo rive­ste, la spiegazione; mentre, dal canto suo, la spiegazione ha il ruolo di sviluppare analiticamente la comprensione 26.

26 L’esposizione della teoria ricoeuriana dei rapporti tra spiegazione e com­prensione si trova in P. R ic o e u r , D u texte à l ’action. Essais d ’hermeneutique, n, Paris, 1986, pp. 137-211.

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4. SECONDO BILANCIO PROVVISORIO

1. Bilancio storiografico

In questa seconda parte del nostro studio abbiamo analiz­zato le strategie teoriche che Ricoeur inette in atto per dialettizzare tra loro interpretazioni opposte.

Abbiamo osservato, inoltre, che, nel corso dei vari conflit­ti, erano sempre le stesse strategie ermeneutiche a confrontar­si tra di loro: da un lato uno stile interpretativo improntato al metodo esplicativo e, dall’altro lato, una prospettiva erme­neutica di matrice comprensiva. Per questo, l’ultimo dei con­flitti teorici esaminati, quello tra spiegazione e comprensione, è risultato il più radicale, in quanto esso incarna il conflitto tra le metodologie stesse che stanno alla base degli altri conflitti ermeneutici.

Due sono le caratteristiche di questa dialettica che vor­remmo evidenziare:

1) il debito di Ricoeur nei confronti della tradizione ermeneutica, da un lato, e di quella riflessiva e neokantiana dall’altro.

2) Il rapporto tra la dialettica ricoeuriana e quella hegeliana.

1.1 La filosofia come discorso sut limiti e sullo spazio di validità delle varie interpretazioni ingaggiate nel conflitto: kantismo ed ermeneutica

Ricoeur ha testimoniato e riconosciuto, a più riprese, il suo debito teorico da un lato nei confronti della tradizione

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*VERITÀ DEL M ETODO

francese del pensiero riflessivo e, dall’altro lato, nei confronti della fenomenologia e dell’ermeneutica. Il seguente passo è uno dei molti che sono lì a dimostrarlo: «Mi piacerebbe», afferma Ricoeur, «caratterizzare la tradizione filosofica a cui mi richiamo attraverso tre tratti: essa si situa sulla linea della filosofia riflessiva, dimora nella movenza della fenomenologia husserliana; vuole essere una variante ermeneutica di questa fenomenologia» 11.

La tradizione del pensiero riflessivo francese necessita di essere qui brevemente rievocata, data la sua minore notorietà rispetto alle altre due grandi tradizioni sopra menzionate. Quando Ricoeur parla di pensiero riflessivo ha in mente au­tori come Lachelier e Lagneau, che egli ha conosciuto attra­verso la mediazione di Jean Nabert, il più noto tra i filosofi della riflessione. M a che cos’è la riflessione e in che cosa consiste il metodo riflessivo? Osserviamo, innanzitutto, che il discorso riflessivo è un discorso che non vuole essere né di­mostrativo né oggettivo, nel senso proprio che rivestono que­sti termini nella tradizione teorica della filosofia e della scien­za occidentali. La filosofia, in quanto riflessione, mostra, ma non dimostra. La riflessione infatti può essere considerata un processo di mediazione, dove però la mediazione non è intesa come dimostrazione, ma come duplicazione dell’immediato, cioè come riappropriazione dell’immediato attraverso un ri­torno su di esso, cioè attraverso una ri-flessione.

Ricoeur ha adottato la definizione nabertiana della rifles­sione; dunque, il significato che riveste questa nozione nel pensiero di Ricoeur, è identico a quello che troviamo negli scritti di Nabert. Secondo Nabert l’atto fondamentale del pensiero è costituito dal giudizio, dunque da un’operazione, o meglio da un’azione di pensiero. Ciò che mette in opera la riflessione, in Nabert, è il fatto che i nostri atti di pensiero sono dimenticati, in quanto atti, nel loro risultato che è l’og-

27 P. R ic o e u r , D u texte à l ’action. E ssa is d'herm éneutique II, Paris, 1986, p . 2 5 .

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EPISTEMOLOGIA

getto, come se questo atto venisse in qualche modo assorbito dal suo oggetto. Il compito fondamentale della riflessione diviene, allora, quello di andare alla ricerca delPatto di perce­pire nell’oggetto percepito.

In che cosa consiste allora il valore aletico della riflessio­ne? E chiaro, a questo punto, che qui non ci troviamo di fronte ad una verità dell’oggetto, ma alla verità degli atti. La verità della riflessione consiste nel riconoscere la dimensione del soggetto come agente, in quanto il soggetto possiede la virtù dell’intenzionalità ed è, allo stesso tempo, capace di ri­flettere sulla propria intenzione e, dunque, di recuperarsi come atto che si perde nel suo oggetto.

Oltre a questo significato del termine riflessione, ne tro­viamo un altro in Ricoeur, che per certi versi se ne allontana e, per certi altri, gli è prossimo. In De l ’interprétation e ne Le conflit des interprétations la riflessione, o discorso riflessivo, viene definito come quel discorso che è, in qualche modo, in grado di fare da mediatore tra interpretazioni opposte, in particolare, per quanto riguarda quel caso specifico, tra l’in­terpretazione archeologica {o demistificatrice) del simbolismo religioso e quella teleologico-restauratrice. La riflessione mo­stra l’unilateralità di entrambe le prospettive ermeneutiche, spingendo l’una interpretazione verso l’altra e mostrando come ciascuna di esse implichi già di per sé l’altra.

In questo caso riflettere significa riflettere sui limiti e sullo spazio di validità di un certo discorso o di un numero di concetti. Nel conflitto delle interpretazioni la riflessione svol­ge il ruolo di mediatrice, in quanto essa è in grado di mostra­re che una data interpretazione è valida entro certi limiti e che le sue condizioni di validità sono anche le condizioni determinanti i limiti della sua validità. Tutti i discorsi che si possono fare sono determinati da una condizione di finitudine e sono preceduti da una fase di precomprensione. La riflessio­ne ha il ruolo di mettere in luce tutti questi aspetti.

Se il primo dei due sensi della riflessione, ossia la rifles­sione intesa come riflessione sulla componente d’atto di tutte

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VERITÀ DEL METODO

le nostre operazioni di pensiero, è preso a prestito dal pensie­ro di Nabert, viceversa, l’eredità gadameriana e quella naber- tiana si incrociano in quello che è il secondo dei significati della nozione di riflessione in Ricoeur, ossia la riflessione sui limiti di validità di un discorso. Gadamer, infatti, ha insistito nel sottolineare la finitudine della comprensione, concetto che egli ha ereditato da tutta la tradizione ermeneutica. L’eredità gadameriana e quella nabertiana danno origine, in Ricoeur, ad una sorta di neokantismo, poiché la finitezza della conoscen­za, nel senso ermeneutico, ed i limiti della conoscenza, nel senso riflessivo, sono, alla fine, la stessa cosa: dire che la comprensione è sempre finita, è come dire che qualsiasi co­noscenza è sempre limitata.

Il neokantismo in cui confluiscono l’insegnamento di Nabert e quello di Gadamer non rappresenta altro, a mio parere, che una ripresa della filosofia trascendentale kantiana, intesa ap­punto come riflessione sui limiti e lo spazio di validità di un certo discorso o di un certo numero di concetti. Il livello trascendentale del discorso filosofico, però, non si pone sullo stesso piano degli altri livelli del discorso filosofico. La filoso­fia, in quanto essa arbitra il conflitto tra ermeneutica archeo­logica ed ermeneutica teleologica, mostrando a ciascuna delle due parti in conflitto la limitatezza della sua prospettiva, non può porsi sullo stesso piano di questi due stili interpretativi in conflitto, pena l’impossibilità di un arbitraggio.

Volendo fare il punto su quanto detto finora potremmo osservare che gli elementi che entrano in gioco, nel conflitto delle interpretazioni, sono tre:

1) L’interpretazione scientifica di un determinato fenome­no (sia essa la considerazione scientifica del corpo proprio, la linguistica strutturale, la psicoanalisi e quant’altro). Questo tipo di ermeneutica si ispira al modello epistemologico di tipo esplicativo.

2) L’interpretazione filosofica dello stesso fenomeno (sia essa la fenomenologia del corpo proprio, la filosofia del lin­

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EPISTEMOLOGIA

guaggio, la fenomenologia dello spirito o della religione). In questo caso abbiamo a che fare con delle prospettive teoriche che sono in relazione, invece, con uno stile ermeneutico ba­sato sulla comprensione.

3) Il discorso filosofico in quanto discorso di tipo trascen­dentale, che opera la mediazione del conflitto ermeneutico che si instaura tra le due precedenti interpretazioni.

Ricoeur, dunque, si pone il problema di regolare il conflit­to ermeneutico attraverso un discorso che si ponga in qualche modo ad un livello diverso da quello a cui si situano le diverse interpretazioni. Questo discorso dovrebbe godere, quindi, di uno statuto epistemologico privilegiato rispetto a quello delle pure interpretazioni. A questo punto, allora, dovrebbe diven­tare compito del lettore di Ricoeur proseguire oltre Ricoeur, cercando di capire in che cosa possa consistere questo tipo di discorso e che cosa dia ad esso il diritto di rivendicare un ruolo arbitrale all’interno del conflitto ermeneutico. M a noi lasciamo in sospeso questa interrogazione, limitandoci, per il momento, a fare un rilievo a nostro avviso strategico: già nel corso di questa analisi dello stile dialettico ricoeuriano abbia­mo incontrato una prima figura del discorso filosofico in quanto tale, mi riferisco cioè al discorso filosofico di tipo trascendentale, capace di mediare tra le diverse interpretazio­ni in conflitto. Non altrettanto si può dire, ovviamente, delle due interpretazioni ingaggiate nel conflitto, trattandosi, da un Iato, di un discorso di tipo scientifico-specialistico (scienza del corpo, linguistica strutturale, psicoanalisi) e, dall’altro lato, di un discorso filosofico che non è di filosofia generale, ma di filosofia speciale (fenomenologia del corpo proprio, filosofia del linguaggio, fenomenologia della religione).

Dunque, il primo aspetto sotto cui si presenta il discorso filosofico in quanto tale è quello del discorso di tipo trascen­dentale. Il modello fondazionale proprio a questo tipo di discorso è quello di matrice kantiana a cui faceva riferimen­to Habermas nei testi che abbiamo riportato nell’introdu­zione.

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VERITÀ DEL METODO

1.2 La dialettica di Ricoeur e quella di Hegel

Il pensiero di Hegel rappresenta uno dei punti di riferi­mento cardinali nella riflessione ricoeuriana: abbiamo visto, infatti, che Ricoeur, nel tentativo di comporre i conflitti ermeneutici con cui si trova ad aver a che fare, istituisce una dialettica che ricorda le movenze della dialettica hegeliana, la quale si scandisce nei tre momenti della tesi, dell’antitesi e della sintesi. Risulta allora quanto mai interessante istituire un confronto tra la dialettica messa in campo da Ricoeur e quella di Hegel, chiarendo quali siano i punti di contatto e quali le differenze essenziali.

Innanzitutto si potrebbe dire che, se da un lato la tenta­zione hegeliana è sempre presente nell’infaticabile lavoro di mediazione tra prospettive contrapposte che Ricoeur mette in atto28, dall’altro lato si deve riconoscere che Ricoeur ha sem­pre rifiutato l’idea hegeliana della conciliazione definitiva e del sistema compiuto29. Il nostro pensiero, secondo Ricoeur,

28 Osserva a questo proposito Kevin J. Vanhoozer: «Una delle caratteristi­che più impressionanti della filosofia di Ricoeur è precisamente questa abilità nel mediare opposizioni apparentemente irreconciliabili. [...] E tuttavia la me­diazione non è max totale, mai perfetta. Il dialogo tra filosofi e tra diverse discipline ha la verità come suo ideale regolativo, ma mai come suo possesso. La sìntesi finale è sempre rimandata. Hegel appare come il serpente nel giardino di Ricoeur, che Io istiga a mangiare all’albero della conoscenza assoluta, e che rappresenta la più grande prova e la più grande tentazione del filosofo». K.J. V a n h o o z e r , Biblical Narrative in the Philosophy o f Paul Ricoeur. A Study in Hermeneutics and Theology, Cambridge, 1990, p. S.

19 Theodoor Marius Van Leeuwen, uno studioso olandese del pensiero ricoeuriano, ha scritto: «La filosofia di Ricoeur è caratterizzata da una sorta di dialettica non conclusiva della speranza. Da un lato essa è animata da una speranza di significato. Ciò viene riflesso nei temi di un’affermazione originaria che fonda il desiderio, di un avvento del significato che supplisca all’infaticabile lavoro dell’interpretazione, di una riconciliazione finale che prevalga sulla radicalità del male. Ma tutto ciò rimane oggetto di speranza. La filosofia non può concepire il desiderio se non come non ancora soddisfatto, il conflitto delle interpretazioni se non come ancora irrisolto, il male se non come ancora non sopraffatto». T.M. V a n L eeu w en , The Surplus o f Meaning. Ontology and Eschatology in the Philosophy o f Paul Ricoeur, Amsterdam, 1981, p. 181. Qual­che pagina più sopra, sempre a proposito del conflitto delle interpretazioni, Van Leeuwen aveva scritto: «Come il conflitto del cuore non può essere sintetizzato,

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EPISTEMOLOGIA

non è in grado di porsi come padrone del senso. Due sono, infatti, gli scacchi fondamentali con cui il pensiero si trova a doversi confrontare e che gli impediscono qualsiasi progetto di ricapitolare il sapere in una sintesi definitiva: il problema del male e quello del tempo. In ciascuna di queste due realtà Ricoeur ravvisa l’esistenza di un fondo enigmatico e misterio­so che si sottrae alla chiarezza del concetto.

1.2.1 II pensiero di fronte all’enigma del maleL’enigma del male costituisce la pietra d’inciampo di ogni

pretesa di sistematizzazione del sapere. Osserva infatti Ricoeur:

Per quale motivo, in effetti, ci rifiutiamo di dire che la “fine” è sapere assoluto, adempimento di tutte le mediazioni in un tutto, in una totalità senza resto? Perché diciamo che questa fine non è che annunciata, promessa “per profezia” , nel linguaggio del Tractatus Theologico-Politicusì Perché restituiamo al sacro il posto che un sapere assoluto ha usurpato? Perché ci opponiamo alla conversione della fede in gnosi? Il motivo, assieme ad altri, per cui un sapere assoluto non è possibile, è il problema del male, quello stesso problema che fu il nostro punto di partenza e che ci è poco fa apparso come una semplice occasione per porre il problema del simbolo e delPermeneutica.30

L’hegelismo rappresenta, agli occhi di Ricoeur, il più gran­de tentativo di rendere razionalmente ragione del male. La negatività assicura alla dialettica hegeliana il suo dinamismo: essa costringe ciascuna figura dello Spirito a rovesciarsi nel suo contrario e a generare una nuova figura che insieme sop­prime e conserva la precedente. «La dialettica», spiega Ricoeur, «fa così coincidere in tutte le cose il tragico e il logico: è necessario che qualcosa muoia perché qualcosa di più grande nasca. In questo senso, il malheur è ovunque, ma ovunque

così il conflitto delle due direzioni verso cui muove l’interpretazione non trova mai conclusione. L’interpretazione rimane ad una certa distanza dall’essere e dalla verità». Ivi, p.132.

30 P. R ico eu r , De l’interprétation. Essai sur Freud, Paris, 1965, trad. it. di Emilio Renzi, Genova, 1991, p. 483.

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VERITÀ DEL METODO

superato nella misura in cui la riconciliazione vince sempre sulla lacerazione»31.

Ricoeur vede neü’hegelismo una ripresa del progetto leibni- ziano di una teodicea, con nuove risorse logiche e «con una bybris razionale forse ancor più grande»32. In Hegel il pantra- gismo viene superato e conservato nel panlogismo dove anche la sofferenza e il male diventano razionali. Ciò è possibile nella misura in cui si dissocia nel modo più radicale la riconci­liazione dalla consolazione rivolta all’uomo come vittima, come fa Hegel nell’Introduzione alle Lezioni sulla filosofia della sto­riar33. Nella filosofia hegeliana della storia è abolita la questio­ne della felicità individuale, ma è proprio questa abolizione che Ricoeur giudica intollerabile. Osserva infatti il nostro autore:

Per noi che leggiamo Hegel dopo le catastrofi e le sofferenze senza nome di questo secolo, la dissociazione operata dalla filo­sofia della storia tra consolazione e riconciliazione è divenuta una grande fonte di perplessità: più il sistema prospera, più le vittime vengono marginalizzate. La riuscita del sistema subisce il suo scacco. La sofferenza, attraverso la voce della lamentazione, è ciò che si esclude dal sistema.34

1.2.2 II pensiero di fronte all’inscrutabilità del tempo L’opera in cui Ricoeur mette a tema in maniera dettagliata

la problematica della temporalità è Temps et récit. Riprenden­do i momenti più significativi della speculazione filosofica sul tempo, da Agostino ad Aristotele, da Kant a Husserl e ad Heidegger, Ricoeur mira a porre in evidenza la grande massa di aporie che rimangono tutt’ora insolute a proposito di que­sta grande tematica. Il tempo nasconde sempre un fondo

31 P. R ico eu r , Le mal: un défi à la philosophie et à la théologie, in Id., Lectures 3. Aux frontières de la philosophie, Paris, 1994, p. 223.

32 Ivi, p. 224.33 Ricoeur fa riferimento alla nota sezione dell’Introduzione alle Lezioni

sulla filosofia della storia consacrata all’«astuzia della ragione», dove si dice che la sorte degli individui è interamente subordinata al destino dello spirito di un popolo (Volksgeist) e a quello dello spirito del mondo Zeitgeist).

34 Ivi, p. 225.

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EPISTEMOLOGIA

misterioso, impermeabile alla speculazione filosofica, come già Agostino aveva compreso quando scriveva: «Che cos’è il tem­po? Se nessuno me lo chiede, lo so; se qualcuno me lo chiede e io lo voglio spiegare, non lo so più».

L’aporia fondamentale e irriducibile, quella a cui la specu­lazione filosofica non è mai riuscita a dare una soluzione, è, secondo Ricoeur, l’aporia determinata dalla dicotomia che si viene ad instaurare tra il concetto cosmico e quello psicologi­co della temporalità. L’analisi storica che Ricoeur compie dei vari tentativi messi in atto dalla tradizione filosofica, al fine di investigare speculativamente la problematica del tempo, si con­clude con la constatazione che la dicotomia tra tempo del­l’anima e tempo del cosmo non è mai stata superata.

Se Agostino e Husserl da una parte e Aristotele e Kant dall’altra teorizzano, rispettivamente, il tempo dell’anima e il tempo della natura, il pensiero di Heidegger sembrerebbe invece, ad una prima riflessione, superare questa dicotomia, dal momento che l’oggetto di Sein und. Zeit non è costituito dall’analitica di un soggettività solipsisticamente intesa. Al contrario, all’esserci heideggeriano appartiene costitutivamente l’essere al mondo e, dunque, l’approccio heideggeriano al tempo, nella misura in cui ha in vista l’esserci, non può che porsi al di là delle contrapposizioni tra soggetto ed oggetto e tra psichico e cosmico.

Heidegger, però, nello svolgere questa sua indagine sul tempo, istituisce una frattura tra di essa e la concezione vol­gare e lineare, che considera il tempo in rapporto al movi­mento. Ricoeur, allora, individua proprio in questa difficoltà heideggeriana a rendere ragione fino in fondo della coscienza volgare del tempo, facendone la genesi, un’ulteriore manife­stazione di quella fondamentale aporeticità della temporalità che già era emersa dall’analisi delle riflessioni sul tempo di Aristotele, Agostino, Kant e Husserl.

Secondo Ricoeur la dicotomia tra la dimensione cosmica e quella psicologica della temporalità rimane in ultima analisi irriducibile sul piano teoretico, per cui diventa necessario far

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appello alla storia e alla soluzione che essa offre alle aporie della temporalità, attraverso l’elaborazione di un terzo tempo - il tempo storico - , che fa da mediatore tra tempo vissuto e tempo cosmico. Per dimostrare la sua tesi Ricoeur fa appello alle procedure di connessione, proprie alla pratica storica, che permettono la reiscrizione del tempo vissuto sul tempo cosmico. Tra i connettori più noti a cui Ricoeur fa riferimento troviamo il calendario, il susseguirsi delle generazioni, gli archi­vi, i documenti, le tracce ecc.

Accanto al tempo storico vi è, però, anche il tempo della fiction. II testo letterario, aprendo davanti a sé nuovi mondi, svelando dimensioni del reale sino a quel momento ignote, rifigura il mondo del lettore e modifica la sua maniera di interpretare il reale e, quindi, anche il passato. In questo sen­so è giusto dire che la finzione ha una certa presa sulla realtà. Inoltre, l’ immaginazione entra all’opera anche nel lavoro di ricostruzione del passato che è proprio dello storico.

Per questi motivi Ricoeur propone un incrocio tra la re­ferenza storica e quella di finzione, tanto che si potrebbe parlare, rispettivamente, di una finzionalizzazione della storia e di una storicizzazione della fiction.

Dall’incrocio tra le prospettive referenziali della storia e della fiction nasce il tempo umano, il tempo infatti diventa tempo umano nella misura in cui esso viene raccontato. Esso, però, non può mai venire totalizzato all’interno di una co­scienza storica unitaria, come aveva preteso di fare Hegel. Ciò che impedisce ogni progetto di totalizzazione è la libertà, imprevedibile e a volte bizzarro motore della storia, renitente a qualsiasi tentativo di previsione certa. Se una mediazione è possibile questa deve avvenire, secondo Ricoeur, nel campo pratico. Essa sarà dunque una mediazione imperfetta, mai com­pletamente adeguata dal conoscere, alla quale può tutt’al più corrispondere, sul piano concettuale, una sorta di coscienza ermeneutica della storia.

Ricoeur ritiene che la temporalità non si possa descrivere concettualmente, ma richieda, per poter essere detta, la devia-

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EPISTEMOLOGIA

zione attraverso la narrazione. Di qui la convinzione di Ricoeur secondo cui non esiste un tempo pensato se non quello rac­contato. Ciò che però Ricoeur tiene a precisare è che nel tempo raccontato non si può cercare un succedaneo della filosofia della storia hegeliana. Non è possibile infatti costru­ire un intrigo di tutti gli intrighi, che ci permetta di dominare il senso della storia nel suo complesso.

La soluzione va cercata, secondo Ricoeur, in una direzione diversa da quella hegeliana. Innanzitutto occorre parlare di totalizzazione piuttosto che di totalità dell’esperienza tempo­rale, inoltre bisogna riconoscere in questa totalizzazione il risultato di una mediazione imperfetta tra le tre dimensioni del passato, del presente e del futuro.

Ma, se è vero questo, si può ancora dire che una tale mediazione imperfetta tra le tre dimensioni del tempo è in grado di fornire una qualche soluzione all’aporia dell’unità del tempo? Sì, risponde Ricoeur, ma

a condizione di porre l’accento sul carattere plurale dell’unità assegnata al tempo preso come singolare collettivo, e sul carat­tere imperfetto della detta mediazione tra orizzonte d ’attesa, tradizionalità e presente storico.35

L’adeguazione tra l’unità plurale del tempo e la categoria letteraria del racconto risulta, però, per molti aspetti, preca­ria, perché il racconto può offrire una serie molteplice di intrighi per lo stesso avvenimento, perché esso non articola che delle temporalità frammentarie, perché, infine, l’intrigo privilegia il plurale sul singolare collettivo nella sua refigurazione del tempo. Per questo non esiste un intrigo di tutti gli intrighi, che raccolga in unità l’umanità e la storia.

Ciò che infine, più di ogni altra cosa, impedisce una nuo­va teodicea e frena qualsiasi tentazione di costruire una filo­sofia che si erga a sistema compiuto è l’irrapresentabilità del

35 R i c o e u r , Temps et récit, h i, Le temps raconté, Paris, 1985, p . 457.

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tempo. È a causa di questa aporia che ia fenomenologia ha dovuto ricorrere di continuo a delle metafore e dare la parola al mito per poter dire il tempo. Qui Ricoeur, qualificando il tempo come irrapresentabile non vuole certo negare qualsiasi possibilità di pensare il tempo, ma la pretesa del nostro pen­siero a porsi come padrone del senso. Occorre, di fronte al­l’enigma del tempo, che il pensiero riconosca il suo scacco, esattamente come deve fare di fronte all’altro grande enigma, quello che concerne il male.

Sono, infine, i limiti intrinseci all’impresa narrativa che fanno segno delPinscrutabilità fondamentale che caratterizza il tempo. Questi limiti sono di un duplice tipo: da un lato vi sono dei limiti interni all’arte narrativa, nel senso che è dato riscontrare un esaurimento dell’arte di raccontare nel mo­mento in cui essa si approccia all’inscrutabile, all’altro dal tempo, all’eternità; dall’altro lato vi sono dei limiti esterni, intesi questi come un superamento del genere narrativo ad opera di altri generi dì discorso che tentano, anch’essi, di dire il tempo36.

36 Gabriella Segarelli, iti un suo articolo su Ricoeur, ha rilevato che la presa di distanza di Ricoeur nei confronti di Hegel, presa di distanza determi­nata dall’inscrutabilità del male e del tempo e dall’impossibilità di rendere ragione di questi due fenomeni all'interno di un sistema, si configura come un ritorno a Kant mediato attraverso la lezione hegeliana. Per questa ragione Segarelli usa, a proposito della specuazione ricoeuriana, la definizione di «kantismo post­hegeliano», espressione che, peraltro, Segarelli mutua dallo stesso Ricoeur. Scrive infatti la studiosa: «Il tempo opera sulla filosofia allo stesso modo del male. In entrambi i casi la filosofia diventa ermeneutica e poetica, si fa ascolto e tenta nuove vie - il linguaggio simbolico, la verità metaforica, la dimensione narrativa - per parlare dell’uomo e dell’essere. E in entrambi i casi l’universo di senso cui la filosofia attinge per procedere su questa strada è il linguaggio poetico, reli­gioso, in una parola rivelativo. Il «kantismo post-hegeliano» rappresenta dunque il nucleo teorico di tutta la filosofia ricoeuriana, sia quando ha per oggetto i simboli sia quando si occupa della metafora e del racconto. [...] Con la metafora e il racconto Ricoeur tenta di rispondere al problema del tempo, come, median­te il simbolo e il mito, aveva cercato di risolvere la questione del male. Anche in questo caso la filosofia si riconosce impossibilitata a risolvere il problema che le sta dinnanzi e deve ricorrere al linguaggio poetico per penetrare il mistero», G. S e g a r e l l i , Paul Ricoeur tra concetto e kerygma: Il «kantismo post-hegeliano», «Filosofia e Teologia», 1988, pp. 112-113.

Segarelli, inoltre, individua nello scritto ricoeuriano dal titolo Le statut de la Vorstellung dans la philosophie hégélienne de la religion (in Qu’est-ce que

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EPISTEMOLOGIA

1.2.3 Ricoeur, Gadamer, HegelÈ agevole osservare che Ricoeur ha compiuto un recupero

del pensiero di Hegel che, per molti aspetti, può essere avvi­cinato alPautoappropriazione gadameriana dell’hegelismo. Gadamer, in una conferenza tenuta a Parigi nel 1962, dal titolo Die philosophischen Grundlagen des zwanzigsten Jahr­hunderts, ha affermato a chiare lettere che il punto di parten­za della filosofia, oggi, rimane Hegel. Hegel fornisce infatti al pensiero contemporaneo l’importante nozione di spirito og­gettivo, nozione che permette di aprire uno spazio alla rifles­sione al di là degli angusti limiti della conoscenza oggettiva delle scienze, la quale ha ridotto l’oggettività alla pura estraneità della natura. Ricoeur, al contrario di Gadamer, ha valorizzato un altro aspetto del pensiero hegeliano: la teleo­logia, sottesa al percorso compiuto dalla coscienza nella Feno­menologia dello Spirito. L’obiettivo di Ricoeur, comunque, è lo stesso di Gadamer, ovverosia quello di aprire lo spazio ad una forma di pensiero diversa da qualla delle scienze oggettive, di fornire un tipo di comprensione dei fenomeni che non sia quella oggettivante delle scienze.

Il punto su cui, invece, i due autori si distanziano è costi­tuito dalla diversa considerazione che essi mostrano di avere del punto di vista scientifico, una volta aperto lo spazio ad una diversa tipologia della riflessione: se Gadamer tende a respingere tutto l’apparato metodologico delle scienze, com­prese le scienze umane, Ricoeur tenta, come abbiamo visto, di

Dieu? Philosophie/Théologie. Hommage à l ’abbé Daniel Coppieters de Gibson, Bruxelles, 1985, pp. 185-206) una svolta rispetto al precedente modo di con­siderare Hegel da parte di Ricoeur. Nota infatti Segarelli: «Pur continuando a rifiutare il “sistema”, Ricoeur è qui mosso da una preoccupazione diversa rispet­to al passato, quella di verificare che cosa della filosofia hegeliana possa essere mantenuto in una ermeneutica moderna della religione» (Segarelli, Paul Ricoeur tra concetto e kerygma, cit., p. 114). Continua, più avanti, la studiosa: «Ricoeur è ormai consapevole che non è possibile costruire un’ontologia se non attraver­so la mediazione del linguaggio, vale a dire se non come una poetica. E dunque con un taglio ermeneutico che ora si accosta ad Hegel, vedendo in lui non solo più il filosofo della lbrys, del sistema totalizzante, ma l’anticipatore dell’ermeneutica» (ivi, p. 115).

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operare una mediazione tra il punto di vista filosofico e quello scientifico. Questa mediazione, però, secondo Ricoeur, non deve costituire una sintesi definitiva. Qui Ricoeur e Gadamer si incontrano nuovamente. Ciò che entrambi respingono nel pensiero di Hegel e ciò che in genere respinge ogni pensatore contem poraneo che tenti una qualche riappropriazione delPhegelismo è, infatti, il concetto della Versöhnung, della conciliazione definitiva, del sistema compiuto, dell’autotraspa- renza dello spirito assoluto. Nietzsche, M arx e Freud hanno infatti reso inutilizzabile questo concetto di spirito assoluto, perché hanno smascherato il mito dell’autocoscienza e della verità intesa come chiarezza e distinzione: essi hanno infatti introdotto la consapevolezza dell’attività permanente di ma­scheramento e di mistificazione, in cui consiste la vita stessa della coscienza. Non a caso Ricoeur ha dedicato tante rifles­sioni al pensiero di questi tre autori.

2. Bilancio critico

2.1 II conflitto tra ermeneutica archeologica ed ermeneutica teleologica

Nell’esporre le varie opere in cui Ricoeur ha tentato delle mediazioni dialettiche tra tesi opposte abbiamo rilevato il fatto che Ricoeur non si è impegnato a far luce sulle condizioni di possibilità di una mediazione dialettica in generale e sullo statuto epistemologico del discorso che opera la mediazione stessa. È venuto allora il momento di riflettere su questo problema, cercando di integrare il discorso del nostro autore, là dove le circostanze lo richiedessero.

Abbiamo più volte osservato che la riflessione che oppone le diverse ermeneutiche non può essere essa stessa un’erme­neutica posta sullo stesso piano dell’opposizione che deve mediare, perché, altrimenti, il conflitto tra le ermeneutiche verrebbe ulteriormente complicato e le ermeneutiche da me­

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EPISTEMOLOGIA

diare, da due, diventerebbero tre, e così via. Fin qui la pars destruens del discorso che abbiamo svolto. La pars construens, invece, consiste nel rilevare che la riflessione, che compone il conflitto ermeneutico, è in grado di rimanere il comune pun­to di riferimento di tutte le interpretazioni particolari, ma solo nella misura in cui essa faccia riferimento alla capacità critica in quanto tale, il cui principio è il principio di non contraddizione. E a questa capacità critica che va commisurata la validità delle singole interpretazioni particolari.

2.1.1 Condizioni di possibilità della mediazionedi un conflitto tra teorie opposteQuando è a priori possibile mediare un conflitto tra opposte

ermeneutiche e quando, invece, è a priori impossibile qualsiasi conciliazione? Forse Aristotele può aiutarci a trovare una rispo­sta. Vediamo perché.

Nel libro iv della Metafisica Aristotele, dopo aver esposto e difeso elenchicamente il principio di non contraddizione, espone il seguente altro principio, che costituisce un corollario del primo: «non ci può essere nulla nel mezzo della contrad­dizione, bensì è necessario o affermare o negare una cosa una a proposito di una cosa una, qualunque essa sia» 37. Nella filo­sofia razionalistica tedesca questo principio è stato chiamato «principum exclusi medii inter duo contradictoria» (Wolff) o «principium tertii exclusi» (Baumgarten).

Il principio del terzo escluso vieta, dunque, la mediazione tra i contraddittori. L’opposizione di contraddittorietà, però, non è l’unico tipo di opposizione: esistono, infatti, altri tipi di opposizioni, tra le quali è possibile una mediazione. Cono­scere le condizioni di possibilità della mediazione dialettica significa, allora, conoscere i vari tipi di opposizione. Anche in questa distinzione ci sono di aiuto i logici antichi ed Aristotele in particolare.

37 A r i s to te le , Metafisica IV 7, 1011 b 23-24.

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Aristotele distingue, nel cap. 10 delle Categorie38, l’oppo­sizione tra termini relativi, quella tra termini contrari, quella fra privazione e possesso e quella tra termini contraddittori. Le due opposizioni che a noi maggiormente interessano sono quelle tra termini contrari, termini contraddittori e tra le proposizioni che li rappresentano. Contrari sono i termini che si trovano alla distanza massima all’interno dello stesso gene­re, per esempio il bianco e il nero nell’ambito del colore. I termini contraddittori, invece, sono quelli di cui l’uno è sem­plicemente la negazione dell’altro, per esempio bianco e non bianco, sano e non sano, ecc. Ciò comporta che essi non appartengono allo stesso genere, ossia che il termine negativo è del tutto indeterminato, e che pertanto essi non hanno al­cun intermedio, in quanto la loro opposizione esaurisce la totalità del reale. Il termine positivo indica infatti una parte di questa e il termine negativo tutto il resto. Perciò i termini contraddittori sono i soli, fra tutti gli opposti, a cui si applica, come alle proposizioni che li esprimono, il principio del terzo escluso. Oltre ad essi, infatti, non si dà una terza possibilità, cioè essi esauriscono la totalità, mentre oltre ai contrari, an­che quando non vi sia un intermedio, si danno sempre altri generi. Tra il bianco ed il nero c’è, ad esempio, il grigio; ma tra il bianco e il non bianco non c’è nulla, perché qualsiasi significato che non coincida con il significato «bianco» (sia esso «grigio», «verde», «sole», «luna», o quant’altro), è, in quanto tale, «non bianco». Qualcosa di analogo accade nel caso delle proposizioni. Tra due proposizioni contraddittorie non si dà medio: se una è vera l’altra è falsa (e viceversa), mentre due proposizioni contrarie possono essere entrambe false e due proposizioni subcontrarie entrambe vere. Ad esem­pio, tra le due proposizioni contraddittorie «Tutti gli uomini sono bianchi» e «Alcuni uomini non sono bianchi», necessa­riamente una è vera e l’altra falsa. Al contrario, le proposizio­ni contrarie «Tutti gli uomini sono bianchi» e «Tutti gli uomini

38 Alcuni però dubitano che ne sia veramente Aristotele l’autore.

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non sono bianchi» possono essere entrambe false; mentre le proposizioni subcontrarie «Alcuni uomini sono bianchi» e «Alcuni uomini non sono bianchi» possono essere entrambe vere.

Sul modello di questa classificazione delle proposizioni possiamo ricavare una analoga classificazione delle teorie com­plesse: contraddittorie e contrarie sono quelle teorie che si lasciano riassumere, rispettivamente, in proposizioni contrad­dittorie e contrarie. Dunque, è possibile mediare dialettica- mente due teorie contrarie o subcontrarie, ma non è possibile mediare dialetticamente due teorie contraddittorie, perché esse si escludono.

La teoria aristotelica dei contrari ci è di estrema utilità se vogliamo porre ordine nella nostra problematica. In fondo il problema di Ricoeur è tutto lì: capire quando due prospettive ermeneutiche si oppongono per contraddizione e quando, in­vece, si oppongono per contrarietà. Nel primo caso esse sono inconciliabili e, tra le due, una sarà vera e l’altra sarà falsa, necessariamente. Nel secondo caso, invece, esse potranno essere mediate dialetticamente e si potrà dire che ciascuna di esse è parzialmente vera, o che una contiene maggiori o mi­nori elementi di verità dell’altra.

La difficoltà più grande, quando si ha a che fare con posi­zioni teoriche complesse e non con termini univocamente de­terminabili, sta proprio nello stabilire se esse si oppongano per contraddizione o per contrarietà. Qui, infatti, risiede il pericolo più grave per Ricoeur, perché nel suo discorso c’è il rischio di far passare, surrettiziamente, per contrarie teorie che, in realtà, sono contraddittorie, con grave danno per la dialettica che ne risulta.

Per spiegarmi meglio devo fare un esempio e, a tal fine, sceglierò, tra i vari conflitti ermeneutici su cui si è esercitata la dialettica conciliatrice ricoeurìana, quello che, a livello esi­stenziale, risulta il più decisivo e quello al quale Ricoeur ha dedicato più riflessioni. Mi riferisco, cioè, al conflitto tra l’er­meneutica demistificatrice di matrice freudiana (l’ interpreta-

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zione archeologica) e l’ermeneutica intesa come meditazione del senso (l’interpretazione teleologica), la quale trova il suo archetipo nella fenomenologia della religione di Leenhardt, van der Leeuw ed Eliade.

Come si ricorderà, l’interpretazione archeologica si pone come obiettivo quello di spiegare il fenomeno religioso, ossia di riportare la religione alle cause che l’hanno prodotta. Freud, infatti, riduce la religione alla sua funzione economica. L’in­terpretazione teleologica, al contrario di quella archeologica, si propone piuttosto di descrivere il fenomeno religioso che di spiegarlo, essa, infatti, non riporta la religione alle sue cause, ma la riferisce al suo oggetto intenzionale. La fenome­nologia della religione pensa ad una «verità» dei simboli, ad un riempimento della loro intenzione significante, mentre Freud considera tutto ciò illusorio.

Ecco, queste sono le due teorie interpretative in conflitto. Sono esse contraddittorie o contrarie? Secondo Ricoeur, evi­dentemente, esse sono teorie contrarie, dal momento che egli ne propone una conciliazione. M a è veramente così? Andia­mo a vedere meglio.

Nell’istituire il conflitto Ricoeur osserva che l’interpreta­zione teleologica cerca di descrivere il fenomeno religioso, mentre l’interpretazione archeologica vuole spiegarlo. «Spie­gare», nota Ricoeur, «significherebbe ricondurre il fenomeno religioso alle sue cause, alla sua origine o alla sua funzione, sia essa psicologica, sociologica o altro. Descrivere invece è ri­condurre il fenomeno religioso al suo oggetto quale è consi­derato e quale è dato nel culto e nella fede, nel rito e nel m ito»39. L’opposizione è netta: da un lato si attribuisce una verità ai simboli religiosi (un riempimento della loro intenzio­

39 P. R ic o e u r , II conflitto delle interpretazioni, Milano 1972; trad. it. dal­l’originale Le conflit des interprétations, Paris 1969, a cura di Rodolfo Balzarotti, Francesco Botturi, Giuseppe Colombo; p. 334.

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ne significante), dall’altra, invece, li si definisce illusori. Ricoeur riconosce questa distanza e, infatti, scrive:

!n Freud questa nozione di illusione ha un senso funzionale, metapsicologico e deve essere presa seriamente come tale. Non ce ne sbarazziamo quindi dicendo che l’affermazione secondo cui la religione è una illusione, è non-analitica, pre-analitica e riflette solamente i pregiudizi di uno scientismo moderno, erede della “miscredenza” d’Epicuro e del razionalismo del xviii seco­lo .40

Secondo Freud, osserva Ricoeur, «la civiltà inventa gli dei per esorcizzare la paura, per riconciliare l’uomo con la crudel­tà del destino e per compensare il “malessere” che l’ istinto di morte rende inguaribile»41. Continua ancora Ricoeur: «Se le rappresentazioni religiose non hanno verità e sono illusioni, non possono essere comprese che attraverso la loro origine: Totem e tabù, Mosé e il monoteismo ricostruiscono i ricordi storici che costituiscono la “verità nella religione” , secondo un sottotitolo di Mosé, “cioè le rappresentazioni originarie che sono alla radice della distorsione ideativa”» 42.

Schematizzando quanto scrive Ricoeur potremmo affer­mare che la tesi dell’ermeneutica demistificatrice (Tesi a ) e quella dell’ermeneutica restauratrice (Tesi b ) possono essere così enunciate:

Tesi A: Tutti i simboli religiosi non possiedono un oggetto intenzionale adeguato (il loro carattere è illusorio e ricondu­cibile a paure e desideri di tipo infantile).

Tesi B: Alcuni simboli religiosi possiedono un oggetto in­tenzionale adeguato (c’è una verità dei simboli, un riempi­mento della loro intenzione significante).

Come si può notare le due proposizioni che sintetizzano le due teorie ermeneutiche sono tra loro contraddittorie.

40 Ivi, pp. 336-337.41 Ivi, p. 337.« Ibid.

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VERITÀ DEL METODO

Se le cose stanno così, com’è riuscito Ricoeur a mediare dialetticamente il conflitto? E mia impressione che, quando Ricoeur istituisce l’opposizione tra le ermeneutiche rivali, egli abbia in vista due teorie che si oppongono per contraddizio­ne, mentre, quando opera la mediazione dialettica, egli si trovi, invece, ad aver a che fare con due interpretazioni che si op­pongono per contrarietà.

La posta in gioco, quando Ricoeur oppone archeologia e teleologia, è il valore rivelativo del simbolo. Da un lato sta una teoria che afferma che l’oggetto a cui il simbolo religioso rimanda è un’illusione, che esso non esiste. Dall’altro lato, invece, sta una teoria che afferma che vi è una verità del simbolo, che il simbolo si riferisce ad un suo oggetto intenzio­nale. Le due teorie si oppongono per contraddizione, non vi è possibilità di conciliazione: delle due l’una è vera e l’altra è falsa, tertium non datur, per il principio del terzo escluso.

AI contrario, quando Ricoeur media dialetticamente il con­flitto, la posta in gioco è diversa. In questo caso il conflitto si istituisce tra due interpretazioni che si muovono in senso contrario. Vediamo perché.

L’articolazione delle due interpretazioni avviene, in Ricoeur, a livello del rapporto tra coscienza ed inconscio. «La coscien­za», osserva Ricoeur,

non è la prima realtà che possiamo conoscere, ma l’ultima e per questo dobbiamo arrivare ad essa e non partire da essa. Ma, poiché la coscienza è il luogo in cui le due interpretazioni del simbolo si intersecano, un doppio approccio della nozione di coscienza deve essere una buona via di accesso anche alla polarità dei simboli.43

Secondo Ricoeur Freud non nega la coscienza, ma il narcisismo della coscienza, la sua pretesa di autotrasparenza. Freud, por­tando alla luce lo psichismo inconscio, ci insegna che la co­scienza non è la prima realtà ad essere conosciuta, ma l’ulti­ma; che occorre andare verso la coscienza, piuttosto che par­tire da essa. La psicoanalisi freudiana non permette, però, di dare delle risposte esaustive al problema della coscienza. Essa

43 Ivi, p. 338.

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EPISTEMOLOGIA

non ci consente, infatti, di comprendere come l’uomo esca dalla sua infanzia per divenire adulto e di capire quali siano le figure, le immagini e i simboli che guidano la maturazione e la crescita dell’individuo. Spiega infatti Ricoeur:

Le ultime opere di Freud accentuano in modo particolare il tema del ritorno del rimosso e la restaurazione senza fine del­l’assassinio arcaico del padre: l’interpretazione della religione è sempre più l’occasione per sottolineare la tendenza regressiva nella storia dell’umanità. Il problema della coscienza mi sembra legato allora a questa domanda: come un uomo esce dalla sua infanzia, come diventa adulto?44

Per rispondere a questa domanda è necessario l’impiego di un’altra ermeneutica, che ci permetta di scoprire nuove figure e nuovi simboli, che non risultino, a loro volta, essere radicati nel suolo libidinale. A questo scopo Ricoeur individua un utile strumento nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel: è qui, infatti, che troviamo dei simboli che attraggono la coscienza in avanti, oltre la sua fase infantile. Nella Fenomenologia dello Spìrito la coscienza viene decentrata in maniera diversa rispet­to a quanto avveniva nella psicoanalisi. Anche per quanto riguar­da la Fenomenologia dello Spirito vale il principio secondo cui la coscienza non si conosce essa stessa fin dall’inizio. La coscienza, al fine di autoriflettersi come un Sé umano, adulto, etico, deve incontrare ed appropriarsi di una serie di sfere di senso delle quali la filosofia dello spirito compie l’inventario e l’esegesi.

Se la coscienza non riceve mai il suo vero senso in una psicologia della coscienza immediata, essa lo riceve, invece, attraverso il tragitto lungo che attraversa il territorio delle diverse metapsicologie. Esse, infatti, consentono di compren­dere il movimento di decentramento del soggetto, diretto sia verso l’inconscio della metapsicologia freudiana, sia verso lo spirito della metapsicologia hegeliana. La dualità di queste due interpretazioni è il riflesso di due movimenti diretti in senso contrario: un movimento analitico e regressivo verso l’inconscio ed un movimento sintetico e progressivo verso lo

44 Ivi, p. 339 .

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spirito. Gli stessi simboli possono sopportare un duplice ordi­ne di interpretazioni, in quanto il primo si propone come compito quello di compiere una riesumazione di figure che si situano sempre dietro la coscienza; mentre il secondo tenta un’esplorazione di quelle figure che si situano oltre la coscien­za e che l’attraggono in avanti. Abbiamo, in un caso, una teoria che spiega certi fenomeni guardando all’indietro e, nell’altro caso, una teoria che spiega gli stessi fenomeni guar­dando in avanti. Le due teorie si oppongono per contrarietà e, dunque, si può operare tra di esse una mediazione dialet­tica. 11 problema, però, all’inizio, aveva una portata diversa.

Vediamo allora come avviene lo scivolamento. Innanzitutto, si sarà notato che, mentre all’inizio Ricoeur contrappone la feonomenologia della religione alla psicoanalisi, in seguito, invece, egli istituisce l’opposizione tra la fenomenologia dello spirito e la psicoanalisi. Ricoeur è consapevole di questo e, per renderne ragione, scrive:

Appare a questo punto una ambiguità in queste meditazioni: abbiamo sentito che Io svolgimento di figure, che abbiamo chia­mato lo “spirito” , non raggiunge il livello di una fenomenologia della religione. Tra le figure dello spirito e i simboli del Sacro c’è infatti una grave ambiguità, che non nego affatto. Da parte mia, vedo l’articolazione tra la fenomenologia della religione, con i suoi simboli del Sacro, e la fenomenologia dello spirito, con le sue figure in culture storiche, come il punto dove Hegel fallisce: per Hegel, come si sa, è dato un termine a questo svolgimento di figure e questo termine è il sapere assoluto. Non potremmo allora dire che il termine non è il sapere assoluto, cioè il compimento di tutte le mediazioni in un tutto, nella totalità senza resto, ma che il termine è solamente promesso, promesso attraverso i simboli del Sacro? Per conto mio, il Sacro prende il posto del sapere assoluto, ma non ne è tuttavia il sostituto, perché il suo significato rimane escatologico e non può mai essere trasformato in conoscenza e gnosi.45

Una delle principali ragioni del rifiuto del sapere assoluto da parte di Ricoeur è, come abbiamo già notato, il problema

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45 Ivi, pp. 346-347.

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del male: «lo scacco di tutte le teodicee, di tutti i sistemi concernenti il male testimonia dello scacco del sapere assolu­to in senso hegeliano»46.

Il passo che ho riportato riveste un’importanza cruciale perché è proprio lì, a mio parere, che avviene lo scivolamento che avevo annunciato.

La fenomenologia dello spirito, che Ricoeur compone dialetticamente alla psicoanalisi, ha infatti una valenza diversa dalla fenomenologia della religione. Fenomenologia dello spi­rito e psicoanalisi si contrappongono in quanto modalità interpretative orientate in senso opposto: da un lato abbiamo un movimento progressivo verso lo spirito e dall’altro un movimento regressivo verso l’inconscio. Queste due modalità interpretative possono benissimo convivere, risultare comple­mentari, integrarsi a vicenda nella spiegazione di un determi­nato fenomeno. Esse non sono tra di loro contraddittorie. La posta in gioco, però, era diversa all’inizio, quando Ricoeur aveva contrapposto fenomenologia della religione e p sican a­lisi, per il fatto che la prima feceva affidamento in un riem­pimento dell’intenzione significante dei simboli religiosi, men­tre la psicoanalisi ne proclamava l’illusorietà.

Il problema decisivo è, dunque, quello di stabilire il rap­porto tra i simboli religiosi ed il loro oggetto intenzionale. L’idea di Ricoeur, secondo cui i simboli vanno interpretati at­traverso un doppio movimento ermeneutico, regressivo e pro­gressivo, può essere accolta sia da chi ammette l’esistenza di un oggetto intenzionale adeguato ai simboli religiosi, sia da chi ne sostiene Pillusorietà. Se esiste un oggetto intenzionale ade­guato al simbolo è comunque vero che ogni simbolo del sacro rappresenta, in parte, anche un ritorno del rimosso. Se non esiste un oggetto intenzionale adeguato al simbolo è comunque vero che vi è una sfera di senso attraverso le cui figure e i cui simboli la coscienza si trae in avanti ed esce dalla propria infanzia.

Date due teorie contraddittrie, ciascuna di esse, al suo inter­no, può essere composta da due teorie contrarie poste in rappor­

46 Ivi, p. 347.

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VERITÀ DEL METODO

to tra loro. Non vale, invece, il reciproco. Due teorie contrarie non possono essere costituite, ciascuna, da due teorie contraddit­torie poste in relazione tra loro, perché porre in relazione due teorie contraddittorie significa affermare delle assurdità.

Nel nostro caso specifico la teoria nata dalla composizione dialettica tra le due teorie contrarie può essere accettata sia da chi condivide la teoria freudiana, per come essa è stata esposta all’inizio, sia da chi ne condivide la contraddittoria.

Ricoeur non risolve il conflitto nei termini in cui esso era stato originariamente posto. Gli strumenti che Ricoeur mette in atto gli permettono infatti di conciliare un conflitto tra teorie contrarie, ma non di decidere in favore di opzioni re­ciprocamente escludentesi. Il conflitto tra la teoria che affer­ma Pillusorietà dell’oggetto intenzionale a cui il simbolo reli­gioso rimanda e la teoria che ne afferma l’esistenza va decisa, dunque, con strumenti diversi. Il problema, in questo caso, non riguarda più i simboli e l’ermeneutica dei simboli, ma il loro oggetto intenzionale. Capire se, oltre il simbolo, si dia o meno un oggetto intenzionale adeguato è un problema di tipo ontologico-metafisico e non più ermeneutico. La contrappo­sizione tra Freud e la fenomenologia della religione, così come essa era stata prospettata inizialmente, può essere sciolta solo in sede speculativa. La fenomenologia della religione afferma che, oltre il simbolo, si dà un oggetto intenzionale ad esso adeguato, mentre Freud afferma che questo oggetto intenzio­nale non si dà. L’ermeneutica, da parte sua, non è in grado di decidere una tale questione, perché essa si ferma all’interpre­tazione del simbolo. Dunque occorre mettere in campo altri strumenti, quelli di cui dispongono l’ontologia e la metafisica. Con queste considerazioni, però, ci siamo già introdotti nel­l’argomento che verrà trattato nella prossima sezione.

2.1.2 Sullo statuto epistemologico del discorso che opera la mediazione alPinterno del conflitto ermeneutico

Come anticipavo sopra la riflessione che compone il con­flitto ermeneutico è in grado di rimanere il comune punto di

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EPISTEMOLOGIA

riferimento di tutte le interpretazioni particolari, solo nella misura in cui essa faccia riferimento alla capacità critica in quan­to tale, il cui principio è il principio di non contraddizione.

Il discorso che elucida le regole del gioco, all’interno delle quali deve m uoversi la conciliazione dialettica tra le ermeneutiche rivali, si pone certamente ad un livello diverso da quello in cui si situano le opposte ermeneutiche e anche da quello in cui si situa l’ermeneutica che scaturisce dalla compo­sizione delle diverse ermeneutiche. Perché? Per il semplice fatto che a questo livello è possibile stabilire principi trascen­dentalmente validi. E infatti sempre vero che due proposizioni contraddittorie sono Puna vera e l’altra falsa. E sempre vero che tra due proposizioni contrarie è possibile trovare un me­dio. Questo indipendentemente dalle singole interpretazioni particolari che vengono a trovarsi in opposizione di contrad­dizione o in opposizione di contrarietà. Al contrario, ogni singola teoria ermeneutica è diversa da ogni altra e ogni modo specifico in cui viene operata la composizione dialettica è passibile di aggiustamenti e di modifiche (sempre, però, rima­nendo all’interno di certe regole).

In altri termini, potremmo dire che abbiamo a che fare con un livello trascendentale, quello proprio alla capacità critica in quanto tale, governata dal principio di non contrad­dizione ed un livello empirico, al quale viene operata la com­posizione del conflitto ermeneutico e all’interno del quale si situano anche le diverse prospettive ermeneutiche che vengo­no mediate. Certo, tra le interpretazioni in conflitto e la loro integrazione dialettica c’è un progresso, ma questo progresso avviene alPinterno del livello empirico e non costituisce un passaggio dal livello empirico al livello trascendentale.

2 .2 II conflitto tra spiegazione e comprensione

Il tentativo di mediazione tra comprensione e spiegazione, messo in atto da Ricoeur, costituisce una delle differenze es­senziali tra la posizione di Ricoeur e quella di Gadamer. Questo risulta particolarmente interessante ai fini della nostra ricerca,

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VERITÀ DEL METODO

perché la nozione di verità a cui fa riferimento Gadamer in Verità e Metodo è legata alla nozione heideggeriana di vero come ciò che esce dal nascondimento e dalla dissimulazione. Dunque, Ricoeur, operando una sintesi dialettica tra com­prensione e spiegazione fa spazio, accanto alla nozione hei­deggeriana e gadameriana della verità, anche all’aspetto criti­co del vero, incarnato, ai suoi occhi, dal pensiero di Habermas.

Comprensione e spiegazione, come abbiamo visto sopra, costituiscono due modi complementari e coessenziali di rap­portarsi alla realtà da parte dello spirito umano: essi testimo­niano, infatti, di due tendenze fondamentali del pensiero, nel suo processo di conoscenza della realtà e di appropriazione dell’universo simbolico e culturale. La comprensione testimo­nia di una appartenenza del nostro essere all’essere, apparte­nenza che precede qualsiasi opposizione di un soggetto ad un oggetto, mentre la spiegazione rende conto del movimeno di distanziazione, attraverso il quale questa relazione di apparte­nenza cede il passo al processo di oggettivazione proprio delle scienze. Dunque, i due sensi del vero su cui abbiamo riflettu­to, trattando del passo aristotelico contenuto in Metafìsica ix, 10, sono direttamente riconducibili a queste due tendenze fondamentali dello spirito. Mentre Aristotele li teneva ben uniti, molti filosofi contemporanei tendono a scinderli e a privilegiarne uno a scapito dell’altro. La polemica tra Habermas e Gadamer, in questo senso, risulta emblematica. Anche in questo caso non si può che apprezzare il tentativo di media­zione operato da Ricoeur tra le due posizioni, che rappresenta un ritorno alla ben più equilibrata posizione aristotelica47.

47 Un’ampia letteratura critica si è interessata al dibattito tra Habermas e Gadamer e al tentativo di mediazione tra le due posizioni che Ricoeur ha messo in atto.

Gary E. Aylesworth osserva che «nel modello di Ricoeur l’ermeneutica filosofica costituisce una riabilitazione della tradizione riflessiva, e dell’egologia husserliana in particolare. La spiegazione strutturale, resa possibile dalla distanziazione dal testo, costituisce un momento critico che espone il soggetto alle tecniche della psicoanalisi e della critica dell’ideologia. Queste sono per Ricoeur tecniche per superare l’ingenuità di una prima lettura, o per smasche­rare le illusioni della falsa coscienza. [...] Dove Ricoeur vede i metodi della

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EPISTEMOLOGIA

Intervenendo nel dibattito tra Habermas e Gadamer Ri­coeur sottolinea il carattere cruciale delle questioni che vi vengono affrontate. «Il dibattito [...]», osserva Ricoeur, «supe­ra considerevolmente i limiti di una discussione sul fonda­mento delle scienze sociali. Esso mette in gioco ciò che chia­merei il gesto filosofico fondamentale»48.

spiegazione linguistica come un’arma che l’ermeneutica può utilizzare contro la falsa coscienza, Gadamer vede la sottomissione del discorso al metodo per sé come una capitolazione allo sfrenato interesse calcolativo che prevale nell’età tecnologica» (G.E. A ylf.sw orth , Dialogue, Text, Narrative: Confronting Gadamer and Ricoeur, contenuto nel volume collettaneo a cura di H ugh J . S ilverman dal titolo Gadamer and Hermeneutics, by Routledge, London, 1991, p. 66). Secon­do la prospettiva di Gadamer «la tradizione riflessiva di Ricoeur è implicata nell’alienazione e nella burocratizzazione della vita a cui l’ermeneutica si oppo­ne» (ivi, p. 67).

Anche Terry Hoy (T. H oy, Praxis, Truth, and Liberation. Essays on Gadamer, Taylor, Polanyi, Habermas, Gutierrez and Ricoeur, Boston, 1988) vede nella dialettica istituita da Ricoeur tra comprensione e spiegazione un tentativo del filosofo di mediare tra le posizioni di Gadamer e di Habermas. Ecco infatti come si esprime lo studioso americano: «La fenomenologia ermeneutica di Ricoeur implica anche un tentativo di arbitraggio tra [’“ermeneutica della tra­dizione” di Gadamer e la “critica delle ideologie” di Habermas» (ivi, p. xi). «Il suo approccio alla comprensione ontologica fa sua l’enfasi di Gadamer sulla centralità dell’appartenenza storica, ma accetta anche l’idea di un “innesto della fenomenologia sull’ermeneutica” al fine di stabilire una “distanziazione” all’inter­no dell’appartenenza storica che è la base per l’arbitraggio tra [’“ermeneutica della tradizione” di Gadamer e la “critica dell’ideologia” di Habermas» (ivi, pp. 99-100).

Anche Jean Greisch, in un suo articolo, ha toccato questo tema, riportando le divergenze teoriche tra Ricoeur e Gadamer al diverso rapporto dei due autori con Cartesio. Scrive Greisch: «La problematica di Paul Ricoeur mi sembra comportare un momento cartesiano più pronunciato, mentre la contrapposizione tra verità e metodo che guida tutta l’ermeneutica di H.-G. Gadamer, sembra precipitarlo tra le braccia di Vico, evitandogli un serio confronto con il cogito cartesiano. Questa diversa valutazione di Cartesio non riflette soltanto, come si potrebbe supporre, una differenza di contesti filosofici o di eredità, ma anche una differenza nella concezione stessa dell’ermeneutica, poiché la prima si pre­cipita subito in direzione di una problematica ontologica, mentre la seconda cerca innanzitutto di superare la dicotomia diltheyana della spiegazione e della comprensione all’ombra di una massima che si enuncia così: «spiegare di più, significa comprendere meglio»» (J- G r eisc h , Descartes selon l’ordre de la raison bermenéutique. Le «moment cartésien» chez Michel Henry, Martin Heidegger et Paul Ricoeur, «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 73, 1989, p. 540).

48 R R ic o e u r , D u texte à l ’action. Essais d ’herméneutique II, Paris, 1986, p. 333.

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VERITÀ DEL METODO

Gadamer, in Verità e Metodo, oppone l’esperienza dell’ap­partenenza al movimento di distanziazione, che egli connota negativamente come «distanziazione alienante». Questa oppo­sizione viene perseguita in tutte e tre le sezioni dell’opera (dedicate, rispettivamente, al problema dell’estetica, della sto­ria e del linguaggio), al punto tale che possiamo individuare in essa la tesi fondamentale di Verità e Metodo. Infatti, nella sfera estetica l’esperienza del sentirsi catturati dall’opera d’ar­te precede e rende possibile l’esercizio critico del giudizio di gusto. Nella sfera storica, la coscienza di appartenere a delle tradizioni che ci precedono rende poi possibile l’impiego di una metodologia storica. Nella sfera del linguaggio, infine, il fatto di appartenere alle cose nel modo in cui sono state dette dai grandi creatori di discorsi, precede e rende possibile la riduzione strumentale del linguaggio.

Privilegiare la comprensione sulla spiegazione (la verità sul metodo), significa, per Gadamer, riconoscere la nostra fini­tudine e le condizioni storiche alle quali siamo sottoposti ed inserirsi nel divenire storico al quale sappiamo di appartenere. In quest’ottica va dunque letta la provocatoria riabilitazione di concetti quali quelli di pregiudizio, tradizione e autorità, che viene proposta in Verità e Metodo.

La critica delle ideologie di Habermas, al contrario, vuole porsi come un gesto metaermeneutico capace di smascherare le distorsioni che caratterizzano la comunicazione umana. Habermas oppone alla comunicazione umana falsificata l’idea di una liberazione essenzialmente politica, guidata dall’ideale di una comunicazione priva di limiti e di ostacoli.

Ricoeur, da parte sua, nota che l’istanza critica rappresen­ta un’esigenza continuamente reiterata e sempre abortita da parte dell’ermeneutica. A partire da Heidegger, infatti, nota Ricoeur, l’ermeneutica si è impegnata in un movimento di risalita al fondamento, tanto da trascurare completamente le questioni epistemologiche relative alla critica esegetica, le quali venivano considerate come delle questioni «derivate». Heidegger era preoccupato di radicare il cerchio ermeneutico

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EPISTEMOLOGIA

più in profondità del livello a cui si situa l’epistemologia, che, sul piano ontologico fondamentale, risulta essere «fondata» sulla struttura di anticipazione della precomprensione. Per questi motivi non troviamo riflessioni di carattere epistemo­logico nell’Analitica del Dasein. Ciò non significa comunque, nota Ricoeur, che lo sforzo critico sia del tutto assente dalla speculazione heideggeriana: al contrario, esso è tutto concen­trato nel lavoro di decostruzione della metafisica. In Heidegger, scrive Ricoeur, «il confronto con la tradizione metafisica del­l’Occidente prende il posto di una critica dei pregiudizi»49.

In Gadamer, come in Heidegger, osserva ancora Ricoeur, l’ermeneutica è impedita dall’impegnarsi nelle problematiche epistemologiche perché, anche qui, tutto lo sforzo del pensie­ro è investito nella radicalizzazione del problema del fonda­mento. In Gadamer, inoltre, il rifiuto dell’epistemologia è raf­forzato dal particolare modo in cui questo autore intende l’ermeneutica. Gadamer, infatti, concepisce lo statuto dell’er­meneutica in opposizione alla «distanziazione alienante» (la Verfremdung) che, secondo lui, guida l’attitudine oggettivante propria alla scienze umane. Data questa opposizione, osserva Ricoeur, «tutta l’opera prende un carattere dicotomico che si mostra sin dal titolo Verità e Metodo, nel quale l’alternativa ha la meglio sulla congiunzione»50.

Ricoeur, giudicando unilaterale tanto la posizione di Gadamer che quella di Habermas, ne tenta un’articolazione dialettica, che rispetti la diversità dei livelli a cui esse si situa­no e degli interessi da cui sono mosse. L’ermeneutica di Gadamer, secondo Ricoeur, può essere infatti rettificata in un senso tale da poterla predisporre ad un incontro fecondo con la critica delle ideologie. Per far questo Ricoeur mostra che il processo di distanziazione, che Gadamer definisce alienante, non caratterizza solo le scienze umane e naturali, ma è già all’opera nell’ermeneutica stessa. Questa distanziazione, al-

49 lui, p. 364.50 Ivi, p. 365.

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VERITÀ DEL METODO

l’opera all’interno del processo ermeneutico stesso, è rinve­nibile, secondo Ricoeur, ad almeno quattro livelli. 1) La fis­sazione di un testo nella scrittura implica, in un triplice senso, una autonomizzazione del testo e, dunque, una distanziazione dal testo. Autonomia e distanziazione rispetto all’intenzione dell’autore, alla situazione socioculturale in cui si è prodotto il testo e al destinatario primitivo. 2) Se ci si libera dalla convinzione, di origine diltheyana, che l’atteggiamento espli­cativo debba avere sempre un carattere naturalistico o causa­le, allora l’ermeneutica può costituirsi attraverso la mediazio­ne della spiegazione strutturale e dei suoi modelli semiologici. Verità e metodo, da questo punto di vista, non costituiscono un’alternativa, ma un processo dialettico. 3) Secondo Gadamer, a differenza di quanto pensavano i romantici, ciò che conta non è l’intenzione dell’autore nascosta dietro al testo, ma il mondo che l’opera squaderna di fronte a sé. Ebbene, proprio questo potere deH’immagnario letterario di prospettare nuove possibilità e di aprire nuove dimensioni del reale, crea, attra­verso la distanziazione dal dato, le condizioni di una critica del reale. Il testo letterario possiede un potere sovversivo, analogo a quello che caratterizza la critica delle ideologie. 4) Infine, nota ancora Ricoeur, il lettore non possiede mai la chiave della comprensione di un testo. Nella lettura si verifica infatti una sorta di spossessamento del sé, che poi si ritrova ad un diverso livello. La lettura ci introduce alle variazioni immaginative delPego, di modo tale che la soggettività del lettore risulta essere in qualche modo sospesa nell’atto di lettura. In questo senso la distanziazione da sé costituisce un momento essenziale nella comprensione del testo e di sé at­traverso il testo, tanto essenziale quanto il momento dell’ap­propriazione.

Allo stesso modo, secondo Ricoeur, anche la critica delle ideologie può essere rettificata in modo tale da poterla predi­sporre ad un incontro fecondo con l’ermeneutica.

La critica delle ideologie, osserva Ricoeur, si fonda sulle seguenti tesi: 1) Che qualsiasi ricerca è regolata da un interes­

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EPISTEMOLOGIA

se specifico che le fornisce un quadro pregiudiziale di riferi­mento; 2) Che gli interessi fondamentali sono tre (interesse tecnico, interesse pratico, interesse all’emancipazione); 3) Che questi interessi segnano l’emersione della specie umana dalla natura e prendono forma in un ambiente costituito dal lavo­ro, dal potere e dal linguaggio; 4) Che nella riflessione su di sé conoscenza ed interesse fanno una cosa sola; 5) Che l’unità di conoscenza ed interesse si attesta in quella dialettica che è capace di discernere le tracce storiche della repressione del dialogo e di ricostruire ciò che è stato represso. Queste tesi, nota Ricoeur, non sono giustificabili attraverso una descrizio­ne empirica e non costituiscono una teoria intesa come insie­me di ipotesi esplicative che possano ricostruire uno scenario primitivo (come avviene nel caso della psicoanalisi). Secondo Ricoeur Habermas ha potuto scoprire gli interessi che stanno alla base della conoscenza, rapportandoli alla trilogia potere- lavoro-linguaggio per mezzo di un’antropologia filosofica molto prossima all’Analitica del Dasein e all’ermeneutica della Sorge di Heidegger. Gli interessi che condizionano la cono­scenza, dunque, non essendo né degli osservabili, né delle entità teoriche alla stregua dell’Io, dell’Es e del Superio freudiani, sono, in definitiva, degli esistenziali, la cui analisi non può che essere condotta per via ermeneutica. Poiché gli esistenziali per noi sono, al tempo stesso, ciò che vi è di più prossimo e di più dissimulato, essi richiedono di venir prima disoccultati ermeneuticamente, per poi poter essere ricono­sciuti.

In secondo luogo, sembra a Ricoeur che la distinzione tra l’interesse per l’emancipazione, che motiva le scienze sociali, e l’interesse che anima le scienze storico-ermeneutiche, sia affermata in maniera dogmatica. Tutte le distorsioni che la psicoanalisi e la critica delle ideologie scoprono e denunciano non sono altro, osserva infatti Ricoeur, che delle distorsioni della nostra capacità comunicativa. L’interesse per l’emancipa­zione non può essere trattato come un interesse distinto per­ché, quando viene preso positivamente, a prescindere dalle reificazioni che combatte, esso non ha altro contenuto che la

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VERITÀ DEL METODO

comunicazione senza limiti ed ostacoli. L’ermeneutica delle tra­dizioni deve ricordare alla critica delle ideologie che è solo sulla base della reinterpretazione creativa delle proprie eredità culturali che si può progettare l’emancipazione.

Habermas vede in atto, nello scenario della contempo­raneità, un processo in cui la sfera dell’azione strumentale invade la sfera dell’azione comunicativa, analogamente a Max Weber che prevedeva il progressivo dominio della razionaliz­zazione, fonte della dedivinizzazione e del disincanto. Su questo punto Ricoeur osserva che l’unico modo per far sì che l’inte­resse per l’emancipazione non rimanga una pia speranza, occorre risvegliare l’azione comunicativa, cosa che risulta possibile solo appoggiandosi sulla ripresa creativa delle pro­prie tradizioni culturali.

Infine, risulta erronea l’immagine dell’ermeneutica rivolta verso una tradizione che la precede e di una critica delle ideologie che guarda verso il futuro di una liberazione, la cui idea regolatrice è l’ideale della comunicazione senza limiti ed ostacoli. Anche la critica delle ideologie parla, infatti, a par­tire da una tradizione, che è quella delPllluminismo, oltre che quella giudaico-cristiana dell’Esodo e della Resurrezione.

Concludendo la sua riflessione sul dibattito Habermas- Gadamer, Ricoeur osserva che tutte le considerazioni fatte non possono e non devono abolire la differenza tra ermeneu­tica e critica delle ideologie perché

ciascuna, ancora una volta, ha un luogo privilegiato e delle preferenze regionali diverse: da un lato un’attenzione alle ere­dità culturali, centrata forse in modo più netto sulla teoria del testo; dall’altro lato una teoria delle istituzioni e dei fenomeni di dominio, centrata sull’analisi delle reificazioni e delle aliena­zioni. S1

L’articolazione dialettica tra spiegazione e comprensione, tra distanziazione critica ed appartenenza ermeneutica, tra verità intesa come fondazione critica di un asserto e verità

51 Ivi, p. 376.

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EPISTEMOLOGIA

come disvelamento, scoperta, illuminazione artistica, costituisce una delle tesi portanti di questo mio studio. In questa dialettica Gadamer rappresenta meglio di ogni altro pensatore uno dei due poli dialettici, quello della comprensione. Habermas, però, come Ricoeur lascia intendere, non può rappresentare piena­mente l’altro dei due poli. Come si è già venuti mostrando nel corso delle riflessioni svolte, infatti, il sapere critico inteso nel suo senso più radicale è quello che procede per rimozione di contraddizione. Un asserto è vero, nel senso critico del termine, quando viene fondato per rimozione di contraddizione. La cri­tica delle ideologie di Habermas è invece molto vicina all’ermeneutica, perché gli interessi che condizionano la cono­scenza, non essendo né degli osservabili, né delle entità teori­che, sono, in definitiva, degli esistenziali, la cui analisi non può che essere condotta per via ermeneutica. Su questo non si può che dare ragione a Ricoeur. Certo, Habermas, in scritti più recenti, ha attinto dei livelli di maggiore radicalità sul piano critico, in particolare attraverso le sue riflessioni sulla contrad­dizione performativa. Rimane comunque una certa insoddisfa­zione anche rispetto a questi sviluppi più recenti del pensiero di Habermas, perché la struttura elenchica che egli sfrutta, per giustificare il principio di non contraddizione, si riferisce ad una situazione intersoggettiva (come del resto accadeva anche in Aristotele). ìJelenchos habermasiano, come quello aristotelico, si presenta come rapporto linguistico tra coscienze diverse. Questo suo carattere lo rende problematico. Che esista un linguaggio, un dialogare, lo si può affermare solo sulla base di un’interpretazione, che, in quanto interpretazione, risulta controvertibile. Che a determinati segni corrispondano deter­minati significati è un’ipotesi ermeneutica. Che esista inoltre una coscienza altra rispetto alla coscienza in cui consiste l’ap­parire attuale è un problema. Uelenchos di Habermas viene inficiato dai suoi presupposti non riscattati, esso, cioè, presup­pone una fede, è un che di ipotetico: se il contenuto intersoggettivo che viene affermato nell’interpretazione esiste, allora il negatore del principio di non contraddizione si con­

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VERITÀ DEL METODO

traddice effettivamente. Occorre allora proseguire oltre Habermas, operando la distinzione tra il rapporto dialogico intersoggettivo ed il rapporto tra verità e negazione della verità, opposizione per cui appare che la negazione dell’opposizione tra positivo e negativo si fonda sull’opposizione stessa tra positivo e negativo.

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Parte terza

O N TO LO GIA

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1. L’ONTOLOGIA NEL PENSIERO DI RICOEUR

1. D alla fenomenologia a ll ’ontologia

La fenomenologia ricoeuriana si è da sempre caratterizza­ta per una chiara orientazione ontologica 1 e per un deciso rifiuto degli aspetti idealistici presenti nel pensiero husserliano. Questo atteggiamento teorico di Ricoeur emerge chiaramente nella sua prima grande opera, dedicata alla fenomenologia del volontario e dell’involontario. Mettere a tema la volontà, ha significato, per Ricoeur, superare la chiusura del cogito car­tesiano e husserliano, al fine di metterne in luce le componen­ti relative al corpo, all’inconscio, al carattere e di mostrarne il radicamento ontologico2.

1 II kantismo di Ricoeur, secondo Virgilio Melchiorre, «ha abbandonato ogni vizio gnoseologistico, ritrovando un’intenzione al reale ove Kant più vo­lentieri parlava d’una semplice esigenza della ragione: Kant, dunque, ritrovato nell’unità dialettica di Hegel». V. M elch io rre , Il metodo fenomenologico di Paul Ricoeur, Introduzione a P. R icoeur , Finitudine e colpa, 1960, Bologna, p. 46. Il superamento dello gnoseologismo kantiano, però, non sfocia nell’elaborazione di un’ontologia intesa come scienza dell’essere in quanto essere, perché Ricoeur, come egli ama scrivere, oltre a leggere Kant attraverso Hegel, legge anche Hegel attraverso Kant. Nota infatti Melchiorre: «Kant ancora può indicare contro Hegel il limite dell’intelligenza finita e l’apertura al regno della fede» {ibid.).

2 Osvaldo Rossi, in un articolo dedicato all’ontologia nel pensiero di Ricoeur, ha scritto che «l’interesse per quella matrice di impegno che è la volontà riveste un significato decisivo per il problema dell’ontologia in Ricoeur. Mediante il ricorso a questa infatti il filosofo intende superare la chiusura del cogito in se stesso per coinvolgerlo nelle vicissitudini dell’esistenza: partendo appunto da una fenomenologia della volontà» (O. Rossi, Per un’analisi dell’ontologia di Paul Ricoeur, «Aquinas», ii-iii, 1980[23], p. 445) Sempre nello stesso articolo Rossi osserva che «fin dall’inizio Ricoeur non ha rinnegato la

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VERITÀ DEL METODO

L’orientamento ontologico del pensiero ricoeuriano è messo inoltre molto bene in evidenza dagli studi che il nostro autore ha dedicato al pensiero di Husserl.

Secondo Ricoeur Husserl, a partire dal 1905, ha iniziato a dare un’interpretazione idealistica del metodo fenomeno- logico, interpretazione che trova il suo fondamento nella dottrina idealistica che Husserl elabora in maniera sistematica nel primo libro delle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica e nelle Meditazioni cartesiane. Occorre, allora, ben distinguere tra il metodo fenomenologico husserliano, che può ricevere anche un’interpretazione non idealistica, e l’interpretazione che di esso ne ha dato Husserl. E il termine di «costituzione» che riceve un senso molto ambiguo negli scritti di Husserl. Da un lato, infatti, «gli eser­cizi di “costituzione” sono degli esercizi di analisi intenziona­le; essi consistono nel partire da un “ senso” già elaborato in un oggetto che ha un’unità e una permanenza davanti allo spirito e a scomporre le molteplici intenzioni che si interseca­no all’interno di questo “senso”» 3: a questo livello siamo ancora sul piano di un idealism o m etodologico e non dottrinale, che si limita a considerare la realtà come un senso per la coscienza. Dall’altro lato, invece, «questo senso “per” una coscienza, Husserl lo interpreta come senso “nella” mia coscienza» 4, prendendo così «una decisione metafisica sul senso ultimo della realtà»5. Queste conseguenze emergono in ma­niera esemplare nelle Meditazioni cartesiane, dove «il ritorno

lezione di Cartesio e di Kant, ma oltre all’essere del soggetto, gli interessa il soggetto nell’essere ed il suo radicamento. Da una parte dunque la coscienza viene privata della sua pretesa all’autoposizione assoluta, dall’altra Ricoeur dimostra che non è accettabile una deposizione di ogni problematica del sog­getto, come avviene nelle filosofie dette della “morte del soggetto”, ma cerca una restituzione di esso ail’interno dell’essere» (ivi, p. 446).

3 P. R ic o e u r , Analyses et problèmes dans «Ideen h» de Husserl, «Revue de Métaphysique et de Morale», 57, 1952, ora in Id ., A l’école de la phénoménologie, Paris, 1986, p. 88.

4 Ivi, p. 89.5 Ibid.

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ONTOLOGIA

all’Ego conduce ad un monadismo secondo il quale il mondo è a titolo primordiale il senso che spiega il mio Ego» 6.

Ricoeur prende congedo dall’idealismo husserliano carat­terizzando la propria posizione nei termini di una «fenome­nologia esistenziale», la quale

fa la transizione tra la fenomenologia trascendentale, nata dalla riduzione di ogni cosa alla sua apparizione per me e l’ontologia, che restaura la questione del senso dell’essere per tutto ciò che è detto “esistere”. 7

Se, da un lato, la fenomenologia di Ricoeur mostra, sin dagli esordi, un’apertura ontologica, dall’altro lato si deve osservare che l’ontologia, su cui la fenomenologia sbocca, rimane un’ontologia indiretta, i cui confini con la poetica e l’ermeneutica biblica diventano a volte difficili da demarcare. Nel tematizzare il rapporto alla Trascendenza Ricoeur lascia la parola all’ermeneutica e alla poetica, piuttosto che ad un’ontologia dell’essere in quanto tale. Osserva infatti a tale proposito Maurizio Chiodi:

questa ontologia rimane fondamentalmente una filosofia del soggetto in quanto intrinsecamente aperto alla trascendenza. Ma il suo limite sta nel non tematizzare la qualità del rapporto del soggetto all’alterità della trascendenza. Per questo motivo, ulti­mamente e coerentemente a questa impostazione iniziale, un’ontologia della Trascendenza non può essere offerta in Ricoeur che da una poetica o dalla fede.8

Secondo Chiodi si darebbe, nel pensiero di Ricoeur, «un corto circuito tra etica e teologia, dove verrebbe a mancare il necessario anello intermedio costituito da un’ontologia specu­lativa» 9.

6 Ibid.7 E R icoeur , Phénoménologie existentielle, in Encyclopédie française, xix,

Philosophie et et religion, Paris, 1957, 19.10-12.8 Vedi M. C hiodi, Il cammino della libertà. Fenomenologia, ermeneuti­

ca, ontologia della libertà nella ricerca filosofica di Paul Ricoeur, Brescia, 1990, p. 517.

9 Scrive Chiodi: «Secondo Ricoeur, l’etica non può essere l’autoaffermazione di una libertà illimitata dell’uomo. Ma egli lascia solo alla teologia il compito di rispondere, in definitiva, a questa domanda, saltando la mediazione dell’onto-

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VERITÀ DEL METODO

Ma più problematico ancora, secondo Chiodi, «appare il fatto che la riflessione sulla soggettività sia l’unico autentico tema che Ricoeur sviluppa nella sua ontologia» 10.Le osservazioni di Chiodi sembrano per certi versi pertinenti. Esse vanno però lette tenendo conto che buona parte dell’ela­borazione ontologica di Ricoeur è posteriore al saggio di Chiodi. Chiodi infatti non ha potuto prendere in considera­zione scritti importanti quali Soi-même comme un autre, De la métaphysique à la morale e De l ’interprétation à la traduction. Per questo una delle questioni più importanti che dovremo affrontare nella prossima sezione è quella appunto di capire in che misura Ricoeur, attraverso i suoi ultimi scritti, venga incontro alle richieste di Chiodi e di altri critici che avanzano obiezioni similin .

logia. Si può, in un certo senso, dire che la domanda etica resta sospesa, perché la progressione etica-ontologia-teologia manca in Ricoeur dell’anello intermedio che radicalmente, a livello ontologico, fondi la struttura del rapporto tra l’uomo e Dio, sul cui compimento evenemenziale la teologia si incarica di riflettere criticamente» (ivi, p. 555, nota 82).

10 Ivi, p. 580.11 La necessità di mediare il passaggio tra l’antropologia filosofica e

l’ermeneutica biblica attraverso un’ontologia trascendentale ed una metafisica è stata rilevata, oltre che da Chiodi, anche da due studiosi americani del pensiero di Ricoeur: Peter Joseph Albano e David Tracy.

Albano ha tentato di integrare tra loro la prospettiva di Ricoeur e quella di Joseph Maréchal, che rimane all’interno del tomismo e si rivela più sensibile al problema della fondazione ultima. Osserva infatti Albano: «Ricoeur infrangeil movimento riduttivo dell’ermeneutica freudiana utilizzando la teleologia di Hegel. Perché non usa Ricoeur la metafisica [...] per fondare questa teleologia?» (E J . A lb a n o , Freedom, Truth and Hope. The Relationship o f Philosophy and Religion in the Thought o f Paul Ricoeur, Boston, 1987, p. 216). Più in là Albano rileva ancora che «sembra che si debba fare dell’ermeneutica per arrivare all’es­sere; ma si deve fare della metafisica trascendentale per fondare l’ermeneutica. L’approccio di Ricoeur all’Essere attraverso una riflessione sui simboli può, mi sembra, e deve ricevere il complemento e la conferma di una metafisica trascen­dentale» (ini, p. 234). Secondo Albano Ricoeur non prende in considerazione la possibilità di una metafisica razionale a causa di alcune remore di tipo kantiano e barthiano. Nota infatti il nostro studioso: «Egli accetta le limitazioni della prima Critica di Kant sull’impossibilità di una dimostrazione dell’esistenza di Dio e il rifiuto di Karl Barth della teologia naturale. Egli accetta non solo l’autolimitazione del pensiero di Kant ma anche il suo rispetto per la nozione biblica del Dio nascosto, nascosto persino nella sua rivelazione. La reverenza

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ONTOLOGIA

1.2 Poetica della volontà e ontologia

Ricoeur ha scritto che «la poetica della volontà avrà più da attendersi dai simboli dove si annuncia la rigenerazione della libertà asservita che da un’ontologia speculativa» 12. Queste sue

barthiana per l’inviolabile trascendenza di Dio e l’idea del buio nel cuore del­l’uomo rinforzano ulterirmente questa posizione» (ivi, p. 170).

Su posizioni molto vicine a quelle di Albano troviamo un altro studioso americano di Ricoeur, David Tracy, il quale afferma: «L’approccio di Ricoeur all’essere attraverso una riflessione sui simboli può e deve essere sostenuta da una metafisica trascendentale quale giustificazione formale dei suoi fondamenti. Viceversa, l’approccio della metafisica trascendentale all’essere è necessariamen­te completato da una fenomenologia delPesperienza e da un’ermeneutica del linguaggio nella quale l’essere viene predicato in molti modi ma in relazione ad un Primo...» (D. T racy, Blessed Rage for Order, New York, 1975, p. xvi).

Mentre Chiodi, Albano e Tracy rimangono legati al concetto tradizionale classico di ontologia, Ricoeur sembra aver definitivamente rinunciato a questo tipo di ontologia. Nota infatti Osvaldo Rossi: «Se l’ontologia ermeneutica di Ricoeur si differenzia da quella di Heidegger, pure non ha nulla a che vedere con la metafisica tradizionale. Non crediamo ci possano essere dubbi sul rifiuto della metafisica tradizionale da parte di Ricoeur. Anche nella voce Ontologie (in «Encycl. univers.», xix, Paris, 1972, pp. 94-102) e nel progetto stabilito per PUnesco sulle Tendenze principali della ricerca in filosofia (in «Filosofia», 1970, pp. 463-471) nonostante la necessaria imparzialità sulle diverse posizioni, ha modo di manifestare le proprie preferenze. Nell’ultimo scritto citato, in parti­colare, possiamo notare che nel quadro dei problemi odierni della filosofia non fa posto ad una problematica dell’essere dì tipo tradizionale; e trova inoltre il modo di qualificare la concezione della filosofia «come rappresentazione siste­matica della realtà» (condivisa dalle «correnti uscite dalla sintesi aristotelico- tomista») come «una pretesa insopportabile», che contrappone alla concezione analitica definita come «una inammissibile rinunzia»» (ivi, pp. 464-465) (O. Rossi, Per un’analisi dell’ontologia di Paul Ricoeur, cit., pp. 450-451).

12 C h io di, Il cammino della libertà, cit., p. xiv. Sulla ragioni che hanno potuto portare Ricoeur a rinviare il progetto di una poetica della volontà, sulle implicazioni di questo rinvio e sulle sue possibili interpretazioni sono stai ver­sati fiumi di inchiostro. Ovviamente, nella stragrande maggioranza dei casi, le conclusioni di ciascuno studioso divergono da quelle degli altri. Ecco tre esempi eloquenti.

André Léonard scrive: «Ricoeur abbozza una poetica della volontà che punta in direzione della via metafisica. Ahimè, la filosofia di Ricoeur non fa quasi più che puntare verso questa direzione e la poetica della volontà sembra rimanere per lungo tempo ancora allo stato di progetto e di abbozzo. Durante questi ultimi anni, in effetti, Ricoeur ha moltiplicato le deviazioni che devono condurre, alla fine, verso una via d’accesso al Cogito. La sua opera fa sempre di più pensare a quei lavori pubblici dove le deviazioni sono così numerose e così complesse che nessuno riesce a raggiungere il centro della città. Rimane che la stessa onestà del percorso intrapreso rischi di impedire al suo autore di

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parole indicano bene in che rapporto si situi nel suo pensiero l’ontologia rispetto alla poetica della volontà. Quando Ricoeur in Le volontaire et l’involontaire (1950) annunciava il futuro progetto di lavoro, dicendo di voler trattare in due successive opere del male e della Trascendenza (i due temi messi tra parentesi nell’eidetica pura del volontario e dell’involontario), non pensava ad elaborare, per quanto riguarda il tema della Trascendenza, un’ontologia speculativa. Quando Ricoeur fa ri­ferimento alla Trascendenza, nell’ambito della sua riflessione sulla volontà, pensa alla Trascendenza innanzitutto come salvez­za e liberazione possibile per la volontà asservita. La Trascen­denza ha la funzione di liberare la volontà dall’alienazione della colpa e dalla lacerazione della sofferenza. Questo perché la libertà colpevole non ha in sé le condizioni del proprio supe­ramento e della propria rigenerazione: essa può solo aderire attivamente alla propria liberazione, che, però, rimane comun­que un dono gratuito della Trascendenza. In questo senso la poetica della volontà acquista significato solo in relazione all’er­meneutica biblica.

arrivare ad una conclusione... Così ci sarebbe da scommettere molto che la “Poetica della volontà” non vedrà mai la luce...» (A. L e o n a rd , Ricoeur et l’ìdée d ’une poétique de la volonté, in a a .v v . Pensées des hommes et fo i en Jésus-Christ, Paris-Namur, 1980, p. 233).

Bernard Stevens ritiene, a sua volta, che le deviazioni che Ricoeur compie sul cammino della poetica della volontà, non debbano essere viste come dei momenti di rottura, ma come delle parentesi che «portano sempre più lontanoil compito annunciato in partenza» (B. S te v e n s, Uunité de l’oeuvre de Paul Ricoeur saisie selon la perspective de son ouvrage Temps et récit i, «Tijdschrift voor Filosofie», i, 1985, p. 111).

Paul Mukengebantu, invece, pensa che le deviazioni operate da Ricoeur non costituiscano né delle deviazioni che allontanerebbero dal fine ricercato, come ritiene Leonard, né, tantomeno, delle parentesi, come ritiene Stevens. Secondo Mukengebantu la poetica «rimane il termine verso il quale tende tutta l’opera di Ricoeur e, questo, dal suo inizio.» (P. M u k en g eb an tu , Uunité de l ’oeuvre philosophique de Paul Ricoeur, «Laval théologique et philosophique», 1990, p. 213). «La poetica della volontà soggiace a tutta l’ermeneutica di Paul Ricoeur ed è verso di essa che si rivolgono costantemente ed in maniera sempre più precisa le preoccupazioni del filosofo. L’ermeneutica opera la transizione tra la fenomenologia e la poetica della volontà, costringendo il pensiero a ricono­scere i propri limiti e ad ascoltare dei linguaggi diversi dal suo» (ivi, pp. 221- 222).

VERITÀ DEL METODO

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ONTOLOGIA

Se questo è vero, cioè che la poetica della volontà, così com’è concepita in Le volontaire et l ’involontaire, acquista senso solo in relazione all’ermeneutica biblica, si capiscono le difficoltà che Ricoeur ha incontrato nel realizzarla. Nel nostro pensatore, infatti, si è fatta sempre più forte, nel corso degli anni, l’esigenza di tener distinti gli ambiti della fede e della filosofia. Per questo, forse, è andato sempre più crescendo il suo interesse nei confronti dell’ontologia. L’ontologia rappre­senta infatti quello spazio, interno alla poetica della volontà, relativamente al quale la ragione filosofica è in grado di pro­cedere in relativa autonomia.

L’interesse per l’ontologia non ha comunque tolto nulla, nell’opera di Ricoeur, alle riflessioni sull’ermeneutica biblica. Ricoeur è infatti ben consapevole del fatto che l’ontologia non può appagare interamente il desiderio che anela alla rigenerazione, desiderio che chiede di essere illuminato ulte­riormente. A questo appello del desiderio, allora, può rispon­dere solo un sapere più debole di quello strettamente filoso- fico-ontologico, cioè il sapere ermeneutico che si interroga sui testi sacri. Per questi motivi si deve dire che l’ontologia «non riempie che parzialmente e senza transizione alcuna l’erme­neutica biblica» 13 di Ricoeur.

L’inclusione dell’ontologia all’interno del dominio della poetica della volontà ha senso se teniamo conto del fatto che l’ontologia di Ricoeur è un’ontologia ermeneutica, poiché l’es­sere, per Ricoeur, è essere interpretato. Ricoeur ha sempre nutrito una profonda diffidenza nei confronti di una metafi­sica determinante. Non è possibile, secondo il nostro autore, condurre un discorso di carattere epistemico, razionalmente rigoroso, sulla Trascendenza. L’eredità kantiana, infatti, è for­temente presente in Ricoeur, attraverso la mediazione del pensiero riflessivo francese di Lachelier, Lagneau e Nabert. I limiti posti da Kant nella Critica della Ragion Pura sono, per Ricoeur, decisivi. Si può, allora, parlare di Trascendenza, come

13 Chiodi, il cammino della libertà, cit., p. xiv.

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VERITÀ DEL METODO

fa Kant nella Critica della Ragion Pratica e nella Critica del Giudizio, ma occorre indebolire la forma di sapere che ne parla, proprio come Kant in queste opere. Sulla Trascendenza, in altri termini, è possibile solo fare un discorso di tipo allusivo o metaforico, cioè «poetico». Per questo la poetica della vo­lontà è anche, in certa parte, una poetica ontologica.

2. Gli scritti di ontologia

Il primo scritto in cui Ricoeur si è occupato di proble­matiche ontologiche è un saggio del 1956, intitolato Négativité et affirmation originane 14, che rimane a tutt’oggi fondamentale per la comprensione dei contenuti essenziali della riflessione ontologica ricoeuriana. In seguito Ricoeur ha ancora trattato di queste tematiche nell’ultimo capitolo de La métaphore vive, opera che ha visto la sua pubblicazione nel 1975.

Oltre a questi due saggi, comparsi a distanza di vent’anni l’uno dall’altro, Ricoeur ha dedicato alcune pubblicazioni re­centi al tema dell’ontologia. Ha affrontato alcune proble­matiche ontologiche, legate al rapporto tra ipseità ed alterità, nell’ultimo capitolo di Soi-même comme un autre1S. Ha poi studiato il problema del rapporto tra metafisica e morale in un articolo dal titolo De la métaphysique à la morale lé. Infi­ne, si è interessato, in uno studio su Esodo 3.14 17, al rappor­to tra senso biblico e senso greco della nozione di essere.

Il primo impatto con gli scritti ricoeuriani di ontologia può dare l’impressione di una certa frammentarietà, se non

14 R R ic o e u r , Négativité et affirmation originaire, in Aspects de la dialectique, Recherches de philosophie, il, Paris 1956, ora in Histoire et vérité (da cui citiamo), Paris 1964 (seconda edizione aumentata. La prima ed. era comparsa nel 1955), pp. 336-360.

15 Id., Soi-même comme un autre, Paris, 1990, pp. 345-410.16 Id ., De la métaphysique à la morale, «Revue de métaphysique et de

morale», n° 4, 1993, pp. 455-477.17 P. R ic o e u r , De l’interprétation à la traduction, in P. R ic o e u r - A. L ac o c q u e ,

Penser la Bible, Paris 1998, pp. 335-371.

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ONTOLOGIA

altro per il fatto che Ricoeur non ha mai scritto un trattato sistematico di ontologia, ma ha affidato le sue riflessioni sul tema a degli scritti che sono apparsi in contesti diversi. Ciononostante, ad una lettura approfondita, risulta chiaro che allo sviluppo della riflessione ontologica ricoeuriana è sotteso un disegno complessivo coerente.

Lo scritto Négativité et affirmation originaire costituisce il primo intervento del nostro filosofo in materia di ontologia. Come vedremo in esso sono già enucleate le linee fondamen­tali della sua ontologia: la polemica contro l’essenzialismo, contro l’ontologia della sostanza, contro la cosalizzazione del­l’essere e la proposta, in alternativa, di un’ontologia dell’atto, di una metafisica che concepisca l’essere come ciò che «è senza essenza o la cui sola essenza consiste nell’esistere» 18.

Il capitolo finale de La métaphore vive ha come scopo quello di mostrare come vi sia la possibilità di condurre un’ar­gomentazione di tipo speculativo autonomo, che non dipen­da, cioè, da un discorso a carattere poetico-metaforico. Esso, dunque, rappresenta uno studio di tipo preparatorio all’elabo­razione teorica di un’ontologia speculativa e le conclusioni a cui giunge consistono nella formulazione della tesi che l’ontologia è possibile solo come ontologia ermeneutica, per­ché non si dà essere che non sia essere interpretato.

L’ermeneutica, comunque, permette all’ontologia di porsi come discorso autonomo rispetto a quello poetico, perché l’interpretazione è un discorso misto, in cui i contenuti che sono offerti alla speculazione vengono da essa portati alla luce del concetto, senza che il concetto li debba arrestare o fissare. Dire che l’ontologia è sempre ontologia ermeneutica significa, per Ricoeur, che essa non può mai trovare in sé il proprio cominciamento, ma deve sempre partire da un contenuto già dato. Questo, però, non significa che l’ontologia, in quanto riprende alcuni contenuti già dati, per rischiararli alla luce del concetto, non costituisca, in qualche modo, un inizio.

18 Ricoeur, Négativité et affirmation originaire, cit., p. 3 5 7 .

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fa Kant nella Critica della Ragion Pratica e nella Critica del Giudizio, ma occorre indebolire la forma di sapere che ne parla, proprio come Kant in queste opere. Sulla Trascendenza, in altri termini, è possibile solo fare un discorso di tipo allusivo o metaforico, cioè «poetico». Per questo la poetica della vo­lontà è anche, in certa parte, una poetica ontologica.

2. Gli scritti di ontologia

Il primo scritto in cui Ricoeur si è occupato di proble­matiche ontologiche è un saggio del 1956, intitolato Négativité et affirmation originaire 14, che rimane a tutt’oggi fondamentale per la comprensione dei contenuti essenziali della riflessione ontologica ricoeuriana. In seguito Ricoeur ha ancora trattato di queste tematiche nell’ultimo capitolo de La métaphore vive, opera che ha visto la sua pubblicazione nel 1975.

Oltre a questi due saggi, comparsi a distanza di vent’anni l’uno dall’altro, Ricoeur ha dedicato alcune pubblicazioni re­centi al tema dell’ontologia. Ha affrontato alcune proble­matiche ontologiche, legate al rapporto tra ipseità ed alterità, nell’ultimo capitolo di Soi-même comme un autre 15. Ha poi studiato il problema del rapporto tra metafisica e morale in un articolo dal titolo De la métaphysique à la morale lé. Infi­ne, si è interessato, in uno studio su Esodo 3.14 17, al rappor­to tra senso biblico e senso greco della nozione di essere.

Il primo impatto con gli scritti ricoeuriani di ontologia può dare l’impressione dì una certa frammentarietà, se non

14 P. R ico e u r , Négativité et affirmation originaire, in Aspects de la dialectique, Recherches de philosophie, il, Paris 1956, ora in Histoire et vérité (da cui citiamo), Paris 1964 (seconda edizione aumentata. La prima ed. era comparsa nel 1955), pp. 336-360.

15 Id ., Soi-même comme un autre, Paris, 1990, pp. 345-410.16 Id., De la métaphysique à la morale, «Revue de métaphysique et de

morale», n° 4, 1993, pp. 455-477.17 P. R ic o e u r , De l’interprétation à la traduction, in P. R ico e u r - A. L aco cq u e ,

Penser la Bible, Paris 1998, pp. 335-371.

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ONTOLOGIA

altro per il fatto che Ricoeur non ha mai scritto un trattato sistematico di ontologia, ma ha affidato le sue riflessioni sul tema a degli scritti che sono apparsi in contesti diversi. Ciononostante, ad una lettura approfondita, risulta chiaro che allo sviluppo della riflessione ontologica ricoeuriana è sotteso un disegno complessivo coerente.

Lo scritto Négativité et affirmation originaire costituisce il primo intervento del nostro filosofo in materia di ontologia. Come vedremo in esso sono già enucleate le linee fondamen­tali della sua ontologia: la polemica contro l’essenzialismo, contro l’ontologia della sostanza, contro la cosalizzazione del­l’essere e la proposta, in alternativa, di un’ontologia dell’atto, di una metafisica che concepisca l’essere come ciò che «è senza essenza o la cui sola essenza consiste nell’esistere» 18.

Il capitolo finale de La métaphore vive ha come scopo quello di mostrare come vi sia la possibilità di condurre un’ar­gomentazione di tipo speculativo autonomo, che non dipen­da, cioè, da un discorso a carattere poetico-metaforico. Esso, dunque, rappresenta uno studio di tipo preparatorio all’elabo­razione teorica di un’ontologia speculativa e le conclusioni a cui giunge consistono nella formulazione della tesi che l’ontologia è possibile solo come ontologia ermeneutica, per­ché non si dà essere che non sia essere interpretato.

L’ermeneutica, comunque, permette all’ontologia di porsi come discorso autonomo rispetto a quello poetico, perché l’interpretazione è un discorso misto, in cui i contenuti che sono offerti alla speculazione vengono da essa portati alla luce del concetto, senza che il concetto li debba arrestare o fissare. Dire che l’ontologia è sempre ontologia ermeneutica significa, per Ricoeur, che essa non può mai trovare in sé il proprio cominciamento, ma deve sempre partire da un contenuto già dato. Questo, però, non significa che l’ontologia, in quanto riprende alcuni contenuti già dati, per rischiararli alla luce del concetto, non costituisca, in qualche modo, un inizio.

18 R ic o e u r , Négativité et affirmation originaire, cit., p. 3 5 7 .

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VERITÀ DEL METODO

Una volta preparato il terreno, attraverso l’ottavo studio de La métaphore vive, ad una riflessione ontologica di carattere speculativo, Ricoeur può riprendere le fila di quel discorso nell’ultimo capitolo di Soi-même comme un autre. In quest’ope­ra egli sviluppa più a fondo il proprio pensiero in materia di ontologia, a partire dall’ermeneutica del sé, sviluppata nel corso di tutto il libro.

L’abbozzo ontologico che egli ci offre ha come scopo quello di soddisfare la seguente domanda: quale ontologia è presup­posta dall’ermeneutica del sé che viene proposta in Soi-même comme un autre? L’ontologia è qui intesa, innanzitutto, come un’ontologia del sé, dove le meta-categorie dello Stesso e dell’Altro vengono viste nella loro funzione di elementi che permettono di comprendere le strutture della soggettività. Ciononostante, l’ontologia del sé inizia, già da questo scritto, a lasciar trasparire l’abbozzo di un’ontologia generale, dove, tra i diversi significati dell’essere portati alla luce da Aristotele, viene privilegiato quello dell’essere in quanto atto e potenza, dal momento che esso si rivela il più indicato a svolgere una funzione unificatrice nei confronti delle varie espressioni del- l’agire umano.

In De la métaphysique à la morale Ricoeur definisce con più precisione i contorni dell’ontologia che era stata appena abbozzata nell’ultimo capitolo di Soi-même comme un autre e svolge un’interessante analisi dei rapporti che si possono isti­tuire tra i due campi della metafisica e della morale.

Infine, nell’ultimo scritto di ontologia, dedicato ad un’ana­lisi delle varie interpretazioni del passo di Esodo in cui Dio si autodesigna dicendo «Ehyeh aser ehyeh», le considerazioni relative all’ontologia generale prendono il sopravvento, occu­pando tutto lo spazio della riflessione, intrecciandosi e con­fondendosi spesso con quell’ermeneutica biblica rispetto a cui l’ontologia non costituisce che un riempimento parziale.

Ricoeur, in questo saggio, assume il ruolo della voce sto­nata nel coro di tutti coloro che, sia nel campo della filosofia che in quello della teologia, proclamano la necessità di una

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ONTOLOGIA

separazione tra la tradizione giudaico-cristiana e quella greca, deellenizzando il cristianesimo, per riavvicinarlo alla sua fonte ebraica, e liberando la filosofia da tutte le scorie della sua compromissione con la tradizione giudaico-cristiana. Secondo Ricoeur, al contrario, il connubio prodottosi in epoca medio­evale tra queste due grandi tradizioni è un connubio la cui fecondità non risulta ancora esaurita.

Come sembra chiaro da questa succinta panoramica, gli scritti ricoeuriani di ontologia, pur essendo apparsi in luoghi diversi, e pur essendo stati originati da occasioni disparate, conservano tuttavia una loro unità d’insieme e ci permettono di enucleare un percorso complessivo improntato ad un dise­gno coerente. Vediamo, allora, più nel dettaglio, e senza di­menticare quanto detto, il contenuto di ciascuno degli scritti ontologici di Ricoeur a cui abbiamo fatto cenno.

2.1 L’affermazione originaria

Ricoeur, sin dalle prime battute del saggio Négativité et affirmation originane, dichiara di voler recuperare una filoso­fia dell’essere e dell’esistere, al di là di tutte quelle filosofie che, dopo Hegel, «fanno della negazione la molla della rifles­sione, o persino identificano la realtà umana con la nega­tività»19.

La tesi che Ricoeur intende dimostrare è che l’essere ha la priorità sul nulla nel cuore stesso dell’uomo, anche se questo essere si annuncia attraverso il suo formidabile potere di nega­zione. L’obiettivo polemico di Ricoeur è il pensiero di Sartre e il suo stile filosofico del no e dell’angoscia, contro il quale Ricoeur vorrebbe far valere uno stile filosofico del sì e della gioia.

Nell’articolare la sua argomentazione Ricoeur prende le mosse dall’esperienza della finitudine, esperienza che si pre­senta sotto la duplice forma dì limitazione e di oltrepassamento del limite.

19 Ivi, p. 336.

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VERITÀ DEL METODO

Il corpo è tomba, carcere, limite, come pensavano gli orfici, ma, allo stesso tempo, esso è anche apertura su. Il corpo rappresenta un’apertura perché ha dei bisogni che gli testimo­niano la sua mancanza di mondo, perché soffre e dunque si sente esposto al mondo, perché percepisce e quindi accoglie Palterità. Inoltre, attraverso le espressioni del corpo, del viso, ciascuno si offre alla reciprocità del rapporto intersoggettivo. Infine, il volere agisce nel mondo attraverso quell’insieme di poteri, di saper-fare che il corpo gli offre. Il corpo, dunque, è apertura. Questa apertura, però, possiede dei tratti che portano a definirla come un’apertura finita. Vi sarebbe, cioè, una chiusura alPinterno stesso dell’apertura in cui il corpo consiste. Tra i vari casi citati sopra (bisogno, sofferenza, per­cezione, potere, espressione) il più illuminante è senz’altro quello della percezione.

Noi percepiamo sempre gli oggetti da un certo punto di vista, ovvero in modo unilaterale. Non solo noi recepiamo gli oggetti e non li creiamo attraverso un’intuizione creatrice, ma, di più, li recepiamo da un punto di vista particolare, che si oppone agli infiniti punti di vista che non sono quel certo punto di vista.

Eppure, per riconoscere la propria prospettiva come pro­spettiva limitata, ciascuno la deve, in qualche modo, oltrepas­sare. Io, infatti, percepisco la finitezza del mio punto di vista nella misura in cui lo rapporto ad altri punti di vista che anticipo, per così dire, a vuoto. In questo modo io rapporto la prospettiva che vedo a quelle che non vedo e, dunque, passo dal livello della percezione a quello del senso, che non può essere percepito, ma solo saputo, pensato. Il punto di vista a partire dal quale osservo il mondo è il mio punto zero, il «qui assoluto». Io passo dalla percezione al senso quando sono in grado di convertire il mio qui dal ruolo di luogo assoluto a quello di luogo qualunque, relativo a tutti gli altri. Passare dalla percezione al senso significa passare dalla situa­zione in cui io sono il mio punto di vista alla situazione in cuiio rifletto sul mio punto di vista.

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ONTOLOGIA

Considerazioni analoghe si possono svolgere anche per gli altri aspetti di quell’apertura al mondo in cui la propria corporeità consiste. Un determinato bisogno, ad esempio, può essere valutato, approvato o disapprovato e, dunque, oltre­passato nella sua finitezza. Conclude allora Ricoeur:

La nozione di limite applicata all’esistenza umana ha un duplice significato; da un lato essa designa il mio esserci, limitato in quanto alla sua prospettiva; dall’altro essa designa il mio atto limitante in quanto intenzione di significato e di volere; è il mio atto come limitante che rivela il mio esserci come lim itato.20

Il movimento di trasgressione dalla prospettiva verso l’in­tenzione di significare ha in sé un carattere di negatività: dire che io trascendo la mia prospettiva significa dire che, in qual­che modo, io nego la mia prospettiva. Come trascendenza io non sono più ciò che sono come punto di vista. Io intenziono la cosa come ciò che non è secondo la mia prospettiva. L’atto di esistere, dunque, si scopre come atto annichilatore. Ma, si chiede Ricoeur, è forse possibile giungere sino al punto di ipostatizzare questi atti annichilatoti in un nulla, che verrebbe a costituire la caratteristica ontologica fondamentale dell’esse­re umano? Questo è, infatti, quello che ha tentato di fare Sartre. Ricoeur, al contrario, si propone di mostrare che è possibile recuperare, nel cuore stesso della denegazione21, quella affermazione originaria che si annuncia a suon di ne­gazioni.

La denegazione nega la negatività (la finitezza) del punto di vista. Essa, allora, non consiste in una negazione semplice, ma in una negazione di negazione. Il primo negativo non è il senso in rapporto al punto di vista, ma il punto di vista, la prospettiva. La negazione conviene a titolo primario alla fini-

20 Ivi, p. 34221 Ricoeur usa il termine denegazione per indicare la negazione operata da

parte dell’intenzione significante su quell’altra negazione in cui consiste la finitezza del punto di vista. La denegazione sarrebbe, allora, la negazione di un’altra negazione.

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VERITÀ DEL METODO

tudine e, solo come negazione di negazione, al superamento della finitudine attraverso il pensiero ed il volere. Questa acquisizione è di estrema importanza perché, osserva Ricoeur, «dire che la trascendenza umana è negazione a titolo primario significa autorizzarsi a passare dall’annullamento al nulla»22. Questo è il passaggio che, troppo sbrigativamente, compie Sartre e che Ricoeur si propone di rimettere in questione.

Sartre, contro Hegel, afferma che non vi può essere pas­saggio dall’essere al nulla, perché l’essere è essere e, in quanto tale, esso è immune dalla contaminazione del negativo. Per rendere conto della negazione occorre allora, secondo Sartre, che il nulla sorga nel cuore stesso dell’essere, come un verme capace di intaccarlo. Sartre individua nell’uomo l’essere attra­verso il quale il nulla viene portato alle cose: l’uomo ha que­sto potere perché è dotato di libertà e, attraverso la libertà, è capace di essere il nulla del proprio passato e di progettarsi verso l’avvenire. L’angoscia è il sentimento di questo potere.

Il problema che si pone, a questo punto, è quello di sape­re se la negazione può cominciare da sé e se il rifiuto può avere in sé la propria origine. Per rispondere a questo inter­rogativo Ricoeur prende in esame la relazione della decisione ai motivi, che le stanno alle spalle, e al progetto, che la guida.

Nella relazione che si instaura tra la decisione e i suoi motivi il nulla non entra in gioco per il fatto che la decisione è capace di sottrarsi ai motivi, di annullarli. Non accade mai che si rompa rispetto alla totalità dei motivi: si rompe rispetto ad un gruppo di motivi per rispondere alla sollecitazione di un altro gruppo di motivi. Il nulla, allora, entra in gioco, secondo Ricoeur, non per il fatto che la decisione si sottrae ai motivi, ma per il fatto che la motivazione spicca sulla causalità delle cose. L’aspetto negativo della libertà consiste nel fatto che la decisione non risponde a delle cause necessa­rie, ma solo a dei motivi che inclinano senza necessitare.

22 R icoeur, Négativité et affirmation originaire, cit., p . 350.

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ONTOLOGIA

A questo si può obiettare dicendo che le decisioni autenti­che non si appoggiano su nulla, che esse consistono in un innovazione tale da annullare tutto il proprio passato. Eppu­re, nota Ricoeur, nemmeno nel caso più estremo, quello di una conversione totale, si dà un tale rinnegamento. Io, infatti, nego una parte di me stesso solo per assumerne un’altra e, anziché rinnegare completamente il mio passato, ne muto la considerazione, portando in primo piano ciò che stava sullo sfondo e viceversa.

Spostando la nostra considerazione dal passato verso l’av­venire incontriamo la figura del progetto. Anche la nozione di progetto contribuisce a mettere in crisi il primato della nega­zione. Il progetto, infatti, è ciò che manca alle cose: esso testimonia di un vuoto presente nelle cose, vuoto che io vor­rei riempire attraverso i miei atti. Quando io contesto la re­altà alla luce di un valore, attraverso questa contestazione compio un’affermazione. Persino nella rivolta si può rintrac­ciare una tale attitudine: rivoltarsi significa dire di no, ma dire di no in virtù di una prospettiva migliore, che viene affermata attraverso quel no. Non si deve dire, dunque, che il valore è mancanza, ma che la situazione, in quanto intollerabile, man­ca di valore.

Giunto a questo punto della sua argomentazione, Ricoeur si chiede se sia possibile procedere oltre e giungere addirittura a conferire una portata ontologico-trascendentale alla subor­dinazione della negazione all’affermazione. Detto in altri ter­mini: è possibile dire che l’affermazione è originaria, ossia che essa ha carattere di fondamento?

Ciò che ha più volte impedito a questa strada di essere battuta è, secondo Ricoeur, l’idea troppo stretta e povera dell’essere propria ad alcune tradizioni di pensiero. Secondo una certa ontologia l’essere si ridurrebbe infatti a cosa, pura datità, essenza. Questo, ad esempio, accade in Sartre. Il nulla che è la realtà umana, non è, infatti, il nulla dell’essere in generale, ma della coseità che invade il corpo e il passato, facendoli sprofondare verso il sonno del minerale. Sartre ha

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v e r it à d e l Me t o d o

potuto ipostatizzare l’atto annullatore in un nulla attuale perché egli, in precedenza, aveva ridotto l’essere al dato, alla cosa. Conclude allora Ricoeur: «Tutto ciò che egli ha dimostrato è che, per essere liberi, è necessario costituirsi in non-cosa; ma non cosa non è non-essere» 23. «La sua filosofia del nulla è la conseguenza di una insufficiente filosofia dell’essere» 24. Se l’es­sere è puro dato, cosa, allora il valore, che introduce del dover essere nell’essere, non può che essere privazione, lacuna. Par­tendo da questi presupposti non è più possibile fondare gli atti annullatori su di una superiore affermazione dell’essere, perché qualsiasi ricorso all’essere viene visto come ricaduta nella cosalità del puro dato. «L’essere non può essere rimedio, ma trappo­la» 25.

La critica della nozione sartriana dell’essere diventa, in Ricoeur, fonte di un rinnovamento dell’ontologia. «Il benefi­cio di una meditazione sul negativo», osserva infatti il nostro autore,

non è di fare una filosofia del nulla, ma di condurre la nostra idea dell’essere oltre una fenomenologia della cosa o una meta­fisica dell’essenza, sino a quell’atto di esistere di cui si può indifferentemente dire che è senza essenza o che tutta la sua essenza consiste nell’esistere. 26

Questo essere è il fondamento ultimo:

La filosofia è nata con i Presocratici con questa scoperta immen­sa che “pensare” è pensare l’essere e che pensare l’essere, è pensare l’Arché, nel doppio senso di cominciamento e di fonda­mento di tutto ciò che noi possiamo porre e deporre, credere e mettere in dubbio. 27

Esso è anche principio:

L’idea di qualcosa che fa cominciare il resto senza avere essa stessa un cominciamento pone un termine a questa regressione

23 Ivi, p. 356.24 Ivi, pp. 356-357.15 Ivi, p. 357.26 Ibid.27 Ibid.

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ONTOLOGIA

senza fine nelle generazioni degli dei della mitologia. Allo stesso tempo si possono ritrovare in questo arcaismo filosofico due tratti decisivi per la nostra meditazione. Innanzitutto l’idea che questo Arché, questo principio è cosmos e dike, “ordine” e “giu­stizia” ; questo principio, in effetti, è la radice comune di intelli­gibilità del fisico, dell’etico e del politico.28

È in forza dell’idea di un tale principio che Senofane ha svolto la critica dell’antropomorfismo.

Alla fine dì questo itinerario si può allora concludere che l’affermazione originaria si deve recuperare attraverso la negatività. Il negativo è, al tempo stesso, ciò che accenna all’essere originario e ciò che lo dissimula. Heidegger aveva molto bene osservato che la dissimulazione della non verità fa parte dell’essenza della verità.

Io mi devo strappare alla negatività dell’essente per acce­dere all’essere, come insegnava Plotino quando, descrivendo l’anima stregata dalla fascinazione del suo corpo, ammoniva di procedere verso l’Uno, sopprimendo tutto il resto.

Occorre, in conclusione, riconquistare, contro la tradizio­ne 29, «una nozione dell’essere che sia atto piuttosto che for­ma, affermazione vivente, potenza d’esistere e di far esiste-

2 .2 Metafora e discorso filosofico

L’ottavo studio de La métaphore vive, come indica il suo stesso titolo (Métaphore et discours philosophique), si occupa del rapporto tra discorso speculativo e discorso metaforico. Il problema che nasce, a questo proposito, è quello dell’etero­geneità esistente tra i diversi giochi di linguaggio, che Wittgenstein, ad esempio, considerava radicale ed insuperabile. Ricoeur, al contrario, si propone di superare questa eteroge-

28 Ivi, pp. 358-359.29 «Tutte le filosofie classiche», osserva Ricoeur, «sono a diversi gradi delle

filosofie della forma, che si tratti della forma come Idea, o come sostanza e quiddità» ivi, p. 360.

30 Ibid.

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VERITÀ DEL METODO

neità, ammettendo un relativo pluralismo tra i diversi modi e livelli del discorso, dal quale pluralismo non devono essere esclusi i casi di intersezione.

Prima di esporre la sua concezione relativa al problema in questione, Ricoeur passa, però, ad analizzare alcuni modi, secondo lui erronei, di comprendere il legame tra discorso speculativo e discorso metaforico, modi che sarebbero carat­terizzati dalle posizioni di Aristotele, di Tommaso d’Aquino e di Heidegger.

Aristotele avrebbe compiuto un grosso passo in avanti rispetto a Platone, sostituendo la teoria della partecipazione, che non poteva che essere metaforica, con il principio del­l'analogia delPessere. In questo modo Aristotele ha posto un grosso scarto tra la poesia ed il discorso filosofico, che da quel momento poteva finalmente dirsi autonomo. Il principio dell’analogia dell’essere, infatti, introduce il concetto di equi­vocità regolata tra i diversi sensi dell’essere, stabilendo tra di loro un ordine che non è quello del rapporto tra genere e specie. Questo ordine è reso possibile dal concetto di paro- nimia, che viene definita come un’espressione appartenente ad una classe intermedia rispetto a quelle dei sinonimi e degli omonimi.

Secondo Ricoeur, però, la soluzione aristotelica rimane aporetica, essa infatti ipostatizza il problema, limitandosi a postularne la soluzione. Per comprendere questo occorre an­dare oltre la lettura che di Arisotele hanno fatto i medioevali, la quale tendeva a coerentizzarne il pensiero.

Tommaso ha esteso alla teologia il concetto di analogia, nel suo obiettivo di costituire il sapere teologico in scienza. Introducendo in teologia il concetto di analogia, Tommaso otteneva, infatti, lo scopo di «abbracciare in un’unica dottrina il rapporto orizzontale delle categorie alla sostanza e il rap­porto verticale delle cose create al creatore» 31. In questo modo,

31 R icoeur, La métaphore vive, Paris 1975, p. 346.

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ONTOLOGIA

però, secondo Ricoeur, si è reso necessario porre in relazione la teoria della predicazione analogica con l’ontologia della partecipazione, dal momento che la causalità creatrice stabi­lisce un legame di partecipazione, che rende ontologicamente possibile il rapporto di analogia tra gli esseri e Dio.

Tommaso, allora, reintroducendo la dottrina platonica della partecipazione, avrebbe segnato il ritorno alla metafora e alla poesia, secondo l’argomento opposto da Aristotele al platoni­smo. Inoltre, è proprio a livello del cerchio tra analogia e par­tecipazione che il tomismo è stato attaccato, crollando «sotto i colpi congiunti della fisica galileiana e della critica humeiana»32.

Heidegger ha rivolto una pesante accusa sia alla metafora che alla metafisica occidentale, considerando equivalenti le loro rispettive forme di trasgressione: la prima, infatti, opere­rebbe un transfert dal proprio al figurato, mentre la seconda opererebbe un transfert dal sensibile al non sensibile. Derrida, sulla scia di Heidegger, parla addirittura del concetto come di un’usura della metafora. Ricoeur, da parte sua, ritiene, invece, che le critiche heideggeriane e derridiane possano avere un senso tutt’al più nei confronti della metafora morta. Esiste, però, un senso diverso e più ricco dell’enunciato metaforico, ossia quello della metafora viva, la quale non rivela la nascita di un concetto, ma semplicemente la condizione di possibilità di un senso proprio spirituale.

La confutazione delle teorie heideggeriane e derridiane, secondo cui metafora e metafisica appartengono allo stesso campo, permette dunque a Ricoeur di affermare che «nessuna filosofia procede direttamente dalla poetica»33 e che, dunque, filosofia e metafora si situano a due livelli diversi del discorso.

Nella parte propositiva del suo saggio Ricoeur cerca di

edificare sulla differenza riconosciuta tra modalità di discorsouna teoria generale delle intersezioni tra sfere di discorso, e

32 Ivi, p. 352.33 Ivi, p. 11.

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proporre un’interpretazione dell’ontologia implicita ai postulatidella referenza metaforica che soddisfi a questa dialettica dellemodalità di discorso.34

Per quanto riguarda il rapporto tra speculazione e discorso poetico Ricoeur nota che il dinamismo stesso del metaforico istituisce quel campo semantico che rende possibile, ma non ancora necessario, il discorso speculativo. Il discorso metaforico necessita, infatti, di per sé, di una determinazione concettuale, che non può trovare la sua condizione che nel discorso specu­lativo, anche se tra questi due livelli del discorso rimane un certo scarto.

Il discorso speculativo si caratterizza per la sua sistema­ticità: come il metaforico rappresenta il regno del simile, cosìlo speculativo rappresenta il regno dell’uguale. L’intersezione tra questi due livelli dà origine alla situazione feconda dell’in­terpretazione, che rappresenta un discorso misto, frutto di un’operazione concettuale tendente all’univocità, che intera­gisce sugli enunciati metaforici al fine di elucidarne il senso. Ricoeur definisce l’interpretazione come un discorso misto che «da una parte vuole la chiarezza del concetto - dall’altra cerca di preservare il dinamismo della significazione che il concetto arresta e fissa»35.

Concludendo il suo saggio Ricoeur si chiede quale conce­zione del rapporto tra pensiero e realtà sia sotteso al postulato della referenza metaforica. A questa domanda egli risponde dicendo che la natura del linguaggio è riflessiva, che il linguag­gio è essenzialmente apertura, perché si sa nell’essere. È la realtà, secondo Ricoeur, ad essere la categoria ultima e ad avere una fondamentale priorità sul linguaggio.

La referenza metaforica sospende la referenza ordinaria e ridescrive la realtà, fornendo una concezione tensionale della verità, secondo cui l’essere presente nell’enunciato metafori­co, in funzione di copula, va inteso nel senso di un essere- come, ossia come essere ed allo stesso tempo non essere. Questo

34 Ivi, p. 374.35 Ivi, p. 383.

VERITÀ DEL METODO

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ONTOLOGIA

dinamismo tensionale, che caratterizza il discorso poetico, ri­chiede il lavoro di distanziazione critica del discorso specula­tivo, che ordina l’enunciato metaforico al suo proprio spazio di senso. Questo lavoro, d’altra parte, ci apre alla «dialettica più originaria e più dissimulata: quella che regna tra l’esperienza di appartenenza nel suo insieme e il potere di distanziazione che apre lo spazio del pensiero speculativo»36.

2.3 Verso quale ontologia?

L’ultimo capitolo di Soi-même comme un autre, osserva Ricoeur, «mira a portare alla luce le implicazioni ontologiche delle precedenti indagini poste sotto il titolo di un’ermeneutica del sé» 37. Esso mira, dunque, ad un’interrogazione sul modo di essere del sé e, dunque, solo in questo senso riduttivo va letto il termine «ontologia». Qui, infatti, si tratta di un’onto­logia speciale, ossia dell’ontologia del sé, e non di un’ontologia generale, intesa come indagine sulla struttura dell’essere, an­che se il modo in cui l’essere viene inteso può avere delle implicarne anche a livello dell’ontologia generale. Sullo sfon­do di tutta la riflessione sull’ontologia del sé si situa, infatti, la concezione polisemica dell’essere, elaborata da Platone ed Aristotele.

2.3.1 Ipseità e ontologiaUn tratto caratterizzante dell’ontologia ricoeuriana è rap­

presentato dal collegamento, che egli istituisce, tra l’indagine del sé e la riappropriazione dell’accezione aristotelica dell’es­sere come atto e potenza. Egli, infatti, individua una certa unità dell’agire umano, unità che scaturirebbe, secondo lui, dalla metacategoria dell’essere come atto e potenza.

2.3.1.1 Ricoeur dapprima affronta una serie di fattori di resistenza che sembrerebbero impedire la riappropriazione

3é Ivi, p. 399.37 R ic o e u r , Soi-même comm e un autre, c it., p. 345.

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VERITÀ DEL METODO

della nozione di essere come atto a favore di un’ontologia del- l’ipseità.

Le difficoltà si accumulano in particolare in Metafisica Theta, dove Aristotele tratta in maniera sistematica della coppia dynamis-energheia.

Fa problema, innanzitutto, la determinazione circolare del­l’atto e della potenza: nel testo aristotelico sembra, innan­zitutto,

che i due termini si definiscano l’uno attraverso l’altro senza che si possa stabilire il senso dell’uno indipendentemente dall’altro, pena che la polisemia riconosciuta in Delta 12 non li voti separatamente alla dispersione.38

Un secondo problema è determinato dalla divisione dei rispettivi campi di applicazione delle due nozioni di essere come atto e di essere come potenza. L’essere in quanto potenza permette, infatti, di inscrivere il movimento nell’essere, mentre l’essere inteso come atto, scevro di potenzialità, caratterizze­rebbe lo statuto ontologico del cielo delle stelle fisse e del motore immobile.

In terzo luogo, fa problema, secondo Ricoeur, l’asserzione aristotelica di una sorta di primato dell’atto sulla potenza. La nozione di potenza viene infatti concepita solo a partire da quella di atto: l’atto ha la priorità sulla potenza, sia secondo la nozione che secondo la sostanza, poiché tutto ciò che è potenziale può essere definito tale solo in relazione a qualcosa di compiuto. Questo primato accordato all’atto permettereb­be, inoltre, di intersecare la significazione dell’essere secondo le categorie e quella dell’essere come atto e potenza, con il risultato di attenuare quella preziosa conquista in cui consiste l’idea di atto e di potenza. Ricoeur si oppone a questa

38 Ivi, p. 353. Scrive Ricoeur «Più grave ancora: ad onta dei titoli nobiliari che l’idea di potenza trae dalla sua funzione, che si può dire trascendentale rispetto alla fisica, questa nozione viene concepita soltanto a partire da quella di atto: niente può dirsi potenziale senza riferimento a qualcosa che vien detto reale, nel senso di effettivo, compiuto; in questo senso, l’atto ha la priorità sulla potenza».

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ONTOLOGIA

intersezione, che renderebbe difficoltosa l’opposizione di un’ontologia dell’atto ad un’ontologia della sostanza39.

Un ultimo problema, il più grave, riguarda il rapporto della nozione primitiva di essere come atto e potenza con l’agire umano. Secondo Ricoeur gli esempi tratti da operazio­ni umane quali l’agire, il vivere bene ecc., hanno un valore paradigmatico. Quando infatti l’azione è praxis e non solo semplice movimento, allora viene a cadere la supposta supre­mazia dell’atto sulla potenza. A conferma di questo si può citare il seguente brano in cui Aristotele, a proposito della praxis, dice che «l’operazione, infatti, è fine e l’atto è opera­zione, perciò anche l’atto vien detto in rapporto all’operazio­ne e tende allo stesso significato di entelecheia» 40.

Ciononostante, Ricoeur riconosce che gli esempi tratti dalla praxis non possono essere eretti a modelli nel quadro del pensiero aristotelico, pena il rendere vana la sua impresa me­tafisica, il cui scopo è, da un lato, quello di conferire dignità ontologica al movimento, contro i parmenidei, e, dall’altro, quello di conferire dignità ontologica alle entità cosmo-teolo- giche, facendo leva sulla nozione di atto puro. Tuttavia, Ricoeur riesce a trasformare questa apparente difficoltà in un punto d’appoggio. Egli nota, infatti, che

se l’energheia-dynamis non fosse che un’altra maniera di dire praxis (o, peggio, di estrapolare metafisicamente un qualche modello artigianale dell’azione), la lezione di ontologia sarebbe

39 Occorre comunque osservare che l’obiettivo polemico di Ricoeur, quando egli parla di metafisica della sostanza, non è tanto Aristotele, ma la tradizione che da lui prende le mosse. Osserva infatti Ricoeur: «Certo, ciò che abbiamo attac­cato, a proposito dell’opposizione tra ipseità e medesimezza, è più il sostanzialismo della tradizione (alla quale Kant continua ad appartenere attraverso la prima Analogia dell’esperienza) che non l ’ousia aristotelica, che a quello non si lascia ridurre» (ivi, p. 354). Ciononostante, lo stesso Aristotele non risulta compieta- mente esente da colpe. Ecco infatti cosa afferma in proposito Ricoeur: «Resta che, quale che sia la possibilità di liberare ugualmente l’ousia aristotelica dalle catene della tradizione scolastica nata dalla sua traduzione latina con substantia, Aristotele sembra maggiormente preoccupato di far intersecare piuttosto che di dissociare le significazioni connesse rispettivamente alla coppia enèrgheia-dynamis e alla serie delle accezioni aperta dalla nozione di ousia» (ivi, pp. 354-355).

40 A r is to te le , Metafisica, Theta 8, 1050, a 21.

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priva di efficacia; è piuttosto nella misura in cui l’energheia-dyna- mis irriga altri campi di applicazione rispetto all’agire umano, che la sua fecondità si manifesta. 41

\lenergheia-dynantis avrebbe allora il compito di indicare «un fondo di essere, ad un tempo potente ed efficace, sul quale si staglia l’agire umano»42. In questo senso la nozione di essere come atto e come potenza verrebbere a svolgere la doppia funzione di porre in un luogo privilegiato il fenomeno della praxis, rappresentando esso il luogo di leggibilità per eccellenza di questa nozione dell’essere e, d’altro lato, di decentrare l’agi­re in direzione di un fondo di atto e di potenza.

2.3.1.2 Che cos’è dunque questo «fondo dell’essere ad un tem­po potente ed efficace»?

Ricoeur, per spiegarlo, opera un confronto con alcuni ten­tativi di ricostruzione del concetto di essere come atto e po­tenza ispirati ad Heidegger.

In Essere e Tempo la nozione di cura (Sorge) si presenta come l’esistenziale fondamentale, quello, cioè, che è «in grado di assicurare l’unità tematica dell’opera, per lo meno fino all’en­trata in scena della temporalità nella seconda sezione»43. La cura occupa una posizione privilegiata, in quanto essa non si lascia cogliere all’interno di una fenomenologia immediata, come accade invece per le nozioni subordinate di Besorgen (preoc­cupazione o prendersi cura delle cose) e di Fürsorge (sollecitu­dine o aver cura delle persone). Ricoeur, che ha più volte parlato di un’unità analogica dell’agire, si chiede se la nozione di essere come atto, che costituisce il fondamento dell’unità analogica dell’agire, non occupi nella sua ricerca un posto simile a quello occupato dalla cura in Essere e Tempo e se, al tempo stesso, la nozione heideggeriana di cura non sia, a sua volta, ricalcata sul concetto aristotelico di praxis. La formulazione di una

VERITÀ DEL METODO

41 R icoeur , Soi-même comme un autre, c it., p . 3 5 7 .42 Ibid.43 Ivi, p . 359.

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ONTOLOGIA

tale ipotesi permette a Ricoeur di aprirsi la strada ad una riappropriazione di Aristotele attraverso Heidegger.

L’accostamento di Aristotele e di Heidegger è particolar­mente utile a Ricoeur, perché, da un lato, il concetto aristo­telico di praxis lo aiuta «ad allargare il campo pratico al di là della ristretta nozione di azione nei termini della filosofia analitica» 44, mentre, dall’altro lato, il concetto di Sorge «con­ferisce alla praxis aristotelica un peso ontologico, che non sembra essere stato il proposito principale di Aristotele nelle sue Etiche» 45.

Tuttavia, Ricoeur non si affretta ad unificare dall’alto l’in­tero campo dell’esperienza umana, attraverso il concetto aristotelico di praxis, conservando quella pluralità che Aristotele aveva messo in luce ponendo una accanto all’altra theoria, praxis, poiesis. Ricoeur è disposto a riconoscere una certa prio­rità all’agire, in quanto anche la teoria è pensabile come attività teorica, ma a patto di «correggere la tendenza egemonica così accordata all’agire attraverso il riconoscimento della sua polisemia, la quale non autorizza niente di più che l’idea di un’unità analogica dell’agire» 4é.

2.3.1.3 Un secondo punto di incontro tra la fenomenologia del sé e l’ontologia ci è fornito, secondo Ricoeur, dal concetto spinoziano di conatus.

Ricoeur pensa che la nozione di vita costituisca una nozione centrale nel pensiero di Spinoza e che «vita» in Spinoza signi­fichi potenza, non però nel senso di potenzialità, ma piuttosto in quello di produttività. Secondo questa accezione la potenza spinoziana non sarebbe dunque opponibile all’atto, inteso come effettività e come compimento.

Su questa struttura di fondo prende forma il concetto di conatus, pensato come quello sforzo per perseverare nell’essere, che fa l’unità dell’uomo e di ogni individuo.

44 Ivi, p. 361.45 Ibid.46 Ivi, p. 362.

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VERITÀ DEL METODO

Ricoeur, pur riconoscendo che il dinamismo del vivente, pensato da Spinoza, si inscrive pur sempre nel quadro deterministico generale, è affascinato dall’idea spinoziana se­condo cui il passaggio dalle idee inadeguate, che ci facciamo su noi stessi e sulle cose, alle idee adeguate, costituisce per noi la possibilità di divenire attivi in senso pieno. Questo confer­ma indirettamente la sua convinzione secondo cui la coscien­za di sé non si situa al punto di partenza della riflessione filosofica, come accade invece nel pensiero di Cartesio, ma presuppone una lunga deviazione.

2.3.2 Ipseità e alteritàL’alterità, che appartiene alla costituzione ontologica stes­

sa dell’ipseità, ha un carattere polisemico. Ricoeur vuole met­tere in luce il ruolo fondamentale che le diverse forme dell’alterità esercitano nella costituzione stessa dell’ipseità. A questo fine egli si avvale del doppio contributo della fenomenologia e dell’ontologia, assumendo come guida delle sue analisi fenomenologiche e ontologiche la metacategoria dell’alterità. La meta-categoria dell’alterità ha infatti come corrispettivo fenomenologico la varietà delle esperienze di passività che caratterizzano in vari modi l’agire umano. In questo senso Ricoeur parla dell’esperienza della passività (espe­rienza che la fenomenologia dell’esistenza registra ad ogni suo passo) come di un’attestazione fenomenologica dell’alterità.

Mettere in luce le varie esperienze di passività e, dunque, di alterità, significa impedire, ancora una volta, al sé di occu­pare la posizione di fondamento. Ricoeur, facendo riferimen­to all’esperienza della passività, parla di un «Cogito spezzato» e aggiunge che l’attestazione stessa dell’alterità è in qualche modo spezzata, poiché «l’alterità connessa con l’ipseità, si attesta soltanto in esperienze disparate, secondo una diversità di focolai di alterità»47. Ricoeur raccoglie questa diversità attorno a tre centri fondamentali: l’alterità riassunta dall’espe­

47 Ivi, p. 368.

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ONTOLOGIA

rienza del corpo proprio, l’alterità inerente alla relazione di intersoggettività e, infine, Palterità propria al rapporto di sé a se stessi, ossia la coscienza.

2.3.2.1 II corpo proprio e la carne. La riflessione sul concetto di corpo proprio è stata avviata da Maine de Biran, il quale ha avuto il grande inerito di dissociare la nozione di esistenza da quella di sostanza, per connetterla, invece, con quella di atto e di rendersi conto che il tipo di certezza che si lega all’esperienza del corpo proprio è una certezza di tipo non rappresentativo.

La nozione di corpo proprio raccoglie, secondo Maine de Biran, una serie di gradi crescenti di passività. Un primo gra­do sarebbe costituito dalla resistenza che cede allo sforzo, un secondo invece dall’esperienza dell’andare e venire degli umori capricciosi e, infine, un terzo dalla resistenza alle cose esterne.

Husserl ha introdotto, nelle Meditazioni cartesiane, la di­stinzione decisiva tra Leib (carne) e Körper (corpo). Questa distinzione può essere dissociata, secondo Ricoeur, dal ruolo strategico che essa occupa all’interno dell’impossibile tentati­vo husserliano di costituire ogni realtà, e quindi anche la realtà intersoggettiva, nella e attraverso la coscienza.

La carne è la più prossima di tutte le cose, è ciò che vi è di più originariamente mio e, in virtù di questo, essa costitu­isce l’organo del volere, il supporto del libero movimento. Essa, però, non è mai oggetto di scelta o di volere.

Husserl, parlando di non-spazialità oggettiva della carne, riecheggia il Wittgenstein delle riflessioni sulla non-apparte- nenza del soggetto al sistema dei suoi oggetti. La carne non occupa una posizione, intesa in termini di spazialità oggettiva, essa è eterogenea ad ogni sistema di coordinate geometriche: essa è qui «assolutamente», ossia il suo essere qui ed il suo poter essere là sono irriducibili a qualsiasi localizzazione per punti di riferimento oggettivi.

L’ontologia della carne va incontro ad un paradosso inver­so a quello posto dalla teoria strawsoniana dei particolari di

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VERITÀ DEL METODO

base. Se, nell’ottica di Strawson, costituiva un problema lo spiegare come un corpo tra i corpi potesse, al tempo stesso, essere il mio corpo, ossia carne; nella prospettiva dell’ontologia della carne si verifica, invece, il fenomeno inverso: fa problema il fatto che la carne possa essere anche corpo tra i corpi. La soluzione di questa aporia richiede di uscire dall’ottica husserliana: la carne può apparire come corpo tra i corpi solo nella rete dell’intersoggettività che, a differenza di quanto pensava Husserl, diviene, in questo modo, instauratrice dell’ipseità. Nota infatti Ricoeur:

Proprio perché Husserl ha pensato l’altro da me soltanto come un altro io, e mai il sé come un altro, egli non ha una risposta al paradosso che riassume la questione: come comprendere che la mia carne sia anche un corpo? 43

Heidegger, in Essere e Tempo, dispiega un apparato no- zionale che sembrerebbe molto più adatto all’elaborazione di un’ontologia della carne di quanto non lo sia quello husserliano.

Al problema husserliano della costituzione di un mondo nella e attraverso la coscienza, Heidegger ha sostituito la strut­tura inglobante dell’essere-nel-mondo. Egli, inoltre, progreden­do regressivamente dal senso della «mondità» inglobante al senso dello «in» ha indicato il luogo filosofico della carne. Heidegger, infine, ha elaborato l’importante nozione di «situa­zione emotiva» {Befindlichkeit), la quale riveste un ruolo cardi­ne nella costituzione esistenziale del «ci», al paragrafo 29 di Essere e Tempo. E la situazione emotiva, inoltre, che ci permette di sperimentare l’impossibilità di uscire da una situazione in cui nessuno è mai entrato, che costituirebbe, poi, la categoria esistenziale dell’esser-gettato, la più appropriata ad un’indagine del sé come carne.

Ciononostante, Heidegger non ha elaborato la nozione di carne a titolo di esistenziale distinto. Secondo Ricoeur il motivo principale di questa mancanza risiede nel fatto che

48 Ivi, p. 377.

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ONTOLOGIA

nella seconda sezione di Essere e Tempo trionfa la problematica della temporalità, a scapito di una fenomenologia della spazia­lità autentica.

Heidegger, probabilmente, vedeva evidenziarsi, alPinterno della dimensione spaziale dell’essere-nel-mondo, soprattutto le forme inautentiche della cura. Nonostante il fatto che la spazialità del Dasein non sia quella di un essere-alla-mano o di un essere-a-portata-di-mano, tuttavia, essa si staglia sul fondo delle cose disponibili ed utilizzabili. Il tema dell’incarnazione risulta allora soffocato in Essere e Tempo, in quanto esso appariva, agli occhi di Heidegger, troppo dipendente da quel­le forme inautentiche della cura, che ci inclinano ad interpre­tare noi stessi in funzione degli oggetti della nostra cura.

2.3.2.2 L’alterità dell’altro. Relativamente al secondo cespite dell’alterità, che sarebbe costituito dall’alterità dell’altro, il problema è quello «di capire quale nuova figura di alterità viene convocata da questa affezione dell'ipse ad opera dell’al­tro da sé; e, per implicanza, quale dialettica del Medesimo e dell’Altro risponda al requisito di una fenomenologia del sé affetto dall’altro da sé»49.

La riflessione ricoeuriana sull’alterità dell’altro vuole di­mostrare l’impossibilità di costruire unilateralmente la dialet­tica del Medesimo e dell’Altro, sia che si voglia far derivare Palter ego dall’ego, come fa Husserl, sia che si voglia riservare all’Altro l’iniziativa esclusiva della chiamata del sé alla respon­sabilità, come propone invece Lévinas.

Husserl, nella quinta delle sue Meditazioni cartesiane, pone, ispirandosi al modello del dubbio iperbolico cartesiano, come interamente problematico tutto ciò che l’esperienza ordinaria deve all’altro, con il proposito di costruire l’altro nella, e a partire dalla, sfera del proprio. Ricoeur, però, nota che tutti i tentativi di questo tipo non possono che essere circolari,

49 Ivi, p. 382.

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VERITÀ DEL METODO

perché l’altro, che deve essere costruito, permane tacitamente il presupposto di tale costruzione. La presupposizione dell’al­tro è contenuta nella formazione stessa del senso del proprio:10 posso ipotizzare di essere solo e posso totalizzare questa mia esperienza di solitudine, solo se presuppongo un altro che mi permette di raccogliermi e mantenermi nella mia iden­tità. Non posso, inoltre, nemmeno parlare dell’esistenza di un mondo, se non nella misura in cui esiste una natura comune. Infine, posso pensare la mia carne come primo analogon ad una trasposizione analogica solo a condizione che essa sia già ritenuta come un corpo tra i corpi, e ciò implica che essa appaia come tale agli occhi degli altri. Io posso, infatti, ope­rare una trasposizione analogica da carne a carne solo se percepisco la mia carne come corpo per l’altro.

Husserl utilizza il termine di appresentazione per indicare11 darsi dell’altro. L’appresentazione si distingue dalla rappre­sentazione per segno, perché essa è una datità autentica, ma essa si distingue, al tempo stesso, dalla datità originaria ed immediata della carne a se stessa, perché io non posso vivere i vissuti dell’altro, così come non posso far in modo che la sequela dei suoi ricordi prenda il posto della mia.

Ciononostante, Pappresentazione consiste comunque in una «presa analogizzante» per mezzo di cui il corpo dell’altro viene percepito come carne allo stesso titolo della mia.

Ricoeur in tutto ciò non vede una dimostrazione ma un circolo: la presa analogizzante, attraverso cui costruisco l’alterità dell’altro, prende le mosse dal proprio, il quale, per costituirsi, presuppone a sua volta l’altro.

Occorre infine osservare che la presa analogizzante con­serva una dissimmetria fondamentale, perché l’appresentazione non potrà comunque mai avere le caratteristiche di un’intui­zione. Tutto ciò che l’appresentazione permette di operare è, infatti, solo una trasposizione di senso, attraverso la quale il senso ego è trasposto ad un altro corpo. La trasgressione dalla sfera dell’ego ha come risultato la costituzione di un alter ego, ossia di un corpo che riveste anch’esso, per trasposizione, il senso ego.

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ONTOLOGIA

La presa analogizzante husserliana andrebbe, secondo Ricoeur, coordinata ed integrata con un movimento inverso, che dall’altro viene verso di me, movimento, quest’ultimo, che ha la priorità nella dimensione etica, mentre il primo ha una priorità nella dimensione gnoseologica. Ora, l’opera di Emmanuel Lévinas ha come suo interesse costante questo movimento che dall’altro viene verso il sé.

Lévinas ritiene che il concetto di intenzionalità e la feno­menologia nel suo complesso, siano votati all’idealismo ed al solipsismo. Essi, infatti, dipendono da una filosofia della rappre­sentazione, per la quale rappresentare qualcosa significa assimi­larla a sé e, dunque, negarne l’alterità. A questa logica non sfugge la trasposizione analogica introdotta da Husserl nella quinta delle sue Meditazioni cartesiane, della quale abbiamo trattato sopra.

Il volto dell’altro non consiste esclusivamente in un appa­rire che io posso includere nella cerchia delle mie rappresen­tazioni, poiché l’apparire dell’altro non è soltanto spettacolo, ma è anche voce, voce che singolarizza ogni volta il coman­damento: «non uccidere». Il movimento che parte dall’altro trova, infine, il suo termine in me, dal momento che esso ha il potere di costituirmi responsabile e dunque capace di ri­spondere.

Date queste premesse possiamo allora concludere che l’al­tro si attesta sotto un regime di pensiero a carattere etico, piuttosto che gnoseologico.

Nel concetto lévinasiano di alterità ab-soluta Ricoeur vede un’iperbole diametralmente opposta a quella messa in atto da Husserl attraverso la riduzione al proprio, dove per iperbole egli intende «la pratica sistematica dell’eccesso nell’argomen­tazione filosofica» 50.

La critica che Ricoeur rivolge a Lévinas consiste nel rile­vare che, solo presupponendo una capacità di accoglimento e di discriminazione da parte del Medesimo, è possibile affer-

50 Ivi, p. 389.

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VERITÀ DEL METODO

mare che la chiamata dell’Altro è in grado di risvegliare la sua risposta responsabile. Occorre allora elaborare una filosofia del Medesimo che sia altra rispetto a quella criticata dalla filosofia dell’Altro, ma che sia, al tempo stesso, capace di rendere ragione della risposta che l’interiorità è in grado di fornire all’appello dell’Altro.

Se l’interiorità fosse concepita come essenzialmente chiusa e ripiegata su di sé, non ci sarebbe spazio per la risposta da dare all’Altro, perché la parola dell’altro risulterebbe fonda­mentalmente estranea ad una tale interiorità. Secondo Ricoeur occorre, allora, «accordare al sé una capacità di accoglimento che risulta da una struttura riflessiva, meglio definita dal suo potere di ripresa su delle oggettivazioni previe che da una iniziale separazione» 51. Occorre, inoltre, accordare al sé una capacità di discernimento, dal momento che Palterità dell’Al­tro si presenta come qualcosa di complesso, come un insieme di figure di cui la figura dell’Altro come maestro, evocata da Lévinas, non ne è che una tra le tante. L’Altro, infatti, può presentarsi anche come boia, oltre che come maestro.

La soluzione all’aporetica determinata dall’iperbole lévina- siana si ottiene, a detta di Ricoeur, sovrapponendo, attraverso una dialogica, la relazione alla distanza assoluta tra l’io sepa­rato e l’Altro insegnante.

2.3.2.3 La coscienza. Ricoeur individua nella coscienza il luo­go di una forma originale della dialettica tra ipseità ed alterità. Quest’affermazione lo ingaggia, però, fin da subito in una triplice sfida.

Innanzituto, occorre precisare nozioni tanto sospette quali quelle di buona e di cattiva coscienza. Ciò implica che venga messa alla prova la tesi secondo cui l’attestazione dell’ipseità è inseparabile da un esercizio del sospetto.

In secondo luogo, occorre precisare i fenomeni dell’in­giunzione e del debito, di fronte ad una versione non morale

51 Ivi, p. 391.

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ONTOLOGIA

della coscienza, che vede in essa una semplice attestazione del nostro poter essere.

Infine, occorre precisare quale sia la specificità del tipo di alterità riconosciuto alla coscienza rispetto alPalterità dell’al­tro. Occorre, cioè, precisare in virtù di che cosa venga asse­gnato un posto distinto al fenomeno della coscienza sul piano della dialettica tra ipseità ed alterità.

La prima sfida, come abbiamo già anticipato, ci è posta di fronte dalla complessa problematica del sospetto, nella misura in cui all’interno della coscienza le illusioni su se stessi si mescolano continuamente all’attestazione verace.

Nell’affrontare questa sfida ci vengono incontro le rifles­sioni di alcuni grandi maestri quali Heidegger, Hegel e Nietzsche.

Heidegger ha dedicato un capitolo di Essere e Tempo alla coscienza (Gewissen). Secondo Heidegger il momento di alterità implicato nel fenomeno della coscienza riveste un ruolo importante nella costituzione dell’ipseità, in quanto esso ren­de il sé capace di riprendersi dall’anonimato del «si». L’affe­zione ad opera di una voce altra, fenomeno in cui la coscienza consiste, presenta una dissimmetria che lo rende diverso dal cosiddetto dialogo dell’anima con se stessa, di cui parla Pla­tone. Noi intratteniamo infatti una relazione di tipo verticale con la coscienza, la quale è una voce che parla in noi come se venisse rivolta a noi.

Hegel, nel vi capitolo della Fenomenologia dello spirito, critica aspramente quella che lui intende come cattiva inter­pretazione della coscienza, ma mostra anche come il fenome­no autentico della coscienza non venga travolto nella caduta della concezione morale del mondo. Il fenomeno autentico della coscienza si costituisce, infatti, quando la coscienza agente e quella giudicante si riconoscono attraverso il perdono, ri­nunciando alla limitatezza ed alla parzialità dei reciproci punti di vista. A questo livello la coscienza si equiparerebbe sempli­cemente alla certezza di sé.

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VERITÀ D éC METODO

Nietzsche ha dedicato la seconda dissertazione della Genealogia della morale ai concetti di colpa e di cattiva co­scienza. Ricoeur rileva un certo parallelismo tra la critica nietzscheana e quella hegeliana, perché, nonostante l’anda­mento genealogico della prima e quello teleologico della se­conda, alla fine esse si incontrano in una comune condanna delle distorsioni della cattiva coscienza.

La peculiarità di Nietzsche consiste, invece, nell’applica­zione del suo metodo genealogico, che mira a rovesciare la teleologia attraverso l’archeologia. «Dire l’origine», nota in­fatti Ricoeur, «significa abolire il fine e la sua razionalità an­nessa» 52.

In Hegel e Nietzsche, conclude allora Ricoeur, vi è il sospetto che coscienza equivalga a cattiva coscienza. Non è possibile, continua il nostro filosofo, spezzare questa equazio­ne sostituendo l’autogiustificazione al giudizio di indegnità. Occorre, invece, riallacciare tra di loro i due fenomeni della coscienza e dell’attestazione.

La seconda sfida affronta il problema della demoralizza­zione della coscienza.

Heidegger, nel capitolo intitolato Gewissen, nella seconda sezione di Essere e Tempo, opera questa sottrazione della co­scienza al dominio della moralità, definendo la coscienza come attestazione del proprio poter-essere autentico, poter-essere che non risulta segnato da alcuna competenza a distinguere il bene dal male. Heidegger, inoltre, afferma che, se esiste un chiamante, da cui la voce della coscienza proviene, questi non può che essere lo stesso Dasein. La dimensione di superiorità che Heidegger riconosce alla voce della coscienza è una supe­riorità comunque immanente al Dasein.

Il contributo prezioso di Heidegger consiste, secondo Ricoeur, nell’aver inscritto la coscienza nella dialettica gene­rale del Medesimo e dell’Altro, attraverso l’accostamento che

52 Ivi, p. 399.

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ONTOLOGIA

egli ha posto tra lo spaesamento della voce e la condizione deietta dell’esser-gettato 53.

L’introduzione della nozione di debito non permette di connotare eticamente lo spaesamento di cui il Dasein è affet­to, dal momento che Heidegger, insistendo sull’ontologia del debito, si allontana di molto dal senso che il termine «debito» può avere per il senso comune. Per debito Heidegger non intende affatto qualcosa di cui si possa essere pubblicamente responsabili verso qualcuno, ma un modo di essere. La mora­lità presuppone il debito e non viceversa: il debito, infatti, costituisce un tratto ontologico preliminare, inevitabilmente implicato da qualsiasi etica.

Nel paragrafo 59 di Essere e Tempo Heidegger entra in polemica con l’«interpretazione ordinaria della coscienza». A questo livello Heidegger svolge una critica serrata di concetti quali quelli di cattiva coscienza, alla quale manca il carattere prospettico proprio alla cura, poiché essa arriva sempre a cose fatte; di buona coscienza, scartata perché farisaica; di coscien­za intesa come ammonizione, che renderebbe la coscienza pri­gioniera del «si». Per questo, osserva Ricoeur, «la critica che Heidegger conduce del senso comune deve manifestamente essere accostata alla Genealogia della morale di Nietzsche» 54.

L’attestazione viene definita da Heidegger come «un risve­glio che pone innanzi all’assunzione dell’essere-in-debito»55.

Nonostante questa demoralizzazione della coscienza sem­brerebbe che anche in Heidegger, alla fine, vi sia una riconduzione della nozione di coscienza nel campo dell’etica, attraverso il legame posto tra attestazione e decisione e tra decisione ed essere-per-la-morte. La decisione completerebbe

53 Nota a questo proposito Ricoeur: «Il riconoscimento della passività, del non-dominio, dell’essere affetti, che sono connessi all’esser-convocati, si orienta verso una meditazione sulla nullità, cioè sulla non scelta radicale che affetta l’essere-nel-mondo, considerato dall’angolatura della sua intera effettività» (ivi, p. 402)

54 Ivi, p. 403.55 M. H eid eg g er , Essere e Tempo, Milano, 1976, trad. it. di Pietro Chiodi

dall’originale tedesco Sein und Zeit, Tübingen, 1927, p. 358 [p. 295].

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VERITÀ Ü fL METODO

in questo modo l’attestazione, fornendole la prospettiva dell’es- ser-tutto suggellato dall’essere-per-la-morte. E in questo senso che Heidegger può parlare di «voler-aver-coscienza»56.

Secondo Ricoeur, però, sia la decisione che la chiamata a cui essa risponde rimangono, in Heidegger, indeterminate. La ragione di ciò è da ricercare nel fatto che esse sono state separate dalla richiesta dell’altro e da qualsiasi determinazio­ne morale. Di conseguenza l’ontologia fondamentale non può che astenersi da qualsiasi proposta relativa alPorientamento dell’azione, lasciando il campo aperto ad una sorta di situazionalismo morale.

Alla prospettiva heideggeriana di completa dem ora­lizzazione della coscienza Ricoeur oppone «una concezione che associ strettamente il fenomeno dell’ingiunzione a quello del­l’attestazione» 57.

L’essere ingiunto costituirebbe allora il momento di alterità pro­pria al fenomeno della coscienza, conformemente alla metafora della voce. Ascoltare la voce della coscienza significherebbe essere ingiunto dall’Altro. Si renderebbe così giustizia alla nozione di debito, che Heidegger ha ontologizzato troppo presto a spese della dimensione etica dell’indebitamento.58

L’ingiunzione, di cui Ricoeur parla, incontra, in un secondo momento, il fenomeno della convinzione, ossia della decisione in situazione. Questo momento, infatti, giunge al termine di un conflitto di regole o doveri, segnando un ricorso della morale, ormai giunta ad un’impasse, alle risorse dell’etica.

La terza sfida dovrebbe infine condurci a disegnare i con­torni dell’alterità propria alla coscienza.

Abbiamo visto come Heidegger abbia ridotto l’alterità della chiamata allo spaesamento determinato dall’esser-gettato, deiet­to. Hegel, a sua volta, lascia pensare che la coscienza sia la voce di un altro, dal momento che lega la sorte della coscienza alla

56 Ibid.57 R ic o e u r , Soi-même comme un autre, cit., p. 404.58 Ivi, pp. 404-405.

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riconciliazione tra coscienza giudicante e coscienza agente e che tutta la Fenomenologia dello spirito è attraversata dal fenomeno del raddoppiamento della coscienza, dal desiderio dell’altro, alla dialettica servo-padrone, sino alle figure dell’anima bella e dell’eroe dell’azione. Freud, nella sua metapsicologia, risolve il problema relativo allo statuto dell’Altro nel fenomeno della coscienza in senso univocamente antropologico. La coscienza morale si riduce infatti in Freud al Super-Io, a sua volta iden­tificato con figure parentali ed ancestrali sedimentate o rimos­se. Infine, Emmanuel Lévinas oppone alla riduzione tipica della filosofia di Heidegger dell’essere in debito allo spaesamento connesso alla situazione di deiezione, una riduzione simmetrica dell’alterità della coscienza all’alterità dell’altro.

Ricoeur oppone all’alternativa', spaesamento secondo Heidegger, esteriorità dell’altro secondo Lévinas, una terza modalità dell’alterità, che egli definisce «l’essere-ingiunto in quanto struttura dell’ipseità»59. Il carattere irriducibile di que­sta terza modalità di alterità è determinato dal fatto che l’ in­giunzione ad opera dell’altro deve essere solidale con l’atte­stazione di sé, senza la quale l’ingiunzione non potrebbe es­sere accolta, in mancanza di un esser-ingiunto che faccia pro­pria l’ingiunzione. Ciononostante, Ricoeur dice di condivide­re pienamente la convinzione lévinasiana secondo cui l’altro costituisce il cammino obbligato dell’ingiunzione.

Alla fine di questa sua attenta analisi Ricoeur conclude affermando la necessità di mantenere una certa equivocità sul piano puramente filosofico relativamente allo statuto dell’Al­tro. L’Altro potrebbe infatti essere semplicemente un altro, oppure i miei antenati, oppure, ancora, Dio, o un posto vuoto. Alla domanda sul volto dell’Altro la filosofia non ha risposta.

2 .4 D alla metafisica alla morale

Il saggio dal titolo De la métaphysique à la morale, com­parso nel numero speciale della «Revue de méthaphysique et

59 Ivi, p . 409 .

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VERITÀ DEL METODO

de morale», diretta dallo stesso Ricoeur, dedicato alla celebra­zione del centenario della nascita della rivista, riveste, a mio parere, un’importanza decisiva per quanto riguarda la rifles­sione ricoeuriana attorno a temi di ontologia e metafisica.

La «Revue de métaphysique et de morale» venne fondata da Xavier Léon ed Élie Halévy e poi diretta da Jean Wahl, autore del Traité de Métaphysique. Ricoeur, che in occasione del centenario dirigeva la Rivista, ha scritto questo articolo al fine di mostrare in che misura egli abbia fatto proprio, nella sua opera, il programma culturale dei fondatori, riassunto sinteticamente nel titolo stesso della Rivista.

Prima di illustrare la sua proposta teorica, Ricoeur precisa che i fondatori della rivista non utilizzavano il termine «me­tafisica» secondo un’accezione positiva; per essi, infatti, meta­fisica significava essenzialmente antipositivismo. L’epoca a cui risale questa loro impresa culturale era un’epoca che vedeva la sociologia e la psicologia liberarsi dalla tutela concettuale della filosofia e sottoporre ad un’indagine di tipo scientifico i vari fenomeni del mondo umano.

Il primo numero della Rivista, ricorda Ricoeur, recava in testa un articolo di Ravaisson intitolato Métaphysique et Morale, dove l’autore, riprendendo la teoria della polisemia dell’essere proposta da Aristotele in Metafisica Epsilon 2, dichiarava di privilegiare, tra le varie significazioni del verbo essere, quella dell’essere come atto e potenza. Egli, in questo modo, si distingueva da Brentano, che privilegiava la serie categoriale aperta dalla sostanza, e da Heidegger, che preferi­va, al contrario, l’essere in quanto vero e falso.

Data questa preferenza per l’essere come atto e potenza diveniva facile, secondo Ravaisson, il passaggio dalla metafi­sica alla morale. Da una metafisica che si corona con la sco­perta di un primo principio che dona sino a donare se stesso, pensava Ravaisson, ne deve conseguire una morale della gene­rosità.

Ricoeur, da parte sua, vede una sorta di corto circuito in questo passaggio così repentino dalla metafisica alla morale e

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dedica il seguito del suo saggio a mostrare come lui, pur partendo da presupposti molto vicini a quelli di Ravaisson, concepisce invece il passaggio dalla metafisica alla morale come qualcosa di più complesso.

2.4.1 Ricoeur comincia con una riflessione preliminare sul prefisso «meta-» di «metafisica». Ricoeur, infatti, comprende la metafisica tramite la «funzione meta-», che egli definisce «attraverso due strategie distinte e complementari, una di gerarchizzazione, l’altra dì pluralizzazione, dei principi pre­sunti od assunti da pensatori di diversa scuola»60.

La prima strategia ha il suo modello nei dialogi dialettici di Platone (Parmenide, Teeteto, Sofista, Filebo). Essa consiste nel discernere quali siano i principi primi e fondatori e quali invece i principi derivati propri ad una determinata strategia teorica. Questo tipo di ricerca dovrebbe caratterizzare qualsi­asi tipo di discorso filosofico, nella misura in cui la filosofia è un sapere che mira alla coerenza della propria indagine.

La seconda strategia ha, invece, il suo modello nei libri Gamma ed Epsilon 2 della Metafisica, dove Aristotele enuncia la sua concezione dell’essente in quanto tale, dispiegando la dizione polisemica dell’essere, situata a metà strada tra omonimia e sinonimia.

Tra le quattro accezioni dell’essere (essere per accidente, essere come vero, essere in quanto serie categoriale facente riferimento alla sostanza, essere in quanto atto e potenza) Ricoeur privilegia la coppia energheia-dynamis, al fine di elu­cidare i presupposti ontologici della sua ermeneutica del sé.

2.4.2 Nell’opera Soi-même comme un autre Ricoeur aveva sviluppato la problematica del sé a diversi livelli: linguistico, prassico, narrativo, morale. L’apparente dispersione, dovuta alla relativa autonomia dei campi di ricerca, era compensata dall’insistenza di un’unica domanda, che attraversava tutta l’in-

ONTOLOGIA

60 R ic o e u r , De la métaphysique à la morale, cit., p. 457.

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chiesta: la domanda relativa al soggetto del linguaggio, del­l’azione, del racconto e della responsabilità. La domanda re­lativa al «chi?», inoltre, incontrava, a tutti e quattro i livelli di inchiesta, come unica risposta l’asserzione del sé.

Ricoeur, allora, nell’articolo che stiamo esaminando, indi­ca nella funzione unificatrice assegnata tanto alla domanda «chi?», che alla risposta «sé», una prima espressione della funzione meta-, in quanto funzione unificatrice.

La funzione meta- trova, inoltre, una seconda espressione nella funzione unificatrice di grado più elevato assegnata alla categoria inglobante dell’agire. Parlare, fare, raccontare, sot­tomettersi ad un’imputazione, costituiscono, infatti, modi di­stinti di un agire fondamentale. Ricoeur, a questo proposito, parla di una sorta di analogia dell’agire, senza spingere il senso di questa analogia oltre quello che Wittgenstein chiamava «somiglianza di famiglia».

Su questa analogia dell’agire Ricoeur tenta una riap­propriazione dell’accezione aristotelica dell’essere come atto e potenza. Questa riappropriazione passa attraverso il concetto heideggeriano di cura e tale passaggio rende ancor più pro­blematica la riappropriazione, dal momento che essa pretende di trasferire il concetto di cura da un’ontologia basata sulla preferenza accordata all’essere come vero, ad un’ontologia che, al contrario, si basa sulla predilezione dell’essere in quanto atto e potenza.

Le ragioni di questa scelta a favore dell’essere come atto e potenza sono molteplici.

Innanzitutto, essa trova una giustificazione a posteriori nell’ermeneutica del sé, poiché questa particolare accezione dell’essere permette di articolare le presupposizioni del con­cetto di analogia dell’agire, il quale, a sua volta, costituisce l’intermediario tra i diversi registri fenomenologici dell’agire (parlare, fare, raccontare, imputare) ed i principi più elevati della speculazione filosofica.

Ricoeur, in questo suo tentativo di dissociare il più possi­bile la dimensione dell’energheia-dynamis da tutte le altre ac­cezioni dell’essere, si sente erede di una tradizione composita.

VERITÀ DEL METODO

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ONTOLOGIA

Di questa tradizione fanno parte Spinoza, che nell’Ethica su­bordina il conatus di tutte le entità finite singolari alla potentia della sostanza prima; Leibniz, che nella Monadologia gerar- chizza le sfere d’espressione dell’appetizione; Schelling, con la sua teoria delle Potenzen-, Nietzsche, con la teoria della volon­tà di potenza; Freud, con la teoria della libido; Nabert, con la sua nozione di desiderio d’essere e di sforzo per esistere (nozione che viene subordinata, nel suo pensiero, al concetto fichtiano di affermazione originaria).

In secondo luogo, oltre a trovare una giustificazione a posteriori nell’ermeneutica del sé, l’essere in quanto atto-po- tenza conferma, a priori, il primato accordato all’agire sul piano della fenomenologia ermeneutica. «Si produce una sor­ta di elezione reciproca tra ontologia dell’atto e fenomenologia dell’agire» 61.

Un elemento importante della strategia teorica ricoeuriana è costituito dal fenomeno dell’attestazione, la quale forma una sorta di architrave, capace di unire tra loro il dominio ontologico e quello fenomenologico-ermeneutico. L’attestazio­ne costituisce, infatti, «il tipo di credenza e di confidenza che si lega all’affermazione del sé come essere agente e (sofferen­te)»62. L’attestazione, in questo senso, si muove a livello ermeneutico, ma essa, al tempo stesso, si appoggia sulla no­zione di essere come atto e potenza. A questo proposito Ricoeur parla di un «fondo dell’essere al tempo stesso potente ed efficace, sul quale si staglia l’agire umano»63. Questo fon­do, precisa Ricoeur, non va però confuso con il Dio della fede, tutt’al più esso sarà il Dio dei filosofi, visto che Aristotele, Spinoza, Leibniz, Ravaisson chiamavano Dio l’essere della loro filosofia. Questa distinzione è molto importante, perché per­mette a Ricoeur di evitare di cadere nelle maglie della critica contemporanea all’ontoteologia.

61 Ivi, p. 464.a Ivi, p. 465.63 Ibid. Vedi anche R icoeur , Soi-même comme un autre, cit., p. 317.

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VERITÀ DEL METODO

2.4.3 Ricoeur individua due punti di congiunzione principali tra la dialettica dello stesso e dell’altro e l’ermeneutica del sé.

2.4.3.1 II primo concerne quella distinzione tra ipseità e medesimezza, che si situa al cuore stesso dell’identità perso­nale. Questa distinzione ha una solida base fenomenologica, essa si fonda, infatti, sulle due diverse maniere di rapportarsi al tempo dell’identità personale, ossia sui due modi attraverso cui un nucleo personale manifesta la sua permanenza nel tem­po: l’ipseità e la medesimezza.

I criteri d’identità che si riferiscono alla medesimezza sono molteplici: l’identità numerica di una stessa cosa attraverso le sue molteplici apparizioni, l’identità qualitativa di due cose che si assomigliano al punto tale da poter essere scambiate e l’identità genetica, che permette di identificare un individuo attraverso le diverse fasi del suo sviluppo. La medesimezza è presente nell’identità personale sotto la forma del carattere.

Al contrario Ricoeur definisce l’ipseità come «il mantener­si di un sé a dispetto dei cambiamenti che colpiscono i desi­deri e le credenze» 64.

Le due diverse modalità dell’identità personale si combi­nano tra loro nell’identità narrativa. Il racconto, infatti, com­prende le azioni sub specie temporis e, dunque, secondo la prospettiva dell’ intrigo, che conferisce a tutta la storia una sorta di identità narrativa la quale, a sua volta, si comunica dalla storia ai personaggi, che vengono messi in intrigo nella stessa misura in cui lo è la storia stessa.

II livello narrativo permette, inoltre, di mettere alla prova la dialettica dell’ipseità e delPalterità, attraverso un’esplora­zione della scala di variazioni del rapporto tra le due modalità dell’identità. Si può, infatti, passare da un ricoprimento quasi totale dell’ipseità da parte del carattere nei racconti e nelle leggende, sino alla completa dissoluzione del carattere in certi romanzi contemporanei.

64 Ivi, p. 467.

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ONTOLOGIA

La dialettica delle due modalità dell’identità si sviluppa anche ai livelli linguistico e morale. Al livello linguistico «l’iden­tità del locutore durante la successione delle sue enunciazioni dipende essa stessa dall’identità narrativa, sebbene questa non venga tematizzata riflessivamente sotto forma di racconto» 6S. Lo stesso avviene per ciò che concerne l’imputazione morale: il fatto di potersi dire autore e responsabile di una certa serie di azioni presuppone una qualche forma d’identità.

Il livello dell’imputazione morale è importante anche per il fatto che a questo stadio incontriamo la figura della pro­messa, la quale ci fornisce il paradigma dell’indentità-ipse, così come il carattere ci aveva fornito il modello dell’identità- idem.

2.4.3.1 II secondo punto di congiunzione tra la dialettica dello stesso e dell’altro e l’ermeneutica del sé è costituito dalle diverse figure dell’alterità che circoscrivono lo stesso. Come la meta-categoria dell’atto e della potenza presiede all’analo­gia dell’agire, analogia che permette di raccogliere sotto un minimo comun denominatore tutti i modi in cui questo unico agire si esprime, così la meta-categoria dell’altro svolge una funzione pluralizzante nei confronti delle diverse esperienze di passività di cui il sé è affetto. Ricoeur, infatti, individua nella passività il corrispettivo fenomenologico-ermeneutico di ciò che l’altro è a livello dei grandi generi.

Accanto a questa prim a opposizione tra funzione unificatrice della categoria dell’atto-potenza e funzione di dispersione della categoria dell’altro si può aggiungere una seconda opposizione, quella tra la funzione di approfondi­mento per interiorizzazione, esercitata dalla prima categoria e la funzione di allargamento per esteriorizzazione, esercitata dalla seconda.

Affrontando più da vicino le diverse figure dell’alterità, Ricoeur riprende la distinzione fatta in Soi-même comme un

65 Ivi, p. 468.

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VERITÀ DEL METODO

autre tra Palterità della carne, della soggettività altra e della coscienza. Non mi soffermerò sull’analisi svolta in questo saggio da Ricoeur sulle diverse modalità dell’alterità, avendo­ne già ampiamente trattato nella parte dedicata all’ultimo capitolo di Soi-même comme un autre.

2.4.4 L’ultimo tratto di questa riflessione Ricoeur lo dedica ad illustrare le modalità della transizione dalla metafisica alla morale ed il ruolo che, in questa transizione, possono svolge­re la funzione meta- e l’ermeneutica del sé. Insistendo tanto sui ponti che sugli steccati che si possono erigere tra questi due domini del sapere, Ricoeur cerca di offrire una visione dialettica del loro rapporto.

Il principale impedimento ad una transizione dalla metafisica alla morale è determinato dall’affermazione humeiana secondo cui esisterebbe un fossato logico inoltrepassabile tra proposizioni descrittive e prescrittive. Il divieto humeiano è, inoltre, riaffermato dai neokantiani tedeschi, che oppongono i giudizi di valore ai giudizi di fatto, e dal positivismo moderno, nella misura in cui esso consacra l’equazione tra la nozione di fatto e la nozione di osservabile attraverso i suoi criteri di verificazione.

Di fronte a queste difficoltà Ricoeur cerca di riconoscere sino in fondo l’esistenza del fossato logico evidenziato da Hume, per poi poterne affrontare la traversata in modo non ingenuo. In questo sforzo di transizione dall’un campo all’al­tro Ricoeur individua tre elementi di mediazione: la stima indirizzata all’uomo capace, la promessa effettivamente man­tenuta ed il giudizio morale in situazione.

1. Tutte le analisi svolte in Soi-même comme un autre e aventi come filo conduttore la domanda «chi?» (chi parla?, chi agisce?, chi racconta?, chi è imputabile?) possono essere riformulabili secondo il vocabolario della capacità: capacità di parlare, di agire, ecc. Ciò rappresenta un’acquisizione impor­tante, perché il soggetto dell’agire è accessibile ad una quali­ficazione morale solo in quanto esso è «capace-di».

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ONTOLOGIA

Il tema dell’uomo capace permette di individuare un dupli­ce punto di passaggio dalla metafisica alla morale.

Il primo punto di passaggio viene alla luce se si è disposti a considerare le varie figure dell’agire (parlare, fare ecc.) non come figure disposte secondo un’enumerazione casuale, ma come una serie teleologicamente ordinata e gerarchizzata. In questo caso l’imputazione costituisce il punto in cui la fenomenologia confina con la morale. Il confine tra feno­menologia e morale risulta varcato quando l’imputazione vie­ne qualificata come imputazione morale, per il fatto che l’azio­ne ed il suo soggetto vengono posti sotto i predicati dell’ob­bligatorio, del lecito e dell’illecito. Ma, nella misura in cui questa predicazione non è ancora venuta, l’imputazione rima­ne al di qua della morale. La figura dell’imputazione permet­te, dunque, di rendere oltrepassabile lo scarto tra fenomeno­logia e morale, senza tuttavia abolirlo.

Se il primo punto di passaggio viene portato alla luce dal movimento che la fenomenologia compie in direzione della morale, il secondo emerge dal movimento inverso.

Ricoeur pone una distinzione tra etica e morale. Mentre infatti la morale manterrebbe un riferimento all’obbligazione, l’etica, al contrario, sarebbe definita dai predicati di buono e di cattivo. Questa distinzione permette a Ricoeur di attribuire un’anteriorità concettuale all’etica, in quanto il desiderio di vivere bene, che caratterizza l’etica, precede l’obbligazione e l’interdizione, che caratterizzano invece la morale. Il passag­gio dalla teleologia, propria alla dimensione etica, alla deontologia, che caratterizza il fenomeno morale, è un pas­saggio che avviene in seguito ad un’irruzione della violenza nei rapporti umani.

L’etica costituisce, allora, il secondo punto di passaggio dalla fenomenologia alla morale, se si considera che la nozio­ne di disposizione etica, a cui l’Etica nicomachea attribuisce il nome di hexis, è estremamente prossima al concetto kantiano di «disposizione naturale alla moralità», concetto che una semplice indagine fenomenologica può portare alla luce.

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VERITÀ D É f METODO

2. Un altro luogo in cui si verifica l’incontro tra metafisica e morale è costituito dal quel territorio di confine che si situa tra narratività e moralità.

La fiction letteraria e l’immaginazione narrativa devono, certamente, essere tenute al riparo da qualsiasi censura mora­le. Ciononostante, occorre osservare che l’etica e la morale sono inevitabilmente implicate nella narrativa, nella misura in cui i racconti trattano di una serie di vicende e di situazioni in cui vengono implicati i concetti di vita buona, di bene e di male, di innocenza e di colpa, ecc. Inoltre la fiction contribu­isce alla rifigurazione del mondo del lettore, prospettandogli possibilità inimmaginate, nuove modalità dell’esistenza, con delle inevitabili conseguenze a livello morale, almeno per ciò che concerne l’ampiezza del ventaglio delle scelte possibili prospettate al lettore.

La promessa, in quanto modello dell’identità-/^, rappre­senta un ulteriore punto di contatto tra metafisica e morale. La promessa, a livello premorale, costituisce infatti un performativo di un certo tipo, perfettamente includibile all’interno di una te­oria generale degli atti di discorso. Altra cosa è l’obbligo morale di mantenere le proprie promesse, al cui livello si è ormai varcata la soglia del mondo morale. Ciononostante, la distinzione tra questi due livelli della promessa rimane molto sottile e quasi impercettibile, ragion per cui, anche attraverso la promessa, lo scarto tra metafisica e morale viene ancora una volta reso oltrepassabile, senza essere, per altro, abolito.

3. Anche relativamente alla coscienza è possibile distingue­re un livello premorale da un livello morale. La coscienza costituisce innanzitutto quel foro interiore all’interno del qua­le si svolge il dialogo con se stessi. L’esame di coscienza, ad esempio, ha come primo livello l’analisi delle cose che dipen­dono da noi e di quelle che non dipendono da noi e, a questo livello, non si è ancora superata la soglia della moralità, perché la messa sotto esame non significa ancora condanna (questo, tra l’altro, costituisce uno dei concetti più elementari del di­ritto).

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ONTOLOGIA

È a livello del giudizio morale in situazione, e non del giudizio morale che rivendica l’universalità, che si opera la congiunzione tra semplice messa in esame ed incolpazione o discolpazione. A questo proposito occorre ricordare che Ricoeur intende per giudizio morale in situazione quel giudi­zio che si può avere quando ci si investe nel tragico dell’azio­ne, mirando alla prospettiva della vita buona e avendo supe­rato e conservato, allo stesso tempo, il livello delle norme universali della morale. A questo livello la giustizia diventa equità.

2.5 Esodo 3.14

AlPinterno dell’opera scritta a due mani da Ricoeur ed André Lacocque, dal titolo Penser la Bible, compare un saggio di Paul Ricoeur dal titolo De l ’interprétation à la traduction. In questo saggio il nostro autore conduce una ricerca che riveste senz’altro un grande interesse per il nostro studio, perché, attraverso di essa, egli opera un confronto tra il senso greco ed il senso biblico del verbo essere. L’intento di Ricoeur non è, qui, quello di opporre le due tradizioni, per privilegiar­ne una a scapito dell’altra, come più volte e da più parti è stato fatto, ma quella di mostrare che il senso dell’essere viene concepito nella Bibbia in un’accezione insospettata dalla filo­sofia greca, ossia, essenzialmente, come essere-con. In questo senso si può parlare della possibilità di un allargamento del senso greco dell’essere, tramite la nozione dell’essere propria alla tradizione giudaica.

PremessaRicoeur inizia il suo saggio sottolineando la difficoltà le­

gata alla traduzione di Esodo 3,14, passo che nella versione ebraica suona «Ehyeh aser ehyeh». Egli, poi, rileva che la tra­duzione greca di questo passo ha costituito un evento di pen­siero decisivo per la storia della nostra cultura. E, infatti, a partire da quell’evento che «il campo semantico del verbo ebraico hyh si è trovato congiunto in maniera duratura con il

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VERITÀ DEL METODO

campo semantico del verbo greco einai, poi del verbo latino esse» 6é.

Si consideri questo incontro provvido o funesto, non si può comunque far sì che esso non abbia avuto luogo e che non abbia condizionato la nostra identità culturale e spirituale.

Da questa premessa Ricoeur desume il seguente assioma: tradurre è già, di per sé, interpretare. Con questa dichiarazio­ne egli non intende affatto criticare l’esegesi scientifica o negarne la possibilità, ma semplicemente ricordare il fatto che non esiste esegesi senza storia e che non è possibile attingere il significato originale del testo o l’intenzione presunta del suo autore a prescindere da tutta una tradizione di lettura.

2.5.1 Gli enigmi del testo1. Ricoeur nota, innanzitutto, che esiste un grosso scarto

tra Esodo 3,14 e tutte quelle formule in cui al soggetto divino è attribuito il nome y h w h , senza la mediazione di un « è » che faccia da copula. Ciò che più impressiona è , inoltre, il fatto che la copula in ebraico è rarissima, se non addirittura inesi­stente: per questo, infatti, Yehyeh di Esodo 3,14 risulta così insolito. A ciò si aggiunga anche che il verbo ehyeh viene sdoppiato in modo tale che il secondo di essi si trova a svol­gere una funzione predicativa, mentre il primo, alla prima persona dell’indicativo singolare, è posto come soggetto. Per questi motivi Ricoeur mette in dubbio che le traduzioni mo­derne possano far economia del verbo essere o di forme ver­bali appartenenti allo stesso campo semantico.

2. Un secondo problema è determinato dal fatto che la proposizione che stiamo considerando è inserita nel quadro narrativo di un racconto di vocazione ed è quindi solidale con tutte le formule d ’invio, missione, mandato che compongono il racconto. Di qui due possibilità: o si considera la formula di Esodo 3,14 come perfettamente inserita nel contesto da cui

66 R icoeur, De l’interprétation à la traduction, cit., p. 335.

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ONTOLOGIA

proviene, oppure si vede in essa un’eccedenza rispetto al quadro narrativo del racconto di vocazione.

Nel primo caso si ha una lettura minimizzante, che vede nella formula di Esodo 3,14 semplicemente un’espansione enfatica dell’autopresentazione di Dio, che ha come scopo quello di rinforzare, attraverso l’istanza retorica costituita dalla catena degli ehyeh, l’autorità del profeta mandato e quella del Dio che manda.

Nel secondo caso si ha una lettura amplificante, che sot­tolinea il fatto che nessun altro racconto di vocazione sia ricorso al ricco campo semantico a cui appartiene il triplo Ehyeh. Secondo questa prospettiva, che è quella che Ricoeur condivide, la formula eccede il suo contesto e la sua funzione, creando, così, una situazione ermeneutica eccezionale, che apre ad una pluralità di interpretazioni del verbo che qui viene impiegato.

3. Il ruolo iniziale esercitato dalla traduzione greca e lati­na dei Lxx è stato quello di una giudaicizzazione della cultura greca, oltre che di un’ellenizzazione della cultura giudaica.

Innanzitutto, va ricordato che nella traduzione greca Dio si designa con queste parole: ego eimi ho on, dove compare il maschile ho on e non il neutro to on, più usuale nel linguag­gio filosofico. Qui, allora, si ha l’evocazione del Dio persona­le di Israele, proprio nel mentre si usa una forma verbale carica della tradizione di pensiero ellenica. Inoltre, nella for­mula di Esodo 3,14 risuonano sia l’opposizione ebraica, che separa il Dio di Israele dai falsi dèi, sia l’opposizione greca, che separa l’essere dal nulla.

Ciò che comunque ha maggiormente contribuito all’ac­climatazione dell’e/m» greco in terra biblica è stato, senza dubbio, il Nuovo Testamento, scritto e pubblicato in greco. Vi è, infatti, nel Nuovo Testamento, sia il contributo del vocabo­lario dell 'Apocalisse, dove Dio viene per cinque volte definito «Colui che è, che era e che viene» (1,4;1,8;11,17;16,5;4,8), sia del Vangelo di Giovanni, dove troviamo scritto: «Prima che Abramo fosse Io sono» (Giov. 8,58).

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Il verbo greco einai non portava affatto con sé l’universa­lità di una nozione indiscutibile, ma l’equivocità di una nozio­ne polivoca dell’essere. Perché, allora, non poter pensare lo stesso dell,ehyeh ebraico? Probabilmente la formula di Esodo3,14 suonava enigmatica già agli antichi ebrei, probabilmente anche per loro essa racchiudeva il doppio enigma di una rivelazione positiva (esistenza, efficacia, fedeltà, accompagna­mento nella storia) e di una rivelazione negativa, concernente l’ineffabilità divina ed equivalente ad una ritrazione di Dio nell’incognito.

Forse l’autore di Esodo ha elevato ad una dignità insolita un verbo della lingua corrente, così come i filosofi greci avevano fatto con il loro einai. In questo modo Esodo 3,14 avrebbe aggiunto alla polisemia del verbo essere una regione inedita di significazione.

2.5.2 Dio e l’essere: la coppia Agostino-Pseudo DionigiNoi viviamo l’epoca che ha visto la messa in questione

radicale di ciò che, a partire dalla patristica greca e latina sino a Leibniz e Wolff, veniva considerato come dato acquisito, cioè della convinzione che il Dio di Mosé e l’essere della filosofia greca si congiungessero, senza confondersi, nell’intel­ligenza della fede.

Ricoeur, allora, osserva che, prima di denunciare questo incontro epocale come scandaloso, ci si dovrebbe, perlomeno, porre la domanda relativa al perché di un consenso così ampio e durevole nel corso dei secoli.

Relativamene a tutta la tradizione che ha esercitato questo consenso Ricoeur fa due osservazioni preliminari.

La prima consiste nel rilevare che nessuno di questi autori ha dubitato del fatto che Dio stesso abbia pronunciato la nota dichiarazione.

La seconda, invece, ci avverte del fatto che nessuno dei Padri o dei grandi scolastici ha mai pensato che la speculazio­ne sull’essere fosse in grado di svelare l’essenza divina. L’es­sere è il nome di Dio, ma l’essere è indefinibile.

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Su questo la patristica e la scolastica sono state istruite dalla spiritualità neoplatonica, veicolata dallo Pseudo Dionigi Aeropagita. Alla dottrina apofatica si è però sempre affiancata la dottrina dell’analogia, secondo la quale è possibile pensare positivamente l’essere, attraverso l’astrazione razionale, che dalle perfezioni create risale alle perfezioni increate. Le due dottrine, infatti, si presuppongono a vicenda: l’apofasi si ap­poggia sull’analogia, perché nega qualcosa che ci si è rappre­sentati attraverso l’analogia, mentre l’analogia, a sua volta, si appoggia sull’apofasi, perché l’elevazione per via d’eminenza presuppone la negazione di ciò che viene ordinariamente af­fermato a proposito di certi attributi.

Se i Lxx hanno inaugurato l’interpretazione ontologica di Esodo 3,14 e Filone d’Alessandria l’ha consacrata, mentre i Padri greci e latini l’hanno trasmessa, è, invece, toccato ad Agostino il compito di iscrivere questa esegesi all’interno di un’ontologia inglobante. Agostino non si poneva il problema, proprio dei dottori del xn e xni secolo, di gerarchizzare di­scorso teologico e filosofico: egli concepiva la fede come inestricabilente congiunta ad una ricerca di intellegibilità e la ricerca razionale come inseparabile da un’ascesa spirituale.

Agostino utilizza i termini di vere esse o di ipsum esse per designare ciò che Gilson definisce come «l’atto sussistente di esistere», nozione che viene accuratamente distinta dall’essere in quanto essere, comune a tutte le cose che esistono. Questo essere, concepito come l’immutabile, viene conquistato al ter­mine di un’ascensione graduale che ha l’esperienza del cam­biamento come punto di partenza. L’essere immutabile, la cui natura profonda rimane inconoscibile, rappresenta, secondo Agostino, sia il senso della suprema essenza dei filosofi che il contenuto dell’autoattribuzione divina nella formula di Esodo 3,14.

Il linguaggio dell’ontologia, allora, per povero che sia, è in grado di dire Dio.

Nonostante le molteplici differenze Agostino e lo Pseudo Dionigi si accomunano su di un punto essenziale: la concezio-

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ne gerarchica dell’universo. La conoscenza di Dio che ci pro­cura il percorso dei gradi dell’ordine cosmico consiste in un equilibrio fragile tra teologia negativa e teologia positiva, dove, però, l’una o l’altra possono trovarsi ad acquisire la suprema­zia. Nello Pseudo Dionigi e in tutta la tradizione neoplatonica è la teologia apofatica a prevalere, perché l’Uno trascende l’ essere, inteso come luogo degli intelligibili, mentre in Agostino prevale la teologia catafatica, perché egli sottolinea, piuttosto, la trascendenza dell’essere agli esseri. Logicamente le due cose possono coincidere, ma non spiritualmente, per­ché mentre la via negativa ha maggiori affinità con la mistica unitiva, la via eminentiae si pone piuttosto al servizio della speculazione dimostrativa e dell’intelligenza della fede.

2.5.3 I medioevaliRicoeur sottolinea tre tratti della scolastica latina dell’età

d’oro (fine x i i e xm secolo).Innanzitutto, si fa sempre più chiara la distinzione tra

speculazione teologica ed ermeneutica biblica e la filosofia tende, allora, ad evitare qualsiasi riferimento all’autoaf- fermazione dell’Essere di Dio secondo Esodo 3,14, che non sia una pura conferma estrinseca.

In secondo luogo, la domanda relativa all’essere rimane una domanda in cui il «che cos’è?» continua a rimanere ammantato dal «chi è?». Questo, secondo Ricoeur, testimo- nierebbe che, comunque, la cristianizzazione dell’ellenismo si è rivelata più forte dell’ellenizzazione del cristianesimo.

Infine, continua a costituire un problema il rapporto tra il Dio uno e semplice e il discorso trinitario.

Dunque, se per quanto riguarda il suo primo tratto, si può dire che la scolastica medioevale tende a marginalizzare la formula di Esodo 3,14, non altrettanto si può dire per ciò che concerne il secondo e il terzo tratto.

Questi tre tratti permettono di accomunare pensatori tan­to diversi quali Bonaventura, Alberto M agno, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, separandoli da Anseimo d’Aosta, il

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quale ha osato dare una definizione che pretende di raccogliere e riassumere l’essenziale dell’essenza divina. In tale ottica non ha più alcun senso il ricorso confermatorio all’autodesignazione di Dio in Esodo 3,14.

Tommaso d’Aquino ha spinto sino all’estremo la purificazione concettuale dell’Ipsum esse, sino ad identificarlo con Patto puro d’essere. In Tommaso le citazioni di Esodo 3,14 rivestono un ruolo poco più che ornamentale, mentre la celebre formula viene interpretata come affermazione dell’identità in Dio di essere ed essenza, affermazione che viene subito mitigata dal­l’ammissione dell’impossibilità di una concettualizzazione del­l’essenza divina. Le cinque vie tommasiane, infatti, conducono all’affermazione dell’esistenza di Dio e non alla conoscenza della sua essenza.

La domanda intorno all’esistenza di Dio è, evidentemente, frutto del nuovo metodo filosofico, perché mai un teologo si sarebbe posto la dom anda relativa a ll’esistenza e alla dimostrabilità dell’esistenza di Dio.

Giunto a questo punto Ricoeur pone la domanda che dà senso a tutta la ricerca che sta svolgendo:

questa convergenza senza fusione tra il versetto biblico e l’ontologismo ereditato dai Greci - con il suo correttivo apofa- tico - rappresenta una aberrazione intellettuale, come si dice mol­to spesso oggi, sia nel campo dei teologi che in quello dei filo­sofi? 67

Prima di rispondere a questa domanda, nel paragrafo suc­cessivo, Ricoeur rievoca l’espressione gilsoniana di «metafisica dell’Esodo», espressione utilizzata dal grande medievalista fran­cese nelle sue Gifford Lectures (1931), poi raccolte nel volu­me dal titolo LEsprit de la philosophie médiévale. Gilson, in questo scritto, osserva che nulla nella filosofia greca poteva condurre ad un monoteismo paragonabile a quello degli ebrei,

67 Ivi, p. 360.

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in cui Dio è concepito come unico ed autore di tutto ciò che esiste. Secondo Gilson senza Esodo 3,14 i filosofi non avreb­bero mai avuto accesso all’idea secondo la quale l’Essere co­stituisce il nome proprio di Dio e ne indica l’essenza. Gilson, senza affermare una fusione completa tra rivelazione e filoso­fia, parla di un accordo naturale prodottosi tra la filosofia neoplatonica e la fede cristiana, accordo che permette di poter parlare di una filosofia cristiana. Nel 1978 Gilson ritorna sulla questione 68, dopo la critica heideggeriana alla metafisica occidentale. La risposta ad Heidegger consiste nel rilevare che la critica dell’ontologia classica, inaugurata da Kant, è stata resa possibile dal tradimento operato dalla scolastica tardiva e moderna dell’equazione tra Essere ed Atto puro d’esistere, tradimento che ha reso possibile l’argomento ontologico di Anseimo e Cartesio. Gilson, inoltre, concede che l’avvicina­mento tra il Dio delle Scritture e l’Essere della filosofia abbia potuto costituire un evento contingente e speculativamente fragile. Infine, Gilson afferma che occorre risalire a Parmenide per trovare una nozione dell’essere sufficientemente pura da poter essere coniugata con l’Atto puro d’Esistere.

2.5.4. Il processo dell’ontoteologiaL’atto di rottura dell’equazione tra Dio ed Essere ha due

versanti: quello filosofico e quello teologico. Ricoeur affronta dapprima quello filosofico.

Heidegger ha affermato che il vero pensiero dell’essere esclude la metafisica e la fede cristiana, nella misura in cui queste hanno condotto ad un Dio che non è l’essere, ma l’Essente supremo. Il tema centrale della filosofia heideggeriana diventa, allora, quello della differenza tra l’essere e gli enti, compreso l’Ente supremo.

Ricoeur individua tre limiti fondamentali nella posizione heideggeriana: è dato riscontrare, in primo luogo, un’indebita

68 Lo scritto è apparso nell’opera postuma dal titolo Constantes Philoso­phiques de l’Etre, Paris, 1983.

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riduzione di tutta la storia della metafisica alla versione scola­stica tardiva, la quale può, effettivamente, dar luogo ad una confusione tra essere ed ente; Heidegger ignora, inoltre, il ruolo dell’apofatismo, che abbiamo visto situarsi al cuore dell’ontologia medievale; infine, non viene preso in conside­razione da Heidegger il fatto che Tommaso pone l’Atto d’es­sere sopra tutti gli enti.

Non vi sono dubbi, secondo Ricoeur, che la fede in Dio abbia sostenuto il lavoro attraverso cui il pensiero si sforzava di elevare l’Essere al di sopra dell’ente e, in questo senso, si può dire che «l’ontologia tomistica autentica non risponde al criterio infamante dell’ontoteologia»69.

La dissociazione tra Dio ed Essere appare allo spirito con­temporaneo come effetto secondario di una rottura più radi­cale, determinata da quell’evento che Nietzsche aveva definito «morte di Dio». Heidegger stesso aveva interpretato la procla­mazione nietzscheana come indicante la morte del Dio della metafisica e aveva intravisto, al di là di questa morte, un pensiero dell’Essere post-cristiano, alimentato dalla poesia filosofante illustrata da Hölderlin e fortemente caratterizzato in senso neopagano.

Il versante teologico della rottura tra Dio ed essere è costituito da tutte quelle forme della teologia contemporanea che cercano di rielaborare un nuovo sapere teologico, a par­tire da tutto ciò che permette di differenziare le categorie del pensiero giudaico da quelle delPellenismo.

A questo processo hanno fornito il loro contributo noti filosofi contemporanei quali Emmanuel Lévinas e Jean-Luc Marion.

Lévinas oppone radicalmente il pensiero dell’Essere, che egli concepisce come condannato a totalizzare l’esperienza, a scapito della differenza originaria costituita dal sorgere del volto d’altri nel mio campo d’esperienza, e la dimensione

49 R ic o e u r , De l'interprétation à la traduction, c i t . , p . 365.

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etica, costituita dalla testimonianza e dalla Rivelazione. È nel­l’istanza etica, costituita dal volto d’altri, che, secondo Lévinas, vi può essere una traccia del Dio della Torah, che instaura la mia responsabilità.

Quella che Lévinas propone è, in sostanza, un’etica senza ontologia. Il più brillante tra i nuovi filosofi-teologi che fanno eco a Lévinas è, a detta di Ricoeur, Jean-Luc Marion, che interpreta la proclamazione nietzscheana della morte di Dio come proclamazione della morte dei nomi sino ad ora cono­sciuti di Dio. L’ateismo concettuale ha mostrato, secondo Marion, l’impossibilità di una determinazione concettuale di Dio, nella quale il teologo può intrawedere una sorta di ido­latria (l’idolatria concettuale). L’essere, secondo Marion, sa­rebbe una di queste determinazioni concettuali, la quale avreb­be, inoltre, il torto di costituire una rappresentazione blasfema di Dio. Marion, infatti, riprende la critica heideggeriana al ruolo di schermo esercitato dalla rappresentazione. Non re­sterebbe, allora, secondo Marion, che riprendere la definizio­ne giovannea di Dio come amore, ricongiungendosi, così, a tutta quella tradizione della patristica e della filosofia medie­vale che vede nel Bene anziché nell’Essere il primo nome di Dio. Marion ritiene che non si possa sottomettere Dìo ad un criterio d’esistenza, a delle condizioni di possibilità e ad un’al­ternativa tra essere e non essere, ovverosia ad un principio di ragione di cui noi siamo i padroni.

2.5.5. La proposta di RicoeurRicoeur ammette che la logica della sovrabbondanza e

dell’amore, evocata dalla Bibbia, faccia appello ad una logica del paradosso e ad una retorica dell’iperbole, ma egli resta convinto che questa logica e questa retorica non possano, in alcun modo, rinforzare una prospettiva di tipo irrazionalistico. Ciò che viene richiesto dalla prospettiva dell’amore non è un sacrificio intellettuale, ma un’altra ragione.

Una teologia dell’amore che rifiutasse l’ontologia non sa­rebbe capace, secondo Ricoeur, di legare un nuovo patto con la ragione occidentale, raggiungendo la filosofia nel luogo della

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sua crisi e dell’autocritica delle proprie pretese totalizzanti e fondazionali. Occorre, secondo Ricoeur, stringere un nuovo patto tra teologia e ragione occidentale, che sia in grado di sopportare il paragone con quello a suo tempo annodato con il neoplatonismo ed il neoaristotelismo durante il Medioevo. Senza questo nuovo patto il pensiero giudaico-cristiano non farebbe altro che provocare la propria disinculturazione e, di conseguenza, la propria marginalizzazione.

Concludendo questo suo studio Ricoeur pone tre proble­mi, relativi all’impiego in teologia di Esodo 3,14, dopo la critica heideggeriana e nietzscheana.

Il primo solleva la questione del rapporto tra la formula giovannea, che identifica Dio e amore, e la formula di Deu­teronomio, che dice: «Ascolta, Israele: y h w h nostro Dio è il solo y h w h » . Secondo Ricoeur occorre andare dalla proposi­zione che afferma che Dio è uno alla proposizione che affer­ma che Dio è amore, perché Giovanni non fa altro che svilup­pare, attraverso le risorse della metafora, della dialettica e della narrativizzazione, le proclamazioni di Esodo e di Deute­ronomio.

Il secondo concerne, invece, il rapporto tra lo ehyeh ebrai­co e Yeinai greco. Ricoeur, in questo caso, formula l’ipotesi che l’ehyeh ebraico introduca un’espansione di senso, che ar­ricchirebbe la polisemia, già molto ampia, anche se cultu­ralmente limitata, del verbo greco eìnaì. Se l’essere, come ci ha insegnato Aristotele, si dice in molti modi, si può pensare che gli ebrei l’abbiano detto in un modo nuovo.

Il terzo riguarda, infine, la possibilità di tradurre Esodo 3,14 senza ricorrere al verbo essere. Ricoeur tenderebbe ad escludere questa possibilità, perché, di fatto, tutte le traduzio­ni alternative proposte non sono consistite in altro che in parafrasi o commentari, che alla fine sono giunti al semplice risultato di restituirci la ricchezza di senso del verbo essere, ma non a quello di eliminarne l’uso nella traduzione del passo di Esodo.

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2. TERZO BILANCIO PROVVISORIO

1. Premessa

Dall’analisi dei testi che Ricoeur ha dedicato all’ontologia è apparsa chiara l’opzione preferenziale che egli fa a favore di un’ontologia dell’atto. Questa scelta mi pare decisiva e meri­tevole di alcune considerazioni.

A tal proposito vorrei, innanzitutto, rilevare la matrice aristotelica della nozione di essere come atto (dynamisjenergheia), che Ricoeur puntualmente oppone alla nozione di essere in quanto sostanza, anch’essa di matrice aristotelica. Ciò che in­vece risulta anti-aristotelico è l’opzione rispetto ad un’alterna­tiva e, questo, per almeno due motivi:

1. Perché Aristotele tratta le due dottrine come due lati dello stesso 70.

70 È stato infatti autorevolmente notato, sulla base dell’analisi dei libri Zeta ed Età della Metafisica aristotelica, che si può parlare, in Aristotele, di una identificazione dell’atto con la sostanza. A tal proposito si veda E. B erti, II concetto di atto nella Metafìsica di Aristotele, in M. S a n ch ez So ro n d o (a cura di) L'atto aristotelico e le sue ermeneutiche, Roma, 1990, pp. 43-61. Afferma infatti Berti: «L’identificazione della materia con la potenza e della sostanza prima, cioè della forma, con l’atto, serve proprio ad affermare questo carattere di attualità, di effettività, cioè di esistenza reale, che Aristotele intende attribu­ire al significato principale dell’essere. Se così non fosse, non ci sarebbe stato alcun bisogno di aggiungere alla trattazione dell’essere inteso secondo le cate­gorie, cioè principalmente della sostanza e della sua composizione di materia e forma, contenuta nei libri Zeta ed Età, la trattazione dell’essere secondo la potenza e l’atto, contenuta nel libro Theta, nella quale invece si completa e culmina la trattazione dei significati fondamentali dell’essere. Ciò è confermato, del resto, anche dal De anima, dove non solo Aristotele ricorre al concetto di

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2. Perché dal testo aristotelico emerge, piuttosto, l’idea di una primarietà dell’essere in quanto ousia sulle altre signi­ficazioni dell’essere 71.

atto per definire l’anima, già definita come forma del corpo (De an. il 1, 412 a 19-22), ma aggiunge che il concetto di atto è il significato principale tra i molti che sono propri dell’essere e dell’uno (412 b 8-9). Ivi, pp.55-56.

71 Molte ricostruzioni storiche del pensiero aristotelico hanno persua­sivamente messo in evidenza l’intima connessione istituita da Aristotele tra le diverse significazioni dell’essere e la priorità accordata all’essere come sostanza sulle altre.

Giovanni Reale (Vedi G. R eale, Storia della filosofia antica, Milano, 1975, voi. il, pp. 411-424), ad esempio, dopo aver affermato che la base dell’ontologia aristotelica è costituita dall’affermazione dell’originaria molteplicità dei signifi­cati dell’essere, cita il celebre passo aristotelico in cui viene formulata la teoria dell’analogia dell’essere:

«L’essere si dice in molteplici significati, ma sempre in riferimento ad un’unità e ad una realtà determinata. L’essere, quindi, non si dice per mera omonimia, ma nello stesso modo in cui diciamo “sano” tutto ciò che si riferisce alla salute: o in quanto la conserva, o in quanto la produce, o in quanto ne è sintomo, o in quanto è in grado di riceverla; o anche nel modo in cui diciamo “medico” tutto ciò che si riferisce alla medicina: o in quanto possiede la me­dicina o in quanto ad essa è per natura ben disposto, o in quanto è opera della medicina; e potremmo addurre ancora altri esempi di cose che si dicono nello stesso modo di queste. Così, dunque, anche l’essere si dice in molti sensi, ma tutti in riferimento ad un unico principio» (R eale, Storia della filosofia antica, cit., pp. 412-413. Il testo aristotelico è quello di Metafisica, Gamma 2, 1003 a 33-b 6).

Reale prosegue affrontando la questione relativa all’individuazione di que­sto principio e cita un altro passo che troviamo poco più avanti nell’opera aristotelica:

«Così, dunque, anche l’essere si dice in molti sensi, ma tutti in riferimento ad un unico principio: alcune cose sono dette esseri perché sono sostanze, altre perché sono affezioni della sostanza, altre perché sono vie che portano alla sostanza, oppure perché corruzioni o privazioni o qualità o cause produttrici o generatrici sia della sostanza, sia di ciò che si riferisce alla sostanza, o perché negazioni di qualcuna di queste, ovvero della sostanza». Ivi, pp. 413-414. Il passo di Aristotele si trova in Metafisica, Gamma 2, 1003 b 5-10.

Proseguendo nella sua analisi della teoria aristotelica della polisemia del­l’essere, Reale cita la tavola dei significati dell’essere, introdotta da Aristotele in Metafisica Delta 7 e in Metafisica Epsilon 2-4. In questi testi Aristotele distingue quattro gruppi di significati dell’essere:

a) L’essere nel senso dell’accidente.b) L’essere per sé, opposto all’essere accidentale e composto dalle varie

categorie facenti capo alla sostanza.c) L’essere come vero, a cui viene contrapposto il non essere come falso,

ossia l’essere logico, l’essere del giudizio vero o falso.d) L’essere come potenza e atto, che si estende a tutti i significati sopra

distinti.

VERITÀ DEL METODO

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ONTOLOGIA

Mi sembra, tuttavia, che l’obiettivo polemico di Ricoeur non sia tanto la dottrina della sostanza così come essa viene formulata da Aristotele, ma la medesima dottrina secondo la lettura fattane dalla tradizione tardo-scolastica, a partire da Suarez. Per Aristotele, infatti, la sostanza vivente, cioè la vita, non è altro che l’azione che ha il fine in sé - lo stesso che praxis teleia[\]; non, dunque, l’immobilità della morte, ma la formidabile mobilità di chi tiene in scacco permanente la

A proposito dell’essere come potenza ed atto Reale osserva: «Un punto resta chiarissimo: l’essere come potenza e l’essere come atto (che sono raccolti in un solo gruppo, perché sì comprendono e si calibrano solo in funzione l’uno dell’altro) non esistono fuori o oltre le categorie, ma sono modi di essere che si appoggiano all’essere stesso delle categorie, si estendono secondo tutta la tavola delle categorie e sono diversi secondo che si appoggino alle diverse figure delle categorie». Ivi, p. 421.

Ricapitolando i risultati delle sue analisi sulla teoria aristotelica dell’essere Reale è molto preciso nell’affermare la priorità dell’essere in quanto sostanza sugli altri significati dell’essere:

«Si è dimostrato che i quattro significati dell’essere sono, in realtà, quattro gruppi di significati, facenti capo, tutti quanti, al primo, cioè alle categorie. L’essere come potenza e atto ha luogo secondo le diverse categorie e solo secondo esse; esso non sussiste fuori di esse o oltre esse. L’essere come vero, che consiste nell’operazione mentale del congiungere e del dividere, non può che basarsi sulle categorie, che sono, appunto, ciò che viene unito o disgiunto. Infine anche l’essere accidentale si fonda sull’essere categoriale e non è che un’accidentale affezione o un accadimento secondo le varie figure delle catego­rie. Dunque: tutti i significati dell’essere presuppongono l’essere delle categorie; ma - e questo è un punto già più volte emerso e che ora è venuto il momento di approfondire - le varie categorie, a loro volta, non stanno tutte sul medesimo piano; fra la sostanza e le altre categorie c’è una differenza radicale, una dif­ferenza in qualche modo assimilabile a quella che c’è fra le categorie in generale e gli altri significati dell’essere. Tutti i significati dell’essere presuppongono l’essere delle categorie; a sua volta, l’essere delle categorie dipende interamente dall’essere della prima categoria, ossia dalla sostanza.

Se, dunque, tutti i significati dell’essere suppongono l’essere delle catego­rie, e se, a sua volta, l’essere delle categorie suppone l’essere della prima e su questo interamente si fonda, è evidente che la domanda radicale sul senso dell’essere andrà incentrata sulla sostanza» (ivi, pp. 423-424).

A conferma di quanto detto Reale cita il seguente passo di Aristotele:«E in verità, ciò che dai tempi antichi, così come ora e sempre, costituisce

l’eterno oggetto di ricerca e l’eterno problema: “che cos’è l’essere?”, equivale a questo: “che cos’è la sostanza?” [...]; perciò anche noi, principalmente, fon­damentalmente e unicamente, per così dire, dobbiamo esaminare che cos’è l’es­sere inteso in questo significato». Ivi, p. 424. Il passo citato si trova in Aristotele, Metafisica, Zeta 1, 1028 b 2-7.

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morte, perché la domina. L’atto è, altrettanto, per Aristotele, la permanenza dell’essere nella sua capacità di togliere le in­sidie del negativo.

Di questo è in parte convinto anche Ricoeur che in Sot- même comme un autre afferma:

Certo, ciò che abbiamo attaccato, a proposito dell’opposizione tra ipseità e medesimezza, è più il sostanzialismo della tradizione (alla quale Kant continua ad appartenere attraverso la prima Analogia dell’esperienza) che non Yousia aristotelica, che a quello non si lascia ridurre. 72

Tuttavia rimangono, in Ricoeur, delle perplessità anche relati­vamente ad Aristotele:

Resta che, quale che sia la possibilità di liberare ugualmente Yousia aristotelica dalle catene della tradizione scolastica nata dalla sua traduzione latina con substantia, Aristotele sembra maggiormente preoccupato di far intersecare piuttosto che di dissociare le significazioni connesse rispettivamente alla coppia enèrgheia-dynamis e alla serie delle accezioni aperta dalla nozio­ne di ousia. 73

Ciò che risulta decisivo, a mio parere, tra le cose che Ricoeur afferma nel passo citato è il riferimento alla traduzio­ne del termine greco ousia nel termine latino substantia. Questa traduzione avrebbe il demerito di aver ristretto i signi­ficati à&ÌYousia aristotelica, riducendo la sostanza alla me­desimezza, al sostrato che rimane sempre uguale a sé. In questo senso sarebbe possibile recuperare il significato originario della ousia aristotelica, al di là del concetto di sostanza, e salvare, per questa via, Aristotele dalla critica che Ricoeur rivolge all’ontologia della sostanza.

La sostanza è stata da sempre caratterizzata in rapporto a degli accidenti e dunque a degli attributi mobili. In questo modo essa ha assunto le caratteristiche di qualcosa che rimane sempre uguale a sé, mentre i suoi accidenti cambiano. Gli

72 P. R ico eu r , Soi-même comme un autre, Paris, 1990, p . 354.73 Ivi, pp. 354-355.

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accidenti cambiano, ma l’essere rimane e, dunque, può essere identificato come il sostrato che permane sempre uguale a se medesimo. In questo senso il termine greco ousia è stato mal tradotto con il termine latino substantia: concepita nel modo che abbiamo detto la substantia avrebbe come corrispettivo greco Vhypokeimenon, mentre Vousia andrebbe resa, piutto­sto, con il termine en s74.

Ricoeur, dunque, prende le distanze dall’interpretazione latina dell "ousia aristotelica e comprende il senso di questo concetto greco nei termini dell’interpretazione che ne ha dato la filosofia analitica: Yousia è ciò che non si presenta mai come predicato, che è sempre soggetto. Uousia è, semplice- mente, un essere singolare e gli esseri singolari appartengono, essenzialmente, a tre categorie. Vi sono, innanzitutto, i pro­nomi deittici («io», «tu», «questo», «quello», deittici di spazio, deittici di tempo, deittici dimostrativi, deittici dell’appel­lazione), ossia ciò che si può mostrare. In secondo luogo abbiamo i nomi propri e, infine, le caratterizzazioni definite («il primo uomo che ha camminato sulla luna» ecc.), le quali sono degli equivalenti dei nomi propri.

Ciò che si può osservare è che il recupero di un’ontologia dell’atto ha un’importante funzione strategica nei confronti dell’antimetafisica contemporanea. Le critiche all’ontologia si sono sempre appuntate, infatti, contro il suo vero o presunto sostanzialismo. Ora, la proposta di un’ontologia dell’atto ha come scopo quello di sfuggire a tali critiche.

Risulta interessante, inoltre, il recupero della tradizione moderna nel quadro della riscoperta dell’essere come atto. A questo proposito, comunque, andrebbe rilevata un’importan­te differenza tra i concetti aristotelici di atto e di potenza ed

74 II termine latino ens, non rappresenta l’esatto calco del termine greco ousia. Tuttavia, poiché il termine latino essentia, attraverso l’uso fattone dalla tradizione, ha subito una certa curvatura essenzialistica, sembra più opportuno, secondo Ricoeur, tradurre ousia con ens, piuttosto che con essentia.

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il concetto spinoziano di conatus: Spinoza, quando parla del conatus, guarda alla cosa diveniente, che costituisce un misto di atto e di potenza, mentre la distinzione aristotelica tra atto e potenza è di carattere analitico (è una distinzione di «princi­pi»). In questo senso anche l’idea heideggeriana della potenza intesa come forza (Kratf), può essere assimilata al conatus spinoziano. Aristotele pensa ad una priorità ontologica e gnoseologica dell’atto sulla potenza: non solo l’atto è, sul piano ontologico, il pieno compimento della potenza, ma la potenza, dal momento che essa trova il suo compimento nel­l’atto, è conoscibile solo a partire dall’atto. La potenza heideggeriana, il conatus spinoziano, Yappetitus leibniziano, invece, sono conoscibili di per sé, indipendentemente dal loro compimento. Questo accade anche in Ricoeur, dove l’attesta­zione viene descritta come una conoscenza della potenza.

2. La ricerca di un senso privilegiato dell’essere

Se il testo della Metafisica sembra raccogliere in unità i vari sensi dell’essere alla luce di una priorità dell’essere in quanto ousia, non sono mancati, nel corso della lunga storia delle ermeneutiche del testo aristotelico, tentativi di andare nella direzione di una predilezione di qualche altro significato dell’essere. Paradigmatica, in questo senso, risulta essere la parabola heideggeriana, che ha visto occupare, nelle diverse fasi della sua ricerca, il posto di senso privilegiato da parte di tutti i significati dell’essere, escluso l’essere come accidente 75.

Che pensarne? Forse che i tre principali gruppi di signifi­cati (l’essere secondo le categorie, l’essere come atto e poten­za, l’essere vero o falso) sono tra di loro complementari e che

75 Una buona illustrazione delle varie fasi del processo di autoap­propriazione del pensiero di Aristotele da parte dì Heidegger si trova in E. B e r t i , Aristotele nel Novecento, Bari, 1992, pp. 44-111; F. V o lp i, Heidegger e Aristotele, Padova, 1984; Id ., Heidegger e Brentano, Padova, 1976; Id ., L’esisten­za come praxis. Le radici aristoteliche della terminologia di «Essere e tempo», in G. V a tt im o (a cura di), Filosofia 91, Roma-Bari 1992, pp. 215-252.

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non è possibile operare rispetto ad essi opzioni basate su pre­sunte alternative.

Sembra inoltre che, accanto ad una priorità generica attri­buita da Aristotele aÌYousia, si possa parlare di una priorità specifica di un qualche significato dell’essere, relativamente ad una determinata prospettiva. In fondo è questo il senso in cui Ricoeur parla di priorità dell’essere come atto: l’essere come atto viene privilegiato nella prospettiva di un’ontologia che prende le mosse dalla prassi e che ha come scopo iniziale quello di unificare le varie sfere dell’agire umano.

Si può osservare, infine, che nessuno dei vari significati dell’essere, compresa Yousia, è in grado di fornirci l’elemento unificatore. Per trovare l’unità dei vari sensi dell’essere occor­re, allora, procedere di un passo oltre Aristotele, come mostre­remo nel prossimo paragrafo.

3. L a semantizzazione dell’essere

Ricoeur, come abbiamo visto nel corso dell’esposizione dei suoi testi di ontologia, introduce più volte, ma sempre con molta cautela, quello che, in qualche modo, potremmo defi­nire lo «strato teologico dell’essere». In Soi-même comme un autre egli parla di un «fondo dell’essere insieme potente ed efficace su cui si staglia l’ agire um an o »76 e in De la métaphysique à la morale egli giunge sino ad affermare che questo fondo dell’essere è «il Dio dei filosofi», anche se poi precisa questa affermazione osservando che «questo Dio non ha in comune che il nome con il Dio che si può pregare» 11.

76 R icoeur , Soi-même comme un autre, cit., p. 317.77 «Io», scrive Ricoeur, «non pretendo assolutamente di designare non so

quale “genere comune” al quale apparterrebbe l’enèrgheia-dynamis, il conatus spinoziano, l’appetizione leibniziana ecc. Nessuna pretesa fondazionale si lega a questa designazione rischiata, sfociata da una serie di scelte imperfettamente trasparenti alla riflessione. La pluralità stessa degli atti di riappropriazione delle nozioni aristoteliche mi pare al contrario protetta da questo concetto sfumato di un fondo dell’essere insieme potente ed efficace. Allo stesso modo viene

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Nello scritto su Négativité et affirmation originaire Ricoeur aveva già parlato di «un essere senza essenza, o la cui sola essenza è d’esistere» 78 e aveva detto che

pensare questo essere significa pensare l’arché nel doppio signi­ficato di cominciamento e di fondamento di tutto ciò che noi possiamo porre e deporre, credere e mettere in dubbio.79

Sempre nel medesimo scritto Ricoeur aveva affermato che l’idea di un tale essere è «l’idea di qualche cosa che fa comin­ciare il resto senza avere essa stessa cominciamento» 80. Infine, nello scritto su Esodo 3.14 , afferma che la formula ebraica attraverso la quale Dio si autodesigna non può essere tradotta senza fare riferimento al verbo essere81. Buona parte dell’ar­gomentazione svolta in questo saggio, inoltre, mira a dimo­strare che

le considerazioni ontologiche più audaci dei medievali si trova­no in completa opposizione rispetto a una concezione “astratta” o “ essenzialistica” dell’Essere, sotto l’impulso, precisamente, di Esodo 3,14. 82

Accanto a queste interessanti affermazioni, però, ve ne sono delle altre che sembrerebbero andare in direzione oppo-

rifiutata in anticipo la pretesa di identificare questo fondo dell’essere al Dio della fede. Anche se Aristotele, Spinoza, Leibniz e Ravaisson dietro a loro hanno chiamato Dio l’essere della loro filosofia, questo Dio non è, nel migliore dei casi, che il Dio dei filosofi e non ha in comune che il nome con il Dio che si può pregare. Il lavoro dialettico di gerarchizzazione e di differenziazione delle meta-categorie non autorizza piuttosto che a situare i tentativi di riappropriazione della coppia enèrgheia-dynamis in una regione del pensiero che lascia intatta la critica contemporanea dell’onto-teologia». P. R icoeur , De la métaphysique à la morale, «Revue de Métaphysique et de Morale», ìv, 1993, p. 456.

78 P. R icoeur , Négativité et affirmation originaire, in Aspects de la dialectique, Recherches de philosophie, h, Paris, 1956, ora in Histoire et vérité, 2a ed., Paris 1964 (la ed. 1955), p. 357.

79 Ibid.80 Ibid.81 «Permane oggetto di dubbio che, nella traduzione in lingua moderna, si

possa fare l’economia del verbo essere o di forme verbali appartenenti allo stesso campo semantico». P. R icoeur , De l’interprétation à la traduction, in P. R ico eu r - A. L aco cq ue , Penser la Bible, Paris 1998, p. 339.

82 Ivi, p. 340.

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sta. Penso, ad esempio, alle osservazioni che il nostro autore fa nell’introduzione al libro di Chiodi, quando scrive:

La sola risposta che io possa dare a questo invito a riempire, attraverso un’ontologia dell’essere assoluto o incondizionato, lo scarto tra un’ontologia, che resta legata ad un’antropologia filo­sofica, e un’ermeneutica biblica abbozzata in numerosi articoli sparsi, consiste nel dire che io non concepisco assolutamente l’ontologia dell’essere come un tale anello intermedio. Come spiego più ampiamente in Soi-même comme un autre, i signifi­cati dell’essere di cui parla Aristotele permettono di precisare lo statuto di tali o tal’altri esseri (o essenti), per esempio le persone o le cose, ma non di elaborare una teoria dell’essere in quanto essere che sarebbe non soltanto distinta dalle significazioni mul­tiple, ma che inoltre permetterebbe di designare un essere che sarebbe l ’unico vero essere. Questo è il m otivo per cui l’ermeneutica biblica resta per me il cammino sul quale io avan­zo, a mio rischio e pericolo, per fornire un senso alla poetica della volontà. 83

Il problema che a questo punto si pone è quello di capire che rapporto vi sia tra quello che Ricoeur dice in questo passo e, cioè, che le molteplici significazioni dell’essere di cui parla Aristotele permettono solo di precisare lo statuto di certi essenti particolari e non di elaborare una teoria dell’essere, e quell’abbozzo di teoria dell’essere che abbiamo visto profilarsi negli scritti che abbiamo citato sopra. Poiché Ricoeur non si è ancora espresso su questo problema arrischio alcune consi­derazioni in prima persona, per mostrare quale relazione pos­sa essere posta tra la lettura aporetica di Aristotele nella linea della plurivocità dell’essere, che Ricoeur ha messo in opera, ed un’ontologia dell’atto puro.

Al fine di porre un certo ordine nell’argomentazione oc­corre fare, fin dall’inizio, un’importante distinzione, cioè quella tra essere, form a infinitiva del verbo, ed ente, form a participiale. Nell’articolare questa distinzione, mi rifaccio allo

83 M . C h io d i, Il cammino della libertà. Fenomenologia, ermeneutica, ontologia della libertà nella ricerca filosofica di Paul Ricoeur, Brescia 1990, pp. XVUI-XIX.

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studio di Carmelo Vigna, dal titolo Sulla semantizzazione del­l’essere 84.

La differenza linguistica tra essere ed ente, osserva Vigna, lascia intravvedere una differenza speculativa, poiché la forma participiale può, senza troppe forzature, subire il plurale, men­tre la forma infinitiva lo può subire solo a costo di qualche forzatura. Si potrebbe, allora, dedurne che, mentre l’ente è un che di determinato, di finito, che lascia dunque altro accanto a sé, non così accade, invece, all’essere, che oltre di sé non lascia nulla, ovvero lascia solo il nulla. La grammatica ci dice anche che «ente» si risolve in «ciò che è», cioè in qualcosa (un ciò) che prende parte all’essere, mentre il «ciò» rappresente­rebbe un modo indeterminato di indicare una determinatezza. Lo stesso non si può grammaticalmente dire di «essere». Solo quando la determinatezza, inclusa nel concetto di ente, venis­se fatta equivalere all’intero, ente ed essere verrebbero a coin­cidere. A sua volta il significato essere potrebbe precipitare su quello di ente, nella misura in cui venisse accompagnato da un articolo indeterminativo o da un’indicazione quantitativa: un essere, degli esseri, molti esseri.

Cominciamo già a far luce sulle problematiche ontologiche ricoeuriane dicendo che, quando Aristotele si interroga attor­no all’ente, giungendo ad elaborare la teoria della polisemia dell’ente, la sua interrogazione verte solo sull’ente e non sul­l’essere. La seguente battuta, posta da Aristotele agli inizi del libro v ii della Metafisica ce ne fa testimonianza:

E in verità, ciò che dai tempi antichi, così come ora e da sem­pre, costituisce l’eterno oggetto di ricerca e l’eterno problema: “che cos’è l’ente?” , equivale a questo: "che cos’è la sostanza?” 85

Si può, infatti, chiedere che cos’è l’ente, ma non si può chie­dere che cos’è l’essere. L’antica domanda socratica sul «che

84 C. V igna , Sulla semantizzazione dell’essere, in Metafisica e modernità. Studi in onore di Pietro Faggiotto, Padova, 1993, pp. 359-380. '

85 A risto tele , Metafisica, 1028b, 2ss.

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cos’è» è una domanda che vuole come risposta una definizione, un’indicazione dell’essenza; ma l’essere non si può definire o circoscrivere: non esiste, infatti, un genere in cui l’essere possa essere incluso, perché oltre l’essere non vi è nulla. Si può, invece, chiedere che cos’è l’ente, perché l’ente è passibile di una definizione, e, infatti, è questa che Aristotele cerca.

L’essere non si può definire, esso, semmai, si semantizza: semantizzare significa manifestare un significato, recarlo al linguaggio, senza peraltro circoscriverlo. Solitamente si semantizzano i significati che si riferiscono alla totalità del reale (essere/nulla, presenza/assenza ecc.). Vi è, dunque, una differenza essenziale tra definizione e semantizzazione: nella definizione tutta l’attenzione è rivolta alla natura dell’oggetto da definire, di cui vengono infatti fornite le costanti estetico­noetiche (genere e differenza specifica), mentre nella seman­tizzazione si fa leva sull’altro da ciò che è semantizzato, per svelarne il significato. In questo senso possiamo dire che l’es­sere è semantizzabile attraverso la sua opposizione per con­traddizione al non essere: l’essere non è non essere. In questo modo non incorriamo nel rischio di definire l’essere, ma ci troviamo ad avere a che fare con un altro genere di difficoltà:il procedimento oppositivo, consistente nella negazione della negazione dell’identità, rischia di consegnarci un significato puramente formale, se questo significato non viene posto in sinergia con un procedimento ostensivo, ovverosia fenomeno- logico-intenzionale.

Questa difficoltà può essere tolta mostrando che l’essere possiede un referente reale: quando dico che c’è il sole, dico che il sole è lì, dinanzi ai miei occhi, che esso non è niente. Eppure, il sole non è l’essere, esso è un certo essere. L’essere, infatti, può essere predicato non solo del sole, ma anche del cielo e del mare. Diremmo, allora, che l’essere possiede un referente reale, ma non un referente reale adeguato.

L’essere non è ciò di cui si ha notizia in prima battuta, perché l’esperienza nella sua forma più elementare attesta che «c’è questo» e «c’è quest’altro», ovvero attesta l’esistenza di un

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ente, dove posso distinguere tra il «qualcosa» e il suo esser­ci. Per questo la prima distinzione che viene in mente non è la distinzione tra il «qualcosa» ed il suo esserci, ma, piut­tosto, la distinzione tra un certo qualcosa ed un cert’altro qualcosa: io vedo, infatti, dove finisce il cielo e dove inizia il mare, ma non vedo dove finisce il cielo e dove inizia il suo esserci.

Aristotele ha preso in esame l’essere di cui abbiamo espe­rienza e, giustamente, ha affermato la polisemia di questo essere, egli, però, una volta posta l’interrogazione intorno all’ente, non è giunto sino a determinare l’unità radicale sottesa alla polisemia dell’ente. Le determinazioni categoriali quali l’«essere azzurro» o l’«essere cielo» rappresentano il modo di presentarsi dell’ente e questo modo, ci ha insegnato Aristotele, non può non riferirsi ad uno stesso nell’ente e questo stesso, come abbiamo precedentemente visto, è, per Aristotele, Yousia. Aristotele cerca l’unità della predicazione, il referente unico dei nostri modi di predicare (dei «predicamenti» o delle «ca­tegorie»): a lui interessa la domanda intorno all’essenza, da evadere attraverso la costruzione della definizione.

La necessità di proseguire oltre Aristotele, era già stata colta, a suo tempo, da Tommaso d’Aquino: essa nasce dal fatto che l’ente, oltre ad essere il soggetto del molteplice predicare (ossia una determinatezza), è anche una determi­natezza che è (esiste). Il problema che però si pone, a questo punto, è il seguente: se attraverso la constatazione fenome­nologica io posso afferrare la distinzione tra una determina­zione e l’altra, ma non quella tra la determinazione ed il suo esistere qui e ora, come posso allora sorprendere l’esistenza distinta dall’essenza? A me pare che si possa dire che nel­l’esperienza del divenire, dove accade che qualcosa che c’era ad un certo punto non c’è più, si può sorprendere l’esistenza realmente distinta dall’essenza (determinatezza) di qualcosa. Il divenire ci pone dinanzi all’evento della separazione delle due componenti ontologiche dell’ente e ce ne rivela la contingen­za della sintesi.

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Abbiamo detto, dunque, che è possibile distinguere real­mente l’essenza dall’esistenza. Ma l’esistenza è appunto la realtà dell’essenza. Giunti a questo punto incontriamo quello che Ricoeur, in Soi-même comme un autre, chiama il «fondo in­sieme potente ed efficace dell’essere», quel fondo che in De la métaphysique à la morale egli definisce come «il Dio dei filosofi» e che, nel saggio dal titolo Négativité et affirmation originaire, descrive come «l’essere che è senza essenza o la cui sola essenza è d’esistere». Ecco come: il rapporto tra l’essenza ed il suo esistere reale è un rapporto disequato, perché l’esi­stere della cosa, rispetto al suo determinato modo di esistere, dice di una potenza in qualche modo assoluta, cioè la potenza che produce il differire tra Tesserci e il non esserci. È allora lecito supporre che, quel determinato modo di essere che vie­ne all’esistenza, non sia se non il parziale dispiegarsi di una potentissima sorgente.

Ricoeur, però, non giunge a questo fondo dell’essere attra­verso la distinzione tra essenza ed esistenza all’interno dell’en­te e per mezzo della semantizzazione dell’essere per opposizio­ne al nulla, ma privilegiando la nozione di essere come atto e potenza all’interno dell’aristotelica polisemia dell’ente.

4. Ontologia ed ermeneutica biblica

4.1 II rapporto tra ontologia ed ermeneutica biblica

Lo strato teologico dell’essere, per come lo abbiamo de­terminato sopra, rimane al riparo dalla critica heideggeriana alPontoteologia, perché qui non si tratta dell’essere entificato contro cui sono rivolti gli attacchi heideggeriani, ma dell’es­sere che è senza essenza, o la cui sola essenza è d’esistere, del puro atto di esistere. Quella «lecita supposizione», su cui abbiamo ragionato sopra, ci dice, però, ancora poco, troppo poco. Dì quella potentissima sorgente, di cui ogni determina­to modo di essere che viene all’esistenza potrebbe essere il parziale dispiegamento, non sappiamo nulla. Ricoeur la defi-

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nisce come «il Dio dei filosofi», poi, giustamente, aggiunge che, tra un tale Dio e il Dio della fede c’è un abisso. Di fronte a un tale Dio, infatti, non ci si può inginocchiare.

Tutto ciò che le filosofie, che hanno voluto indagare rigo­rosamente questo tema, hanno saputo dire su Dio è ciò che esso non è. Dio è in-finito, in-diveniente, im-mutabile, ecc. L’uomo però ha sempre voluto sapere di più di quelle poche e scarne affermazioni che una filosofia rigorosa è in grado di fornire a riguardo di un tale soggetto. Dio, infatti, svolge un ruolo fondamentale nella vita di ognuno nella misura in cui salva, condanna, dà un senso alla propria vita, è fonte di speranza, permette di non vedere più la morte come la fine di tutto, ci consente di pensare che il male, alla fine, non vincerà sul bene ecc. Tutte queste cose, però, una filosofia rigorosa non è in grado né di affermarle, né, tantomeno, di dimostrar­le. Occorre allora, se si vuole avere un qualche tipo di rispo­sta su questo versante, che ci si rivolga a forme di sapere diverse da quella rigorosamente filosofica. Ricoeur, infatti, su questo punto, interroga la Bibbia. Questo, però, è un terreno diverso da quello filosofico inteso in senso stretto, come Ricoeur non si stanca mai di ripetere e precisare. Nel passag­gio dall’ontologia all’ermeneutica biblica, allora, si deve fare un salto: tra l’una e l’altra c’è soluzione di continuità. Tra l’ontologia e l’ermeneutica biblica c’è un salto, anche perché l’ermeneutica biblica non è l’unica via d’uscita possibile al­l’impossibilità dell’ontologia di dire positivamente Dio. Un’al­tra via d’uscita potrebbe essere rappresentata dall’ermeneutica di altri testi sacri, diversi dalla Bibbia (ad. es. il Corano), o, ancora, per chi non confidasse nelle religioni rivelate, da una qualche esplorazione simbolica del volto di Dio. Ricoeur, da questo punto di vista, ha ragione nel dire che l’ontologia trascendentale non va intesa come un anello intermedio tra ontologia del sé ed ermeneutica biblica. D ’altro canto, però, si deve anche riconoscere che quel salto, che viene compiuto nel passaggio dall’ontologia all’ermeneutica biblica, viene in qualche modo preparato dall’ontologia, che ne afferma la possibilità, o, come abbiamo scritto sopra, la «liceità».

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ONTOLOGIA

4.2 Sull’ipotesi di un arretramento teoretico in Soi-même comme un autre

Una qualche forma di apertura teologica da parte del di­scorso ontologico è presente anche nell’ultimo capitolo di Soi-même comme un autre, quello dedicato all’ontologia. Ricoeur, in quella sede, dopo aver individuato nel corpo pro­prio, nella soggettività altra e nella coscienza il tripode delPalterità costitutiva della soggettività stessa, riflette sull’enig­ma della voce della coscienza, che si presenta sotto forma di una voce che parla in noi come se fosse rivolta a noi. La voce della coscienza, dunque, rimanda ad un’alterità, ma di questa alterità, scrive Ricoeur, la filosofia non sa «se si tratti di un Dio o di un luogo vuoto»86.

A questa conclusione problematica di Soi-même comme un autre ha dedicato alcune interessanti considerazioni Virgi­lio Melchiorre, le cui riflessioni ci permettono di gettare una qualche ulteriore luce sul problema del rapporto tra ontologia ed ermeneutica biblica.

Melchiorre apprezza e condivide la posizione di Ricoeur il quale, pur ponendo il cogito cartesiano alla base del suo iter speculativo, ne ha poi rilevato il valore di semplice certezza soggettiva. Ricoeur non cade, secondo Melchiorre, nel circolo vizioso cartesiano che, dopo aver posto il cogito come prima evidenza, cerca poi nell’ordine teologico la conferma di que­sta evidenza. Ricoeur ammette che il cogito, primo neWordo cognoscendi, viene a situarsi ad un livello ontologicamente secondario. Lo stesso Cartesio, in fondo, era giunto sino alla conclusione che Dio, in quanto ratio essendi di me stesso, costituisce, in ultima istanza, anche la mia ratio cognoscendi.

L’insegnamento di Husserl, secondo Melchiorre, ha ulte­riormente confermato Ricoeur su questo percorso, dal mo­mento che Husserl pensa il cogito come l’«orizzonte empirico, come il polo emergente o come l’obiettivazione primaria di

86 R icoeur, Soi-même comme un autre, cit., p . 409.

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una trascendentalità assoluta e ovunque fungente» 87. Husserl, inoltre, ha rinnovato profondamente la tematica del cogito, introducendo il tema della corporeità vissuta. Il corpo pro­prio costituisce, nel pensiero di Husserl, il punto zero della nostra prospettiva sul mondo, quel punto a partire dal quale si definiscono il vicino e il lontano, il questo e il quello. Dalla prospetticità del corpo proprio Husserl risale, nelle sue anno­tazioni, alla prospetticità della coscienza, a cui è possibile solo un sapere per lati ed adombramenti.

Le considerazioni di Husserl, osserva ancora Melchiorre, vengono riprese e sviluppate da Merleau-Ponty, il quale con­nette l’intimamente visibile e l’invisibile, la percezione e l’impercezione. Per Merleau-Ponty, però, il non sapere impli­cato nella prospetticità della coscienza non corrisponde ad un niente, ma rimanda ad un’ulteriorità: «vedere è sempre vedere di più di quanto si veda»88. Osserva, a questo proposito, Melchiorre:

Sappiamo come questo “di più” si sia via via chiarito, nella ricerca del filosofo, sino all’indicazione di un intero dell’essere: con una crescente insistenza, Essere e Visibile, segnati in maiu­scolo, costituiscono infine il referente e l’orizzonte di ogni con­creta visione. 89

Melchiorre fa riferimento a quel passo in cui Merleau-Ponty parla del Visibile come del tutto «di cui il mio visibile è un frammento»90 e conclude: «si tratta di un vero e proprio ap­prodo metafisico»91.

Melchiorre si rammarica molto della mancanza di questo approdo metafisico in Ricoeur, nei cui scritti ritornano tutti i temi relativi al corpo proprio e alla conoscenza prospettica, cari a Husserl e a Merleau-Ponty. Secondo Melchiorre Soi-

87 V M elch io r r e , Per una teoria dell’intersoggettività. Note a margine di Soi-même comme un autre, in L’io dell’altro. Confronto con Paul Ricoeur, a cura di A. D anese, Genova, 1993, p. 80.

88 M. M erleau-Po nty , Le visible et l’invisible, Paris 1964; trad. it. di A. Bonomi, Il visibile e l'invisibile, Milano 1969, p. 174.

85 M elch io rre , Per una teoria dell’intersoggettività, c it ., p . 8 1 .90 M erleau-Po nty , Le visible et l’invisible, cit., p. 308.91 M elch io rre , Per una teoria dell’intersoggettività, cit., p. 81.

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même comme un autre, da questo punto di vista, segna addi­rittura «un arretramento rispetto alle posizioni declinate nelle opere precedenti»92, che, invece, lasciavano intravvedere un possibile sviluppo metafisico. In Le volontaire et l’involontaire, osserva Melchiorre,

il metodo fenomenologico era ripreso e proprio a riguardo del cogito: vi sì chiedeva appunto di accedere ad una esperienza integrale del cogito e, in questa direzione, ad una più attenta ricognizione dell’incarnazione. 93

In Finitude et culpabilité, continua ancora Melchiorre,

l’analisi veniva poi approfondita proprio a riguardo di una sog­gettività corporea e sempre situata: il tema husserliano della prospettiva era riproposto come un inizio fondamentale e con uno sviluppo che non esiterei a definire metafisico. 94

In quest’opera infatti Ricoeur partiva dal rilevamento della fondamentale prospetticità di ogni percezione, per giungere alla conclusione che, se noi siamo consci del carattere pro­spettico della nostra conoscenza, lo dobbiamo, allo stesso tempo, oltrepassare. La trasgressione rispetto al punto di vista si ha quando si passa dalla percezione al senso: io so che il mio punto di vista su quella cosa è soltanto uno dei possibili punti di vista, so, dunque, che vi è un senso della cosa, che viene colto in maniera molto parziale da ciascun punto di vista particolare. Nota allora Melchiorre:

51 potrebbe ripetere con Kant che la coscienza che riconosce il dato del condizionato implica con questo lo stesso asserto del­l’Incondizionato: un pensiero richiamato da Ricoeur, ma con una decisiva integrazione. Ciò che infatti chiamiamo senso asso­luto ed incondizionato, non può essere una semplice modalità della ragione: una intelligibilità ultima, di cui non si potesse asserire la realtà, sarebbe una radice nulla e il suo pensiero sarebbe pensiero di nulla. 95

52 Ivi, p. 78.93 Ivi, p. 83.94 Ibid.95 Ivi, pp. 84-85. A conferma di quanto scritto Melchiorre cita Négativité

et affirmation originaire, contenuto in Histoire et vérité (Paris 1964, 2a ed.), alle

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•0VERITÀ DEL METODO

Facendo leva su queste considerazioni Melchiorre, allora, così conclude:

Si rimane perplessi di fronte alle riserve avanzate ora in Soi-même comme un autre. Ne restiamo convinti ove siano rivolte contro ogni pretesa autofondativa del cogito e ancora ove difendano, a fronte della teologia, il ruolo autonomo della filosofia, ma pensia­mo ad un arretramento teoretico ove comunque si oppongono all’“ambizione della fondazione ultima”. Si può anche ritenere che l’arresto finale di fronte al dilemma che, nell’ultima alterità, non sa se riconoscere l’essere stesso di Dio o il vuoto dell’indici­bile [...], corrisponda al giusto riserbo di determinare teoreticamente la realtà del Fondamento: già altrove Ricoeur aveva indicato, a questo riguardo, la via più adeguata dell’ermeneutica sui simboli storici della coscienza religiosa. Ma in questo caso si sarebbe do­vuto dire che la riserva va fatta sulla questione dei Nomi, sulle possibili determinazioni dell’Assoluto, non sull’asserto che dice dell’Essere o del Fondamento. 96

4.3 Le domande della teologia filosofica

La teologia filosofica, con i suoi interrogativi e problemi ha suscitato finora poco interesse in Ricoeur. Questo pone Ricoeur di fronte ad un dilemma perché, se le domande della teologia filosofica non sono evitabili, d’altro canto l’ermeneutica biblica, da sola, non può sopportarne il peso.

I problemi classici della teologia filosofica riguardano la teodicea, l’esistenza di Dio, la sua conoscibilità, la coeren­za degli attributi divini. Se sull’argomento della teodicea Ri­coeur ha speso senza dubbio molte riflessioni nel corso della sua indagine sul problema del male, non pare altresì esser-

pp. 329-331, nonché quel passo di Finitude et culpabilité in cui Ricoeur rileva la verità sottesa all’argomento anselmiano, affermando che «essa trova l’uomo già installato in linea preliminare all’interno del proprio fondamento» P. R icoeur , Finitude et culpabilité, il, Paris, 1960, p. 332. Melchiorre giudica infine molto significativo a questo proposito quel passo programmatico di Le volontaire et l ’involontaire dove Ricoeur scrive che la Trascendenza appare «come una posi­zione assoluta di presenza che precede costantemente il mio stesso potere di affermazione, sebbene quest’ultimo mi sembri sempre sul punto di inglobarla» (E R icoeur, Le volontaire et l ’involontaire, Paris, 1950, p. 35).

96 Ivi, p. 85.

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ONTOLOGIA

si interessato alle altre problematiche proprie alla teologia fi­losofica.

Il problema dell’esistenza di Dio è assente dalla specula­zione ricoeuriana. Come spiegare questa mancanza? Forse attraverso l’influenza di Karl Barth che, nella Préface al primo volume della sua Teologia dogmatica parla dell’analogia del­l’essere come di un’invenzione dell’Anticristo, la quale, da sola, costituirebbe, secondo Barth, un sufficiente motivo per non farsi cattolici? Non credo sia questa la ragione o, meglio, questo argomento varrebbe solo per la prima fase del pensie­ro ricoeuriano, quella che arriva sino a La métaphore vive (1975). In questa prima fase del suo itinerario intellettuale Ricoeur subiva infatti l’influenza di filosofi protestanti come Pierre Thévenaz, che, sulla scorta di suggestioni barthiane, rifiutavano qualsiasi speculazione di tipo ontologico. Negli ultimi anni, però, il pensiero di Ricoeur ha subito una note­vole evoluzione, orientandosi, sia in etica che in ontologia, verso un discorso di tipo aristotelico. Questa evoluzione è da ricondurre al fatto che, successivamente a La métaphore vive, Ricoeur si è sempre più interessato al problema dell’agire umano 97 e questi interessi lo hanno inevitabilmente portato ad una rinnovata attenzione nei confronti del pensiero aristotelico. Questo interesse ha avuto come suo centro, ini­zialmente, l’etica di Aristotele, ma si è progressivamente allar­gato anche all’ontologia. La presa di distanza dalle tesi più radicali del barthismo è stata agevolata, in Ricoeur, anche dal contatto con il pensiero di Mircea Eliade, che è stato per molti anni collega di Ricoeur all’Università di Chicago. Come spiegare allora il disinteresse di Ricoeur nei confronti della problematica relativa alla dimostrazione dell’esistenza di Dio? In maniera molto semplice, direi: perché Ricoeur ha coltiva­to, prevalentemente, interessi di tipo antropologico ed etico.

97 Si possono segnalare, a titolo indicativo, i seguenti saggi: La semantique de l’action (Paris, 1977); La raison pratique, in a a .w ., Rationality Today, Ottawa, 1979, pp. 225-248; Lectures on Ideology and Utopia, New York, 1986; Du texte à l’action. Essais d ’herméneutique, il, Paris, 1986.

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Ricoeur, non è un metafisico e, dunque, non si interessa di metafisica, ma non è nemmeno un antimetafisico e, dunque, non esclude aprioricamente quel tipo di discorso che la meta­fisica coltiva. Non mi sembra, infatti, di poter individuare, alPinterno dell’opera ricoeuriana, soprattutto nei suoi più re­centi sviluppi, un divieto teorico nei confronti della metafisica.

Nemmeno il problema dei nomi divini, degli appellativi biblici di Dio (altro grande problema della teologia filosofica) è questione di Ricoeur. Di questo problema se ne è occupato piuttosto, tra i filosofi francesi contemporanei, Lévinas, in De Dieu qui vient à Vidée.

5. Il rapporto tra atto e potenza in Ricoeur

5.1 I concetti di atto e potenza in Ricoeur

Ricoeur, come abbiamo ampiamente mostrato, individua nell’asserzione aristotelica di un primato dell’atto sulla poten­za un fattore di resistenza che sembrerebbe impedire la riappropriazione della nozione di essere come atto-potenza a favore di un’ontologia dell’ipseità. Per questo Ricoeur, nel riappropriarsi della nozione aristotelica di essere come atto- potenza, tiene conto anche della lezione heideggeriana, che, al contrario di quella aristotelica, asserisce il primato della potenza sull’atto, cercando una strada intermedia tra le due. In Ricoeur, infatti, non è Patto ad avere la supremazia sulla potenza né la potenza ad avere la supremazia sull’atto: il primato è affidato, infatti, a quel misto di atto e potenza in cui consiste il conatus spinoziano.

5.2 La posizione di Heidegger

Heidegger privilegiava la potenza rispetto all’atto e, que­sto, in virtù di un’interpretazione dei concetti di atto e poten­za molto lontana dall’interpretazione aristotelica. A questo ripensamento heideggeriano del rapporto tra atto e potenza Ricoeur, probabilmente, è debitore di molte suggestioni.

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Heidegger ha dedicato il corso del semestre estivo del 1931 a. Aristoteles, Metaphysik Theta 1-3 98. Il corso reca come sottotitolo Von Wesen und Wirklichkeit der Kraft (sull’essenza e la realtà della forza) e, proprio in questo corso, Heidegger ha indicato l’essere secondo la dynamis e Yenèrgheia come il significato fondamentale dell’essere.

In questa ripresa heideggeriana dei concetti aristotelici di dynamis e enèrgheia ci colpiscono due tratti, che permettono di distinguere, con una certa nettezza, l’ontologia heideggeriana da quella aristotelica:

1) L’accezione fondamentale della dynamis e dell ’enèrgheia è, per Heidegger, quella relativa al movimento, che per Aristotele era semplicemente la più comune e non l’accezione relativa all’essere, che Aristotele indicava come la più filoso­fica.

2) Heidegger sembra sostenere una priorità della dynamis sull’enèrgheia, contrariamente a quanto aveva fatto Aristotele.

Commentando la dottrina specifica di Aristotele sulla dynamis e Yenèrgheia Heidegger afferma che

Aristotele arriva al significato essenziale di dynamis e enèrgheiaproprio a proposito della kinesis, proprio in riferimento allakinesis-, è quel che emerge senza ambiguità dalla ricerca diAristotele sulla kinesis, Fisica, Gamma 1-3. 99

Heidegger fissa la sua attenzione sulla definizione aristo­telica della dynamis secondo il movimento, cioè «principio di mutamento in altro o in sé come altro», traducendola con «forza» {Kraft). Heidegger, ad un certo punto, utilizza un esem­pio illuminante per spiegarci che cosa egli intenda per dynamis-. essa non è l’arte di risanare, propria del medico, ma la forza di risanare, propria di una pianta 10°. Di conseguenza, anche Yenèrgheia viene interpretata nel suo significato relativo al

98 M. H e id e g g e r , Aristoteles, Metaphysik Tela 1-3. Von Wesen und Wirklichkeit der Kraft, in Id ., Gesamtausgabe, vol. 3 3 , Frankfurt a.M. 1990, trad. it. U. Ugazio, Milano, 1992.

99 Ivi, pp. 41-43.100 Ivi, p. 62.

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movimento, che Heidegger scopre nella polemica condotta da Aristotele contro i Megarici, dove Yenèrgheia viene definita essenzialmente come esercizio della dynamis, cioè come un «essere all’opera». Heidegger rileva, tuttavia, che Yenèrgheia costituisce una presenza, un essere prodotto e, quindi, confer­ma la sua preferenza per la dynamis 101.

Proseguendo nella lettura del testo heideggeriano si rice­vono ulteriori conferme della distanza tra Aristotele ed Heideg­ger, relativamente al concetto di dynamis. Aristotele, volendo mostrare, contro i Megarici, che la dynamis esiste anche quan­do non la si vede, adduce come esempio quello dell’architetto che possiede la capacità di costruire anche quando non la esercita. Heidegger, al contrario, porta come esempio quello del centometrista che è in ginocchio sulla linea di partenza, pronto a scattare per la corsa. Il suo stare in ginocchio, infatti, è ben diverso da quello di una vecchia contadina inginocchiata davanti alla croce campestre 102. La dynamis non è dunque paragonabile, per Heidegger, ad un’arte (intesa come capaci­tà), ma ad una forza naturale.

La lettura di questi passi ci dà l’impressione che Heidegger sia convinto che Aristotele abbia scoperto che l’essere è dynamis, nel senso di forza. La preferenza che Heidegger accorda alla dynamis, rispetto all’enèrgheia, è determinato dal fatto che la dynamis c’è anche quando non si vede e, quindi, il suo essere non si riduce alla presenza (cioè z\Yousia), come invece accade alYenèrgheia.

5.3 Analogie tra le posizioni di Heidegger e Ricoeur

Come si è già notato, vi è una certa vicinanza tra Ricoeur e Heidegger su questi pu n ti103: Ricoeur contrappone la no­

101 Ivi, pp. 124-125.102 Ivi, pp. 148-149.103 A proposito del rapporto tra il pensiero di Heidegger e quello di Ricoeur

relativamente ai temi di ontologia osserva Jean Greisch: «La lista dei temi dell’ermeneutica dell’ipseità che sono in risonanza con i grandi temi dell’ana­litica esistenziale è impressionante ( R ic o e u r , Soi-même comme un autre, cit., pp.

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zione di essere come atto-potenza all’essere in quanto sostan­za, così come Heidegger contrapponeva la nozione di essere come dynamis all’essere inteso come pura presenza, ossia come ousia. Ricoeur, nel passo che abbiamo citato all’inizio di que­sto capitolo, scrive che, in Aristotele, l’affermazione della priorità delPatto sulla potenza è funzionale all’intersezione delle due significazioni primitive dell’essere, quella dell’essere secondo le categorie e quella dell’essere in quanto atto e potenza. Ora, è proprio a questa intersezione che Ricoeur intende sfuggire. La messa in discussione della priorità della potenza sull’atto gliene offre l’occasione, fornendogli le basi teoriche per operare la contrapposizione tra un’ontologia del­l’essere come atto e potenza ed un’ontologia dell’essere come sostanza.

Heidegger aveva fatto esattamente lo stesso: egli, infatti, aveva duramente criticato l’ontologia della presenza, dell’es­sere prodotto e, in fin dei conti, dell 'ousia, contrapponendole un’ontologia dell’essere come dynamis, che oltrepassasse quella della semplice presenza.

Ricoeur ritiene decisiva la critica heideggeriana all’onto- teologia. Vediamo, infatti, che in tutti i suoi scritti di ontologia

357-359) e conduce ad una questione inquietante: l’agire non occupa forse nell’impresa di Ricoeur, un posto paragonabile a quello che Heidegger assegna alla cura? (ivi, p. 359) Questione inquietante infatti, se si tiene conto del fatto che non è certamente il caso di opporre in maniera pura e semplice la cura e l’agire, poiché il più piccolo sguardo sull’analitica esistenziale mostra sino a qual punto questa presupponga una concezione determinata dell’agire, che io caratterizzerei volentieri parlando di “pragmatismo esistenziale”. Non è dunque senza ragione che alcune letture recenti di Sein und Zeit cercano di trarre vantaggio da una sorta di pragmatismo implicito all’analitica esistenziale. E vero, come ha mostrato Jacques Taminiaux, che questo pragmatismo si situa molto più sul versante della poiesis che della praxis aristotelica (Cfr. J . T aminiaux, Lectures de l ’ontologie fondamentale. Essais sur Heidegger, Grenoble, 1989, pp. 149-190).

E questa, del resto, la ragione per cui Ricoeur parla semplicemente di una “piccola differenza” (R icoeur , Soi-même comme un autre, cit., p.358) tra la propria ricostruzione della coppia aristotelica dynamis/enèrgheia e le ricostru­zioni ispirate a Heidegger». J. G reisch , Vers une herméneutique du soi: la voie courte et la voie longue, «Revue de Métaphysique et de Morale», iii, 1993, p. 427.

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egli cerca di fare i conti con essa, affrontandola ogni volta da un diverso angolo visuale. La proposta di una nuova ontologia è, dunque, fortemente condizionata, in Ricoeur, dal pensiero heideggeriano. L’ontologia ricoeuriana, in quanto ontologia dell’essere come atto-potenza, contrapposta all’ontologia del­l’essere come sostanza, nasce avendo sempre in vista la critica heideggeriana all’ontoteologia e all’essere concepito come es­sere prodotto e come pura presenza.

6 . Il rapporto tra metafisica e morale

Ricoeur, nelle sue riflessioni sul rapporto tra metafisica e morale, come abbiamo visto, riserva un ruolo strategico al divieto humiano, che vieta il passaggio da proposizioni de­scrittive a proposizioni prescrittive. Tutto lo sforzo sviluppato da Ricoeur in Soi-même comme un autre e poi in De la métaphysique à la morale consiste, infatti, in un tentativo di avvicinare gli argini del fossato logico che divide l’ambito occupato dai giudizi speculativi e quello occupato, invece, dai giudizi pratici.

Ricoeur, nella quarta parte dell’articolo De la métaphysique à la morale, individua tre elementi di mediazione tra metafi­sica e morale: la stima indirizzata all’uomo capace, la promes­sa effettivamente mantenuta ed il giudizio morale in situazio­ne. In tutti e tre questi casi Ricoeur vede una tangenza del campo speculativo al campo pratico e viceversa. Nel primo caso Ricoeur mostra che le varie figure dell’agire (parlare, fare, raccontare, essere imputabile) costituiscono una serie teleologicamente ordinata, dove l’imputazione costituisce il punto di passaggio dall’ambito fenomenologico-descrittivo al­l’ambito propriamente morale. Nel fenomeno dell’imputazio­ne, infatti, sono distinguibili due aspetti: quello che permette semplicemente di attribuire un’azione al suo soggetto e quello che, invece, permette di qualificare moralmente il soggetto dell’azione, in quanto esso e la sua azione sono stati posti sotto i predicati dell’obbligatorio, del lecito e dell’illecito.

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Ricoeur dimostra, in questo modo, la tangenza tra il campo speculativo ed il campo pratico.

L’osservazione che si può avanzare, non solo in questo caso, ma anche a proposito degli altri due elementi di media­zione tra metafisica e morale (la promessa effettivamente mantenuta ed il giudizio morale in situazione) è che Ricoeur, attraverso le sue considerazioni, avvicina semplicemente gli argini del fossato logico che separa l’ambito speculativo dal­l’ambito etico-pratico, senza voler costruire un ponte che permetta di attraversare il medesimo fossato. Il divieto di Hume in un certo senso rimane intatto, perché l’aver mostra­to la tangenza dei due ambiti non significa aver aperto la via che conduce dall’uno verso l’altro. Fuor di metafora potrem­mo dire che il divieto humiano rimane valido per quanto concerne la possibilità di fondare proposizioni a carattere prescrittivo su proposizioni a carattere descrittivo.

Altrettanto si può dire dell’etica, considerata da Ricoeur come un ulteriore punto di passaggio dalla fenomenologia alla morale, in virtù del fatto che la nozione di disposizione etica, a cui l’Etica nicomachea attribuisce il nome di hexis, è estremamente prossima al concetto kantiano di «disposizione naturale alla moralità». Anche in questo caso, infatti, si mo­stra che la fenomenologia confina con la morale.

Ancora: Ricoeur dimostra che la promessa costituisce un ulteriore luogo dove lo speculativo confina con l’etico. La promessa, infatti, può essere considerata, a livello premorale, semplicemente come un performativo di un certo tipo, perfet­tamente includibile all’interno di una teoria generale degli atti di discorso. Essa, inoltre, può essere caricata dell’obbligazione morale di mantenere le proprie promesse, varcando così la soglia del mondo morale. Anche relativamente a questo pun­to, come si può vedere, valgono le considerazioni espresse sopra.

Infine, Ricoeur indica come terzo punto di contatto tra etica e fenomenologia la coscienza. E possibile, infatti, distin­guere un livello premorale ed un livello morale della coscien­

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za. La coscienza è, innanzitutto, quel foro interiore in cui si svolge il dialogo con se stessi e in cui è possibile svolgere un esame di coscienza di tipo premorale, inteso come analisi delle cose che dipendono da noi e che non dipendono da noi. A questo livello non si è ancora superata la soglia della moralità, la quale viene invece varcata a livello del giudizio morale in situazione, dove si passa dalla semplice messa in esame all’ incolpazione e alla discolpazione. Anche per quanto ri­guarda queste ultime considerazioni di Ricoeur rimandiamo, dunque, ancora una volta, alle riflessioni svolte sopra.

Recentemente Ricoeur ha elaborato la distinzione tra il concetto di imputazione e quello di imputabilità, arricchendo e complessificando il primo dei tre connettori che abbiamo considerato. L’imputazione, osserva Ricoeur, è un giudizio, mentre l’imputabilità consiste nel ritenersi capaci di essere soggetti d’imputazione. Da questo punto di vista allora è Pimputabilità-imputazione a costituire il vero connettore tra metafisica e morale. L’imputabilità, infatti, ha una valenza teorica. Non a caso la nozione di imputabilità compare nella Critica della Ragion Pura di Kant e viene presentata come un concetto teorico. La nozione di imputabilità compare quando Kant fornisce la prova della tesi nella terza antinomia, dove dice che il soggetto agente è fonte di nuovi eventi e, dunque, cominciamento. II cominciamento, a sua volta, viene definito come spontaneità dell’azione e la spontaneità dell’azione offre come concetto di transizione verso la morale l’imputazione. Il giudizio di imputazione infatti appartiene alla Critica della Ragion Pratica.

Anche relativamente a questa distinzione, però, valgono le osservazioni fatte sopra: il punto di contatto tra imputabilità e imputazione costituisce semplicemente un punto di tangenza tra dominio speculativo e dominio pratico.

La conclusione che ne potremmo trarre è allora la seguen­te: in Ricoeur il divieto di Hume rimane valido nella misura in cui esso vieta la possibilità di fondare speculativamente le proposizioni dell’etica e della morale.

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ONTOLOGIA

Ho trovato una conferma a questa mia ipotesi nello scrit­to dal titolo Per una ontologia indiretta: l’essere, il vero, il giusto (e/o il buono) 104. Ricoeur, in questo testo, esordisce affermando la

tesi secondo la quale la filosofia pratica e la filosofia teoretica sarebbero di pari rango; poiché nessuna è filosofia prima rispet­to all’altra, l’una e l’altra sarebbero “filosofie seconde” in rappor­to alla prima, questa disciplina che Aristotele nominava soltanto nel dire che la ricerchiamo.105

Ricoeur parla di una uguaglianza di rango di queste due filo­sofie seconde e propone di mettere alla prova «la tesi per cui le idee di giustizia e di verità costituiscono idee regolatrici di rango più alto» 106. «Soltanto il loro intersecarsi», spiega infat­ti Ricoeur, «ci dirà qualcosa circa il rinvio delle due filosofie considerate alla filosofia prima che, ad un tempo, le trascen­derebbe e ad esse sarebbe mescolata» 107. L’impresa messa in atto in questo testo non ha nulla di rivoluzionario e si situa sulla linea della speculazione dei medievali sui trascendentali e sulla loro distinzione e convertibilità reciproca. «In un certo senso», osserva infatti Ricoeur, «si tratta di quanto suggeriva­no gli scolastici quando estendevano la conversione a tutti i termini dell’intera sequenza: essere, buono, vero, bello» 108.

Qui rientra in gioco l’idea aristotelica, tanto cara a Ricoeur, e già emersa nella precedente sezione, secondo cui vi sono tanti metodi quanti sono gli oggetti d’indagine. I trascenden­tali degli scolastici stanno ad indicare appunto i diversi campi d’ indagine su cui si esercitano i diversi metodi. L’idea di giu­stizia è distinta dall’idea di verità e, per questo motivo, dire che la proposizione «questo è giusto» è, in più, vera, significa duplicare la sua ingiunzione attraverso un’inutile ridondanza.

104 P. Ricoeur, Per una ontologia indiretta: l’essere, il vero, il giusto (e/o il buono), «Aquinas», ni, 1995, pp. 483-499.

105 Ivi, p. 484.106 Ibid.107 Ibid.108 Ibid.

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VERITÀ DEL METODO

Ricoeur difende strenuamente l’idea dell’autonomia del pratico, sulla linea di Kant e oltre Kant. Kant distingue la ragion pratica dalla ragion teoretica, ma, secondo Ricoeur, cade nell’errore di costruire la seconda Critica sul modello della prima. Anche nella Critica della Ragion Pratica ritorna l’opposizione tra livello trascendentale - a priori - e livello empirico, sulla base della quale era stata costruita tutta la Critica della Ragion Pura. L’azione, però, sfugge, secondo Ricoeur, a questa decomposizione. Ecco allora che Ricoeur, sull’esempio di Charles Taylor, cerca in Hegel quella filosofia dell’azione che manca in K ant109.

In Kant la ragione pratica non è la ragione teorica, ma è costruita come la ragione teorica, e questo parallelismo di costruzione fa sì che sia stata duplicata la ragione teorica. In Ricoeur, al contrario, ragion pratica e ragion teorica hanno ciascuna la loro modalità automanifestativa. Il giusto si autopresenta attraverso l’ingiunzione; il vero attraverso la verificazione, l’attestazione o la manifestazione (a seconda che si tratti della verità della scienza, dell’azione o dell’arte); il bello attraverso la comunicabilità del piacere e del giudizio del bello e del sublime. Ciascun trascendentale rappresenta una regione distinta dell’adeguazione. Anche in Kant, secon­do Ricoeur, è possibile ritrovare, al di là di un certo teore- ticismo di cui pecca la sua riflessione sul pratico, l’idea di un’autofondazione del pratico. Kant, infatti, cercava nel test di universalizzazione un test da applicare ad ogni massima, per sapere se essa fosse un dovere o meno. La forza prescrittiva del dovere, la sua originarietà, però, non devono nulla al test di universalizzazione, che è un test applicato a delle massime. Il test d’universalizzazione è un test applicato a delle massime per capire se una determinata massima possa valere come imperativo, ma l’imperatività dell’imperativo, la sua forza di ingiunzione sono per sé evidenti.

109 I testi di Taylor su Hegel che hanno fatto scuola sono i seguenti: C. T aylor, Hegel and the Modem Society, Cambridge, 1979 e Hegel, Cambridge, 1983.

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ONTOLOGIA

Ricoeur, accanto agli scolastici e a Kant pone, come ispi­ratore di questa idea della distinzione del pratico e del teorico e dell’impossibilità di fondare speculativamente le proposizio­ni pratiche, anche G.E. Moore. Moore, nei suoi Principia Ethica, afferma che il bene è una nozione semplice come quella di «giallo»; e come non si può spiegare che cos’è il giallo a chi non lo sa, così non si può spiegare che cos’è il bene. La nozione del bene è intuitiva, secondo Moore, perché ognuno ne è costantemente consapevole.

A mio parere, nella distinzione dei vari domini dell’ade- guazione e nell’affermazione dell’impossibilità di una fonda­zione speculativa delle proposizioni pratiche, è rinvenibile anche un debito di Ricoeur nei confronti di Husserl. Husserl, infatti, nelle Idee per una fenomenologia pura e per una filo­sofia fenomenologica, dice che vi è, per ciascun dominio, un’evidenza che non si può dedurre da un altro dominio. C ’è un’evidenza della morale, per cui la morale si fonda sulla morale stessa, in virtù di un’evidenza donatrice originaria. Per questo motivo non risulta affatto necessario confrontare la morale alla logica.

Lévinas, su questo punto esatto, è più radicale di Husserl e Ricoeur. Levinas deduce l’idea di verità dall’idea di giustizia, quando, in Autrement qu’être ou au-dela de l ’essence, svolge la sua riflessione sul profetismo del volto. Potremmo allora concludere che, anche relativamente a questo problema, Ricoeur mantiene, con il solito equilibrio, una posizione in­termedia tra i due estremi di chi vuole fondare specula­tivamente la morale e di chi, invece, vuol derivare la verità dalla giustizia, cioè il teorico dal pratico.

7. Sul fondamento

Riprendiamo ora alcune delle considerazioni avanzate nelle parti relative alla teoria della verità e all’epistemologia. In quella sede scrivevo che il mancato interesse di Ricoeur per le problematiche relative al fondamento avrebbe comportato delle

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VERITÀ DEL METODO

conseguenze anche per quanto riguarda la strategia teorica che il nostro autore avrebbe adottato in ontologia.

Che quello di Ricoeur nei confronti della metafisica sia più un mancato interesse che un rifiuto mi pare confermato dal fatto che nel discorso di Ricoeur sono riscontrabili alcune linee di fuga le quali, se adeguatamente sviluppate, consenti­rebbero l’elaborazione di una teoria del fondamento. Penso, ad esempio, al saggio De la métaphysique à la morale, dove Ricoeur introduce la nozione di «funzione meta-», definendo­la «attraverso due strategie distinte e complementari, l’una di gerarchizzazione, l’altra di pluralizzazione dei principi»110. Ricoeur, inoltre, in quel medesimo testo, descrive la prima delle due strategie, quella di gerarchizzazione, nel seguente modo:

Poiché ogni discorso filosofico mira alla coerenza mi pare che esso comporti dei principi di cui gli uni vengono considerati come derivati e gli altri come primitivi o fondatori. 111

Come esempio paradigmatico della strategia di gerar­chizzazione Ricoeur cita i dialoghi dialettici di Platone: «Il modello di questa strategia va cercato nel Platone dei Dialo­ghi detti metafisici, che sono anche i dialoghi dialettici» m .

A chiunque legga le pagine di Ricoeur, però, viene subito alla mente un altro esempio paradigmatico della strategia di gerarchizzazione: quello messo in atto da Aristotele nel quar­to libro della Metafisica. Aristotele, infatti, dimostra innan­zitutto la trascendentalità del principio di non contraddizio­ne, facendo vedere come il principio di non contraddizione sia un principio relativo all’essere in quanto essere e, non, ad una determinata porzione dell’essere. In questo modo Aristotele istituisce una gerarchizzazione tra i principi che stanno a fondamento delle varie scienze particolari e il prin­

110 P. R icoeur , De la métaphysique à la morale, cit., p. 457.111 Ibid.112 Ibid.

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ONTOLOGIA

cipio di non contraddizione. I principi della geometria, della biologia, della matematica sono principi relativi a scienze che si istituiscono all’interno di quella particolare porzione del reale che esse si sono ritagliate (l’essere in quanto spazio e forma, l’essere in quanto numero e quantità, l’essere in quan­to vita), mentre il principio di non contraddizione è trascen­dentale. I postulati di Euclide presuppongono il principio di non contraddizione, ma il principio di non contraddizione non presuppone i postulati di Euclide. Il principio di non contraddizione è principio primo, secondo Aristotele, anche perché esso è autoevidente. Il principio di non contraddizione sta in cima alla gerarchia dei principi perché esso non deve presupporre, per essere dimostrato, alcun altro principio. Il principio di non contraddizione viene dimostrato facendo vedere che qualsiasi negazione di esso inevitabilmente lo pre­suppone.

Se, dunque, è possibile proseguire lungo questa traccia appena abbozzata da Ricoeur, attraverso il concetto di «fun­zione meta-», inteso come strategia di gerarchizzazione, si può dire, ancora, che la strategia di gerarchizzzazione messa in atto da Aristotele in Metafisica iv è la strategia di gerar­chizzazione per antonomasia, perché giunge sino al principio che sta alla base di tutti i principi, al principio senza il quale non è possibile alcuna forma di intelligibilità, di discorso o di realtà. Come abbiamo già osservato, riflettendo sulla teoria della verità in Ricoeur, al di fuori del principio di non con­traddizione non si dà intelligibilità di sorta, perché il principio di non contraddizione è il principio della determinatezza e non si dà intelligibilità che del determinato.

Ricoeur ha trascurato la linea di trascendentalità rappre­sentata dal principio di non contraddizione perché nell’artico­lo De la métaphysique à la morale aveva in vista innanzitutto l’agire umano. Egli, però, non ha mai ignorato o ricusato questa forma del trascendentale e ha sempre riconosciuto la priorità del principio di non contraddizione. Ricoeur ammet­te che il principio di non contraddizione sia presupposto sia

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VERITÀ DEL METODO

al livello pratico che a quello teorico. Dire, infatti, è dire qualche cosa e dire qualcosa è dire qualcosa che è. In questo senso il principio di non contraddizione non è un principio astratto o puramente logico, ma opera nell’ordine della realtà. Il principio di non contraddizione, dunque, ha a che fare con l’essere e con gli essenti e la nozione di essente è presupposta sia al livello teorico che a quello pratico. Il soggetto dell’azio­ne, infatti, è un essere che agisce e, dunque, un essente.

Ricoeur, però, non avendo sviluppato una riflessione sul principio di non contraddizione e sulle sue possibili applica­zioni a livello speculativo, non ha conseguentemente elabora­to nemmeno una teoria del fondamento. Un asserto è infatti fondato quando si dimostra che il suo opposto è contraddit­torio. In altri termini, il fondamento è ciò che toglie una contraddizione. Io posso affermare con fondatezza che Tizio non potrà essere, questo pomeriggio, alle quindici, allo stadio e insieme non esserci, cioè essere altrove, ad es. al cinema, perché, affermare il contrario, sarebbe contraddittorio e la contraddizione (in questo caso la contemporanea presenza di Tizio allo stadio e al cinema) non può darsi nella realtà.

Proprio per questa mancanza di una teoria del fondamen­to Ricoeur, quando ha introdotto la Trascendenza, lo ha sem­pre fatto in via ipotetica, sia che si trattasse di ricavare la nozione di un «fondo dell’essere insieme potente ed efficace» dall’idea dell’essere come atto (intesa, quest’ultima, come sostrato dell’analogia dell’agire); sia che si trattasse, invece, di rendere ragione delPesperienza della colpa e del male.

Ma, chiediamo noi, è possibile introdurre la Trascendenza in via non ipotetica? Detto in altri termini: è possibile fondare speculativamente, ossia per rimozione di contraddizione, l’esi­stenza della Trascendenza? In linea di principio sì, se si fosse in grado di introdurre la Trascendenza come fondamento in grado di togliere una contraddizione da cui l’esperienza, presa nella sua totalità, si mostrerebbe, in prima istanza, affetta. Questa è la strada che, ad esempio, ha sempre battuto il pen­

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ONTOLOGIA

siero di orientamento metafisico, sulle orme di Aristotele e Tommaso d’Aquino.

Al termine del quarto libro della Metafisica Aristotele dà alcuni esempi di fondazione speculativa di determinati asserti, quando dimostra la fallacia del principio secondo cui tutte le affermazioni sono tutte vere o tutte false (e, dunque, dimostra la verità necessaria della proposizione secondo cui alcune affermazioni sono vere ed altre false), oppure quando dimo­stra la falsità delle teorie secondo cui tutto diviene o per cui tutto è immutabile (e, quindi, la verità della teoria secondo cui alcune realtà divengono e altre sono immutabili). Applica­re il medesimo procedimento alla realtà presa nella sua tota­lità, inferendo la Trascendenza come fondamento della realtà sensibile, sarebbe, in linea di principio, possibile, ma, di fatto, problematico. In questo caso, infatti, occorrerebbe prima calibrare bene il significato di tutti i termini in gioco nella dimostrazione, la qual cosa, in questo caso, non è per niente semplice. Si dovrebbe, innanzitutto, fornire un’adeguata seman- tizzazione della nozione di essere in quanto tale e, si sa, su questo punto le opinioni sono tutt’altro che unanimi. Inoltre, se da un lato si deve riconoscere Pincontrovertibilità del prin­cipio di non contraddizione, dall’altro si deve ammettere che le dimostrazioni che si fondano sul principio di non contraddi­zione non godono dello stesso grado di incontrovertibilità di cui gode il suddetto principio, perché nelle dimostrazioni che su di esso si fondano, entrano in gioco elementi eterogenei rispetto al principio di non contraddizione. Anche la dimostrazione dell’immobilità del tutto, fornita da Parmenide, consisteva in un’applicazione del principio di non contraddizione; poi, però, si è scoperto che Parmenide non aveva semantizzato adeguata- mente l’essere e che la sua concezione dell’essere peccava di univocismo.

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Appendice

A CO LLOQ UIO C O N RICOEUR

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PRIMO ENTRETIEN1

Premessa

Il presente studio ha un carattere prevalentemente teore­tico, come facevo notare nell’Introduzione. Dall’inizio alla fine ho cercato di dialogare con Ricoeur, ponendo delle domande a partire dai suoi testi. Mi sembrava dunque giusto rivolgere direttamente a Ricoeur quelle domande a cui non ero riuscito a trovare risposta nel corso delle mie riflessioni, per poter far luce sul non detto della sua opera, per poter ragionare assie­me a lui di problemi che a me parevano decisivi.

Nella prima intervista la discussione è ruotata, essenzial­mente, attorno ai seguenti temi:

1. Il problema relativo allo statuto epistemologico del discorso che opera la mediazione tra le ermeneutiche rivali. Ricoeur ha ammesso di essere lui stesso tormentato da questo problema e ne ha tentato una soluzione. Su questo punto egli ci fornisce alcune importanti indicazioni, che ci permettono di collocare il suo modo di intendere la filosofia all’interno di una ben precisa tradizione. Questa tradizione si situa all’intersezione tra il filone ermeneutico del pensiero contem­poraneo, che da Schleiermacher giunge sino a Gadamer, e quello riflessivo, che va da Kant a Nabert. Da Nabert Ricoeur

1 Questa discussione con Ricoeur ha avuto luogo il giorno 17 marzo 1995, presso la sede della rivista «Esprit» a Parigi. Il testo che ho pubblicato qui rappresenta la fedele trascrizione, riletta e approvata dallo stesso Ricoeur, della registrazione del nostro entretien.

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VERITÀ DEL METODO

avrebbe infatti mutuato la nozione di riflessione come ricono­scimento del limite. Nel legare strettamente tra loro riflessio­ne e limite Ricoeur si sarebbe rifatto, oltre che a Nabert, allo stesso Kant. Riflettere significa riflettere sullo spazio e sui limiti di validità di un certo numero di concetti, di un certo tipo di discorso. Nel conflitto delle interpretazioni la riflessio­ne interviene per indicare i limiti di validità di ciascuna inter­pretazione. In questo senso la riflessione è mediatrice, dal momento che mette ciascuna interpretazione di fronte alla parzialità della sua verità, parzialità determinata da quello che è il suo specifico punto di vista. Gadamer e tutta la tradizione ermeneutica da Schleiermacher in poi avrebbero invece inse­gnato a Ricoeur a rivolgere l’attenzione alla finitudine del comprendere. Le suggestioni dell’ermeneutica e quelle della filosofia riflessiva si sarebbero dunque incontrate nell’opera di Ricoeur dando origine ad una sorta di neokantismo, perché la finitudine del comprendere, nel senso in cui la intende l’ermeneutica ed i limiti della conoscenza in senso riflessivo sono la stessa cosa.

2. La problematica del vero. Ricoeur ammette la possibi­lità di fondare alcuni asserti sull’evidenza del principio di non contraddizione, in modo tale che la loro verità risulti inop­pugnabile. Egli, inoltre, riconosce che il principio di non contraddizione costituisce la condizione stessa del senso. Le sue riflessioni a questo proposito, però, non si spingono oltre quelle di Habermas, a cui del resto Ricoeur rimanda. L’aspet­to relativamente al quale Ricoeur fornisce un suo contributo originale è un altro: esso consiste, precisamente, nelle limita­zione delle pretese del senso epistemico del vero. Anche in questo caso Ricoeur esercita a buon fine il compito riflessivo. Ricoeur nota infatti che l’ incontrovertibilità si ottiene solo ad un livello di estrema formalità. E impossibile, però, rinchiu­dersi nella torre eburnea di un trascendentalismo puro, perché le problematiche esistenzialmente più importanti sono quelle in cui non sembra possibile procedere per rimozione di con­traddizione. Su questo punto io mi ero espresso in maniera

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PRIMO ENTRETIEN

simile, quando dicevo che il grado di fondatezza di un asserto è inversamente proporzionale alla sua ricchezza contenutistica. In questo contesto allora Ricoeur giustamente valorizza la phronesis aristotelica, il concetto platonico di alethes doxa e quello rawlsiano dei disaccordi ragionevoli. Dove non si può attingere alla pura verità occorre per lo meno aspirare alla veracità. A Ricoeur è molto caro il concetto di attestazione, che si lega bene a quello di veracità. I problemi morali, giuridici, pratici, osserva Ricoeur, non sono suscettibili di risposte scientifiche e, ciononostante, le teorie che li riguar­dano avanzano una pretesa di verità. Questa pretesa ci porta a dare alla questione della verità uno spazio più ampio rispetto a quello della conoscenza scientifica. Ricoeur, per spiegare in che cosa consiste il tipo di verità che caraterizza l’attestazio­ne, si rifà ad un concetto platonico: quello della horte doxa, l’opinione retta. Secondo Platone gli uomini politici non pos­siedono l’episteme, né la scienza, ma Yhorte doxa, che egli chiama anche alethes doxa, ponendo l’uno accanto all’altro quelli che potrebbero sembrare degli opposti: l’opinione e la verità. L’attesatazione appartiene alla stessa famiglia dell 'alethes doxa. Anche la discussione ed il confronto, secondo Ricoeur, sono fonte di veracità, ammesso che si possa presupporre che il consenso rappresenti un indizio della nostra vicinanza al vero.

3. La questione dell’evoluzione del pensiero ricoeuriano in materia di ontologia e metafisica. Ci sarebbe infatti un Ricoeur prima maniera, che rifiuta l’ontologia e la metafisica in nome di suggestioni barthiane e kantiane, e un Ricoeur seconda maniera, solidamente attestato sulla linea di Aristotele. Ricoeur giustifica questa sua evoluzione dicendo che i suoi interessi per l’etica lo hanno portato ad un cammino a ritroso che dall’universalismo kantiano lo ha condotto ad un’etica del vivere bene d’ispirazione aristotelica. Il recupero dell’ontologia aristotelica sarebbe dunque passato attraverso la riappro­priazione dell’etica e sarebbe stato mediato dalle reinter­pretazioni d’ispirazione heideggeriana dell’etica aristotelica.

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?

Questions

question: La première partie de ma thèse de doctorat a pour objet l’examen du statut épistémologique du discours philosophique qui, selon votre pensée, est l’arbitre du conflit des interprétations. Alors, je voudrais vous demander: qu’est- ce qui, du point de vue épistémologique, donne au discours qui réconcilie le conflit des interprétations le droit de se poser à un niveau supérieur en comparaison des interprétations engagées dans le conflit?

Or, ce discours ne peut pas être au même niveau que les interprétations archéologique et téléologique du symbolisme religieux: en effet s’il était au même niveau que les interpré­tations engagées dans le conflit, le conflit serait ultérieurement embrouillé au lieu d’être résolu.

réponse: J ’accepte bien cette question parce qu’elle me tourmente pour moi-même. Je suggérerai de dire qu’il y a des situations très disparates: dans certains cas il n’y a pas de troisième terme (les deux termes restent affrontés), dans l’autre cas il y a un rapport dialectique dans le sens qu’on peut montrer que l’un implique l’autre pour se conduire à son propre terme et que donc c’est une sorte de croisement, n’est-ce pas? Le modèle pour cela, c’est pour moi le rapport que je fais entre expliquer et comprendre dans les trois domaines de l’histoire, de l’action et de l’interprétation des textes. Alors là on peut dire que le discours philosophique consiste à conduire chacun des discours adverses vers son autre. Et puis, alors, il y a une troisième situation où le discours philosophique se construit vraiment sur un autre niveau que les discours affrontés. Alors je prends trois exemples dans mon travail:

1) Il y a le rapport entre l’analogie et la métaphore dans le dernier chapitre de La métaphore vive, où j’essaie de dire ce qu’est un discours spéculatif qui a des règles propres, que la métaphore d’abord est dans un certain ordre de la fiction et qu’il y a un discours spéculatif.

VERITÀ DEL METODO

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PRIMO ENTRETIEN

2) Le deuxième exemple c’est la construction d’un troi­sième temps dans Temps et récit entre le temps cosmique et le temps phénoménologique. J ’essaie de construire un tiers temps (le temps historique) qui emprunte à tous les deux, mais qui est autre que les deux.

3) Et puis, alors, quand même, je crois que l’exemple sur lequel je me suis fixé plus récemment c’est le rôle des genres suprêmes. Dans la «Revue de métaphysique et de morale» de janvier 1994, j’ai un article qui s’appelle De la métaphysique à la morale, et, déjà dans Soi-même comme un autre, bien des fois j ’emploie les catégories du «même» et de «l’autre» comme Platon, ou bien les significations multiples de l’être parmi lesquelles j’ai choisi l’être comme agir. Là, alors, il y a l’essai (je suis très prudent) d’un discours spéculatif articulé.

Alors je crois que dans le conflit des interprétations quel­quefois les deux termes restent juxtaposés, d’autres fois on les croise, d’autres fois on leur superpose en quelque sorte un discours supérieur.

Maintenant, en réalisant tout ça, je ne traite pas de la même façon le conflit des interprétations. J ’ai employé les termes «archéologique» et «téléologique» une seule fois à propos de Freud, n’est-ce pas? Une interprétation renvoie à l’autre, dans ce cas-ci, sauf qu’elles se croisent dans le même texte (comme l’Oedipe).

question: Est-ce qu’on peut dire que au-dessus du conflit des interprétations il y a tout ce qu’il faut pour avoir une interpré­tation, pour avoir un langage, et plus encore pour avoir du sens: c’est-à-dire tout ce qui est commun à toutes les interprétations? Le principe de contradiction, par exemple, sans lequel une interpétation ne serait pas une interprétation, mais un non-sens.

réponse: J ’ai rencontré ce problème là dans l’école de Otto Apel et Habermas lorsqu’ils parlent de la contradiction non pas logique cette fois, mais performative; c’était le genre d’argument qui était toujours utilisé contre les sophistes: vous

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VF.RITÀt)EL METODO

dites quelque chose donc vous affirmez quelque chose d’autre. Je crois que là il y a eu une avancée importante, à savoir que c’est une contradiction non dans le contenu sémantique, mais dans l’acte d’affirmation. Si vous disiez: «la chaise est sur le tapis, mais je ne le crois pas», vous vous contrediriez, parce que est présupposé que si je dis que la chaise est sur le tapis je le crois, et donc je me contredis, pas au niveau de l’affirma­tion, mais au niveau de l’acte d’affirmation. Je suis très sensi­ble à ça, parce que c’est la condition même de la discussion.

question: Est-il aussi possible, selon vous, de trouver une forme de Pelenchos qui ne soit pas engagée dans le langage ou dans une situation inter subjective? Parce que une situation intersubjective est toujours une situation problématique: s’il y a du langage il y a aussi de l’interprétation, et alors l’elenchos dans ce cas-ci n’est pas fondé totalement.

réponse: Oui, peut-être. Mais être dans le langage est une situation fondamentale, il faut que nous soyons dans l’espace conflictuel du discours où il n’y a pas de superdiscours qui règle nos différences.

John Rawls, par exemple, parle de consensus par recoupe­ment, c’est-à-dire qu’on se croise à partir de positions diffé­rentes; c’est quand même une situation assez nouvelle que nous acceptions de lier des différences dans la situation du discours. Il n’y a pas d’espoir que tout le monde pense de la même façon, et cette situation est masquée par l’autorité re­ligieuse, politique, et par l’autorité en général. C ’est pourquoi les règles pragmatiques sont, elles, utiles.

question: Alors, selon vous, ce type de philosophie qui cherche à trouver des vérités, comment dire, bien fondées, vraies tout court, n’est pas possible?

réponse: Si, je le crois, mais à un niveau d’extrême forma­lité. Par exemple, je me suis intéressé aux derniers dialogues platoniciens où il y a un essai de construction dialectique qu’il

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PRIMO ENTRETIEN

appelle des grands genres. Et peut-être que c’est au niveau des ces grands genres que je chercherais ces vérités. C ’est ça la problématique que j’avais étudiée dans le dernier chapitre de La métaphore vive où j’avais annoncé ce que j’ai réalisé dans Soi-même comme un autre, et puis surtout dans cet article paru dans la «Revue de métaphysique et de morale» {De la métaphysique à la morale, janvier 1994) où j’ai essayé de me mettre en accord avec moi-même, au moins, sur cet usage de ce que j’appelle, si vous voulez, métacatégories. Moi, je crois qu’elles sont présupposées par tout le monde, parce que, d’une certaine façon, la règle de non contradiction peut être formu­lée sur la dénomination des métacatégories du «même» et de «l’autre». Mais, alors, il y a l’autre, justement, dans la multi­plicité de l’interprétation, et aussi la situation dialogale ini­tiale: c’est à partir de situations différentes que nous pensons.

Puis il y a le problème de la catégorisation de l’autre: est- ce que l’autre est autre chose que le corps propre, que la conscience personnelle? Moi, je crois que ça aussi fait partie d’un discours universel. Il faut qu’on se pose des questions sur les conditions de la pensée, mais on ne doit pas s’enfermer dans un transcendantalisme extrême.

question: Dans De l ’interprétation. Essai sur Freud et Le conflit des interprétations il y a le problème du rapport entre vérité et interprétation....

réponse: L’idée d’interprétation ne peut pas être opposée à celle de vérité, parce que si je ne crois pas vraie mon interpré­tation je n’y suis pas rattaché, les Allemands disent très bien «für wahr halten», c’est-à-dire tenir pour vrai.

question: Oui, mais dans le conflit des interprétations, où il y a des interprétations qui s’opposent, on se demande où est-ce qu’il y a la vérité.

réponse: Oui, mais on peut montrer que toute interpréta­tion est liée à une situation limitée, la finitude de la compré-

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VERITÀ DEfMETODO

hension joue un très grand rôle, à savoir que si je ne peux pas aborder un problème de nulle part, je l’aborde à partir de l’état de la discussion à un certain moment historique, et donc ma réflexion est conditionnée par l’état de la discussion. Toute compréhension est d’abord une précompréhension avec des préjugés, alors c ’est par un travail critique sur cette précompréhension qu’on peut viser l’universalité.

J ’ai rencontré le problème surtout sur le plan moral: jus­qu’à quel point peut-on tenir pour universellement vrais des préceptes comme «tu ne tueras pas», «tu ne mentiras pas»? Alors moi, je serais porté à dire que nous présumons en quel­que sorte l’universel et nous y croyons jusqu’à ce que nous soyons dans une situation de conflit où quelqu’un essaie de déstabiliser, de proposer une alternative, et alors il y a un espace de discussion, et il y a bien un autre horizon. Est-ce que cet universel présumé a résisté à l’assaut, n’est-ce pas, d’une contradiction, d ’une opposition? Est-ce que, alors, nous sommes tombés dans une situation d’indifférence absolue?

Il y a une sorte d’histoire de la communication, une his­toire de la discussion et les discussions les plus fertiles ce sont celles dont l’issue est imprévue, où l’on n’est pas là seulement pour défendre la position initiale, mais aussi pour avancer vers une position qui, justement, n’est rendue possible que par la contradiction, par la discussion.

Moi, je pense que ça c’est surtout vrai dans le domaine moral, dans ce que j’appelle la sagesse pratique, la phronesis. J ’ai passé la matinée avec un médecin, professeur de méde­cine, qui enseigne l’éthique médicale dans des situations de soins palliatifs. Qu’est-ce qu’il faut faire dans des cas où il y a des patients qui ne peuvent pas guérir? Comment fonc­tionne une délibération d’équipe? Vous avez le malade, dans la mesure où il est encore conscient, vous avez le médecin, vous avez la famille, vous avez des amis, vous avez un prêtre, et alors il se passe quelque chose là et la situation idéale c’est lorsqu’un consensus se dégage de cela. Mais quelquefois il n’y a pas de consensus, et alors il y a une décision autoritaire du

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PRIMO ENTRETIEN

chef de service qui est là, par exemple débrancher l’appareil respiratoire ou cardiologique.

Par exemple, rien n’est plus proche de la pratique médi­cale que le traitement abusif, si vous voulez prolonger la vie indéfiniment ou pratiquer l’euthanasie. On ne sait pas si on fait de l’euthanasie en arrêtant les appareils ou si on respecte la volonté humaine, alors là nous sommes dans un ordre où il y a vérité, si on entend par vérité la seule chose à faire ici et maintenant, lorsqu’elle peut sortir d ’une délibération. D’ailleurs je dirais que l’éthique se joue là-dessus, pas sur les grands principes «tu ne tueras pas», «tu ne mentiras pas». Prenez la discussion sur la guerre juste au Moyen Age, les problèmes moraux posent des problèmes de ce genre-là, il y a eu des conflits inexpiables, d’autres fois on arrive à un consensus par recoupement. 11 y a aussi le cas où on arrive à ce qu’on peut appeler (selon les écrits de John Rawls) des désaccords raisonnables, c’est-à-dire: je ne suis pas d’accord avec vous, mais je comprends qu’on puisse dire ça, c’est-à- dire que ça c’est plausible, plaidable. Cela joue un grand rôle dans la discussion publique, parce que il y a des adversaires avec qui on n’a rien à se dire. Je pense, par exemple, à la situation avec l’Islam: il y a des vrais musulmans avec qui on peut discuter.

Je crois qu’il faut bien voir toutes les nuances entre ces situations: l’accord de principe sur les principes fondamen­taux, et puis, lorsqu’on arrive à des problématiques très déter­minées, très singulières, les désaccords ouverts, le consensus, les désaccords raisonnables, la solution autoritaire et la diver­sité des solutions.

question: Cela c’est très intéressant parce qu’il y a tou­jours dans la décision un croisement entre le pratique et le théorique. La décision est toujours située dans un segment dont les bouts sont le pratique pur, c’est-à-dire la décision sans raisons que nous pourrions, peut-être, appeler violence, et le théorique pur.

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réponse: Oui, ce sont des extrêmes. Je me rappelle tou­jours la très bonne préface de Eric Weil de son grand livre Logique de la philosophie, et la longue introduction qui est intitulée Violence et discours où il dit qu’entrer dans le dis­cours c’est sortir de la violence. Mais Foucault a montré que bien de ces situations de discours sont des situations de vio­lence cachée: discours autoritaire, discours du maître, dis­cours d’intimidation.

Justement ce matin, dans cette discussion que j’avais avec ce médecin nous avons réfléchi sur des situations où l’on est toujours au croisement entre une relation hiérarchique au patron, n’est-ce pas, et puis l’horizontal, - les soignants et tous ceux qui sont autour du mourant à partager.

question: Et alors peut-être que le rôle du philosophe, du moment que la décision se place toujours dans le moyen, entre les deux bouts du discours pur et de la violence, est de montrer ce qu’est ce discours pur, cette vérité de la praxis, pour comprendre quand on s’approche et quand on s’éloigne de cela.

réponse: Plus que la vérité c’est la véracité, c’est-à-dire qu’il faut aussi aider les adversaires à aller jusqu’au bout de leurs arguments: lutter contre le non dit, le refoulé, l’interdit, le tabou, porter à la lumière du jour ce que Habermas appelle toujours l’argument le plus fort: «donnez-moi votre argument le plus fort». Je dois être prêt à ce qu’on me demande: «quel est vôtre argument le plus fort pour dire ce que vous dites?»

Un autre problème, qui n’est pas si loin, est que moi je pense que le philosophe n’est plus celui qui donne la vision du monde valide pour tout le monde, mais quelqu’un qui travaille, justement, dans des cycles bien déterminés, avec les historiens, par exemple, qui ont le même problème du juge­ment sur le génocide, avec les psychiatres, les linguistes, les médecins, c’est-à-dire avec des situations où il y a finalement des problèmes de délibération dans des situations concrètes.

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Alors la vérité, elle est présumée, comme si nous nous mettions d’accord sur le fait qu’il y a quelque présupposition que, à plusieurs, on s’approche d ’un point de vérité; mais il faut admettre que, dans une autre constellation de discussion, ce ne sera pas forcément la même solution qui sera adoptée. Là nous sommes plutôt dans l’ordre de la pratique et c’est dans ces situations-là que je me suis placé depuis quelques années.

question: Que pensez-vous des études qu’ont menées sur votre pensée Peter Joseph Albano et David Tracy, qui propo­sent d’intégrer la métaphysique à votre perspective philoso­phique? Est-ce que dans votre refus de la métaphysique au sens classique du terme jouent un rôle fondamental les limi­tations posées par Kant dans la Critique de la raison pure, ou bien le refus barthien de la théologie naturelle, ou bien encore l’ idée typique de la théologie protestante (en particulier barthienne) de l’inviolable transcendance divine et de l’obscu­rité profonde du coeur humain?

réponse: Finalement de moins en moins. Je me permets de dire que dans cet article-là de la «Revue de métaphysique et de morale» j ’ai toujours plaidé pour une métaphysique de l’acte, de l’être comme acte. Finalement c’est ça le fond de la pensée qui ne paraît vraiment, véritablement, que dans Soi- même comme un autre, où je dis que les capacités dont je parle, de pouvoir, agir, pouvoir parler, pouvoir se raconter, pouvoir être imputable, sont toujours des capacités où il s’agit de pouvoir. Or, le pouvoir suppose les métacatégories de potentialité et d’actualité, et alors là je suis sur la ligne de Métaphysique E 2 d’Aristote où il parle d’une pluralité de significations de l’être. Alors, donc, moi je ne me sens pas du tout protestant, barthien, antimétaphysique, là je suis au con­traire dans la ligne aristotélicienne, mais alors j ’accepterais d’être classifié du côté négatif dans la mesure où, en gros, la métaphysique occidentale a préféré l’être comme substance à l’être comme acte et puissance. Si on identifie la métaphysique

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au substantialisme, oui, alors je suis de l’autre côté, mais ça ne veut pas dire qu’il n’y ait pas une autre métaphysique possible. Très souvent je fais référence au conatus de Spinoza. Moi, je regarde avec une très grande admiration la philosophie de Spinoza, même si on dit qu’elle est un panthéisme, ce n’est pas ça qui m’intéresse, mais c’est qu’il définit vraiment l’être comme puissance, et d’ailleurs il emploie le mot de substantia actuosa, en acte, en puissance, et Schelling aussi, et même tout un côté de Leibniz. Je suis de plus en plus impressionné par la philosophie de Leibniz contre Descartes, le dynamisme contre le mécanicisme, l’idée d’une dynamique de l’être et que cette dynamique croissante arrive à la conscience et puis à la réflexion, à la communauté, moi, j’y suis très attaché.

Moi je ne voudrais pas couper l’éthique de l’ontologique, mais justement pas par n’importe quelle ontologie. Moi j’ai un autre travail qui n’est pas publié où j’ai essayé de mener une réflexion ontologique. Il sera publié cet hiver aux Etats-Unis, c’est un travail un peu d’exégèse biblique sur le «je suis qui je suis» et je me suis bien intéressé à celà parce que tout le monde a proposé une solution, mais souvent sans comprendre que, là, c’est vraiment le verbe être, mais dans aucune des significations rencontrées par les Grecs: il y a une sorte d’élargissement du sens du verbe être, c’est le sens de l’être avec, de l’être fidèle, c’est l’être de l’accompagnement d’un peuple, mais c’est vraiment une autre dimension de l’être. Quand Aristote a dit qu’il y a une variété de significations de l’être il n’avait pas prévu l’être de Exode 3.14. Donc, moi je suis plutôt pour cette sorte d ’élargissement de l’ontologie plutôt que pour un renversement de l’ontologie en passant du domaine grec au domaine hébraïque.

question: Où est-ce qu’il va paraître?

réponse: C ’est dans un livre collectif qui est intitulé Thinking Biblicaly, où il y a des travaux d’exégèse scientifique et d’exégèse philosophique. On a choisi «Je suis qui je suis», la notion de création, le commandement «tu ne tueras pas» et puis le psaume

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de plainte «Mon Dieu, mon Dieu pourqoui m’as-tu abandonné?», et puis je crois, pour finir, le Cantique des Cantiques. Et alors moi je fais une sorte de théologie philosophique ou de philosophie théologique. J ’ai su avant-hier que c’était accepté par un éditeur américain après deux ans de négociation, comme c’est un genre hybride et aux Etats-Unis on n’aime pas les choses comme ça, on demande: vous êtes théologien ou philosophe, vous êtes exégète ou quoi? Mais finalement on a trouvé un très bon éditeur, c’est Chicago University Press2.

Je réponds à l’exégète de métier, de terrain, qui me demande une réflexion philosophique sur la création en distinguant le commencement de l’origine. Le commencement c’est plutôt le daté, et en le cherchant vous arrivez au «Big-bang» ou à je ne sais quoi; d’autre part l’origine est, comme dit Lévinas, immémoriale, d’ailleurs elle est ni passée ni présente, elle est source, on peut dire qu’elle est toujours déjà là, mais précisément ce n’est pas un commencement qu’on peut dater, d’ailleurs on remonte vers le commencement alors qu’on descend de l’origine, on procède de l’origine, tandis qu’on remonte vers le commencement. J ’essaie de dire ça: ce qui caractérisait le mythe pour les orientaux, c’était qu’ils n’avaient pas fait la distinction entre commencement et origine; parce que les sciences l’ont permis. Nous, alors, pouvons, peut-être, mieux comprendre le mythe comme mythe d’origine en ce sens de le considérer comme explication du commencement. Comme cela on peut composer le conflit entre religion et pensée scientifique.

question: Je crois, pour revenir à la question, que, entre votre pensée et la métaphysique ou l’ontologie au sens classique du terme il y a, peut-être, Kant, mais pas pour ce qui concerne l’ontologie, plutôt pour ce qui concerne le rapport entre rationalité et ontologie, c’est-à-dire que vous préférez utiliser

2 Ricoeur, nell’intervista, fa riferimento all’edizione inglese, dove il suo testo è pubblicato nella traduzione inglese. Il testo originale è invece contenuto nell’edizione francese (P. L a co cq ue - P. R ico eu r , Penser la Bible, Paris 1998, pp. 335-371).

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plutôt un discours qui privilégie l’approche herméneutique du symbolisme religieux et de la métaphore afin d’éclairer la dimension métaphysique et transcendante.

réponse: Surtout dans la première phase, parce que, après, je suis revenu de plus en plus à un discours aristotélicien, et non seulement en éthique, mais en ontologie. La dernière phase, c’est celle de Soi-même comme un autre. Quarante ans après la Symbolique du mal où j’étais plus antimétaphysique, c’est vrai, et peut-être plus marqué par des philosophes protestants très marqués par Barth sur qui j ’ai écrit des articles qu’on peut retrouver dans Lectures 2. Ces philosophes protestants disent: pas d’ontologie, mais, maintenant je ne suis pas du tout sur cette ligne-là.

question: Est-ce qu’on peut parler d’un tournant de votre pensée? Vous venez de dire, en effet, que dans des ouvrages comme La métaphore vive et Temps et récit il y avait une approche différente de l’ontologie en comparaison avec Soi- même comme un autre.

réponse: Évidemment ce sont mes lecteurs qui peuvent juger sur cela. J ’ai essayé de m’expliquer dans une autobiogra­phie intellectuelle que j’ai publiée dans la collection améri­caine «Library of living philosophers»; dans cette collection il y a un volume qui porte mon nom simplement, Paul Ricoeur. Là je me suis posé le problème de la continuité et de la rupture, et telle que moi je les vois, et je commence en disant que je n’ai pas le droit plus que personne de juger: je suis un interprète, la seule différence est que c’est moi qui ai écrit ça, donc ce n’est pas la même chose que les autres, mais l’hypo­thèse de la continuité, l’hypothèse de la rupture, c’est la ques­tion que tous les philosophes se posent: c’est-à-dire est-ce qu’il y a une première manière et une deuxième manière? Je ne peux pas du tout me comparer aux plus grands, mais pourquoi pas ne pas changer d’idées?

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question: Ce que je trouve intéressant, c’est quand vous dites qu’il y a une différence, que maintenant vous êtes plus aristotélicien qu’auparavant: est-ce que vous pensez à des cau­ses qui ont déterminé cette différence? Qu’est-ce qui s’est passé?

réponse: Je pense: le fait de m’être intéressé au champ pratique, à la praxis, et ça m’a inéluctablement ramené de Kant à Aristote par un mouvement, si vous voulez, régressif, de Puniversalisme kantien à une éthique du vivre bien. Je dois dire que je le dois aussi à beaucoup d’interprétations post- heideggeriennes des Grecs. Là il y a quand même certaine­ment le passage par la notion de souci, de Sorge dans Sein und Zeit, je ne le nie pas du tout. Mais c’est quand même dans Soi-même comme un autre que je cherche à mettre un ordre parmi toutes ces influences, en particulier dans le der­nier chapitre qui s’appelle Vers quelle ontologie?. C ’est le seul chapitre qui a un point d’interrogation, d’ailleurs, parce que je ne suis jamais totalement à l’aise dans ce problème-ci. Et puis dans l’article De la métaphysique à la morale (1994, janvier, «Revue de métaphysique et de morale»): c’est un texte publié en même temps que l’autobiographie intellectuelle.

question: À travers l’analyse de votre oeuvre, on comprend que, selon vous, la sphère du monde interprétatif n’est pas une sphère fermée de laquelle on ne peut pas sortir. Vous, en effet, utilisez des formes du discours philosophique qui prétendent faire éclater la sphère fermée du monde interprétatif.

Dans vos ouvrages, vous montrez que vous voulez faire éclater éthiquement le cercle interprétatif: la notion d’attesta­tion, par exemple, représentée comme une croyance non doxique, comme une croyance en, ou encore comme con­fiance, a l’incontestable prétention de briser les barreaux de la cage interprétative pour saisir le soi comme il est.

Ainsi, l’imputation morale a le rôle suivant: le «me voici!» que nous prononçons sur son appel en finit avec l’indéfini enchevêtrement de l’autointerprétation.

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réponse: Vous avez bien fait de soulever cette question de l’attestation, parce que l’attestation se place bien dans la di­mension de la vérité. C ’est l’affirmation que les questions morales, juridiques, pratiques, politiques ne sont pas suscep­tibles de réponses scientifiques, et pourtant elles ont une pré­tention à la vérité, ce qui amène à découpler vérité et connais­sance scientifique, en donnant à la notion de savoir pratique un statut épistémologique. Je viens de faire une conférence sur le Menon de Platon et j’ai retrouvé la horte doxa, l’opi­nion droite. Platon dit que les hommes d’état n’ont pas l’épistème, ni la science, mais ils ont l’horte doxa, et il l’ap­pelle aussi alethes doxa, et mettre alethes avec doxa c’est...., et ce que j’appelle attestation c’est de la même famille que Palethes doxa.

question: Quel rapport y a-t-il entre votre pensée et celle de Lévinas à propos de la décision et de l’attestation, par lesquelles un problème théorique est résolu au niveau éthi­que? Y a-t-il chez vous aussi cette inclination à priviléger l’as­pect pratique en comparaison de l’aspect théorétique?

réponse: Oui, mais évidemment Lévinas est beaucoup plus hostile que moi à l’ontologie parce qu’il pense que la grande ontologie de notre temps c’est celle de Heidegger, et alors pour lui l’être de Heidegger est un être total et donc totali­sant, et donc totalitaire, vous voyez, il y a donc un glissement, et donc l’éthique doit faire sans ontologie; mais moi, en liant l’éthique à l’agir et l’agir à l’être comme acte, je suis beaucoup plus sensible à l’articulation éthique-ontologique.

question: La réflexion (comme elle l’est entendue dans Le volontaire et l’involontaire), me semble-t-il, se pose comme une autre façon à travers laquelle on peut dépasser la simple interprétation. Dans ce cas, toutefois, le mouvement de dé­passement de l’interprétation revêt des formes plus proches de celles de la pensée husserlienne. Ici, en effet, avec le mot «réflexion», vous vous référez à un discours qui n’est pas

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démonstratif, pas objectif, mais qui en même temps est en mesure de dépasser la simple observation. Ce caractère du discours philosophique permettrait de distinguer le savoir philosophique du savoir scientifique. La philosophie en tant que réflexion montre, mais ne démontre pas. Il me semble que la réflexion peut être qualifiée de procédé de médiation, où la médiation n’est pas entendue comme démonstration, mais comme duplication de l’immédiat, c’est-à-dire comme réappropriation de l’immédiat à travers un retour sur celui-ci et donc à travers une ré-flexion.

Qu’est-ce que vous pensez, après plusieurs années de la publication de Le volontaire et l’involontaire, de cette façon de comprendre la réflexion? Pensez-vous encore qu’il soit possible de dépasser l’interprétation à travers la médiation réflexive?

réponse: Je crois que ce qui est en jeu ici c’est mon rap­port avec Nabert, parce que j’ai tout à fait adopté sa défini­tion de la réflexion. L’idée centrale de Nabert c’est que l’acte fondamental de la pensée c’est le jugement, c’est-à-dire donc essentiellement une opération, donc une action pensée, et que nos actes de pensée sont comme oubliés en tant que actes dans le résultat qui en est l’objet, comme si, en quelque sorte, l’acte s’ensevelit, s’enveloppe dans son objet; et alors la ré­flexion consiste à retrouver le percevoir dans le perçu, l’acte de mémoire dans le souvenir, etc. Mais, au fond, c’est ce que j’avais essayé de faire en essayant de retrouver l’intention du projet dans ce que j’appelle le pragma, la chose à faire par moi, et dans la réflexion c’est le mouvement de retour de l’objet devant moi à l’acte opérant, c’est pas très loin d’ailleurs de ce que Merleau-Ponty appelle la parole parlante par rap­port à la parole parlée: la parole parlante dans la parole par­lée, c’est cela que j’appelle réflexion.

question: De ce point de vue, peut-être qu’il serait intéres­sant de réfléchir sur le rapport entre réflexion et vérité. La ré­flexion aussi nous donne un moyen de nous approcher du vrai.

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réponse: Oui, mais c’est la vérité sur quoi? Ce n’est pas la vérité sur les objets qui a ses règles propres, mais la vérité des actes, c’est-à-dire d’abord la reconnaissance de la dimension du sujet lui-même comme étant opérant. Alors, reconnaître la dimension opérante du sujet, c’est cela la vérité de la ré­flexion, c’est qu’elle est adéquate au mode d’être du sujet qui est d ’être intentionnel et capable de réfléchir sur sa propre intention, et donc se récupérer comme acte qui se perd dans son objet, qui s’oublie dans son objet. Quand je vois votre visage, c’est le visage qui est l’objet, mais quand je me re­garde, c’est l’acte qui est l’objet. Alors, désensevelir en quel­que sorte les actes de leurs objets investis, c’est cela la ré­flexion. La vérité de l’attestation.... Je crois que je peux, c’est la vérité de l’homme capable, de l’être capable.

question: C ’est une vérité au sens pratique du terme.

réponse: Oui, si en disant «vérité au sens pratique» on veut dire qu’elle est une vérité de la pratique, mais pas qu’elle est une vérité pratique.

question: Quel rapport y a-t-il entre ce sens-ci du mot réflexion et la réflexion entendue comme médiatrice du con­flit des interprétations?

réponse: J ’improvise un peu la réponse parce que je ne me rappelle pas cet usage que j’avais fait du terme «réflexion». La réflexion serait d’abord reconnaître la limite, parce que je crois qu’il y a un rapport très étroit entre réflexion et limite, je suis très kantien là. Réfléchir c’est aussi réfléchir sur l’es­pace de validité d’un certain nombre de concepts, mais aussi sur les limites de validité, et donc la réflexion est au bord de la frontière, au bord de la limite, le gardien de la frontière. Alors, comprendre, dans le conflit des interprétations, que une interprétation est valide dans certaines limites, où les conditions de validité sont aussi les conditions de la limite de validité, veut dire que la réflexion est médiatrice, parce qu’elle

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fait comprendre à chacune des parties que sa vérité est déter­minée par une certaine attente (biologique, scientifique, mo­rale), elle est une réflexion sur les limites et sur l’espace de validité d’un certain type de discours, dans une condition de finitude qui atteint tous les discours, qui sont toujours précé­dés par une phase de précompréhension, où déjà le «ce sur quoi on parle» est antérieur à «ce que l’on dit».

J ’ai retrouvé d’ailleurs cette situation dans le Menon de Platon, parce que là arrive une sorte d’aporie: est-ce qu’on peut chercher ce que l’on ne connaît pas? Mais si on ne le connaît pas on ne le cherche pas, et si on le reconnaît c’est parce qu’on l’avait toujours su. Mais alors on s’aperçoit que le «ce que l’on sait» est objet de doute, mais pas le «ce sur quoi on parle». Alors dans toute discussion nous avons la présupposition d’un «ce sur quoi nous parlons»: de quoi s’agit- il ici? Dans quel domaine discutons-nous? Alors il y a toujours des présuppositions... c’est à la fois un passage d’ouverture au-delà des objets de la discussion et un temps de fermeture parce que c’est de cela qu’on parle et pas d’autre chose. Là quand même j’étais très marqué par Gadamer, le croisement entre Gadamer et Nabert est d’ailleurs tel que pour moi c’est un objet d’incertitude de savoir ce que je dois à l’un et ce que je dois à l’autre: je dois certainement à Nabert le sens de réflexif, au double sens qu’on vient de le dire: réfléchir sur la composante d’acte de toutes nos opérations de pensée, et d’autre part la réflexion sur la limite de validité d’un discours; et puis d’autre part la finitude de la compréhension, qui vient, d’ailleurs, de toute l’histoire de l’herméneutique de­puis Schleiermacher. Alors peut-être que ces deux se croisent dans une sorte de néokantisme, parce que la finitude de la connaissance au sens herméneutique et puis les limites au sens réflexif sont finalement la même chose: toute compréhen­sion est finie, mais ça veut dire aussi toute connaissance est limitée.

question: Peut-être que, en comparaison de Gadamer, vous êtes plus sensible aux questions de méthode?

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réponse: Oui, à partir des sciences humaines, c’est certain. Mais ce que je disais tout à l’heure est que je comprends les philosophes plutôt comme offrant leurs services à des pen­seurs dans des champs déterminés comme la linguistique, la psychanalyse, le droit, la philosophie étant non pas un arbitre, mais un aide à la lucidité et à la précision conceptuelle, et à l’argumentation correcte, bien conceptualisée, bien argumen- tée, et c’est comme cela que l’on peut être partie prenante dans une équipe de recherche qui a aussi un «ce sur quoi» déterminé. On parle de droit ou bien de linguistique en ap­portant le service réflexif: quels sont les concepts majeurs derrière cela, quelles sont les conditions de possibilité du discours, etc., plutôt que donner une vision du monde. Je ne crois pas que la fonction de la philosophie soit celle-ci..., en tout cas je ne suis pas capable de faire ça, peut-être que c’est une vision plus modeste de la philosophie.

question: Ce que je trouve très intéressant dans votre philosophie c’est l’utilisation de différentes méthodes aux fins de mieux comprendre le soi humain: j’y trouve la réflexion au sens de Nabert, mais aussi la phénoménologie husserlienne, l’herméneutique, la philosophie de la praxis et du langage de la tradition anglo-saxonne, etc., etc.

réponse: Alors là c’est un problème, à savoir si tout ça se tient ensemble: est-ce que cela c’est fragmentaire, je n’en sais rien, ce sont les critiques qui peuvent dire ça. On peut dire: «vous êtes éclectique», ou «vous imposez votre cohérence à tout le monde», je n’en sais rien moi-même. Le lecteur en a le droit imprescriptible, l’auteur n’est en rapport à lui-même que par rapport à des lecteurs. C ’est lui-même qui a écrit l’oeuvre, maisil n’a pas le droit absolu de dire à quelqu’un: «non», «voilà ce que j’ai voulu dire», «vous vous trompez complètement»: je n’ai jamais dit ça à personne; on ne peut dire ça qu’en gros, quand on est dans l’interprétation des grands ensembles, des grandes articulations. Est-ce qu’il y a un changement entre le début et

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la fin? Bon, c’est vrai, en cinquante ans j’ai changé: d ’abord j’ai lu d’autres livres et puis le paysage philosophique a changé, ça c ’est très im portant. M oi, j ’ai commencé en période d’existentialisme, j’ai traversé le structuralisme et puis maintenant je me trouve devant des «post-je-ne-sais-quoi», la déconstruction, etc. Une longue vie comme la mienne est aussi une traversée de multiples paysages philosophiques, et alors la négociation avec ses contemporains, qui sont tantôt des amis, tantôt des adversaires, est chaque fois différente par la nature même de la confronta­tion; alors là il y a un élément historique qui lie aussi les différentes situations dans lesquelles la discussion s’est déroulée.

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Premessa

Anche in questa seconda intervista viene affrontato il tema della verità. Questa volta Ricoeur insiste nel sottolineare il carattere plurivoco della nozione di verità. Per questo motivo egli prende le distanze da Heidegger, il quale vede nella verità intesa come concordanza una sorta di derivato o di sostituto rispetto alla verità-scoperta. Secondo Ricoeur occorre invece preservare la diversità tra i vari sensi del vero (Ricoeur fa l’esempio della verità scientifica, della verità concernente l’or­dine dell’azione e della verità estetica), evitando di imporre gerarchie. Nel sostenere la multivocità del vero Ricoeur si rifà ad Aristotele e ai medioevali. Da Aristotele mutua l’idea se­condo cui vi sono tanti metodi quanti sono gli oggetti, legan­do la plurivocità del vero alla multivocità dell’essere. Dai me­dioevali riprende la dottrina dei trascendentali, osservando che i trascendentali (il bello, il buono, il vero) rappresentano delle regioni distinte dell’adeguazione, poiché ciascuno dei trascendentali ha una propria modalità di autopresentazione. Sul tema della plurivocità del vero Ricoeur prende le distanze anche da Kant. Per preservare la plurivocità del vero occorre infatti riconoscere la fragmentazione e l’autonomia dei vari campi di ricerca, cosa che non sembra verificarsi nel pensiero di Kant. La Critica della ragion pratica è infatti costruita sul

3 II secondo colloquio ha avuto luogo martedì 12 marzo 1996 a Venezia, presso la Fondazione Levi.

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modello della Critica della ragion pura: per opposione di un livello a priori (trascendentale) ad un livello empirico. L’ordi­ne dell’azione, però, si oppone a questa decomposizione e, dunque, su questo punto è meglio rivolgersi a Hegel che a Kant. In Kant la ragione pratica non è la ragione teorica, ciononostante essa viene costruita sul modello della ragione teorica. Questo parallelismo di costruzione non fa altro, se­condo Ricoeur, che portare ad una duplicazione della ragione teoretica.

In tema di ontologia Ricoeur, in questa intervista, precisa la sua collocazione rispetto ad Aristotele e ad Heidegger, collocazione non facilmente coglibile dai suoi testi. La discus­sione si è incentra in modo particolare intorno al diverso modo in cui Heidegger ed Aristotele considerano i concetti di dynamis ed energheia ed il loro rapporto. Ricoeur afferma di non essere convinto dagli esempi che fa Aristotele e dalla distinzione aristotelica tra atto e potenza. Atto e potenza costituiscono, secondo Ricoeur, un continuo. In questo senso Ricoeur si richiama piuttosto al conatus spinoziano, che è un misto di atto e potenza. In Aristotele la potenza è subordinata all’atto, non solo sul piano ontologico, ma anche su quello gnoseologico: la potenza può essere conosciuta solo a partire dall’atto. In Ricoeur, al contrario, l’attestazione rappresenta una conoscenza della potenza.

Molto interessante, sempre rimanendo in tema di ontolo­gia, il recupero che Ricoeur ci propone, in questa intervista, della nozione aristotelica di ousia. llousia è Tessente. Il termi­ne greco «ousia», secondo Ricoeur, è stato mal tradotto con il latino «substantia». La tradizione posteriore ad Aristotele ha operato il passaggio daWousia alla substantia, dando il via a quella tradizione sostanzialistica contro cui Ricoeur ha spesso polemizzato, opponendole un’ontologia dell’essere come atto. La nozione di sostanza, osserva infatti Ricoeur, si caratterizza in rapporto a degli attributi mobili (a degli accidenti); essa rappresenta ciò che permane, ciò che può essere identificato in quanto rimane sempre identico a se stesso, llousia, invece, è, per Ricoeur, ciò che è sempre soggetto, ciò che non può

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SECONDO ENTRETIEN

mai svolgere il ruolo di predicato: questa è la sua sola carat­teristica. L'ousia è un essere singolare, è un «questo». Ricoeur recupera la nozione di ousia attraverso la filosofia analitica, la quale definisce Vousia come «ciò che si può mostrare» e indi­vidua tre categorie che soddisfano al criterio àcìYousia-. i pronomi deittici, i nomi propri e le caratterizzazioni definite. Il vantaggio dell’approccio della filosofia analitica al problema dell ’’ousia consiste nell’evitare la querelle dei medioevali sulla sostanza, andando direttamente al criterio linguistico de\Y ousia-. ciò che non è mai predicato.

Un altro problema molto importante che Ricoeur affronta in questa intervista è costituito dall’oscillazione che è data osservare nei suoi testi in materia di ontologia. In alcuni scrit­ti quali Soi-même comme un autre, De la métaphysique à la morale, Négativité et affirmation originaire, De l’interprétation à la traduction, Ricoeur spinge l’ontologia sino all’affermazio­ne teologica. In altri scritti, invece, egli sostiene che le significazioni dell’essere, di cui parla Aristotele, permettono di precisare lo statuto dei vari essenti, ma non di elaborare una teoria dell’essere distinta da queste significazioni multi­ple. Tanto più se questa teoria pretende di designare l’ente che possiede l’essere come sua essenza. Nell’intervista Ricoeur attribuisce queste oscillazioni al fatto di aver sempre cercato, senza esserci riuscito, di attenersi all’agnosticismo in filosofia. Questo agnosticismo sarebbe infatti stato tradito in alcuni testi in cui egli dice di aver compiuto delle «avanzate arrischiate ed avventurose». Oggi, comunque, egli dice di non aspirare più a quell’ascetismo concettuale, che lo aveva obbligato a far professione di agnosticismo in filosofia.

Infine, Ricoeur ammette di non essersi interessato a problematiche epistemologiche, quali per esempio quella rela­tiva all’uso sintetico del principio di non contraddizione, perché i suoi interessi si sono concentrati, in particolare, su problemi pratico-morali. Egli, comunque, riconosce il caratte­re trascendentale del principio di non contraddizione. Ricoeur giunge addirittura ad ammettere che il principio di non con­traddizione, essendo il principio della determinazione, è più

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VERITÀ DEL METODO

originario dei trascendentali stessi. Senza il principio di non contraddizione non si potrebbero nemmeno distinguere tra di loro i trascendentali. Il principio di non contraddizione non è un principio della sola ragione teoretica: dire significa dire qualcosa, dire qualcosa significa dire qualcosa che è, osserva Ricoeur sulla scorta del libro Gamma della M etafisica aristotelica. Dunque, si può dire che il principio di non con­traddizione non è solo un principio che regola il linguaggio, esso, infatti, opera nell’ordine del reale preso nella sua più ampia generalità. Il principio di non contraddizione, quindi, opera anche a livello etico, perché gli esseri che agiscono sono comunque degli essenti e la nozione di essente è soggiacente sia al livello pratico che a quello teorico.

La théorie de la vérité

question: Il me semble que la notion de vérité comme découverte, que Heidegger nous a proposée dans l’essai Sur l ’essence de la vérité et dans laquelle Gadamer voit quelque chose qui éclate les structures interprétatives sclérosées ou les modalités relationnelles préétablies et stables, a fortement conditionné votre pensée.

L’idée heideggerienne de vérité me semble se joindre bien à la notion de vérité métaphorique. La métaphore, en effet, redécrit la réalité, elle en dévoile les aspects cachés et inima­ginables, elle porte à la lumière des modalités nouvelles et inattendues de l’être au monde, elle nous introduit dans la dimension de la vérité comme découverte et non plus comme adéquation à un réel déjà donné. L’oeuvre littéraire à son tour, comme vous nous enseignez, étale un monde devant soi, elle devient une découverte pour le lecteur. Ainsi, dans Temps et récit, vous montrez que la narration donne une signification nouvelle à la dimension temporelle de notre expérience, comme dans La métaphore vive vous aviez montré que la poésie redécrit notre monde. L’oeuvre littéraire aussi contribue à élargir l’ho-

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SECONDO ENTRETIEN

rizon et le monde du lecteur, en lui annonçant des possibilités nouvelles, des dimensions nouvelles de l’existence. Et donc, dans ce sens, on peut dire que la vérité de l’oeuvre littéraire est une vérité au sens heideggerien. N ’est-ce pas?

réponse: Oui, je suis tout à fait d’accord. Je penserais ceci, qu’il faut garder, peut-être, une plurivocité de l’idée même de vérité.

Ce, peut-être, à quoi je résisterais chez Heidegger, c’est l’idée d’une sorte de substitution ou même de dérivation de l’idée de vérité comme concordance entre le jugement et le réel de la vérité-découverte. Il me semble qu’il faut garder l’idée de plusieurs champs, 'de plusieurs domaines où, peut- être, la vérité a un sens différent. Ici je suis alors très proche de Jean Ladrière dans ses analyses, lorsqu’il propose trois modalités de la vérité:

a)Il faut quand même rendre justice à l’idée de vérité concernante les lois de la nature, la vérité scientifique. Pour­quoi? Parce que nous n’avons pas d’accès aux modes de pro­duction de la nature. C ’est vrai qu’il faut partir de la révolu­tion copernicienne (Newton) et nous ne pouvons plus étendre à la nature le modèle de l’action humaine où nous avons une affinité de sens avec la production de notre action: nous pou­vons nous reconnaître dans la production de l’action, et la vérité consiste, là, à remonter de l’intention à l’effectuation et de voir la convenance de Teffectuation. Mais, comme nous ne connaissons pas le secret de la production de la nature, nous n’avons que la possibilité de modéliser la nature et donc de sauver, en ce sens, le concept aristotélicien de vérité en tant qu’accord de la pensée avec la réalité, donc même d’intégrer un concept popperien de falsification. Peut-être faut-il mainte­nir sur le même plan la nature, pour laquelle nous n’avons pas d’accès à son mode de production, comme si nous en étions l’auteur, et l’action. Nous ne pouvons pas identifier la nature à l’ordre de l’action dont nous faisons récit et où nous avons donc un rapport intentionnel avec la production de l’action.

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Moi, je résiste assez, alors, à l’idée heideggerienne que la science ne pense pas: elle pense autrement! Je résiste à cela précisément par le défaut de toutes les tentatives heidegge- riennes de trouver la physis aristotélicienne... elles me parais­sent des entreprises perdues. Et, donc, il faut maintenir le domaine spécifique du vrai scientifique.

b) Et, alors, le deuxième champ de la vérité c’est dans l’ordre de l’action: l’adéquation de l’ intention et du projet à son effectuation. Là, alors, nous retrouvons les catégories de la puissance. Moi, pour ma part, j ’avais adopté, pour ce do­maine là, l’idée d’attestation, c’est-à-dire: «je crois que je suis capable, j’ai confiance que je peux».

c) Le troisième champ, c’est effectivement celui de l’esthé­tique, finalement, où il y a la révélation de l’être-comme dans sa convenance à cette modalité métaphorique du discours et la même chose pour le récit.

Mais alors j’ajouterais, peut-être, outre la reconnaissance du thème heideggerien, le fait qu’il ne s’agit pas simplement de révéler, mais aussi de transformer. Je ne sais pas si Heideg­ger était sensible à cet aspect là, parce qu’il y a, chez lui, une sorte de primat de l’idée du caché, de la dissimulation (a - letheia). Selon moi, en revanche, il ne s’agit pas simplement de ce qui est dissimulé, mais aussi de ce qui va être changé par un discours qui ouvre des possibilités nouvelles. Alors, vous voyez, c’est cette notion de la plurivocité de l’idée de vérité qui serait ma réponse à cette question.

question: Je pense que déjà dans la Métaphysique aristo­télicienne il y avait une sorte de plurivocité de l’idée de vérité.

réponse: Je crois que dans le livre Delta Aristote le dit expressément.

question: J ’ai trouvé quelque chose de très intéressant dans le livre IX, 10 où Aristote fait une distinction entre deux sens de la vérité. Dans l’un cas, dit Aristote, le vrai se trouve dans

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SECONDO ENTRETIEN

le fait d ’avoir un contact direct avec quelque chose et de l’énoncer, c’est à dire que dans ce cas-ci la vérité est simple­ment le fait de penser quelque chose. Le vrai, dans ce sens, n’a pas comme contraire le faux, mais seulement l’ignorance. Il me semble que la vérité-découverte fait partie de ce premier domaine du vrai. Aristote toutefois indique une autre signifi­cation du vrai, où le vrai et le faux sont connexes avec le fait que les objets sont eux-mêmes unis ou bien divisés - ainsi qu’est dans le vrai celui qui pense qu’est divisé ce qui est divisé et qu’est uni ce qui est uni, et qu’est dans le faux celui qui formule pensées différentes que la réalité des choses.

Je trouve intéressant que déjà chez Aristote il y a non seu­lement un concept de vérité en tant qu’opposée au faux, mais aussi un concept de vérité en tant qu’opposée à l’ignorance. Je pense qu’il serait très utile de développer cette indication.

réponse: Oui, parce que dans ce que j’appelle la deuxième signification du vrai, à savoir l’attestation que je peux, le contraire du vrai c’est le soupçon. Je soupçonne qu’il y ait d’autres forces qui agissent et alors là nous retrouvons tout ce que j’avais appelé l’«Ecole du soupçon», chez Marx, chez Nietzsche, chez Freud. Le doute, le soupçon, l’ignorance sont, peut-être, trois modalités opposées au vrai, parce qu’il y a aussi le caché chez Heidegger. C ’est, peut-être, intéressant de reprendre l’herméneutique de l’idée de vérité par la pluralité des contraires. Parce qu’il y a aussi la problématique de la véracité. Moi, je suis très très frappé de voir que les Médita­tions cartésiennes commencent avec une mise en doute. Mais le doute c’est l’hypothèse que quelqu’un peut me tromper: l’hypothèse du Grand Trompeur. Je suppose que toutes les fois que je dis: «deux plus deux font quatre» en réalité je suis trompé, je suis trompé dans la vision quotidienne, je suis trompé en métaphysique; d’où le doute hyperbolique, qui n’est levé que par l’idée de Dieu, mais d’un Dieu vérace, par l’idée de la véracité divine. L’équivalent que nous aurions c’est, dans l’ordre du langage, la confiance que nous avons dans la

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*VERITÀ DEL METODO

pensée de l’autre, dans la parole de l’autre, ce que Derrida, dans un petit texte sur la religion, appelle «la fois jurée». Dans la philosophie analytique je crois que c’est Davidson qui parle de l’hypothèse de charité: «je crois que vous pensez ce que vous dites», «that you mean what you say». Cela serait un autre aspect de la confiance, qui n’est plus la confiance en moi pouvant, mais en l’autre signifiant ce qu’il dit. Et il y a tout un champ de la phénoménologie du vrai où je ne sais pas exactement quels sont les substituts de l’idée heideggerienne, mais qui explore un champ très vaste de la vérité. Si vous prenez, par exemple, les Ecritures évangéliques, où Jésus dit: «Je suis le chemin, la vérité, la vie», le mot vérité c’est très difficile à placer parmi les catégories grecques. Quoiqu’il y ait une certaine proximité avec l’idée de lumière: il y a un pas­sage de Derrida où il compare révélation et illuminisme, éclai- rement.

Je pense à une plurivocité de l’idée de vérité et il me semble que chez Heidegger il y a un sens maître et puis les autres sont des sens dérivés. Ce qui m’a toujours arrêté chez Heidegger c’est qu’il dit: «il faut dépasser ceci», et puis: «c’est un sens dérivé». Mais il ne refait jamais le trajet inverse, en montrant comment on peut le dériver. D ’abord parce que souvent il n’y a pas de chemin de retour de l’authentique à l’inauthentique. Moi, j’ai vu cela pour l’histoire: on dit que l’historialité est première et que l’historie des historiens est seconde, mais on ne montre pas comment on passe de la Geschichtlicheit à la Geschichte. C ’est un appauvrissement, mais peut-être une alternative réelle.

question: Dans le débat avec Canguilhem vous avez défini la vérité comme «le recouvrement le plus entier qui soit pos­sible du discours et de ce qui est». Si la vérité est ainsi définie, c’est sous-entendu qu’elle sera d’autant plus vraie que plus entier sera le recouvrement du discours et de ce qui est, à savoir de l’être en totalité. La vérité, dans son sens le plus plein et le plus véritable, serait alors le savoir absolu de l’ab-

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solu. C ’est à dire que nous sommes en face d’une définition hégélienne de la vérité. Dans ce sens vous avez raison quand vous dites qu’une telle vérité peut être seulement objet d’es­poir. C ’est toutefois possible, en alternative, une idée plus modeste de vérité.

réponse: Cette idée là de la vérité était très intérieure à mon travail sur la métaphore et sur le récit. Je pense qu’elle restait très liée à l’idée de l’adéquation que j’essayais d’élargir quand même. Je n’avais pas encore aperçu l’idée de la plurivocité de la vérité. Vous avez parfaitement raison de dire que l’idée d’un recouvrement le plus entier possible conduit, c’est vrai, à un rêve hégélien, mais on pourrait, peut-être, aussi la tenir comme idée régulatrice et non comme effectuation dans un discours effectif.

Mais ce qui est aussi douteux dans cette définition, c’est «ce qui est», parce que l’on retrouve alors la plurivocité du côté de ce qui est. C ’est alors que l’on peut adopter l’idée, qui est encore d’Aristote, qu’il y a autant de méthodes qu’il y a d’objets. Alors il faut tenir compte d’une plurivocité des champs, des domaines. On peut dire que les transcendantaux (le beau, le bon, le vrai) sont des régions distinctes de l’adé­quation. Aujourd’hui je suis beaucoup plus attentif à la frag­mentation des champs d’exploration. Un des points sur les­quels je reste toujours en débat avec moi-même, c’est la pré­tention qu’il y aurait une vérité des propositions morales. Dans un texte que j’ai fait pour l’Institut Catholique, pour le centenaire, sur l’idée de justice, je disais que l’idée de justice est distincte de l’idée de vérité et que je ne peux pas dire que la proposition «ceci est juste» est, en plus, vraie, parce que dire qu’elle est vraie c’est simplement redoubler son injonc­tion. Cela serait donc une approbation de l’injonction, mais là il y aurait alors une sorte de redondance. Moi, je défendrais l’idée de la spécificité du pratique, de la région des proposi­tions pratiques. Est-ce que c’est kantien de dire que la raison pratique et la raison théorique ont leurs modes de fonction-

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nement propres? Est-ce que, alors, on peut dire qu’il y a une vérité des propositions pratiques? Moi, je dirais qu’il y a une autorité de l’injonction, qui se fait reconnaître par sa capacité d’universalisation (comme chez Kant), ou de contradiction performative (comme chez Habermas et Apel). Mais, juste­ment, une contradiction performative qui argumente contre le sceptique qui dit que l’idée de validité n’est pas une idée valide, et qui lui répond: «vous vous contredisez dès que vous commencez à discuter parce que vous admettez la validité de votre argument contre moi, donc vous êtes quand même sous le régime de l’idée de validité (Gültigkeit)». Alors, donc, on demande si là on peut donner une valeur cognitive à cette affirmation, si la force de l’injonction n’est pas autovalidée. Au fond je reste fidèle à l’idée scolastique de la pluralité des transcendantaux: le beau, le bon (le juste), le vrai, ont chacun leur mode d’autoprésentation (Selbstdarstellung). Celle du juste est une injonction, celle du vrai c’est la vérification, ou l’at­testation, ou la manifestation (les trois modalités dont j’ai parlé); pour le beau je ne sais pas s’il y a une unité: est-ce que le plaire, par exemple, serait... Chez Kant le jugement esthé­tique se fonde sur le plaire sans raison, donc l’équivalent de la vérité serait la communicabilité du jugement du beau, du jugement du sublime. Mais, je serais beaucoup plus pour une plurivocité de l’idée de vérité.

question: Le fait d’avoir renoncé à l’idée d’une vérité incontestable n’expose-t-il pas la pensée contemporaine à ne pas pouvoir condamner des atrocités effroyables comme cel­les qui ont eu lieu pendant la seconde guerre mondiale? Ne pensez-vous pas que le manque de confiance dans la raison qui atteint la plupart de la philosophie contemporaine ait comme conséquence celle de faire que notre horreur à l’égard de la violation des droits de l’homme soit fondée, en dernière analyse, seulement sur le sentiment ou sur le goût, qui sont pour leur nature changeants et instables. Je ne veux pas dire que la certitude des principes puisse, toute seule, arrêter la

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violation des droits de l’homme. Je veux dire, au contraire, que seulement à partir de la certitude des principes il est possible de développer un travail pédagogique adéquat et une condamnation forte est aussi possible, qui ne soit pas simple­ment l’opposition d’une opinion à une autre opinion qui ait la même valeur que la première.

réponse: Moi, je suis tout à fait d ’accord avec vous. Je n’ai jamais soutenu des choses de ce genre et c’est précisément parce que j’ai défendu entièrement l’idée de l’autonomie du bon et du juste. Ce n’est pas parce que je distingue le bon et le juste de l’idée de vérité qu’elle perd sa force, au contraire, c’est cela la force de la raison pratique. Distinguer la raison théorique de la raison pratique, ce n’est pas désarmer la rai­son, c’est plutôt lui donner un autre mode, qui est la force de l’impératif. Kant distingue toujours entre obligation et impé­ratif, parce que l’obligation vaudrait pour tous les êtres ra­tionnels, mais nous avons aussi l’impératif, parce qu’il y a la résistance du désir. C ’est-à-dire que l’obligation prend la forme du commandement, mais l’obligation, dans sa pureté profonde, c’est la contrainte de la raison pratique. Je rejoins par cela le livre de Charles Taylor The Sources o f the Self, où il parle des évaluations fortes et où il dit que la capacité d’évaluation est irréductible au sentiment, au désir et, donc, elle repose sur l’irréductibilité de la force prescriptive à la qualité descriptive du discours empirique. Mais il y a la description et aussi l’ordre du plaire, du désir, du sentiment et, donc, de tout ce qui a nourri les morales émotionnelles. Alors Kant cherchait dans le test d’universalisation une sorte de vérification d’ap­pliquer à chaque maxime, pour savoir si elle est un devoir ou pas. Mais que la force prescriptive du devoir soit originaire, ne doit rien au test de l’universalisation, qui est un test appli­qué à des maximes. Je veux savoir: est-ce que c’est un vrai devoir? Est-ce que cela résiste donc au test d’universalisation? Mais c’est simplement pour voir si ma maxime vaut comme un impératif, mais que l’impératif soit impératif il a en lui sa

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force de prescription. Je suis kantien là, mais les scolastiques, lorsqu’ils distinguaient, parmi les transcendantaux le bon du vrai, ils supposaient que le bon a sa force d’automanifestation, qu’il se fait reconnaître. Je suis d’accord pas seulement avec Kant mais aussi avec Moore, lorsqu’il disait que le bon est une qualité, comme le goût. Ce n’est pas par hasard que Kant, d’ailleurs, a gardé pour l’esthétique le Geschmack, le goût, qui peut être le point de croisement entre le bon et le beau.

L’ontologie

question: Vous, dans Soi-même comme un autre, en af­frontant les divers facteurs de résistance que sembleraient empêcher la réappropriation de la notion de l’être comme acte, en faveur d’une ontologie de l’ipseité, vous dites que l’assertion aristotélicienne d’une primauté de l’acte sur la puissance (de l’enèrgeia sur la dunamis) fait problème.

Heidegger aussi privilégiait la puissance par rapport à l’acte, et, ceci, en vertu d’une interprétation des notions d’acte et de puissance tout à fait différente de celle d’Aristote. Dans le cours du semestre d’été du 1931, dédié à Aristote, Métaphy­sique Thêta 1-3, Heidegger semble plaider pour une primauté de la dunamis sur 1’ enèrgeia, au contraire qu’Aristote. Hei­degger traduit dunamis avec force {Kraft) et dit que dunamis n’est pas l’art de guérir, propre du médecin, mais la force de guérir, propre d’une plante. Aristote, quand il veut montrer, contre les mégariques, que la dunamis existe aussi quand on ne la voit pas, il cite comme exemple celui de l’architecte, qui a la capacité de bâtir aussi quand il ne l’exerce pas. Heidegger, au contraire, cite comme exemple celui du sprinter, qui est à genoux sur la ligne de départ, prêt à bondir. Son être à ge­noux, en effet, c’est bien différent que l’être à genoux d’une vieille paysanne, à genoux en face d’une croix champêtre. La dunamis n’est donc pas comparable, selon Heidegger, à un art (entendue comme capacité), mais à une force naturelle. Vous,

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de la même façon que Heidegger, me semble-t-il, pensez à une primauté de la dunamis. En effet vous opposez la notion d’être comme acte et puissance à l’être comme substance, de même que Heidegger opposait la notion d’être comme dunamis à l’être entendu comme pure présence, à savoir comme ousie. Vous, dans Soi-même comme un autre, écrivez que chez Aris­tote l’affirmation d’une primauté de l’acte sur la puissance est fonctionnelle à l’intersection des deux significations primiti­ves de l’être, celle de l’être selon les catégories et celle de l’être en tant qu’acte et puissance. Or, vous refusez cette in­tersection. L’affirmation d’une primauté de la puissance sur l’acte vous en offre l’occasion, en vous donnant la base théo­rique pour l’opposition entre une ontologie de l’être comme acte et puissance, où la puissance a la primauté sur l’acte, et une ontologie de l’être en tant que substance.

Heidegger avait fait la même chose: il avait, en effet, durement critiqué l’ontologie de la présence, de l’être produit et, finalement, de l’ousie, en lui opposant une ontologie de l’être comme dunamis.

Alors, quelle est votre dette à l’égard de Heidegger, pour ce qui concerne les notions d’acte et de puissance et pour ce qui concerne leur relation, et dans quelle mesure est-ce que vous continuez à être proche d’Aristote?

réponse: Moi, je crois que l’essentiel se joue, pour moi, dans la phénoménologie, dans la phénoménologie du je peux. Je l’ai écrit dans le petit article que vous avez lu, dont vous dites que vous l’avez apprécié, où je montre la hiérarchie des discours...

question: De la métaphysique à la morale?

réponse: Là je montre que les catégories supérieures régis­sent des catégories moyennes, comme celles de l’analogie de l’agir. Mais l’analogie de l’agir se joue sur une phénoménolo­gie très différentiée du je peux parler, je peux agir, je peux me

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raconter et de Pimputabilité, à savoir la capacité de me desi­gner moi-même. Alors je dirais que c’est la phénoménologie du je peux qui tranche et qui me permet de privilégier la lecture du rapport dunamis - enèrgeia au niveau de sa capacité d’articuler le discours phénoménologique.

J ’ai proposé une sorte d’articulation en trois niveaux: un discours phénoménologique élémentaire, où je décris qu’est- ce que percevoir, qu’est-ce que vouloir, qu’est-ce que désirer; deuxièmement un niveau que j’ai appelé alors herméneutique, où j ’ai la notion de l’analogie générale de l’agir, où je peux dire que le je peux parler, le je peux..., tous les je peux, sont structurés par l’idée de l’être agissant et souffrant. Alors c’est ce niveau que j’appelle l’anthropologie philosophique, mais qui est coiffé, en quelque sorte, par les catégories de troisième niveau. Mais je fais aussi le trajet de retour, où je dis qu’en redescendant de la notion de l’être comme agir, comme enèrgeia et dunamis, j’en trouve le champ d’effectuation dans l’anthropologie de l’être agissant, de l’homme comme être agissant. Et le concept d’être agissant trouve son effectuation dans une phénoménologie très concrète, très descriptive: qu’est-ce que pouvoir parler, qu’est-ce que ne pas pouvoir parler, etc.... Quelles sont les modalités de puissance qui re­doublent les modalités d’impuissance? Moi, je suis très frappé de voir que chez Spinoza il n’y a pas d’alternative entre enèrgeia et dunamis et que, au fond, le conatus c’est l’un et l’autre.

question: Peut-être que la différence entre Aristote et Spinoza c’est une différence de point de vue: c’est-à-dire que Aristote distingue, du point de vue abstrait, la puissance de l’acte, tandis que Spinoza vise à la chose concrète, qui est toujours un mélange d’acte et puissance.

réponse: Oui, c’est ce qui se passe aussi dans l’exemple de Heidegger du sprinter qui est là, prêt à bondir: on peut dire si bien qu’il est en acte qu’en puissance, à savoir qu’il se retient de courir et... il y a aussi des faux départs. Moi, je ne

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suis pas même convaincu par les exemples d’Aristote: un archi­tecte qui ne construit pas c’est un architecte qui fait autre chose, qui va faire son jardin. Qu’est-ce qu’être architecte en puissance, sinon d’être architecte, c’est-à-dire penser, faire des plans et, entre faire des plans et les exécuter, c’est un proces­sus continu. Moi, je suis beaucoup plus frappé par la conti­nuité profonde entre puissance et enèrgeia, puisque enèrgeia c’est Yergon et Yergon, comme nous voyons dans l’éthique, peut être traduit par la tâche (est-ce qu’il y a une tâche pour l’homme, comme il y a une tâche pour le médecin, pour le musicien, pour l’architecte?). Il peut être exercé ou pas exercé, mais il reste ergon. La virtualité n’est pas la même chose que la capacité et là nous sommes dans la virtualité: le sprinter qui est «sur le point de»: il est sur le point de bondir, donc il est déjà bondissant, mais retenu dans l’acte de bonde, il est musculairement déjà prêt, prêt à bondir. Mais là nous tou­chons un certain problème sur lequel Aristote avait été parfai­tement lucide dans le livre Delta sur le possible: il montre qu’il y a le possible logique, le possible virtuel, le possible..., là aussi nous aurions probablement une plurivocité très im­portante. Il y a un possible qu’il n’est pas encore possible, il y a un possible qui est sur le chemin d’effectuation, il y a le possible aussi dans la certitude.

question: Une autre différence entre vous et Aristote c’est que selon Aristote la puissance peut être connue seulement par l’acte (il faut connaître l’acte pour connaître la puissance), tandis que l’attestation c’est une connaissance de la puissance.

réponse: Oui, moi je dirais cela, oui.

question: Alors là vous êtes proche de Heidegger.

réponse: Oui, parce que je dis, dans le petit texte qui s’appelle Qui est le sujet du droit}, que chez un malade men­tal, un prisonnier, enfin des gens qui sont privées des droits,

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etc., leur dignité reste intacte, entière parce que ce que je reconnais comme digne (axios en grec), c’est une capacité qui est empêchée. Par exemple quand je dis que je connais une langue étrangère, quand je ne la parle pas, où est-elle? Ma capacité de parler l’anglais non exercée? Tous les mots que je sais, que je n’emploie pas et, donc, la langue quand je ne m’en serve pas? Alors, est-ce que cela est la même chose que le savoir faire? J ’ai lu une très bonne thèse sur l’idée de poten­tialité chez Leibniz, où on montre que Leibniz a multiplié les significations du possible, du virtuel, etc... Moi, je pense qu’on néglige beaucoup Leibniz, c’est un très très bon philosophe. Son dynamisme lui offre beaucoup de ressources, ou moins autant que Spinoza avec le conatus. C ’est ce qu’il appelle l’appétition, Yappetitus, l’idée de tendance. Est-ce que l’idée de tendance est la même que l’idée de capacité? Je ne sais pas.

question: Dans l’article De la métaphysique à la morale vous définissez la fonction méta- «par deux stratégies distinc­tes et complémentaires: l’une de hiérarchisation, l’autre de pluralisation des principes présumés ou assumés par des pen­seurs d’allégeance différente». Dans la suite vous décrivez la première des deux stratégies, celle de hiérarchisation, en di­sant que «tout discours philosophique visant à la cohérence me paraît comporter des principes dont les uns sont tenus pour dérivés et les autres pour primitifs ou fondateurs». Comme exemple paradigmatique de la stratégie de hiérarchisation vous indiquez les dialogues dialectiques de Platon, mais je pense qu’on peut trouver un autre grand exemple paradigmatique, peut-être le plus grand, de la stratégie de hiérarchisation dans le quatrième livre de la Métaphysique. Aristote, en effet, dans Métaphysique JV démontre la transcendantalité du principe de non-contradiction, en montrant que le principe de non­contradiction est un principe relatif à l’être en tant qu’être et, non, à une partie déterminée de l’être. De cette façon Aristote établit une hiérarchie entre le principe de non­contradiction et les principes sur lesquels les différentes scien­

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ces particulières se fondent. Les principes de la géométrie, de la biologie, des mathématiques sont des principes relatifs à des sciences qui s’établissent à l’intérieur de celle partie particu­lière de la réalité qu’elles ont découpée (l’être en tant qu’espace et forme, l’être en tant que nombre et quantité, l’être en tant que vie), tandis que le principe de non-contradiction a une valence transcendantale. Les postulats de Euclide présupposent la règle de non-contradiction, m ais la règle de non­contradiction ne présuppose pas les postulats de Euclide. La règle de non-contradiction est au sommet de la hiérarchie des principes parce que tout principe inévitablement la présup­pose. Donc on pourrait dire que la stratégie de hiérarchisation dessinée par Aristote dans Métaphysique IV est la stratégie de hiérarchisation par excellence, parce qu’elle parvient jusqu’au principe qui est à la base de tout autre principe, celui que les Grecs appelaient Bebaiotate arché et les Médiévaux appelaient Principium firmissimum, afin de dire qu’il est le plus solide des principes.

Alors, je voudrais vous demander pourquoi est-ce que vous n’avez pas indiqué ce lieu aristotélicien comme exemple paradigmatique de la fonction méta-, plus encore que les dia­logues platoniciens? Qu’est-ce que vous pensez de l’assertion aristotélicienne de la transcendantalité du principe de non­contradiction?

réponse: Je l’ai tout simplement négligée parce que je visais à l’agir humain. Je l’ai négligé mais sans du tout ni l’ignorer ni récuser cette ligne de transcendantalité. Je n’ai retenu que celle dont je me sers, en quelque sorte, dans une philosophie de l’action. Mais c’est vrai qu’il y a une priorité du principe de non-contradiction. Alors, est-ce que ce principe est présupposé dans le champ de la pratique aussi? Chez Kant certainement, puisque d’après lui le menteur qui voudrait ériger le mensonge à règle universelle se contredit. C ’est là dessus, d ’ailleurs, que Apel et Habermas se sont éloignés de Kant et ils ont dit que ce n’est pas une contradiction formelle,

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c’est une contradiction performative. En tout cas chez Kant il n’y a qu’un seul usage de la contradiction qui court, me semble-t-il, de la raison théorique à la raison pratique. Peut- être parce que la notion d’universalisation est elle-même un mixte théorético-pratique. Le seul reproche grave que je fais à Kant c’est que la deuxième Critique est construite sur le modèle de la première, c’est-à-dire: opposition d ’un niveau a p rio ri à un niveau em pirique et, donc, o p p o sitio n transcendental-empirique. Mais peut être que l’ordre de l’action s’oppose à cette décomposition, et alors là je dirais qu’il y a une philosophie de l’action chez Hegel qu’il n’y a pas chez Kant. J ’ai trouvé cette idée, d’ailleurs, chez Charles Taylor, qui a un excellent livre sur le concept d’action chez Hegel, surtout dans les Principes de la philosophie du droit, mais même dans la Phénoménologie. C ’est quand même assez étrange que chez Kant la raison pratique n’est pas la raison théorique, mais elle est construite comme la raison théorique. Et alors ce parallélisme de construction fait que nous avons dédoublé la raison théorique. L’universalisation de la maxime en action a pour repère de cohérence la non-contradiction logique: ce qui n’a jamais convaincu personne, parce que beaucoup de philosophes analytiques, en particulier, ont observé que quand on regarde comment, dans le détail, Kant l’emploie, on voit qu’il retombe sur un argument utilitaire: «et si tout le monde faisait comme moi, alors on ne pourrait pas vivre». Et, alors, l’argument est secrètement empirique, parce qu’il est utilitaire. Moi, je trouve qu’il n’arrive pas à démontrer que le menteur se contredit.

question: Est-ce que l’on peut dire que tous les concepts de la philosophie pratique sont des concepts qui présupposent la règle de non-contradiction en tant que principe de la raison spéculative? C ’est-à-dire: quand je pense au fin, au projet, je peux penser à cela parce que j’oppose le projet à ce qui n’est pas projet, à savoir que tous les concepts moraux sont des concepts qui peuvent être compris par opposition à ce qu’ils

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ne sont pas. Alors là la règle de non-contradiction est le prin­cipe de la détermination même.

réponse: Oui. Pour ce que je me rappelle dans Métaphy­sique IV c’est Yousia qui est en jeu. Parce que dire c’est dire quelque chose, dire quelque chose c’est dire quelque chose qui est. Alors là le principe de non-contradiction opère dans l’ordre de la réalité. On peut dire que Aristote peut être sauvé de la critique kantienne, s’il en a besoin, en disant que ousia a été mal traduit en latin par substantia. Substantia c’est plu­tôt Yhypokeimenon, tandis que ousia c’est l’étant. Et alors les êtres agissants sont des étants et la notion d’étant serait sous- jacent aussi bien au niveau pratique qu’au niveau théorique.

question: Je pense que cette distinction entre ousia et substantia est très importante, parce que c’est la tradition postérieure à Aristote qui a enfermé Yousia dans la substance.

réponse: Oui, mais il faut aussi voir comment la notion de substance est caractérisée. C ’est par rapport à des attributs mobiles, donc à des accidents; alors, évidemment, c’est par là qu’elle s’est endurcie: par l’idée que les accidents changent, mais que l’être reste, puisque je peux l’identifier comme étant le même. Alors c’est la capacité d’identifier comme même: c’est du même couteau que je dis qu’il coupe, que je dis qu’il est fermé. Mousia c’est quand même la capacité d’attribuer, puisque finalement Yousia c’est ce qui n’est jamais prédicat, ce qui est toujours sujet, ceci c’est au fond sa seule caractéristi­que. Je ne pourrais pas parler si je ne pouvais pas attribuer des épithètes à des sujets. Mais alors est-ce que des sujets pour­raient être des épithètes à leur tour? Moi, je crois que ousia c’est ce qui n’est jamais épithète, qui n’est jamais prédicat. Les ousias sont des êtres singuliers, c’est une philosophie de la singularité finalement, elles sont des «ceci». Là c’est toute la thèse de Russell, qui disait que ce ne sont que les déictiques qui sont vraiment des singuliers: «ceci», «ici», «maintenant».

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Alors il ne serait que le déictique qui satisferait la définition aristotélicienne de Y ousia-. ce que l’on peut montrer.

Les philosophes analytiques posaient trois catégories qui satisfaisaient au critère de Y ousia: les déictiques («moi», «toi», «ceci», «cela», «ici», «maintenant», déictiques d’espace, déicti­ques de temps, déictiques démonstratifs, déictiques de l’appel­lation); puis, deuxièmement, les noms propres (à supposer que soit vrai nom propre c’est qu’il y a une seule personne qui le porte). Quelqu’un disait qu’il n’y a que les plaques miné- ralogiques qui soient des vrais noms propres. Je ne suis pas certain qu’il n’y ait pas dans le monde un autre Paul Ricoeur. Il faudrait faire une énumération complète de tous les vivants, je ne peux pas m’assurer qu’il n’y ait que moi; mais la lune, la terre, le Danube, Venise. Et puis, troisièmement, alors, ce qu’ils appelaient les caractérisations définies: le premier homme qui a marché sur la lune, le premier homme qui a fait ceci, il y en a un et un seul; alors ce sont des équivalents des noms propres. Alors cela ne peut jamais être prédicat: vous ne pouvez pas mettre le Danube comme prédicat, il est toujours sujet de quelque chose: le Danube est bleu, le Danube est navigable, le Danube... Moi je trouve très très intéressant l’ap­proche de la philosophie analytique pour cela, parce qu’on sort tout à fait de la querelle des Médiévaux sur la substance, on va directement au critère linguistique de l'ousia: ce qui n’est jamais prédicat. Mais est-ce que cela est un sujet d’inhé­rence? Inhérence... on glisse, peut être, effectivement, vers ce qu’on a appelé ontologie de la substance, qui ne changerait pas. C ’est ce que j’ai appelé le même, n’est-ce pas, dans la distinction entre ipseité et mêmeté. Mais le mot grec auto ne permet pas cette distinction, parce qu’auto veut dire quelque­fois le même et quelquefois ce que j’appelle ipse.

question: Dans l’article De la métaphysique à la morale, vous essayez de rapprocher les deux versants du fossé logique qui sépare métaphysique et morale, jugements de fait et juge­ments de valeur. Vous, dans la quatrième partie de cet essai,

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indiquez trois médiateurs entre métaphysique et morale: l’es­time adressée à l’homme capable, la promesse effectivement tenue, la conviction intime inséparable de sa modalité altruiste, l’équité. Dans tous ces cas vous avez montré qu’il y a une tangence entre le domaine spéculatif et le domaine pratique et vice versa. Dans le premier cas vous avez montré que la série de figures de l’homme agissant (parler, faire, raconter, être comptable de ses actes) ne constitue pas seulement une énu­mération quelconque, mais une suite téléologiquement or­donné et que, dans cette suite, l’ imputation c’est le lieu où la phénoménologie confine à la morale. L’imputation, en effet, ne peut être qualifiée comme morale que sous la condition de placer les actions elles-mêmes sous les prédicats de l’obliga­toire, du permis et du défendu. De cette façon l’écart entre phénoménologie et morale n’est donc pas aboli: il est rendu franchissable. J ’ajouterais: il est rendu franchissable, mais pas franchi. Cette remarque peut être répétée à propos des autres médiateurs. Le verdict de Hume d’une certaine façon demeure indemne, me semble-t-il, parce qu’avoir montré la tangence des deux versants du fossé logique ne veut pas dire avoir montré que les normes m orales peuvent être fondées spéculativement.

réponse: Lorsque vous employez le mot imputation peut être que vous vous référez à des textes où je n’ai pas fait la bonne distinction, et que je fais aujourd’hui, entre imputabi- lité et imputation, parce que l’imputation c’est un jugement. C ’est un jugement porté sur... Je vous impute... Je mets à votre compte une action. L’imputabilité c’est se reconnaître capables d’être sujet d ’imputation et, alors, là c’est une capa­cité, ce n’est pas un jugement. Et, d ’ailleurs, j’ai revu un petit peu la grammaire, plus que la grammaire la lexicographie, si vous voulez, de l’imputabilité. En particulier je me serve de cet argument, que la notion d ’imputabilité apparaît dans la première Critique kantienne, c’est-à-dire dans le théorique: c’est un concept théorique. Elle apparaît dans le cas de la

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preuve de la thèse, dans la troisième antinomie, à savoir que je peux être source d’événements nouveaux, donc commence­ment. Mais le commencement est ce qu’il appelle la sponta­néité de l’action et la spontanéité de l’action donne comme concept de transition vers la morale l’imputabilité. Le juge­ment d’imputation appartient à la Critique de la raison prati­que (je juge que quelqu’un est coupable, etc...). «Etre capable de» c’est l’habilité, la capacité à être imputé, à être l’objet d’un jugement d’imputation. Alors, peut-être, on pourrait voir ce qu’il arrive à votre question lorsque l’on met imputabilité à la place d’imputation.

interviewer: Peut être que là il y aurait un empiétement entre domaine spéculatif et domaine pratique, non seulement une tangence.

réponse: Moi, je dirais que c’est la condition existentielle d’être un sujet moral.

interviewer: Je vais-y réfléchir.

question: Vous avez fait allusion plusieurs fois, mais tou­jours avec beaucoup de circonspection, à ce que, de quelque manière, on pourrait appeler la couche théologique de l’être. Dans Soi-même comme un autre vous parlez d’un «fond d’être à la fois puissant et effectif, sur lequel se détache l’agir hu­main» et, dans l’article De la métaphysique à la morale, vous allez jusqu’à dire que ce fond d’être c’est le «Dieu des philo­sophes», même si, après, vous corrigez tout de suite cette af­firmation en disant que ce Dieu «n’a de commun que le nom avec le Dieu que l’on peut prier». Dans l’article Négativité et affirmation originaire vous aviez déjà parlé d’un «acte d’exister qui est sans essence ou que toute son essence est d’exister» et vous avez dit que penser cet être «c’est penser Yarché au double sens de commencement et de fondement de tout ce que nous pouvons poser et déposer, croire et mettre en doute». Tou­

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jours dans le même article vous avez affirmé que l’idée d’un tel être est «l’idée de quelque chose qui fait commencer le reste sans avoir soi-même de commencement». Finalement, dans votre écrit sur Exode 3.14 vous affirmez que «il demeure douteux que, dans la traduction en langue moderne, on puisse faire l’économie du verbe être ou de formes verbales appartenant au même champ sémantique». En outre la bonne partie de cet essai vise à montrer que «les considérations ontologiques les plus audacieuses des médiévaux se trouvent en complète opposition avec une conception «abstraite» ou «essentielle» de l’Etre, sous Pimçulsion précisément d ’Exode 3.14».

A côté de ces affirmations intéressantes, toutefois, il y en a d’autres qui sembleraient aller dans une direction différente. Je pense, par exemple, à les observations que vous avez fait dans la préface du livre que Maurizio Chiodi a dédié à votre pensée, où vous écrivez que «La seule réponse que je puisse faire à cette invitation à combler, par une ontologie de l’être absolu ou inconditionné, l’écart entre une ontologie, qui reste liée à une anthropologie philosophique, et une herméneutique biblique esquissée dans de nombreux articles dispersés, sera de dire que je ne conçois pas du tout l’ontologie de l’être comme un tel chaînon intermédiaire. Comme je l’explique plus longuement dans Soi-même comme un autre, les significations de l’être dont parle Aristote permettent de préciser le statut de tels et tels êtres (ou étants), par exemple les personnes et les choses, mais non d’élaborer une théorie de l’être en tant qu’être qui serait non seulement distincte de ces significations multiples, mais qui en outre permettrait de désigner un être qui à lui seul serait l’être. C ’est pourquoi l’herméneutique biblique reste pour moi le chemin sur lequel je m’avance à mes risques et périls pour donner un sens à la poétique de la volonté».

Mon problème, alors, c’est de comprendre le rapport qu’il y a entre ce que vous dites dans ce passage et cette esquisse d’une théorie de l’être que nous avons vu s’annoncer dans les écrits que j’ai cités.

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Réponse: Il y a effectivement trois ou quatre textes qui sont comme des espèces d’avancées risquées dans cette direction là et moi aussi j’y suis maintenant sensible, d’ailleurs sous l’influence de Domenico Jervolino. Parce que dans son livre L’amour difficile Jervolino a lu tous ce textes là et il dit: «Ricoeur va beaucoup plus loin qu’il dit, lorsqu’il dit qu’il est agnostique en philosophie, mais en effet ce n’est pas vrai» et alors, lui aussi, il a repéré tous ces textes là et bon, mainte­nant je suis beaucoup plus attentif aux échanges. Je me de­mande si justement en effet il n’y a pas eu des espèces d’avan­cées que j’ai comme raturées et même censurées, pour une raison d’ascétisme que j’ai trahi dans ce cas là, mais en tout cas que je n’ai pas respecté et, donc, elles sont des espèces d’avancées aventureuses. Moi, j ’avais d’ailleurs concédé à Gilson le concept de métaphysique biblique à propos d ’Exode: peut être que chez Saint Thomas il y ait des infiltrations bi­bliques dans l’aristotélisme, c’est vrai. Mais il y a un élément de non-réconciliation entre les deux tendances: l’une, donc, vers l’affirmation originaire, ce fond d’être et, d ’autre part, dire non, je ne veux pas entendre parler d’un Dieu des phi­losophes, Dieu pour moi c’est le Dieu de la Bible. Cet ascé­tisme conceptuel, non seulement je ne l’ai pas toujours tenu, mais, peut-être, est-il intenable... A cause de l’affirmation originaire finalement, qui est le côté Nabert et, peut-être, une sorte de fascination spinoziste, la sentence de la substantia actuosa.

question: J ’étais frappé hier soir quand vous nous avez dit quels sont les dix textes philosophiques que vous sauveriez, parce qu’il n’y avait pas des textes des philosophes médié­vaux.

réponse: Oui, oui, mais cela c’est la culture française fina­lement, où le Moyen Age c’est perdu: la cause c’est la Révo­lution française, on a coupé tout le Moyen Age. Vous savez où j’ai fait des découvertes? C ’est effectivement chez les Anglo-

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saxons: ils sont tout à fait à l’aise dans le Moyen Age, même les philosophes analytiques, vous les trouvez prendre un argu­ment chez Saint Thomas d’Aquin... Les Français jamais, ja­mais. Ce n’est que maintenant que nous sommes en train de rouvrir un peu ce dossier et pas tellement sous l’influence des neothomistes, qui ont plutôt confirmé la doctrine de Saint Thomas (la seule exception c’était finalement, dans l’univer­sité française, Gilson, mais parce qu’il a commencé par Des­cartes). Mais, alors, maintenant il y a une réouverture du Moyen Age par un homme, je ne sais pas si vous l’avez ren­contré, qui s’appelle Alain De Libéra et qui est un très bon philosophe. Il ouvre le Moyen Age en disant que Saint Tho­mas c’est un des philosophes et que, justement, le Moyen Age c’est d’une richesse incroyable.

Et puis, alors, le XIV-ème siècle a été réévalué par la philosophie analytique, parce qu’il y a beaucoup de proximité entre la façon de discuter sur les universaux et la philosophie analytique. Davidson dit que ce qui existe dans le monde ce sont des événements, des singularités qui arrivent. Il continue, d’ailleurs, un aspect de la philosophie grecque qui est celui des stoïciens: les stoïciens disaient que ce qui existe est ce qui arrive, ce n’est pas qu’il y ait un couteau, mais que le couteau coupe. Que le couteau coupe: cela c’est un événement. Alors, avec Davidson précisément, nous avons la jonction entre la philosophie de l’événement et la philosophie de l’action: c’est arriver et faire arriver, ce qui arrive et ce qu’on fait arriver.

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BIBLIOGRAFIA

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1. Bibliografie generali

La migliore bibliografia sistematica attualmente disponibile degli scritti di e su Paul Ricoeur è la seguente:

1985Paul Ricoeur, Bibliographie systématique de ses écrits et des publications consacrées à sa pensée (1935-1984). A Primary and Secondary Systematic Bibliography (1935-1984), a cura di RD. V ansina, Leuven, Editions Peeters, Louvain-La-Neuve, Editions de l’Insitut Supérieur de Philo­sophie, 292 pp.

La bibliografia del Vansina è stata arricchita dal suo autore con i Compléments («Revue philosophique de Louvain», 89, 1991, pp. 243- 288), in cui vengono indicati tutti gli scritti di Ricoeur pubblicati sino al 1990.

Accanto alla bibliografia del Vansina vanno ricordate anche le se­guenti bibliografie:

1979L apo in te F r . H ., Paul Ricoeur and His Critics: A Bibliographical Essay, in Reagan Ch. (a cura di), Studies in the Philosophy of Paul Ricoeur, Athens (Ohio), Ohio University Press, pp. 163-177.

1981G a rc ia L.M., Bibliography, in Between Responsability and Hope. The Meaning of Man in Paul Ricoeur’s «Philosophy of the Will» and Social- Political Writings, dissertazione di dottorato, Université Catholique de Louvain, Louvain-La-Neuve, Institut Supérieur de Philosophie, h, pp. 3-111.

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BIBLIOGRAFIA

2. Bibliografia scelta1 degli scritti di Paul Ricoeur

1947Karl Jaspers et la philosophie de l’existence (in collaborazione con M. Dufrenne), Paris, Seuil, 399 pp.

1948Gabriel Marcel et Karl Jaspers. Philosophie du mystère et philosophie du paradoxe, Paris, Temps présent, 455 pp.

1949Husserl et le sens de l ’histoire, «Revue de métaphysique et de morale» 54, n. 3-4, juillet-octobre, pp. 280-316.

1950Philosophie de la volonté, i. Le volontaire et l ’involontaire, Paris, Aubier, 464 pp.

Introduzione e traduzione di E H u sse r l, Idées directrices pour une phénoménologie, Gallimard, Paris, xxxix-567 pp.

1951L’unité du volontaire et de l’involontaire comme idée-limite, «Bulletin de la Société Française de Philosophie», 45, n. 1, janvier-mars, pp. 3-29.

Analyses et problèmes dans «Ideen //» de Husserl (i partie, suite), «Revue de métaphysique et de morale», 56, n. 4, octobre-décembre, pp. 357- 394; 57, n. 1, janvier-mars 1952, pp. 1-16.

1952Méthode et tâches d ’une phénoménologie de la volonté, in a a .v v ., Problèmes actuels de la phénoménologie. Actes du colloque international de phénoménologie (Bruxelles, 1951), a cura di H.L. van B red a , Paris, Desclée de Brouwer, pp. 110-140.

1953Sur la phénoménologie, «Esprit», 21, n. 12, décembre, pp. 821-839.

1954Appendice alla terza edizione di E. B réh ier, Histoire de la philosophie allemande, Paris, Vrin, pp. 181-258 (3ème éd., 1967).

1 La selezione delle opere incluse nella presente bibliografia è avvenuta in funzione dell’argomento e degli interessi teorici che sono stati oggetto del presen­te lavoro.

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BIBLIOGRAFIA

Sympathie et Respect. Phénoménologie et éthique de la seconde personne, «Revue de métaphysique et de morale» 59, n. 4, octobre-décembre, pp. 380-397.

Kant et Husserl, «Kant-Studien», 46 (1954-1955), n. 1, pp. 44-67.

1955Historie et vérité, Seuil, Paris 264 pp. (3ème éd., augmentée de quelques textes, 1967),

Sur la phénoménologie u. Le «Problème de l ’âme», «Esprit», 23, n. 4, avril, pp. 721-726.

Philosophie et Ontologie /. Retour à Hegel, «Esprit», 23, n. 8, août, pp. 1378-1391.

1956Préface a P. T h éven az , L’homme et sa raison, i. Raison et conscience de soi, Neuchâtel, La Baconnière, pp. 9-26.

1957Phénoménologie existentielle, in Encyclopédie française, xix. Philosophie et religion, Paris, Larousse, 19.10-8 - 19.10-12.

1959Le sentiment, in a a .w . , Edmund Husserl 1859-1959, Recueil com­mémoratif publié à l’occasion du centenaire de la naissance du philo­sophe (Phaenomenologica, 4), La Haye, Martinus Nijhoff, pp. 260-274.

1960Philosophie de la volonté. Finitude et culpabilité, i. Lhomme faillible, Paris, Aubier, 164 pp.

Philosophie de la volonté, a. La symbolique du mal, Paris, Aubier, 355 pp.

Préface à A. Peperzak, Le jeune Hegel et la vision morale du monde, v, La Haye, Martinus Nijhoff.

1962Nature et liberté, in a a .w ., Existence et Nature. Congrès des Sociétés de Philosophie de langue française (Montpellier) 1961, Paris, p.u .f., pp. 125-137.

1963Préface à B. Rioux, L’être et la vérité chez Heidegger et Saint Thomas d’Aquin, vn-ix, Montréal-Paris, Presses de l’Université de Montréal -P.U.F., VII-IX.

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BIBLIOGRAFIA

De l’interprétation. Essai sur Freud, Paris, Seuil, 434 pp.

Préface à R. G u ilead , Etre et liberté. Une étude sur le dernier Heidegger, Louvain-Paris, E. Nauwelaerts - Béatrice Nauwelaerts, pp. 5-8.

Philosophie et vérité (Entretien avec A. Badiou, G. Canguilhem, D. Dreyfus, J. Hyppolite, P. Ricoeur), «Dossiers pédagogiques de la radio­télévision scolaire», 2 7 mars 1 9 6 5 , pp. 1 -1 1 (ristampato in M. F o u c a u l t , Dits et écrits, a cura di D . D e f e r t - F . E w a ld , Paris, 1 9 9 4 , vol. i, pp. 4 4 8 - 4 6 4 ) .

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Discussions. Discussion générale, in a a .w ., Le langage, n. Langages. Actes du XIII Congrès de Philosophie de langue française (Genève 1966), Neuchâtel, La Baconnière, pp. 56-65 e 183-199.

Préface à S . S tra sse r , Phénoménologie et sciences de l ’homme. Vers un nouvel esprit scientifique, trad. fr. di A.L. Kelkel, Louvain-Paris, Publications Universitaires de Louvain - Béatrice Nauwelaerts, pp. 7-10.

Violence et langage, «Recherches et Débats», 16, n. 59, pp. 86-94.

Philosophy of Will and Action, in a a .w ., Phenomenology o f Will and Action, The second Lexington Conference on Pure and Applied Phe­nomenology, 1964, a cura di E.W. S trau s - R.M. G r if f i th , Pittsburgh, Duquesne University Press, pp. 34-60.

1969Le conflit des interprétations. Essais d’herméneutique, Paris, Seuil, 506 pp.Croyance, in Encyclopaedia Universalis, v, Paris, Encyclopaedia Uni­versalis France, pp. 171-176.

1970Qu’est-ce qu’un texte? Expliquer et Comprendre, in a a .w . , Hermeneutik un Dialektik. Aufsätze 11, Spräche und Logik. Theorie der Auslegung und Probleme der Einzelwissenschaften. Hans Georg Gadamer zum 70. Geburtstag, Tübingen, j .c .b . Mohr, pp. 181-200.

The Problem of the Will and Philosophical Discourse, in a a .w . , Patterns o f the Life-World. Essays in Honor o f John Wild, a cura di J.M. Edie - F.H. P ark e r - C.O. S c h ra g , Evanston (Illinois), Northwestern University Press, pp. 273-289.

Tendenze principali della ricerca in filosofia, «Filosofia», 1970, pp. 463- 471.

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1971Langage (Philosophie), in Encyclopaedia Universalis, ix, Paris, Encyclopaedia Universalis France, pp. 771-781.

Liberté, in Encyclopaedia Universalis, ix, Paris, Encyclopaedia Universalis France, pp. 979-985.

Mythe 3. L’interprétation philosophique, in Encyclopaedia Universalis. ix, Paris, Encyclopaedia Universalis France, pp. 530-537.

Ontologie, in Encyclopaedia Universalis, x ii, Paris, Encyclopaedia Universalis France, pp. 94-102.

1972Signe et Sens, in Encyclopaedia Universalis, xiv, Paris, Encyclopaedia Universalis France, pp. 1011-1015.

L’herméneutique du témoignage, in La Testimonianza, Atti del Colloquio internazionale (Roma 1972), «Archivio di filosofia», 42, n. 1-2, pp. 35-61.

La métaphore et le problème central de l ’herméneutique, «Revue philosophique de Louvain», 70, février, pp. 93-112.

1974Place de la notion de loi en étique, Louvain, Maison Saint Jean.

Phénoménologie et herméneutique, «Man and World», 7, 1974, n. 3, agosto, pp. 223-253.

La sfida semiologica, Introduzione e traduzione di alcuni testi inediti o già pubblicati a cura di M. C ris ta ld i con una presentazione di E R icoeur, Roma, Armando, 359 pp.

Science et idéologie, «Revue philosophique de Louvain», 72, mai, pp. 328-355.

Philosophische und theologische Hermeneutik, in P. R ico e u r - E. Jü n g e r , Metapher. Zur Hermeneutik religiöser Sprache (Evangelische Theologie, Sonderheft), München, Kaiser Verlag, pp. 25-45 (trad. it. di G. Grampa in R R ico eu r - E. Jü n g e r , Dire Dio. Per un’ermeneutica del linguaggio religioso [Giornale di teologia, 113], Brescia, Queriniana, 1978, pp. 73- 107).

1975La métaphore vive, Paris, Seuil, 414 pp.

La tâche de l ’herméneutique, in a a .w , , Exegesis. Problèmes de méthode et exercises de lecture (Genèse 22 et Luc 15), a cura di F. B o v on - G. R o u ille r , Neuchâtel-Paris, Delachaux et Niestlé, pp. 179-200.

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INDICE DEI N O M I

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Agostino, santo, 1 2 0 ,1 2 1 ,198 ,199 ,200 Albano, P.J., 77 n, 78 n, 152 n, 153 n,

253Alberto Magno, 200 Althusser, L., 38Anscombe, E., 55 n, 62, 6 3 ,6 4 e n, 107,

108,109 Anseimo d’Aosta, 2 00 ,202 Apel, O., 247, 274, 281 Aristotele, 19, 20, 28, 29, 31, 46, 53,

54 n, 58 e n, 59, 60 e n, 61, 64, 69, 76, 77, 120, 121, 127 e n, 128 e n, 138 ,145 ,158 ,166,167,169,170,171 e n, 1 7 3 ,1 8 6 ,1 8 7 ,1 8 9 ,2 0 5 ,2 0 7 e n, 208 n, 209 e n, 210, 212 e n, 213, 214 n, 215, 216 e n, 217, 218, 225, 227, 228, 229, 233, 236, 237, 239, 245, 253, 254, 257, 265, 266, 267, 270, 271, 273, 276, 277, 278, 279, 2 8 0 ,2 8 1 ,2 8 3 ,2 8 7

Aron, R., 110Aylesworth, G.E., 138 n, 139 n

Badiou, A., 57, 65 Balzarotti, R., 130 n Barth, K., 152 n, 225 ,256 Barthes, R., 40'Baumgarten, A.G., 127 Bergeron, R., 77 n, 78 n Bergson, H., 71 Berti, E., 207 n, 212 n Black, M., 73 Bonaventura, san, 200 Botturi, F., 130 n Bourgeois, P.L., 84 n Boutroux, E., 31 Brentano, F., 186 Buzzoni, M., 99 n, 100 n

3

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Canguilhem, G., 57, 64, 65, 66, 67, 68, 6 9 ,7 6 ,272

Cartesio, R., 3 1 ,3 7 , 4 8 ,4 9 , 68, 97, 98, 139 n, 150 n, 1 7 4 ,2 0 2 ,2 2 1 ,2 5 4

Castelli, E., 87 nChiodi, M., 24 n, 77 n, 151 e n, 152 e n,

153 n, 155 n, 215 e n, 287 Collingwood, R.G., 110 Colombo, G., 130 n

Dalbiez, R., 31 Danese, A., 222 n Davidson, 272 ,289 Defert, D., 57 n De Libéra, A., 289 Derrida, J ., 167 ,272 Di Bernardo, G., 63 n Di Censo, J., 54 n Dilthey, W, 4 3 ,7 3 ,1 0 7 ,1 1 0 Dreyfus, D., 57, 65 Dufrenne, M., 33 e n Duns Scoto, G., 200

Eliade Mircea, 39, 9 3 ,1 3 0 ,2 2 5 Epicuro, 131 Euclide, 237 ,281 Ewald, F., 57 n

Feuerbach, L., 39 Filone d’Aiessandria, 199 Fink, E., 34 Fléchet, J ., 65Foucault, M., 57 e n, 65, 66, 67 n, 76,

252 Frege, G., 47Freud, S., 31, 39, 93, 97, 98, 100, 126,

130, 131, 132, 133, 136, 185, 189,247,271

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* ■INDICE DEI NOMI

Gadamer, H.G., 27, 42 e n, 44, 54 n, 1 1 6 ,1 2 5 ,1 2 6 , 137,138 e n, 139 e n, 140, 141, 142, 144, 145, 243, 244, 261,268

Genette, G., 40Gilson, E., 199, 201, 202, 288, 289 Giovanni, san, 205 Greimas, A.J., 40Greisch, ]., 57 n, 62 n, 139 n, 228 n, 229 n

Habermas, J., 25, 26 ,56 n, 117,138 e n, 139 e n, 1 4 0 ,141 ,143 ,144 ,145 ,146 ,2 4 4 .2 4 7 .2 5 2 .2 7 4 .2 8 1

Hahn, L.E., 31 n Halévy, É., 186Hare, R.M., 56 nHegel, F., 23 n, 39, 54 e n, 81, 86,

93, 102, 118 e n, 120, 122, 124 n, 125 e n, 126, 133 ,134 , 149 n, 152 n, 15 9 ,1 6 2 ,181 ,182 ,184 ,234 e n, 266, 282

Heidegger, M., 1 0 ,3 3 ,3 8 ,4 8 ,5 4 n, 55 e n, 60, 61 e n, 62, 69, 70, 75, 76, 98, 1 2 0 ,1 2 1 ,1 4 0 ,1 4 1 ,1 4 3 ,1 5 3 n, 165, 166, 167, 172, 173, 176, 177, 181, 182,183 e n, 1 8 4 ,185 ,186 ,202 ,203 , 212 n, 226 ,2 2 7 e n, 228 e n, 229 e n, 258, 265, 266, 268, 269, 270, 271, 2 7 2 ,2 7 6 ,2 7 7 ,2 7 8 ,2 7 9

Hempel, C., 110 Hesse, M., 73 Hölderlin, F., 203 Hoy, T., 139 nHume, D., 1 9 2 ,2 3 1 ,2 3 2 ,2 8 5 Husserl, E., 17, 32, 33 e n, 34, 35, 37,

44, 45, 48, 84 e n, 120, 121, 150, 175, 176, 177, 178, 179, 221, 222, 235

Hyppolite, J., 57, 65, 66, 76

Jakobson, R., 47 Jaspers, K., 32, 3 3 ,4 9 , 71 Jervolino, D., 24 n, 288

Kant, I., 20, 23 n, 26, 31, 120, 121, 124 n, 149 n, 150 n, 152 n, 155,156, 171 n, 202, 210, 223, 232, 234, 235, 243, 244, 253, 255, 257, 265, 266,2 7 4 .2 7 5 .2 7 6 .2 8 1 .2 8 2

Kearney, R., 57 n, 62 n

Lacan, J., 38Lachelier, J.-E.-N., 3 1 ,1 1 4 ,1 5 5 Lacocque, A., 78 n, 156 n, 195, 214 n,

255 n Ladrière, J ., 269 Lagneau, 3 1 ,114 ,155 Leenhardt, J.-F., 130 Leibniz, G.W, 189 ,198 ,214 n, 254,280 Léon, X., 186 Léonard, A., 153 n, 154 n Lévinas, E., 2 0 ,1 7 7 ,1 7 9 ,1 8 0 ,1 8 5 ,2 0 3 ,

2 0 4 ,2 2 6 ,2 3 5 ,2 5 5 ,2 5 8 Lévi-Strauss, C., 38

Madison, G.B., 89 n, 90 n Maine de Biran, (Marie-François-Pierre

Gonthier), 31 ,175 Marcel, G., 32, 33, 35, 49 Maréchal,}., 77 n, 78 n, 152 n Marion, J.L., 203, 204 Marrou, H., 110Marx, K., 39, 90, 93, 97, 98, 126, 271 Melchiorre, V., 149 n, 221 ,222 e n, 223

e n, 224 e n Merleau-Ponty, M., 1 6 ,1 8 ,8 3 ,8 8 ,2 2 2 e

n, 259 Montefiore, A., 44 n Moore, G.E., 235 ,276 Mounier, E., 33 Mukengebantu, P., 154 n

Nabert, J ., 18, 27, 31, 114, 116, 155, 1 8 9 ,2 4 3 ,2 4 4 ,2 5 9 ,2 6 1 ,2 6 2 ,2 8 8

Newton, I., 269Nietzsche, F., 39, 93, 97, 98, 126, 181,

1 8 2 ,1 8 3 ,1 8 9 ,2 0 3 ,2 7 1 Nkeramihigo, T., 24 n

Orth, E M , 44

Parmenide, 202 ,239 Plotino, 165Pseudo Dionigi Aeropagita, 198, 199,

200Platone, 20, 28, 5 3 ,5 4 n, 71, 166, 169,

1 8 7 ,2 3 6 ,2 4 5 ,2 4 7 ,2 5 8 ,2 6 1 ,2 8 0

Ravaisson, F., 3 1 ,1 8 6 ,1 8 7 ,2 1 4 n Rawls, J., 248 ,251 Reale, G., 208 n, 209 n

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INDICE DEI NOMI

Rickert, H., 110 Rossi, O., 149 n, 153 n Russell, B., 283

Sanchez Sorondo, M., 207 n Sartre, J.-R, 18, 8 3 ,1 5 9 ,1 6 1 ,1 6 2 ,1 6 3 Scheler, M., 34 Schelling, F.W, 189, 254 Schleiermacher, F.D., 2 7 ,7 3 , 243, 244,

261Segarelli, G., 124 n, 125 n Senofane, 165 Silverman, H.J., 139 n Simmel, G., 110Spinoza, B., 54 e n, 71, 173, 174, 189,

2 1 2 ,2 1 4 n, 2 5 4 ,2 7 8 ,2 8 0 Stevens, B., 154 n Strawson, PF., 56 n, 176 Suarez, F., 209

Taminiaux, J ., 229 n Taylor, C., 234 e n, 275, 282 Thévenaz, R, 225

Thompson, J.B ., 56 n Tommaso d’Aquino, san, 54 n, 166,167,

200, 2 0 1 ,2 0 3 ,2 1 8 ,2 3 9 ,2 8 8 ,2 8 9 Tracy, D., 77 n, 78 n, 152 n, 153 n, 253

Van den Hengel, J.W., 23 n Van der Leeuw, 130 Vanhoozer, K.J., 23 n, 24 n, 118 n Van Leeuwen, T.M., 118 n Vattimo, G., 212 n Vico, G., 139 n Vigna, C., 216 e n Volpi, F., 212 n

Wahl, J ., 186 Weber, M., 91, 110, 144 Weil, E., 252 Welsen, P., 100 nWittgenstein, L., 55 e n, 56 n, 165, 175,

188Wolff, C., 127,198Wright, G.H. von, 55 n, 62, 63 e n, 64,

108,109