Fabio Lando - Concorso Fahrenheit 451

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FONDAMENTI STORICO EPISTEMOLOGICI FONDAMENTI STORICO EPISTEMOLOGICI FONDAMENTI STORICO EPISTEMOLOGICI FONDAMENTI STORICO EPISTEMOLOGICI DELLA GEOGRAFIA DELLA GEOGRAFIA DELLA GEOGRAFIA DELLA GEOGRAFIA ALCUNE IPOTESI ALCUNE IPOTESI ALCUNE IPOTESI ALCUNE IPOTESI Fabio Lando Dispensa per l’a. a. 2011-2012

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FONDAMENTI STORICO EPISTEMOLOGICIFONDAMENTI STORICO EPISTEMOLOGICIFONDAMENTI STORICO EPISTEMOLOGICIFONDAMENTI STORICO EPISTEMOLOGICI

DELLA GEOGRAFIADELLA GEOGRAFIADELLA GEOGRAFIADELLA GEOGRAFIA

ALCUNE IPOTESIALCUNE IPOTESIALCUNE IPOTESIALCUNE IPOTESI

Fabio Lando

Dispensa per l’a. a. 2011-2012

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1 – L’interpretazione paradigmatica.

Non si può capire la scienza di nessun periodo senza conoscere i principî esplicativi accettati dagli esperti.

Thomas Samuel Kuhn, 1974, “La nozione di causalità in fisica”, p.14

A voi tutti è noto come poche scienze sieno state concepite, nei tempi diversi e dai diversi autori, in modo più disparato della geografia, poche diedero luogo a maggiori dispute sopra contenuto, limiti, divisioni e perciò posseggono una più ricca letteratura metodologica.

Olinto Marinelli, 1902, Alcune questioni… p.218.

Throughout its history geography has been characterised by an unceasing methodological debate upon its scope and content, a debate that has occasionally scorched the pages of its varied journals.

Wayne K.D. Davies, 1969, Theory, science and geography, p.44. La géographie, comme toute science, s’est adaptée a l’évolution de son objet… C’est en ce sens que l’on peut parler d’ «ancienne» et de «nouvelle» géographie. A un moment donnée, une science, et surtout une science d’observation (le terme n’excluant évidemment pas la recherche de l’explication) est conditionnée à la fois par l’état de son objet e par les moyens dont elle dispose pour l’étudier.

Pierre George, 1981, “Introduction”, p. 9.

1.1 – Premessa

La geografia è un ramo della conoscenza presente sin dall’antichità ed il suo carattere era –

a dire di tutti– lo studio e la descrizione della terra. Ne conseguiva che il suo campo d’indagine

doveva comprendere sia la natura (conformazioni della terra, piante, rocce, mari, clima…) sia

le società umane (i gruppi sociali con la loro storia e la loro cultura spazialmente considerate)

sia i loro rapporti, relazioni, influenze, influssi… Inoltre l’interesse per problemi geografici e la

presenza di scritti di resoconti di viaggi e descrizioni di regioni apparvero molto prima che la

geografia fosse riconosciuta come disciplina scientifica. Come nota Arild Holt-Jensen,

“è difficile immaginare che non vi sia mai stato un qualsiasi popolo che non abbia pensato geograficamente, che non abbia tenuto in considerazione le condizioni del territorio in cui viveva e che non si sia mai domandato se altri popoli vivessero in altri luoghi” (Holt-Jensen, 1999, p.17).

Nel corso della sua storia la geografia, forse per la vastità del suo campo d’indagine, ha

dovuto confrontarsi con due fondamentali problemi d’ordine epistemologico:

–– il primo, il più vecchio e sicuramente il più importante, riguarda la sua duplice valenza: la

disciplina poteva essere considerata o una scienza fisico–matematica (perché rivolta allo studio

della struttura fisica della terra), o una scienza storica (perché legata alla descrizione di luoghi

attraverso l’osservazione e l’indagine).

–– il secondo, sviluppatesi più recentemente nella seconda metà del 1900, è relativo al

problema della descrizione.

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Ed è questo ultimo che, probabilmente, rappresenta l’elemento paradigmatico chiave: da

una parte definisce il campo d’azione della geografia caratterizzando la sua valenza, dall’altra

esprime la sua ambiguità. Come nota Franco Farinelli (1987, p.8)1:

“l’ambiguità fondamentale della parola geografia (e di conseguenza del sapere che essa identifica) risiede prima di tutto nel duplice significato del secondo dei due termini che la compongono. Geo viene dal greco antico e vuol dire Terra. Ma Grafia vuol dire sia immagine che scrittura, sia disegno (carta geografica) che discorso scritto, cioè descrizione. La differenza fra i due significati è cruciale. Il primo si riferisce ad un sistema chiuso di modelizzazione del mondo, ad un codice apodittico e normativo… La seconda accezione del termine grafia rimanda alla presenza, implicita in qualsiasi pagina scritta, di un codice aperto per la concettualizzazione della realtà”.

La Geografia è quindi, e fin dalla sua origine, sia disegno del mondo [termine con cui qui si

vuole evidenziare la sua capacità di sintetizzare e quindi ridurre il mondo, in quanto oggetto di

pensiero, “ad una precisa carta”] sia discorso sul mondo [termine con cui si vuole evidenziare

la sua capacità di essere una scienza capace sia di interpretare “il mondo ed i suoi oggetti” sia

di esprimere un sapere che supporti il loro possesso].

È partendo da quest’ultimo punto che possiamo affermare come, nella sua sostanza, la

geografia fornisca le varie strutture concettuali che informano i nostri atti territoriali e

permettono ai geografi di studiare, analizzare e descrivere –dato il paradigma dominante quel

momento– il processo secondo cui la superficie terrestre [luogo, territorio o paesaggio] si

forma e si evolve.

Nei capitoli che si susseguiranno cercheremo, nel ripercorrere alcune tappe comunemente

ritenute tra le più significative nello sviluppo del pensiero geografico, di individuare i momenti

di continuità e i momenti di rottura che si sono alternati dal 1800 in poi, per meglio capire la

doppia natura –fisica e antropica– che caratterizza la geografia e che ancora oggi, assieme al

problema della descrizione, è oggetto di discussione tra i geografi stessi.

Per fare questo ci avvarremo dell’interpretazione paradigmatica legata allo schema

interpretativo ideato da Thomas Samuel Kuhn, tenendo conto che questo tipo di approccio è

stato adottato anche da numerosi geografi che hanno analizzato l’evoluzione della disciplina2.

1.2 – L’interpretazione paradigmatica dello sviluppo della scienza.

Fino a non molto tempo fa tra ricercatori e scienziati, ma anche a livello di percezione

popolare, regnava la presunzione che esistesse una costante accumulazione di conoscenza e

1 Affermazione simile è anche di A.Lorenzi, 1940, p.5: “Com’è noto, la parola geografia è di origine greca. Pare abbia significato dapprima la sola carta geografica, come si trova presso Plutarco, poi significò anche descrizione scritta della Terra, come si rileva da una lettera di Cicerone ad Attico… Nell’opera De Mundo, che per lungo tempo fu attribuita ad Aristotele… [non] è chiaro se qui si voglia riferirsi al disegno o alla descrizione scritta”. Di F.Farinelli si veda anche l’agile ed importante volume dal titolo Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo pubblicato nel 2004 per i tipi Einaudi nella collana P.B.E. serie Filosofia. 2 Interessante è al riguardo il bel articolo di A.Mair (1986) in cui effettua un’ampia analisi circa le modalità con cui molti ed importanti geografi nordamericani hanno usato –bene o male– il modello kuhniano. Circa la geografia italiana si vedano gli interventi alla Sezione III dell’importante Convegno di Varese del 1980 (G.Corna Pellegrini C.Brusa, 1980) ed in particolare gli interventi di A.Celant, G.Dematteis ed A.Turco.

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cioè che le teorie diventassero sempre più precise e sempre meglio funzionali alla spiegazione

dei fatti. Tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso uno storico della scienza, Thomas

Samuel Kuhn (1922-1996), rigettò questa visione elaborando uno schema interpretativo che

cambiò il “sentire” comune a proposito delle comunità scientifiche e dei loro “prodotti”. Nel suo

testo base, The Structure of Scientific Revolutions, egli prese posizione contro alcune ipotesi

sulla scienza, allora ritenute valide, iniziando col rifiutare la comune concezione che la scienza

potesse sempre presentarsi come un processo di sviluppo lineare e cumulativo; confutando

cioè quella:

“persistente tendenza a fare apparire la storia della scienza come un processo lineare o cumulativo, tendenza che influenza persino gli scienziati che si volgono indietro a riconsiderare la loro stessa ricerca” (Kuhn, 1978, p.169).

O meglio, per dirla con Imre Lakatos “egli respinge l’idea che la scienza cresca per

accumulazione di verità eterne” (1984, p.165).

La scienza non poteva essere quella coerente e ben regolata attività per mezzo della quale

ogni generazione di ricercatori costruiva automaticamente il proprio sapere sulla base dei

risultati ottenuti dai loro maestri: risultati certi ed incontrovertibili da cui partire per le proprie

ricerche e su cui innestare le proprie scoperte. Al contrario, secondo Thomas S. Kuhn, l’intero

processo di sviluppo della scienza avviene:

“senza l’aiuto di un insieme di finalità, o di una verità scientifica stabilita una volta per tutte, della quale ciascuno stadio di sviluppo della conoscenza scientifica costituisca una coppia migliore rispetto alla precedente” (Kuhn, 1978, p.207).

Si tratta piuttosto di un processo che vede l’alternanza di “tranquilli” periodi di scienza

normale, caratterizzati da uno stabile accrescimento della conoscenza, a momenti di crisi che

rappresentano una condizione preliminare necessaria all’emergere di nuove teorie, durante i

quali si manifestano le rivoluzioni scientifiche “episodi rivoluzionari… centrali per il progresso

scientifico” (Kuhn, 1985, p.246). O meglio, come suggerisce Paul Hoyningen-Huene,

“La scienza normale si esaurisce quando la scoperta di anomalie significative rende gradualmente sempre più difficile, se non impossibile, la sua continuazione. Inizia allora una fase di scienza straordinaria, nella quale si va in cerca di nuove teorie e di nuovi strumenti di ricerca (2000, pp.XII-XIII).

Per spiegare il modo in cui le varie scienze si evolvono egli, a differenza dei precedenti

filosofi della scienza da Rudolf Carnap a Karl Raimund Popper, non analizza un corpo

strutturato di proposizioni o teorie ma analizza il modo con cui una comunità scientifica lavora

e trasforma la proprie “credenze scientifiche”3. Da questa serie di riflessioni egli ricavò il

concetto di paradigma e di mutamento di paradigma.

“Nell’uso corrente per paradigma si intende un modello o uno schema accettato, e questo aspetto del suo significato mi ha permesso qui, in mancanza di uno migliore, di appropriarmi del termine ‘paradigma’… In grammatica, ad esempio, amo, amas, amat è un paradigma, perché mostra lo schema da usare nel coniugare numerosi altri verbi latini, ad esempio nell’ottenere laudo, laudas, laudat. In questa applicazione convenzionale, la funzione del paradigma è quella di

3 Per un’interessante interpretazione del suo modo di operare si veda T.S.Kuhn (2008)

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permettere la riproduzione di esempi, ciascuno dei quali potrebbe servire in linea di principio a sostituirlo. In una scienza, però, un paradigma è raramente uno strumento di riproduzione. Invece, analogamente ad un verdetto giuridico accettato nel diritto comune, è lo strumento per un’ulteriore articolazione e determinazione sotto nuove o più restrittive condizioni” (Kuhn, 1978, p.43)4.

Con il termine di paradigma scientifico Thomas S. Kuhn vuole così indicare una serie di:

“conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca”5.

Il paradigma nei periodi di scienza normale risulta implicito in quanto la scienza stessa è

parte dell’ordinamento entro il quale viene portata avanti. Ordinamento che non racchiude

solamente concetti e visioni del mondo, ma anche valori e modi d’agire “comprendendo tutti gli

impegni condivisi da un gruppo scientifico” (Kuhn, 1985, p.322). In altre parole, tutta l’attività

scientifica fa parte del paradigma dominante, per cui inevitabilmente

“la ricerca normale… poggia saldamente su di un consenso permanente acquisito per mezzo dell’educazione scientifica e rafforzato dalla successiva attività nella professione scientifica” (Kuhn, 1985, p.246).

È chiaro quindi come la percezione dei ricercatori risulti fortemente condizionata dal proprio

paradigma tanto che la loro identificazione con esso

“è tale da produrre una sorta di attaccamento che, in generale, porta il ricercatore ad opporsi sistematicamente all’aggressione contro il paradigma che gli serve da modello” (Racine Cunha 1984, p.126).

Non solo ma “ciascun gruppo usa il proprio paradigma per argomentare in difesa di quel

paradigma” (Kuhn, 1985, p.121).

Per questo motivo è estremamente difficile delineare il paradigma corrente, mostrare dove

sono i suoi limiti, dove corrono i suoi confini; soltanto nei periodi in cui il paradigma cambia se

ne vedono i limiti: anzi, se cambia è proprio a causa dei suoi limiti. Quando l’interpretazione di

un particolare problema scientifico presenta un’anomalia che, permanendo, alcuni ricercatori

considerano non risolvibile entro il paradigma dominante, allora si verificano delle situazioni di

crisi che possono portare alle rivoluzioni scientifiche.

“Le rivoluzioni scientifiche sono introdotte da una sensazione crescente… che un paradigma esistente ha cessato di funzionare adeguatamente nella esplorazione di un aspetto della natura verso il quale quello stesso paradigma aveva precedentemente spianato la strada. Sia nello sviluppo sociale che in quello

4 Affermazione analoga è stata anche ripresa in T.S.Kuhn, 1985, p.XVIII. 5 Questa, occorre ricordare, è la prima definizione di paradigma che appare alla p.10 della premessa del testo base di T.S.Kuhn; definizione per me particolarmente pregnante. Circa un’analisi critica del concetto di paradigma, così come appare in The Structure of Scientific Revolution si veda M.Masterman, 1984, pp.129-163. Occorre però ricordare che il concetto di paradigma, con il suo corollario mutamento di paradigma, non è stato tranquillamente e normalmente accettato –come ricorda lo stesso T.S.Kuhn “le reazioni sono state varie e talvolta rumorose” (1985, p.321)– dalle varie comunità scientifiche. La discussione meglio conosciuta è un colloquio del 1965, nel quale T.S.Kuhn difende se stesso contro una serie di critiche filosofiche, confluito nel libro di I.Lakatos A.Musgrave, 1984. Non si vuole qui entrare nel merito di queste discussioni; si vuol solo far notare che ormai, a quasi cinquant’anni della sua prima esposizione (la prima edizione del testo base di T.S.Kuhn The Structure of Scientific Revolution è del 1962) lo schema interpretativo di T.S.Kuhn è sicuramente un dato comunemente (se non proprio tranquillamente) accettato.

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scientifico, la sensazione di cattivo funzionamento che può portare alla crisi è un requisito preliminare di ogni rivoluzione” (Kuhn, 1978, pp.119-120)6.

Rivoluzioni scientifiche che provocando dei cambiamenti, negli strumenti ed attrezzature

concettuali delle discipline, romperanno la continuità dei periodi di scienza normale dando

origine a quello che egli definisce un ”riorientamento gestaltico” dell’intero dominio conoscitivo

della scienza7. Ciò significa introdurre una radicale innovazione nel modo di vedere ed

interpretare un dato fenomeno; rimettere in discussione le premesse epistemologiche sulle

quali si fonda la struttura di ricerca di quella scienza e ridefinire i criteri in base ai quali si

giudica circa la validità e la scientificità dei risultati. Ovviamente, come nota Thomas S. Kuhn,

l’assimilazione di un simile “riorientamento gestaltico” richiede:

“la flessibilità e l’apertura mentale che caratterizza, o in verità definisce, il pensatore divergente… non vi sarebbe alcuna rivoluzione scientifica e l’avanzamento delle scienze sarebbe molto piccolo se molti scienziati non possedessero questa qualità in grado elevato” (Kuhn, 1985, p.246).

È chiaro, però, che agli inizi il nuovo paradigma potrà essere accettato solamente da una parte

della comunità scientifica e che, per qualche tempo, coesisterà assieme al precedente. Non

potrebbe essere altrimenti, poiché:

“la nuova teoria implica un mutamento delle regole che governavano la precedente prassi della scienza normale e perciò, inevitabilmente, si ripercuote su gran parte del lavoro scientifico che essi hanno già compiuto con successo” (Kuhn, 1978, p.25).

È però ovvio, secondo Thomas S. Kuhn, che: se le rivoluzioni comportano, alla fine, un

mutamento di paradigma e se la scienza non procede in modo lineare e cumulativo allora “è

impossibile sostenere che esse hanno portato a qualcosa di meglio” e quindi non è certamente

scontato che il nuovo paradigma sia migliore o più perfetto sotto ogni aspetto di quelli

conosciuti prima (Feyerabend, 1984, p.283).

Quasi come corollario al suo concetto di paradigma Thomas S. Kuhn pone poi il fatto che la

scienza è definita dalle comunità di ricercatori e non dai singoli ricercatori. È pur vero che i

singoli ricercatori facendo ricerca producono conoscenza scientifica ma sono le comunità di

6 Interessante è questa sua analogia tra sviluppo sociale e sviluppo scientifico: “le rivoluzioni politiche mirano a mutare le istituzioni politiche in forme che sono proibite da quelle stesse istituzioni… All’inizio è soltanto una crisi che indebolisce il ruolo delle istituzioni politiche, allo stesso modo che -come abbiamo visto- indebolisce il ruolo dei paradigmi. In numero sempre maggiore gli individui si allontanano sempre più dalla vita politica ufficiale e si comportano in modo sempre più indipendente. Quindi, con l’approfondirsi della crisi, parecchi di questi individui si riuniscono intorno a qualche proposta concreta per la ricostruzione della società in una nuova struttura istituzionale. A questo punto la società è divisa in campi o partiti avversi, l’uno impegnato nel tentativo di difendere la vecchia struttura istituzionale, gli altri impegnati nel tentativo di istituirne una nuova” (Kuhn, 1978, pp.120-121). 7 O meglio come nota T.S.Kuhn (1978, p.139): “durante le rivoluzioni, gli scienziati vedono cose nuove e diverse anche quando guardano con gli strumenti tradizionali nelle direzioni in cui avevano guardato prima”. È una posizione probabilmente assimilabile al “mutamento di contesto” analizzata da A.Koyré (1967, 1970). Per un’interpretazione del “riorientamento gestaltico” si veda T.S.Kuhn, 1978, pp.139-165. Come nota S.Toulmin, 1984, p.109: “Il grande merito dell’insistenza di Kuhn sul carattere “rivoluzionario” di alcuni mutamenti nelle teorie scientifiche sta nell’aver costretto molti studiosi ad affrontare fino in fondo e per la prima volta la profondità delle trasformazioni concettuali che hanno caratterizzato talora lo sviluppo storico delle idee scientifiche”.

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ricercatori che, definendo i paradigmi, fanno della loro ricerca una scienza. Qualche anno dopo

la stesura del suo testo base nel rispondere ad alcuni suoi critici egli afferma:

“il termine paradigma entra in stretta vicinanza sia fisica che logica con la frase comunità scientifica. Un paradigma è ciò che i membri di una comunità scientifica, ed essi soli, condividono. Inversamente è il possesso di un paradigma comune che fa di un gruppo di uomini, per altri versi disparati, una comunità scientifica” (Kuhn, 1985, p.322) 8.

Per Thomas S. Kuhn la scienza non è un fatto personale, legato a pochi ricercatori separati

e fra loro in contrasto, ma un fatto fondamentalmente e profondamente sociale:

“una comunità scientifica consiste, secondo questa concezione, degli esperti di una specialità scientifica. Vincolati l’uno all’altro da elementi comuni nella loro educazione e nel loro apprendistato, essi si considerano e sono considerati dagli altri, come coloro che sono responsabili del perseguimento di un insieme di obiettivi condivisi, compreso l’addestramento dei loro successori. Queste comunità sono caratterizzate dalla relativa abbondanza delle comunicazioni all’interno del gruppo e dalla relativa unanimità nel giudizio del gruppo in campo professionale. Con una notevole ampiezza i membri di una data comunità avranno assimilato la medesima letteratura e tratto da essa le medesime lezioni” (Kuhn, 1985, p.324)9.

È chiaro quindi che una comunità scientifica, che forse ora potremmo meglio definire scuola

di pensiero, è l’elemento chiave per la formulazione, accettazione ed eventualmente difesa di

quel insieme di tradizioni, risultati, conquiste, teorie, regole, schemi concettuali che formano

un paradigma scientifico.

Se un ricercatore particolarmente novativo (il pensatore divergente, così come definito

prima) definisce una nuova scoperta, una migliore soluzione ai problemi che il paradigma

dominante non riesce a risolvere o risolve solo in parte, e dopo questo si distacca dalla

comunità di riferimento è certo, secondo Thomas S. Kuhn, che da solo non darà mai origine ad

un nuovo paradigma:

“se uno scienziato sceglie questa via, la sua azione si riflette non sul paradigma ma su lui stesso. Sarà inevitabile che i suoi colleghi lo considerino come il carpentiere che dà la colpa ai suoi strumenti” (Kuhn, 1978, p.105)10.

Al contrario, la sua novazione solo quando sarà fatta propria da una comunità di ricercatori

potrà far parte del vecchio paradigma oppure, scardinandolo, ne darà origine ad uno nuovo. I

ripetuti insuccessi del vecchio paradigma e la dimostrata efficacia di una novazione possono far

cambiare l’opinione ad un gruppo di ricercatori così:

“le soluzioni che soddisfano non possono essere puramente personali ma devono essere accettate come tali da molti. Il gruppo che le condivide non può tuttavia essere ricavato a caso dalla società nel suo complesso, ma deve essere, al contrario, la comunità nettamente definita costituita dai colleghi della stessa specializzazione scientifica” (Kuhn, 1978, p.202).

8 Affermazione simile appare anche nel Poscritto della Struttura delle Rivoluzioni scientifiche (1978, p.213) si veda anche quanto da lui affermato in Riflessione sui miei critici (1984, p.337). 9 Al riguardo si veda anche quanto da lui affermato nel Poscritto della Struttura delle Rivoluzioni scientifiche (1978, pp.213-219) 10 Si veda anche C.G.Hempel (1975, p.66) che discutendo di nuove teorie o nuove ipotesi nota come “la credibilità di una certa [nuova] ipotesi apparirà infirmata quando questa viene a trovarsi in conflitto con ipotesi o teorie che sono accolte, in quel momento, come ampiamente confermate”.

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Non è certamente il singolo scienziato che definisce (o muta) i contenuti della matrice

disciplinare del paradigma dominante la scienza normale di cui fa parte; tutti i cambiamenti o

le accettazioni hanno bisogno dell’approvazione della comunità dei suoi colleghi:

“la scienza non è la sola attività i cui esperti possono essere raggruppati in una comunità ma è l’unica in cui ogni comunità ha il suo pubblico ed il suo giudice esclusivi” (Kuhn, 1984, p.338).

E’ importante sottolineare come all’inizio l’accettazione del nuovo paradigma non sia un

processo “completamente razionale” ma avvenga, al contrario, “soggettivamente”. È ben

difficile per ciascun ricercatore valutare obbiettivamente la supremazia di un paradigma

rispetto ad un altro dal momento che non è possibile fare appello ad un’autorità “super partes”

che possa definire quale teoria sia più scientifica:

“ciò che differenziava le varie scuole non era questo o quel difetto di metodo –tutte erano ‘scientifiche’– ma ciò che chiameremo le loro incommensurabili maniere di guardare al mondo e di praticare la scienza in esso” (Kuhn, 1978, p.22).

Ne consegue che, non essendovi nessuna possibilità di una valutazione superiore e acritica,

solo una profonda persuasione può far prevalere un paradigma sull’altro e colui che cambia:

“deve aver fiducia che il nuovo paradigma riuscirà in futuro a risolvere molti vasti problemi che gli stanno davanti… [e la sua accettazione]… può essere presa soltanto sulla base della fede” Kuhn, 1978, p.190)11.

O meglio e ben più correttamente -come Thomas S. Kuhn in uno dei suoi ultimi interventi ha

spiegato- ciò che gli scienziati concretamente debbono valutare:

“non è la convinzione tout court ma il cambiamento di convinzione… [poiché]… quello che la valutazione mira a selezionare non sono le convinzioni che corrispondono al cosiddetto mondo esterno, concreto, ma semplicemente a un migliore o al migliore complesso di convinzioni effettivamente esistente nel periodo in cui chi valuta esprime il giudizio” (Kuhn, 2000b, p.178) 12.

La transizione paradigmatica, in effetti, può anche apparire come un preciso “atto di fede”,

ma tale atto dipende dal contesto in cui è posto il ricercatore e riflette i vincoli posti dal

momento storico e dalle circostanze personali. Ogni svolta nella storia della scienza è frutto,

infatti, della contemporanea presenza di condizioni sociali favorevoli e di proposte

d’innovazione convincenti. Da un lato è, infatti, necessario che le risposte date da quella

scienza alle domande degli individui e della collettività, fino a quel momento giudicate

adeguate e sufficienti, comincino a rilevarsi limitate o insoddisfacenti. Dall’altro occorre che,

quando si manifestano i sintomi di una crisi del genere, siano disponibili alternative concettuali

capaci di cogliere, al di sotto delle apparenze caotiche, quei nessi e quelle relazioni fra elementi

del mondo reale che hanno rilevanza per le nuove domande nate dall’evoluzione della struttura

11 Questo è un passo molto criticato, circa una sua difesa si veda sia T.S.Kuhn, 1984, p.344-351 sia P.Feyedabend, 1984, pp.291-295. 12 In modo analogo si esprime anche C.G.Hempel (1975, p.67) “Una teoria molto generale che abbia avuto buon esito in molti campi verrà di solito abbandonata solo quando sia disponibile una teoria alternativa più soddisfacente; e delle buone teorie sono difficili ad ottenersi”

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sociale13. Comunque, qualsiasi sia il modo con cui un paradigma viene accettato e fatto

proprio:

“la comunità degli scienziati si impegna, consapevolmente o meno, nei confronti dell’idea che i problemi fondamentali ivi risolti siano in realtà stati risolti una volta per sempre” (Kuhn, 2000a, p.11).

Se è vero quindi che la scelta di abbandonare il vecchio paradigma per il nuovo non è

un’impresa facile ed indolore occorre ammettere che la transizione paradigmatica non potrà

certamente essere né rapida né totale. Non è certo razionalmente possibile pensare che la

comunità di ricercatori possa passare in toto ed immediatamente al nuovo. Nel presentare

queste difficoltà Thomas S. Kuhn cita ironicamente un passo di Max Plank che afferma come

ogni nuova verità scientifica non venga, di solito, accettata facilmente dai suoi oppositori:

“piuttosto essi, gradualmente, muoiono uno dopo l’altro, e una nuova generazione cresce familiarizzandosi con la verità fin dall’inizio” (Kuhn, 2000a, pp.4-5).

È chiaro quindi che, fino a quando il nuovo paradigma non riuscirà ad imporsi scalzando il

vecchio, possono coesistere più paradigmi contemporaneamente:

“durante il periodo di transizione, vi sarà una sovrapposizione abbastanza ampia, ma mai completa, tra i problemi che possono venir risolti col vecchio paradigma e quelli che possono essere risolti col nuovo” (Kuhn, 1978, p.111).

Per le “scienze sociali”, poi, questo discorso si complica ulteriormente. Se nelle “scienze

esatte”, dopo un periodo di assestamento, un paradigma finisce per prevalere sull’altro,

divenendo così la matrice disciplinare della scienza normale adottata dall’intera (o da buona

parte della) comunità scientifica, per le “scienze sociali”, al contrario, la situazione è ben

diversa: diversi paradigmi possono convivere uno accanto all'altro, senza che nessuno riesca a

scalzare in toto gli altri.

Gli esempi che Thomas S. Kuhn presenta nei suoi lavori sono sempre tratti dalla fisica o

dalla matematica, comunque dalle scienze esatte, dove dopo periodi preparadigmatici o di

instabilità si definiscono lunghi periodi di scienza normale. Nelle scienze sociali, invece, i nuovi

paradigmi non riescono in genere a stabilizzarsi abbastanza bene da permettere un periodo

relativamente lungo di scienza normale e questo limite si traduce in una relativamente minore

chiarezza nella definizione della successione diacronica dei vari paradigmi. In questo caso non

è certo possibile affermare che delle osservazioni o analisi territoriali possano essere

compatibili, interpretabili o spiegabili con paradigmi logicamente incompatibili tra loro

(incommensurabili) anche se, in relazioni a quelle osservazioni territoriali, questi possono

sembrare empiricamente equivalenti. Si tratta però sempre di spiegazioni o interpretazioni che,

appartenendo a paradigmi diversi e incommensurabili, non possono essere considerate

equivalenti14. Così nei periodi caratterizzati dalla simultanea presenza di diverse matrici

disciplinari in concorrenza ci si trova sicuramente in difficoltà sia a voler dare una precisa data

13 Si veda al riguardo M.Cini, 1994, pp.17-24. 14 Su posizione simile si veda anche W.V.Quine (1996, pp.103-156) nel discutere, dal punto di vista linguistico, sull’ontogenesi del riferimento.

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di inizio o di fine di ciascun paradigma sia, e principalmente, a ben precisare, constatare o

schematizzare le caratteristiche proprie di ciascuno. E questo potrebbe essere uno dei limiti

che il modello interpretativo kuhniano pone alla sua applicazione in geografia dove non è quasi

mai esistito un preciso dominio di un singolo paradigma.

In questa prospettiva è possibile applicare alla geografia lo schema interpretativo delineato

sopra? Sono convinto che ciò sia possibile, tenendo presente che fin dai primi anni settanta

molti geografi –in particolare nord americani15– hanno già tentato, usando lo schema kuhniano

di individuare e definire alcuni “paradigmi geografici”. È chiaro quindi che nei capitoli che

seguiranno daremo, analizzando il succedersi delle varie scuole di pensiero, un’impostazione

“paradigmatica” di stampo kuhniano. Ne deriverà una struttura che appare come una

stratificazione di “varie geografie” succedutesi nel tempo. Una tale successione di strati non

implica necessariamente un progresso o un ordine gerarchico ma è indice di un vario

avvicendarsi di diversi modi di vedere il mondo: vari modi che si sovrappongono e come le

foglie cadute quando termina la loro stagione, diventano humus per la stagione successiva.

Tutto questo ci permette di considerare la geografia una scienza matura nell’accezione che

ne dà Paul Feyerabend (1984, p, 292):

“la scienza matura è una successione di periodi normali e rivoluzioni. I periodi normali sono monistici; gli scienziati cercano di risolvere i rompicapo conseguenti ai tentativi di vedere il mondo nei termini di un unico paradigma. Le rivoluzioni sono pluralistiche finché emerge un nuovo paradigma, che ottiene sufficiente appoggio da poter servire come base per un nuovo periodo normale”.

Occorre però avere ben presente che quella di Thomas S. Kuhn non è altro che una teoria,

ossia un’interpretazione della realtà, con tutti i suoi limiti e proprio per questo motivo soggetta

a critiche e ad accese discussioni. Non solo, ma in quanto teoria (e la stessa interpretazione

kuhniana è una teoria) soggiace ad una interpretazione di tipo paradigmatico: se essa ora

appare come l’interpretazione più efficace (rappresenta cioè la scienza normale) può essere

perfettamente scalzata da un’altra possibilità di interpretazione. Ma, a mio parere, a tutt’oggi

essa rappresenta ancora il paradigma dominante, la scienza normale, atta ad interpretare

l’evoluzione dei vari pensieri scientifici.

15 Si veda al riguardo il bell’articolo di A.Mair (1986).

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2 – La fase preparadigmatica.

Così la geografia coltiva e incivilisce nel medesimo tempo, ed è una parte assai importante della cognizione del mondo… Sarebbe inutile dire di più sull’utilità della geografia… ciascun capitolo lo proverà abbastanza da sé.

Immanuel Kant, Geografia Fisica, pp.XXXV-XXXVI

2.1 – Premessa

Prima di prendere in considerazione i vari paradigmi della moderna geografia sarà bene

fare un accenno a quella fase preliminare che Thomas S. Kuhn indica come preparadigmatica e

che per buona parte delle scienze si fa generalmente finire nella prima metà del XVIII secolo. È

quella fase che precede la formazione di un paradigma ed in cui ogni scienziato, non essendo

vincolato ad alcun corpo di teorie o matrici disciplinari e mancandogli un preciso insieme di

metodi e tecniche cui fare riferimento, si sente “spinto a ricostruire il suo campo dalle

fondamenta” (Kuhn, 1978, p.32).

2.2 – La fase preparadigmatica ottocentesca della geografia europea.

Ovviamente non è qui mia intenzione e funzione analizzare tutto il periodo

preparadigmatico della geografia europea ma solo accennare a quella che i comuni manuali di

Geografia Generale (Lorenzi, Toniolo, Almagià, Toschi) definivano “geografia scientifica

ottocentesca”. Periodo questo ultimo in cui le idee di tre grandi pensatori divergenti ne hanno

caratterizzato la sua fine preparando l’inizio, anche per la Geografia, del periodo paradigmatico

che caratterizza le scienze mature.

Immanuel Kant (1724-1804), conosciuto per le sue opere filosofiche, fu anche geografo16.

Nei suoi quarant’anni d’insegnamento, dal 1756 al 1796, tenne ben 48 corsi di geografia a

fianco dei 54 di logica, 49 di metafisica e 20 di fisica e fu il primo ad insegnare stabilmente

geografia all’Università prima che questa fosse definitivamente istituzionalizzata come corso

universitario. Il suo testo geografico più importante e conosciuto è il ponderoso Physische

Geographie17 in cui, nonostante il titolo, si discute non solo di geografia fisica ma anche

dell’uomo e delle sue attività economiche in rapporto alle condizioni naturali18. Le pagine

16 Su I.Kant geografo si veda prima di tutto le importanti interpretazioni di J.A.Mayr (1970), di V.Berdoulay (1991, pp.75-94) e di P.Richards (1974); poi D.L.Livingstone R.T.Harrison (1981a), A.L.Sanguin (1994) e F.Farinelli (2004b); interessante è anche il discorso di R.Hartshorne (1967). 17 In effetti, questo testo, non autografo ma ricavato dalle sue lezioni di geografia sulle basi degli appunti presi da alcuni studenti, è stato pubblicato agli inizi del 1800. Riguardo la storia, un po’ complessa, della sua pubblicazione di veda F.Farinelli (2004b). Di questo testo ne esiste una traduzione italiana in tre volumi e sei tomi effettuata nel 1807/1811; nel 2004, la casa editrice Leading ne ha prodotto una copia anastatica. 18 Per questo, il termine kantiano Geografia Fisica potrebbe essere meglio avvicinabile –pur tenendo conto del secolo e mezzo di differenza– a quello di Geografia Generale così com’è stato utilizzato dai geografi italiani negli anni 1940-1980; si veda anche A.L.Sanguin, 1994.

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introduttive sono state spesso considerate la parte più significativa mentre il resto, divulgativo,

appare di scarso interesse19.

Physische Geographie, ed in particolare la sua introduzione, è sicuramente un’opera

importante ma che ha avuto alterne vicende (è stata più spesso ignorata) nell’elaborazione del

pensiero geografico mentre il suo pensiero filosofico, sull’opposizione tra natura e storia come

rifiuto al monismo positivista, ebbe una notevole importanza anche in campo geografico.

Physische Geographie fu ignorata dai geografi italiani, non appare mai citata in nessuna opera

di storia della geografia, nonostante la sua traduzione in lingua italiana effettuata già nel 1807;

anche Richard Hartshorne (1967, p.85) nota come:

“l’opera di Kant ed il suo interesse per la geografia furono ampiamente ignorati per quasi un secolo dopo la sua morte”.

Solo recentemente, in particolare con la disputa fra Richard Hartshorne e Fred K. Schaefer, si è

sempre più fatto ricorso ad essa per l’interpretazione della duplice valenza della geografia:

nomotetica o idiografica, fisica o umana20. Solo da questo punto di vista è certamente possibile

accettare l’affermazione di George Tatham (1957, p.38) secondo cui:

“la definizione data nell’introduzione alle sue lezioni, descrive così completamente lo scopo della geografia che essa ha agito, direttamente o indirettamente, su tutte le successive discussioni metodologiche”21.

Immanuel Kant delinea anche due differenti modi per classificare i fenomeni empirici: uno

legato alla loro natura e l’altro alla loro posizione nel tempo e nello spazio. Il primo definisce la

classificazione logica legata ai fondamenti delle scienze sistemiche, mentre il secondo –per noi

più importante- definisce la classificazione fisica e pone le basi scientifiche alla storia e alla

geografia: la storia (scienza cronologica) studia i fenomeni nel tempo mentre la geografia

(scienza corografica) studia i fenomeni che appartengono al medesimo luogo. O, meglio, per

dirla con le parole di Immanuel Kant:

“La storia e la geografia potrebbero essere chiamate, per così dire, una descrizione, con la differenza che la prima è una descrizione secondo il tempo e la seconda una descrizione secondo lo spazio. La storia e la geografia aumentano la nostra conoscenza rispetto il tempo e lo spazio. La storia riguarda quegli eventi che, riguardo al tempo, sono accaduti uno dopo l’altro. La geografia riguarda i fatti dal punto di vista dello spazio e che accadono contemporaneamente… La storia e la geografia dunque differiscono solo rispetto il tempo e lo spazio… La storia è una narrazione, la geografia una descrizione. Quindi possiamo avere una descrizione della natura ma non una storia della natura… Geografia è il nome dato alla descrizione della natura e al mondo nel suo complesso. La geografia e la storia

19 Sprezzante è il giudizio che ne dà F.Ratzel (1905/7, p.56) “Kant nelle sue lezioni sopra la geografia fisica si mostrò affetto dalla comune tendenza a enunciare delle aride enumerazioni e cercò di ravviare mediante aneddoti la morta materia. Uno scambio di concetti, un alternarsi di nomi, senza penetrar più addentro nella cosa…”. 20 I primi a darle una certa considerazione sono sicuramente stati A.Hettner e P.Vidal de la Blache ma è con i lavori di R.Hartshorne che la sua premessa, in particolar negli Stati Uniti, venne conosciuta diventando un argomento di discussione. 21 Su questo è da notare l’importante contributo V.Berdoulay, 1991, pp.75-94; si vedano anche A.Holt-Jensen, 1999, p.24 e D.N.Livingstone, 1992, p.116.

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occupano tutta l’area della nostra percezione: la geografia quella dello spazio, la storia quella del tempo”22.

Così la storia e la geografia permettono all’uomo la razionalizzazione della sua esistenza23 ed

attraverso la geografia l’uomo apprende la capacità di orientarsi:

“e questo nei due significati della parola: individuare il luogo e le coordinate naturali della propria esistenza e posizionarsi nella buona direzione”24.

Un’altra importante conquista kantiana fu la deteologizzazione dello studio scientifico. Egli

aveva, infatti, distinto i noumena dai phenomena. Noumena è la realtà come effettivamente è,

oggetto della conoscenza razionale pura, mentre phenomena è il mondo della conoscenza

snsibile, il mondo dei sensi, il mondo colto dalla scienza:

“la scienza, di conseguenza, opera solo nella sfera dei phenomena: è relativa alle osservazioni, alle relazioni causa-effetto, alle proprietà spazio temporali. La scienza non potrà mai aprire una breccia nell’irreale mondo dei noumena” (Livingstone, 1992, p.116).

Ovviamente la geografia in quanto scienza opera solo nel regno dei phenomena ed è,

quindi, teleologicamente neutrale. Egli così anticipa quanto avverrà in seguito e cioè il

progressivo allontanamento della posizione della geografia capace di descrivere la creazione

divina ed interpretare il piano di Dio nell’universo, per arrivare alla geografia come scienza che,

più semplicemente, permette all’uomo di razionalizzare la sua esistenza nel mondo.

Per Immanuel Kant, quindi, la geografia in quanto scienza empirica è teleologicamente

neutra e, avendo come fondamento lo spazio, è la scienza delle relazioni spaziali che studia i

fenomeni che avvengono sulla superficie terrestre. È una scienza che fornisce una visione

olistica del mondo dandone una conoscenza unificata ed è solo da questo punto di vista che si

occupa dell’uomo.

Ma più che Immanuel Kant è bene ricordare le due figure che per certi aspetti possono

essere considerati sia gli ultimi rappresentanti della geografia classica, sia gli iniziatori della

geografia come disciplina scientifica: Alexander von Humboldt (1769-1859) e Karl Ritter

(1779-1859) le cui opere principali sono rispettivamente Kosmos e Erdkunde25. Il primo è

22 La citazione è dalla “Introduzione” del testo Physische Geographie di I.Kant, questa traduzione italiana è stata fatta sulla base della traduzione inglese effettuata da J.A.Mayr (1970, pp.255-264) i passi tradotti sono alle pp.261-262. Gli stessi passi sono stati tradotti in inglese in modo analogo anche da F.K.Schaeffer, (1953, pp.232-233) di cui esiste una parziale traduzione italiana in H.Capel (1987, p.185). La traduzione di J.A.Mayr è la seguente: “We can call both history and geography, at the same time, a description, but with the difference that the former is a description of time while the latter is a description of space. History and geography enlarge our knowledge with respect to time and space. History concerns events which, under the aspect of time, have occurred one after the other. Geography concerns appearances under the aspect of the space which occur simultaneously… History therefore differs from geography only in respect to space and time… History is a narrative, but geography is a description. Therefore we may have a description of nature, but not a history of nature… The name of geography therefore designates a description of nature, and that of the whole earth. Geography and history fill up the total span of our knowledge, geography namely that of space, but history that of time”. 23 Si veda anche l’interessante analisi di J.M.Besse M.C.Robic, 1986. 24 Il riferimento è di E.Weil, citato da J.M.Besse M.C.Robic, 1986, p.68: “et cela dans le deux sens de ce mot: trouver le pôle et les coordonnées naturelles de son existence, et se placer dans la bonne direction”. 25 I titoli per esteso sono rispettivamente: Kosmos. Entwurf einer physischen Weltbeschreibung, pubblicato in 5 volumi dal 1845 al 1862; Die Erdkunde im Verhältnis zur Natur und zur Geschichte des Menschen oder allgemeine

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ritenuto tra l’altro “il più importante esploratore scientifico dell’epoca moderna prima di

Darwin” (Metken, 2000, p.33) mentre il secondo fu il primo geografo a delineare in modo

chiaro il suo metodo.

Questi due personaggi –quasi coetanei, in relazione epistolare e deceduti nello stesso anno–

pur essendo molto diversi fra loro hanno in comune la stessa visione del mondo: nella diversità

ricercarono l’unità allo scopo “di realizzare sintesi globali del Tutto terrestre” (Capel, 1987,

p.24). Se prima l’attività del geografo era limitata all’accumulazione di dati, per poi disegnare o

far disegnare carte miranti a descrivere un determinato territorio, con loro quella stessa

attività si fa molto più attiva e comincia a diversificarsi: il geografo compara le varie regioni

indagate per scoprire caratteristiche simili e individuare le leggi che regolano la loro

organizzazione. La novazione consisteva appunto nell’effettuare una precisa strutturazione del

materiale raccolto e, attraverso una deliberata ricerca fra le similarità e le differenze dei vari

paesi e regioni, cercare di comparare fra loro le differenti parti del mondo.

Alexander von Humboldt filosofo, letterato, naturalista, geologo, astronomo e geografo è

considerato –assieme al fratello Karl Wilhelm ed a Johann Wolfgang Goethe– uno dei grandi

savant dell’illuminismo tedesco a cavallo tra il XVIII ed il XIX secolo26. È stato anche un

valente esploratore scientifico soggiornando a lungo nell’America Meridionale, in Italia ed in

Siberia. I viaggi di esplorazione erano per lui una necessità scientifica in quanto

rappresentavano il momento di verifica e di prova della sua visione della natura intesa come

un unicum27.

Da buon illuminista incoraggiò l’uso della ragione e credé profondamente nell’utilità della

scienza volta ad interpretare le leggi generali che governano la natura nella sua totalità:

“una semplice giustapposizione dei fatti non servirebbe allo scopo… È nell’ordine stesso del progresso scientifico che i singoli fatti, rimasti a lungo senza legami con l’insieme, successivamente si ricolleghino con esso e si inquadrino in leggi generali. Indico qui solo la strada dell’osservazione e dell’esperienza… in attesa che si giunga al momento in cui, come voleva Socrate (a quanto scrive Platone) la natura venga interpretata secondo ragione”28.

Ma non solo la scienza, per descrivere la natura in tutta la sua grandezza:

“è necessario descrivere anche il riflettersi della natura sull’uomo e vedere come essa, ora vi si esprima attraverso il mondo dei miti, che con suggestive e

vergleichende Geographie, als sichere Grundlage des Studium und Unterrichts in physikalischen und historischen Wissenschaften, pubblicato in 19 tomi e 21 volumi tra il 1822 ed il 1859. 26 Riguardo la sua importanza interessante è notare il passo tratto dall’Autobiografia di C.Darwin (1964, p.49) “Nell’ultimo anno di Cambridge lessi con profondo interesse i Ricordi Personali di Humboldt. Questo libro e la Introduzione allo studio della filosofia naturale di Sir J.Herschel accesero in me il desiderio ardente di portare un contributo, anche il più umile, al nobile edificio delle scienze naturali. Nessun altro libro ebbe su di me un’influenza simile a quella di queste due opere. Copiai dai Ricordi di Humboldt lunghi brani su Tenerifa che lessi poi al alta voce...” 27 Come egli afferma, prima di partire per il viaggio nelle regioni equinoziali: “Je collecterai des plantes et des fossiles et me livrerai à des observations d’astronomie. Mais là n’est pas le but premier de mon expédition. Je m’efforcerai de découvrir l’interaction des forces de la nature et les influences qu’exerce l’environnement géographique sur la vie végétale et animale. En d’autres termes il me faut explorer l’unité de la nature” citato in J.P.Deléage (1992, pp.39-40). 28 A.von Humboldt, 1975, p.221. E ancora “ho sempre preferito alla conoscenza di fatti isolati, anche se nuovi, la comprensione alla concatenazione di quelli noti da tempo, e la scoperta di una specie sconosciuta mi è parsa meno interessante dell’osservazione sui rapporti geografici” citato in M.Ciardi (2008, p.418).

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fantasmagoriche immagini interpretano i fenomeni fisici, e ora faccia sbocciare il nobile germe dell’arte” (von Humboldt, 1975, p.235).

Perché nel momento in cui si va oltre “il mondo oggettivo” degli scienziati:

“si apre davanti a noi un mondo interiore che noi esploreremo in questo libro della natura, non per distinguere –come si richiede alla filosofia dell’arte– ciò che, nelle nostre impressioni estetiche, è da riferirsi all’azione delle forze esterne sui sentimenti da ciò che è invece legato alle molteplici disposizioni dell’attività spirituale, ma piuttosto, per descrivere in qual modo nel nostro spirito nasca uno schietto senso della natura e per cercare le cause che, soprattutto nei tempi moderni, hanno profondamente contribuito, attraverso il risveglio dell’immagine, all’impegno per lo studio della natura e alla propensione per i viaggi in terre lontane” (von Humboldt, 1975, pp.234-235).

In realtà Alexander von Humboldt, aspirando a comprendere il Kosmos29 parla anche di

“senso della natura come emozione semplice e immediata” e dedica decine di pagine a

discutere di “descrizioni letterarie della natura”, di “sentimenti della natura a seconda dei

tempi e delle razze” e di “pittura paesaggistica”. In questo modo egli, oltre a spingere verso

un’interpretazione scientifica, si fa contemporaneamente promotore di una “concezione poetica

del mondo”, che scaturisce proprio dalla sensibilità (e quindi dalla soggettività) dell’individuo.

Lo scienziato che studia la natura assomma all’osservatore distaccato, che si avvale

dell’obbiettività della scienza, il partecipante che la interpreta con spirito poetico: egli deve

studiare la natura sotto i due aspetti:

“una volta in maniera obiettiva attraverso l’osservazione dei fenomeni reali e poi attraverso il riflesso di essa sui sentimenti dell’umanità” (von Humboldt, 1975, p.267).

Assommava,per dirla con David N. Livingstone (1992, p.134):

“l’empirismo baconiano del naturalista navigatore dello stampo di Cook, l’ideale filosofico kantiano di una scienza universale, la passione di Gorge Forster per la bellezza della natura e la ricerca idealistica goethiana per un principio coordinatore trascendentale”.

La sua cultura, i suoi viaggi ed i suoi studi lo portarono a sempre più considerare l’uomo

come l’elemento chiave del Kosmos “parte integrante del quadro ambientale, al quale è

soggetto in quanto essere vivente ma che modifica con la sua attività di essere pensante, pur

essendone, complessivamente, condizionato” (Milanesi, 1975, p.13) tanto che lo studio della

distribuzione dell’uomo sulla terra rappresentava per lui “l’ultimo e più nobile scopo di una

descrizione fisica del mondo” (von Humboldt, 1975, p.220). Egli è stato forse il primo ad

imprimere alla geografia quel impulso che tenderà a trasformarla da scienza corografica a

disciplina antropica. Importante sarà poi la sua influenza sugli studi sull’integrazione

uomo/natura ed il riflesso che hanno sugli uomini i vari fenomeni naturali non tanto a livello

materiale quanto, e principalmente, a livello spirituale ed emotivo30.

29 Termine che, secondo F.Farinelli (1992, p.139) per lui non significa semplicemente mondo ma “ordine nel mondo”. 30 Non si vuole qui fare riferimento al determinismo ma a quegli studi che andavano sotto il nome di “Geografia Poetica” o di “Geopsiche”, che saranno fortemente avversati dai geografi positivisti. Circa l’idea di Geopsiche si veda l’interessante lavoro di W.Hellpach (1960).

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Inoltre egli, nonostante consideri la carta geografica come lo strumento principe dei

geografi, ma arriva a sostenere che

“le carte geografiche esprimono le opinioni e le conoscenze, più o meno limitate, di chi le ha costruite, sono anzi il luogo in cui più evidente risulta come in geografia fatti e opinioni interagiscono mutuamente e finiscono spesso per confondersi” (Farinelli, 1992, p.131).

Nuovo è inoltre il concetto di studio della regione. Egli vede il mondo diviso in una serie di

regioni naturali, ciascuna con il proprio insieme di piante e animali, e questo si rivelò terreno

estremamente fertile per la geografia successiva segnando un cambiamento radicale. Come,

infatti, nota David N. Livingstone:

“la forte inclinazione di Humboldt nei confronti delle analisi regionali sulla vegetazione può essere vista con un cruciale ingrediente dello scivolamento da un sistema analisi basato sulle evidenti caratteristiche morfologiche verso un nuovo epistema che enfatizza l’intera sottostante coesione ecologica” (Livingstone, 1992, p.138).

Fu molto attivo per quanto riguarda la diffusione della geografia e partecipò attivamente

all’organizzazione delle prime società geografiche intervenendo direttamente nella creazione

della Società di Geografia di Parigi, la prima del tempo. Egli però,come giustamente nota Paul

Claval (1972, p.26):

“non fu all’origine di una scuola, non ebbe discepoli diretti; la sua influenza si manifestò un poco per volta, via via che un ambiente geografico prendeva forma”.

Karl Ritter (1779-1859) il primo geografo a coprire una cattedra ufficiale di geografia

all’università di Berlino –cattedra che tenne per circa un quarantennio dal 1820 fino alla sua

morte– è stato anche il primo geografo a delineare in modo chiaro il suo metodo che espose in

un unico volume in cui riunì tutti i suoi scritti teorici31. Come afferma nella prefazione del suo

lavoro vi è un forte bisogno di una riflessione teorica in quanto si è assistito, fin’ora:

“ad una proliferazione di opere geografiche ma il loro apporto teorico lascia molto a desiderare… lo scopo [di questa raccolta] è di stimolare l’evoluzione del pensiero geografico” (Ritter, 1974, p.37).

Gli studi precedenti –sempre secondo Carl Ritter– si erano costantemente accontentati

“di descrivere e classificare sommariamente le diverse parti del Tutto [la Terra] ed è per questo motivo che la geografia non ha potuto interessarsi delle relazioni e delle leggi generali: le sole in grado di trasformarla in scienza e dargli un’unità” (Ritter, 1974, p.166).

La moderna geografia quindi non può più accontentarsi di “descrivere e classificare” ma deve

andare oltre: deve comparare fra loro le varie parti della Terra. Per questo egli cerca di definire

un metodo determinando delle regole precise:

“la regola fondamentale, che dovrebbe garantire la verità al Tutto, consiste nel procedere da osservazione in osservazione e non da opinioni o ipotesi all’osservazione… procedere dal semplice al complesso; dagli aspetti secondari del problema a quelli essenziali e da ciò arrivare alla sua verità; dalla regola alle

31 Di questo volume ne esiste una traduzione francese a cura di G.Nicolas-Obadia (Ritter, 1974) cui ci si riferirà per tutte le citazioni. Per un’interessante analisi del pensiero ritteriano si veda M.Korinman (1981).

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eccezioni procedendo così verso tutte quelle direzioni che rientrano nel campo delle relazioni spaziali” (Ritter, 1974, pp.57-58).

La Geografia Generale Comparata non dovrà mai venir meno a simili regole generali ma se così

non fosse

“occorrerà incriminare o la mancanza di dati ed informazioni o il geografo stesso ma mai il carattere intrinseco del metodo che, nonostante le difficoltà dell’applicazione, sarà sicuramente capace di tener fede a molte delle sue promesse” (Ritter, 1974, p.58).

Come nota Franco Farinelli, per Karl Ritter lo scopo della sua Geografia Generale

Comparata

“è innanzitutto quello della precisa individuazione degli oggetti naturali, per arrivare a stabilire sulla base dell’accertamento di ogni forma autonoma e specifica, i tipi fondamentali delle formazioni che costituiscono lo spazio riempito di cose terrestri e la loro reciproca relazione” (Farinelli, 1992, p.122).

Secondo Carl Ritter, infatti, la Geografia Generale Comparata è giustamente definita da due

aggettivi:

“Generale, non perché essa voglia dire tutto ma perché –pur senza darsi uno scopo ben definito– essa si sforza di studiare, secondo la loro natura e con la medesima attenzione, ogni parte della terra ed ognuna delle sue forme… [in altri termini] solo partendo dai tipi fondamentali… sarà possibile elaborare un sistema naturale. Comparata, nel senso di quelle scienze che [prima della geografia] si sono costituite come discipline istruttive,… la nostra conoscenza dei vari luoghi disseminati sulla superficie della terra è arrivata a tal punto che è possibile auspicare la comparazione delle forme simili e comparare il loro modo d’azione” (Ritter, 1974, pp.55-56)32.

Se per Immanuel Kant storia e geografia sono due discipline separate che assieme

permettono all’uomo di razionalizzare la sua esistenza, per Carl Ritter il loro legame si cementa

e la geografia non può certo fare a meno della storia

“la scienza geografica non può essere privata del fattore storico se vuole essere la vera disciplina delle relazioni spaziali terrestri e non essere solamente un’accozzaglia di astrazioni” (Ritter, 1974, p.133).

Così egli pone sulla superficie terrestre l’elemento umano con la sua storia33 ma lo pone in

modo così dominante da trasformare la geografia da scienza puramente corografica (cioè

fisica) in disciplina antropica:

“il sistema terrestre è stato sottomesso… [alle] forze meccaniche, fisiche ed intellettuali in cui l’evoluzione s’è mescolata con la storia dell’umanità… l’abilità dell’uomo [ha] trasformato la penuria in abbondanza ed ovunque la civiltà ci ha insegnato a resistere alla natura” (Ritter, 1974, pp.139-140).

32 Per una prima analisi critica del termine comparata si vedano l’articolo S.Mehedinti (1901) e la critica di F.Porena (1901). 33 E sarà la maggior critica che gli verrà fatta dai geografi successivi di matrice positivista o che comunque privilegeranno gli aspetti fisici: pesante è l’attacco di H.Wagner (1911, p.27) “si diffuse il concetto che la geografia fosse una scienza ausiliaria, priva di uno scopo a sé”. R.Almagià (1919, p.4) afferma “i Ritteriani… lasciaron soverchiamente prevalere l’elemento storico, astraendo troppo spesso dalla considerazione dell’ambiente naturale”; si veda anche A.R.Toniolo (1947, p.55) “trascurando i fattori dell’ambiente e giungendo così a conclusioni spesso fallaci o ingenue”; M.Ortolani (1983, p.145) “l’insegnamento di Ritter fece presa forse più sugli storici che non sui geografi”.

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In questo modo, lo scopo della Geografia Generale Comparata diviene quello di studiare le

relazioni tra la Terra e l’uomo ma, pur nella reciprocità delle loro influenza, dando maggior

peso all’uomo. Lo scopo della Terra, nella varietà delle sue forme e regioni, è quello di servire

l’uomo, soddisfare i suoi bisogni ed indirizzarne le aspettative verso il suo bene:

“Dio ha donato a l’uomo la natura come compagna. Deve essere per lui come un’amica fedele, porsi sia consigliera sia confidente nella sua vita mortale. Per l’individuo e per l’umanità intera deve essere come l’angelo custode che aiuta a trovare la pace interiore. Nello stesso modo, come pianeta, la Terra è la madre che sostiene l’umanità intera, così ogni cosa nella natura è destinata a svegliare le coscienze, guidarle e formarle. Autentico elemento organizzatore dell’umanità essa la prepara, destino più nobile, a cogliere e comprendere l’infinito entro ciò che non è visibile” (Ritter, 1974, pp.70-80).

In questo modo la Terra, nella sua diversità e nella sua unità, è vista al servizio dell’uomo e

Karl Ritter giustificò tale visione riconducendola a Dio: la diversità nell’unità non è casuale ma

voluta da un’Entità Superiore34. La geografia diventò così studio delle leggi generali che

regolavano l’unita del mondo apparentemente diversificato, opera suprema di Dio. D’altra

parte non bisogna neppure dimenticare che questo suo atteggiamento teleologico fu

influenzato dalla filosofia idealista hegeliana per il quale tutte le cose hanno senso in Dio,

nell’Assoluto. Karl Ritter fece sua la visione dialettica di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, con la

convinzione che, al di là della diversità, c’è la razionalità dell’Assoluto35. Come nota Franco

Farinelli:

“la mira di Ritter è quella di comprendere finalmente la storia degli uomini e dei popoli anche da un lato meno considerato, dal punto di vista del teatro totale della loro attività, oppure –ed è la stessa cosa– la Terra nel suo rapporto essenziale con l’umanità. E tutto ciò con una dichiarata intenzione produttiva: predire, a partire dai dati generali, la cadenza necessaria all’evoluzione di un dato popolo in un dato luogo, cadenza che dovrebbe essere fissata ed adottata dal popolo in questione per accedere alla prosperità che il Destino eterno e giusto assegna ai popoli dotati di fede” (Farinelli, 1992, p.123).

Il tentativo di Alexander von Humboldt di conciliare le scienze naturali empiriche con lo

spirito del classicismo tedesco non ha seguaci, né sembra particolarmente recepita la sua

fondamentale esigenza dell’unità del sapere rappresentata efficacemente dal Kosmos, quale

tentativo di conciliare le scienze naturali empiriche con lo spirito del classicismo tedesco

(Milanesi, 1975, p.22). Ma nemmeno il grande disegno d’interpretazione teleologica del mondo

di Karl Ritter avrà un grande seguito e sarà anche oggetto di forti critiche nello sforzo di

esorcizzare la sua aspirazione teleologica (Livingstone, 1992, p.262). Nonostante la loro

notevole importanza culturale ebbero però, come nota Friedrich Ratzel, una scarsa importanza

per il pensiero geografico sia perché:“nelle università e nelle accademie la scienza della

geografia come tale non era in niun luogo rappresentata” sia, e principalmente, perché le loro

34 Lo stesso F.Ratzel (1914, p.72) nota come per K.Ritter l’ambiente fisico sia “stato apprestato appositamente per [l’uomo] affinché egli vi possa compiere il proprio sviluppo secondo il disegno del Creatore”. 35 K.Ritter e G.W.F.Hegel furono colleghi all’Universtà di Berlino. Circa l’influenza della geografia ritteriana su G.W.F.Hegel si veda P.Rossi (1975, pp.24-46).

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dottrine “rimasero, l’una accanto all’altra, due organismi a sè, autonomi, rispecchiando

entrambe due concezioni troppo originali per poter fare scuola nel consueto senso della parola”

(Ratzel, 1905/7, vol.I, pp.56 e 58).

Ciò che comunque accomuna i due geografi pur nella loro diversità –Alexander von

Humboldt l’esploratore e Karl Ritter il geografo da tavolino– è la volontà di individuare l’unità

nella diversità, un’unità che trova giustificazione nel Volere Divino (Ritter) o nel Destino della

Natura (von Humboldt). Erano pensatori di transizione che cercarono di mettere assieme, in

grado diverso, la filosofia romantica della natura ed il misticismo religioso premoderno con le

nascenti teorie scientifiche moderne. Un tipo di concezione basato sulla teologia naturale che

non potrà reggere nei confronti dell’empirismo scientifico di stampo positivista e non sarà in

grado di fornire i presupposti necessari per una legittimazione scientifica della geografia. Sarà

proprio la mancanza di tali presupposti a giustificare lo spostamento delle basi concettuali del

pensiero geografico verso la biologia evoluzionistica, dando vita a quello che chiameremo

paradigma determinista.

2.3 – L’istituzionalizzazione della geografia in Europa.

La seconda metà del 1800 rappresenta un momento molto importante perché, segnando il

passaggio dall’episteme classica a quella moderna, definisce “l’inizio della nostra modernità”36.

L’obiettivo della scienza non era più quello di essere il testimone del Volere Divino o del

Destino della Natura e di dover trovare nel Grande Progetto la Causa Finale: la scienza

moderna cercava di determinare la legge della natura come la causa primaria quale possibile

spiegazione della realtà osservata. Come nota Michel Foucault (2006, p.12):

“non che la ragione abbia fatto progressi; è il modo d’essere delle cose che è stato profondamente alterato: delle cose e dell’ordine che, ripartendole, le offre al sapere”.

In questo periodo la spinta allo sviluppo della geografia è inoltre legata a tre importanti

motivazioni: il diffondersi dell’idea di nazionalismo, con la definitiva formazione degli stati

nazionali37, l’espansione del colonialismo europeo, e –forse la più importante– la

riorganizzazione dell’intera struttura scolastica, in particolare delle università, con la connessa

istituzionalizzazione delle varie discipline.

Il nazionalismo, con la relativa formazione degli stati nazionali38, richiedeva studi sempre

più precisi sulla struttura geologica del territorio connessi alla ricerca di materie prime, alla

canalizzazione dei fiumi, alla costruzione della rete ferroviaria, alle analisi climatico–

pedologiche per favorire l’agricoltura. L’imperialismo, con la stabilizzazione dei vari “imperi

coloniali”, aveva bisogno di studi volti ad aumentare la conoscenza delle colonie sia in vista

della loro possibilità popolamento sia per la conoscenza delle loro ricchezze naturali da

36 Per un’approfondita analisi della transizione epistemica si veda l’importante lavoro di M.Focault (2006, la citazione è a p.12). 37 Al riguardo si veda C.Tilly (1984). 38 Sull’importanza degli États civilisés si veda E.De Martonne (1925, pp.19-20).

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utilizzare nella crescente produzione industriale. Significative sono le parole che Friedrich

Ratzel pone all’inizio dei suoi volumi divulgativi:

“la politica e la strategia devono conoscere il terreno sul quale vogliono avanzare; per conoscerlo devono studiarlo geograficamente; e nel mentre determinano la posizione dei luoghi, aprono strade e disegnano le carte, rendono più sicura l’occupazione... quando maggiore è la potenza e più imperioso è il bisogno di una espansione politica ed economica, affluiscono in copia le novità geografiche ed è più sentita la necessità di allargare in questo campo le proprie cognizioni” (Ratzel, 1905/7, vol.I, p.2).

Tuttavia, stando alle tesi di Horacio Capel e di Paul Claval39, è soprattutto l’evoluzione dei

sistemi educativi dei paesi europei a favorire il decollo della geografia universitaria. La

“borghesia”, infatti, sia per dar vita al “nuovo stato nazionale” sia per conquistare, controllare

ed organizzare le colonie aveva bisogno di migliorare ristrutturando, fra l’altro, tutta la vecchia

struttura scolastica e quindi anche l’insegnamento universitario delle discipline geografiche40.

Ristrutturazione che, avvenuta nella seconda metà del 1800, portò al diffondersi –in particolare

in Germania e Francia– dell’insegnamento delle materie geografiche in tutti i tipi di scuola ed al

definirsi di cattedre universitarie di geografia. In questo modo già nel 1890, tutte le università

tedesche e francesi disponevano di insegnamenti specializzati di geografia41.

Il notevole ampliarsi dell’insegnamento della geografia offriva, tra l’altro, nuove e importanti

possibilità professionali. Tutto ciò ha sicuramente spinto molti ad aderire alla disciplina che,

forse anche per questo, è riuscita a rinnovarsi più facilmente: i nuovi geografi erano, per la

maggior parte, quasi autodidatti:

“non hanno imparato la geografia sui banchi di una università, vi sono pervenuti per strade diverse. La vocazione di alcuni è stata dai viaggi. Per altri, proviene da qualche ragione di opportunità: hanno visto un nuovo ambito, nel quale avrebbero potuto ritagliarsi senza difficoltà uno spazio culturale” (Claval, 1972, p.32)42.

A fianco ciò vi è stata anche una sempre maggior richiesta di testi di geografia e di atlanti

proveniente, non solo dalla nuova e crescente domanda scolastica, ma anche dall’interesse del

grande pubblico per la descrizione di paesi. Tutto questo ha poi agito come stimolo per lo

sviluppo di collane di pubblicazioni geografiche e per la nascita di istituti cartografici

specializzati. In questo modo si era venuto a creare un sostrato sia culturale sia editoriale

capace di sostenere la geografia quando, dopo i primi passi, inizierà a diffondersi

nell’insegnamento superiore.

39 P.Claval ed H.Capel sono, a mio parere, i due più importanti storici del pensiero geografico europeo e le loro analisi sulla sua evoluzione sono a tutt’ora insostituibili. 40 Come nota F.Ratzel, 1905/7, vol.II, p.818: “non sono più i tempi in cui il mercante commerciava per mezzo dell’interprete”. 41 Come nota H.Capel, 1987, p.33: “In Germania al 1870 esistevano tre sole cattedre universitarie di geografia (Berlino, Gottinga e Breslavia)… nel 1890 in pratica tutte le università tedesche possedevano insegnamenti di geografia”. Per quanto riguarda la Francia P.Claval (1972, p.31) giustamente annota: “Negli anni successivi alla sconfitta del 1870 coscientemente ci si sforzò di imitare l’insegnamento superiore tedesco, di cui improvvisamente si comprendeva l’efficacia”. 42 Su posizioni analoghe è anche H.Wagner, 1911, p.27.

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Se questo rappresenta “l’humus” sociale e culturale che permetterà, dalla seconda metà del

1800, lo svilupparsi della disciplina, il “seme” è, nella sua sostanza, rappresentato

dall’istituzionalizzazione universitaria e dallo sviluppo dell’insegnamento superiore43. E questo

perché, seguendo il ragionamento di Paul Claval,

“il corso universitario… viene subìto maggiormente dall’ascoltatore di quanto lo sia ciò che è scritto, dal lettore; ha una continuità, una presenza che rende più percepibile le opinioni fondamentali dell’insegnante. Molto spesso il lettore… può rimanere completamente estraneo ad un autore che vuole utilizzare. Il corso invece è spesso intercalato da considerazioni che, pur essendo equivalenti alle note di un lavoro, sono tuttavia molto più efficaci perché costituiscono un’integrazione organica dell’esposizione. Il corso trasmette in diverse maniere l’inespresso che la parola scritta ignora. Le intonazioni del professore possono informare sul suo scetticismo riguardo ad una teoria mentre il testo scritto può apparire a volte completamente neutrale e senza un partito preso” (Claval, 1972, p.33).

In questo modo la creazione di cattedre istituzionalizzate all’interno di una struttura

universitaria ben definita ed organizzata ha consentito la nascita di vere e proprie scuole di

pensiero caratterizzate dal raggruppamento di discepoli intorno ad un maestro. Si è avuto così

un cambiamento notevole rispetto alla formazione dei geografi della generazione precedente,

spesso solitari e per la maggior parte autodidatti: “casi isolati, senza grande influenza diretta,

nonostante il prestigio che li accompagnò in vita” (Capel, 1987, p.23). E questo può

sicuramente spiegare la sostanziale discontinuità che si venne a creare tra il sapere geografico

di prima del 1800 e quello successivo: la mancanza di un insegnamento continuativo e definito

non fa certo nascere scuole di pensiero44.

Nei tre più importanti stati nazionali europei, pur con delle sostanziali differenze nella

“filosofia” delle relative scuole di pensiero, la logica dell’istituzionalizzazione è molto simile.

In Germania, nel corso del XIX secolo, vi è stato un evidente e costante tentativo di

migliorare il grado di scolarizzazione della popolazione come mezzo per rafforzare il sentimento

di unità nazionale, al di là delle differenze proprie delle regioni del Reich45. In questo contesto

la geografia viene vista come disciplina adatta per eccellenza a rafforzare tale sentimento.

Come nota Franco Farinelli (1992, p.121):

“nella ‘Prussia tra riforma e rivoluzione’ della prima metà dell’ottocento già si registrano i primi segni dell’istituzionalizzazione delle espressioni della società nello Stato di diritto in via di formazione: come nel caso dell’introduzione a Berlino, nel 1820,… della geografia borghese all’Università e all’Accademie militare”.

In Francia il processo di istituzionalizzazione della geografia ha inizio a partire dagli anni ‘70

dell’Ottocento e ricalca grosso modo quello tedesco46. La sconfitta nella guerra franco-

prussiana ha grandi ripercussioni ed induce i francesi a promuovere un ampio rinnovamento 43 “Si mûre que fût la science géographique, elle ne commença à porter des fruits que du jour où elle eut pris racine dans le sol universitaire, en contact intime avec les sciences au développement desquelles elle doit être associée”: E.De Martonne, 1925, p.20. 44 Emblematico è il caso di Immanuel Kant che –come notato prima– ha insegnato a lungo geografia e raramente, nei vari manuali di storia o filosofia, viene ricordato il suo ponderoso trattato di “Geografia Fisica”; in ogni caso, anche se i manuali accennano a ciò, non viene mai data nessuna spiegazione al riguardo. 45 Sull’istituzionalizzazione della geografia in Germania si veda: H.Capel (1987, pp.23-38. 46 Sull’istituzionalizzazione della geografia in Francia si veda: H.Capel (1987, pp.39-56).

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sociale che si traduce tra l’altro in una revisione degli studi e in una ristrutturazione delle

facoltà universitarie sul modello di quelle tedesche. La presenza della geografia in ogni ordine e

grado della scuola induce anche qui un aumento delle cattedre universitarie e una conversione

a questo campo del sapere soprattutto degli storici.

Infine, il caso della Gran Bretagna offre un’ulteriore conferma dello stretto rapporto

esistente in questa fase fra istituzionalizzazione e insegnamento primario e secondario47.

Infatti, qui il ritardo nello sviluppo della scolarizzazione della geografia si riflette nel suo

mancato decollo nelle università. Questo ultimo risulta alquanto lento e difficile anche dopo la

prima guerra mondiale nonostante l’Inghilterra si presentasse come la potenza coloniale per

eccellenza. La geografia qui è legata essenzialmente ai viaggi e alle esplorazioni e la sua

presenza nella scuola di base serve come mezzo di controllo sociale per far conoscere ai

giovani la potenza del loro Stato, i luoghi verso cui si dirige l’emigrazione, o ancora le colonie

dove sono deportati i detenuti. La crisi è, evidentemente, soprattutto a livello universitario

dove la geografia viene considerata parte delle discipline naturali e insegnata da naturalisti.

Sarà solamente con il 1887 che, a seguito di un contributo elargito dalla Royal Geographical

Society di Londra, l’università di Oxford istituirà il primo insegnamento di geografia e Halford

John Mackinder ne fu il primo Reader in Geography; la stessa operazione venne effettuata

l’anno seguente anche con Cambridge48.

Un’ulteriore forte spinta allo sviluppo della Geografia venne anche data sia dalle Società

Geografiche sia dai Congressi Geografici49.

La prima fu la Société de Géographie de Paris, istituita nel 1821, a cui seguì nel 1828 la

Gesellschaft für Erdkunde zu Berlin e, due anni dopo, la Royal Geographical Society di Londra;

ma già nel 1885 ne esistevano 94 che raccoglievano complessivamente 50.000 soci; di esse 80

erano europee (26 ubicate in Francia con 18.000 membri e 34 riviste; 24 in Germania con

9.300 membri e 28 riviste). Nel 1986 erano salite a 107 e di queste 48 si trovavano in Francia,

42 in Germania e 15 in Gran Bretagna. All’inizio i loro membri erano principalmente militari,

naturalisti, naviganti, commercianti, uomini politici e missionari e solo nel 1900, a mano a

mano che la geografia si istituzionalizza, diviene significativo il numero dei geografi, insegnanti

e docenti universitari.

Gli obiettivi delle varie società appaiono complessi ma i più importanti riguardavano

l’organizzazione dei viaggi e delle esplorazioni –che rappresentava una importante costante

degli scopi di tutte le società– assieme alla salvaguardia del commercio, la divulgazione dei

progressi nelle Scienze Geografiche assieme alle notizie relative a viaggi ed a esplorazioni.

47 Sull’istituzionalizzazione della geografia nel Regno Unito si veda H.Capel (1987, pp.57-70). 48 Si veda al riguardo D.I.Scargill (1976), D.R.Stoddart (1975), P.Gribaudi (1902) e L.Gallois (1906); un’interpretazione più generale ne dà T.R.Slater (1988). Nel 1989 la rivista The Geographical Journal dedica un intero fascicolo monografico dal significativo titolo “Hundred Years of Geography at Oxford and Cambridge”. 49 Sul ruolo delle Società Geografiche e dei congressi si veda H.Capel, 1987, pp.99-142.

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Oltre ciò, ed in vario modo, le varie società si interessano dell’impianto di stazioni

meteorologiche, dell’effettuazione di osservazioni astronomiche e di studi etnografici.

Per quanto riguarda i fondi disponibili essi sono costituiti essenzialmente dalle quote dei soci

ma la buona presenza di uomini politici (ministri, senatori...) garantisce un efficace canale per

conseguire aiuti economici che, spesso, giungono per vie indirette sotto forma di contributi per

le pubblicazioni, di sottoscrizioni a riviste, o come finanziamenti per progetti di viaggi ed

esplorazioni.

I Congressi Geografici hanno, da sempre, costituito un momento irrinunciabile per l’incontro

di studiosi interessati alla disciplina in quanto capaci di stimolare collaborazione e confronti fra

vari studiosi e diverse scuole di pensiero. Inoltre, occorre tener presente la notevole quantità

di documenti, pubblicazioni varie ed atti finali che accompagnano normalmente ogni

congresso. Il loro valore è stato universalmente riconosciuto, tanto è vero che già dal sesto

congresso, quello di Londra del 1885, assumono un carattere periodico. Ospitare un congresso

divenne, per ogni comunità nazionale, un fatto importante sia perché agiva da stimolo sulle

attività di ricerca, dando luogo a studi sulla geografia del proprio paese, sia -e principalmente-

perché permetteva di presentare sul piano internazionale i propri progressi in ambito

scientifico.

Il primo congresso geografico internazionale vero e proprio ha avuto luogo ad Anversa il 14

agosto del 1871, alla presenza di oltre 600 partecipanti, e ben altri dieci si susseguirono, a

scadenza abbastanza regolare, fino al 1913. Generalmente essi hanno avuto luogo in Europa

tenendo conto della preminente posizione dei paesi europei nel campo scientifico; il congresso

di Washington (1904) rappresenta la prima eccezione a questa regola.

I primi congressi sono caratterizzati da una grande varietà di partecipanti sotto il profilo

professionale (diplomatici, militari, giudici, avvocati, uomini di Stato, medici, ingegneri,

studiosi, uomini d’affari, giornalisti, nobili) mentre coloro che si dichiaravano geografi tout

court erano una minoranza: questi ultimi rappresentavano appena il 22% dei partecipanti al

primo congresso di Anversa del 1871 per salire al 85% al ventesimo di Londra del 1964. Molto

probabilmente tutto questo è da attribuire al fatto che la loro organizzazione spettava (almeno

fino al 1922 anno di fondazione dell’Unione Geografica Internazionale50) alle società

geografiche che ovviamente lasciavano molto spazio ai propri soci. Fra questi ultimi, come

visto prima, i geografi veri e propri erano in netta minoranza data, appunto, l’ancora incerta

istituzionalizzazione della disciplina nelle università.

I vari congressi furono strutturati fin dall’inizio in sessioni di lavoro riguardanti temi

particolari. Interessante è la curiosa associazione, riproposta in alcuni dei primi congressi, fra

geografia, glottologia e filologia che si spiega “con l’interesse allora esistente per i problemi

attinenti la nomenclatura. Nel corso del XIX secolo una delle motivazioni fondamentali per

50 L’U.G.I. rappresenta l’associazione dei geografi universitari che, appunto dal 1922, gestisce i congressi internazionali assieme a molte altre riunioni scientifiche.

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organizzare congressi scientifici era proprio la necessità di unificare la terminologia ed

introdurre alcune convenzioni in campi specifici della scienza. In geografia essa venne avvertita

anzitutto per quanto concerne i toponimi, che occorreva unificare e poi spiegare” (Capel, 1987,

p.125).

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3 – Il determinismo geografico e la scuola tedesca.

È anzitutto da notare, che tutto quanto si riferisce alla natura, all’ambiente, è immutabile in confronto a ciò che si riferisce all’uomo… soltanto la scienza naturale progredisce come scienza ricercatrice di leggi, ma la storia non muove un passo innanzi.

Friedrich Ratzel, Geografia dell’uomo, pp.13-15.

3.1 – Premessa

Il riconoscimento della geografia in quanto disciplina universitaria, come accennato

precedentemente, è stato abbastanza lento e questo sia per suo impianto sostanzialmente

cosmografico e teleologico sia per l’opinione che la geografia fosse complementare alla storia.

Per contro, gli elementi che giocarono a suo favore furono, come visto, il diffondersi delle

Società Geografiche e lo svilupparsi del nazionalismo. Le Società Geografiche permisero alla

geografia di radicarsi nella borghesia quale conoscenza che poteva favorire l’espansionismo

coloniale e lo sfruttamento di nuove terre. Il nazionalismo ne favorì lo studio come punto

chiave per rinforzare il sentimento nazionale diffondendo nozioni sull’economia, sulle possibilità

di commercio ed espansione. Alla geografia mancavano soltanto delle solide basi scientifiche

per potersi affermare ed istituzionalizzare: basi che vennero trovate nel positivismo comtiano e

nell’evoluzionismo darwiniano.

3.2 – Il positivismo e l’evoluzionismo: le basi della geografia determinista.

Il positivismo comtiano, per lo meno nel periodo in esame, non può certo essere inteso

solamente come una filosofia ma deve essere considerato sia un metodo scientifico sia una

concezione del mondo e dell’uomo. Dal nostro punto di vista fondamentale è il metodo

scientifico positivo che –quali unici criteri di scientificità applicabili a qualsiasi disciplina–

presupponeva la valorizzazione della ragione, l’utilizzo del metodo empirico-induttivo, il

modello delle scienze della natura e l’affermazione di una posizione monista e materialista.

Dal punto di vista del metodo scientifico positivo, secondo Walter M. Simon, per le scienze

dell’uomo era fondamentale che

“il presupposto che i fenomeni del pensiero umano e della vita sociale siano collegati ai fenomeni del mondo inorganico e organico della natura e siano perciò suscettibili d’indagine con metodi analoghi, in grado di produrre risultati comparativamente attendibili” (Simon, 1980, p.14).

In questo modo il metodo scientifico positivo portava ad eliminare dalle varie scienze [della

natura o dell’uomo] tutte quelle interpretazioni non legate all’osservazione diretta dei “fatti

reali” che avrebbero portato a valutazioni metafisiche, vale a dire non direttamente derivate da

quei “fatti reali”. Questo perché le scienze debbono:

“subordinare sempre le concezioni scientifiche ai fatti dei quali esse sono destinate soltanto a manifestare il legame reale” (Comte, 1979, p.203).

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Così qualsiasi disciplina:

“se vuole assumere un effettivo carattere scientifico… dovrà limitarsi, nel modo più scrupoloso, a cercare le leggi: quelle mediante cui i rapporti fenomenici particolari vengono inseriti in rapporti generali. Dovrà infine respingere con la massima decisione qualsiasi riferimento all’assoluto, dato che l’assoluto trascende per definizione il mondo dell’esperienza: una scienza fondata sull’esperienza non può essere altro che scienza del relativo” (Geymonat, 1971, p.439).

Solo così quelle leggi generali avranno valore scientifico universale e, attraverso esse, si

potranno in seguito definire delle spiegazioni universalmente valide da cui derivare delle

previsioni attendibili. In altri termini, secondo Auguste Comte:

“teorie direttamente connesse con le leggi dei fenomeni e destinate a fornire previsioni reali, sono oggi valutate come le sole in grado di regolarizzare la nostra azione spontanea sul mondo esterno. Per questa ragione lo spirito positivo è potuto divenire sempre più teorico e tendere ad impadronirsi a poco a poco di tutto il campo speculativo” (Comte, citato in Ferrarotti, 1977, p.43).

Inoltre, la base irrinunciabile per ogni scienza è rappresentata dall’esperienza del reale cioè

dall’osservazione dei fatti:

“la filosofia positiva è innanzitutto profondamente caratterizzata, in qualsiasi soggetto, da questa subordinazione necessaria e permanente dell’immaginazione all’osservazione, il che consiste soprattutto lo spirito scientifico propriamente detto, in opposizione allo spirito teologico e metafisico” (Comte, 1979, p.202).

Solo in questo modo sarà possibile scoprire o perfezionare l’esatto coordinamento

dell’insieme dei fatti osservati e così ottenere i mezzi per intraprendere nuove indagini che

permetteranno di risalire a quelle asserzioni generali che rappresentano le relazioni costanti

che esistono tra quei fatti. Avendo posto quale postulato base che la vera conoscenza deriva e

si basa sull’osservazione di fatti concreti, è chiaro che qualsiasi scienza che poggi su

interpretazioni metafisiche e cerchi di dare spiegazioni finali è inconsistente appunto perché

inesistente è il suo contenuto o il suo oggetto, in quanto non legato ai fatti. O meglio, come

nota Ludovico Geymonat:

“i concetti, le proposizioni, le teorie che non ammettono in ultima istanza una verifica empirica debbono venir considerati essenzialmente metafisici e perciò non possono trovare cittadinanza entro la scienza” (Geymonat, 1971, p.439).

Tali relazioni costanti non sono altro che quelle leggi di natura51 atte a governare i fatti concreti

e quindi permettere una previsione attendibile:

“lo scopo dell’indagine scientifica –nota appunto Nicola Abbagnano– è la formulazione delle leggi perché la legge permette la previsione: e la previsione dirige o guida l’azione dell’uomo sulla natura” (Abbagnano 1969, pp.282-283).

Qualsiasi scienza non può essere fine a sé stessa, ma deve essere utile alla società ed il suo

livello più alto di utilità consiste, non tanto, nel dare spiegazioni razionali ma nel prevedere:

“il principio fondamentale della sana filosofia consiste necessariamente nell’assoggettamento continuo di tutti i fenomeni inorganici e organici, fisici o

51 Per un’analisi epistemica dei concetti di Legge di Natura e Legge Scientifica e la loro sovrapposizione/contrapposizione, si veda M.Casamonti (2006).

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morali, individuali o sociali, a leggi rigorosamente invariabili, senza le quali, essendo impossibile ogni previsione razionale, la scienza sarebbe ridotta a sterile erudizione” (Comte, citato in W.Tega, 1982, p.56).

Ma quelle “leggi di natura” così definite non possono essere considerate un “dato assoluto” –

sarebbe metafisica– in quanto la loro ricerca

“è assolutamente relativa, poiché presuppone immediatamente un progresso continuo della speculazione subordinata al perfezionamento graduale dell’osservazione, senza che l’esatta realtà possa essere mai, in alcun campo, perfettamente rivelata” (Comte, 1979, pp.204-205).

La scienza positiva è quindi sempre attiva e sempre in grado di osservare “senza

prevenzioni” fatti reali da cui derivare leggi definite, procedendo sempre “con quello spirito

francamente positivo che devono oggi sviluppare i sani studi scientifici” (Comte, 1979, p.201).

Le scienze naturali divennero il modello scientifico cui riferirsi: solo attraverso l’osservazione e

comparazione dei fatti della natura era possibile dimostrare come ovunque si potessero

individuare delle relazioni costanti che rispondevano a leggi generali utilizzabili per previsioni

certe. Persino la società diventò analizzabile con il procedimento delle scienze naturali in

quanto, come nota Lewis A. Coser (1983, p.23):

“l’obiettivo che Comte si propose fu quello di creare una scienza della società, che, costruita sul modello delle scienze naturali, fosse in grado di spiegare il precedente sviluppo dell’umanità e di prevederne il corso futuro”.52

Dal punto di vista generale, il metodo scientifico positivo richiedeva, per la legittimazione

scientifica delle varie branche del sapere, cinque punti fondamentali53:

1) Le dichiarazioni scientifiche devono basarsi su un’esperienza del mondo diretta, immediata ed accessibile empiricamente, quindi le dichiarazioni basate sull’osservazione vanno privilegiate rispetto a quelle basate sulla teoria. E’ l’osservazione, infatti, a guidare l’indagine scientifica; essa può essere condotta indipendentemente da qualsiasi dichiarazione teorica: è quest’ultima che verrà costruita sulla base dell’osservazione.

2) Le osservazioni scientifiche devono essere ripetibili, e la loro generalità dev’essere garantita da un metodo scientifico unitario accettato e definito correntemente dalla comunità scientifica come un tutto.

3) La scienza dovrà poi avanzare attraverso la costruzione formale di teorie che, se verificate empiricamente, assumeranno lo statuto di Leggi Scientifiche.

4) Queste Leggi Scientifiche avranno una funzione puramente tecnica, nel senso che riveleranno l’efficacia o persino la necessità di specifiche congiunzioni di eventi; in altre parole, dovranno avere la seguente forma: ‘Se A…, allora B…’.

5) Le leggi scientifiche dovranno venire progressivamente unificate e integrate in un unico e incontestabile sistema di conoscenza e verità.

È chiaro che tutto ciò rappresentava, dal punto di vista geografico, la strada

dell’individuazione delle costanti alle quali ubbidivano o si uniformavano i fenomeni naturali: si

52 Sotto questo aspetto Auguste Comte viene ampiamente riconosciuto quale “fondatore della sociologia” o “almeno della sua denominazione”, come suggerisce A.Akoun (1975, p.77). Al riguardo, secondo N.Abbagnano (1969, p.281) per A.Comte “la scienza alla quale tutte le scienze sono subordinate, come al loro fine ultimo, è la sociologia”; si vedano anche W.M.Simon (1980) e F.Ferrarotti (1962, 1968; 1974, pp.33-58); sul rapporto tra il positivismo comtiano e le “scienze dell’uomo” si vedano M.Harris (1971, pp.80-90) ed i vari interventi nel volume collettaneo di A.Cantucci (1982). 53 Su questo si veda il lavoro di R.J.Johnston D.Gregory D.M.Smith (1998, pp.358-361)

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veniva così a definire ed a costituire un sapere scientifico che finiva per coincidere con l’idea

stessa di natura che fungeva da sfondo unitario sul quale la geografia trovava la sua ragione di

essere come scienza.

Assieme al positivismo nel XIX secolo si sviluppò un’altra grande “rivoluzione scientifica”:

l’evoluzionismo che scardinò il concetto di un universo statico, immutato dalla Creazione Divina

in poi, il cui caposaldo scientifico poggiava sulle teorie naturalistiche della fissità o

dell’immutabilità della specie espresse dalla fondamentale opera di Carlo Linneo Sistema

Naturae in cui categoricamente affermava “specie tot numeramus quot a principio creavit

infinitum Ens”54.

Il primo progresso nel senso evoluzionistico venne da Jean-Baptiste Lamarck con la sua

opera Philosophie zoologique in cui sostiene che tutte le specie viventi subiscono continue

mutazioni legate alle influenze ambientali:

“la natura, producendo successivamente tutte le specie di animali, e iniziando dai più imperfetti… ha complicato gradualmente la loro organizzazione… ogni specie ha ricevuto dall’influenza delle circostanze nelle quali si è imbattuta le abitudini che le conosciamo e le modificazioni nelle proprie parti che l’osservazione ci mostra in essa” (Lamarck, 1976, p.173).

Sostanzialmente la necessità di adattarsi ai diversi ambienti faceva sì che gli organi si

sviluppassero o si atrofizzassero a seconda che fossero usati o diventassero inutili. Quindi, la

diversità “delle circostanze” che il globo terrestre offriva agli esseri viventi alterava l’originaria

uniformità dando origine ad esseri e specie diverse.

Un passo ben più importante, dal nostro punto di vista, fu quello connesso alle conquiste nel

campo della geologia con la dottrina dell’uniformismo legata ai lavori di Charles Lyell55 e della

sua scuola attualista56. Essa contribuì a dimostrare che vi erano basi storico–scientifiche

accurate per dichiarare che la terra si era evoluta nel corso di milioni di anni ed era giunta

all’attuale conformazione dopo una lunghissima serie di lente trasformazioni.

Ma l’evento che, rivoluzionando la concezione dell’universo terrestre, meglio di tutti definì il

paradigma evoluzionista è legato alla fondamentale opera di Charles Darwin L’origine delle

specie pubblicata nel 1859. Basandosi strettamente sull’osservazione della realtà –procedendo

quindi con metodo scientifico positivo– Charles Darwin spiegò la dinamica dell’evoluzione in

termini di “selezione naturale”. Questa ultima, per dirla con le sue parole:

“è una forza sempre pronta all’azione, immensamente superiore ai deboli sforzi dell’uomo, così come le opere della natura sono superiori a quelle dell’uomo” (Darwin, 1967, p.131).

54 Citato da G.Montalenti, 1967, p.10. 55 Che definisce la geologia come “the science which investigates the successive changes that have place in the organic and inorganic kingdoms of nature: it inquires into the causes of these changes, and the influence which they have exerted in modifying the surface and external structure of our planet”, C.Lyell, 1847, p.1. 56 Si vedano P.F.Federici, (1987, pp.324-325); R.C.Lewontin R.Levino, (1978, p.1011). Sul legame fra C.Lyell e C.Darwin, F.Mondella (1982, p.315) afferma: “un’opera [Principles of geology] che ebbe una grande influenza anche sul giovane Darwin”; su questo anche D.R.Stoddart (1966, pp.684-686) e G.Montalenti (1967).

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Come gli allevatori o gli agricoltori praticano una sorta di “selezione artificiale” per ottenere

individui migliori fra il bestiame e le piante, così la natura pratica una “selezione naturale”

favorendo la sopravvivenza e lo sviluppo degli individui che si sanno maggiormente adattare

alle difficoltà dell’ambiente. La selezione si attua come conseguenza

“della lotta per la vita. In virtù di questa lotta, le variazioni, per lievi ch’esse siano e da qualsiasi causa provengano, purché siano utili in qualche modo agli individui di una specie nei loro rapporti infinitamente complessi con gli altri organismi e con le condizioni fisiche della vita, tendono alla conservazione di questi individui, e a trasmettersi ai loro discendenti… Questo principio per il quale ogni lieve variazione, se utile, si mantiene, è stato da me denominato “selezione naturale”, per indicare la sua analogia con la selezione operata dall’uomo. Ma l’espressione “sopravvivenza del più adatto”, spesso usata da Herbert Spencer, è più idonea, e talvolta ugualmente conveniente” (Darwin, 1967, p.131).

Si tratta di interazioni competitive che generano piccole variazioni fortuite, che favoriscono

alcuni individui, il cui accumularsi in una direzione costante conduce al graduale differenziarsi

delle specie57. In questo modo i caratteri posseduti dagli individui più forti e più competitivi,

quindi meglio atti ad imporsi sugli altri, vengono trasmessi ereditariamente: la selezione

naturale è la chiave di volta della teoria darviniana.

Dal punto di vista evoluzionistico la terra nella sua totalità –rocce, piante e animali,

umanità compresa– diventò interpretabile come un unico organismo vivente le cui diverse

parti, svolgendo differenti funzioni collegate al tutto, si sviluppano ed evolvono interagendo

con l’intero sistema di riferimento. Ne consegue che le concezioni cartesiana e kantiana che

vedevano il mondo diviso in due –quello fisico e quello morale– non avevano più senso: i due

mondi sono soltanto due aspetti diversi della medesima realtà, interpretabili con la stessa

logica. Di più:

“la filosofia evoluzionista consentiva di prescindere da ogni principio sovrannaturale per spiegare l’insieme di tutti i fatti osservati, ivi compreso il pensiero umano e schiudeva così alla scienza l’ultimo ambito sino a quel momento inaccessibile… Il pensiero, in rapporto al resto del mondo… diveniva un fenomeno tra i fenomeni. Faceva parte del mondo e doveva essere spiegato come il mondo” (Claval, 1972, p.52).

Così l’evoluzionismo, avvolgendo il mondo in una concezione globale e dinamica, permise di

interpretarlo come un unico grande organismo e di spiegarlo con il medesimo schema teorico

privo di qualsiasi idea teologica a priori58.

In questo modo l’ambiente, cioè la natura in generale, diventò l’elemento più importante

attorno al quale ruotavano l’uomo e tutti gli esseri viventi. Un ambiente, una natura non più

statica, eterna ed immutabile –casa dell’uomo dalla quale l’uomo, essere superiore, ne era

escluso– ma una natura dinamica in cui elementi e fatti nuovi, se empiricamente accertati, non

dovevano essere visti come eccezioni ma elementi normali da interpretare e nella quale l’uomo

57 Proprio questo è il punto, nella dottrina darwiniana, che causò gli scontri maggiori: l’aleatorietà delle mutazioni rovesciava l’immagine di una natura armonicamente finalizzata secondo il disegno Divino. 58 O meglio, come nota D.R.Stoddart, 1966, p.697: “Darwin established a sphere of scientific enquirity free from a priori theological ideas, and freed natural science from the arguments of natural theology”.

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occupava il posto che gli competeva. Un posto importante e privilegiato ma non così diverso al

punto da sovvertire i criteri d’indagine. Così le teorie evoluzioniste, nate e sviluppate all’interno

delle scienze della natura, poterono essere estese anche alle scienze sociali tramite l’uso di

analogie organiche fondate sui concetti biologici di organizzazione e competizione. E’ ciò che fa

ad esempio Herbert Spencer59 parlando dello stesso progresso scientifico sostenendo che,

come qualsiasi conoscenza:

“anche la scienza e la tecnica dovevano considerarsi uno strumento di adattamento della specie all’ambiente, e il loro progresso era quindi determinato in ultima istanza dalla pressione demografica e dalla conseguente competizione” (Pancaldi, 1982, p.204).

Fu questo particolare rilievo dato all’ambiente, inteso come causa prima dell’adattamento e

del cambiamento di tutti gli esseri viventi uomo compreso, che permise alla geografia di

trovare quel forte fondamento perché potesse essere ritenuta una dottrina scientifica. Questo

almeno per due ordini di motivi:

--da una parte proprio la geografia, in quanto disciplina, aveva come uno dei suoi principali

campi di studio la struttura fisica della terra, intesa come l’ambiente darwiniano;

--dall’altro perché i geografi stessi si convinsero a concentrare le ricerche sulle relazioni tra

l’ambiente fisico e l’uomo e a ritenere che gli stessi canoni evoluzionisti, con cui era

interpretata la natura, potessero essere utilizzati per spiegare come le comunità si insedino sul

territorio e ne sfruttino le risorse (Vallega, 1989, p.68).

Come infatti nota Ronald J. Johnston (1988, p.36) i geografi

“anziché presentare semplicemente l’informazione in maniera organizzata, per argomento o per area, cercavano spiegazioni per i modelli dell’attività umana sulla superficie della Terra. La loro principale fonte per queste spiegazioni era l’ambiente fisico, per cui si venne a creare una posizione teorica in base alla quale la natura dell’attività umana era controllata dai parametri del mondo fisico”.

3.3 – L’accettazione del positivismo e dell’evoluzionismo in geografia.

Il positivismo non rappresentò una completa ed assoluta rottura con le principali idee sulle

quali poggiava la geografia di Immanuel Kant, Alexander von Humboldt e Karl Ritter. Lo studio

diacronico, e cioè l’importanza dell’analisi storica per capire e descrivere i fatti territoriali,

proprio di quei tre grandi precursori era ritenuto basilare anche in ambito positivista: la rottura

fu su come interpretare le forze che definendo l’evoluzione fornivano la possibilità di formulare

previsioni60. I positivisti rifiutavano infatti qualsiasi conoscenza metafisica che pretendesse di

comprendere e spiegare tramite posizioni assunte a-priori, non verificabili scientificamente. Di

qui il continuo sforzo di comprendere le leggi che controllavano la natura, ossia le relazioni

costanti che esistono tra i fenomeni osservati, adottando un approccio alla scienza di tipo

nomotetico. E’ in questo contesto che si assiste allo sforzo, a livello accademico, di trasformare

la geografia –da disciplina puramente descrittiva capace solo di catalogare ed ordinare dati ed

59 Sul suo pensiero si vedano L.A.Coser (1983, pp.141-192) e F.Ferrarotti (1968, pp.79-92). 60 Si veda al riguardo A.Holt-Jensen (1999, pp.26-28).

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informazioni– in una disciplina nomotetica in modo da conferirle credibilità e renderla

accettabile come “scienza empirica”.

Se in questo modo possiamo capire e interpretare l’impatto del positivismo sulla geografia

ottocentesca, un po’ più complesso è spiegare l’inserimento dell’evoluzionismo darwiniano61.

Qui occorre tener presente il tradizionale dualismo tra geografia fisica e geografia umana.

La geografia fisica essendo relativa a fenomeni fisici (clima, acque, vulcani, pedologia,

morfologia…) è chiaramente legata alle scienze naturali e quindi è “per sua natura” una

“scienza empirica” interpretabile con i canoni del positivismo. In altri termini, per la geografia

fisica è possibile partire dalle osservazioni, analizzare i fatti, individuarne le relazioni costanti e

così formulare quelle leggi di natura, generali ed astratte, con cui definire delle previsioni

scientificamente coerenti. A differenza dei geografi fisici, però, i geografi umani non sono in

grado di verificare le loro ipotesi attraverso prove ripetibili in laboratorio e i metodi statistici

dell’epoca non erano ancora abbastanza sviluppati da offrirsi come appropriati strumenti nei

casi più complessi. Per la geografia umana il problema è, infatti, molto più arduo: come fa lo

“scienziato umano” ad osservare, analizzare e definire per prevedere, se l’esperimento

(l’individuo o la società) non è da lui totalmente sperimentabile in quanto la durata

dell’esperimento è spesso più lunga della vita dello scienziato stesso? In mancanza di

possibilità di sperimentare prima e verificare poi, la geografia umana, al pari della storia e della

filosofia, non può essere considerata una “scienza empirica” ma può solo far parte delle

“scienze umane”, delle humanities. La geografia umana potrà diventare scienza empirica solo

facendo riferimento all’evoluzionismo darwiniano

“la geografia dell’uomo non potrà avere una solida base scientifica, se non quando avrà posto come pietre angolari delle sue fondamenta le leggi generali che regolano la diffusione di tutta quanta la vita organica sulla Terra” (Ratzel, 1914, p.9).

È l’evoluzionismo, quindi, che assume il ruolo di banco di prova dello scienziato, di punto di

riferimento che, dopo aver analizzato i fatti (relativi al comportamento dell’uomo ed alla storia

della sua società sulla superficie terrestre), permette di individuare quelle relazioni costanti

(dell’uomo in quanto animale) attraverso cui formulare le leggi di natura con cui definire

previsioni scientificamente coerenti: la geografia umana

“si vale degli stessi metodi delle scienze naturali… [ma] non può avvantaggiarsi dello sperimento che in piccola misura. A questa deficienza essa trova compenso valendosi ampliamente della comparazione” (Ratzel (1905/7, vol.I, p.60).

Comparazione che, basandosi sull’analisi dello sviluppo storico dei vari popoli o Stati ed

essendo utilizzata all’interno delle basi teoriche dell’evoluzionismo, rappresenta l’esperimento

richiesto dal metodo scientifico positivo.

In questo modo la geografia, sia fisica che umana, della seconda metà del 1800 trovò la sua

base filosofica nel metodo scientifico positivo e la sua base scientifica nell’evoluzionismo

darwiniano: due strutture concettuali che permisero ai geografi ottocenteschi di interpretare

61 Circa il problematico “impatto di Darwin sulla geografia” si veda D.R.Stoddartt (1966).

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quel collegamento tra natura ed uomo, o meglio tra ambiente e cultura, e dare un forte

contenuto scientifico alla disciplina. Friedrich Ratzel (1844-1904) è il geografo cui usualmente

si fa riferimento quale fondatore del primo grande paradigma geografico denominato geografia

determinista62.

3.4 – La geografia determinista tedesca: il metodo e l’influenza di Friedrich Ratzel.

Nel corso della prima metà del 1800 in tutti gli Stati tedeschi formanti la Confederazione

Germanica venne razionalizzata l’organizzazione scolastica tanto che “intorno al 1840 soltanto

il 10% delle reclute prussiane non sapeva scrivere” ed al momento della formazione

dell’Impero l’obbligo scolastico poteva dirsi ormai consolidato (Cipolla, 1971, p. 87). La

geografia, in particolare in Prussia63, era insegnata in ogni ordine di scuola ed il suo

insegnamento universitario venne diffuso ed organizzato ben prima che negli altri paesi

europei tanto che verso il 1890 in tutte le università tedesche vi erano insegnamenti

specializzati in geografia64.

In quest’ambito estremamente favorevole la geografia umana comincia a definirsi come un

preciso ramo scientifico alla scuola di Friedrich Ratzel (1844-1904) considerato il fondatore

della moderna geografia ed il capofila di quella geografia politica che “ha permeato gran parte

della scuola germanica e profondamente influenzato i geografi americani e italiani” (Pecora,

1986, p.38)65. Egli, dopo un primo diploma come farmacista, s’iscrisse al Politecnico di

Karlsruhe seguì corsi di scienze naturali; si trasferì infine a Heidelberg dove, sotto la guida di

Ernst Haeckel, completò i suoi studi66. Fervente nazionalista si arruolò nella guerra del 1870 e

fu decorato con la Croce di Guerra. In seguito, come giornalista, viaggiò molto in Europa e

62 Sul pensiero ratzeliano si vedano gli interessanti lavori di: F.Farinelli (1992, pp.133-145); C.Minca L.Blialasiewicz (2004, pp.137-151) e C.Raffestin D.Lopreno Y.Pasteur (1995, pp.29-75). 63 Circa il ruolo trainante, se non egemone, della scuola prussiana nei confronti dell’intera Germania si veda: P.Schiera (1986). Sull’importanza della geografia per una politica espansiva della Prussia si veda P.Lorot, 1997, pp.7-8. 64 Secondo E.De Martonne (1925, p.20): “l’enseignement géographique universitaire a été organisé plus tôt que dans les autres pays”. Si veda anche N.Broc (1977, p.73): “En 1890, pratiquement toutes les universités allemandes ont un enseignement spécialisé de géographie”. Circa la sequenza delle varie cattedre di geografia ed i rispettivi titolari si veda G.Sandner (1994, p.73). Sull’importanza delle Università nella Germania ottocentesca si vedano A.Missiroli (1986), P.Schiera (1986) e H.Capel (1987, pp.26-30). 65 Come afferma A.Demangeon (1932, p.22): “Avant Ratzel, l’étude de la géographie politique n’avait jamais formé une discipline systématique”; si veda al riguardo anche B.Nice (1943a, p.149). Circa la sua influenza sula geografia italiana occorre ricordare che i suoi scritti più importanti sono stati prontamente tradotti anche in italiano: fra il 1891 ed il 1896 vennero pubblicati, col titolo Razze Umane, i tre volumi di Völkerkunde, nel 1909 se ne tradusse la seconda edizione; nei due anni 1901/1902 vennero pubblicati a dispense i due volumi La terra e la vita; nel 1906 venne tradotto Il Mare. La traduzione dell’Antropogheographie è del 1914 e si basa sulla 3° edizione. Di Politische Geographie ne venne iniziata una traduzione (probabilmente basandosi sulla seconda edizione) da Cesare Battisti che, sfortunatamente mai completata, è stata data alle stampe solo nel 1988 quando è stato pubblicato il suo carteggio. 66 Molte sono le biografie di Friedrich Ratzel: fra tutte molto interessante è quella di M.Korinman (1990, pp.33-50). Fra quelle in italiano si suggeriscono –anche se molto limitate– quelle presenti nei testi di P.Lorot (1997) di O.Marinelli (1905) e di J.O’Loughlin (2000). Fu un prolifico scrittore e, come nota O.Marinelli, la sua produzione scientifica è stata “straordinariamente abbondante, abbracciando quasi tutto il vasto dominio della geografia”; oltre all’interessante analisi dei suoi principali scritti che ne fa O.Marinelli (1905, la citazione è a p.10) si veda l’importante necrologio che ne fa J.Brunhes (1904, p.104) che enumera ben 24 libri ed oltre 100 articoli.

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negli Stati Uniti67. Al ritorno dal suo viaggio negli Stati Uniti ottenne, nel 1875, la cattedra di

Geografia all’Università di Monaco e nel 1886 passò all’Università di Lipsia, dove insegnò

Geografia fino alla sua morte avvenuta nel 1904.

Egli vede nel metodo sperimentale la migliore delle procedure d’indagine ma, poiché la

geografia non può operare applicandolo letteralmente, occorre prima di tutto procedere ad una

classificazione e poi utilizzare l’analisi comparativa68. Il geografo in quanto scienziato positivo:

“non deve limitarsi semplicemente a far un elenco dei fatti geografici, ma deve altresì studiarne gli effetti sopra i sensi e la mente dell’uomo… [poiché] la comparazione dei numerosi casi che si trovano dispersi sulla terra nelle più diverse condizioni è uno strumento indispensabile per afferrarne e comprenderne le leggi che li governano” (Ratzel, 1905/7, vol.I, p.VI).

Il geografo deve cioè “esporre le reciproche relazioni che intercedono fra i fenomeni della

superficie terrestre” (Ratzel, 1905/7, vol.I, p.V) osservando e confrontando tra loro i molti

esempi storici che, la panoramica dei secoli passati e la casistica del suo tempo, riescono ad

offrire69.

Allievo di Ernst Haeckel70 fu certamente un profondo conoscitore delle teorie evoluzioniste

ed innegabile é il peso che le idee di Charles Darwin71 hanno avuto sulla sua geografia ed

ancora di più su quella della sua scuola. La sua posizione nei confronti dell’evoluzionismo

darwiniano è sempre chiaramente espressa:

“La geografia dell’uomo non potrà avere una solida base scientifica, se non quando avrà posto come pietre angolari delle sue fondamenta le leggi generali che regolano la diffusione di tutta quanta la vita organica sulla Terra… Se noi consideriamo l’uomo dentro il quadro generale della vita terrestre, non sarà possibile comprendere il posto ch’egli occupa sulla Terra se non seguendo quello stesso metodo di cui ci serviamo per studiare la diffusione delle piante e degli animali… Tutta la storia dell’umanità è una continua evoluzione sulla Terra e colla Terra; e non è questa una semplice coesistenza, ma umanità e Terra vivono, soffrono, progrediscono ed invecchiano insieme. Basta pensare quali profondi legami debbano nascere da un tal genere di coesistenza, per rendersi subito conto quanto sia superflua ogni domanda dubitativa circa l’esistenza o meno di un nesso fra la Terra e l’uomo, circa l’influenza o meno che il territorio e tutto quanto

67 Circa l’importanza del suo viaggio negli USA si vedano le interessanti analisi che ne fanno C.O.Sauer (1971) e M.Bassin (1984). 68 F.Ratzel, 1914, pp.89, 90 e 91: “Classificazione [che] è necessario stabilire prima di procedere innanzi nello studio scientifico. È questa una necessità, di cui non si rendono conto coloro i quali, affrontano una scienza descrittiva, pretendono ristabilire senz’altro delle leggi naturali… [sotto questo aspetto] la classificazione rappresenta il primo passo del metodo induttivo… [mentre] il processo di comparazione si rende già manifesto in tutto il lavoro di classificazione… Se per la geografia la possibilità dello studio sperimentale fosse così vasta com’è per altre scienze, la necessità del procedimento comparativo sarebbe meno grande”. 69 F.Ratzel, 1914, p.91: “per lo studio di questi fenomeni può solo servire l’esperimento che ci presenta la natura stessa mediante il ripetersi di processi analoghi in condizioni diverse… Dal che si deduce come la geografia debba compiere un vasto lavoro di comparazione, senza lasciar inosservato neppure un angolo della terra” (corsivo dell’autore). 70 Circa i profondi legami di F.Ratzel con E.Haeckel si veda l’analisi che ne fanno C.Raffestin D.Lopreno I.Pasteur (1995, pp.36-53). Sulla fondamentale importanza delle idee e dell’insegnamento di E.Haeckel riguardo alla diffusione del pensiero darwiniano si veda F.Mondella (1971, pp.258-270); per G.Landucci (1977, p.81) “con Haeckel, il darwinismo diventò una vera e propria metafisica monistica e si saldò definitivamente con una certa visione della società”; come nota P.Acot (1989, p.42) “il termine ecologia è stato coniato nel 1866, da uno dei più ferventi discepoli di Charles Darwin: Ernst Haeckel”. 71 Che definisce “il più grande dei pensatori” (Ratzel, 1914, p.47).

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l’ambiente fisico esercitano sulla storia, sui popoli, sugli Stati, sulle società umane” (Ratzel, 1914, pp.9; 75 e 95).

È chiara anche l’influenza haeckeliana nella sua concezione organica della Terra. Friedrich

Ratzel considera infatti il pianeta come un unicum:

“noi dobbiamo per prima cosa considerare e studiare l’insieme… come un tutto inscindibile, collegato dalla storia e da reciproche e ininterrotte azioni, noi la chiamiamo concezione organica della terra e la contrapponiamo a quella che tiene disgiunte le parti del globo terrestre, quasi ritrovassero accidentalmente insieme riunite” (Ratzel, 1905/7, vol.II, pp.1 e 2).

Questo lo porta ad una netta opposizione ad una visione e ad uno studio che consideri

separatamente la geografia fisica da quella umana. Il suo lavoro più noto

l’Anthropogeographie72 si apre con:

“La vita terrestre è una nella materia e nello spazio. La nostra terra costituisce in sé un unico complesso… tutte le cose sulla Terra trovansi legate ed unite in un tutto unico da una legge di così profonda necessità” (Ratzel, 1914, p.1).

Alla base delle sue idee c’è quindi la profonda convinzione nella concezione organica73: le

parti del tutto svolgono funzioni diverse ma sono tutte collegate fra loro, per cui é impossibile

studiare un fenomeno separatamente dall’intero contesto in cui é inserito. La geografia:

“deve studiare la Terra unita, come essa é, insieme coll’uomo, epperò non può disgiungere tale studio da quello della vita vegetale ed animale. Le scambievoli relazioni esistenti fra la Terra e la vita, che sopra di essa si produce e si sviluppa, costituiscono appunto il nesso fra l’una e l’altra e pertanto debbono essere particolarmente considerate” (Ratzel, 1914, p.13)74.

Rispetto all’uomo, continua Friedrich Ratzel, “l’ambiente, la natura é immutabile” e perciò é

naturale che “determinate condizioni naturali assegnino al movimento della vita sempre

72 La prima edizione del primo volume di Anthropogeographie è del 1891, cui segui una seconda, riveduta e corretta, nel 1899. Una prima ampia recensione ne fa G.Cora (1892/93); E.Durkheim (1898/9, p.550) la definisce: “l’œuvre fondamentale de M.Ratzel, celle où se trouvent exposés les principes essentiels de la science qu’il a entrepris de fonder”. Ne seguì terza, una semplice ristampa, nel 1909 a cinque anni dalla sua morte; l’edizione italiana del 1914 -il cui titolo è Geografia dell’Uomo (Antropogeografia). Principi d’applicazione della scienza geografica alla storia- si basa proprio su quest’ultima edizione. 73 Nell’articolo scritto ad oc per la Rivista Italiana di Sociologia F.Ratzel arriva ad affermare “secondo il nostro concetto geografico, non v’è soltanto luogo ad un paragone tra società ed organismo, ma si tratta invece di un fatto” (Ratzel, 1898, p.147). È ben vero che le posizioni critiche più recenti attenuano di molto il fatto di considerarlo “semplicemente come un organicista”: C.Raffestin D.Lopreno Y.Pasteur (1995, pp.34-36), ma anche G.Dijkink (2001), F.Farinelli (1992, pp. 133-145), C.Minca L.Bialasievicz (2004, pp.137-151); posizione che C.Raffestin ha sostenuto in modo molto forte nelle sue quattro pagine della postfazione (1988). A parer mio, però, tutti i lavori e tutto il costrutto teorico ratzeliano sono così profondamente intrisi da metafore organiciste che non è possibile interpretarli senza considerare il suo radicato organicismo. Lo stesso V.Berdoulay (1982, p.582) afferma: “Ratzel dont le discours est émaillé de métaphores organicistes sur l’Etat”. Sicuramente più interessante è la posizione di M. Korinman secondo cui: “Comparer l’État à un organisme ne signifiait pas, dans l’esprit de Ratzel, assimiler l’un à l’autre, c’était indiquer au lecteur qu’on pouvait, en géographie comme en biologie, avancer la possibilité de grandes constructions explicatives…[in questo modo] les géographes se rendraient capables d’énoncer des règles générales susceptibles de clarifier l’Histoire” (Korinman, 1990, p.43) ; vicini a questa interpretazione sono anche D.Lopreno Y.Pasteur G.P.Torricelli (1994). 74 Qui ben si sente l’influenza di E.Haeckel che definisce l’ecologia “la scienza dell’insieme dei rapporti degli organismi col mondo esterno in generale, con le condizioni organiche ed inorganiche dell’esistenza; ciò che abbiamo chiamato l’economia della natura, le mutue relazioni di tutti gli organismi che vivono in un solo medesimo luogo, il loro adattamento all’ambiente che le circonda, le trasformazioni prodotte dalla lotta per l’esistenza” (citato in P.Acot, 1989, p.43).

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identiche vie e, rinnovandosi perennemente, vi pongano sempre e nello stesso senso ostacolo

o limitazione” (Ratzel, 1914, p.13). La geografia umana deve studiare le varie influenze che la

natura esercita sugli esseri viventi cercando di ricondurre queste a leggi generali rigettando la

tradizione geografica precedente che si basava esclusivamente su descrizioni e generalizzazioni

prescientifiche che portavano solo a “confutare parole con altre parole” né lasciarsi trascinare

“dall’amore della costruzione stilistica a coordinamenti che la loro fredda ragione

respingerebbe” (Ratzel, 1914, pp.39 e 40) 75. Il geografo secondo Friedrich Ratzel, che in

questo modo fa proprie alcune posizioni del positivismo comtiamo76, prima di affrontare lo

studio complessivo, che concerne l’influenza della natura sui destini dell’umanità doveva

analizzare specificatamente le particolari “forme dell’influenza della natura sull’uomo”:

– “un’influenza che si esercita sugli individui e produce in questi una modificazione intima e

durevole” ma soltanto se estesa ad un intero popolo questa potrà diventare materia della

geografia e della storia;

– “un’influenza che indirizza, accelera od ostacola l’espansione delle masse dei popoli” e questa

riguardando il problema spaziale é basilare materia della geografia;

– “un’influenza mediata sull’intima essenza di ciascun popolo, la quale si esercita assegnando

ad esso delle condizioni geografiche che favoriscono il suo isolamento” e in questo caso il

popolo mantiene le proprie caratteristiche, “oppure facilitano la mescolanza con altri popoli e

quindi la perdita delle caratteristiche stesse” favorendo così la formazione di un nuovo popolo,

elementi basilari della sua Antropogeografia;

– infine un’influenza che agisce “sulla costituzione sociale di ciascun popolo” e “si esercita

coll’offrirgli maggiore o minore ricchezza di doni naturali” e quindi indirizza un popolo nei suoi

costumi e mentalità, influenza che forma la struttura della sua Politische Geographie (Ratzel,

1914, pp.45-46)77.

Questi influssi appaiono molto netti quando, cercando di trovare delle giustificazioni per i

cambiamenti che avvengono all’interno di un popolo, ricorre ai concetti di variabilità ed

ereditarietà specificando che “la prima produce delle modificazioni e la seconda le trasmette

poscia alla discendenza”. Inoltre egli volontariamente sostituisce il concetto darwiniano di

selezione naturale con quello più compatibile nel campo della geografia di migrazione e

isolamento78. La migrazione, infatti, favorisce il mescolamento delle caratteristiche dei popoli

che si spostano con quelle dei popoli residenti, mentre l’isolamento preserva le caratteristiche

uniche di quei popoli.

75 O, meglio, come afferma qualche pagina prima: “fu merito della geografia l’aver trasportato la teoria delle influenze dell’ambiente sul terreno prettamente scientifico dell’indagine particolare” (Ratzel, 1914, p.29). 76 Circa l’accettazione critica del positivismo comtiano si veda l’intera parte prima della sua Antropogeografia ed in particolare alle pp.25-30. 77 Influenze, o meglio influssi, che saranno oggetto degli strali più violenti da parte di L.Febvre, 1980, p.421: “la parola «influssi» non appartiene al linguaggio scientifico, bensì a quello astrologico. Lasciamola dunque una buona volta ad astrologi e ad altri «ciarlatani»”. 78 A cui dedica l’intera seconda parte del suo Antropogeografia (pp.111-208).

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Possiamo così sintetizzare la posizione della geografia determinista ratzelina: l’ambiente, in

quanto dato attivo, agisce sull’uomo, lo plasma e ne determina il suo comportamento, ed il

risultato è una determinata società che, con la sua cultura, vive su di un preciso suolo.

Concetto questo ben recepito da molti suoi continuatori divenendo per lungo tempo il principio

guida della geografia determinista.

Sua principale divulgatrice in ambiente nordamericano fu Ellen Churcill Semple (1863-1932)

il cui più importante lavoro significativamente s’intitola Influences of Geographical

Environment79; il suo incipit è estremamente significativo:

“L’uomo è un prodotto della superficie terrestre. Questo non significa semplicemente che è figlio della terra, polvere della sua polvere; ma che la terra gli ha dato la vita, l’ha nutrito, gli ha assegnato i suoi compiti, ha diretto i suoi pensieri, l’ha messo di fronte a difficoltà che hanno rafforzato il suo corpo e aguzzato il suo ingegno… Nelle valli fluviali lo vincola al suolo fertile, circoscrive le sue idee e le sue ambizioni in un cerchio opaco di doveri tranquilli ma esigenti, restringe la sua prospettiva all’orizzonte limitato della sua fattoria. Sugli altopiani spazzati dal vento, nelle distese sconfinate delle praterie e nelle regioni aride del deserto, dove erra con le sue greggi da pascolo a pascolo e da oasi a oasi, dove la vita conosce molte privazioni ma sfugge alla monotonia opprimente di un lavoro faticoso, dove la sorveglianza del gregge al pascolo gli lascia il tempo per la contemplazione e la vita errabonda gli concede un vasto orizzonte, le sue idee assumono una semplicità quasi sovrumana: la religione diventa monoteismo, Dio si fa uno, impareggiabile come la sabbia del deserto e l’erba della steppa, che si estende ampiamente senza interruzioni o cambiamenti…”80.

Dal passo qui sopra appare chiaro come le civiltà agricole non possano essere altro che

animiste e politeiste mentre, ed è quello che è più evidente, solo nelle tribù nomadiche delle

steppe asiatiche potevano avere origine le grandi religioni monoteiste. L’ambiente per Ellen

Churcill Semple è così attivo nella sua azione sull’uomo che non solo plasma i suoi muscoli ma

gli fornisce anche gli strumenti per le sue idee ed il suo Credo: lo stesso concetto di Dio è

frutto delle idee nate dal condizionamento ambientale.

Molto meno impegnativa, ma sempre significativa nel confronti del determinismo, è

l’affermazione di Roberto Almagià (1968, II, p.72):

“La maggior parte delle forme, che si ritengono inferiori, dell’umanità attuale sono raccolte nelle regioni tropicali ed australi dell’Ecumene, in spiccato contrasto con l’Eurasia, che è l’area occupata dalle forme più evolute (neoforme). Queste forme superiori, dotate di grandi possibilità di espansione, sono quelle che nel periodo storico (ultimi millenni) si sono più affermate, imponendosi spesso alle inferiori”81.

79 Il cui sottotitolo On the basis of Ratzel’s system of Anthropo-geography definisce in modo netto la posizione dell’autrice. È stato un testo fondamentale per la divulgazione delle idee ratzeliane la cui basilare importanza per la geografia anglofona è rimarcata dal fatto che J.K.Wright (1966), affermando che “Books are not unlike people, and some books, like some people, deserve biographies”, gli dedica appunto una “bibliobiografia”. Su questo si veda anche N.Broc (1981). Per una biografia di E.Churcill Semple si veda C.C.Colby (1933; 1976). 80 La citazione è tratta da A.Pecora (1986, pp.40-41) che ha tradotto alcune pagine del libro di E.Curcill Semple (1911). 81 Il testo cui tale citazione si riferisce si intitola Fondamenti di Geografia Generale ed è stato utilizzato per lungo tempo quale testo base nelle università italiane; la prima edizione è del 1945, l’ultima è del 1961, a cui seguirono numerose ristampe.

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3.5 – Lo Stato come popolo e suolo, nella concezione ratzeliana.

Lo Stato –inteso non tanto come un’istituzione giuridico-formale ma, sostanzialmente, come

il risultato finale del processo che trasforma un popolo, una società, in un potente organismo

vivo e vitale82– è l’elemento principe dei suoi studi. Nell’Anthropogeographie le ha riservato

solo il terzo capitolo, ma è più facile comprendere il suo pensiero se i termini popolo e società,

da lui frequentemente usati, vengono sostituiti dal più congruente termine Stato; mentre è un

concetto che informa tutto il suo Politische Geographie. Un lavoro, questo ultimo, che lo stesso

Emile Durkhein definisce un testo base il cui scopo è quello di proporre la Geografia Politica

come scienza sociale”83.

Le due opere, che rappresentano l’espressione della sua teoria, sono in ogni caso

abbastanza simili nella struttura e si completano a vicenda nei contenuti84.

“Allorché più genti si collegano fra loro a scopo di offesa o di difesa, la nuova unità che si forma non è altro che uno Stato. Questo ha così sormontato prima l’unità economica, poscia l’unità affinitaria, e si eleva al di sopra di esse comprendendole entrambe…” (A, p.68) 85.

Questa è la prima definizione di Stato che appare nell’Antropogeografia e come si vede

viene presentato come la forma ultima derivante dallo sviluppo dell’aggregazione di un popolo.

Molto probabilmente questa definizione gli derivava dalla conoscenza sia il pensiero hegeliano

sia di quello di Herbert Spencer86. Molto più interessante da punto di vista evoluzionista e più

precisa da quello territoriale è la definizione che ne dà nel suo Politische Geographie “Jeder

Stadt ist ein Stück Menschheit und ein Stück Boden”: cioè ogni Stato è formato da una

82 Su questo concetto di Stato si veda anche C.Hussy (1988, p.IV). 83 E.Durkhein (1898, pp.522-523) che afferma: “a pour objet de constituer la géographie politique à l’état de science et même, plus spécialement, de science sociale”; qualche riga dopo egli poi critica l’oggetto di questa nuova scienza “étudier l’État dans ses rapports avec le sol” definendolo come “expression bien vague [qui] délimite mal un champ de recherches” più avanti però, afferma che se lo scopo di di questa nuova scienza è quello di studiare l’evoluzione territoriale di uno Stato in modo di individuare “les lois de cette évolution, les conditions dont dépendent les divers éléments di facteur territorial et les fonctions qu’il remplissent dans la société… [così, ed in questo caso]… le système de recherches qu’on désigne par ce mot cesse d’être… un simple inventaire descriptif de divisions politiques ou administratives, pour devenir une véritable science explicative”. 84 I riferimenti per le analisi sono i due testi Antropogeografia (Ratzel, 1914) e Politiche Geographie (Ratzel, 1923); tutte le citazioni, se non indicato differentemente, si riferiscono a questi due lavori: la sigla “A” è riferita al primo e “PG” al secondo. 85 E poi prosegue: “… raggiunto in tal modo lo stadio nel quale lo Stato soltanto è capace di un incremento territoriale compatto. Dopo essersi così formata, quest’unità si è venuta via via accrescendo, fino a raggiungere l’ampiezza degl’imperi mondiali” (corsivo dell’autore). 86 Alla fine del 1800 è ben certo che i pensatori tedeschi dovessero ben conoscere questi due autori ed utilizzassero talune loro definizioni; sui rapporti del pensiero ratzeliano con quello di G.W.F.Hegel ed H.Spencer si vedano D.Lopreno Y.Pasteur G.P.Torricelli (1994) ed in particolare i primi due capitoli dell’interessante lavoro di C.Raffestin D.Lopreno Y.Pasteur (1995). La definizione di cui sopra ricalca molto quella di G.W.F.Hegel (1972, p.22): “Una moltitudine di uomini può darsi il nome di Stato soltanto se è unita per la comune difesa di tutto ciò che è sua proprietà… Onde una moltitudine formi uno Stato si esige che essa costituisca un comune apparato militare e un potere statale”. Anche H. Spencer (1881, pp. 161 e 180), nell’analizzare l’aspetto sociologico della condotta, afferma: “La vita dell’organismo sociale deve essere, come un fine, collocata innanzi alla vita delle sue unità… Appena lo stato sociale si stabilisce, la conservazione della società diviene un mezzo di preservazione delle sue unità… Donde la conservazione sociale diventa un fine prossimo che acquista precedenza sullo scopo finale, la conservazione dell’individuo… [e conclude]… il più elevato grado di vita essendo raggiunto solamente quando, oltre l’aiuto scambievole della vita per mutui favori specifici, gli uomini in altra guisa s’aiutano a completare la loro vita”

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frazione di umanità e da una porzione di suolo87. In questa sua affermazione popolo e suolo

sono i soli due elementi costituenti lo Stato che, così, non è più legato a “problemi dinastici”

ma è divenuto un’entità con vita propria dipendente dalla profonda interazione che viene a

stabilirsi fra i suoi due elementi. Egli, infatti, continua:

“Lo Stato è un organismo legato ad una determinata parte della superficie terrestre e le sue caratteristiche risultano dalla stretta associazione tra quelle del popolo e del suo suolo”88.

Subito dopo però aggiunge:

“ma quando si parla di “nostro paese” a questa base naturale vi si aggiunge tutto ciò che l’uomo ha creato ed i ricordi che vi sono radicati”89.

In questo modo il termine unserem Land (nostro paese) acquista un significato non solamente

politico-amministrativo ma esprime anche un “legame spirituale ed affettivo”90, tramite la

storia, fra “il popolo ed il suolo”. Ed è per questo che:

“lo Stato ci appare come un organismo non solamente perché sul suo immutabile suolo si sviluppa la vita di un popolo, ma anche perché questo legame si rafforza reciprocamente al punto che se ne forma uno solo ed i suoi due elementi [popolo e suolo] non possono essere pensati l’uno senza l’altro. Il suolo ed il popolo contribuiscono a questo risultato in quanto posseggono le proprietà necessarie per agire uno sull’altro”91.

La posizione ratzeliana, con l’analogia Stato-organismo, sembra qui in perfetta sintonia con

l’interpretazione ecologista/evoluzionista: in questo modo le problematiche concernenti la

geografia politica appaiono ben connesse al “banco di prova” haeckeliano/darwiniano. Di fatto

però simili enunciati sembrano poco congruenti con lo “spirito scientifico positivo”: la

“connessione spirituale e sentimentale”, che fa da perfetto collante fra popolo e suolo

all’interno dello Stato, appare molto vicina ad un enunciato “metafisico” individuante un

finalismo statale mancante di verifica empirica e quindi non funzionale per un’analisi scientifica

che osservi, senza prevenzioni, fatti reali.

87 Questo è il titolo del secondo paragrafo: qualche riga dopo (PG, p.2) tale definizione viene un po’ ampliata; “una frazione di umanità o un’opera umana e, nello stesso tempo, una porzione di suolo terrestre” (ein Stück Menschheit oder ein menschliches Werk und zugleich ein Stück Erdboden). Egli usa sempre, a questo riguardo il termine Boden, traducibile con il termine Suolo ed i suoi traduttori si attengono a questo significato utilizzando parole analoghe: C. Battisti (Ratzel, 1987c) usa sempre “suolo”, P. Rusch (Ratzel, 1988) e F. Ewald (Ratzel, 1987a) –nelle loro due traduzioni francesi– utilizzano sempre il termine “sol” mentre U. Cavallero nella traduzione italiana dell’Anthropogeographie utilizza i due termini suolo e territorio come sinonimi. 88 PG, p.4: “der Staat zu einem Organismus wird, in den ein bestimmter Teil der Erdoberfläche so mit eingeht, daß sich die Eigenschaften des Staates aus denen des Volkes und des Bodens zusammensetzen”. Sul legame suolo-Stato egli afferma anche (Ratzel, 1987b, p.203): “le rôle du sol apparaît avec plus d’évidence dans l’histoire des États que dans l’historie des sociétés”. 89 PG, p.4: “Sprechen wir aber non von unserem “Land”, so verbindet sich in unserer Vorstellung mit dieser natürlichen Grundlage alles, was der Mensch darin und darauf geschaffen und von Erinnerungen gleichsam hineingegraben hat”. 90 PG, p.4: “er geht eine geistige und gemütliche Verbindung mit uns, seinen Bewohnern, und mit unserer ganzen Geschichte ein”. 91 PG, p.4: “Der Staat ist uns nicht ein Organismus bloß weil er eine Verbindung des lebendigen Volkes mit dem starren Boden ist, sondern weil diese Verbindung sich durch Wechselwirkung so sehr befestigt, daß beide eins werden und nicht mehr auseinandergelöst gedacht werden können, ohne daß das Leben entfliehet. Boden und Volk tragen beide zu diesem Resultate in den Maße bei, als sie die Eigenschaften besitzen, die notwendig sind zum Wirken des einem auf das andere”.

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Di fatto, però, egli si muove sempre nell’ambito ecologico di Ernst Haeckel in quanto, subito

dopo quella definizione, afferma “Lo Stato vive necessariamente del suolo”92. La sua è, in

effetti, una posizione che si fonda su di una condizione “biologica” dello Stato:

“dappertutto si riconoscono somiglianze di forma fra tutti gli esseri viventi, in quanto essi traggono dal loro legame al suolo la loro vitalità. Questo legame, in effetti, costituisce per tutti loro –che siano licheni, coralli o uomini- la caratteristica universale, una caratteristica vitale in quanto costituisce la loro stessa condizione di esistenza”93.

Inoltre quell’enunciato, di “sapore metafisico”, viene sempre attenuato spostando

continuamente il ragionamento sul suolo:

“un suolo inabitabile non nutre nessuno Stato… un suolo abitabile, soprattutto se dotato di confini naturali, favorisce lo sviluppo degli Stati… qualsiasi sviluppo di uno Stato è legato all’organizzazione progressiva del suolo attraverso una connessione sempre più stretta col popolo”94.

Affermazioni ribadite, ancora prima, nel suo Antropogeografia95:

“Il suolo rappresenta l’unico legame materiale esistente nell’interno di ciascun aggregato etnico… lo Stato più semplice non si può concepire senza il suo territorio… la considerazione del suolo si impone più nella storia dello Stato che non in quella della società” (A, pp. 2 e 63).

Non solo ma lì la sua affermazione si fa ancora più decisa:

“sia grande o piccola la società che consideriamo, essa vorrà pur sempre e soprattutto mantenere il possesso del territorio, sul quale e grazie al quale essa vive. Allorché questa società si organizza per tale scopo, essa si trasforma in Stato” (A, p.67).

Tutte le comunità, dalla famiglia alle tribù, hanno bisogno di un territorio di stretta pertinenza

ma solo lo Stato è capace ottenere un incrementi territoriali stabili. Inoltre i vari stadi di

sviluppo di uno Stato sono strettamente legati alle modalità di controllo del territorio in

quanto:

“il territorio, essendo un fattore costante fra mezzo al variare degli avvenimenti umani, rappresenta in sé e per sé un elemento universale”96.

92 PG, p.3: “Der Staat muß von Boden leben”. E ancora: “Nella politica, come nella storiografia, se si dimentica il suolo, si studiano i sintomi invece delle cause” (Ratzel, 1898, p.150). Sul “radicamento dello Stato nel suolo” si veda C.Raffestin D.Lopreno I.Pasteur (1995, pp.59-63). 93 PG, p.2: “überall erkennt man die Formähnlichkeiten aller zusammengesetzten Lebensgebilde, die aus ihrer Verbindung mit dem Boden herauswirken. Ist doch für sie alle, ob Flechte, Koralle oder Mensch, diese Verbindung allgemeine Eigenschaft, Lebenseigenschaft weil Lebensbedingung”. 94 PG, p.4: “Ein unbewohnbar Boden nährt keinen Staaten… Ein bewohnbar Boden begünstigt dagegen die Staatenentwickelung, besonders wenn er natürlich umgrenzt ist… So ist denn auch die Entwicklung jedes Staates eine fortschreitende Organisierung des Bodens durch immer engere Verbindung mit dem Volk”. 95 Occorre tener presente che, se F.Ratzel usa sempre il termine Boden, U.Cavallero il traduttore italiano dell’Anthropogeographie utilizza i due termini suolo e territorio come sinonimi. 96 Le due citazioni sono di A, pp.68 e 71. In qualche punto, però, egli si lascia un po’ prendere la mano e sembrerebbe inevitabile accusarlo di un pesante determinismo: “Invero il suolo ci appare come la sorgente più profonda dell’umana soggezione in quanto esso permane rigido, immobile ed immutato… e si erge dominatore ogniqualvolta l’uomo scordi la sua presenza, per ammonirlo severamente come nel suolo sia unicamente la radice della vita…” non solo ma ben più pesantemente poi afferma “dal suolo trae alimento l’egoismo della condotta politica dei popoli, costretti ad agire secondo che impongano le condizioni del loro territorio” (A, p.74). Ed ancora: “La questione del suolo, che anch’oggi commuove le società umane, è stata sempre un problema fondamentale della creazione… non potendo mai aver fine l’importanza del suolo per la vita. Il suolo preserva la vita dal ristagno, costringendola a lottare per lo spazio; e questo è

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Chiaro quindi che suolo rappresenta il fattore costante, invariante ed invariabile di fronte a

tutti i possibili cambiamenti umani.

Nel Politische Geographie procede poi ad una precisa interpretazione, dal punto di vista

biologico, dell’interazione tra “organismo Stato” e quel –un po’ troppo metafisico– “legame

spirituale”:

“Nel regno animale e vegetale l’organismo più perfetto è quello in cui le parti sacrificano interamente la loro indipendenza al servizio del tutto. Da questo punto di vista lo Stato è un organismo estremamente imperfetto. I suoi membri mantengono una indipendenza che non esiste fra le piante e gli animali inferiori… Ma è il fatto che si tratta di un organismo spirituale e morale che lo rende così produttivo e potente: un legame spirituale unisce ciò che è materialmente separato. Da questo punto di vista non è possibile nessuna comparazione biologica, gli altri organismi non conoscono affatto ciò che governa l’organismo Stato” 97.

Quel “legame spirituale” è quindi direttamente connesso alla vitalità di una specifica comunità

e solo se tale comunità esiste sarà possibile pensare all’esistenza di uno Stato: “allorché

questa società si organizza… essa si trasforma in Stato” (A, p.67).

Nel secondo capitolo, interamente dedicato alla funzione del suolo nello sviluppo dello Stato,

egli attenua molto l’analogia Stato/organismo affermando: che se è vero che “lo sviluppo dello

Stato è un fatto spaziale”98 è altrettanto vero che la connessione tra Stato e suolo:

“non è sempre la stessa è più o meno forte a seconda del livello di sviluppo: un basso livello culturale del popolo è strettamente legato ad uno scarso senso territoriale”99

Ne consegue che lo sviluppo territoriale:

“è legato assai strettamente alla maturazione politica dei popoli, nella misura in cui essa comporta a sua volta un’estensione ed una intensificazione dei rapporti con il suolo”100.

limitato dal suolo in guisa, che la lotta per lo spazio non è altro che una lotta per il suolo” (1898, p.140). Determinismo che appare più evidente nei due volumi La terra e la vita dove, fra l’altro, afferma: “Nato sulla terra e formato dalle sostanze di questa, sviluppatosi da una lunga serie di predecessori aventi lo stesso legame colla terra, l’uomo non può essere concepito altrimenti come un essere vincolato alla terra” (1905/7, vol.II, p.762). 97 PG, p.8: “Unter Tieren und Pflanzen ist der Organismus am vollkommensten, in dem die Glieder dem Dienst des Ganzen die größten Opfer an Selbständigkeit zu bringen haben. Mit diesem Maße gemessen, ist der Staat der Menschen ein äußerst unvollkommener Organismus; denn seine Glieder bewahren sich eine Selbständigkeit, wie sie schon bei niederen Pflanzen und Tieren nicht mehr vorkommt… Was nun diese als Organismus unvollkommene Vereinigung von Menschen, die wir Staat nennen, zu so gewaltigen, einzigen Leistungen befähigt, das ist, daß es ein geistiger und sittlicher Organismus ist. Der geistige Zusammenhang verbindet das körperlich Getrennte, und darauf paßt allerdings dann kein biologischer Vergleich mehr”. Anche qui si risente un po’ del pensiero hegeliano “Per patriottismo, s’intende frequentemente soltanto la disposizione a sacrifici ed azioni straordinarie, Ma, essenzialmente, esso è il sentimento che, nella situazione consueta e nei rapporti della vita, è avvezzo a conoscere la cosa pubblica come ragione e fine sostanziale” (Hegel, 1965, p.223). 98 PG, p.19: “Die Entwickelung des Staates ist also eine räumliche Tatsache”. 99 PG, pp.19-20: “So wenig die Menschen, die das Volk des Staates ausmachen, sich über den Boden erheben können, so wenig vermag es ihr Staat; wohl aber hängt er nicht auf allen Stufen der Entwickelung gleich innig mit dem Boden zusammen end Kulturarmut ist immer auch räumlich arm, beschränkt”. 100 PG, p.19: “Und diese Entwickelung hängt mit der politischen Entfaltung der Völker auf das engste zusammen, und zwar so, daß diese sich über immer weitere Räume ausgebreitet und sich dabei immer inniger mit dem Boden verflochten hat”.

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Egli così, partendo dal postulato base “ogni Stato è formato da una frazione di umanità e da

una porzione di suolo”, spiega i profondi legami fra i due elementi e, interpretandoli sulla base

delle scienze naturali, ne dimostra la congruità all’interno della logica heckeliano/darwiniana.

Privilegiando poi il dato suolo e connettendo il “legame spirituale” alla sola evoluzione storica

dello Stato riconduce il tutto nel filone sperimentale positivista:

“l’evoluzione degli Stati permette di osservare, prima di tutto, che il radicamento al suolo comune è legato al lavoro degli individui e della collettività, solo poi si forma quel legame spirituale, riferito al suolo, che lega gli abitanti alla loro terra in funzione di uno scopo comune”101.

L’idea fondante è dunque la “l’influenza del suolo” che, gestito dal “popolo” che lo vive,

manifesta le sue influenze sulla struttura della “società” che lo organizza102. Una simile

struttura teorica di base, “eminentemente semplice ed utilizzabile”103, viene interpretata,

analizzata e discussa con abbondanti riferimenti ad analisi storico/geografiche. In ogni

paragrafo, con continuità ed un’insistenza a volte ossessiva104, Friedrich Ratzel analizza dal

punto di vista storico quegli eventi sociali, politici o economici che mettono in evidenza il ruolo

del suolo nello sviluppo o nel declino di uno Stato: egli, attraverso questi confronti ed analisi.

“dà allo Stato il suo significato spaziale, lo teorizza geograficamente” (Raffestin, 1983c, p.29).

3.6 – Posizione, Spazio, Confini.

Tre sono poi gli elementi fondamentali, sufficienti per articolare un simile costrutto teorico:

la posizione (die Lage) che permette di porre in relazione gli elementi locali del suolo con la

situazione generale della Terra, lo spazio (der Raum) con la sua influenza legata alla

dimensione, forma e struttura ed infine i confini (die Grenze) che regolano i rapporti con i

popoli confinanti.

“Situazione, spazio e confini dell’umanità e dei popoli sono iscritti nella superficie terrestre” (Ratzel, 1905, vol.II, p.762) 105

Si tratta delle strutture chiave di un potente costrutto teorico che, come nota Charles Hussy

(1988, p.IV), sono riconducibili alla triade euclidea di “punto, superficie, linea”.

La posizione (die Lage) è, nella sua sostanza, un concetto intuitivo: rappresenta “il posto”

che uno Stato occupa sulla superficie terrestre106. La sua importanza è legata al fatto che essa,

con tutti i suoi elementi, lega una determinata società o Stato ad un preciso territorio

favorendo o meno il suo rapportarsi al resto del mondo:

101 PG, p.8: “Sehen wir die Entwickelung des Staates, so ist da einmal die Einwurzelung durch die Arbeit der Einzelnen und der Gesamtheit auf dem gemeinsamen Boden, und dann haben wir die Herausbildung der geistigen Zusammenfassung aller Bewohner mit dem Boden auf ein gemeinsames Ziel hin”. 102 Si veda al riguardo il suo interessante studio sulla Corsica (Ratzel, 1899). 103 C. Hussy, 1988, p.IV: “une théorie éminemment simple et utilisable”. 104 I riferimenti storico-territoriali che F. Ratzel utilizza appaiono, a volte, un po’ forzati tanto che C. Battisti annota, a margine della sua traduzione: “Sembra metafisica! Per Dio!” (Ratzel, 1987c). 105 Si veda anche O.Marinelli (1903, pp.275-276) che a questi tre elementi aggiunge anche un quarto le forme del suolo (die Bodenformen), a parer mio concetto incluso nella posizione. 106 Si veda PG (pp.180-249), A (pp.209-227), ma anche J.Gottmann (1952, pp.78-120, citazione di p.119) secondo cui “de tous les caractères du territoire, il semble que le plus important soit la position”.

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“la posizione è una profonda costante del suolo terrestre che influenza tutti i movimenti della storia”107.

In essa è cioè incluso “il concetto d’una reciprocità d’influenze” in quanto non rappresenta una

mera giustapposizione di entità (clima, pedologia, vicinanza ad altri Stati) ma una relazione

viva e ricca di influenze reciproche fra lo Stato e il più vasto quadro in cui esso si inserisce (A,

p. 209). Essa trasmette molte caratteristiche peculiari al popolo che la occupa, “il quale

fintantoché conserva la sua posizione conserva la propria identità”108. Per questo è la posizione

che determina l’influenza e le linee dello sviluppo dei vari Stati:

“la Gran Bretagna deve oggi la sua potenza sia alla dimensione che alla felice posizione dei suoi possedimenti… la Russia, al contrario, nonostante la sua dimensione ha una posizione poco vantaggiosa in quanto delimitata all’ovest, a sud ed a nord da mari chiusi”109.

Viceversa un paese che occupi una posizione centrale –ed è il caso della Germania– potrà

esercitare, e al tempo stesso subire, molte pressioni. In particolare questa posizione centrale:

“è così potente da essere minacciata, quando è debole; essa incita un paese tanto all’offensiva quanto alla resistenza”110

e, conclude nel caso concreto,

“la Germania può esistere solo se è forte”111.

Effettivamente il discorso è molto congruente considerando che per Friedrich Ratzel “la guerra

è scuola di spazio”112: valutando il problema militare anche solo da un punto di vista difensivo,

un paese completamente circondato da altri Stati potenzialmente nemici, svilupperà un

“carattere” più diffidente rispetto ad un altro che abbia posizioni marginali113.

107 PG, p.180: “Die geographische Lage bezeichnet ein dem Erdboden angehöriges Beständige in der geschichtlichen Bewehrung”. 108 PG, p.180: “Indem ein Volk seine Lage und damit sein Land erhält, erhält es sich selbst”. Ovviamente pero, non si tratta di una caratteristica completamente fissa, ma di un ambito nel quale il paese è situato: “uno Stato può anche cambiare di forma all’interno della medesima posizione, senza modificare il suo contenuto politico” [“ein Staat mag in ihr die Formen wechseln, ohne dass der politische Gehalt entsprechende Veränderungen erführe” (PG, p.181)]. 109 PG, p.188: “Großbritannien ist heute groß durch den Raum einiger und die glückliche Lage anderer seiner Besitzungen… Rußland hat dagegen im Verhältnis zu seiner Raumgroße zu wenig Vorteile der Lage, da es im Westen, Süden und Norden nur an geschlossene Meere grenzt”; si veda anche di PG il paragrafo 169 “Le potenze mondiali” [die Weltmächte]. 110 PG, p.218: “Die zentrale oder Mittellage ist in der Stärke ebenso gewaltig wie in der Schwäche bedroht, fordert zum Angriff und zum Widerstand heraus”. 111 PG, p.220: “Deutschland ist nur, wenn es stark ist”. L’ossessione dell’accerchiamento era sicuramente ancorata in modo molto forte nelle idee del popolo tedesco se Martin Heidegger nel 1935 affermava: “Siamo presi nella morsa. Il mostro popolo, il popolo tedesco, in quanto collocato nel mezzo, subisce la pressione più forte della morsa; esso, che è il popolo più ricco di vicini e per conseguenza il più esposto, è insieme il popolo metafisico per eccellenza”. È ben chiaro però che la frase heideggeriana si colloca in un contesto ben diverso di quello ratzeliano: “Questa Europa… si trova oggi nella morsa della Russia da un lato e dell’America dall’altro. Russia e America rappresentano entrambe, da un punto di vista metafisico, la stessa cosa: la medesima desolante frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici dell’uomo massificato”. (Heidegger, 1968, pp.48-49). 112 PG, p.264: “Der Krieg als die Schule des Raumes”. Ma si veda comunque tutto il capitolo 13 (pp.261-276). 113 Si veda al riguardo PG (pp.205-223).

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Lo spazio (der Raum), inteso come “estensione superficiale” a cui è legata la vita e

l’evoluzione, è il secondo elemento chiave che, ispirando i progetti e le politiche, definisce le

ambizioni territoriali dei popoli e degli Stati114:

“Ogni declino politico è la risultante di una regressione del pensiero spaziale… uno Stato che sta ingrandendosi apparirà sempre più grande di uno Stato, pur della stessa dimensione, in fase stagnante e questo perché la sua grandezza attuale viene aumentata, agli occhi di un osservatore, di una parte della sua grandezza futura”115.

È certo però che lo spazio di pertinenza di ciascuna specie non è l’intero orbe terracqueo ma

solo una parte di esso: l’Ecumene, inteso come, “lo spazio che [una specie] occupa sulla terra

e dalla cui forma e grandezza dipende una parte della sua capacità di vita” (Ratzel, 1905/7,

vol.II, p.722). In altri termini l’ecumene rappresenta quell’horbis habitatus che definisce l’area

della vita di una singola specie. Per la specie umana “costituisce una grande zona sita

frammezzo ai due poli” (A, p.231) a cui, ovviamente, occorre levare le aree considerate

inabitabili (mari, oceani, poli, deserti, alte cime…)116. A scala geologica è variabile, ma –ed è

quello che conta per la specie umana– a scala storica è stabile e immutato117. Il fatto che sia

stabile e immutato ha un peso determinante nei rapporti fra i popoli e gli Stati in quanto la

specie umana, estremamente mobile ed adattabile, ha occupato interamente nel corso della

sua esistenza tutto il proprio ecumene dividendosi in popoli e Stati: non esiste nessuna parte

dell’ecumene che non sia di stretta pertinenza di un popolo o Stato118. In questo modo ciascun

gruppo, sia popolo che Stato, occupa una precisa posizione con una determinata estensione

superficiale che viene definita Spazio Vitale (Lebensraum)119. Una nozione estremamente

malleabile, una sorta di “ossessione politica”120, che sarà uno dei principi base della successiva

geopolitica tedesca attraverso la quale il termine assunse un significato esclusivamente

ideologico. Non è facile trovare una sua precisa definizione e la più pertinente potrebbe essere

quella definita da Umberto Toschi (1943, p.113) “lo spazio in cui un popolo vive, o meglio che

esso occupa in continuità”121.

114 Si veda PG (pp.249-388), A (pp.228-256). 115 PG, pp.262-263: “Jeder Zerfall ist der Ausfluß einer zurückgegangenen Raunauffassung … daß ein waschender Staat bei gleichen Dimensionen immer größer erscheinen wird als ein im Stillstand begriffener, denn ein Stück von der erst kommenden Größe fügt sich vor unserem geistigen Auge der Größe an, die wir heute fassen und greifen können”. 116 È ben vero che egli annota come nessun clima terrestre sia di per sé intollerabile per l’uomo in quanto organismo fra i più adattabili (Dem Menschen ist keines der Klimate unserer Erde unerträglich” PG, p. 196), ma in tutte le sue analisi degli spazi occupati fa spesso riferimento a degli spazi anecumenici per l’uomo. Sull’influenza del clima si vedano le ultime due parti del’Antropogeografia (pp.469-578) ed in particolare l’intero secondo volume del suo La terra e la vita. 117 Si veda al riguardo A (pp.228-254). 118 PG, p.29: “L’umanità, che cresce al ritmo della sua cultura, ha occupato tutte le zone abitabili della Terra, così le zone inabitate sono diventate sempre più rare. Ora non si può più parlare di aree inabitate se non dal punto di vista storico o per pura astrazione” [Da die Menschheit in ihrem mit der Kultur immer zunehmenden Wachstum auch immer weiter auf dem bewohnbaren Boden der Erde gegriffen hat, ist vollklossen Land immer seltener gewonden. Für uns gehört es innerhalb der Ökumene der Geschichte oder dem Reich der Gedanken an.] 119 Per una sua critica si vedano C.Raffestin D.Lopreno Y.Pasteur (1995, pp.31-34) e W.D.Smith (1980); una buona analisi del concetto contrapposto a grande spazio si trova in B.Nice (1943b). 120 C.Raffestin D.Lopreno Y.Pasteur, 1995, p.31 : “Le Lebensraum: aux sources d’une obsession politique”. 121 Circa la non precisa definizione si veda anche C.Raffestin D.Lopreno Y.Pasteur (1995, p.33).

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Se ciascuno Stato si comporta come organismo vivente è chiaro che fin dalla nascita egli

deve costantemente crescere: quando l’organismo smette di crescere comincia il suo declino

fisico “un popolo decade allorché subisce perdite territoriali” (A, p.64)122. È certo quindi che

nella loro fase vitale gli Stati sono obbligati ad espandere il loro spazio vitale. Questa

espansione si scontra però con due grosse limitazioni, proprie dell’ecumene stesso: da una

parte è già interamente occupato da vari Stati, ciascuno con il proprio spazio vitale in

espansione, e dall’altra è fisso e limitato in quanto non estensibile a scala storica. Ne consegue

che ciascuno Stato, per poter ampliare il proprio spazio vitale, deve per forza scontrarsi con

altri: è una legge biologica, si tratta della lotta per l’esistenza, la stessa che Darwin pone come

legge naturale di selezione:

“l’espressione tanto abusata e ancora più fraintesa di ‘lotta per l’esistenza’ vuol significare anzitutto la lotta per lo spazio” (Ratzel, 1905/7, vol.II, p.718).

La forza dello spazio, inteso come estensione di superficie, è tale che Friedrich Ratzel,

nell’analizzare e descrivere gli effetti politici dello spazio, utilizza, a volte, sia il concetto scuola

dello spazio sia di concezioni dello spazio123:

“la grandezza degli spazi sui quali noi proiettiamo le nostre idee ed i nostri progetti politici è subordinata alla superficie sulla quale ci muoviamo. Per questo esistono delle grandi e delle piccole concezioni dello spazio e queste concezioni aumentano o diminuiscono al variare della superficie su cui si vive”124.

Elementi così importanti che Jean Gottmann ha immaginato pensasse all’esistenza di una sorta

di un Raumsinn: un “senso dello spazio” che i popoli posseggono in gradi diversi e che li rende

più o meno atti a politiche d’espansione125.

I confini (die Grenzen) sono l’elemento più potente della triade in quanto rappresentano il

luogo in cui si manifestano, nella loro interezza, gli effetti e le forze definite dai primi due126.

Sempre legato alla concezione organicista, Friedrich Ratzel, afferma: “il confine, considerato

come periferia di un popolo, è un elemento costitutivo del popolo stesso” (A, p.259). Come la

pelle è parte integrante e, nello stesso tempo, organo periferico di qualsiasi essere vivente,

“esso appartiene al corpo vitale di cui rappresenta la periferia“ (A, p.260)127. Il confine poi “è

122 Posizione che verrà poi rafforzata (Ratzel, 1987b, p.204): “Un peuple régresse en tant qu’il perd du terrain. Il peut compter moins de citoyens et tenir encore assez solidement au territoire où résident les sources de sa vie. Mais que son territoire se resserre, c’est, d’une manière générale, le commencement de la fin”. 123 Si veda in particolare PG pp.262-266. 124 PG p.261: “Die Größe der Räume in die hinein wir politisch denken und planen, hängt von dem Raume ab, in dem wir leben. Deswegen gibt es kleine und große Raumfassungen, und wächst die Raumfassung oder geht mit dem Raum zurück, in dem wir leben”. 125 Si veda J.Gottmann (1952, p.41; 1966, p.1757). A mio parere J.Gottmann con il suo “sens de l’espace” enfatizza un po’ troppo il concetto ratzeliano di “die Schule des Raumes”. In ogni caso J.Gottmann è l’unico studioso che utilizza un simile concetto; un riferimento si trova anche in E.Migliorini (1966) che riporta, però, integralmente le parole di J.Gottmann. 126 Si veda PG (pp.384-446), A (pp.259-313). Sull’importanza del concetto di confine e sull’analisi che ne fa F.Ratzel si veda l’affermazione di B.Zientara (1979, p.403) “Anche oggi, a distanza di un secolo, c’e poco da aggiungere”. 127 Si veda di PG l’intero capitolo 19 che si intitola appunto “Die Grenze als peripherisches Organ”. Ancora, in PG (p. 434) afferma “il confine è la periferia dello Stato, della sua economia, della sua popolazione” [Die Grenze ist die Peripherie des Staats-, Wirtschafts- Völkergebietes] si veda anche PG (pp.387-388).

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per sua essenza mobile”128 in quanto legato a popoli e Stati che storicamente non sono mai

fissi ma soggetti a migrazioni, ampliamenti o perdite129:

“la precisa determinazione dei confini trova ragion d’essere solo in taluni momentanei arresti e nella miopia del nostro intelletto” (A, p.259).

O ancora di più, in quanto, per tutti:

“i fenomeni della natura organica o inorganica… il confine si ferma solo quando cessa il movimento e tale arresto corrisponde all’irrigidimento della morte” (A, p.260).

Per questo:

“La zona di frontiera rappresenta il fatto reale, la linea di frontiera la sua astrazione”130

e, attraverso una simile astrazione, si presenta “una situazione transitoria… un istante

sospeso”131.

Ovviamente la linea si forma solo in quanto esiste una zona di confine ma, anche in questo

caso, resta sempre e comunque una membrana periferica che si deforma in funzione

dell’espansione (o ripiegamento) dello Stato132. Confine, quindi, mai visto come limite rigido,

simbolo tradizionale di stabilità, ma sempre segno di dinamismo, di superficie fluida, molto

vicino al concetto turneriano di frontiera133.

Il confine è quindi sia l’organo che definisce popoli e Stati, sia espressione del loro

movimento134. È un organo molto complesso la cui forma (zona o linea) varia in funzione della

capacità di espansione della forza dei vari popoli. Non è infatti possibile definire i confini “negli

stadi inferiori della civiltà…[quando i popoli] non hanno ancora sentito il bisogno di dare ai loro

concetti politici una forma ben definita” sarà soltanto quando quel popolo arriverà ad

128 PG, p.387: “Die Grenze ist… immer ihrem Wesen nach veränderlich”; si veda anche quanto affermato in A (pp.259-260): “l’origine di tutte queste aree è la stessa, e risiede nel movimento ch’è proprio di ogni cosa vivente e che si arresta, o pel mancare delle condizioni necessarie alla vita, come la foresta ad una certa altitudine nelle nostre montagne, come l’uomo nelle aree ricoperte di nevi e di ghiacci delle regioni polari o sub polari, oppure per la resistenza oppostagli da un movimento proveniente da altra direzione col quale esso sia venuto ad incontrasi… Per questo il confine è per sua essenza mutevole”. E ancora: “Territorial growth is effected on the periphery of the state by the displacement of the frontier” (Ratzel, 1896, p.356). 129 “Nessun popolo della terra risponde al mitico postulato di essersi generato sul suolo che esso occupa; ne consegue che esso debba essere migrato e cresciuto… Una proprietà essenziale della vita dei popoli è la mobilità… ciò che noi chiamiamo movimento storico è ciò che già Carlo Ritter ha riassunto nel concetto di vita storica e di evoluzione dei popoli” (Ratzel, 1905/7, pp.762 e 764). Sulla “mobilità dei popoli” e i rapporti con le zone di frontiera di veda anche quanto affermato in A (pp.111-206). 130 PG, p.385: “Der Grenzsaum ist das Wirkliche, die Grenzlinie die Abstraktion davon”. 131 PG, p.385: “die eine ruhende Bewegung abzeichnet, als ob sie einen Augenblick stehen geblieben wäre”. 132 Si vedano al riguardo PG, pp.398-402 e l’analisi che ne fanno P.Giuchonnet C.Raffestin (1974, pp.9, 21 e 29-38). 133 Un accenno ad una possibile influenza delle idee di F.J.Turner ne fa solo M.Foucher (1988, p.30). Influenza che presumo non probabile in quanto il viaggio di F.Ratzel nel Nord America avvenne negli anni 1873-75 mentre F.J.Turner lesse la sua relazione sulla frontiera americana al Congresso dell’American Historical Association solo nel 1893 e la pubblicò in un volume nel 1920. 134 A, p.261: “Immediatamente al di fuori della grande compatta area linguistica delle genti germaniche stanno le isole linguistiche maggiori, più oltre alcuni comuni tedeschi, e più innanzi ancora si trovano soltanto degli sparsi individui isolati… Anche le incursioni dei popoli nomadi hanno la loro zona di confine, costituita all’interno dal limite della massa compatta, all’esterno da quello delle sue propaggini. E però per rappresentare tali confini non è mai sufficiente una linea unica, ma si richiedono un paio di linee, le quali vengono così a racchiudere una striscia di confine”; si veda anche PG (pp.390-391).

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organizzarsi in “ente politico, o Stato”, che riuscirà a “determinare e a difendere il proprio

confine”135. Gli Stati poi hanno la tendenza a semplificare la zona di frontiera appoggiandosi ad

una “linea di confine” molto più funzionale “agli scopi pratici della politica”: è facile da

determinare, rappresentare e difendere ed è tipica delle “civiltà più evolute”136.

Interessante è anche la sua opinione nei confronti dei “confini naturali” che, non potendo

essere considerati una “buona frontiera”137, non possono assolvere la funzione di confini

politici. I confini naturali pongono solo il limite all’ecumene:

“questo limite è assoluto e separa le zone abitate dall’uomo dagli spazi inabitati… [in quanto] la specie umana mostra che nulla, entro i limiti dell’ecumene, ha mai potuto separare durevolmente i popoli”138.

Nonostante la categorica chiarezza di simili posizioni molto spesso egli ne attenua la portata

in considerazione dell’evoluzione della vita di un popolo associata alle caratteristiche dei suoi

confini naturali139. Da questo punto di vista essi hanno una fondamentale importanza per i

popoli non completamente sviluppati o, meglio, per gli Stati in via di formazione e questo

perchè:

“il confine è unicamente l’espressione del movimento esterno ossia dell’incremento etnico, il quale trae vigore dalla stessa sorgente di energia etnica che l’incremento interno” (A, p.262)140.

In altri termini un popolo per formarsi ed uno Stato per svilupparsi producono una sorta di

energia etnica141 che viene utilizzata secondo due finalità. La prima, la più importante, è volta

verso l’interno e consente di definire la struttura etnico-culturale che, tenendo in vita popolo o

Stato, e permette loro di esistere, prendere coscienza di sé e definire il proprio “spazio vitale”.

È un lavoro importante e vitale senza il quale il popolo o lo Stato non esistono. La seconda,

volta verso l’esterno, sostiene quello sforzo politico-culturale-economico che permette di

mantenere prima ed ampliare poi lo “spazio vitale”, così:

135 Le citazioni sono da A, pp.260 e 261. 136 PG, p.392: “Die mathematische scharfe Bestimmung der Grenze gehört nur der höchsten Kultur”; si veda anche A (pp.264-267). 137 PG, p.420: “Die natürliche Grenze ist also nicht ohne weiteres auch eine gute Grenze. Di Güte einer Grenze hängt ebenso wohl von der Art des Landes und von seinem Volke, als von seiner Lage ab”. Ed anche A (pp.349-354 corsivo dell’autore): “I fiumi non adempiono la funzione di confini… [se non quando] costituiscono le linee di suddivisione di vasti territori privi di limiti definiti… [in ogni caso] posseggono una grande importanza nella storia delle guerre”. “Solo le montagne ed il mare sono elementi di separazione abbastanza spiccati da poter costituire dei confini veri e proprii”. Ed ancora in F.Ratzel (1905/7, p.740: “La geografia politica ha rinunziato all’opinione che i fiumi siano confini maturali; in realtà essi sono più importanti come vie”. 138 PG, p.407: “Diese Grenze ist absolut; sie sondert den Menschen vom zusammenhängend Menschenleeren… Die Menschheit zeigt, daß nichts innerhalb der Ökumene die Völker dauernd trennen konnte”. 139 Si veda tutto il capitolo 18 di PG (pp.404-427) significativamente intitolato “Die natürlichen Grenzen”; sui confini si veda l’intera parte quarta di A (pp.259-313) mentre sulla funzione dei fiumi come confini si veda A (pp.349-352). 140 Posizione analoga viene espressa anche in PG, p.419: “Irgendeine natürliche Grenze, die zugleicht eine national-gleichartige Bevölkerung umschließt, wird dadurch wirksamer, daß sie in dieser Einheitlichkeit eine Quelle von politischer Kraft hervortreibt, die wieder der Grenze zugute kommt”. 141 Nella sua sostanza questa energia etnica può essere assimilabile a quel “legame spirituale ed affettivo” che lega abitanti e suolo che egli utilizza nello spiegare la formazione di uno Stato; sotto questa forma è forse possibile comprendere il concetto di Raunsinn nell’accezione che ne fa J.Gottmann.

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“quanto maggiore è il consumo che [dell’energia etnica] si fa pel primo dei due movimenti, tanto meno ne resta disponibile pel secondo; e quanto più il primo perdura, tanto lentamente il secondo si compie” (A, pp.262-263).

È chiaro quindi che l’esistenza di importanti “confini naturali” è di estrema importanza per

definire l’esistenza di un popolo, fortificare la posizione di uno Stato e favorire poi la “lotta per

lo spazio”142.

3.7 – Conclusione.

“L’opera di Ratzel è un monumento epistemologico, sia che si tratti della sua

Antropogeografia o della sua Geografia Politica”143 e tutto il suo discorso sottende una

fortissima concezione nomotetica mirante a dare base teorica -con l’Antropogeografia- agli

studi sui popoli ed ai loro movimenti/migrazioni e -con il suo Politische Geographie- al rapporto

tra il nascente Stato-Nazione ed il suolo/territorio. Inoltre mettendo l’uomo al centro della sua

“antropogeografia” riesce a ricostruire l’unità della disciplina, che lo sviluppo delle scienze

sembrava aver compromesso, dimostrando come il geografo non sia legato solo alla

conoscenza naturalistica ma debba possedere anche un’ottima cultura storica, economica e

filosofica144.

Seguendo il pensiero darwiniano ed haeckeliano fu certamente un evoluzionista–organicista:

sotto questo aspetto fu anche un “determinista” ma le sue posizioni non definiscono mai degli

a-priori ed i suoi testi sono sovrabbondati di esempi atti a spiegare come lo spazio (Raum) e la

posizione (Laghe) influenzino (non determinino) il destino storico dei popoli. Per lui, inoltre, il

genere umano rimane unico, non esistono “razze pure” stabilmente definite da elementi

genetici ereditari ed immutabili: fatto per lui inaccettabile data la sua posizione evoluzionista–

organicista. È vero che gli esseri umani evolvono differenziandosi sotto l’influsso dell’ambiente

ma tutte le migrazioni, i traffici, i commerci e le conquiste, che si sono succedute nel corso

della storia, hanno mescolato i vari caratteri culturali e genetici145. Egli non ha mai affermato in

modo esplicito che l’ambiente determina automaticamente i vari popoli, Stati o civiltà

sostenendo anzi che gli elementi culturali, materiali o spirituali, migrano compenetrandosi fra i

142 Interessante è l’esempio Riportato in A, p.263 (corsivo dell’autore): “I popoli isolani e peninsulari sogliono giungere presto ad acquistare un carattere etnico e politico ben definito; ed è questo uno dei dati di fatto fondamentali della storia antica e moderna… soprattutto della Grecia ed anche della Gran Bretagna, si suole troppo facilmente trascurare questo concetto, del risparmio del lavoro esterno a profitto di quello interno”. 143 C.Raffestin, 1983c, p.26. O.Marinelli (1905, p.126) così concludeva il suo lungo articolo sulle opere di F.Ratzel: “Lo ripeto, il Ratzel piuttosto che imitato, deve essere seguito… L’opera del Ratzel, per rifulgere in tutto il suo splendore, non richiede che numerosi continuatori”. 144 L.Raveneau (1891, p.347) nella sua prima lunga recensione nota come “Son principal mérite est d’avoir réintégré dans la géographie l’élément humaine. Par là il a donné à cette science une orientation et une impulsion nouvelles”. Si vedano i necrologi di P.Vidal de la Blache (1904, p.467) in cui afferma: “Rétablir dans la géographie l’élément humain…et reconstituer l’unité de la science géographique” e di J.Brunhes (1904, p.104) : “Il est impossible de faire de la bonne géographie humaine sans une forte culture historique, économique et philosophique”. É chiaro che si tratta di due necrologi sono però convinto che rispecchiano pienamente non solo il pensiero dei due autori ma anche, ed è quello che qui conta, il modo con cui veniva unanimemente considerato il fondamentale apporto di F.Ratzel alla fondazione della moderna geografia. Si veda anche P.Claval, 1972, pp.55-57. 145 Come nota M.Korinman, 1990, p.40: “l’avancée culturelle serait elle-même fonction de l’intensité et du brassage dans les migrations”.

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vari popoli nel momento in cui questi vengono a contatto: una sorta di diffusionismo culturale

legato al succedersi delle incessanti migrazioni146. Solo il dato culturale trasforma un popolo in

una società e poi in uno Stato permettendogli così di diventare più forte e più grande. Lo

stesso dato culturale permette ai popoli non tanto di affrancarsi dalla natura ma di ridurre le

sue “influenze accidentali”:

“si può pertanto accettare come regola, che una gran parte dei progressi della civiltà sono ottenuti mediante un più accorto sfruttamento delle condizioni naturali… La civiltà è indipendente dalla natura non nel senso di completo affrancamento, bensì nel senso di un collegamento più molteplice, più vasto e meno imperioso… [la cultura ci rende] più indipendenti da talune sue [della natura] manifestazioni o influenze accidentali… perché sappiamo meglio trarne vantaggio” (A, pp.61-62).

Il testo più noto e più studiato è stato sicuramente il suo Politische Geographie a cui deve la

sua fama di fondatore della moderna Geografia Politica. Un testo non indirizzato solamente ai

geografi ma pensato anche per gli uomini di governo147 che voleva dotati di quel senso

geografico che non dovrebbe mai fare difetto:

“agli uomini di Stato prammatici e che caratterizza nazioni intere, a volte dissimulato sotto il concetto di istinto d’espansione, di vocazione coloniale, o senso innato di potere… [che] potrebbe essere, se non appreso, almeno sviluppato e che potrebbe dare un grande contributo alla comprensione ed alla giusta interpretazione dei fatti e degli sviluppi storici e politici”148.

Nel suo lavoro egli propone una teorica semplice e facilmente utilizzabile. Semplice in

quanto basata sull’idea di Stato inteso come principio di convergenza interna del popolo-

nazione e poi elemento di formidabile affermazione verso l’esterno; facilmente utilizzabile

anche dal punto di vista politico in quanto fondata sui tre elementi territoriali di base:

posizione, dimensione e confini. L’innovazione radicale della sua analisi risiede non tanto nella

sua concezione dello Stato come organismo biologico vivente, che nasce si ingrandisce e

declina, ma nel fatto che analizza la vitalità di tale organismo dal punto di vista dell’interazione

tra un popolo (Volk) ed uno specifico suolo (Boden) visto, quest’ultimo, nei suoi tre elementi

territoriali di base149. Concezioni queste assolutamente novative se raffrontate alla staticità

delle descrizioni di altri geografi o geografi-statistici.

146 Sull’importanza di F.Ratzel nel campo dell’etnologia si veda U.Bianchi (1971, pp.128-132) che evidenzia il suo fondamentale contributo nell’aver individuato il “concetto di zone marginali utile per rendersi conto di come certe civiltà molto arcaiche abbiano potuto sopravvivere in certe parti periferiche o estreme dei continenti, fuori dalle grandi vie seguite e conquistate dalle civiltà più giovani, più dinamiche e demograficamente più ricche” (Bianchi, 1971, p.131). 147 Su questa posizione si veda O.Marinelli (1903, p.272) e M.Korinman (1987, p.12); nella premessa (PG, p.IV) F.Ratzel afferma infatti: “questo libro non interesserà solamente i geografi” [dieses Buch werde nicht bloß Geographen interessieren]. 148 PG, p.IV: “ein geographischer Sinn… den praktischen Staatsmänner nie gefehlt und zeichnet auch ganze Nationen aus. Bei ihnen verbirgt er sich unter Namen wie Expansionstrieb, Kolonisationsgabe, angeborener Herrschergeist… so doch entwickelt werden kann, und daß er viel zum Verständnis und zur gerechten Beurteilung geschichtlicher und politischer Verhältnisse und Entwicklungen beitragen wird”. 149 Come nota lo stesso P.Vidal de la Blache (1898, pp.98-99): “Il cherche à grouper des faits et à dégager des lois, afin de mettre à disposition de la géographie politique un fond d’idées sur lesquelles elle puisse vivre… [vi sono certo] quelques hésitations en présence de propositions qui paraissent affecter une forme dogmatique… [certamente però si] admire ce trésor d’observations et de faits”.

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Certamente tutta la sua teorica era figlia del suo tempo –il peso dello Zeitgeist, come nota

Claude Raffestin (1983c,p.29), non deve essere sottovalutato– e risentiva non solo delle

influenze spenceriane, darwiniane ed hegeliane, ma anche del suo essere un tedesco della fine

dell’Ottocento150. Friedrich Ratzel era chiaramente filogermanico e probabilmente voleva anche

trovare una giustificazione teorica alla nascita, crescita ed affermazione del nuovo Stato

tedesco. In tutti i suoi lavori i riferimenti alla Germania non sono certo privi della [supposta]

neutralità del ricercatore151 e non sorprende certo il fatto che questo lavoro abbia segnato, per

molti autori dell’inizio del Novecento e sicuramente contro la sua stessa volontà, il principale

punto di partenza della nascita della Geopolitica, non solo tedesca.

150 Molto interessante è, al riguardo, l’articolo di M.Korinman (1983); sul ruolo di F.Ratzel e, in particolare, della geografia tedesca nella definizione del nazionalismo tedesco di veda G.Sandner (1994). 151 Circa la posizione centrale della Germania, difficile da difendere perché priva di “confini naturali” contornata da Stati avversi, afferma (PG, pp.219-220, corsivo mio): “Gli Stati in questa posizione, come la Germania e l’Austria molto avvantaggiati dal punto di vista politico e poco da quello geografico, devono sovente rinunciare ad espandersi in una direzione in quanto non sufficientemente coperti dall’altra… Così assalito da tutte le parti un popolo può conservarsi [libero] solo con una solida organizzazione, una profonda coscienza di sè, con il suo lavoro, la sua perseveranza, la sua vigilanza, la sua capacità e la sua rapidità di risposta. Ancora una simile posizione contribuirà a rendere agguerrito un popolo capace di mobilitarsi, mentre un popolo debole è destinato a soccombere. La Germania può esistere solo se forte” [Staaten von dieser Lage, wie Deutschland, viel mehr nur politische als geographische Begriffe, oder Österreich, müssen in vielen Fällen ein Ausgreifen nach einer Seite hin unterlassen, weil die Deckung nach der andern zu fehlte… in diesem Andrängen von allen Seiten hält nur eine starke Organisation, ein starkes Bewußtsein seine selbst, Arbeit, Ausdauer, Wachsamkeit, Schlagfertigkeit ein Volk stählend, während ein schwaches ihren Anforderungen Erliegt. Deutschland ist nur, wenn es stark ist].

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4 – La Geopolitica classica: le Concezioni Strategiche Globali.

Per la prima volta possiamo percepire qualcosa della reale proporzione delle caratteristiche e degli avvenimenti sulla scena mondiale, cercando una formula che esprima almeno alcuni aspetti della causalità geografica nella storia universale. Se saremo fortunati, tale formula avrà un valore pratico, poiché permetterà di vedere in prospettiva alcune delle forze antagoniste nell’attuale politica internazionale. Halford John Mackinder, The Geographical Pivot of History, p.299.

4.1 – Premessa.

La base teorica delle varie Geopolitiche è fortemente ancorata al pensiero di Friedrich

Ratzel. Nell’Antropogeografia si propone di spiegare le ragioni della diffusione degli

insediamenti umani sulla Terra, interpretando le migrazioni dei popoli nell’ecumene e

l’aggregazione degli stessi in varie entità, dalla tribù allo Stato, definenti i relativi spazi vitali.

Nel suo Politische Geographie restringe l’attenzione al condizionamento territoriale degli Stati –

le più importanti organizzazioni umane sulla terra– spostando l’analisi sui macrorapporti

esistenti tra questi ultimi ed i tre fondamentali elementi (posizione, spazio, confini) del loro

suolo. L’oggetto di studio della geografia politica ratzeliana è quindi lo Stato: non lo Stato

dinastico pre-moderno ma gli Stati-Nazione cui la geografia politica poteva/doveva fornire

strumenti di interpretazione per la loro politica territoriale152.

Il periodo entro cui tale teorica viene formulata e trova facile diffusione è posto a cavallo tra

il XIX ed il XX secolo: un momento storico in cui gli Stati-Nazione cominciano ad esprimere la

loro aggressività politica imponendo i loro valori153. Aggressività che non viene più motivata da

“situazioni dinastiche” ma sostanzialmente legata a forme sempre più spinte di nazionalismo:

un’ideologia di massa di straordinaria potenza capace di veicolare, attraverso l’idea di nazione

e di nazionalità, forme di egoismo nazionale sempre più prevaricatrici154. Inoltre, nel 1871,

sulla scena europea si era affacciata una nuova e grande potenza politica, militare ed

economica: l’impero tedesco. Per il quale, come nota Gino Luzzatto,

“le vittorie del ’70 e dopo di esse il progresso industriale… hanno aperto d’un tratto l’orizzonte della piccola Germania prussiana del ’66 e han diffuso in strati sempre

152 Su questo si veda F.Farinelli (2000). 153 Un periodo in cui, come nota Z.Bauman (2007, p.141): “la gerarchia di valori imposta al mondo governato dall’estremità nordoccidentale della penisola europea era così salda e sostenuta da potenze così smisuratamente dominanti che per un paio di secoli essa rimase l’orizzonte della visione del mondo”. Sulla “presa di coscienza politica” degli Stati europei si veda anche il saggio di D.Groh (1980). 154 Come nota E.J.Hobsbawm (1987, p.163). “nel periodo che va dal 1880 al 1914 il nazionalismo ebbe un fortissimo sviluppo, e il suo contenuto ideologico e politico si trasformò… a favore di quella espansione aggressiva del proprio stato”; sempre E.J.Hobsbawm (1991, pp.125-126) “il nazionalismo etnico fu enormemente rafforzato… ‘Razza’ e lingua venivano facilmente confuse e scambiate… [così per] ‘razza’ e ‘nazione’ l’abitudine di usarle pressoché come sinonimi”. Sul concetto di Nazione e Nazionalismi si vedano anche: G.Hermet (2000, in particolare alle pp.119-168); E.J.Hobsbawm (1991, pp.119-153) e l’interessante volumetto di F.Tuccari (2000).

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più larghi della popolazione un senso di terrore per la ristrettezza dei propri confini nazionali”155.

Le grandi trasformazioni industriali abbinate allo sviluppo tecnologico dei trasporti,

determinate dall’utilizzo del vapore come forza motrice con la conseguente diffusione della

ferrovia e l’avvento dei “piroscafi” ad elica, mutano i rapporti nei confronti dei grandi spazi

amplificando il ruolo delle materie prime accentuando così le spinte colonialistiche. Stati Uniti e

Russia, i due grandi stati continentali, potevano facilmente espandersi -con la ferrovia- nei loro

“enormi spazi interni vuoti”. Per le potenze europee, prive di quei grandi spazi, l’apertura del

Canale di Suez nel 1869 ed il sempre più importante utilizzo del vapore per la navigazione

accentuarono quelle spinte colonialistiche mettendo le basi per una riorganizzazione del

controllo dei mari. Riorganizzazione sempre meno legata ai problemi del vento e sempre più al

controllo dei punti chiave: isole e strozzature lungo le linee di comunicazioni marittime e

approdi connessi allo stoccaggio del combustibile. Dal punto di vista sociale la rivoluzione

industriale portò da un lato il diffondersi di un relativo benessere e dall’altro accentuò i conflitti

sociali spingendo i ceti proletari e le campagne verso un vasto movimento migratorio, complice

anche una diminuzione della mortalità legata alle migliorate pratiche igenico-sanitarie.

Stante queste situazioni è abbastanza chiaro che gli intellettuali e le elite economico-

politiche cominciassero a farsi “interpreti”156 dell’autocoscienza nazionale dei vari Stati157

interpretando la teorica ratzelliana sotto una luce funzionale allo “spirito di potenza dello Stato-

nazione”. Ne nasce una nuova dottrina sulla valutazione dei rapporti Stato-territorio che va

sotto il nome di “geopolitica”. Quest’ultima, fra le varie discipline nate a cavallo del XIX e XX

secolo che:

“hanno avanzato la pretesa di essere riconosciute come scienza, è forse quella che si regge sulle basi più malsicure” (Portinaro, 1982, p.1).

4.2 – Il termine Geopolitica.

Il termine Geopolitica venne coniato agli inizi del Novecento da Rudolf Kjellén (1846-1922),

un professore svedese di storia e scienze politiche, sicuramente conoscitore dei lavori di

Friedrich Ratzel, cui fa sempre riferimento per l’elaborazione del suo pensiero158. Il suo

pensiero politico e la sua idea di geopolitica prendono forma, sostanzialmente, nei primi anni

del Novecento: il fatto che il suo concetto di geopolitica assuma un ruolo importante, per

l’influenza che esercita, solo nel 1914-1918 è rivelatore del ruolo catalizzatore giocato dalla

guerra e dell’interesse che questa disciplina ha sempre assunto nelle guerre e nei periodi di

155 È un’affermazione che G.Luzzatto (1918/19, p.VI) fa nella prefazione del libro di F.Naumann Mitteleuropa, un testo base per la comprensione dell’espansionismo tedesco. Sulla nascita della “ideologia tedesca” si veda N.Merker (1977). Sul “pangermanismo” a cavallo fra il 1800 ed il 1900 si veda M.Korinman (1999). 156 Si usa qui in concetto di “intellettuale interprete” nell’accezione che ne fa Z.Bauman (2007). 157 Come nota E.J.Hobsbawm (1987, p.173): “la nazione fu la nuova religione civica degli Stati… un contrappeso a coloro che facevano appello a vincoli di solidarietà che scavalcavano la solidarietà verso lo Stato: alla religione, alla nazionalità o eticità non identificate con lo Stato”. 158 Per un’analisi del pensiero e delle opere di R.Kjellén si rimanda C.Raffestin D.Lopreno Y.Pasteur (1995, pp.77-102); una sintesi ne fa J.O’Loughlin (2000a, pp.179-183); si veda anche L.K.D.Kristof (1960, pp.22-26).

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crisi internazionali159. Nel suo lavoro base Staten som lifsform (Lo stato come forma di vita),

uscito nel 1916 in Svezia e subito tradotto in tedesco160, egli la definisce come:

“lo studio dello Stato considerato come organismo geografico o fenomeno spaziale, cioè come una regione, un territorio, uno spazio o, ancora più esattamente, un Reich”161.

Una definizione un po’ neutra se non fosse per l’ultima parola Reich interpretabile come

“impero, regno, dominio territoriale” sul quale tutta la geopolitica ha basato il suo ambito di

riferimento.

La Geopolitica, pur derivando dalla Geografia Politica ratzeliana ed avendo lo stesso

oggetto di studio (lo Stato), se ne differenzia per le finalità. La Geografia Politica ratzeliana,

mirando a comprendere le leggi che governano lo sviluppo territoriale degli Stati, ha fornito un

preciso arsenale di concetti che la Geopolitica, ponendosi come supporto e motivazione

dell’imperio di uno Stato, ha utilizzato per dare giustificazione teorica alle conquiste territoriali

e all’esercizio del dominio sul territorio162. Il discorso geopolitico, così come si è venuto a porre

dalla fine del 1800 ai giorni nostri, è divisibile in tre grandi articolazioni: la Geopolitica Classica,

la Geopolitica Critica e la Geopolitica Realista163. La prima, che prende origine sul finire del

1800 e si conclude con la fine della Seconda Guerra Mondiale, è influenzata dalla logica di

conquista che ha permeato le due guerre mondiali mentre le altre due emergono nell’ultimo

ventennio del 1900, dopo un declino quasi un rifiuto della prima. La Geopolitica Critica nasce

negli ambienti accademici ed è legata, in ambito nordamericano, alla Critical Geopolitics e, per

quanto riguarda l’Europa, alla sua riarticolazione da parte di Yves Lacoste e di Claude Raffestin

mentre la Geopolitica Realista è legata all’azione delle grandi Segreterie di Stato.

Nella “geopolitica classica” è possibile individuare due grandi filoni: le Concezioni

Strategiche Globali e la Geopolitica di Propaganda. Per le prime si può parlare di una sorta di

Geografia Politica Applicata prodotta da alcuni autori164 che, cercando di legittimare le politiche

di potenza nazionali connesse a ipotetiche “condizioni geografiche effettive” abbinate a

presunte “opportunità o necessità storiche”, gettarono le basi (più o meno) concettuali della

Geopolitica di Propaganda, assolutamente a-scientifica mirante a dare un supporto alla volontà

di conquista dei regimi nazi-fascisti. 159 Come in effetti notano C.Raffestin D.Lopreno Y.Pasteur, 1995, p.79: “mais qu’elle ne prend de l’importance, par l’influence exercée, qu’en 1914-1918, est révélateur du rôle de catalyseur de la guerre”. 160 L’importanza di questo lavoro in ambito tedesco è documentata dalle quattro edizioni che si susseguirono tra il 1917 ed il 1924. 161 R.Kjellén, 1917, p.46: “Die Geopolitik ist die Lehre über den Stadt als geographischen Organismus oder Erscheinung in Raum: also der Staat als Land, Territorium, Gebiet oder, am ausgeprägtesten, als Reich”. 162 Si vedano anche C.Raffestin (1989) e l’analisi che ne fa L.K.D.Kristof (1960, pp.33-37). 163 Si è preferito avvicinarci alla terminologia usata da J.O’Loughlin (2000b, pp. 15-16) in quanto la sua periodizzazione è apparsa meglio proposta nei termini dell’evoluzione del pensiero geopolitico; quella definita da G.ÓTuathail (1998, p. 5) è sembrata meno adatto in quanto molto più connessa ai soli “rapporti politici” della disciplina. J.O’Loughlin lega, però, il termine “geopolitica classica” ad un periodo più ristretto: fino la fine della I Guerra Mondiale. Qui invece lo si estende fino alla II Guerra Mondiale in quanto, pur in un contesto storico diverso, i suoi concetti base [Stato-organismo, Spazio Vitale, Heartland, opposizione tra potenze marittime e continentali] permangono sempre gli stessi. Occorre ricordare però che le fasi individuate da J.O’Loughlin (2000a) sono solo accennate nell’introduzione al suo Dizionario ma non utilizzate all’interno del testo, dove si preferisce un’analisi delle varie geopolitiche nazionali. 164 Che C.Raffestin D.Lopreno I.Pasteur (1995, p.102) li collocano “A la lisière de la géopolitique”.

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Le Concezioni Strategiche Globali si possono, a loro volta, articolare nella “Geopolitica del

Mare”, elaborata da Alfred Tayer Mahan (1840-1914) e dallo stesso Friedrich Ratzel165, e nei

“Modelli Geopolitici Formali” elaborati dall’inglese Halford John Mackinder (1861-1947) e dallo

statunitense Nicholas John Spykman (1893-1943). Due concezioni che, abbandonando lo

scientismo dei primi dell’Ottocento, accampavano solo marginalmente delle velleità scientifiche

presentandosi sempre come dei progetti politici in grado di suggerire un concreto aiuto politico

alle decisioni dei vari Stati.

4.3 – Le Concezioni Strategiche Globali.

Gli anni che vanno dalla seconda metà del 1800 agli inizi del 1900 segnarono un periodo

storico in cui la prosperità economica, il progresso tecnico e la potenza militare dei grandi Stati

Nazione appariva pienamente definita e nelle elite al potere si faceva strada, con la voglia di

potenza e di conquista, un nuovo e forte desiderio di espansione coloniale166. La navigazione

non si presentava più come un’avventura per pochi ed il mare, stante l’avvento del vapore e le

migliorate tecniche di navigazione, veniva sempre più considerato un’importante via di

comunicazione da difendere o conquistare. Sulla scena mondiale si erano affacciate due nuove

potenze, gli Stati Uniti e la Germania, ed Alfred T. Mahan e Friedrich Ratzel si ponevano come

due “intellettuali interpreti” al servizio delle rispettive elite di governo offrendo loro una

riflessione sul ruolo e funzione della marina da guerra per il controllo del mare e del suo

dominio.

4.3.1 – Il potere marittimo di Alfred Tayer Mahan.

Probabilmente il primo lavoro, basato sui legami tra le situazioni geografiche ed i problemi

politico-militari, che attirò l’attenzione del mondo politico e militare europeo di fine Ottocento

fu The Influence of Sea Power upon History 1660-1783 di Alfred T. Mahan167: lavoro

generalmente considerato uno dei punti di partenza della riflessione geografico-politica168. In

esso l’autore, basandosi sull’interpretazione della storia navale, si muove dall’analisi della

“posizione dello Stato” e l’interconnette –con un notevole pragmatismo operativo– al ruolo

dell’azione combinata della Marina Commerciale e Militare nel garantire, con l’espansione

coloniale ed il controllo delle vie di commercio marittime, la sicurezza politico-economica dello

Stato-Nazione. La sua preoccupazione principale riguardava la possibilità degli Stati Uniti,

stante la loro potenzialità in quanto si affacciano su due oceani ed hanno risorse di dimensione

165 A.T.Mahan e F.Ratzel non sono certamente etichettabili come geopolitici, nell’accezione che ne fanno sia C. Jean (1995) che Y. Lacoste (1993/4), anche se, in particolare per A.T.Mahan si è parlato di un suo forte ruolo come precursore: si veda in particolare l’interessante analisi che ne fa J.Sumida (1999). 166 Si veda E.J Hobsbawm (1987; 1991). 167 Ammiraglio della Marina Militare statunitense, insegnò Storia e Tattica Navale al U.S. Naval War College di Newport di cui divenne presidente. 168 Su questa posizione si vedano: L.Bonante (1979, p.410), P.P.Portinaro (1982, p.11), P.Moreau Defarges (1996, p.34); C.Raffestin D.Lopreno L.Pasteur (1995, p.103). Come nota A.Flamigni (1994, p.5): “Egli trovò la storia navale come un elenco di battaglie e la trasformò in un argomento che era intimamente collegato con la politica estera e la storia generale della nazione-stato”.

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continentale, di assumere il ruolo di potenza mondiale169 organizzando una forte flotta che

permettesse il “domino del mare” 170. Ruolo che era allora limitato dall’isolazionismo, dalla

mancanza di una forte flotta militare e dallo scarso coinvolgimento nella politica mondiale171.

Per il suo paese non si trattava di proporre mire espansionistiche ma di reali necessità legate,

come minimo, alla semplice difesa della sua influenza nell’area americana, derivante

dall’applicazione della Dottrina Monroe172. Se la Dottrina Monroe implicava l’opposizione a

qualsiasi intervento europeo sul “Nuovo Continente” è chiaro che per Alfred T. Mahan la

protezione del territorio americano passava per il controllo dei mari173. Questo richiedeva,

come strumento primario della difesa ed espressione del Sea Power degli Stati Uniti, l’esistenza

di una forte marina da guerra.

Tutti i suoi lavori vogliono dimostrare come il Sea Power, dalle guerre puniche alle moderne

battaglie combattute con le navi a vapore, sia stato d’importanza fondamentale per qualsiasi

Stato che volesse mantenere integra la sua indipendenza politica ed economica. Di fatto però

egli non dà mai una precisa definizione di “potere marittimo”174 anche se nel primo capitolo del

suo testo fondamentale175 ne definisce gli elementi base e le caratteristiche principali. Gli

“elementi base” su cui uno Stato deve poggiare il suo “potere marittimo” sono sostanzialmente

legati all’esistenza di un commercio marittimo con una buona flotta mercantile, alla sua

169 “Gli Stati Uniti nonostante una notevole superiorità originaria che deriva dalla loro compattezza geografica e dalle immense risorse… non sono preparati né intenzionati a far valere nel Mare Caraibico e nell’America Centrale un’influenza proporzionata all’importanza dei loro interessi. Non abbiamo un’armata e, quel ch’è peggio, non vogliamo averla… non abbiamo né ci curiamo molto d’avere difese le coste… non abbiamo, come hanno le altre Potenze, stazioni nel Mare Caraibico… di più non abbiamo nel golfo del Messico neppure una larva d’arsenale che possa servire come base alle nostre operazioni” (Mahan, 1904, p. 9). 170 Egli usa il termine Sea Power: interpretabile sia come “dominio del mare” sia come “potere marittimo”. Le due traduzioni verranno qui utilizzate secondo il contesto di riferimento. 171 “Lo Stato non può, come non può l’uomo, vivere da solo; non può cioè vivere [nell’] isolamento politico, simile all’isolamento fisico” (Mahan, 1904, p.107). 172 Negli anni in cui egli scrive si discute del taglio dell’Istmo di Panama ed egli vede in ciò un ritorno dell’influenza europea nell’America Centrale. Per questo, appoggiandosi alla Dottrina Monroe, considera di fondamentale importanza il controllo dell’Istmo e dell’eventuale canale ovunque venga fatto: si vedano il primo ed il terzo capitolo della sua opera (1904, pp.1-19 e 41-72) significativamente titolati “Gli Stati Uniti e la politica estera” e “l’Istmo e il dominio marittimo”. Circa una sua interpretazione della Dottrina Monroe in senso interventista si veda A.T.Mahan (1904, pp.100-107) in cui afferma “Per la sicurezza d’uno Stato, ogni principio nazionale chiaramente affermato e fermamente mantenuto deve non solo volersi, ma potersi sostenere efficacemente” (p.105). 173 “noi abbiano una lunga costa indifesa” (Mahan, 1904, p.6). 174 L’unico accenno ad una definizione è probabilmente questa: “Domino del mare, col relativo commercio marittimo e colla relativa supremazia navale, vuol dire vuol dire influenza predominante nel mondo, perché il mare è il gran medium di comunicazione della natura” (Mahan, 1904, p.84). Egli era un marinaio e non certamente uno studioso teoricamente impegnato: da qui il suo scarso interesse per l’approfondimento metodologico dei problemi sollevati dalla ricerca. A questo riguardo occorre ribadire che il suo scopo principale, oltre a quello strategico legato alla sua funzione di docente al U.S. Naval War College di Newport, era quello di spingere il Governo degli Stati Uniti a dotarsi di un’efficiente marina da guerra con funzioni non solo difensive. Compito quest’ultimo svolto con molta efficacia: “bisogna pur convenire che, tanto in commercio quanto in guerra, la difesa passiva è pure una gran povera politica… Gli Stati Uniti sono disposti a veder occupate da una Potenza rivale quelle numerose ed importanti posizioni nelle isole e sul continente [da intendersi il Nord America] che ora sono tenute da stati deboli o instabili? Ma quale ragione possono addurre essi contro un tale cambiamento di padrone? Una sola, quella di una ragionevole politica sostenuta dalla forza.” (Mahan, 1904, pp.12 e 14-15). 175 È l’unico capitolo a forte contenuto teorico di tutti i suoi lavori, titolato “Discussione sugli elementi del potere marittimo” (Mahan, 1994, pp.61-121).

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protezione mediante una potente flotta militare ed alla disponibilità di punti di controllo delle

rotte che, posti in posizione strategica, permettano il rifornimento e la difesa delle flotte176.

Stante questi “elementi base” che definiscono l’esistenza stessa del “potere marittimo” egli

individua poi sei “caratteristiche principali” che ne condizionano lo sviluppo e le peculiarità: tre

relative ai dati fisici del territorio (la posizione geografica dello stato177; la conformazione fisica

della linea di costa178; l’estensione del territorio statale179) e tre connesse alla situazione

demografico-politica (la numerosità della popolazione180; il carattere nazionale181; la volontà

del Governo182). Le prime tre, legate alla struttura fisica dello Stato, diventano efficaci solo se

vi è un “interesse nel mare e un intelligente apprezzamento” da parte della classe politica e

una certa quantità di popolazione “abituata al mare”183. È una sorta di “possibilismo” ante

litteram in quanto per Alfred T. Mahan la struttura fisico-naturale di uno Stato può esprimere

soltanto delle possibilità che vengono attivate solo ed esclusivamente quando vi è una forte

volontà politica mantenuta a lungo nella direzione del Sea Power.

Alfred T. Mahan è sicuramente influenzato dal peso dello Zeitgeist del suo tempo184

connesso ad un forte eurocentrismo, se non proprio razzismo, da cui fa derivare la missione

176 A.T.Mahan, 1994, pp.61-64 : “Il mare si presenta [come] una grande via di comunicazione [in cui i traffici] sono sempre stati più facili e meno costosi… Ed è aspirazione di ogni nazione che questi trasporti siano effettuati con proprie navi. Queste devono avere porti sicuri ai quali fare ritorno e devono essere, per quanto possibile, protette dal loro paese per tutto il viaggio… La necessità di una marina militare… nasce pertanto dall’esistenza di un pacifico naviglio mercantile… [Inoltre] nel momento in cui una nazione si spinge con le sue navi mercantili e militari oltre le proprie coste, avverte subito la necessità di punti d’appoggio… per rifugio e per rifornimento. [Così per l’Inghilterra] nacque il bisogno di basi lungo la rotta, come Capo di Buona Speranza, Sant’Elena e le Mauritius, non principalmente per il commercio, bensì per la difesa e la guerra; nacque la necessità del possesso di luoghi come Gibilterra, Malta, Louisburg, all’ingresso del golfo di San Lorenzo, luoghi il cui valore era principalmente strategico” 177 Che corrisponde sostanzialmente allo stesso concetto espresso in modo più generale da F.Ratzel. Per F Ratzel (1923, pp.180-249; 1914, pp.209-227) la posizione (die Lage) è, nella sua sostanza, un concetto intuitivo: rappresenta “il posto” che uno Stato occupa sulla superficie terrestre. La sua importanza è legata al fatto che essa, con tutti i suoi elementi, lega una determinata società o Stato ad un preciso territorio favorendo o meno il suo rapportarsi al resto del mondo: “la posizione è una profonda costante del suolo terrestre che influenza tutti i movimenti della storia” (“Die geographische Lage bezeichnet ein dem Erdboden angehöriges Beständige in der geschichtlichen Bewehrung” 1923, p.180). La sua importanza, per A.T.Mahan (1994, pp.64-70), è legata al fatto che essa detta ad uno Stato delle precise condizioni: vie d’acqua interne ben connesse al mare, apertura verso più mari con la possibilità di controllare rotte e basi strategiche. 178 “un paese con una estesa linea di costa, ma interamente priva di porti non avrebbe, di per sé, alcun commercio marittimo, né naviglio né Marina Militare… [al contrario] porti numerosi e con buoni fondali sono fonte di forza e ricchezza” ma ciò non conta nulla se non vi è “l’interesse nel mare e un intelligente apprezzamento” da parte della classe politica” (Mahan, 1994, pp.70 e 74). 179 Che corrisponde non solo “alla lunghezza della sua linea di costa e alle caratteristiche dei suoi porti” ma anche all’entità di una popolazione “abituata al mare” (Mahan, 1994, p.77). 180 Sostanzialmente il “numero di gente che prende il mare o, per lo meno, che è immediatamente disponibile per l’imbarco e… per la costruzione e la manutenzione del materiale navale” (Mahan, 1994, pp.79-80). 181 In particolare “la disposizione al commercio… è la caratteristica nazionale più importante nello sviluppo del potere marittimo” (Mahan, 1994, p.87). 182 “In pace: il governo, con la sua politica, può favorire la crescita delle industrie e la tendenza del popolo a ricercare avventura e profitto per mezzo del mare… Per la guerra: l’influenza del governo sarà sentita… nel mantenere una Marina da guerra di dimensioni adeguate alla crescita della Marina mercantile e all’importanza degli interessi ad essa connessi” (Mahan, 1994, p.115). 183 Sono affermazioni che, quasi un’ossessione, vengono spesso ripetute con pesanti critiche ai governi di Spagna, Portogallo, Olanda e Francia nell’analizzare la loro posizione nei confronti della gestione del “potere marittimo” mentre fa sostanziali apprezzamenti alla politica del Regno Unito ed auspica che gli Stati Uniti abbiano una volontà politica simile a quella inglese. 184 Si veda anche C.Raffestin D.Lopreno L.Pasteur (1995, pp.103-108).

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civilizzatrice dell’occidente185, ovviamente connessa al colonialismo apportatore di civiltà e

ricchezza. Significativa è la sua enfatizzazione del ruolo del Sea Power nel garantire non solo la

sicurezza di ciascuno Stato ma anche la sua prosperità economica connessa al sostegno

dell’espansione coloniale e al conseguente svilupparsi del commercio: sicurezza e prosperità

che potevano essere garantite solo da una forte Marina Commerciale ben sostenuta da

un’altrettanto forte Marina Militare186.

Ma più che questo egli è fondamentalmente americano, marinaio e stratega che,

insegnando storia e tattica navale al U.S. Naval War College di Newport di Rhode Island, mira

a favorire la nascita di una potente marina da guerra statunitense187. Per questo egli mostra la

forte volontà politica del Regno Unito volta al dominio dei mari e la contrappone

all’inadeguatezza di Olanda, Spagna e, principalmente, della Francia di Luigi XIV e di

Napoleone188. Secondo il suo pensiero, il dominio degli oceani da parte degli inglesi costituisce

un modello da imitare e superare: il controllo dei fondamentali punti marittimi di passaggio

(Gibilterra, S. Elena, Città del Capo, Cipro, Suez, Aden, Singapore…) rappresenta il modo per

garantire la sicurezza dei collegamenti tra la Madre Patria e il suo impero coloniale189. L’intera

opera di Alfred T. Mahan è, infatti, impregnata di ammirazione ed esaltazione nei riguardi dello

Sea Power inglese. Il suo scopo è quello di tracciare un legame tra il passato, i fondamenti del

dominio mondiale britannico, ed il presente, gli Stati Uniti con le loro grandi potenzialità. Agli

Stati Uniti spettava il compito e la possibilità di mantenere e consolidare il dominio inglese sui

mari reincarnando i principi e il fondamento dell’impero marittimo anglosassone190.

185 “La civiltà della moderna Europa è cresciuta all’ombra della Croce, e ciò che v’ha di meglio in essa respira ancora lo spirito del Crocefisso… Molti popoli sono spinti a cercare nuove terre da occupare, nuovi spazi per espandersi e vivere. Come ogni altra forza naturale…sempre si è visto una razza inferiore essere sospinta e scomparire innanzi all’urto persistente di una razza superiore… Ogni popolo non ha il diritto inalienabile al possesso d’una regione, quando esso riesce di danno al mondo in generale, dei popoli vicini in particolare e talora anche dei suoi stessi membri… Tutto attorno a noi è lotta: la lotta per la vita, la gara per la vita sono frasi così familiari che il loro significato si presenta evidente… Qualsiasi episodio della lotta per il progresso umano… si basa tuttora sull’esercizio e sul continuato mantenimento della forza fisica organizzata” (Mahan, 1904, pp.155; 111; 112; 12;173; il corsivo è dell’autore). 186 Così A.Flamigni sintetizza lo schema che definisce “mercantilista” di A.T.Mahan “le colonie forniscono le materie prime, la Marina mercantile le trasporta nella madrepatria, che le trasforma in prodotti finiti; la stessa Marina mercantile li riesporta in altri paesi, producendo così la ricchezza; il tutto dipende dalla Marina militare che ha bisogno di basi oltremare, possibilmente nelle stesse colonie per difendere il traffico commerciale così istaurato… [e la Marina militare è l’elemento chiave perché] senza di essa il ciclo può essere interrotto ed il flusso di ricchezza passa al nuovo dominatore del mare” (Flamigni,1994, pp.6-7). Più che di mercantilismo in senso stretto per A.T.Mahan si deve parlare, a parer mio, di colbertismo data l’enfasi che egli pone sul fatto che le materie prime non debbano essere lavorate nelle colonie ma sul suolo nazionale. 187 “Poiché l’obiettivo di questo studio è di ricavare dalle lezioni della storia, considerazioni applicabili al proprio Paese e alla propria Marina, è opportuno domandarci fino a che punto la situazione degli Stati Uniti… richieda l’azione governativa per la ricostruzione del loro potere marittimo” (Mahan, 1994, p.116). 188 Buona parte della sua riflessione teorico-pratica è legata allo studio degli antagonismi marittimi e coloniali tra Francia e Regno Unito: si veda in particolare A.T.Mahan (1892), ma anche buona parte del suo The Influence of Sea Power è centrata sulla discussione delle battaglie navali inglesi e francesi. 189 Così per gli Stati Uniti lo è il controllo del Canale di Panama: “Se questo fosse realizzato… il Mar dei Caraibi diventerebbe… una delle maggiori linee di comunicazione mondiale… L’ubicazione degli Stati Uniti, relativamente a questa rotta, assomiglierà a quella dell’Inghilterra nei confronti della Manica e a quella dei Paesi del Mediterraneo nei confronti di Suez” (Mahan, 1994, p.69). 190 Il tutto è inteso come una sorta di “patriottismo di razza” connesso alla “famiglia che parla inglese” come appunto afferma A.T.Mahan: “Quando cominceremo realmente a guardar fuori, e aver cura dei nostri doveri… stenderemo le

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Probabilmente è per queste sue posizioni, ed in particolare per la sua accentuazione della

centralità del mare, che il suo testo teorico più importante, The Influence of Sea Power upon

History, è diventato “la bibbia marinara di Tirpitz”191 ed il punto di partenza delle riflessioni di

geografia-politica applicata sia di Friedrich Ratzel che di Halford J. Mackinder.

4.3.2 – Friedrich Ratzel ed il controllo del mare.

La Germania non aveva grandi tradizioni marinare ma verso la fine del 1800,

probabilmente a motivo della sua espansione coloniale da cui prese avvio un considerevole

traffico marittimo, si dovette porre il problema della “flotta da guerra”192. Problema che tentò

di risolvere l’ammiraglio Alfred von Tirpitz quando, nominato nel 1897 Segretario di Stato per

la Marina, presentò una prima legge che prevedeva cospicui finanziamenti per la costruzione di

una moderna e potente flotta da guerra. Per far approvare la legge egli mise in campo,

coadiuvato da influenti gruppi di pressione193, un’intensa propaganda mirante a dimostrare

l’assoluta necessità di quel tipo di flotta. Per questo reclutò molti intellettuali194 fra i quali una

cospicua quota di professori universitari, i cosiddetti Flottenprofessoren195, che, con il prestigio

della loro posizione, si impegnarono a far accettare il programma di costruzione della flotta e,

indirettamente, a spingere verso la guerra con l’Inghilterra.

Con il libro Das Meer als Quelle der Völkergrösse196 Friedrich Ratzel è stato un importante

sostenitore della politica di Alfred von Tirpitz ed uno dei mentori dei Flottenprofessoren197. In

mani alla Gran Bretagna, provando che nell’unità di sentimento fra le razze che parlano inglese, consiste la migliore speranza dell’umanità” (Mahan, 1904, pp.174 e 175). 191 Sull’importanza di questo lavoro per la politica navale tedesca voluta dall’Ammiraglio A. von Tirpitz si vedano: J.R.Holmes (2004); U.H.Wheler (1981, p.173) che afferma: “I libri di Mahan divennero, anche per espresso desiderio di Guglielmo II, lettura obbligatoria per gli ufficiali di marina tedeschi. La Influence of Sea Power fu la ‘bibbia marinara’ di Tirpitz”; mentre per E.Geoff (1980, p.71) per aiutare “the announcement of Tirpitz’s ambitious Navvy Bill, an impressive campaign unfolded during the winter months of 1897-8: the Colonial Society held 173 lectures and distributed 140.000 leaflets and pamphlets, including 2.000 copies of Mahan The Influence of Sea Power upon History”. 192 Si vedano al riguardo P.Schiera (1987, pp.301-303) e G.Corni (1995, pp.116-124). “L’élite guglielmina riteneva che una flotta dalle elevate capacità offensive… avrebbe potuto fungere da leva nei confronti di Londra e indurla a concessioni sul piano coloniale” (Bordonaro, 2009, p.14) 193 Come nota G.Corni oltre al Kolonialgesellachaft e ai pangermanisti dell’Alldeutscher Verband venne fondata la Flottenverein un’associazione a cui aderirono “decine di migliaia di cittadini, anche di modeste condizioni, convinti dalla bontà delle argomentazioni della propaganda” (Corni, 1995, p.120). 194 Lo stesso M.Weber, come nota W.J.Momsen (1993, p.232), “approvò di tutto cuore, perlomeno nei suoi inizi, la politica della flotta di Tirpitz, in cui vedeva uno strumento per far valere la politica del Reich”. 195 Secondo T.Nipperdey (1993, p.599): “an der von Tirpitz initiierten Flottenagitation haben sich 270 Flottenprofessoren beteiligt”; inoltre, come aggiunge J.A.Moses (1969, p.51) quella lista “does not include those who took part indirectly, especially those who where members of the German Colonial Society”. Sui rapporti tra i professori universitari e la politica tedesca si vedano T.Nipperdey (1993, pp.590-601) e J.A.Moses (1969). 196 Libro prontamente tradotto in italiano nel 1906 col titolo Il mare origine e grandezza dei popoli. Sostanzialmente si tratta di un rifacimento, in funzione della propaganda per la Kriegsmarine, di alcuni capitoli dell’ottava sezione del suo Politische Geographie ed in particolare il capitolo XXII “Das Meer und die Seevölker” [Il mare ed i popoli marittimi]. Occorre considerare che il problema dei rapporti mare/terra è sempre stato considerato importante da F.Ratzel che gli dedica ben due sezioni del Politische Geographie la settima “Übergänge zwischen Land und Meer” [La fascia di contatto tra i continenti ed il mare] e l’ottava “Die Welt des Wassers” [Il mondo marittimo] per un totale di ben 96 pagine quasi un ottavo (16,1%) del totale. 197 Nella breve prefazione egli afferma: “Le idee, qui espresse, sono state sviluppate più minutamente in diversi luoghi della mia “Politische Geographie” quando non v’era ancora alcuna ardente questione per la flotta. Esse appaiono ora opportune… di guisa che il lettore sarà costretto, alla fine, a condividere la mia convinzione ben fondata: dover la

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quel testo Friedrich Ratzel sottolinea la grande differenza esistente fra “il mare e la terra” circa

i “problemi connessi al controllo del territorio”198. Gli spazi oceanici non sono facilmente

controllabili “nel mare non vi sono né separazioni, né confini naturali”199 ed è attraverso questa

formidabile apertura che il mare dà “il vantaggio immenso di dominare la terra”200. È pur vero

che l’uomo è una creatura terrestre che deve adattarsi al mare ma è “dagli infiniti orizzonti [del

mare che] si sviluppa il grande ardimento”201.

Se sulla terra la conquista “segue di solito la bandiera del commercio” per il mare la

conquista ed il commercio vanno di pari passo e la forzatura del mercato giapponese ne è la

prova lampante202. Lo stesso concetto di mare territoriale legato alla portata delle batterie

costiere non è più attuale in quanto, seguendo il pensiero di Alfred T. Mahan, prende sempre

più importanza il controllo dei passaggi oceanici: il mancato controllo di questi comporta il

blocco del traffico203. La Germania corre questo rischio perché i passaggi dal Mare del Nord

verso l’Atlantico sono controllati dagli inglesi così “soltanto una flotta da battaglia, che regga e

mantenga libero il Mare del Nord, assicurerà i passaggi” (F.Ratzel, 1906, p.34). Il controllo dei

passaggi, dei piccoli punti, è anche l’elemento chiave per l’espansione coloniale. Quest’ultima

passa, per sua natura, per il mare e per questo ha bisogno di una potente flotta il cui scopo

iniziale è il controllo dei passaggi e dei punti di approdo. Se all’inizio è sufficiente solo “un buon

Germania, cioè, esser forte anche sul mare, per adempiere alla sua missione nel mondo”. Nel suo Anthropogeographie egli esclude nettamente il mare dall’Ecumene dell’uomo e nella sua Politische Geographie appare solo come uno spazio da percorrere o attraversare: è chiaro quindi lo scopo politico del testo scritto in esclusivo appoggio della politica in favore della flotta. Sulle problematiche relative alla “Politica del mare” di F.Ratzel si vedano gli importanti lavori di M.Korinman (1984; 1987, pp.40-45; 1990, pp.76-85; 1999, pp.185-202). 198 Uso qui l’enunciato “problemi connessi al controllo del territorio” in quanto, a parer mio, per F.Ratzel, come per A.T.Mahan, non è possibile utilizzare l’enunciato “problemi geopolitici”. 199 F.Ratzel, 1906, p.57; poi continua “la grande unità del mare cancella le tendenze separatiste… poiché il mare è uno solo, anche il suo dominio tende al dominio della totalità ed il commercio marittimo ne segue l’esempio, con tendenze monopolizzatrici”. Concetti che riprendono ed ampliano di molto l’affermazione “In der Natur des Meeres liegt weder Absonderung noch Grenze” (Ratzel, 1923, p.490). 200 F.Ratzel, 1906, p.11; più avanti poi continua “il mare, come massima manifestazione unificatrice, esprime i rapporti dello spazio, molto più nettamente che la terra… il mare acuisce, e dilata nel tempo stesso, lo sguardo politico ed economico”. Sono affermazioni queste che ritroviamo, ampliate, anche nel suo Politische Geographie, pp.489-490: “Un grande Stato non si può concepire senza una sua potenza marittima. Il controllo del mare implica la dominazione di numerosi paesi anche se esso deriva da uno territorio poco esteso e debole per questo resta dipendente dalle vie marittime. Da ciò la sua grandezza e la sua debolezza” [Ein wahrer Groβstaat ohne Seemacht nicht mehr zu denken. Die Beherrschung der See führt zur Herrschaft über viele Länder, wenn sie auch von einem engen und schwachen Lande ausgegangen sein sollte; sie ist aber immer von dem Verkehr über die Salzflut abhängig. Darin liegt ihre Größe und ihre Gefahr]. 201 E poi continua “la preveggenza nello spirito e nel carattere dei popoli marittimi che ànno essenzialmente contribuito all’ingrandimento delle misure politiche… Soltanto il mare può allevare vere forze mondiali” (Ratzel, 1906, p.39). Frasi che sostanzialmente ricalcano l’affermazione: “con i suoi orizzonti infiniti conferisce, ai caratteri politici dei popoli marittimi, audacia, resistenza e visione prospettica: tutto ciò contribuisce enormemente all’ampliamento della scala politica” [Die Beherrschung des Meers trägt aus den endlosen Horizonten einen groβen Zug von Kühnheit, Ausdauer und Fernblick in den politischen Charakter der Seevölker hinein. Sie haben am wesentlichsten beitragen zur Vergröβerung der politischen Maβstäbe. Die enge territoriale Politik ist ihrem Wesen nach kurzsichtig; das weite Meer erweitert den Blick nicht bloβ des Kaufmanns, sonder auch des Staatsmannes] (Ratzel, 1923, p.510). 202 “Il commercio… non segue la bandiera e la bandiera non segue lui, esso va con la bandiera. Il primo bastimento di commercio deve essere armato…come nel 1854 e nel 1864 nel Giappone” (Ratzel, 1906, p.43). 203 “Angusti passaggi, ove l’arrivo e la partenza delle navi possono essere sorvegliati da cannoni costieri: qui cessa totalmente la libertà dei mari… ogni perturbazione alla stabilità del suo possesso nel Canale di Suez o nello stretto di Gibilterra è quasi così sensibile per lo stato britannico, come una perdita nello stesso Canale della Manica”.

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fondo per l’ancoraggio od un pezzo di terra asciutto per depositi di carbone e di provvigioni e

per le cisterne” 204 poi è chiaro che questo si trasforma in conquista di ampi territori in quanto

sono le potenze che dominano il mare che “monopolizzano il commercio oltremarino e

guadagnano prestamente in estensione” (F.Ratzel, 1906, p.72).

Il mare, stante lo sviluppo della moderna flotta i cui movimenti non sono più legati alle sole

forze della natura, sarà sempre più importante per il dominio mondiale: flotta ed esercito

dovranno sempre più integrarsi205. È il mare che dà una visione panoramica globale in quanto

è il suo dominio che porta, pena la decadenza, a considerare il mondo intero: “soltanto il mare

può allevare vere forze mondiali”206.

È pur vero che sono sempre esistiti grandi Stati senza dominio marittimo207 ed altri con una

forte potenza marittima208 ma ora è solo l’azione combinata del domino marittimo e di quello

terrestre che definisce una vera potenza:

“se si chiedono degli effetti duraturi, questi poggiano soltanto sulla supremazia in terra, supremazia che è stata acquistata e mantenuta mediante la potenza marittima”209.

4.4. I Modelli Geopolitici Formali.

Il suolo –considerato come ambiente le cui influenze indirizzano lo sviluppo di un popolo o

di uno Stato– o il territorio –considerato come struttura complessa– erano sempre stati pensati

come delle precise entità concrete che presentavano delle inequivocabili caratteristiche storico-

materiali riferibili all’operato delle società umane e ai dati naturali presenti. La loro

trasformazione, come nota Raimond Aron, a mero “teatro delle azioni politiche” con una

fortissima semplificazione dei loro contenuti materiali “per diventare un ambito astratto” allo

204 F.Ratzel, 1906, p.59, e poi prosegue: “da ciò ecco l’impercettibile e semplice fatto del primo annidarsi su una costa straniera, e lo stupire del mondo per il rapido estendersi, qualora divenga visibile la rete che lega i piccoli punti isolati” in quanto (p.60) “il dominio del mare si può assomigliare ad un albero che, da un debole germoglio, si è propagato sempre maggiore e più robusto” e questo perché (p.64) “il possesso della terra tocca necessariamente ad una Potenza marittima, che abbia proseguito costantemente le sue vie”. 205 F.Ratzel, 1906, p.73: “Dacché un grande stato senza interessi mondiali è divenuto inconcepibile, non è più da pensarsi un vero e grande Stato, senza potenza marittima. Le flotte diverranno altrettanto necessarie come gli eserciti”. 206 F.Ratzel, 1906, p.39; che, qualche riga prima, afferma: “Dagli infiniti orizzonti si sviluppa il grande ardimento, la preveggenza nello spirito e nel carattere dei popoli marittimi che ànno essenzialmente contribuito all’ingrandimento delle misure politiche”. Interessante notare che proprio con questo argomento, l’estensione planetaria della logica marittima (commercio, guerra o conquista), motiva la caduta di Venezia, arroccata e chiusa nel Mediterraneo: “sulla decadenza di Venezia agì più profondamente la scarsa conoscenza della navigazione oceanica, cosicché naturalmente essa restò troppo indietro dei popoli atlantici nell’arte di costruir le navi” (Ratzel, 1906, p.19). 207 “Non mancano popoli, che vivono lontani dal mare, che hanno creato civiltà e costituito Stati, La storia dell’Egitto e della Cina non è in alcun modo senza glorie. Ma al suo monotono corso mancano i contrasti viventi e presto questo s’arena”; quasi due anni prima della sconfitta dei Boeri afferma “E sarà ora considerato dappertutto, come argomento di un’anormale e forse fatale miopia politica, il non aver saputo le due Repubbliche dei Boeri assicurarsi alcuna costa marittima”; la stessa Francia “rimase tuttavia Potenza troppo terrestre per diventare Potenza Marittima” (Ratzel, 1906, pp.51; 62 e 63). 208 Questo “si può agevolmente comprendere dalla grandezza del domino di Roma, della Spagna, dell’Inghilterra” (Ratzel, 1906, p.56). 209 F.Ratzel, 1906, p.56. Qualche pagina prima afferma: “la Potenza terrestre si sviluppa lentamente; al contrario, la Potenza marittima si sottomette mezzo mondo, mentre quella allunga la mano soltanto ad una provincia confinante… lunghe guerre terrestri saranno evitate e si ricercherà il successo piuttosto nella pronta occupazione di importanti punti costieri” (Ratzel, 1906, pp.53 e 54).

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scopo di “trarre previsioni o ideologie da una lettura geografica della storia universale”

(R.Aron, 1970, pp.232 e 240, corsivo dell’autore) è sicuramente legato al pensiero di Halford

John Mackinder e successivamente a quello di Nicholas John Spykman.

4.4.1. Gli schemi di Halford John Mackinder.

Halford J. Mackinder210 importante e complessa figura di intellettuale inglese –geografo,

economista, esploratore, diplomatico e uomo politico– è stato uno dei migliori figli dell’era

vittoriana: di quell’Inghilterra al culmine della sua potenza, padrona dei mari e signora di un

vastissimo impero coloniale, quando sembrava che fosse nell’ordine naturale delle cose che il

Regno Unito dovesse dominare i mari211. Egli, sebbene considerasse tutto ciò un indiscutibile

assioma, fu sicuramente anche uno dei primi a scorgere i pericoli per l’impero inglese. Pericoli

legati non tanto agli sviluppi della marineria statunitense212 quanto alla politica della Germania

guglielmina213 con l’operato dell’ammiraglio Alfred von Tirpitz214 ed il progetto della ferrovia

Berlino-Bagdad215 visto come un preciso disegno mirante ad interferire con la politica inglese

nel Golfo Persico e quindi nell’Oceano Indiano216.

La sua concezione della geografia come scienza unitaria è stata chiaramente definita nella

relazione esposta nel 1887, l’anno stesso in cui divenne il primo Reader in Geography ad

210 Nel 1887 divenne professore ufficiale di Geografia ad Oxford e due anni dopo fondò la Oxford School of Geography; dal 1903 al 1908 fu rettore della London School of Economics and Political Science; sua è la prima ascesa del 1899 sul Monte Kenya; fu Alto Commissario britannico in Russia nel 1919/20; deputato alla Camera dei Comuni dal 1910 al 1922; presiedette molti Comitati Imperiali. Per una sua approfondita biografia si veda B.W.Blouet (1987) e R.E.Dickinson (1976b). In italiano si possono consultare P.Mareau Defarges (1996, pp.36-38) e J.O’Loughlin (2000a, pp.193-195). 211 Come H.J.Mackinder (1962a, p.56) affermava, in modo più esteso: “It vas a proud and lucrative position, and seemed so secure that the mid-Victorian folk thought it almost in the natural order of things that insular Britain should rule the seas”. 212 Un accenno si trova H.J.Mackinder (1994, p.173) “Anche gli Stati Uniti stavano rapidamente assurgendo al rango di grande potenza”. Un riferimento allo schema di A.T. Mahan si trova in H.J. Mackinder (1904, pp.432-433) quando ne riassume brevemente il pensiero chiave, adattandolo alle sue concezioni: “The one and continuous ocean enveloping the divided and insular lands is, of course, the geographical condition of ultimate unity in the command of the sea, and of whole theory of modern naval strategy and policy as expounded by such writers as Captain Mahan…”. Una seconda analisi si trova in H.J.Mackinder (1962a, pp.28-30). 213 Problemi che nascono con Bismark definito “the Napoleon of the Prussian” ma continuano con “the Kaiser Wilhelm”: si veda H.J.Mackinder (1962a, pp.16-27) 214 Una chiara indicazione si ha in H.J.Mackinder (1994, p.173) “trent’anni dopo, alla fine del secolo, von Tirpitz intraprese la costruzione di una flotta d’alto mare tedesca… la mossa intrapresa dalla Germania significava che la nazione che già disponeva della superiorità militare terrestre e che occupava la posizione strategica centrale in Europa stava per dotarsi anche di una potenza navale sufficientemente forte da neutralizzare quella britannica”. Come nota G.Corni (1995, p.121) “la minaccia di una grande flotta da guerra tedesca suscitò in Gran Bretagna forti preoccupazioni; una ventata di nazionalismo radicale si diffuse e la politica britannica fu spinta anche per questa ragione a uscire dal suo isolamento”. 215 Progetto, mai completato, che la Gran Bretagna vedeva come “una minaccia per la via alle Indie” (Corni, 1995, p.122) si veda anche E.Obst (1927, pp.94-95). Come nota H.J.Mackinder (1962a, p.21) “Berlin-Bagdad, Berlin-Herat, Berlin-Pekin –not heard as mere words, but visualized on the mental relief map- involve for most Anglo-Saxons a new mode of thought, lately and imperfectly introduced among us by the rough maps of the newspapers”. Circa i programmi ferroviari della Germania guglielmina riguardanti la ferrovia Berlino-Bagdad, con le relative problematiche diplomatiche e finanziarie, si veda l’interessante analisi che ne fa M.Korinman (1999, pp. 78-184). 216 Circa il contesto politico-diplomatico in cui si pone l’opera di H.J.Mackinder si veda P.Venier (2005).

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Oxford, alla Royal Geographical Society217. Secondo il suo pensiero la geografia, pur essendo

una scienza unitaria, si presentava come un sapere complesso, articolato in più branche, in

grado di rispondere a vari quesiti: il “perché” di un “dato territoriale” sarebbe stato spiegato

dalla fisiografia, il “dove” dalla topografia, il “perché è li” dalla geografia fisica e “come

interagisce con l’uomo nella società” dalla geografia politica218. Fra le varie branche quella più

importante, quella su cui egli basa buona parte dei suoi lavori più autorevoli, era la geografia

politica che, appoggiandosi alla geografia fisica, aveva la capacità di individuare e dimostrare le

relazioni esistenti tra l’uomo, membro di una società, e il proprio ambiente219.

Halford J. Mackinder è però conosciuto soprattutto per teoria dell’Hertland, la teoria del

“nucleo centrale”, probabilmente il più famoso prodotto intellettuale della geografia politica poi

fatto proprio da tutti i “geopolitici”220. Il valore geopolitico di questa teoria è legato al fatto che

con essa è possibile interpretare il territorio non più come una struttura concreta e complessa

ma come un ambito astratto analizzabile sotto un duplice aspetto: da un lato rappresenta lo

scacchiere su cui si impostano le operazioni diplomatico-strategiche miranti alla sua conquista

o controllo e dall’altro diventa, contemporaneamente, “la posta in gioco” da conquistare.

Discussa per la prima volta nel 1904 (casualmente anche l’anno della morte di Friedrich Ratzel)

con il saggio The geographical pivot of history221, è stata sostanzialmente definita nel 1919,

alla fine della Prima Guerra Mondiale, nel libro Democratic Ideals and Reality e rilanciata in The

Round World and the Winning of the Peace, pubblicato nel 1943 alla fine della Seconda,

considerato il testamento delle sue riflessioni geopolitiche. Si tratta di uno schema teorico

elaborato e perfezionato nell’arco di un quarantennio che, pur rispondendo a un preciso intento

di salvaguardia e conservazione dell’Impero Britannico, venne sicuramente utilizzato anche da

Karl E. Haushofer e probabilmente fornì la base teorica alla logica della “Guerra Fredda” di

questo secondo dopo guerra.

L’efficienza delle argomentazioni di Halford J. Mackinder era legata alla sua capacità di

associare al “territorio/scacchiere” alcuni semplici schemi interpretativi che, correlando e

217 “Are physical and political geography two stages of one investigation, or are they separate subjects to be studied by different methods, the one an appendix of geology, the other of history?” In effetti continua: “Physical geography has usually been-undertaken by those already burdened with geology political geography by those laden with history. We have yet to see the man who taking up the central, the geographical position, shall look equally on such parts of science and such parts of history as are pertinent to his inquiry. Knowledge is, after all, one, but the extreme specialism of the present day seems to hide the fact from a certain class of minds” Per questo secondo lui la geografia è: “the science whose main function is to trace the interaction of man in society and so much of his environment as varies locally”. O meglio, come precisa nella discussione finale: “It is science of distribution, the science, that is, which traces the arrangement of things in general on the earth’s surface” (H.J.Mackinder, 1887, pp.142-145 e 160). 218 Physiography asks of a given feature, “Why is it?” Topography, “Where is it?” Physical geography, “Why is it there?” Political geography, “How does it act on man in society, and how does he react on it?” (H.J.Mackinder, 1887, p.147). 219 “The function of political geography is to detect and demonstrate the relations subsisting between man in society and so much of his environment as varies locally” (H.J.Mackinder, 1887, p.144). 220 Un’interessante analisi del pensiero di H.J.Mackinder si trova in R.Aron (1970). 221 Il saggio, prima di essere pubblicato sul Geographical Journal, è stato presentato e discusso il primo gennaio 1904 nella prestigiosa sede della Royal Geographical Society ed in quell’occasione H.J.Mackinder “pronuncia uno dei più famosi discorsi geografici che la storia ricordi” (C.Minca L.Bialasiewicz, 2004, p.152).

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combinando situazioni storiche con dati territoriali basilari222, fossero capaci di interpretare e

spiegare le logiche di conquista storicamente definite e quindi atti a far vedere in prospettiva

alcune delle forze antagoniste nell’attuale politica internazionale223. In altri termini egli,

tracciando una correlazione tra le più grandi generalizzazioni geografiche e storiche, voleva

definire una formula che esprimesse alcuni aspetti della causalità geografica nella storia

universale224. Una formula molto semplice e facilmente utilizzabile, che potesse dare delle

precise soluzioni politicamente gestibili: “una formula geografica nella quale possa trovar

spazio qualunque equilibrio politico”225. O meglio, come afferma nel suo ultimo lavoro, una

struttura interpretativa d’impostazione nettamente “realista” capace di:

“tracciare una linea di demarcazione ben netta tra disegni idealistici e, invece, mappe realistiche ed erudite che presentino concetti –politici, economici, strategici e così via– basati sul riconoscimento di realtà che non si possono modificare” (H.J. Mackinder, 1994, p.179).

Il punto di partenza delle schematizzazioni di Halford J. Mackinder era rappresentato da

due concetti geografici chiave: l’esistenza, sempre più importante e marcata, di un unico

“sistema mondo” e del “dualismo terra/mare”. L’interazione del sistema mondo e l’opposizione

tra le potenze continentali e marittime era fortemente connessa, nella sua evoluzione, ad un

elemento storico: lo sviluppo della tecnologia, in particolare quella legata alla mobilità, fattore

di mutamento nei rapporti fra le potenze continentali e quelle marittime per il controllo del

sistema mondo226.

Il Pianeta è sostanzialmente composto di spazi marittimi che ne coprono i nove dodicesimi

e costituiscono il grande Oceano Mondiale227. Gli altri tre dodicesimi sono le terre emerse: due

di questi sono definiti dal Vecchio Continente formato da Europa, Asia e Africa, mentre l’ultimo

è dato dalle Americhe con l’Australia e le isole minori. In questo quadro egli collocava la sua

Pivot Area (regione perno) meglio precisata, nei suoi scritti successivi, come Heartland (cuore

222 H.J.Mackinder, 1904, p.422: “I propose … describing those physical features of the world which I believe to have been most coercive of human action, and presenting some of the chief phases of history as organically connected with them, even in the ages when they were unknown to geography. My aim will not be to discuss the influence of this or that kind of feature, or yet to make a study in regional geography, but rather to exhibit human history as part of the life of the world organism. I recognize that I can only arrive at one aspect of the truth, and I have no wish to stray into excessive materialism. Man and not nature initiates, but nature in large measure controls.” 223 H.J.Mackinder, 1904, p.422 “as setting into perspective some of the competing forces in current international politics”. 224 H.J.Mackinder, 1904, p.422, “It appears to me, therefore, that in the present decade we are for the first time in a position to attempt, with some degree of completeness, a correlation between the larger geographical and the larger historical generalizations. For the first time we can perceive something of the real proportion of features and events on the stage of the whole world, and may seek a formula which shall express certain aspects, at any rate, of geographical causation in universal history”. 225 H.J.Mackinder, 1904, p.443, “My aim is not to predict a great future for this or that country, but to make a geographical formula into which you could fit any political balance”. Il termine formula viene sempre usato nel testo ogni qualvolta egli fa riferimento alla sua interpretazione della “causalità geografica nella storia universale” e ricorre per ben 4 volte nelle due pagine del suo intervento conclusivo il dibattito finale (Mackinder, 1904, p.442-443). 226 Si vedano P.J.Hugill (2005) e F.Bordonaro (2009, pp. 52-60). 227 H.J.Mackinder, 1904, pp.432-433: “The one and continuous ocean enveloping the divided and insular lands is, of course, the geographical condition of ultimate unity in the command of the sea, and of the whole theory of modern naval strategy and policy as expounded by such writers as Captain Mahan and Mr. Spencer Wilkinson”.

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della terra). Questo cuore della terra, dominato dalle forze terrestri, è circondato nella sua

parte meridionale da una sorta di struttura cuscinetto la mezzaluna interna (inner or marginal

crescent), composta dagli stati della vecchia Europa con la Turchia l’India e la Cina, che si

frappone alla mezzaluna esterna (outer or insular crescent) che raggruppa la Gran Bretagna,

gli USA, il Canadà, l’Australia ed il Giappone, stati dove domina la forza marittima.

L’Heartland, la regione perno, è l’elemento centrale del suo schematismo ed è formato

dalla:

“parte settentrionale e interna dell’Eurasia. Essa si estense dalla costa dell’Artico fino ai deserti centrali, e ha come confine occidentale l’ampio istmo tra il Baltico e il Mar Nero. Questo concetto non ammette una definizione precisa sulla carta, poiché esso si basa su tre diversi aspetti della geografia fisica” (H.J. Mackinder, 1994, p.178).

L’Heartland, questa “cittadella della potenza terrestre nella parte continentale del mondo” è

quindi caratterizzata da tre dati fisici che si combinano senza “coincidere con esattezza”: la più

vasta pianura dell’intero pianeta che comprende il grande bassopiano settentrionale dell’Asia

con le steppe russe per poi continuare nel cuore agricolo dell’Occidente attraverso Germania,

Olanda, Belgio e Francia; pianura attraversata da alcuni grandi fiumi navigabili ma privi di

sbocco sul mare aperto e, per ultimo, è un’immensa zona di pascolo che ha permesso ai

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nomadi una perfetta mobilità228. In conclusione è una grande struttura fisica sostanzialmente

omogenea che, senza sbocco nei mari aperti e preclusa agli interventi delle potenze marittime,

non ha permesso ai popoli che la abitano di avere una mobilità marittima e quindi di dare

origine ad una potenza marittima. Ha favorito però un altro tipo di mobilità: il nomadismo con

la possibilità di dar origine ad una potenza terrestre.

La schematizzazione iniziale di Halford J. Mackinder, che parte dalla contrapposizione tra la

vecchia Europa agricolo-stanziale e la grande mobilità delle orde nomadi delle steppe

euroasiatiche, è sintetizzabile nella precisa formula geografica:

“l’Europa e la sua storia…[debbono essere considerate]… come dipendenti dall’Asia e dalla storia di questo grande continente, poiché la civiltà europea è, in senso letterale, il risultato della secolare lotta contro l’invasione asiatica” (Mackinder, 1904, p.423).

Roma aveva arginato le invasioni con la funzione unificante della sua potente organizzazione

politico-miltare rendendo mobile la potenza delle sue legioni per mezzo delle strade. Crollato il

suo sistema di potere una serie di popolazioni a cavallo irruppe dall’Asia attraverso l’ampio

passaggio tra i Monti Urali e il Mar Caspio229. È il grande “martello asiatico” che, attraverso un

branco di spietati uomini a cavallo, si è abbattuto come un maglio sulle popolazioni europee

influenzandone la storia e la civiltà e questo non solo per i popoli della Vecchia Europa perché

“Russia, Persia, India e Cina furono rette da dinastie mongole o ne divennero tributarie”230.

La velocità di spostamento e la capacità di controllo del vasto territorio steppico da parte

dei nomadi, legati agli spostamenti a cavallo e su cammello, era molto limitata dalla mancanza

di strade ed aveva un preciso confine nella foresta e nelle montagne. Ora, però, con la

costruzione della ferrovia Transiberiana “le strade ferrate transcontinentali stanno mutando le

condizioni della potenza terrestre” (Mackinder, 1904, p.434). Nella vasta steppa euroasiatica le

ferrovie, data la loro velocità, diventeranno estremamente efficaci nel controllo e conquista del

territorio se abbinate ad una potenza statale con una struttura politico-miltare efficiente.

La sua formula geografica lo porta a concludere che se il cuore della terra viene controllato

da una forte potenza terrestre con mire oceaniche (la Germania si allea o conquista la Russia

oppure il Giappone si allea o conquista la Cina) ci sarebbe una rottura dell’equilibrio di potere a

favore di questa nuova potenza terrestre-marittima. Questo si risolverebbe nella sua

espansione sulle terre periferiche dell’Eurasia e permetterebbe l’impiego di vaste risorse

228 Le citazioni sono tutte prese da H.J.Mackinder, 1994, pp.178 e 175. 229 H.J.Mackinder, 1904, p.427: “For a thousand years a series of horse-riding peoples emerged from Asia through the broad interval between the Ural mountains and the Caspian sea, rode through the open spaces of southern Russia, and struck home into Hungary in the very heart of the European peninsula, shaping by the necessity of opposing them the history of each of the great peoples around-the Russians, the Germans, the French, the Italians, and the Byzantine Greeks”. 230 H.J.Mackinder, 1904, p.427: “Such was the harvest of results produced by a cloud of ruthless and idealess horsemen sweeping over the unimpeded plain -a blow, as it were, from the great Asiatic hammer striking freely through the vacant space”. E poi continua (p.430): “Thus it happened that in this typical and well-recorded instance, all the settled margins of the Old World sooner or later felt the expansive force of mobile power originating in the steppe. Russia, Persia, India, and China were either made tributary, or received Mongol dynasties. Even the incipient power of the Turks in Asia Minor was struck down for half a century”.

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continentali per la costruzione di flotte, con la conseguente possibilità di conquistare il dominio

del mondo231. In altri termini se la grande potenza economica, industriale e politica della

Germania potesse controllare gli spazi siberiani e le ricchezze della Russia Europea potrebbe

conquistare alcune regioni periferiche della mezzaluna interna: tutto ciò le permetterebbe di

dotarsi di una forte flotta oceanica necessaria al dominio del mondo. Per evitare questo la Gran

Bretagna dovrà agire sulla regione periferica “mantenendovi l’equilibrio di potenza rispetto alle

forze interne espansive” (Mackinder, 1904, p.443). Ovviamente il futuro del mondo dipenderà

dal mantenimento di questo equilibrio. Ne consegue che nel lungo periodo:

“sarà inevitabile l’esistenza di due dominî economici differenti, uno basato principalmente sul mare e l’altro sul cuore del continente e sulle ferrovie” (Mackinder, 1904, p.442).

Nel suo lavoro Democratic Ideals and Reality. A Study in the Politics of Reconstruction232

pubblicato nel 1919, alla fine della I Guerra Mondiale, egli riprende lo schema dell’Heartland e

lo completa ampliandolo con il concetto della World Island (l’isola mondiale). L’Europa, l’Asia e

l’Africa formano un unico blocco continentale che definisce appunto World Island233: un’isola

mondiale contornata dall’oceano e circondata da potenze marittime. Una potenza continentale

che possedesse una base continentale così grande e ricca come l’isola mondiale e controllasse

tutte le sue basi marittime, potrebbe dotarsi di una flotta capace di escludere dal proprio

territorio le potenze marittime e così dominare l’intero pianeta: “sarebbe l’ultima minaccia per

la libertà del mondo”234. La contrapposizione, suggerisce Halford J. Mackinder, è sempre stata

tra le potenze marittime portatrici di libertà e le potenze continentali portatrici di oppressione:

è questo il senso preciso delle sue schematizzazioni così ben espresso dal motto che, pensato

come uno slogan235, è chiaro, preciso e facile da ricordare:

Chi governa l’Europa Orientale, domina l’Heartland Chi governa l’Heartland, domina la World Island Chi governa la World Island, domina il mondo.236

231 H.J.Mackinder, 1904, p.436: “The oversetting of the balance of power in favour of the pivot state, resulting in its expansion over the marginal lands of Euro-Asia, would permit of the use of vast continental resources for fleet-building, and the empire of the world would then be in sight”. 232 Il testo è stato poi ristampato nel 1962 col titolo Democratic Ideals and Reality. With additional papers. 233 H.J.Mackinder, 1962, p.62: “The joint continent of Europe, Asia, and Africa, is now effectively, and not merely theoretically, an island. Now and again, lest we forget, let us call it the World-Island in what follows”. 234 H.J.Mackinder, 1962, p.70: “What if the Great Continent, the whole World-Island or a large part of it, were at some future time to become a single and united base of sea-power? ... Ought we not to recognize that, that is the great ultimate threat to the world’s liberty so far as strategy is concerned, and to provide against it in our new political system?” 235 Che sia pensata come uno slogan è chiaramente espresso dalle righe che la precedono: “A victorious Roman general, when he entered the city, amid all the heat-turning splendour of a “Triumph”, ha behind him on the chariot a slave who whispered into his ear that he was mortal. When our some airy cherub should whisper to them from time to time this saving” (Mackinder, 1962, p.150). 236 H.J.Mackinder, 1962, p.150: “Who rules East Europe commands the Heartland; Who rules Heartland commands the World Island; Who rules World Island commands the World”. Come notano C.Minca LBialasiewicz: “dietro questo slogan si celava una raccomandazione strategica chiara e semplice: bisognava impedire l’espansionismo Tedesco in Europa orientale e, soprattutto, l’alleanza tra i tedeschi e quello che un tempo era stato l’Impero Zarista, destinato a divenire l’Unione Sovietica nel corso degli anni Venti” (2004, p.161).

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La sua interpretazione è basata su di un preciso schematismo territoriale dato dalla

contrapposizione, mirante al controllo del sistema mondo, tra potenze marittime e potenze

continentali237. Contrapposizione connessa allo sviluppo della tecnologia legata sia

all’evoluzione della mobilità terrestre o marittima sia alla possibilità di sfruttamento delle

risorse utilizzabili. È ben vero che egli auspica l’esistenza di un ideale giustizia e libertà fra le

nazioni ma, poi afferma che in ogni caso l’uguaglianza fra i vari stati è naturalmente

impossibile in quanto la diversa distribuzione fra terra e mare, la diversa fertilità, la diversa

ricchezza della terra porterà per sua natura “l’espansione degli imperi ed infine l’esistenza di

un unico impero”238.

Di fatto il messaggio che egli trasmette è connesso ad una precisa ideologia geografica

legata alla storia universale: “geographical causation in universal history” 239. Ne consegue che

la conoscenza della geografia, in quanto elemento condizionante i fatti storici, è un formidabile

aiuto per i governanti240. I fatti storici sono vincolati al quadro geografico e la mobilità è stata il

miglior modo per adattarsi agli ambienti e conquistare territori: una volta cavalieri e velieri ora

ferrovie e navi a motore. La storia scorre, plasma o modifica gli attori, mentre la geografia

rappresenta la “realtà che non si può modificare”: la base (il quadro geografico) rimane

sempre la stessa cambiano solo i popoli e le condizioni storiche di riferimento. Così per

mantenere l’equilibrio mondiale e la libertà dei popoli si è trattato di impedire, alla Germania

prima ed ora –nel 1943– all’Unione Sovietica241, l’unificazione dell’Heartland.

È abbastanza facile concludere come questo suo schema, basato sostanzialmente sul

“controllo dell’ Heartland”, sia diventato l’architrave di tutte le concezioni geopolitiche del XIX

secolo e fatto proprio non solo dalla Geopolitick tedesca ma anche dagli ideologi della guerra

fredda, come Nicholas John Spykman.

4.4.2. Lo schema di Nicholas John Spykman.

Nicholas John Spykman (1893 - 1943), nato in Olanda e trasferitosi nel 1920 negli Stati

Uniti, è stato, dal 1935 al 1940, direttore dell’importante Istituto di Studi Internazionali

dell’Università di Yale242. È considerato il capofila della scuola realista della geopolitica

237 Nel suo articolo scritto sul finire della II Guerra Mondiale (H.J.Mackinder, 1994, p.179), presenta solo un accenno ai problemi dell’aviazione “Sembra che alcuni oggi sognino una potenza aerea mondiale che “liquiderà” sia le flotte che gli eserciti”. 238 H.J.Mackinder, 1962a, a p.3 afferma: “It is our ideal that justice should be done between nations, whether they be great or small”, mentre alla pagina precedente (p.2) nota come “ there is in nature no such thing as equality of opportunity for the nations… the grouping of lands and seas, and of fertility and natural pathways, is such as to lend itself to the growth of empires, and in the end of a single world-empire” 239 Per un’interessante analisi dell’ideologia geografica di H.J.Mackinder si veda il lavoro di R.Aron (1970, pp.239-253). 240 Elemento condizionante, non determinante: “Man and not nature initiates, but nature in large measure controls” (Mackinder, 1904, p.422). 241 H.J.Mackinder, 1994, p.178: “Tutto considerato, si deve concludere che, se l’Unione Sovietica uscisse da questa guerra come vincitrice della Germania, essa risulterebbe inevitabilmente la maggior potenza terrestre del mondo… dotata della posizione difensiva strategicamente più forte. Il nucleo centrale è la più vasta fortezza naturale della terra. Per la prima volta nella storia, essa è presidiata da una guarnigione numericamente e qualitativamente adeguata”. 242 Di lui si veda P.Moreau Defarges (1996, p.44), J.O’Loughlin (2000a, pp.257-259), F.Bordonaro (2009, pp.94-98) e l’articolo un po’ apologetico di O.Sevaistre (1988) e la stroncatura che ne fa J.Gottmann (1952, p.62) “Il n’y a pas là

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americana che ha ispirato la politica estera e la dottrina militare statunitense dalla fine della

Seconda Guerra Mondiale.243.

Negli anni 1938 e 1939 pubblica due importanti articoli sui rapporti tra la geografia e la

politica estera degli stati. Partendo dall’affermazione di Napoleone “la politique de toutes les

puissances est dans leur géographie” egli nota come la geografia sia effettivamente il

principale fattore condizionante la politica nazionale degli stati244. Questo perché “le

caratteristiche geografiche degli stati sono relativamente stabili e immutabili e le loro

aspirazioni geografiche restano le stesse nel corso dei secoli” non solo, ma ciò che conta è che

“mentre i governi e le dinastie si succedono, alla geografia sono ascrivibili le lotte che si

perpetuano attraverso la storia”245. Quelle “caratteristiche geografiche degli Stati”

comprendono l’insieme delle risorse, la localizzazione ed i confini. Le risorse del territorio, pur

influenzate dalla topografia e dal clima, definiscono direttamente la struttura economica e

quindi la forza dello Stato246. La localizzazione, sia assoluta (come posizione nel mondo) sia

relativa (come riferimento agli altri Stati), pur essendo immutabile cambia di valore al variare

della tecnologia e, determinando nemici e potenziali alleati, definisce il ruolo dello Stato nello

scacchiere mondiale247. I confini appaiono come l’elemento più critico in quanto non esiste una

frontiera naturale o politica ideale, ma essi sono definiti da strutture artificiali e temporanee,

frutto di mutevoli equilibri di potenza248 ed appaiono stabili solo “during the temporary

armistice called peace”249.

une vue nouvelle des choses, mai uniquement une répétition de Mackinder en l’accommodant à une cartographie centrée sur l’Amérique”. 243 C.Raffestin DLopreno Y.Pasteur: “On ne peut s’empêcher de voir dan l’œuvre de Spykman un modèle théorique de la politique étrangère américaine d’après-guerre” (1995, p.282). 244 Conzionante, mai determinante (Spykman, 1938a, pp.29 e 30): “It is the most fundamentally conditioning factor in the formulation of national policy because it is the most permanent… It should be emphasized, however, that geography has been described as a conditioning rather than as a determining factor”. 245 “Because the geographic characteristics of states are relatively unchanging and unchangeable, the geographic demands of those states will remain the same for centuries, and because the world has not yet reached that happy state where the wants of no man conflict with those of another, those demands will cause friction. Thus at the door of geography may be laid the blame for many of the age-long struggles which run persistently through history while governments and dynasties rise and fall” (Spykman, 1938a, p.29); e ancora più incisivo: “Geography is the most fundamental factor in the foreign policy of states because it is the most permanent. Ministers come and ministers go, even dictators die, but mountain ranges stand unperturbed” (Spykman, 1942a, p.41). 246 “Size affects the relative strength of a state in the struggle for power. Natural resources influence population density and economic structure, which in themselves are factors in the formulation of policy… [occorre però considerare]… the modifying effects of topography and climate. Topography affects strength because of its influence on unity and internal coherence. Climate, affecting transportation and setting limits to the possibility of agricultural production, conditions the economic structure of the state, and thus, indirectly but unmistakably, foreign policy” (Spykman, 1938a, pp.29 e 30). 247 “The location of a state may be described from the point of view of world-location, that is, with reference to the land masses and oceans of the world as a whole, or from the point of view of regional location, that is, with reference to the territory of other states and immediate surroundings…. It conditions and influences all other factors for the reason that world location defines climatic zones and thereby economic structure, and regional location defines potential enemies and thereby the problem of territorial security and potential allies, and perhaps even the limits of a state’s rôle as a participant in a system of collective security” (Spykman, 1938a, p.40). 248 Ogni Stato vive su di un territorio “whose limits are defined by an imaginary line called a “boundary”… the position of that line may become an index to the power relations of the contending forces. Stability then suggests an approximation to balanced power, and shifts indicate changes in the relative strength of the neighbors, either through

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La sua è una visione sicuramente influenzata dal quadro politico internazionale, ancora

fortemente condizionato dalle vicende belliche, che lo pone abbastanza vicino ad un darvinismo

sociale250 in cui la vita stessa è una serie di lotte per l’esistenza:

“un mondo senza lotta è un mondo in cui la vita ha cessato d’esistere. Un mondo ordinato non vuol dire che sia privo di conflitti… [ma che] questi si sono trasferiti dal campo di battaglia ai parlamenti ed ai tribunali” 251.

Per la sua analisi si rifà direttamente alla geopolitica intesa come il campo d’azione della

politica estera, rifiutando le concezioni “metafisiche” della Geopolitick tedesca252. Sotto

quest’aspetto egli combinò le idee di Alfred T. Mahan, il World Ocean come elemento chiave,

con quelle di Halford J. Mackinder, con l’Heartland di assoluta importanza, delineando dei

concreti disegni strategici per il ruolo degli Stati Uniti nel dopoguerra.

Se per Halford J. Mackinder l’elemento centrale del suo discorso geopolitico era l’Heartland,

per Nicholas J. Spykman la zona perno è il Rimland che corrisponde alla mackinderiana

mezzaluna interna (inner or marginal crescent)253. Quest’area è composta di quell’ampia fascia

di stati o territori che, dall’Europa atlantica passando per il Mediterraneo, il Golfo Persico,

l’oceano Indiano ed il sud-est asiatico, circondano l’Heartland. Fascia che non è possibile

considerare come una struttura unitaria dal punto di vista territoriale, culturale, storico o

politico ma solo da quello strategico-spaziale. È disomogenea dal punto di vista climatico e

morfologico; è frammentata oltremisura in vari stati ciascuno con lingua e cultura diversa;

storicamente qui sono nate differenziandosi le grandi civiltà e religioni occidentali ed è qui che

si sono combattute le principali guerre degli ultimi secoli. La sua unicità, come struttura

territoriale, è da considerarsi ragionevole solo dal punto di vista strategico: la sua the accretion of power by one or through a decline in the resistance of the other” (Spykman, 1942b, p.40). Sulla sua idea di confine si veda anche N.J.Spykman (1939a) 249 “the temporary armistice called peace” è una frase che N.J.Spykman riprende in quasi tutti i suoi lavori (1938a, p.29; 1939, p.395; 1942a, pp.41 e 447; 1942b, p.437). 250 Si veda l’interpretazione che ne dà C.Raffestin D.Lopreno Y.Pasteur (1995, pp.279-282). 251 “A world without struggle would be a world in which life has ceased to exist. An orderly world is not a world in which there is a no conflict, but one in which strife and struggle are led into political and legal channels away from the class of arms; are transferred from the battlefield to the council chamber and the court room” (Spykman, 1942a, p.12). “Brotherly love would no automatically replace conflict, and the struggle for power would continue. Diplomacy would become lobbying and log-rolling, and international wars would become civil wars and insurrections” (Spykman, 1942a, p.458). Ancora più grave è l’affermazione: “The International community is a world in which war is an instrument of national policy and the national domain is the military base from which the state fights and prepares for war during the temporary armistice called peace” (Spykman, 1942a, p.447). Ed ancora, riferendosi implicitamente agli Stati Uniti: “neither the self-evident truth of our principles nor the divine basis of our moral values is in itself enough to assure a world built in the image of our aspiration. Force is manifestly an indispensable instrument both for national survival and for the creation of better world” (Spykman, 1944, p.3). 252 “The specific field of geopolitics is, however, the field of foreign policy, and its particular type of analysis uses geographic factors to help in the formulation of adequate policies for the achievement of certain justifiable ends…[ma che comunque era]… something completely different from the geographical metaphysics which is so characteristic of the German school of Geopolitics. Haushofer has managed to give to particular types of frontier a mystical, moral sanctity… magic concept space… divine purposes. Such metaphysical nonsense has no place here… [questo perché secondo il suo concetto di geopolitica]… In any case, the objectives of peace and security for state and for the world as a whole must inspire the final choice of policy ” (Spykman, 1944, pp.6 e 7). 253 Sostanzialmente traducibile come “fascia esterna”. “The rimland of the Eurasian land mass must be viewed as an intermediate region, situated as it between the heartland and the marginal seas. It functions as a vast buffer zone of conflict between sea power and land power. Looking in both directions, it must function amphibiously and defend itself on land and sea… Its amphibious nature lies at the basis of its security problems” (Spykman, 1944, p.41).

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frammentazione e disomogeneità la rendono facilmente controllabile o dalla potenza

continentale o da quella marittima ed il suo controllo è funzionale al governo dei “destini del

mondo”.

Da qui parte la sua critica a Halford J. Mackinder: quest’ultimo era assolutamente convinto

che ogni confitto in Europa doveva seguire lo schema che opponeva il potere terrestre a quello

marittimo uno schema così semplificato non teneva conto che:

“non vi è mai stata una semplice opposizione tra la potenza terrestre e quella marittima. Storicamente si sono visti alcuni membri del Rimland alleati con la Gran Bretagna in lotta con altri membri del Rimland a fianco della Russia, oppure, Gran Bretagna e Russia alleate contro una potenza dominante del Rimland”254.

Per questo il Rimland non rappresentava solo il territorio intermedio tra l’Hertland ed il mare,

funzionante come zona cuscinetto dei conflitti tra la potenza marittima e quella continentale,

ma era il fattore determinante per una politica di potenza poiché, parafrasando lo slogan di

Halford J. Mackinder:

“chi controlla il Rimland controlla l’Eurasia; chi controlla l’Eurasia controlla i destini del mondo”255.

In altri termini è sul Rimland che si svolge lo scontro, che sempre riemerge dopo i periodi di

stasi, tra le potenze marittime e quelle continentali per cui chi controlla il Rimland controlla

quella fascia cerniera del mondo che permette, se dominata, l’egemonia dell’una sull’altra. Ed

è su questa posizione che si basa la sua visione “realista” della politica estera statunitense256.

Per Nicholas J. Spykman il controllo, o comunque il condizionamento, del Rimland è fattore

determinante per la strategia e la politica estera statunitense. Ne consegue che vi dovrà essere

un rafforzamento degli stati del Rimland sotto l’ovvio controllo degli Stati Uniti. Così l’Europa

dovrà essere organizzata sotto forma di una società regionale delle Nazioni con gli Stati Uniti

come membro non europeo257 in modo da contrastare la potenza economico-militare

dell’Unione Sovietica258. Allo stesso modo gli Stati Uniti dovranno appoggiarsi al Giappone per il

controllo del Rimland asiatico –e questo lo scrive nel 1942 ben prima che finisca la guerra– in

254 “So convinced was Mackinder of the fact that any conflict in Europe must follow the pattern of land power-sea power opposition… This interpretation would seem to be a little hard on the role of France as a land power, and it is strange to ignore the three years of Russian resistance on the eastern front… there as never really been a simple land power-sea power opposition. The historical alignment has always been in terms of some members of the rimland with Great Britain against some members of the rimland with Russia, or Great Britain and Russia together against a dominating rimland power” (Spykman, 1944, pp.40-43). 255 “Who controls the rimland rules Eurasia; who rules Eurasia controls the destinies of the world” (Spykman, 1944, pp.43). 256 La chiusura dell’Introduzione del suo testo America’s Strategy and World Politics. The Unites States and the Balance of Power è molto chiara al riguardo “offers an analysis of the position of our country in terms of geography and power politics. It represents a geo-political study of the most basic issue of American foreign policy, one that is as old the republic and that will remain a topic for discussion as long as the United States remains a free and independent country” (Spykman, 1942, p.8) 257 “It is to be hoped that this European power zone can be organized in the form of a regional League of Nations with the United States as an extra-regional member” (Spykman, 1942a, p.468). 258 “In case of Allied victory, the Soviet Union will come out of the war as one the great industrial nation of the world with an enormous war potential” (Spykman, 1942, p.466). “in fact, it may be that pressure of Russia outward toward the rimland will constitute one important aspect of the post-war settlement” (Spykman, 1944, p.53)

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modo da controllare l’eventuale espansionismo cinese259. È chiaro che per Nicholas J.

Spykman, il cui pensiero è volto alla politica estera statunitense, non è tanto il carattere

ideologico della potenza terrestre dell’Eurasia che conta per gli Stati Uniti, quanto l’unificazione

dell’intero territorio eurasiatico sotto una sola autorità: nazista, marxista-leninista, nazionalista

o maoista che sia.

L’influsso di Nicholas J. Spykman sul pensiero politico e strategico statunitense è stato

certamente rilevante. Probabilmente è stato il lontano ispiratore della dottrina di Harry Spencer

Truman sul “containment” ed ha certamente influenzato l’azione di autorevoli Segretari di

Stato quali Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski260. In ogni caso le sue pubblicazioni hanno

certamente contribuito all’abbandono del tradizionale isolazionismo a favore di un diretto

intervento negli affari mondiali e, sicuramente, hanno influito sulla militarizzazione della

politica degli Stati Uniti261.

4.5 – Conclusioni.

Le riflessioni di Alfred T. Mahan e di Friedrich Ratzel avevano come punto di riferimento

(nettamente esplicito per il primo ed implicito per il secondo) la potenza economico-politica

inglese e la relativa espansione imperiale. L’Inghilterra, che doveva la capacità difensiva alla

sua natura insulare, ha impegnato le forze per la realizzazione della supremazia marittimo-

militare, per il controllo dei punti di traffico e la conseguente espansione coloniale: le ricchezze

(popolazione e risorse naturali) le capacità (relative alla sua dotazione militare) la posizione

(essere isola in un mare aperto) e la conoscenza territoriale (il controllo dei punti di passaggio)

sono state mobilitate dallo Stato in vista della sicurezza e dell’espansione. La loro era una

riflessione che, spiegando l’azione politica dell’Inghilterra, voleva supportare e spingere

l’azione politica dei loro governi con una logica molto precisa: la struttura diplomatico-militare

di uno Stato, date le responsabilità e il ruolo che svolge, deve saper interpretare le proficue

relazioni tra le opportunità storiche (la tecnologia disponibile, gli interessi e il sistema di valori

di riferimento) e le condizioni geografiche determinando, in questo modo, la potenza e la

capacità di conquista della nazione.

Le riflessioni di Halford J. Mackinder e di Nicholas J. Spykman avevano come punto di

riferimento l’intero pianeta considerato come teatro su cui si svolge l’azione delle grandi

potenze. Pianeta che non era più considerato come un territorio concreto ma uno spazio

259 “The United States has been interested in the preservation… as an Asiatic power… Twice in one generation we have come to the aid of Great Britain in order that the small off-shore island might not have a single gigantic military state in control of the opposite coast of the mainland. If the balance of power in the Far East is to be preserved in the future as well as in the present, the United States will have to adopt a similar protective policy toward Japan, (Spykman, 1942, pp.468 e 470). Si veda anche N.J.Spykman (1944, p.58). 260 Su N.J.Spykman ispiratore della dottrina del containment si veda A.L.Sanguin (1975, p.280), P.Lorot (1997, p.43), O.Sevaistre (1988, p.131) e N.J.G.Pounds (1978, p.233); su fatto invece che “the idea behind containment have totally ignored Spykman” mentre abbia influenzato la politica “realista” post Truman si veda M.P.Gerace (1991, la citazione è di p.348). 261 Si vedano al riguardo: P.Moreau Defarges (1996, pp.42-54), O.Sevaistre (1988), D.Wilkinson (1985), C.Jean (1995, pp.39-41) e G.Sloan (1999).

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astratto, semplificato, schematizzato, sintetizzato nelle sue linee principali in alcune carte a

piccola scala, dei mappamondi disegnati ad oc su delle proiezioni di tipo Mercatore, la più

importante delle quali appare centrata sul Vecchio Continente. Una cartografia che non è il

tradizionale prodotto cartesiano, nel quale la mappa è la rappresentazione in scala della realtà,

ma una “cartografia magica”, delle schematiche “mappe di propaganda”262, vista come una

sorta di Mappamundi T-in-O il cui centro non è più Gerusalemme o Roma ma corrisponde

all’intero Heartland. Su queste basi cartografiche a piccola scala essi sovrappongono due

postulati base: il concetto ratzeliano dell’ineluttabile e fatale tendenza alla crescita degli

Stati263 e l’idea che i vari Stati possano essere definiti da due tipologie: le potenze continentali,

basate su uno spirito chiuso e possessivo legato alla conquista, e le potenze marittime, basate

su uno spirito aperto e avventuroso connesso agli scambi ed al commercio.

Secondo queste due scuole di pensiero il territorio perde la sua complessità diventa uno

spazio: la scacchiera su cui sono localizzati gli Stati, lo spazio schematico delle relazioni

diplomatico-strategiche della politica internazionale. Una scacchiera che definisce tutte le

qualità che, in quel momento storico, gli attori, i vari Stati-nazione con le loro diplomazie ed i

loro Stati Maggiori, devono tener conto per le loro politiche di conquista o di difesa. Uno spazio

(non un territorio) destinato ad essere, per la sua estensione o per le sue qualità, la posta in

gioco delle lotte tra le collettività umane (le orde barbariche prima e gli Stati oggi). Queste due

teorizzazioni, pur nella loro diversità, offrono una prospettiva interpretativa originale ed

affascinante per gli Stati Nazione agli inizi del XX secolo: una visione geografica della storia

universale funzionale ai loro disegni di espansione. Una teorizzazione che, pur parziale e

schematica, fa emergere un dato importante: la lettura geografico-determinista della storia

universale o meglio, per dirla con le parole di Halford J. Mackinder, the geographical causation

in universal history. Secondo questa prospettiva i fatti politico-militari sono, infatti, sempre e

fortemente condizionati dal quadro geografico in quanto è la scacchiera ed il suo controllo che

vincola e determina lo svolgimento del gioco politico-militare.

La Geopolitica non è certo una scienza; è una disciplina dell’azione, non della riflessione,

che interpreta la “realtà geografica” e lo “sviluppo storico” attraverso un rigido punto di vista,

una prospettiva pesantemente deterministica: the geographical causation in universal history.

Con essa le differenze tra scienza e politica, o meglio tra riflessioni scientifiche e scelte

politiche, scompaiono e le sue interpretazioni, le prospettive geopolitiche, assumono il rango di

ineluttabili verità. Così dato il contesto storico la disciplina con le sue prospettive geopolitiche

si degrada facilmente in ideologia giustificatrice. Disciplina (la Geopolitica) e prospettive (le sue

interpretazioni) che troveranno ampio spazio in Germania tanto che nel 1933, dopo l’ascesa di

Hitler al potere, la dipendenza della geopolitica dal governo fu definitiva e divenne uno

strumento di propaganda del regime che pretendeva di trovare giustificazioni scientifiche su

262 Si usano qui i termini “cartografia magica” e “mappe di propaganda” nell’accezione che ne fanno J.Pickles (1992); L.O.Quam (1943); H.Speier (1941) e J.K.Wright (1942). 263 Probabilmente non conoscevano il lavoro di F.Ratzel (1886a) sulle leggi di crescita degli Stati mentre sicuramente ne conoscevano la traduzione/riassunto apparsa lo stesso anno su Scottish Geographical Magazine F.Ratzel (1886b)

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base geografica per il suo operato di repressione e conquista264. Nel 1939 anche in Italia,

accettando l’interpretazione tedesca della geopolitica, nacque a Trieste una scuola di

geopolitica che ne dà questa interessante definizione:

“La geopolitica estende la sua valutazione su più vaste basi, che considerano anche i fattori culturali e spirituali, la volontà di potenza e impero… La Geopolitica italiana si propone perciò di esprimere nel modo più completo la coscienza geografica, politica ed imperiale del Popolo Italiano” (G. Roletto E Massi, 1939, pp.10-11).

264 Si veda al riguardo M.P.Pagnini (1987); C.Raffestin D.Lopreno Y.Pasteur (1995) e M.Antonsich (1994).

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5 – La Geografia Regionale tedesco-statunitense; la Geografia Possibilista e la scuola francese.

L’oggetto di ricerca della geografia non è costituito dagli “influssi”: siano essi della Natura sull’Uomo, come si dice, o del Suolo sulla Storia. Sogni. Tutte queste maiuscole non hanno niente a che vedere con un lavoro serio. E, la parola “influssi” non appartiene al linguaggio scientifico, bensì a quello astrologico. Lasciamola dunque una buona volta ad astrologi e ad altri ciarlatani… Lucien Febvre, La terra e l’evoluzione umana, p.421.

5.1 – Premessa

Negli ultimi due decenni del XIX secolo si svilupparono, come reazione al Positivismo e al

Naturalismo, varie correnti di pensiero che si rifacevano al criticismo kantiano e all’idealismo.

L’obiettivo della critica nei confronti del Positivismo fu il suo materialismo deterministico,

capace di ridurre l’uomo, i fenomeni sociali e storici, ad oggetti indagabili con lo stesso metodo

usato per le scienze naturali. La metodologia riduzionistica del Positivismo fu fortemente

criticata poiché l’uomo è una realtà complessa, comprendente non solo la sua fisicità, ma

anche la volontà e il sentimento; per questo motivo ogni essere umano, e con lui le scienze

sociali, sono uniche ed individuali.

È chiaro però che risulta molto complicato operare nette categorizzazioni, tracciare dei

confini precisi –se di confini si può veramente parlare– tra un paradigma e l’altro. Molti aspetti

caratteristici di un certo paradigma spesso, infatti, sopravvivono anche nel paradigma

successivo, per questo si viene a creare una certa confusione nel momento in cui, avvertendo

la legittima e umana esigenza di ordinare i concetti, spesso inconsciamente, si cerca ad ogni

costo di schematizzare il proprio oggetto di analisi, e si rischia di confidare in eccessive

semplificazioni o in rassicuranti generalizzazioni. Per questa ragione, come detto nel primo

capitolo, tracciare una netta e precisa distinzione tra i vari paradigmi nelle scienze sociali, è

un’operazione assai rischiosa e, in effetti, taluni studiosi o uomini di scienza comunemente

considerati come figure emblematiche di un paradigma, in realtà possono occupare una

posizione più sfumata e ambivalente di quella a loro in genere attribuita.

5.2 – L’affermazione dello Storicismo in geografia: il caso di Alfred Hettner e la

geografia regionale.

Numerosi furono gli studi che, in Germania verso la fine del 1800, si posero in

contrapposizione all’imperante positivismo scientifico. In questo contesto va inserita la figura di

Wilhelm Dilthey (1833-1911), il principale rappresentante dello Storicismo in Germania, che

nell’opera Introduzione alle scienze dello spirito (1883) distingue le scienze dello spirito da

quelle della natura. Differenziazione legata all’oggetto indagato: le scienze della natura

indagano gli oggetti esterni all’uomo, mentre quelle dello spirito studiano il mondo interno cioè

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l’esperienza vissuta che ogni uomo fa delle sue condizioni sociali, dei suoi sentimenti, dei suoi

desideri.

Il pensiero dell’uomo viene concretizzato attraverso opere, azioni e istituzioni. Lo storico

analizza questi aspetti esterni della società cercando di riviverli in sé. Ma è necessaria

l’intuizione per cogliere l’essenza di queste espressioni. L’intuizione diventa così una sorta di

comprensione dell’altrui esperienza, un rivivere in sé la cosa. Soltanto attraverso questo atto

intuitivo, che dà fondamento alle scienze dello spirito, è possibile comprendere le opere e le

azioni dei popoli passati e in esso la storia trova senso. Le scienze dello spirito così non hanno

l’oggettività delle scienze della natura, ma sono solo dei tentativi di avvicinarsi alla realtà: nella

storia non esistono perciò verità assolute in quanto essa è in perenne divenire, e questo vale

per tutte le scienze che indagano sul comportamento dell’uomo e delle società. Si capisce così

che l’obbiettivo dei positivisti (e delle scienze della natura) è la ricerca della generalità, mentre

per gli storicisti (e le scienze dell’uomo) diventa la particolarità. Secondo Wilhelm Dilthey il fine

delle scienze umane consisterebbe nel:

“cogliere il singolare, l’individuale della realtà storico sociale, conoscere le realtà agenti nel configurarsi di questo individuale, stabilire obiettivi e norme per la sua configurazione futura” (Dilthey, 1974, p.44).

Il cambiamento è dunque anche metodologico: si accettano facoltà umane come l’intuizione, il

sentimento poetico e la sensibilità che, con il positivismo, erano rifiutate in quanto

esprimevano attitudini non scientifiche.

Se Wilhelm Dilthey aveva promosso la divisione delle scienze in base all’oggetto Wilhelm

Windelband (1848-1915), professore all’università di Heidelberg, ha rafforzato questa

distinzione considerando anche il metodo di studio. Le scienze della natura hanno come

caratteristica l’uniformità e la ripetitività ed egli le definisce scienze nomotetiche, perché

ricercano le leggi che mirano al generale ed esprimono la regolarità dei fenomeni. Le scienze

umane o dello spirito invece si occupano del singolo, del particolare, tenendo presente tutte le

implicazioni spaziali e temporali per cui un fenomeno si rivela unico ed irripetibile, per questo

vengono definite scienze idiografiche. Egli cioè propugna il recupero del criticismo kantiano,

come opposizione al positivismo, secondo cui le scienze della natura riguardano la ricerca e lo

studio dei fatti mentre le scienze dell’uomo riguardano la ricerca e lo studio delle consuetudini,

delle tradizioni, della storia. In effetti, come nota Immanuel Kant:

“possiamo far riferimento alle nostre percezioni empiriche o sulla base di concetti oppure secondo il tempo e lo spazio nei quali in realtà si trovano. La classificazioni delle percezioni secondo i concetti è logica, mentre quella realizzata secondo il tempo e lo spazio è fisica. Stando alla prima otterremo un sistema della Natura, come quello di Linneo, stando alla seconda una descrizione della natura”.265

Inoltre, Wilhelm Windelband non solo distingue fra scienze nomotetiche (delle leggi, del

costante) e scienze idiografiche (delle condizioni circostanziali nel tempo e nello spazio) ma

afferma ulteriormente che un oggetto poteva essere analizzato sia tenendo presente gli aspetti

265 Il passo citato di I.Kant (Geografia Fisica) è tratto da F.K.Schaeffer (1953, p.232)

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comuni, ricorrendo alle leggi generali, sia come oggetto particolare ed unico, facendo ricorso

perciò ad un’analisi storica che implicava l’intuizione, la sensibilità e il senso poetico. In altri

termini:

“una realtà può essere considerata o da una prospettiva generalizzante, in base alla quale si ritiene quanto è comune a oggetti diversi, o da una prospettiva individualizzante concependo l’oggetto nella sua singolarità, in quello che lo distingue dagli altri” (Capel, 1987, p. 184).

Questo dualismo delle scienze venne subito visto come una potente minaccia per la

geografia appena istituzionalizzata, tenendo conto che la geografia veniva definita come la

scienza della Terra. Il problema era che lo stesso oggetto (la Terra come campo di studio della

geografia) poteva essere studiato da due diverse prospettive e quindi da due diverse scienze:

la natura, secondo una prospettiva nomotetica, dalla geografia fisica e l’uomo, secondo una

prospettiva idiografica, dalla geografia umana. L’intera geografia, appena istituzionalizzata e

precisata nei suoi compiti, rischiava di spaccarsi in due: da una parte la geografia della natura

o fisica e dall’altra la geografia umana.

Una prima soluzione a questo problema venne data da Alfred Hettner (1859-1941),

anch’egli dell’università di Heidelberg assieme a Wilhelm Windelband266, e consistette nella

geografia regionale. Egli tentò di tener lontano il pericolo del dualismo geografico ricorrendo ai

concetti di Erdkunde (Conoscenza della terra) campo di studio della Geografia Generale e

Länderkunde (Conoscenza delle regioni) campo di studio della Geografia Regionale o, come

allora veniva detta, Corologica. Egli, appunto, afferma:

“La geografia non è la disciplina generale del pianeta terra… lo studio della superficie della terra come un tutt’uno, quale è senza riferimento al suo spazio differenziato, non realizza pienamente lo statuto della geografia, che è piuttosto la disciplina della superficie della terra… secondo i sui continenti, stati, regioni e località. Il termine Länderkunde (geografia regionale) esprime meglio il concetto della disciplina che non il termine Erdkunde (geografia generale), al quale Ritter ha voluto dare una definizione non facilmente interpretabile, che ha spinto gli autori moderni verso una sistematica che produce false formulazioni teoriche sulla natura della geografia. Tuttavia è necessario andare oltre la descrizione della individualità di stati e regioni ed interessarsi della geografia regionale comparata”267.

La Geografia Generale, che parte da una visione d’insieme della terra, si occupa dei

fenomeni generali e cerca di individuarne le relative leggi (climi, mari, morfologia...). La

Geografia Regionale si occupa invece degli aspetti unici e particolari di una regione, la quale

comprende sia l’uomo sia la natura e prende in esame un’area tenendo conto di tutti i

fenomeni che agiscono e che fanno sì che questa sia unica. I due punti di vista sono

indispensabili l’uno all’altro: soltanto attraverso l’unione dei due aspetti della geografia si può

avere un’idea chiara e completa del mondo. Deve essere però chiaro, precisa Alfred Hettner,

che:

266 Sull’importanza del neo–kantismo tedesco della scuola di Heidelberg (o del Baden) si veda anche V.Berdoulay (1991, pp.75-89) 267 La citazione di A.Hettner (1927, pp.122-123), è ripresa da T.H.Elkins (1989, p.22)

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“la più importante caratteristica dell’approccio geografico è che esso è corologico in natura, e da ciò deriva la sua unità. La corologia, comunque, non è un metodo da essere annoverato fra gli altri metodi di descrizione o spiegazione. Un “metodo”, se il significato della parola non è estensibile, fornisce la strada a un obiettivo; la corologia è in sé obiettivo e soggetto base della geografia. Essa implica una visione della realtà della terra da un punto di vista della distribuzione spaziale, come opposizione alla scienza sistematica, che vede la realtà nei termini di sua materia indifferenziata, e alla scienza storica, che vede nei termini di sequenze temporali. L’approccio geografico non può che essere corologico…”268.

Centrale alla corologia è il concetto della totalità delle relazionali causali di tutto l’insieme di

fenomeni di un determinato luogo della superficie terrestre; ovviamente i fenomeni generali, la

cui spazialità non varia, interessano la geografia solo se interagiscono con fenomeni localmente

determinati oppure, se presentano varianti locali significative. Infatti, riprende Alfred Hettner,

gli interessi del geografo non possono altro che essere relativi a:

“ogni fenomeno della superficie della terra che varia da luogo a luogo le cui variazioni spaziali sono significative per altri gruppi di fenomeni che sono… geograficamente significativi. L’obiettivo della interpretazione corologica è sia il riconoscimento del carattere di paesi e regioni ottenuto tramite la comprensione dell’insieme delle interrelazioni fra i vari regni esistenti della realtà e le loro varie manifestazioni, sia la comprensione della superficie della terra come un tutto nella sua naturale divisione in continenti, stati, regioni e luoghi”269.

La visione corologica era, per Alfred Hettner, l’essenza della geografia “perché consentiva di

descrivere e di interpretare i diversi caratteri della superficie terrestre” (Capel, 1987, p.186). Il

compito della geografia è dunque quello di analizzare le differenze nelle diverse regioni e

compararle fra di loro.

La visione hettneriana, se da un lato permette di ricompattare la geografia, non più

geografia fisica ed umana separate come oggetto e metodo ma geografia regionale (corologia)

sintesi delle conoscenze di una precisa area, dall’altro lato pone altri due problemi. Il primo è

quello di capire quali, fra gli infiniti fenomeni che caratterizzano una regione, sono quelli da

prendere in considerazione per “descrivere ed interpretare il carattere mutevole” delle varie

regioni. Mentre il secondo, ben più importante e fondamentale, è individuare e definire la

regione.

Un’interessante soluzione ai due problemi viene data da Richard Hartshorne270 (1899-1992).

Circa il primo egli afferma che ciò che interessa la geografia è

“qualsiasi fenomeno, sia relativo alla natura, sia all’uomo… nella misura in cui le sue interconnessioni con altri fenomeni dello stesso luogo, oppure con altri fenomeni di altri luoghi, determinano i dinamismi spaziali di tutti quei fenomeni la cui globalità ha valore per la vita dell’uomo” (Hartshorne, 1972, p. 58).

268 La citazione è di A.Hettner (1927, pp.122-123), ripresa da T.H.Elkins (1989, pp.22-23). 269 La citazione è di A.Hettner (1927, p.130), ripresa da T.H.Elkins (1989, p.23) 270 Richard Hartshorne, geografo nord americano, è stato un formidabile propugnatore del pensiero hettneriano ed è il fondatore della scuola regionalista negli Stati Uniti; circa i suoi rapporti con K. Hettner e con il neo–kantismo tedesco della scuola di Heidelberg (o del Baden) si veda il volume collettaneo curato da J.N. Entrikin S.D. Brunn (1989) ed in particolare gli interventi di K.W. Butzer (1989) e di N. Smith (1989).

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La conoscenza e lo studio di “qualsiasi fenomeno” è una chiara e forte spinta verso

l’enciclopedismo. Riguardo il concetto di regione, egli riprendendo una definizione hetteriana

afferma

“una regione è uno spazio di specifica localizzazione che in qualche modo si distingue da altri spazi e che si estende nella misura di questo distinguersi” (Hartshorne, 1972, p.149).

È chiaro che una definizione del genere, che potremmo semplificare in “ogni regione si

differenzia dalle altre in ragione della sua diversità” pone grossi problemi di natura tautologica.

5.3 – Lo Spiritualismo: Paul Vidal de la Blache e la nascita della Geografia Possibilista.

Un altro movimento che, dal nostro punto di vista, mette in discussione in modo molto più

significativo alcune idee fondamentali del Positivismo fu lo Spiritualismo a cui si fanno

significativamente risalire le basi filosofiche della geografia possibilista della scuola francese.

L’uomo per gli spiritualisti non poteva essere ridotto a natura perché composto di materia e

pensiero; ed il pensiero non è certo parte della materia. L’uomo in quanto essere pensante è,

contrariamente a tutte le altre attività materiali che vengono causate, attività causante ed

agente. Il punto fondamentale quindi per questo movimento è il recupero della libertà

dell’uomo, incapace di essere spiegato soltanto attraverso le leggi meccanicistiche della natura,

perché dotato di volontà, intenzionalità e coscienza.

In questo contesto si inserisce la figura di Emile Boutroux (1845-1921), il quale rivolse una

critica serrata al determinismo:

“Crediamo che tutto sia necessariamente determinato, perché crediamo che tutto sia, in fondo, matematico. Questa opinione è il movente, manifesto o segreto, della ricerca scientifica... La scienza prova o si limita soltanto a supporre che l’essenza delle cose sia esclusivamente matematica?” (Boutroux, 1925, p.123).

Questa è la domanda alla quale egli cercò di trovare una soluzione.

Emile Boutroux accettò la classificazione comptiana delle scienze, insistendo però sul fatto

che ogni scienza rivela particolari aspetti della realtà e non è possibile arrivare ad una scienza

unica:

“la scienza non è una, ma multipla. La scienza, concepita come insieme di tutte le scienze, di cui ciascuna, oltre ad avere relazione con le altre, ha una fisionomia sua propria, una sua evidenza. A misura che dallo studio dei movimenti dei corpi celesti, la realtà più esteriore che conosciamo, ci innalziamo verso lo studio della vita e del pensiero, i postulati richiesti divengono più numerosi e più impenetrabili” (Boutroux, 1925, p.124).

Ogni ordine di scienza presenta quindi elementi nuovi, irriducibili alla matematica, in quanto

questa porta a delle astrazioni che per l’essere vivente ad esempio non sono valide. Emile

Boutroux (1925, p.124) dice infatti che contrariamente alle scienze fisiche, dove il ricorso alla

matematica è lecito, per le scienze biologiche “bisogna contentarsi di fare osservazioni ed

induzioni”.

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Il tentativo positivistico di spiegare tutto attraverso le leggi causali viene disilluso; prende il

suo posto il Contingentismo, che nega il legame di necessità assoluta tra i fenomeni. I diversi

ordini della realtà e quindi delle scienze sono contingenti rispetto a quelli inferiori perché

presentano caratteristiche nuove ed originali. Mano a mano che si procede verso i livelli

superiori, maggiore sarà la libertà, all’apice dei quali vi è il pensiero e sopra questo Dio. La

caratteristica fondamentale dell’universo è quella di essere in continuo mutamento, per cui

risulta impossibile cogliere la realtà attraverso costruzioni intellettuali. L’unica via possibile

quindi per fare ciò risulta il ricorso alla storia.

Secondo Horacio Capel il pensiero di Paul Vidal De la Blache (1845-1918) fu fortemente

influenzato da questo filosofo, suo collega alla Scuola Normale Superiore di Parigi271. In primo

luogo l’idea comune più evidente è la sfiducia nelle leggi positivistiche. Ed è qui che prende

valore il Convenzionalismo o Neokantismo come viene chiamato da Vincent Berdoulay272.

Infatti non è possibile conoscere la natura vera delle cose poiché la realtà è contingente.

L’unica cosa che la scienza conosce sono i rapporti fra le cose. E, come nota Henri Poincarè:

“Si dirà che una scienza non è che una classificazione e che una classificazione non può essere vera, ma comoda. Ma è vero che è comoda, ed è vero che essa lo è non solamente per me, ma per tutti gli uomini; ed è vero che resterà comoda per i nostri discendenti; ed è infine vero che tutto ciò non può essere dovuto al caso”273.

In altri termini le scienze e le teorie scientifiche a loro connesse (perché esistono vari tipi di

scienza e diversi modi di percepire la realtà) sono strumenti tanto più utili e comodi quanto più

semplici ed efficaci:

“La sola realtà oggettiva sono i rapporti fra le cose dai quali risulta l’armonia universale e senza dubbio questi rapporti, questa armonia, non potranno essere conosciuti all’infuori dello spirito che li capisce o che li sente” (Berdoulay, 1981, p.202).

Paul Vidal De la Blache non parla di leggi, ma di séries de phénomènes o enchainement. Ogni

disciplina si occupa di una diversa serie di fenomeni e concatenazioni. Per questo motivo il

metodo non è la spiegazione bensì la descrizione in quanto quest’ultima rappresenta

“il solo metodo empirico, che permette di rispettare la diversità dei luoghi, di rivelare i rapporti fra i fenomeni e sfocia nella spiegazione” (Berdoulay, 1981, p.213).

Il suo obiettivo è dunque quello di analizzare le relazioni fra gli oggetti esistenti nei luoghi

rifiutando le teorie come sole capaci di rendere conto della realtà. Di fronte all’impossibilità di

dimostrare la realtà tramite teorie ricorre a delle “convenzioni” che si possono rivelare comode

nella pratica scientifica e fra queste egli individua la regione:

“un concetto che gli permetteva di cogliere quelle relazioni che altrimenti avrebbero potuto sfuggire all’attenzione dell’osservatore” (Berdoulay, 1981, p.206).

271 Su questo punto si veda anche V.Berdoulay (1981, pp.93-96; e 1991, pp.75-82). 272 V.Berdoulay, 1981, pp.201-204. 273 Citato in V.Berdoulay, 1981, p.202.

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Un altro punto in cui Paul Vidal De la Blache viene influenzato da Emile Boutroux e dallo

Spiritualismo è la rivendicazione della libertà dell’uomo di fronte all’ambiente “la liberté de

l’homme vis-à-vis de l’environnement”. Concetto questo, come nota Vincent Berdoulay, che più

che di Paul Vidal De la Blache sarà l’idea base dei “vidaliani”274. Questo implica principalmente

che l’uomo è considerato un agente geografico capace di modificare l’ambiente. Ci si allontana

perciò dal determinismo ambientalistico ratzeliano per recuperare la libertà umana: l’uomo non

può subire l’influenza dell’ambiente perché dotato di intenzionalità e di volontà. Ma ancora più

importante i vidaliani riconobbero che questa libertà variava

“soprattutto grazie al progresso tecnologico ed insistettero pure sull’importanza dell’idea e della conoscenza che i differenti popoli si facevano del loro ambiente, idea e conoscenza, che concedeva loro una relativa autonomia d’azione sempre nei confronti dell’ambiente” (Berdoulay, 1981, p.217).

E’ la rappresentazione soggettiva dell’ambiente, chiamata anche fattore psicologico dai

vidaliani, quella che rende originale il modo di subirlo e di agire su di esso. L’uomo dunque non

ha un ruolo passivo nella natura, ma “joue le role de cause” (Berdoulay, 1981, p.224).

L’uomo, ovviamente in quanto società, agisce sull’ambiente perché guidato da

intenzionalità: l’ambiente offre delle possibilità che l’uomo utilizza, secondo necessità, a

seguito di decisioni libere coscientemente adottate. Paul Claval sintetizza perfettamente questa

espressione:

“ridotto all’essenziale, il possibilismo si riassume in una frase: la natura permette, l’uomo dispone” (Claval, 1972, p.73).

L’uomo è sì libero, ma limitato dall’ambiente:

“l’uomo in quanto agente geografico fa una propria scelta fra le diverse possibilità che la natura gli offre. L’utilizzazione che ne fa non è né quella ottima né la sola possibile in quanto dipende dal proprio modello culturale (comprendendovi pure le conoscenze tecnologiche)” (Berdoulay, 1981, p.224).

Per i possibilisti quindi esiste sia il fattore natura, l’ambiente, che rappresenta l’elemento attivo

di base che si offre alle società umane, sia il fattore uomo, la società, che con le sue

conoscenze tecniche e culturali ne è l’elemento attivante. Così Max Sorre, alla conclusione del

suo monumentale275 Les Fondements de la géographie humaine, afferma

“le condizioni naturali non sono assenti… ma le manifestazioni dell’attività umana restano sempre in primo piano. Assieme alla coordinazione più o meno stretta delle tecniche. Le condizioni fisiche sono sempre davanti ai nostri occhi ma non a causa del loro interesse intrinseco, ma in ragione del loro significato per la forza del gruppo” (Sorre, III, 1952, p.449).

In altri termini è il fattore uomo che, con le sue conoscenze tecniche, rende attivo il fattore

natura scoprendone le possibilità, per questo il rapporto uomo/ambiente presenta esisti non

274 È un termine utilizzato da V.Berdoulay (1981, pp.214-221) per indicare genericamente tutti i seguaci di P.Vidal De la Blache che ovviamente, poi si differenziarono fra loro anche in modo notevole. 275 Monumentale non solo per la ricchezza dei contenuti in cui esprime tutti i canoni del possibilismo ma anche per la sua ponderosità, si tratta di quattro volumi per complessive due mila pagine.

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predeterminabili e dà origine ad una varietà di mondi possibili. Lucien Febvre al riguardo

afferma:

“i grandi quadri climatico–botanici … [l’ambiente, il clima, la natura]… nulla hanno di tirannico, nulla di determinante: è necessario ripeterlo senza stancarsi, mostrarlo in tutti i modi… nell’insieme delle condizioni fisiche che essi rappresentano, non scorgiamo se non possibilità d’azione. E aggiungiamo subito, per prevenire un’obiezione che si presenta da sé: queste possibilità d’azione non costituiscono una specie di sistema vincolato: non rappresentano in ogni regione un tutto indissociabile: se sono afferrabili, non sono afferrate dagli uomini tutte insieme con la stessa forza e contemporaneamente… in effetti, in questo campo come altrove è utile ricordare la vecchia formula leibnitziana: tutti i possibili non sono possibili contemporaneamente” (Febvre, 1980, pp.205-206).

L’idea di fondo dell’interpretazione possibilista è che l’uomo non è sottoposto alla natura, la

civiltà non è un prodotto dell’ambiente: l’uomo, inserito in un dato ambiente, interferisce con

la natura che lo circonda, ne utilizza le possibilità secondo le tecniche di cui dispone, ne

individua e valorizza altre in rapporto all’arricchimento delle sue tecniche, e dà un valore via

via diverso nel corso del tempo alla regione in cui vive, adattandosi all’ambiente con un

processo di creazione che è frutto soprattutto delle sue scelte e del suo lavoro. In questo modo

tutto viene perciò demitizzato: nessun ambiente ha o può avere un valore immutabile per

l’uomo; è lui che gli conferisce un valore determinato, in base alle sue capacità di plasmarlo,

modellarlo e organizzarlo ai propri fini. Non esistono, pertanto, regioni ‘favorite’ o regioni ’ostili’

dal momento che questi attributi variano nel tempo per le stesse regioni276.

Anche Lucio Gambi (1956, pp.19 e 23-24) discutendo del concetto di valore in geografia

afferma:

“qualunque cosa di questo mondo –e quindi anche gli oggetti che la geografia studia– non ha continuativamente un medesimo valore, ma lo muta secondo dei tempi e le circostanze, e in particolare secondo gli uomini i quali la prendono in considerazione” non si può certo affermare “che il valore può aversi solo se la cosa esiste nella astratta realtà fenomenica: cioè la cosa o il fenomeno sono un prius riguardo al valore. Non è la cosa a condizionare il valore. La cosa può esistere e non avere valore perché non la conosciamo… ma avrà valore –come è per le discipline naturali– o il valore di realtà umana –come è per le discipline storiche– solo perché l’uomo esiste e quando l’uomo ne ha conoscenza. È l’uomo, quindi, l’origine del valore”.

5.4 – La Geografia Possibilista: regione e paesaggio.

Questo nuovo paradigma ipotizza quindi un rapporto bidirezionale, composto da impulsi

generati dall’ambiente e da altri generati dalle comunità: impulsi che interagiscono e che

mutano nel tempo. Più precisamente, come detto prima, l’ambiente offre delle possibilità che

l’uomo e la società utilizzano secondo necessità, a seguito di decisioni libere e coscientemente

adottate. È chiaro quindi che il grado di libertà della risposta umana all’ambiente fisico e la

considerevole ampiezza delle possibilità a discrezione dell’uomo giustifica pienamente il

termine possibilismo con il quale si definisce questa nuova concezione del rapporto uomo-

276 Si veda al riguardo A.Pecora, 1986, pp.65-68.

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ambiente. Secondo Adalberto Vallega (2004, p.19) la concezione possibilista può venire

riassunta nei seguenti assunti:

a) la natura non esprime soltanto vincoli, ma offre anche alle comunità umane un campo di

possibilità per occupare il territorio e utilizzare le risorse naturali;

b) le comunità umane, sia pure all’interno di evidenti condizionamenti, esercitano una scelta

tra le possibilità loro offerte dall’ambiente fisico.

c) la scelta, che presuppone l’esistenza di gradi di libertà, è compiuta in base alla cultura delle

comunità e alle tecnologie di intervento sul territorio di cui esse dispongono;

d) in questo quadro la comunità umana si comporta come un fattore geografico, nel senso che

è in grado di influire sull’evoluzione della natura.

L’uomo, qui sempre inteso come società umana, è il principale agente della modificazione

terrestre. Ed è su quest’ultimo aspetto, l’uomo fattore geografico, che si rivolge l’attenzione del

geografo possibilista, che comunque deve essere sensibile a cogliere il substrato fisico

dell’organizzazione del territorio. L’ambiente presenta senza dubbio diversi ostacoli –

montagne, boschi, paludi, deserti, mari…– ma l’uomo riesce a superare e vincere questi

ostacoli dando luogo ad un ambiente umanizzato: una regione unica ed irripetibile nella sua

sostanza. Il compito del geografo possibilista sta quindi nell’indagare come, in particolari

luoghi, l’ambiente abbia costituito la piattaforma su cui la società umana ha organizzato sé

stessa.

Nonostante ciò la problematica geografia fisica/umana è sempre presente perché come

scrive Paul Vidal De la Blache:

“la geografia è tenuta far riferimento agli stessi fatti come la geologia, la fisica, le scienze naturali e, sotto certi aspetti, la sociologia… [e questo perché la geografia]… ha come compito particolare di indagare come le leggi fisiche e biologiche che reggono il globo si combinino e si modifichino quando vengono applicate alle diverse parti della superficie terrestre… [ma deve anche sforzarsi]… a caratterizzare i vari paesi, di dipingerli anche, poiché il pittoresco non gli è escluso” (Vidal De la Blache, 1922, passim).

L’ambivalenza fisico/umana viene superata nell’analisi della regione intesa come quel fatto

geografico in cui

“i rapporti fra le condizioni geografiche ed i fatti sociali possono essere esaminati da vicino, su di un campo ben scelto e ristretto” (Vidal De la Blache, 1902, p.23).

Tutto ciò porta i vidaliani ad interessarsi sempre più degli studi regionali (le cosiddette

Monografie Regionali) e cioè, come sempre suggeriva Paul Vidal De la Blache, studiare:

“quell’ambiente composito dotato di una potenza capace di raggruppare e mantenere uniti esseri eterogenei in coabitazione e correlazione reciproca. Questa sembra essere la legge stessa che regge la geografia degli esseri viventi. Quest’area rappresenta un luogo dove si sono artificialmente riuniti esseri disparati che si sono adattati ad una vita comune” (Vidal De la Blache, 1922, p.7).

Le varie monografie regionali, permettendo di cogliere quelle relazioni tra i vari fenomeni

(ambientali ed umani) di una medesima area, altrimenti slegati perché appartenenti a due

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sfere diverse, aiutano sia a risolvere il problema della spaccatura tra geografia fisica e

geografia umana sia, ma ancora più importante, consentono di elaborare le sintesi regionali.

Se è vero, come detto prima, che il rapporto uomo/ambiente presenta esiti non

predeterminabili ma dà origine a mondi possibili occorre considerare che la regione, fra tutti

quei mondi possibili, è quello attuato in quanto rappresenta l’effettiva –perchè l’unica

realizzata– sintesi del rapporto uomo/ambiente. La regione è un organismo con personalità e

carattere propri in quanto è espressione del contatto, del rapporto, fra quell’ambiente e quella

società: così le monografie regionali (cioè gli studi delle varie regioni) permetteranno di

verificare i rapporti e studiare le interrelazioni. In altre parole permetteranno di individuare le

varie sintesi regionali.

Rimangono però due problemi cos’è una regione e che cosa effettivamente rappresenta la

sintesi regionale: il primo, che i regionalisti tedeschi e nord americani avevano tentato di

risolvere con una tautologia, viene risolto indirettamente tramite l’interpretazione del secondo.

Il ragionamento di Max Sorre277 è abbastanza lineare. La determinazione di una regione è

un fatto relativo alla “geografia umana generale” e, nella sua individuazione, non bisogna

riferirsi alle scienze naturali in quanto lo scopo del geografo è di:

“determinare delle unità territoriali entro i cui limiti vivono dei gruppi umani che possiedono delle caratteristiche comuni. È dunque dalla geografia umana che dobbiamo attingere i criteri”.

Inoltre esse presentano dei caratteri estremamente diversi fra loro per cui occorrerà, anche,

evitare

“di delimitare regioni di dimensioni sensibilmente uguali”.

Si potrà così individuare una gerarchia fra le regioni:

“si parlerà di grandi regioni umane (la Cina, l’India, il mondo mediterraneo), di regioni umane di secondo ordine o intermedie (nella grande regione umana dell’Europa Centrale, il bacino di Parigi, la regione industriale renana), delle regioni umane elementari (i paesi…)”.

Il problema, di là dalla individuazione delle dimensioni o la possibilità di varie classificazioni,

comunque rimane: come possiamo riconosce l’individualità della regione umana? La risposta è

abbastanza evidente:

“L’uomo ha coordinato la sua capacità con il suolo, da cui ha estratto tutte le possibilità, stabilendo [nella regione] una sorta di simbiosi è così impossibile individuare nettamente ciò che spetta alla natura e ciò che spetta al gruppo umano. Ma quest’ultimo ha un’azione rivelatrice, o meglio un’azione creatrice… con l’aiuto di materiali e di elementi presi dall’ambiente naturale… [il gruppo umano]… è riuscito non tutto di un colpo, ma attraverso una trasmissione ereditaria di processi, schemi ed invenzioni, a costituire un qualche cosa di metodico producendo un milieu a suo uso e consumo… e con ciò si introduce un nuovo principio di differenziazione… Non mi sembra che vi sia bisogno di andare oltre, nelle nostre ricerche se la comprensione diretta, intuitiva, del complesso geografico attraverso il paesaggio ci rivela, prima di tutte le analisi, l’individualità della regione geografica”.

277 Tutte le citazioni seguenti sono tratte del terzo volume del trattato di M.Sorre, pp.445-450.

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È chiaro, quindi, che la soluzione di tutto sta, come afferma Paul Claval (1972, p.68), nella

“stupefacente scoperta del paesaggio” inteso, quest’ultimo, come la proiezione delle tecniche e

delle pratiche organizzatrici del sistema sociale [la cosiddetta cultura materiale del gruppo] sul

sistema ecologico [l’ambiente naturale], una proiezione attiva che lo costruisce in conformità

con lo scopo da raggiungere.

Il paesaggio è la manifestazione reale e visibile di quel mondo possibile –la regione– che

rappresenta il progetto attuato da quella società su quel territorio: è un oggetto reale che si

vede, si studia e nel cartografare i suoi tratti caratteristici se ne tracciano i confini e si

individua la regione.

Questo nuovo paradigma influenzerà in modo determinante (nell’accezione vidaliana) la

geografia francese e (nell’accezione hettneriana-hartshorniana) quella nord americana

dall’inizio del 1900 soppiantando (o quasi) quello determinista.

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6 – Il Neopositivismo e lo sviluppo della geografia teoretico–quantitativa.

La geografia deve essere concepita come una scienza interessata alla formulazione delle leggi che governano la distribuzione spaziale di certe caratteristiche della superficie terrestre. Fred K. Schaefer, Exceptionalism in geography: a methodological examination, p.227. … ogni branca della geografia che pretende d’essere scientifica necessita dello sviluppo della teoria e ogni branca della geografia che ha bisogno della teoria ha bisogno delle tecniche quantitative. Ian Burton, The quantitative revolution and theoretical geography, p.162.

6.1 – Premessa.

Come si è sottolineato all’inizio del capitolo precedente non è facile, all’interno delle scienze

sociali, individuare in modo netto i confini fra i vari paradigmi. Così, in effetti, all’interno dello

stesso paradigma storicista-possibilista continuano a permanere tratti e atteggiamenti di

impronta decisamente naturalista ed evoluzionista, tanto che, secondo Horacio Capel (1972,

p.68) “di fatto si può affermare che la corrente positivista non si interruppe mai”.

Inoltre nel secondo Dopoguerra il paradigma storicista–possiblista cominciò ad essere

messo in crisi sia per i suoi problemi intrinseci, connessi al suo evidente enciclopedismo, sia

per lo svilupparsi di filosofie neo-positiviste anche all’interno delle scuole geografiche che lo

contestarono perché, volendo descrivere le regioni come organismi unici ed irripetibili, rifiutava

l’elaborazione teorica.

6.2 – Il Neopositivismo e la nascita della geografia teoretico–quantitativa.

A partire dalla metà degli anni venti ci fu una ripresa dell’ideale positivistico. Questa

tendenza prese il nome di Neopositivismo o Positivismo Critico o Empirismo logico e si sviluppò

nel Circolo di Vienna, fondato nel 1924 da Moritz Schlick (1882-1936) e nel gruppo di Berlino

attorno a Hans Reichenbach (1891-1953); di questi due gruppi fecero parte numerosi

matematici e filosofi quali Rudolph Carnap, Richard von Mises, Carl G. Hempel, Olef Helmer,

Kurt Gödel, Otto Neurath e altri. L’avvento del Nazismo e l’annessione dell’Austria segnarono

una svolta per i neopositivisti del circolo di Vienna che, oggetto di persecuzione politica, si

trasferirono in Gran Bretagna o negli Stati Uniti dove continuarono lo sviluppo delle loro idee e

contribuirono alla diffusione di questa filosofia.

Riprendendo l’ideale del Positivismo ottocentesco anche per i neopositivisti il modello della

scienza era unico rifiutando così il dualismo degli storicisti. Per raggiungere l’unità della scienza

c’era bisogno di un linguaggio preciso, né confuso né pretenzioso. Per questo motivo si fece

ricorso al metodo logico-matematico che doveva controllare rigorosamente il procedimento

scientifico per evitare di cadere nelle imprecisioni. Per distinguere le proposizioni sensate da

quelle non sensate i neopositivisti adottarono il principio di verificazione attraverso il quale una

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84

proposizione si rivela vera solo se si appoggia ai dati dell’esperienza, altrimenti è uno

pseudoconcetto. In tal modo la metafisica venne eliminata, perché costituita da concetti e

proposizioni non verificabili attraverso i fatti e quindi considerata uno pseudoconcetto.

I due gruppi, quello di Vienna e di Berlino, oltre all’impostazione antimetafisica e un marcato

atteggiamento empiristico, adottarono la logica nell’analisi del linguaggio scientifico. Soltanto

attraverso il simbolismo matematico si poteva raggiungere il controllo pieno del linguaggio,

causa talvolta di deviazioni o di problematiche inutili: il linguaggio base delle scienze doveva

avvicinarsi sempre di più agli enunciati matematici. Qui si trova una delle differenze

fondamentali tra positivismo ottocentesco, che riteneva la scienza essere l’unico sapere

definitivo ed incontrovertibile atto a comprendere la realtà, ed il neo-positivismo che non ha

mai avuto la pretesa di cogliere totalmente la realtà, ma di affinare gli strumenti per

avvicinarvisi attraverso la coerenza degli enunciati.

In una posizione un po’ diversa, ma forse più influente per la geografia, si colloca Karl

Raimund Popper (1902-1994) che, pur non facendo parte del Circolo di Vienna, ne riprese

alcune tematiche fondamentali sostituendo però il principio di verificazione con il criterio di

falsificabilità e la teoria dell’induzione con il metodo deduttivo della prova. Egli attaccò i

neopositivisti e la loro preoccupazione basata sulla correttezza del linguaggio, portando

l’attenzione sulle teorie criticabili, sui ragionamenti e sulla loro validità.

Egli parte dal principio che l’induzione non esiste. Elimina l’induzione per enumerazione

perché è impossibile anche attraverso un numero infinito di osservazioni concordanti arrivare

ad una legge universale, per cui è assurdo arrivare a una teoria scientifica basandosi su un

numero di esperimenti. Non è valida neppure l’induzione per eliminazione, perché per un

problema esistono tante soluzioni e anche se si eliminano le teorie false non resta la teoria

vera. In altre parole il principio dell’induzione è un principio che non si può accettare perché è

impossibile giustificarlo logicamente, ed è impossibile attraverso di esso affermare principi

assoluti.

Ma allora la scienza da che cosa parte? La conoscenza è sempre guidata da un’ipotesi. Se

queste ipotesi o aspettazioni non si verificano nasce il problema. L’origine della conoscenza

scientifica nasce da queste aspettazioni rimaste deluse. Entra in campo la creatività che deve

formulare delle ipotesi per la soluzione dei problemi. L’origine della conoscenza scientifica è

costituita da problemi, che per essere risolti implicano la creatività dello scienziato. Le ipotesi

formulate dovranno in seguito venire controllate dall’esperienza ed è questo il momento della

scoperta. Karl R. Popper in altre parole non rigetta l’intuizione. La creatività diventa una

costituente molto importante per la formulazione di ipotesi e quindi per la risoluzione dei

problemi, perché è soltanto attraverso idee azzardate che si costruiscono le grandi scoperte

scientifiche; non rigetta perciò neppure i non-sensi legati al mondo dell’immaginazione, e non

della logica, che, spianando la strada all’intuizione, possono aiutarci nell’elaborazione delle

teorie. Queste ultime rappresentano l’elemento chiave della sua impostazione:

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85

“sono qualcosa di più che non semplici esercizi, e ciò si può vedere dal fatto che le sottoponiamo a severi controlli tentando di dedurre da esse alcune regolarità del mondo, a noi noto, dell’esperienza comune; tentando, cioè, di spiegare queste regolarità. E questi tentativi di spiegare il noto mediante l’ignoto... hanno esteso smisuratamente il regno di ciò che è noto” (Popper, 1969, p.19).

Una volta formulate le ipotesi si passerà al controllo attraverso l’esperienza. Le teorie sono

potenzialmente falsificabili. Il procedimento scientifico è quello di scoprire che si è nell’errore

per eliminarlo. Una teoria scientifica che viene sostituita da un’altra è un passo in avanti verso

la verità; la scienza perciò non descrive la realtà in termini definitivi, ma ha soltanto valore

regolativo.

A fianco di queste grandi operazioni di revisione/ricostruzione degli apparati filosofici del

pensiero scientifico si assiste anche al rapido sviluppo di nuove tecnologie: con comparsa degli

elaboratori si vede la concreta possibilità di sottoporre ad analisi scientifica una grande

molteplicità di dati relativi a problematiche sociali e territoriali, tanto che

“l’euforia quantitativa raggiunge il massimo apogeo negli anni Cinquanta, allorché tutte le scienze sociali provano ad introdurre questi metodi come apparente panacea per risolvere i propri problemi” (Capel, 1987, p.211).

Gli anni del secondo dopoguerra sono poi segnati da grandi e radicali cambiamenti sociali ed

economici che portano alcuni geografi a rimettere in discussione il ruolo della loro disciplina.

Da una parte inizia il confronto fra le due forti ideologie (socialista e capitalista) che si

scontreranno per l’intera seconda metà del secolo e dall’altra vi sono reali e crescenti problemi

urbani e regionali –interpretati diversamente a seconda dell’approccio ideologico– legati sia alla

necessità della ricostruzione postbellica sia alla necessità di far fronte in qualche modo al

nuovo problema del sottosviluppo, venutosi a creare in seguito al processo di decolonizzazione.

Così molti studiosi di scienze sociali (e ai primi posti i geografi) si sentono in obbligo di fornire

risposte concrete tenendo anche conto che, secondo l’approccio neopositivista, le scienze sono

tali non quando descrivono ma solo quando, attraverso una precisione di concetti e

proposizioni, riescono a dare risposte efficaci ai vari problemi (non solo scientifici ma anche

sociali) che sorgono. In questo senso, il paradigma storicista non appare più in grado di venire

in soccorso: descrive non risolve e le sue approssimazioni vengono messe da parte in nome

della precisione scientifica necessaria per attuare efficaci progetti e forme di pianificazione a

livello regionale, per elaborare, in altre parole, veri e propri strumenti di in grado di avere un

effetto sul territorio.

In questo quadro:

“l’asserzione che la sintesi regionale costituisse l’identità essenziale della geografia conferiva alla disciplina un’immagine dilettantistica. Dopo la Seconda Guerra Mondiale si esigeva che le università del Nord America formassero persone in grado di risolvere problemi, o “tecnici sociali” in grado di gestire la sempre più complessa struttura dei processi economici. I geografi non tardarono ad adottare costruzioni teoriche e modelli in grado di promuovere lo status della loro scienza e giustificare la loro posizione accademica” (Holt-Jensen, 1999, p.76).

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E’ così che, negli anni Cinquanta sull’onda di queste “serie di rivoluzioni”, nel mondo

anglosassone nasce quella che verrà chiamata nuova geografia o meglio geografia teoretica.

Nuova perché non si accontenta più di descrizioni, ma pretende di dare risposte, risposte che

solo una geografia intesa come scienza operativa è in grado di fornire attraverso la

formulazione di leggi generali, di teorie scientifiche, da qui il termine teoretica. Lo sviluppo di

questa nuova geografia procede di pari passo con il successo di altre nuove branche

disciplinari, come la geografia economica e la scienza regionale. A differenza dei geografi

storicisti, i geografi neopositivisti credono in un ordine soggiacente all’apparente caos, ordine

al quale –seguendo l’impostazione deduttivistica popperiana– si può arrivare solo disponendo

di teorie in grado di scoprirlo e spiegarlo. E’ così che

“l’osservazione, il lavoro empirico appaiono alla fine e non all’inizio come accadeva con i metodi induttivi fino ad allora dominanti” (Capel, 1987, p.216).

6.3 – La geografia teoretico–quantitativa

Il primo legame della geografia –nordamericana inizialmente e dalla fine degli anni ’70

anche europea– con la filosofia neopositivista è da ricercarsi nella figura di Fred Kurt Schaefer

(1904-1953)278. La pubblicazione, nel 1953, del suo famoso articolo Exceptionalism in

Geography: a methodological examination sulla rivista ufficiale dei geografi nordamericani

segna l’inizio dell’affermazione della geografia teoretica legata, appunto, alle idee neo-

positiviste.

L’articolo è un formidabile attacco contro la visione idiografica e regionalista della geografia

della scuola nordamericana guidata da Richard Hartshorne. Quello che Fred K. Schaefer

propone è una geografia più scientifica, cioè monista in quanto legata alle teorie, poiché:

“la geografia deve essere concepita come una scienza interessata alla formulazione delle leggi che governano la distribuzione spaziale di certe caratteristiche della superficie terrestre” (Schaefer, 1953, p.227).

La scienza non può ricercare il particolare ma il generale per questo deve scoprire leggi

generali e teoriche.

Egli non rigetta le analisi regionali: le considera soltanto il laboratorio della geografia

teoretica in quanto è dall’analisi regionale che quest’ultima trae i dati su cui lavorare. La

visione corologica è solo mera descrizione perché si limita alla classificazione di fenomeni e

caratteristiche uniche di un’area; la geografia teoretica invece:

“deve prestare attenzione alla disposizione spaziale dei fenomeni di un’area non ai fenomeni in quanto tali. Le relazioni spaziali sono l’argomento più importante per la geografia e nessun altro” (Schaefer, 1953, p.228).

Per ottenere leggi generali è necessario che:

“le relazioni spaziali fra due o più classi di fenomeni debbono essere studiate su tutta la superficie terrestre” (Schaefer, 1953, p.229).

278 F.K.Schaefer era tedesco, collegato al circolo di Vienna tramite G. Bergmann, con l’avvento del nazismo si rifugiò prima in Inghilterra e poi negli USA dove insegnò geografia all’Università dello Iowa (Bunge, 1979).

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Soltanto così è possibile arrivare alla generalizzazione o legge, la quale “non potrà andare

completamente bene per ogni situazione concreta” (Schaefer, 1953, p.230), ma si rivela uno

strumento necessario per ottenere situazioni ideali, e quindi progredire nella conoscenza.

Quello che egli rifiuta è la visione eccezionale della geografia che fa dell’unicità di una regione il

suo campo d’indagine, e questo perché l’unico e l’irripetibile si può solo ammirare e descrivere

e non certamente studiare secondo leggi generali ed astratte.

Un’altra opera estremamente importante e che testimoniò l’influsso di questa corrente

filosofica fu Theoretical Geography (1962) di William Bunge. Il suo pensiero, legato

all’impostazione schaeferiana, è stato fortemente influenzato dalle idee popperiane della

scienza:

“è necessario disporre in partenza di teorie che poi verranno confrontate con la realtà… poiché le teorie scientifiche rappresentano la chiave interpretativa dei puzzle della realtà” (Bunge, 1962, p.2).

Difende poi la geografia descrittiva riprendendo un discorso tipicamente popperiano

sull’intuizione:

“siamo circondati da un’infinità di fatti e ciascuna descrizione di essi è altamente selettiva. Questa selezione può essere fatta a caso, ma i geografi si pongono spesso alla ricerca dei fatti che giudicano significativi. La loro significatività può essere giudicata solo in relazione a molti altri fenomeni e lo stabilire queste relazioni implica la formulazione di una teoria. Quella che viene chiamata “mera descrizione” non può uscire da geografi con la testa vuota. Questi conoscono molto bene l’area sulla quale hanno sviluppato un’ottima “intuizione spaziale”; ciò significa che posseggono una teoria” (Bunge, 1962, p.6).

Come, appunto, aveva detto lo stesso Karl Popper è la teoria che precede l’osservazione.

William Bunge è contro la scienza passiva, quella che si fonda su sterili classificazioni. Ciò di

cui la scienza ha bisogno invece sono idee e immaginazione:

“Lo scienziato concentra i suoi sforzi sulle idee e sull’immaginazione”. Le teorie devono poi “venire incontro a precisi standard che includono chiarezza, semplicità, generalità ed accuratezza” (Bunge, 1962, p.2).

Ciò significa che le teorie sono chiare quando fanno ricorso al linguaggio della matematica,

semplici, perché devono rendere minimo il numero delle variabili, generali perché devono

avere un alto grado di astrazione, accurate in quanto contenenti precise informazioni e quindi,

implicitamente, essere esatte.

Le scienze, e fra queste la geografia, si devono occupare del generale non dell’unico e del

particolare, come invece fa la geografia regionale:

“la scienza è diametralmente opposta alla dottrina dell’unico. Se si vuole ottener l’efficienza della generalizzazione occorrerà sacrificare l’accuratezza del punto di vista dell’unicità” (Bunge, 1962, p.9).

Questo perché soltanto se i fenomeni indagati sono generali, e non unici, è possibile la

previsione. Non può esistere perciò nessuna teoria dell’unico, mentre:

“se siamo stati capaci di costruire una teoria che implica quel fenomeno, il fenomeno sarà generale” (Bunge, 1962, p.10).

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Naturalmente il linguaggio con il quale la scienza si esprime é quello della matematica,

perché soltanto attraverso di esso si giunge alla chiarezza evitando le contraddizioni interne.

William Bunge, continuando le idee di Fred K. Schaefer, afferma che la geometria dovrà essere

il linguaggio della geografia in quanto:

“la geometria, con l’algebra e l’analisi, sono le tre storiche divisioni della matematica. L’algebra e l’analisi sono di provato uso per la geografia in particolare per la soluzione di problemi connessi alla localizzazione degli oggetti sulla superficie terrestre... Ma, delle tre classiche aree della matematica, la geometria si presenta essere la più promettente per la geografia. Dopo tutto, sarei molto sorpreso se la genialità e l’energia che è stata messa nelle analisi astratte dello spazio non dessero prova di grande utilità nell’aiutare i geografi in relazione alla comprensione spaziale dei fenomeni umanamente significanti di cui è piena la superficie terrestre” (Bunge, 1962, pp.222-223).

Quindi, se è vero che la geografia è la scienza delle relazioni e delle interrelazioni spaziali e che

la geometria è la matematica dello spazio, allora, quest’ultima, dovrà il linguaggio della

geografia.

La regione (e l’analisi regionale) non viene rifiutata dalla rivoluzione teoretico–quantitativa

ma si passa da una sua concezione assoluta ad una relativa. La visione assoluta la vedeva

come un’entità indipendente da ciò di cui era composta e da tutte le altre regioni. Ciò che la

nuova geografia vuol fare, invece, è:

“pervenire ad asserzioni astratte di validità generale indipendentemente dalla posizione geografica assoluta dei fenomeni considerati” (Vagaggini Dematteis, 1976, p.119).

Questo può essere fatto soltanto solo accettando la regione come entità relativa. In altri

termini, come afferma Giuseppe Dematteis:

“l’approccio analitico quantitativo presuppone che ogni classe di fenomeni, avente proprietà intrinseche omogenee, ha un diverso comportamento spaziale, in base al quale esso definisce le proprietà geometriche e/o topologiche di un certo tipo di spazio. Tali proprietà permettono di descrivere le configurazioni spaziali dei fenomeni che le hanno generate” (Vagaggini Dematteis, 1976, p.120).

In questo modo secondo Vincenzo Vagaggini e Giuseppe Dematteis (1976, p.120): lo schema

logico in cui si generano le forme spaziali dei fenomeni, sarebbe il seguente:

Pf –> Cf –> Sf –> Ff

Pf = proprietà intrinseche della classe dei fenomeni f

Cf = comportamento nello spazio dei fenomeni f

Sf = tipo di spazio corrispondente alla classe dei fenomeni f

Ff = configurazioni (forme) spaziali dei fenomeni f

Come si vede, una simile sequenza è molto vicina a quella classica elaborata da Karl R. Popper

(1994, p.688):

P1 –> TT –> EE –> P2

dove P1 è il problema da cui partiamo, TT sono le teorie provvisorie (tentative theories) con

cui tentiamo di risolvere il problema, EE è il processo di eliminazione dell’errore cui sono

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esposte le nostre teorie (la selezione naturale a livello pre-scientifico; l’indagine critica,

compreso l’esperimento, a livello scientifico) e P2 è il nuovo problema emergente

dall’esposizione degli errori delle teorie che abbiamo proposto.

Lo schema nel suo complesso mostra che la scienza parte dai problemi e conduce a nuovi

problemi; essa si accresce mediante l’audace invenzione di teorie e la critica delle diverse

teorie concorrenti.

6.4 – La teoresi geografico–quantitativa.

Gli anni ’70 ’80 rappresentano il ventennio più fertile per questa nuova geografia:

“sempre più numerosi sono i giovani geografi che lasciano decisamente da parte quella geografia sviluppatasi nel corso degli ultimi ottanta o cento anni, e che non vogliono neppure più sentirne parlare. Tale è, almeno, l’impressione che scaturisce dagli studi realizzati da tutta una nuova generazione di geografi che si pongono su di una nuova frontiera” (Racine Reymond, 1983, p.3).

Lo sviluppo di questo modo nuovo di fare geografia fu, almeno presso i giovani studiosi di

quegli anni, effettivamente notevole: a suo supporto si pubblicarono molti manuali relativi

all’applicazione di metodi statistico–matematici per le analisi territoriali; i computer ed i relativi

programmi applicativi divennero sempre più potenti, flessibili e -fatto estremamente

importante- sempre più diffusi; oltre ad elaborare nuove teorie e nuovi modelli, si recuperò o si

adattò al nuovo paradigma ciò che di teorico era stato fatto in precedenza anche in aree

marginali alla disciplina.

“L’accelerazione del lavoro teorico era particolarmente marcata nell’ambito di quelle istituzioni guidate da geografi di formazione ‘scientifica’, specialmente scienze naturali e statistica, e/o dove v’erano buoni contatti con gli sviluppi nella letteratura dell’economia teorica. Durante gli anni Cinquanta in numerose università la commistione tra economia e geografia aveva dato luogo a una fiorente produzione di nuove idee e tecniche” (Holt-Jensen, 1999, p.79).

In particolare negli USA due furono le Università che per prime divennero centri d’irradiazione

del paradigma: il Dipartimento di Geografia dell’Università di Washington a Seattle guidato da

William L. Garrison e quello dell’Università di Chicago guidato da Brian J.L. Berry 279.

La prima grande teoria ad essere stata utilizzata fu La Teoria delle Località Centrali

elaborata da Walter Christaller (1893–1969) con il suo famoso lavoro Le località centrali nella

Germania meridionale pubblicato nel 1933. Con questo lavoro Walter Christaller intendeva

spiegare come i servizi tendano a disporsi sul territorio, secondo un ipotetico ordine; un ordine

del tutto “razionale”, basato su una divisione del territorio (che per semplicità egli ipotizza

essere uno spazio isotropo ed isomorfo) in maglie uniformi e gerarchizzate, all’interno delle

quali si muovono degli attori (il consumatore, il produttore ed il venditore) altrettanto

“razionali” e perfettamente informati sulle caratteristiche del sistema economico della regione.

Sostanzialmente egli inserisce la teoria economica della concorrenza perfetta, nata in ambito

279 Su questo sviluppo si veda l’analisi che ne fa R. J.Johnston (1987, pp.54-90)

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90

a-spaziale, all’interno di una regione definendo le modalità con cui quest’ultima si dota di una

struttura urbana e come questa possa variare.

Nella premessa Walter Christaller ci suggerisce che:

“indipendentemente da come appare la realtà, la teoria ha una sua validità in virtù solamente della propria logica e della propria coerenza. Confrontando poi questa teoria con la realtà, potremo stabilire da un lato fino a che punto la realtà corrisponde alla teoria e possa quindi venir chiarita da questa, e dall’altro in che cosa se ne discosti” (Christaller, 1980, p.30).

Quest’opera, estremamente anticipatrice rispetto il paradigma dominante negli anni 30 in

Germania, ebbe uno scarso impatto ed anzi, come nota Peter Haggett, non le fu nemmeno

molto propizia al suo autore in quanto:

“egli non riuscì a ottenere una cattedra universitaria. Solo negli anni Cinquanta le idee di Christaller ricevettero ampi riconoscimenti nel mondo anglosassone” (Haggett, 1988, p.321).

Detto in termini kuhniani: il tentativo di spiegare la distribuzione e la gerarchia delle località

centrali attraverso un modello teorico generale non era accettabile all’interno del paradigma

allora dominante che, allora, era la tradizione storicista-regionale europea e nord americana

legata alle idee di Alfred Hettner e di Richard Hartshorne. Solo in seguito alla “rivoluzione

teoretico–quantitativa” (che conduce al cambio di paradigma) la Teoria di Christaller (come

viene comunemente chiamata) viene rivalutata trovando, anzi, molte applicazioni pratiche in

particolare negli Stati Uniti dove rappresentò un’importantissima fonte d’ispirazione per quei

geografi impegnati nell’elaborazione di modelli teorici di strutture urbane ed a risolvere casi di

pianificazione urbana e regionale.

In Europa un’altra figura emblematica è Torsten Hägerstrand280 che indirizza le sue ricerche

verso i processi di innovazione e di diffusione: nel concentrarsi sui processi, piuttosto che su

una realtà statica, egli rompe definitivamente con la tradizione storicista-regionale europea e

nord americana. L’incipit del suo lavoro è estremamente significativo:

“questo studio non riguarda l’analisi di una specifica area geografica; il suo oggetto è legato allo studio della diffusione delle innovazioni intese come processo spaziale” (Hägerstrand, 1967, p.1).

Il suoi modelli sono basati sul calcolo delle probabilità, seguiti poi da prove empiriche, facendo

guadagnare grande popolarità al suo Dipartimento, a Lund nella Svezia meridionale, che in

pochi anni diventa un altro centro di fama mondiale. È partendo dai suoi lavori che i modelli

probabilistici e le analisi stocastiche diventano gli strumenti base della nuova geografia tanto

che, nota Horacio Capel:

“la teoria della probabilità si applica da questo momento in geografia con una tale intensità che David Harvey non ha dubbi sullo scrivere che ‘se dovessimo selezionare un linguaggio matematico come dominante nell’attuale ricerca accademica, questo sarebbe probabilmente quello della teoria della probabilità’; nel 1969 dichiara poi che ‘l’uso del linguaggio probabilistico è abituale in geografia’. Le

280 Il lavoro fondamentale di T.Hägerstrand viene pubblicato nel 1953 in norvegese, ma diviene basilare dopo la sua traduzione in inglese del 1967.

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leggi, si afferma, non necessariamente devono essere causali: dalla scoperta dell’indeterminatezza da parte di Heisenberg è noto che possono essere anche stocastiche; la legge causale sarebbe una legge stocastica con un alto grado di certezza” (Capel, 1987, p.220).

L’idea della scienza unificata e la concezione monista del mondo comporta anche la

possibilità, per una disciplina, di adottare e fare proprie teorie appartenenti ad altre dottrine

scientifiche. Così la fisica si presta a nuove soluzioni geografiche nel campo sociale: ad

esempio:

“la teoria newtoniana della gravitazione, che O’Reilly aveva già applicato nel 1930 per descrivere la configurazione delle aree di attrazione dei grandi centri commerciali, viene ampiamente usata in geografia urbana” (Capel, 1987, p.219).

Dalla teoria di gravitazione universale viene poi sviluppato il concetto di potenziale, che

rappresenta la:

“somma di tutte le attrazioni esercitate su un punto dalle masse presenti in un campo… [uno strumento statistico utile]… in grado di fornire particolari quantificazioni sulla distribuzione di un fenomeno” (Zanetto, 1979, p.314).

Continuando gli esempi degli studi della fisica applicati alla geografia si deve ricordare che:

“il decrescere dell’emigrazione a partire da un centro viene paragonato all’emissione di un raggio luminoso la cui luce è gradualmente assorbita dall’ambiente in cui circola e diminuisce con la distanza del fuoco che la emette; si studia il traffico autostradale utilizzando la teoria dei fluidi e quello commerciale a partire da teorie elettriche” (Capel, 1981, p.219).

Queste soluzioni non hanno la pretesa di descrivere la realtà, ma funzionano da modelli, ed

il modello altro non è che

“uno strumento di analisi della realtà empirica, atto a ricondurre una certa parte di essa entro uno schema logico generale ed astratto” (Vagaggini Dematteis, 1976, p.77).

In altri termini il passaggio da una geografia idiografica (cioè descrittiva) ad una nomotetica

(cioè teoretica) ha significato passare da un concetto di spazio assoluto a quello di spazio

relativo e cioè:

“pervenire ad asserzioni astratte di validità generale indipendentemente dalla posizione geografica assoluta dei fenomeni considerati. Nelle intenzioni di Christaller e dei suoi successori il modello delle località centrali è valido in Germania come negli Stati Uniti, come altrove. Esso è valido tutte le volte che esiste un certo fenomeno… [e questo ovviamente vale per qualsiasi modello definito]… se poi montagne, fiumi, differenze storiche, culturali, ecc. impediscono allo spazio di strutturarsi secondo le forme geometriche perfette, previste dal modello, si tratta di circostanze accidentali, che non invalidano il modello in quanto tale, anzi ne confermano la validità in relazione a certe peculiarità locali. Come si vede il passaggio da uno spazio assoluto allo spazio relativo comporta veramente una rivoluzione sul piano concettuale: lo studio delle peculiarità locali (l’unicità), che era oggetto principale della geografia tradizionale diventa qui un aspetto secondario, di cui il geografo in quanto scienziato non dovrebbe neppure occuparsi, mentre il suo interesse deve prima fissarsi sulle proprietà intrinseche dei fenomeni, per derivare da esse le strutture spaziali relative, conseguenti... estrarre proprietà generali dallo spazio, relative a certi fenomeni, eliminando, in quanto irrilevanti, le particolarità uniche dei vari luoghi“ (Vagaggini Dematteis, 1976, pp.119-120).

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Occorre però tener presente che questa geografia teoretico–quantitativa si sviluppò dopo gli

anni ‘50, con notevole ritardo rispetto all’affermarsi delle idee neopositiviste ed in un periodo in

cui la geografia regionale era fortemente in crisi. La sua affermazione segnò la riscossa di una

scientificità legata al formalismo e a mezzi tecnici sempre più sofisticati a scapito però della

storicità.

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7 – La crisi del Neopositivismo e la nascita della geografia radicale e della geografica umanista.

In altre parole, ritengo che la nostra conoscenza della realtà sia mediata dai concetti con cui la penso. Pertanto, il solo contatto che io possa stabilire con alcunché avviene attraverso i concetti che io estraggo e poi impongo alla cosa… … tutti i concetti sono convenzioni inventate, che andrebbero usate con la dovuta cautela e per scopi specifici. Gunnar Olsson, Uccelli nell’uovo, pp. 36 e 40.

7.1 – Premessa.

La seconda metà degli anni ‘60 segna la crisi delle idee neopositiviste, vacillano le certezze

matematiche e s’incrinano i modelli statistici mentre inizia a svilupparsi una nuova corrente

critica. È un nuovo mutamento paradigmatico nelle scienze sociali, riflesso della condizione di

sconcerto in cui si è venuta a trovare la società, sottoposta ad una serie di sconvolgimenti e

disillusioni legate al susseguirsi di alcune crisi economiche, alla decolonizzazione con la

conseguente crisi del sistema di dominazione occidentale e all’insoddisfazione delle soluzioni

scientifiche.

Il sistema economico internazionale nei primi anni ’70 vede scalfire profondamente antiche

certezze. Nel 1971 gli Stati Uniti decretano la fine della convertibilità del dollaro e così nel

1973 il sistema dei cambi stabili, sostanzialmente basato sugli accordi definiti nel 1944 alla

conferenza di Bretton Woods, venne via via sostituito da un sistema di cambi flessibili.

Nell’autunno del 1973 i paesi produttori di petrolio, aderenti all’OPEC, decisero una

quadruplicazione del prezzo che salì a 12 dollari al barile; a questo primo “shock petrolifero”

seguì poi un secondo nel 1979 quando il suo prezzo s’impennò fino a 30/32 dollari il barile.

Seguì la perdita della posizione predominante degli Stati Uniti e l’emergere di due nuovi poli: il

Giappone nell’area del Pacifico e, in Europa, la Repubblica Federale di Germania. Si tratta di

una profonda crisi che riguarda non solo “l’economia mondiale” ma anche la “scienza

economica” che comincia a ripensare alcuni dei suoi postulati281.

La decolonizzazione di molti paesi ha portato, come conseguenza, un cambiamento radicale

delle relazioni internazionali: il sottosviluppo divenne un problema ampiamente affrontato282 e

diffuso, e si aprirono nuove ed importanti questioni sulla distribuzione ineguale del capitale nel

mondo:

“Finita l’ultima guerra… gli occidentali furono costretti… a riconoscere il fallimento di questa famosa missione civilizzatrice, alibi ideologico della colonizzazione” (Lacoste, 1968, p.15).

Come conseguenza di tutto ciò anche nei paesi industrializzati si verificarono dei

cambiamenti significativi: si avvertì la condizione di alienazione in cui si era venuto a trovare

l’uomo moderno con il degrado dell’ambiente e delle città. Nascono movimenti ecologici come

281 Si vedano per tutti i lavori di K.Robinson (1966); P.A.Baran P.M.Sweezy, (1968) e R.L.Meek (1969) 282 Estremamente importante è, al riguardo, l’analisi di G.Myrdal (1971) sul “Dramma dell’Asia”.

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conseguenza della presa di coscienza che il progresso ha portato una trasformazione negativa

dell’ambiente ed emblematiche, fra le analisi del rapporto uomo/ambiente, sono le

interpretazioni “catastrofistiche” fatte, agli inizi degli anni ’70, dal MIT per conto del “Club di

Roma”283.

Si diffonde una conseguente sfiducia nel progresso: crolla il mito dell’infallibilità di una

scienza oggettiva in grado di risolvere i problemi che affliggono la società; inoltre, ci si rende

conto che le pianificazioni basate sulle teorie spaziali neopositiviste, nelle quali un tempo si era

nutrita una così grande fiducia, dimostrano tutta la loro debolezza. Come afferma Gunnar

Myrdal:

“nessuna scienza sociale e nessun ramo particolare della scienza sociale può pretendere di qualificarsi come “amorale” o “apolitica”. Nessuna scienza può mai essere “neutrale” o semplicemente “fattuale” vale a dire “oggettiva” nel senso tradizionale di questi termini. La ricerca è sempre per sua logica necessità fondata su valutazioni di ordine morale e politico, e il ricercatore sarà sempre tenuto a rendere conto di esse in modo esplicito” (Myrdal, 1973, pp.60-61).

In termini ancora più radicali:

“Una scienza sociale disinteressata non è mai esistita, e logicamente non potrà mai esistere” (Myrdal, 1973, p.44).

In risposta a questa situazione di disillusione generale e in seguito alla presa di coscienza

delle carenze del paradigma neo-positivista, si sviluppano una serie di correnti critiche (o

radicali). E’ così che la visione ‘meccanicistica’ del mondo, propria del paradigma neo-

positivista e, più in generale, delle scienze empiriche, viene affiancata da altre due metafore284

facenti parte di un unico paradigma in formazione che potremmo definire “anti-neopositivista”.

La prima, quella ‘realista’, adottata dalle scienze critiche, propone una lettura del mondo in

chiave marxista, lettura che sarà, appunto, alla base della geografia radicale, “impegnata” sul

piano sociale e quindi incentrata sull’analisi di fenomeni come la povertà, l’emarginazione

sociale, le condizioni di vita urbana, i conflitti sociali. La seconda, quella ‘umanista’, propria

delle scienze ermeneutiche che saranno alla base della geografia umanista, invita invece a

considerare il mondo in chiave soggettiva, demolendo così il mito positivista della “realtà

oggettiva” e della “neutralità dell’osservatore”.

283 Si vedano i due testi base: AA.VV., 1972 e 1973. 284 Non mi sento di dover qui usare il termine paradigma essendo, forse, eccessivo applicarlo alle due interpretazioni; probabilmente il termine metafora –seguendo le interpretazioni che ne da Umberto Eco nell’Enciclopedia Einaudi– è più appropriato.

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7.2 – La geografia radicale.

Lo spazio sociale non è neutro. Il gioco sociale si svolge, dall’individuo al gruppo o fra gruppi, secondo rapporti che si chiamano tensione, opposizione, lotta oppure solidarietà, collaborazione, compromesso. E sono le opposizioni fra le classi a fornire la regola di questo gioco, al quale danno origine gli interessi materiali. Armand Frémont, La regione uno spazio per vivere, p. 40.

Nella seconda metà degli anni ’60 si assiste alla nascita di movimenti di contestazione che

hanno come loro culla le Università americane ed europee: si tratta di quei movimenti di

protesta che, comunemente, vengono ricordatati come “la contestazione del ‘68”. Questi

movimenti di lotta, oltre a rifiutare la neutralità della scienza, denunciano la situazione sociale

affermando che è necessaria un’azione concreta da parte delle scienze sociali avendo come

scopo il miglioramento della società, attraverso cambiamenti che possano risolvere i problemi

“alla radice”.

Una delle fonti d’ispirazione del radicalismo è da ricercarsi nella cosiddetta Scuola di

Francoforte negli anni ‘30. Le idee fondamentali di questa scuola, apertamente antipositivista,

vengono espresse da Max Horkheimer nel famoso articolo Traditionelle und Kritische Theorie

del 1937. Egli afferma che lo scienziato sociale non svolge un lavoro oggettivo: egli è parte di

un oggetto indagato e quindi influenzato dai propri valori e da quelli culturali. Così suggerisce

Joan Violet Robinson (1966, p.49), una delle più importanti studiose di economia politica degli

anni ’60:

“non è possibile descrivere un sistema senza che i giudizi morali si inseriscano nella descrizione. Guardare un sistema dall’esterno implica, infatti, che esso non è il solo sistema possibile; nel descriverlo lo confrontiamo, tacitamente o in modo esplicito, con altri sistemi reali o immaginari. Le differenze implicano delle scelte, e le scelte implicano un giudizio”.

Le critiche al metodo positivista nelle scienze sociali vengono ulteriormente portate avanti

da Theodor Wiesengrund Adorno, altro rappresentante della Scuola di Francoforte, il quale

attacca la pretesa del Positivismo di analizzare la società con gli stessi mezzi delle scienze

naturali. Queste idee influenzarono il mondo culturale fino a portare alla nascita del movimento

radicale negli anni ‘70. Risulta così naturale il ricorso al Marxismo e alle tradizioni liberali o

anarchiche come “alternative per un nuovo modo di affrontare lo studio sociale” (Capel, 1987,

p.234). Molti geografi quantitativi, tra cui ricordiamo William Bunge, David Harvey e Gunnar

Olsson, riconobbero i limiti della geografia neopositivista e si accostarono alle idee marxiste

per trovare soluzioni diverse ai problemi della società americana.

La geografia radicale risulta così essere “fortemente storico materialista ed orientata a

sinistra” (Bird, 1989, p.91). L’obiettivo di questa geografia come ha affermato lo stesso David

Harvey “non è quello di descrivere e capire il mondo ma di cambiarlo” (Harvey, 1981, p.209).

Il mondo in cui siamo inseriti è un mondo in crisi i cui problemi possono essere risolti anche

con l’aiuto della geografia. La geografia viene intesa come una scienza sociale che,

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contrariamente a quella teoretico–quantitativa, ha un ruolo attivo: deve stimolare cambiamenti

per migliorare la società e le sue strutture. Uno dei temi più trattati dalla geografia radicale è

l’ineguale accumulazione del capitale che conduce alla segregazione spaziale fra le classi e,

come nota James Bird Bird (1989, p.93):

“ciò porta rapidamente all’idea di un diseguale sviluppo spaziale a tutte le scale: il centro urbano e le periferie, le differenziazioni regionali ed i loro differenti gradi di sviluppo, il mondo capitalistico avanzato ed il mondo del sottosviluppo. L’esistenza di questa ultima contrapposizione darà origine all’idea del neo-colonialismo, degli sfruttatori e degli sfruttati”.

È una geografia molto impegnata socialmente e culturalmente. Le sue analisi ed i suoi studi

riguarderanno, principalmente, gli effetti territoriali del capitalismo, il problema razziale, le

minoranze e le disuguaglianze sociali e l’attività del geografo radicale consisterà nel contribuire

a vincere le differenziazioni spaziali delle attività umane. A suo supporto nacquero tre

importanti riviste come Antipode, negli Stati Uniti, Hérodote, in Francia e International Journal

of Urban and Regional Research, nel Regno Unito.

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7.3 – La geografia umanista. Il luogo incarna l’esperienza e l’aspirazione di un popolo. Il luogo non è solamente un fatto da spiegare nella più ampia struttura dello spazio, ma è pure una realtà che deve essere chiarita e compresa dalle prospettive delle persone che gli hanno dato significato. Yi-Fu Tuan, Spazio e luogo, una prospettiva umanistica, p.92.

Il territorio è portatore di segni, ma per interpretare i valori ad essi legati, secondo tutte le finezze che la percezione lega il soggetto all’oggetto, la letteratura e la pittura sono degli intermediari di eccezionale ricchezza. Armand Frémont, Vingt ans d’espace vécu, p.19.

7.3.1 – Premessa.

Un’altra reazione al paradigma neopositivista ci viene fornita dalla geografia umanista il cui

obiettivo è il recupero dell’uomo sociale reificato dalla geografia teoretico–quantitativa. L’uomo

non può essere ridotto ad una marionetta, perfettamente prevedibile e quantificabile e la

geografia non può essere solo una geometria dello spazio, alla stregua di “una scienza astratta

che studia le relazioni spaziali degli oggetti” (Ley, 1980, p.6) e che ha eclissato anche la figura

dell’uomo, molto cara alla scuola vidaliana, agente attivo dotato di volontà e intenzionalità.

David Ley, in una delle prime analisi sulla nascente geografia umanista, affermava infatti

come essa rappresentasse una reazione contro l’analisi spaziale così come si era sviluppata

negli anni ’60:

“Il determinismo, l’economicismo e l’astrazione insiti negli studi quantitativi sembravano voler abolire l’intenzionalità umana, l’uomo e la sua cultura. Al massimo l’incostanza, l’incoerenza e la volubilità umana erano viste, alla guisa di un moto browniano, come sporadiche e casuali perturbazioni attorno ad uno schema di base” (Ley, 1981, p.250). Definita in termini kuhniani: la geografia teoretico-quantitativa non riuscendo, per i

geografi umanisti, ad interpretare e risolvere i problemi legati alla valutazione

dell’intenzionalità umana doveva essere accantonata e sostituita da una nuova geografia

focalizzata sulla soggettività dell’azione culturale umana.

7.3.2. Il termine Geografia Umanista.

L’aggettivo umanista è stato utilizzato in modo sistematico da alcuni geografi nord americani

solo a partire dai primi anni ’70 probabilmente perché gli altri due aggettivi umana e culturale

avevano precedentemente assunto significati ben precisi, non congrui con il nuovo approccio.

Geografia umana indicava sia il paradigma possibilista della scuola vidaliana sia quello

storicista nordamericano della scuola di Hettner–Hartshorne. Due scuole a carattere

idiografico, indirizzate alle analisi regionali che, nelle loro descrizioni, facevano riferimento alle

tecniche proprie della cultura materiale285 definendo così “paesaggi agrari” e “generi di vita” e

285 Per Hartshorne (1972), lo scopo della geografia è “lo studio di combinazioni spaziali di fenomeni in un’area” (p.42) o meglio l’osservazione e l’analisi degli “elementi terrestri costituiti dalle mutue interconnessioni di diversi fenomeni”

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descrivendo –con un taglio sempre più enciclopedico– singole regioni. Due scuole di pensiero

accusate di “descrittivismo” o, meglio, di fare solamente della “mera descrizione”.

Il rifiuto più deciso era però legato all’aggettivo culturale e questo perché il termine

Geografia Culturale, in ambito nordamericano, si riferiva alla Cultural Geography della scuola

capeggiata da Carl Ortwin Sauer dell’Università di Berkeley, California. Quest’ultima scuola di

pensiero era legata all’idea di cultura connessa al concetto di Superorganico, cioè all’autonomia

della cultura dall’individuo e dalla società. Concetto che, introdotto da Herbert Spencer286, è

stato sostanzialmente teorizzato dall’antropologo Alfred L. Kroeber287, anch’esso attivo

nell’università di Berkeley. Secondo questa impostazione la cultura, una volta originatasi,

diventa extra-organica: una sorta di “forza mistica” che “da sola determina il destino storico

umano”, una forza “che può farsi e svilupparsi da sola e che gli individui [sono] soltanto i suoi

veicoli o i suoi strumenti passivi”288. Assumendo capacità proprie –cioè obbedendo a proprie

leggi indipendenti da quelle che governano i suoi vettori umani– essa genera le proprie forme

–territoriali nel nostro caso– indipendentemente dagli uomini stessi289. Carl O. Sauer aveva

così chiaramente definito gli scopi della Cultural Geography:

“al contrario della psicologia e della storia, è una scienza che non ha niente a che fare con gli individui ma solo con le istituzioni umane, o le culture” (Sauer, 1941, p.7)290. Trent’anni dopo Wilbur Zelinsky (1973, pp. 40-41), uno dei più importanti esponenti della

scuola di Berkeley, nel suo testo The cultural geography of the United States affermava:

“noi stiamo descrivendo una cultura, non gli individui che sono parte di essa. Ovviamente una cultura non può esistere senza i corpi e le menti che la creano, ma è anche qualcosa che va ben oltre a coloro che vi partecipano… è per sua natura superorganica e superindividuale: è un’entità con una propria struttura, con processi e momenti propri, e che in ogni modo non è minimamente toccata né dagli eventi storici né alle condizioni socio-economiche... [è] del tutto estranea alle persone singole ed alle loro decisioni, come una specie di macro-idea, una astrazione con speciali modalità di esistenza ed un particolare insieme di regole.

(p.95): fenomeni che sono “inanimati, biologici e sociali” (p.46). Se gli “inanimati” (che sono i fenomeni fisici) ed i “biologici” (relativi a piante ed animali) sono intuitivamente definiti, il problema sono i “sociali” che non definisce chiaramente ma che classifica come “i trasporti, l’agricoltura, l’insediamento delle industrie urbane” (p.92) cioè tutti quei “fenomeni” relativi alla cultura materiale. Ancora meglio di lui si veda Hartshorne (1961, pp.120-144). Per quanto riguarda la scuola vidaliana il riferimento d’obbligo sono i quattro ponderosi tomi di Sorre (1951-52) due dei quali sono dedicati ai “fondements techniques” che sostanzialmente lui riferisce al progresso tecnico relativo a qualsiasi “civilisation”. Infatti “une structure sociale déterminée est inintelligible si l’on fait abstraction des conditions et des techniques de la production… [per questo]… au cours de cet ouvrage, nous aurons des occasions de préciser les origines, la nature et la marche des progrès techniques” (II, p.8) cioè sempre e solo elementi della cultura materiale. 286 Che nel suo Principi di Sociologia definisce come “tutti i processi ed i prodotti, che implicano azioni coordinate di molti individui, le quali pervengono a risultati superiori in estensione e in complessità rispetto a quelli conseguibili mediante azioni individuali” (Spencer, 1988, vol.I, p.80). 287 Su questo concetto di cultura e di Superorganico veda Kroeber (1917, 1944 e 1974) e Kluckhohn Kroeber (1972). 288 Per un’interpretazione e critica di questo “errore culturalistico”, così definito da Bidney (1970), si vedano: Bendict (1970); Leach (1978) e Remoti (1974); le citazioni sono di Benedict (ibidem, p.230) e di Bidney (ibidem, pp.257 e 258). 289 Per un’analisi critica della Cultural Geography del gruppo dei geografi di Berkeley si vedano Duncan (1980); Agnew Duncan (1981); Lando (1995) e la dura disputa tra Symansky (1981) e Duncan (1981). 290 Si veda anche Sauer (1931).

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E’ chiaro che con questo concetto si abbandonava completamente la libertà dell’individuo

(in qualsiasi modo la si consideri) e si sosteneva la sua completa subordinazione a “quella

cosa”: la cultura, la sostanza sociale, il Superorganico. In questo modo si cadeva in una sorta

di “determinismo culturale” in cui i vari paesaggi, regioni, territori o luoghi venivano

rappresentati come un processo di adattamento, non dell’individuo o della società, ma della

cultura all’ambiente.

Appariva quindi ovvio come questa nuova geografia non potesse riferirsi né alla Geografia

Umana, che nei rapporti uomo/ambiente considerava determinante la “cultura materiale” né,

tanto meno, alla saueriana Cultural Geography con il suo pesante determinismo291. In altri

termini per i geografi umanisti era necessario un ritorno ad una geografia autenticamente

antropocentrica in cui l’uomo potesse essere recuperato nella sua integrità, nel suo ruolo attivo

non solo nei confronti dell’ambiente ma anche, se non principalmente, nel suo potere di

prendere decisioni. Solamente così si ovviava al problema di qualsiasi determinismo:

“è il riconoscimento dell’assenza dell’operato dell’uomo che porta i geografi [umanisti] a studiare a fondo le possibilità di una geografia umana studiando l’uomo e non semplicemente i suoi manufatti” (Pickles, 1986, p.16).

Cercando di considerare come contrapposizione allo storicismo-possibilismo ed al determinismo

culturale:

“l’uomo con tutti i pezzi al loro posto, incluso un cuore ed un’anima, con sentimenti e pensieri e con alcune parvenze di quella sua secolare e forse trascendentale conoscenza (Ley Samuels, 1978b, pp.2-3).

7.3.3. Le origini della Geografia Umanista.

Il momento iniziale in cui far partire la prospettiva umanista della geografia viene

comunemente fissato con la pubblicazione nel 1961 del famoso articolo di David Lowenthal

Geography, experience and imagination: towards a geographical epistemology292. Nell’articolo

egli auspicava che i geografi considerassero con grande cura

“le relazioni tra il mondo esterno e le sue immagini contenute entro le nostre teste” (Lowenthal, 1961, p.241).

Aggiungendo che la conoscenza geografica del singolo e della società si è sempre fondata su

geografie personali fatte di esperienze diverse, ricordi, circostanze presenti e progetti futuri.

Così concludeva il suo articolo:

“ogni immagine e idea del mondo è composta da esperienze personali, apprendimento, immaginazione, e memoria. I luoghi nei quali viviamo, quelli che visitiamo e attraverso cui viaggiamo, i mondi di cui leggiamo e che vediamo in opere d’arte, e i regni dell’immaginazione e della fantasia, tutto ciò contribuisce alle nostre immagini della natura e dell’uomo. Tutti i tipi di esperienza da quelli legati più strettamente al nostro mondo quotidiano a quelli che sembrano spinti più lontano, si uniscono per creare la nostra immagine individuale della realtà. La

291 Per un’interessante riflessione sui rapporti tra cultura e paesaggio si veda Cosgrove (2000, pp.42-48). 292 A questo primo articolo ne seguirono altri, forse più importanti per definire la sua posizione culturale, che scrisse assieme a Prince: due (1964, 1965) relativi al paesaggio inglese ed un terzo (1976), sicuramente uno dei più significativi, riguardante il significato ed il valore nella valutazione dei paesaggi delle esperienze trascendentali.

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superficie della terra è data, per ogni persona, dalla rifrazione, passata attraverso lenti culturali e personali, dell’abitudine e dell’immaginazione. Siamo tutti artisti e architetti paesaggisti nel creare l’ordine e nell’organizzare lo spazio, il tempo, la causalità in accordo con le nostre percezioni e preferenze. La geografia del mondo è unificata solo dalla logica ed ottica umana, dalla luce dal colore dell’artificio, dalla sistemazione decorativa e dalle idee del bene, del vero, e del bello” (Lowenthal, 1961, p. 260). In questo modo egli sperava –riuscendoci– di innescare fra i geografi il bisogno di

un’interpretazione dei vari paesaggi, territori o luoghi, che non fosse solo “oggettiva” ma

avesse anche un contenuto profondamente culturale, soggettivo o, meglio, psicologico293.

Voleva, cioè arrivare ad una psicologia dell’ambiente a supporto della psicologia umana che

permettesse di meglio comprendere:

“perché si preferiscono alcuni paesaggi ad altri?… come può l’immaginazione trasformare luoghi esteticamente appaganti?… in che modo l’ambiente, l’umore e le circostanze influenzano la nostra percezione del territorio che sta attorno a noi?” (Lowenthal Prince, 1976, p.118). In altri termini egli, effettivamente, sperava che nella geografia anglosassone si potesse

dar vita ad un nuovo approccio alla visione del mondo che ci potesse guidasse attraverso

quelle terrae incognitae che “giacciono nelle menti e nei cuori degli uomini”. Queste ultime

sono le parole con cui egli apre il suo lavoro richiamandosi alla chiusa294 di un altrettanto

famoso articolo che John Kirtland Wright scrisse nel 1947. Con quest’articolo –un Presidential

Addess295– John K. Wright invitava ad esplorare quei settori sconosciuti e di difficile

penetrazione che costituiscono la sfera della soggettività individuale relativa a vari gruppi

sociali. Una sorta di geografia mentale che battezzò geosofia296, cioè:

“lo studio della conoscenza geografica da qualsiasi punto di vista... sia vera che falsa, di qualsiasi genere di persona –non solo geografi, ma contadini e pescatori, uomini d’affari e poeti, romanzieri e pittori, Beduini ed Ottentotti– e per questa ragione deve necessariamente essere in pieno accordo con le concezioni soggettive” (Wright, 1947, p.12)297.

Come nota Maria de Fanis il suo è un forte invito a:

“puntare l’obiettivo sull’uomo che, proiettando sul territorio un bagaglio di emozioni, motivazioni e valori, ne opera la trasformazione. Sebbene Wright

293 Si veda al riguardo l’interpretazione che di questo suo “messaggio” ne danno Livingstone (1994) e Powell (1994) e la risposta che ne dà Lowenthal (1994). 294 Si vedano: Lowenthal, 1961, p.241, e Wright, 1947, p.15: “the most fascinating terrae incognitae of all are those that lie within the minds and hearts of men”. Per un’interessante interpretazione del rapporto fra questi due scritti si vedano Fiorentini (2003) e Livingstone (1992, p.336). 295 Il Presidential Address è un articolo che l’Associazione dei Geografi Americani pubblica, come primo articolo di ogni anno, nella sua rivista Annals of the Association of American Geographers. L’autore, generalmente un noto geografo nord americano, riceve l’incarico un anno prima, non ha nessun vincolo, l’articolo non è soggetto a referees, e generalmente non vi sono critiche nei confronti dei contenuti esposti. Per questo viene visto come un’importantissima occasione di notevole spessore per proporre prospettive scientifiche d’avanguardia o trasmettere riflessioni critiche significative. 296 Wright dà una prima definizione di geosofia nel 1947 che poi riprende ed allarga sensibilmente nel suo Notes on Early American Geopiety (1966c). Sul concetto di geosofia si vedano anche Handley (1993), e l’interessante rielaborazione che ne fa Tuan (1976c). 297 Definizione che vent’anni dopo (1966b, p.7) precisa con: “as distinguished from geography, or the study of the realities with which geographical knowledge has to do”.

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puntualizzi che tale ricognizione dell’elemento umano sia da utilizzare in modo che essa risulti funzionale ad una determinazione oggettiva dei fatti, sì che ‘in geografia il soggettivo dovrebbe essere usato per meglio evidenziare l’oggettivo’” (de Fanis, 2001, pp.18-19)298.

Invito che non lasciò, nell’immediato, grandi segni anche perché arrivato in un contesto ben

poco favorevole. Allora la geografia umana statunitense era, da una parte, profondamente

divisa tra il culturalismo saueriano e la corologia funzionalista di R. Hartshorne e, dall’altra, in

profonda crisi d’immagine accademica data la cessazione299 nel 1949 dell’insegnamento di

geografia all’università di Harvard, sostanzialmente legato ad una caduta dei contenuti della

disciplina considerata “non oggetto di studi universitari” in quanto definita “nient’altro che

descrittiva, frammentaria e facile”300. Pensiero che fu rilanciato –e con successo– una

quindicina di anni dopo da David Lowenthal e, in parte, anche da Clarence James Glacken301

con il suo monumentale lavoro –significativamente titolato Tracce sulla spiaggia di Rodi–

relativo all’analisi delle modalità attraverso cui il pensiero occidentale, nella sua storia, si è

rapportato alla natura e di come ha variamente interpretato i suoi rapporti uomo/natura.

Se questi tre autori (John K Wright, David Lowenthal e Clarence J. Glacken) sono

generalmente considerati come i precursori, per meglio comprendere la nascita della geografia

umanista occorre anche far riferimento alla temperie storico–culturale degli anni 60-80. Anni,

questi, interessati dalle discussioni sui rapporti tra discipline scientifiche e discipline umaniste

e, di conseguenza, sulla natura del metodo scientifico; discussioni in buona parte legate ai

lavori di Charles Percy Snow Le due culture e di Aldous Huxley Letteratura e scienza. Le due

culture del libro di Charles P. Snow sono totalmente separate e non in rapporto fra loro:

“letterati ad un polo e scienziati dall’altro… gli uni hanno un’immagine stranamente distorta dagli altri. Gli atteggiamenti sono così diversi che non c’è un terreno comune neppure per quanto riguarda le emozioni” (Snow, 1964, p.6)302.

Anche per Aldous Huxley le due posizioni sono estremamente distanti:

“lo scienziato è l’abitante di un universo radicalmente diverso non l’universo di aspetti dati, ma il mondo delle strutture pure dedotte, non il mondo vissuto di eventi unici e diverse qualità, ma il mondo delle regolarità quantificate” (Huxley, 1963, p.8).

Mentre le discipline scientifiche trattano di esperienze intersoggettivamente accessibili e si

esprimono con linguaggi formalizzati come la matematica e la logica, le discipline umanistiche

298 Le ultime parole della citazione sono tratte da Wright, 1947, p.9: “in geography the subjective should be used only to point up the objective”. 299 O meglio, come dice Livingstone, 1992, p.312: “the assassination of geography at Harvard”. 300 Si veda al riguardo l’interessante analisi di Smith (1987), con la relativa discussione fra Martin (1988) e lo stesso Smith (1988); e la messa a punto di Livingstone (1992, pp.311-313). Le citazioni sono da Smith, (1987, pp.311-312): “geography is not a university subject… human geography could never be anything but descriptive, fragmentary and easy”. 301 Glachen, uno dei più importanti geografi della scuola di Berkeley se n’è in buona parte distaccato avvicinandosi le posizioni di Wright e di Lowenthal. 302 Anche se ottimisticamente conclude “Possiamo però, per fortuna, educare un buon numero delle nostre menti migliori in modo che non ignorino l’esperienza immaginativa, sia delle arti che delle scienze, e neanche ignorino le dotazioni della scienza applicata, le sofferenze rimediabili della maggior parte degli uomini loro compagni, e le responsabilità che, una volte che se ne sia presa coscienza, non possono più venir negate” (p.102).

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trattano principalmente di esperienze private, essenzialmente uniche ed irripetibili, e si

esprimono, attraverso la descrizione evocativa di casi concreti, nel linguaggio quotidiano.

Per la geografia –data la sua duplice valenza: naturalistico-fisica o storico-culturale–

simili interventi, con le discussioni che ne sono derivate, sono stati molto più sentiti che non in

altre discipline. Da una parte la geografia si è sempre interessata di creare una nuova

conoscenza formalizzando le relazioni tra i vari fenomeni che si manifestano sulla superficie

terrestre: sia dal punto di vista idiografico nella ricerca sistematica delle differenze tra regione

e regione, sia dal punto di vista nomotetico nella ricerca delle leggi e delle regolarità nella

natura e nel comportamento umano. Ed è quest’ultima posizione paradigmatica che, con la

geografia teoretica, cominciava, in quegli anni, ad avere il sopravvento. Dall’altra parte, la

disciplina si era anche interessata, seppur marginalmente, di chiarire come le funzioni

dell’esistenza influenzano la nostra vita quotidiana: cioè del modo con cui la cultura o le

tradizioni attribuiscono significati e valori ai molteplici elementi di cui i vari luoghi, territori o

paesaggi sono formati. Questa posizione, seppur sopita ma mai abbandonata, si è rafforzata

dando origine a discussioni all’interno della disciplina con un importante ripensamento delle

sue funzioni, generando nuove fratture e radicalizzando talune posizioni303. Così questa nuova

geografia ha preso piede, si è autodefinita umanista nell’orientamento ed ha iniziato a

considerare il modo con cui cultura e tradizioni attribuiscono significato e valore ai luoghi,

territori o paesaggi.

7.3.4. I fondamenti fenomenologici della geografia umanista.

Il cambiamento fondamentale che ha riguardato la geografia umanista è stato dunque un

mutamento di prospettiva: dallo studio dello spazio neutro cartesiano (della geografia

teoretico-quantitativa) o dalla descrizione della regione (della geografia storicista-possibilista)

si è passati allo studio dello spazio vissuto, dei territori del soggettivo. Ciò comportava il

rinnovamento della metodologia304. Non più una geografia obiettiva, scientifica, disinteressata

tipica dello scienziato, dell’outsider, che osservando definisce le regole formali che organizzano

i processi oggettivi oppure descrive l’organizzazione regionale ed i paesaggi agrari. Al contrario

lo studioso deve calarsi completamente nel vissuto che analizza, deve essere partecipe di

303 In ambiente anglosassone si vedano gli importanti lavori di Gregory (1978), Gale Olsson (1979) e Gould Olsson (1982); per la geografia italiana è il caso di ricordare il fondamentale convegno di Varese del 1980 i cui atti sono stati pubblicati da Corna Pellegrini Brusa (1980), solo pochi mesi dopo. 304 Diverse sono state le gamme di risposte presentate e discusse ma quello che le univa era ciò che volevano contrastare e non, data l’eterogenea mescolanza di stili filosofici, i loro riferimenti culturali. Interessante è la presentazione che ne fa Entrikin, 1991, p.18: “Humanistic geography developed in the 1970s as a mélange of epistemological positions and thematic interests”. Per rendersi conto della vastità dell’ambito culturale si rinvia a: Bird (1989, pp.64-86); Capel (1987, pp.256-257); Gregory (1986); Holt-Jensen (1999, pp.117-122); Livingstone (1992, pp.336-345). Fra queste una delle più significative era legata alle analisi, facenti riferimento al materialismo storico, iniziate nel Regno Unito da Cosgrove sull’idea di paesaggio; approccio anche questo confluito poi parzialmente nel grande filone umanistico nordamericano a base fenomenologia che, dagli anni ’80 con Tuan ed Buttimer, si imporrà e diverrà dominante. Cosgrove, in alcuni dei suoi primi lavori (1978, 1983), ha riassunto le idee lungo le quali, secondo lui, potrebbe muoversi un incontro critico fra umanesimo e materialismo storico all’interno della geografia. Non si tratta certo di un colloquio tra materialismo storico e fenomenologia ma di un avvicinamento delle posizioni di Cosgrove con quelle della geografia umanista che alcuni geografi nord americani stavano allora sviluppando.

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questo perché è soltanto attraverso l’empatia dell’insider305, l’identità del partecipante, che si

arriva alla comprensione del mondo della vita:

“l’approccio umanistico mira a studiare non soltanto l’uomo raziocinante, ma anche l’uomo che prova dei sentimenti, che riflette, che crea… descrivere e comprendere, insistendo sull’empatia con gli uomini: ecco gli obiettivi principali della geografia umanista” (Pocock, 1989, p.186).

In altri termini, la geografia umanista non cercava di capire il mondo attraverso la visione

obiettiva dello scienziato, ma voleva interpretare l’azione dell’uomo abitante, con i suoi

sentimenti, le sue idee, le sue speranze. Il centro della sua analisi scientifica era il

comportamento dell’uomo nel suo territorio: l’uomo con i suoi pensieri, dubbi, paure, con tutti

quegli aspetti aleatori non riconducibili alla logica306. È quell’uomo che, come spesso accade:

“non si comporta sempre razionalmente [ed i cui] cambiamenti, capovolgimenti di tendenze, valori e scopi sono raramente prevedibili” (Parsons, 1969, p.188).

È ovvio, però, che così venga precluso uno degli obiettivi perseguiti dalla scienza positiva: la

previsione, poiché:

“comprendere qualcosa implica anche comprendere la possibilità del suo opposto, per cui nelle previsioni che dobbiamo fare sul comportamento umano occorre anzitutto accettare la possibilità di ottenere risultati contrari a quelli previsti” (Capel, 1987, p. 238). Si valorizza la dimensione soggettiva dell’uomo inserito nell’ambiente riproponendo

ancora il problema del dualismo che non è però proposto nei termini del vecchio rapporto

uomo/ambiente, ma di quello tra l’uomo (vivente in una società) e il territorio (prodotto della

società). Si vuole cioè:

“interpretare l’esperienza umana nella sua ambiguità, ambivalenza e complessità… chiarire il significato dei concetti, dei simboli e delle aspirazioni nella loro appartenenza al territorio e ai luoghi” (Tuan, 1976a, p.275)307.

Nel complesso i suoi metodi sono liberamente basati su quelli delle dottrine umanistiche, che

erano stati eliminati dal positivismo: il senso poetico, la prospettiva storica, l’intuizione

diltheiana attraverso la quale è possibile la comprensione dell’esperienza altrui, l’esegesi

testuale, l’interpretazione delle immagini di particolari luoghi e paesaggi, la valutazione dei

comportamenti…

Se questi sono in sintesi i punti di partenza della corrente umanista, il suo riferimento

filosofico prevalente non può che essere quella parte della fenomenologia husserliana che si

basa sull’indagine e sulla descrizione del mondo cosi come lo sperimentiamo originariamente,

305 Interessante è al riguardo l’analisi che fa Cosgrove (1990, pp.33-53) nei confronti dell’idea di paesaggio. 306 Sono gli stessi anni in cui Simon definisce “l’uomo limitatamente razionale” (bounded rational man) che, contrariamente all’homo oeconomicus obiettivamente razionale che “tra le alternative a disposizione… [sceglie sempre]… quella che comportava la massima utilità”, non è in grado di trovare “l’alternativa migliore in assoluto, ma può cercare di soddisfare i suoi bisogni solamente in modo soddisfacente”. O meglio, “di fronte ad una situazione di scelta nella quale è impossibile ottimizzare, o dove il costo in termini di calcolo per farlo sembra oneroso, il soggetto di decisione può cercare un’alternativa soddisfacente anziché ottimale”. Si veda Simon (1957; 1982/97; 2000, pp.3 e 33). 307 Stimolanti sono, al riguardo, le proposte di Frèmont (1978) e di Isnard (1981); due geografi che, pur non potendo essere definiti umanisti a pieno titolo, presentano delle interessanti valutazioni circa i rapporti uomo/luogo e società/territorio.

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direttamente e immediatamente, lasciando a parte pregiudizi e presupposizioni308. La

fenomenologia cerca, infatti, di dare le basi alla relazione tra lo scientifico ed il pre-scientifico,

il teoretico ed il quotidiano ed il suo metodo, come nota Martin Heidegger, non comporta:

“l’assunzione né di un punto di vista né di una direzione, perché la fenomenologia non è nessuna di queste cose e non può divenirlo almeno finché sia consapevole di sé stessa… “Fenomenologia” non indica né l’oggetto delle sue ricerche né la sua pura presenzialità. La parola si riferisce esclusivamente al come del processo mostrante ed al modo di trattazione di ciò che in questa scienza deve essere trattato” (Heidegger, 1953, pp.38 e 45). Il suo scopo era chiarire il modo di essere delle esperienze originarie per rendere esplicite

quelle strutture di significato su cui le scienze costruiscono le loro particolari teorie sul mondo.

Strutture di significato che sono, in qualche modo, già implicite nel mondo dell’esperienza

quotidiana, cui le intuizioni della scienza devono in linea di principio essere ricondotte e da cui

esse originariamente sono derivate.

La sua intuizione fondamentale è che la coscienza non è in nessun modo una sfera

chiusa in sé, nella quale le sue rappresentazioni sono incluse come in un mondo interno

proprio: al contrario, essa è, in base alla propria struttura essenziale, già da sempre presso le

cose (Gadamer, 1994, p.7). La sua missione intellettuale:

“è volta al recupero della sfera soggettiva della coscienza, detta mondo-della-vita (Lebenswelt), un ambito “pre-categoriale” e “a-prioristico”, luogo delle attività “intenzionali” (psichiche) del soggetto” (de Fanis, 2001, p.19). Se interpretiamo la coscienza/conoscenza come un modo particolare con cui l’uomo vive

e si orienta nel mondo, non ha senso concepirla come un processo attraverso cui il “soggetto”

crea “per ed in se stesso” una rappresentazione di qualcosa che è “fuori” del soggetto

conoscente. Allo stesso modo non ha senso chiedere come queste rappresentazioni possano

armonizzarsi con la “realtà esterna alla coscienza”. Come appunto afferma E. Usserl:

“Il mondo-della-vita è il regno delle evidenze originarie. Ciò che è dato in modo evidente è, a seconda dei casi, esso stesso dato nella percezione, e cioè esperito nella sua presenza immediata, oppure è ricordato nella memoria… qualsiasi modo di induzione ha il senso di un’induzione di qualcosa che è intuibile, di qualcosa che è possibile percepire in persona o ricordare in quanto già-stato-percepito… Il sapere scientifico-obiettivo si fonda sull’evidenza del mondo-della-vita… Il mondo in quanto mondo-della-vita ha già in via pre-scientifica le stesse strutture che le scienze obiettive presuppongono” (Husserl, 1961, pp.156, 159 e 167). Da ciò che è stato detto, si può intuire che questa base fenomenologica non è costituita

dalla ricerca geografica, ma è rivelata e recuperata da questa: “i geografi amano non solo

308 È dai primi anni ’70 che alcuni geografi nordamericani cominciarono a riferirsi esplicitamente alla fenomenologia. Sulla rivista Canadian Geographer sono apparsi i due articoli a firma di Relph (1970) e Tuan (1971) che per primi lanciarono l’idea di un possibile utilizzo dell’approccio fenomenologico in ambito geografico. Questi due primi accenni –ed indipendentemente da loro– sono seguiti nel 1972 dal lavoro di Mercer Powell, due australiani, a cui si deve il primo ed importante trattato che lega i modo sistematico i due termini. Nel 1976, sulla rivista ufficiale dei geografi statunitensi sono apparsi, assieme sul medesimo fascicolo, i due basilari lavori di Tuan (1976°) e di Buttimer (1976) cui è seguita la discussione a tre, tra Relph (1977), Tuan (1977), e Buttimer (1977), con cui generalmente si fa datare il sistematico riferimento della Umanistic Geography alla fenomenologia.

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scoprire dove certe cose o luoghi sono localizzati, ma amano anche scoprire come ci si sente in

particolari circostanze” (Tuan, 1989a, p.233).

Gli oggetti dell’indagine del geografo umanista –il senso e la sacralità del luogo, la

territorialità, il genuis loci…– sono quelle esperienze fondamentali, che derivano da una

conoscenza/coscienza geografica prescientifica. Una conoscenza geografica che: “si trova nelle

esperienze dirette e nella conoscenza che noi abbiamo del mondo in cui viviamo” (Relph, 1976,

p.4). In quanto, come già ricordava David Lowenthal (1961, p.242): “chiunque esamini il

mondo intorno a sé è in qualche misura un geografo”. Di conseguenza, la geografia

accademica, scientifica diventa uno specchio per quest’esperienza umana fondamentale309.

Questo perché attraverso la fenomenologia i geografi umanisti vogliono sottolineare

l’importanza di una costante critica nei confronti del positivismo dogmatico, come pure di ogni

apriorismo razionalistico idealistico:

“il messaggio della filosofia husserliana è che si deve sviluppare una prospettiva veramente critica; dobbiamo esaminare incisivamente i processi e le assunzioni dei nostri stessi pensieri circa particolari fenomeni, ed imparare ed identificare e rendere espliciti i differenti modi nei quali i vari fatti del mondo oggettivo possono essere interpretati” (Mercer Powell, 1972, p.14).

Ed ancora, la geografia umanista riguarda i fenomeni che non possono essere meramente

osservati, misurati, catalogati ma che devono essere vissuti per essere colti come essi sono

veramente:

“Quale è il ruolo del sentimento e del pensiero per quanto concerne l’attaccamento al luogo?… in che modo la qualità dell’emozione umana e dei pensieri dia al luogo una serie di significarti umani, inimmaginabili nel mondo animale… il ruolo dei concetti e dei simboli nella creazione dell’identità del luogo” (Tuan, 1976a, p.269).

In questo modo il compito della geografia umanista –attraverso il suo principale approccio

la fenomenologia310– diviene quello di investigare sugli strati reconditi del comportamento

umano connettendosi, per rivelare l’esperienza geografica quotidiana, a quelle forme

dell’espressione umana che colgono l’esperienza nella sua immediatezza: l’arte e la letteratura.

Così, usando le parole di Edward Relph (1981b, pp.109-110), uno dei capifila della geografia

umanista:

“la geografia [umanista] come corpo formale della conoscenza presuppone le nostre esperienze geografiche del mondo. In altre parole, la geografia [umanista] ha un fondamento sperimentale o fenomenologico. Concetti come spazio, paesaggio, città, regione, hanno per noi un significato in quanto li possiamo rapportare alle nostre esperienze dirette di questi fenomeni. Viviamo in un mondo fatto di edifici, strade, giorni di sole o di pioggia e di altre persone con le loro gioie e i loro problemi e siamo intersoggettivamente a conoscenza di cosa significhino queste cose e questi avvenimenti. Questo mondo pre–intellettuale, o mondo-di-vita, è oggetto della nostra esperienza vissuta non come un insieme di oggetti in qualche modo distinti da noi e fissato nel tempo e nello spazio, ma come un insieme di relazioni dinamiche e altamente significative. Vale a dire che gli altri, gli oggetti, i diversi tipi di scenari, l’architettura e i luoghi ci importano tutti in modo

309 Si vedano, al riguardo, le riflessioni di Relph (1976, pp.3-7). 310 Circa i modi in cui i geografi hanno inteso o frainteso il rapporto tra fenomenologia e scienza si veda l’interessante volume di Pickles (1985).

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più o meno rilevante; siamo interessati ad essi e per noi contano… E’ il mondo stesso esperito come scenografia, un’onnipresente fondale delle nostre vite; ma è nel frattempo il contesto costante e inevitabile delle nostre vite che condiziona le nostre attività e s’intrufola in innumerevoli modi nei nostri pensieri”.

7.3.5. Gli strumenti della Geografia Umanista311.

La sfida, proposta dalla geografia umanista, sta quindi nell’individuare i modi con cui ai

territori, ai luoghi o ai paesaggi che ci circondano e fanno parte della nostra esistenza vengono

attribuiti nomi, valori e significati e così, definiti e fatti emergere dalla “complessità fisica

originaria” dello spazio terrestre, diventano, a pieno titolo, parte integrante della nostra vita e

della nostra esistenza.

Le antiche società tradizionali (nomadiche o sedentarie, legate –per usare un concetto

dardelliano312– alla “geografia mitica e profetica”) fondavano il loro “sapere territoriale”, le

proprie pratiche territorializzanti con i valori ad esse connessi, nel mito, nel magico o nella

religione e costruivano i loro territori radicando –per usare un termine wrightiano313– una vera

e propria geo-pietas. Ora la moderna società occidentale, da tempo secolarizzata e sempre più

atomizzata, fonda i propri valori principalmente sull’immaginazione che, probabilmente,

rappresenta il principale –se non l’unico– potere della natura umana capace non solo di

mediare tra i paesaggi interiori –i “paesaggi dell’anima”– e quelli esteriori legati all’artificio

umano, ma anche di farli coincidere e di produrne di nuovi.

Per interpretare il moderno “sapere territoriale”, la nostra geo-pietas, vi sono due

importanti strumenti di studio che, con questo filone di pensiero, hanno riaffermato la loro

forza e capacità: la descrizione e la narrazione.

La descrizione, ed in particolare quella scritta, ha sofferto di una pessima nomea con le

critiche derivanti dalla “geografia teoretico-quantitativa”: veniva giustamente e

spregiativamente definita semplice descrizione. Con la Geografia Umanista comincia invece ed

essere vista come un metodo più potente, più sottile, più analitico di quanto presumevano i

suoi critici e la metafora spaziale più importante non è più quella di modello o di sistema ma

quella di testo. Così alle frasi “paesaggio come testo” e “leggere un paesaggio” si comincia a

dare un significato sempre più preciso, chiaro e scientifico.

Dall’espressione “semplice descrizione” ci si è però spostati verso quella di “densa

descrizione”, “thick description”. Termine questo utilizzato dall’etnografo Clifford Geertz, come

311 Il significato che qui si vuole dare al termine strumento inteso come “una creazione del pensiero scientifico,o, meglio ancora, la realizzazione cosciente di una teoria” è derivato da Koyré (1967, pp.100-111, la citazione è di p. 106); si veda anche Betti (1981). 312 Dardel (1986, pp.47-80) definisce un’interessante Storia della Geografia la cui periodizzazione è legata al “risveglio di una coscienza geografica, attraverso le diverse angolazioni nelle quali all’uomo è apparso il volto della Terra... Una storia di questo tipo ha senso soltanto se si è compreso che la Terra non è un dato bruto da prendere come “si da”, ma che da sempre tra l’Uomo e la Terra si inserisce un’ interpretazione, una struttura ed un “orizzonte” del mondo, una “illuminazione” che mostra il reale, una “base” a partire da cui la coscienza si sviluppa” (p.47). 313 Geopietà (geo-pietas) è un termine coniato –come geosofia– da Wright (1966c), per indicare quel complesso di relazioni e legami emotivi -attaccamento, reverenza, amore- che si stabiliscono tra l’uomo, o meglio un gruppo definito, ed il suo territorio. Estremamente interessante e significativa è la ripresa che ne fa Tuan (1976c).

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tentativo di dare senso ai complessi strati di significato dei riti culturali descrivendoli in

dettaglio da diversi punti di vista: situando cioè i loro testi nei termini di diversi contesti314.

Secondo Clifford Geertz il conferimento di significato –nel nostro caso– ad un territorio ad un

tipo di luogo o paesaggio è il fatto primario dell’azione sociale, pur se compiuta da singoli, e

deriva dalla stessa organizzazione sociale. Il significato di quell’azione è legato alla cultura del

gruppo e questa ultima consiste in strutture di significato socialmente stabilite, nei cui termini

le persone fanno cose: nel nostro caso producono un preciso territorio, organizzano un luogo o

definiscono un paesaggio. Per questo, sempre secondo Cliffort Geertz (1987, p.67), il compito

dello scienziato sociale:

“è di scoprire le strutture concettuali che informano gli atti dei nostri soggetti, il ‘detto’ del discorso sociale, e costruire un sistema di analisi nei cui termini (ciò che è pertinente a quelle strutture, ciò che appartiene loro perché sono quello che sono) risalterà sullo sfondo di altre determinanti del comportamento umano”. In questo modo, dal punto di vista del geografo, non è l’unicità315 delle “strutture

concettuali” –intese come rapporto società/territorio, uomo/luogo, cultura/paesaggio– ad

essere studiata e discussa ma la loro specificità, cioè la loro singolarità, definita nel contesto di

un sistema di riferimento generale. Nello specificare il profondo, ma nello stesso tempo

ambiguo, significato di tali “strutture concettuali” le “dense descrizioni” spesso equivalgono alle

narrazioni. In questo modo la narrativa, come descrizione, è stata recuperata quale ottimo

strumento per la comprensione di quelle strutture concettuali geografiche rappresentate dai

legami società/territorio, uomo/luogo, cultura/paesaggio. Da ciò è facile intuire le ragioni

dell’accettazione dell’artista, dello scrittore nel ruolo di abile intermediario capace di decifrare

le complesse simbologie umane insite nei territori, nei luoghi o nei paesaggi che,

metaforicamente paragonati ad un testo, si rivelano un’intricata massa di “soggetto e oggetto,

personale e sociale” (Cosgrove, 1990, p.34).

La narrativa, e più in generale la letteratura, offre infatti un valido punto di ancoraggio

per la comprensione dei processi di terriorializzazione situandosi fra il punto di vista obiettivo,

cioè quello dell’outsider (spazio come localizzazione o studio delle pratiche sociali), e quello

soggettivo, cioè quello dell’insider (spazio come conoscenza o coscienza di far parte di un

gruppo)316. Narrare il luogo implica configurare, evidenziare, gli oggetti e gli eventi rilevanti,

tracciando, nel senso temporale, il loro profondo, radicato, significato territoriale: le humanae

litterae con la loro capacità di dilatare l’esperienza, riassumere preferenze, modi di

314 E’ questa una terminologia che Daniels e Cosgrove attingono -credo per primi in campo geografico- dall’etnografo Geertz (1987, pp.39-71), che identifica un procedimento descrittivo molto approfondito, atto a chiarificare le più complesse stratificazioni del significato dei riti culturali dei gruppi sociali. Si veda, oltre l’introduzione, i vari saggi che compongono il testo di Cosgrove Daniels (1988). 315 Di quei tanto deprecati mondi possibili, unici ad irripetibili della Scuola Possibilista di Vidal de La Blache, ma anche delle “aree culturali” o dei “paesaggi culturali” della Scuola Culturalista di Berkeley di Sauer. 316 Circa i rapporti Geografia-Letteratura esiste ormai una cospicua bibliografia ben analizzata da Lando (1993; 1996). Si vedano anche: Brosseau (1994); Pocock (1979; 1981a; 1981b; 1988); Porteous (1985); Salter Lloyd (1977); Salter (1978); Tuan (1974; 1976b; 1978°); Vallerani (1996).

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organizzazione e conoscenze ambientali permettono di vedere più a fondo le complesse

relazioni dell’esperienza ambientale317.

Così, secondo i geografi umanisti, l’arte in genere e la letteratura in particolare, con la

loro possibilità di rappresentare in modo suggestivo le geografie personali, hanno la capacità di

porre ordine nel nostro caotico modo di vedere e percepire la realtà:

“la letteratura come le altre forme dell’arte, ha il potere di rendere vivide le immagini, dei nostri sentimenti e delle nostre percezioni, che normalmente appaiono confuse… La letteratura apre su altre esperienze intensamente umane e presenta differenti prospettive della struttura della realtà. Può far sorgere delle domande e portare a formulare nuove ipotesi” (Tuan, 1976b, pp.268 e 272). La letteratura, quale strumento per elaborare una “densa descrizione” della relazione tra

gli uomini e i luoghi (territori o paesaggi), non si esaurisce quindi in una semplice riproduzione

della realtà, bensì si configura in una costruzione logico-concettuale che ne identifica le

relazioni più occulte e quelle che, pur palesi, passano inosservate perché sempre “sotto gli

occhi”. Riordinando con gran sensibilità ciò che del mondo ci appare confuso, il testo letterario

svela un ulteriore portentoso potere generativo, individuato da tutti quegli inediti nessi

concettuali e relazioni che un tale nuovo ordine può condurci a decifrare e carpire tra gli

innumerevoli eventi del reale318.

Sarà così possibile trasporre l’esperienza artistica sul piano scientifico per utilizzarla come

fonte inestinguibile di dati concreti e “vissuti” dell’esperienza umana sul territorio.

7.3.6. Paesaggio e luogo nell’interpretazione della geografia umanista.

Paesaggio e luogo, landscape e place, paysage e lieu rappresentano i termini chiave, gli

elementi base della geografia umanista.

Il Paesaggio è stato ripreso ed analizzato cercando di interpretarlo non tanto in funzione

della sua capacità descrittiva quanto in base all’ideologia di cui è permeato con i valori e

significati ad essa pertinenti. Alcuni studiosi, geografi umanisti di scuola prevalentemente

inglese319, hanno ripreso il vecchio concetto del Paesaggio Culturale della scuola saueriana

caricandolo di nuovi significati320. Per Denis Cosgrove, il capofila del gruppo, il paesaggio si

presenta come un sofisticato “concetto ideologico” in quanto capace di rappresentare:

“un modo in cui certe classi di persone hanno significato sé stesse ed il loro mondo attraverso la loro relazione immaginata con la natura, e attraverso cui hanno sottolineato e comunicato il loro ruolo sociale e quello degli altri rispetto alla natura esterna” (Cosgrove 1990, p.35).

317 Si veda al riguardo il divertente intervento di Lowenthal (1976). 318 Una messa a punto delle metodologie utilizzanti la letteratura per interpretare fatti territoriali si può trovare in Lando (1993; 1996) e de Fanis (2001); per una loro applicazione dal punto di vista didattico si vedano i saggi raccolti in Lando Voltolina (2005). 319 Questi fanno prevalente riferimento al materialismo storico più che alla fenomenologia husserliana; si vedano i lavori di Daniels (1985; 1989). 320 Circa la ripresa del Paesaggio Culturale attribuendole “nuovi valori” si veda: Cosgrove (1978; 1983; 1987; 1989°; 1990; 2000); Daniels (1985; 1989) e Cosgrove Jackson (1987). Per un’interpretazione dei mancati rapporti fra la scuola di Berkeley e la geografia inglese si veda l’articolo di Jackson (1980).

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Così quest’idea di paesaggio, emersa come dimensione della coscienza di una precisa

formazione sociale, ha espresso e sostenuto una serie di assunzioni politiche, sociali e morali

ed è stata accettata come un aspetto importante del “gusto del paesaggio”321. Da ciò deriva

che non è sufficiente analizzare il paesaggio solo nei suoi aspetti “visivi”, quelli cioè legati alle

componenti naturali (le condizioni ambientali, climatiche, morfologiche) ed alle attività

economiche322 (la cultura materiale del gruppo che l’ha formato), sono invece i valori, le

rappresentazioni, i significati ed i vari processi sociali che li ricoprono e si sovrappongono che

assumono una considerazione sempre più importante:

“Nell’odierna geografia culturale, il paesaggio si è affermato come espressione di significati umani. La scena visibile e le sue varie rappresentazioni sono ritenute elementi portanti dei complessi processi individuali e sociali per cui gli uomini trasformano continuamente il mondo naturale in regni culturali intessuti di significati ed esperienze vissute” (Cosgrove 2000, p.40).

Eloquente al riguardo è la definizione di paesaggio che ne dà lo stesso Denis Cosgrove:

“composto di tre elementi: i caratteri fisici e tangibili di un’area... le attività misurabili dell’uomo; i significati o simboli impressi nella coscienza umana”323. E’ appunto la terza dimensione, il significato simbolico, che questo gruppo di studiosi

cercherà sempre di analizzare in quanto è essa che dà al paesaggio una precisa connotazione

sia ideologica sia artistica. Quella artistica è, poi, la seconda connotazione -dopo l’ideologica-

che essi analizzeranno nel paesaggio:

“un paesaggio è un’immagine culturale, un modo figurato di rappresentazione, una strutturazione o simbolizzazione di ambienti... un parco è sì più tangibile ma non è né più reale, né meno immaginario di un paesaggio dipinto o presente in un’opera letteraria” (Daniels Cosgrove, 1988, p.1). La definizione di paesaggio come composta di tre elementi, che Denis Cosgrove fa sua, è

stata prima elaborata da Edward Relph324 e da lui in seguito usata esclusivamente per definire

il luogo: il place dei geografi umanisti di indirizzo fenomenologico che hanno quasi totalmente

abbandonato l’utilizzo del termine landscape. Termine che è estremamente raro trovarlo citato

nei loro lavori: molto probabilmente perché visto come indissolubilmente connesso al cultural

landscape, elaborato dalla scuola di Berkeley, modellato sul concetto kroeberiano di

superorganico. Si ha quasi la sensazione che questo gruppo di studiosi abbia proceduto ad una

321 Sul significato del termine “gusto del paesaggio” si veda Lowenthal Prince (1964; 1965). 322 Sono i due elementi fondamentali sia dei “paesaggi agrari” degli storici del paesaggio sia dei “paesaggi umani” della scuola vidaliana sia dei “paesaggi culturali” di quella saueriana. 323 Questa definizione appare, a p.86, nel terzo capitolo dell’edizione italiana di un libro di Gold (1985); un capitolo la cui stesura, nell’edizione originale inglese (1980), è chiaramente attribuito a Cosgrove. Per una sua interpretazione si veda Lando (2003; 2005). 324 Secondo Cosgrove questa definizione di paesaggio è presa dalla Tesi di Ph.D. di Relph, si veda il riferimento bibliografico a p.86 del testo di Gold (1985). Occorre però ricordare che una definizione analoga Relph nel suo Place and Placelessness (1976), il libro legato sostanzialmente alla sua Tesi di Ph.D., la riferisce -più congruamente con il suo approccio fenomenologico- al concetto di “place”: si veda alle pp.46-49. E’ ben vero che egli, uno dei pochi geografi umanisti ad indirizzo fenomenologico, si interessa anche di paesaggio ma si riferisce, quasi sempre, all’ urban landscape cercando di interpretarlo, secondo l’approccio fenomenologico, studiando le eventuali placelessness (Relph 1981a; 1987) o considerando che “landscapes and places are the contexts of daily life” (Relph 1989, p.149).

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110

sorta di “rimozione” del vocabolo “landscape” attuando poi un “ritorno del rimosso” attraverso

il vocabolo “place”.

Luogo è quindi il secondo termine utilizzato da queste scuole di pensiero. Di per sé, è una

parola molto usata nella lingua corrente, nel linguaggio della quotidianità. In questo contesto

non ha un significato particolare in quanto rappresenta tutto ciò entro cui siamo inseriti:

l’ambiente in cui ciascuno vive la propria quotidianità o meglio, per dirla in termini

fenomenologici, rappresenta il nostro “mondo-della-vita” il nostro “regno delle evidenze

originarie”. Ad esso non è mai stato attribuito un preciso valore scientifico, è assimilabile al

vocabolo “cosa”: ogni luogo è un luogo allo stesso modo in cui ogni cosa è una cosa. Ma, come

nota Armand Frémont325 facendo del lieu la trama elementare del nostro spazio vissuto, i

letterati:

“la caricano di una banalità che sappiamo poter essere, ai nostri giorni, la più preziosa delle raffinatezze” (Frémont 1978, p.99).

Il luogo, nota poi Yi-Fu Tuan (1978b, p.92):

“ha un contenuto più profondo di quanto suggerisca la parola localizzazione; è un’entità unica, un ‘insieme speciale’, ha storia e significato”.

E’ un elemento essenziale della strutturazione dello spazio della nostra quotidianità:

“concerne uno spazio ridotto, ma ben definito e non senza qualche estensione: la casa, il campo, la via, la piazza... Esso associa gruppi di piccole dimensioni ma di forte coesione: stessa famiglia, stesso mestiere o stesse frequentazioni quotidiane. Esso implica una grandissima personalizzazione delle percezioni spontanee, con nette delimitazioni, con confini senza equivoci” (Frémont 1978, p.95).

Su di esso è fissata l’esperienza e l’aspirazione di un gruppo fortemente solidale e strettamente

coeso ed è formato da tratti fisici ed elementi cultuali:

“[come] una personalità umana è una fusione di disposizione naturale e tratti acquisiti... [così]... la personalità del luogo è composta da proprietà naturali (la struttura fisica del suolo) e dalle modificazioni prodotte dalle successive generazioni degli esseri umani” (Tuan 1978b, p.117). Di fatto, pur nella diversità dei loro orientamenti filosofici, questi due indirizzi della

Geografia Umanista sono legati dal desiderio di interpretare e capire i diversi valori, simboli e

significati che le varie società hanno dato o impresso sul luogo/paesaggio.

Ne consegue, quindi, che il luogo/paesaggio viene considerato la struttura territoriale

fondamentale da interpretare, secondo la definizione di Relph-Cosgrove, come composto di tre

elementi: una base naturale (lo statico scenario) su cui è organizzata una struttura socio-

325 Frémont è il capofila di quel filone del pensiero geografico francese che, studiando “le geografie della quotidianità”, si è riferito allo “spazio vissuto”. I termini che loro comunemente usao sono stati “lieu” “espace géographique” e “région” e, quasi mai, paysage. Si tratta di un tipo di interpretazione per molti versi estremamente vicino –pur non avendo riferimenti filosofici comuni– alle due posizioni dominanti della geografia umanista anglofona. Di lui si veda l’importante lavoro La région espace vécu, titolo impropriamente tradotto in italiano con La regione uno spazio per vivere; importanti sono anche i suoi due interventi (1980; 1990) ed il volume collettaneo Frémont Gallais Chevalier Bertrand Metton 1982.

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economica (le molteplici attività umane) ed un insieme di significati e simboli (il genuis loci ed i

simboli ad esso connessi) impressi dalla cultura della società che ivi opera326.

Il primo di questi esprime lo statico scenario naturale327 su cui ogni società opera. È

formato dai caratteri fisici e tangibili di un’area e comprende tutte le proprietà naturali (tipi di

suoli, clima...) di un determinato luogo/paesaggio; proprietà che dipendono dalla sua posizione

in un ambito ben preciso. Rappresenta, cioè, la complessità originaria propria di quella parte

della superficie terrestre328.

Il secondo riguarda le attività dell’uomo, cioè le molteplici attività umane legate alla

cultura materiale329, che appaiono come una struttura unitaria. Essendo relative alle capacità

tecnico-organizzative del gruppo ed ai bisogni di sopravvivenza e di riproduzione, sono

sostanzialmente sintetizzabili nella referenzialità originaria e nel processo di reificazione330.

Nei confronti di una qualsiasi alterità questi due primi elementi appaiono come una

complessa struttura coerente avente valore per l’unitarietà di funzionamento conferita. La loro

intima connessione –il luogo/paesaggio risultante– definisce non solo il risultato esteriore e

tangibile dell’agire collettivo di un gruppo sociale coeso ma rappresenta anche la basilare

condizione riproduttiva di quell’agire, in quanto possiede le caratteristiche sostanziali della

logica sociale -il processo di territorializzazione- che l’ha formato e ne garantisce

l’evoluzione331. Fondamentalmente si tratta dei due indispensabili ed unici elementi su cui si

basavano gli studi dei Paesaggi agrari sia della geografia possibilista332 sia dei tradizionali

storici del paesaggio da Marc Bloch (1973) ad Emilio Sereni (1976).

Ma è con il terzo elemento, i significati ed i simboli (che la cultura non materiale ha

impresso sui due precedenti), che si raggiunge la piena dominanza politico-culturale:

sintetizzabile nella referenzialità riflessa e nel processo di strutturazione333. Sono i significati ed

simboli che rendono i due elementi precedenti interpretabili attraverso il pensiero e quindi

326 Si tratta di “the static physical setting, the activities, and the meanings” così come sono stati definiti da Relph (1976, p.47); si vedano al riguardo anche Gold (1985) e Lando (2001). 327 Richiamandoci alla “Teoria geografica della Complessità” elaborata da Turco: all’enunciato statico scenario naturale non qui si vuol certo dare il significato di immutabilità intrinseca dell’ambiente ma si vuole significare come quell’ambiente “è sottomesso alle procedure di ogni oggettivazione umana” e si dà quindi un contenuto aleatorio e non causale a “quella particolare relazione che lega il comportamento collettivo alla naturalità della superficie terrestre” (Turco, 1988, p.58). Non voglio qui attribuire alla Teoria Geografica della Complessità un’impropria etichetta “umanista” d’impianto fenomenologico. Mi interessa solo utilizzare, data la sua solidità e completezza, alcuni dei suoi strumenti interpretativi allo scopo di far meglio comprendere la struttura delle connessioni esistenti tra i tre elementi relativi alla definizione di paesaggio di Relph-Cosgrove. 328 Sulla valenza e sul significato degli elementi fisici per il processo di territorializzazione si veda Turco 1988, pp.57-66. 329 Circa il termine cultura materiale si veda il lemma dell’Enciclopedia Einaudi curato da Bucaille Pesez 1978. 330 “Referenzialità originaria” e “processo di reificazione” così come sono stati definiti da Turco 1988, pp.79-105; 1994. 331 Ed è sotto quest’aspetto che, nonostante i differenti approcci filosofici, è possibile qui far riferimento alla“Teoria geografica della Complessità” elaborata da Turco. 332 Questi due primi elementi (ambiente naturale e cultura materiale) sono stati a lungo studiati, nella loro unitarietà, dalla disciplina in quanto rappresentano la struttura fondamentale dei lavori legati al pensiero geografico vidaliano, si veda al riguardo l’ottimo e monumentale lavoro di Sorre (1951-52), e la precisa analisi dell’opera vidaliana fatta da Buttimer 1971 e Berdoulay 1981. E’ bene ricordare che la scuola possibilista, negli studi relativi alle regioni ai paesaggi o ai generi di vita, si è sempre riferita alle pratiche agricole tanto che M.Sorre (1951-52, vol.3, p.13) afferma nettamente che “Les éléments spirituels comptent à côté des éléments matériels, plus accessibles”. 333 Per referenzialità riflessa e processo di strutturazione si veda Turco (1988, pp.84-93 e 106-134; 1993).

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attribuibili ad un preciso processo di territorializzazione: la mia personalità appare dall’insieme

unitario della mia casa che rappresenta il mio luogo; la gamma delle relazioni economico-

politiche definiscono i vincoli di appartenenza fra la società ed il proprio territorio; l’inscape, il

genuis loci ed i significati propri della cultura non materiale radicati nel paesaggio ne danno

una precisa valenza estetico-culturale. Si tratta cioè di elementi che non appartengono alla

parte esteriore, visiva del luogo/paesaggio ma alla sua espressione simbolico-culturale

attraverso la quale si manifesta lo spirito, il senso, la sacralità. È attraverso essi che si può

definire e spiegare il radicamento territoriale: quell’identità collettiva che rende esplicita una

precisa volontà di possesso, con tutte le azioni e rivendicazioni territoriali ad essa collegate,

con cui è facile definire l’idea di Nazione, il concetto di Heimat e di Patria.

È chiaro però che questi tre elementi –lo scenario fisico, le attività ed i significati– sono

considerati inseparabilmente intrecciati nelle nostre esperienze. Sono sempre pensati in stretta

relazione tra loro in quanto esprimono, ma anche sono espressione, sia del palinsesto dei

valori passati sia del dispiegarsi di quelli attuali. Per questo è possibile, nota Edward Relph

(1976, p.48) “che essi costituiscano una serie di processi dialettici formanti una struttura

comune” e che siano quindi questi “dialectics” che definiscono e costituiscono, nel loro vario

combinarsi, l’identità di quel luogo o paesaggio. Poiché:

“il paesaggio è la geografia compresa come ciò che è intorno all’uomo... piuttosto che essere un contrappunto referenzialità riflessa e nel processo di strutturazione di dettagli pittoreschi, il paesaggio è un insieme: una convergenza, un momento vissuto” (Dardel 1986, p.33). Nella sua sostanza il luogo/paesaggio rappresenta l’inserirsi dell’uomo e della società, con

il suo agire e pensare, nel mondo: rappresenta la base della lotta per la vita, la

territorializzazione del suo essere sociale, la manifestazione del suo rapportarsi agli altri. Ma

ancora di più, appunto per la pluralità delle sue valenze, esso – continuando poi il discorso con

Eric Dardel (1986, p.35)– presuppone:

“una presenza dell’uomo, anche là dove essa prende la forma dell’assenza. Essa parla di un mondo in cui l’uomo realizzava la propria presenza come esistenza circospetta e indaffarata”. Non si guardano i vari luoghi/paesaggi -sia naturali sia agrari sia culturali come il Grand

Canyon o le Dolomiti, gli openfield o le enclosures, Stonehenge o Venezia- per quello che sono

in quanto composti di materialità o definiti da manufatti ma per i significati ed i valori che sono

stati ad essi attribuiti.

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8 – Il concetto di regione.

Quando si cerca di dare un senso preciso alla parola ‘regione’, o ancor più al concetto ’regione’, il conflitto tra il linguaggio scientifico e quello comune si esaspera. Pierre Gorge, Dictionnaire de Géographie, p. 360 Ben pochi concetti sono così equivoci come quello di regione Jean Labasse, L’organisation de l’espace. Éléments de Géographie Volontaire, p. 397.

8.1 – Premessa.

Cosa s’intende esattamente per regione? E’ un’entità che esiste già “di per sé” sul

territorio, oppure è semplicemente una categoria descrittiva? Perché ha da sempre occupato (e

non cessa di occupare) un ruolo così importante nella geografia? Possiamo ora parlare di

regione, e qual è il suo significato? A queste domande tenteremo di dare risposta in questo

capitolo, cercando di definire il concetto di regione, o meglio di capire prima che cosa evoca

comunemente questo termine, per analizzare in che modo esso si sia evoluto nella storia del

pensiero geografico ed infine analizzare il caso delle “regioni amministrative” italiane.

8.2 – L’ambiguità del concetto di regione.

Elaborare una definizione precisa del concetto di regione non è cosa facile:

“chi si avvicina all’ampia letteratura prodotta su questi argomenti – soprattutto all’inizio del secolo – deve districarsi tra una terminologia estremamente varia, anche per le qualificazioni attribuite alla regione (regione naturale ed umana, regione storica, regione economica, urbana, omogenea, uniforme, semplice, funzionale, e così via) e non tarda a constatare che stessi termini assumono significati diversi – e talora anche sostanzialmente divergenti – non solo con il volger delle epoche, ma anche a seconda degli autori di una stessa epoca, e che tutto ciò riflette spesso confusione concettuale” (Vallega, 1983, p.7).

L’ambiguità che accompagna il concetto di regione ha dunque come causa principale una

certa polisemia, accentuatasi nel corso dei decenni con lo sviluppo del pensiero geografico, in

seguito alle esigenze che di volta in volta portavano a modificare il concetto stesso di regione,

tanto che Angelo Turco (1984, p.9) la definisce come:

“un recettore spugnoso della riflessione scientifica contemporanea, un luogo polimorfo in cui speranze degli uomini ed ambizioni del potere, viver minuto e prospezioni sofisticate, senso comune e sapere scientifico assai differentemente qualificato, s’incrociano e convivono spesso nel segno d’una insidiosa ambiguità”.

Ancora, Roger Brunet (1984, p.47), sottolineando la confusione generata dalla polisemia

intrinseca al termine ‘regione’, scrive:

“il significato stesso delle parole è cambiato molto e quindi gli strumenti del linguaggio esigono una nuova definizione. Ma vi è qualcosa di più grave: anche i concetti sono confusi. Spazio, regione, territorio sono oggetto di variazioni polifoniche, dove il rumore ha la meglio sull’armonia; il termine ‘classe’, dal canto suo, aggiunge nuove discordanze. La regione diventa classe, struttura, holon, sistema o illusione?… All’origine dei numerosi dibattiti vi sono forse confusioni

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involontarie dovute alla polisemia di queste parole, oppure confusioni meno innocenti?”.

Questa confusione concettuale lamentata dai vari autori, credo sia concretamente

sperimentabile su ciascuno di noi; basta provare a pensare, nel modo più banale, a ciò che il

termine “regione” evoca comunemente nel nostro immaginario. La prima immagine che la

maggior parte di noi richiamerà alla propria mente sarà probabilmente una colorata carta

geografica del nostro Paese –la stessa che spesso si è soliti vedere appesa in classe– ove

campeggiano le sagome ben definite delle regioni istituzionali, come tante variopinte tesserine

di un puzzle a noi ormai piuttosto familiare: Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia-

Giulia, Toscana, Lazio… Se riproponessimo la stessa domanda ad uno studente straniero –

statunitense poniamo– sicuramente non si troverebbe d’accordo noi: ci parlerebbe, pensando

al suo Nord America, di “regione dei Laghi”, di “regione delle Grandi Pianure”, di “regione

Mormone”, di “regione cotoniera”… o ancora, rifacendosi ad atlanti e testi scolastici, di “regione

artica”, “regione tropicale”, e così via – tutto cioè tranne che la nostra “cara” e familiare

regione amministrativa. E certamente non gli potremmo dare torto: in fondo –diremmo– anche

lui ha ragione. Pensandoci bene, infatti, pure noi siamo soliti parlare di “regioni montuose”, di

“regioni pianeggianti”, di “regione mediterranea” ma anche di “regioni agrarie”, di “regioni

industriali”….

Non solo: la geografia classica (determinista o possibilista) parlava di regioni naturali,

quando la parte della superficie terreste veniva analizzata dal punto di vista dell’omogeneità

dei caratteri fisici, e di regioni geografiche, o meglio regioni umanizzate, quando veniva data

importanza alle attività dell’uomo. Distinzione questa che poteva generare non poca confusione

se il termine regione veniva confuso con quello di paesaggio:

“È comune, per es., l’affermazione che l’Italia, chiusa con le sue isole tra le Alpi ed il mare , costituisca una ottima regione naturale. Ma benché essa abbia su quasi tutto il suo perimetro, buoni confini ‘naturali’, segnati cioè dalla natura, e benché su tutto il suo territorio si verifichi la preminenza di taluni elementi strutturali e morfologici, climatici, idrografici, ecc., nessuno potrebbe sostenere che il paesaggio naturale dell’Italia sia uniforme… Gli elementi comuni, come si è detto, non mancano, ma essi non sono tanto numerosi o tanto marcati da conferire alla regione italiana il valore di una unità paesistica: si può aggiungere che appaiono in essa molto più decisamente gli elementi comuni dovuti all’uomo e alla sua storia. E in questo senso la regione italiana può essere considerata con fondamento una buona regione geografica; non può ambire invece alla qualifica di regione naturale” (Biasutti, 1962, pp.13-14).

Ancora, se apriamo il libro Diario Dogon dell’etnologo Marco Aime, la prima immagine che

incontriamo è una mappa della “regione dei Dogon”. Se la guardiamo con attenzione, ci

accorgiamo però che mancano i confini regionali; si tratta piuttosto di un insieme di villaggi

uniti da strade e piste disposte lungo la Falaise di Bandiagara. Non scorgiamo alcun tipo di

confine amministrativo proprio perché l’etnologo intende indicarci il territorio dove vive la tribù

dei Dogon, e non un dipartimento amministrativo del Mali!

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Se da una parte questi esempi –ai quali, senza difficoltà, potremmo aggiungerne molti

altri– altro non fanno che accentuare in noi la sensazione di sconcerto derivante dall’ambiguità

del termine regione, usato a seconda degli autori e dei contesti teorici con significati diversi,

che avevamo preannunciato all’inizio del paragrafo, dall’altra ci offrono tuttavia lo spunto per

ragionare su due importanti questioni:

1) innanzitutto viene spontaneo chiederci quale sia il tratto che accomuna tipi di regione così

diversi, che ci porterà a riflettere sulla definizione del termine che si tende a dare

comunemente.

2) probabilmente ci siamo resi conto di quanto noi italiani siamo, anche se inconsciamente,

legati ad un certo tipo di regione –quello istituzionale– che tuttavia è un concetto estraneo

a molti altri ambiti culturali.

Cerchiamo di rispondere al primo quesito: che cosa può accomunare, ad esempio, la

regione Mediterranea e la regione dei Laghi del Michigan? Potremmo, innanzitutto, sottolineare

la presenza –particolarmente massiccia rispetto il territorio delle due regione– dei due elementi

che le denominano: Mare Mediterraneo ed i grandi laghi del Nord America. E lo stesso vale per

regione agraria e regione industriale: sono precisamente diversificate dai due elementi,

agricoltura ed industria, che le caratterizzano. Ed è questa un’idea molto diffusa di ‘regione’,

ossia ciò di che si intende comunemente con questo termine: una partizione territoriale avente

determinate caratteristiche che la distinguono da un’altra. A ben vedere tutto questo

corrisponde alla definizione tautologica di regione formulata da Richard Hartshorne (1972,

p.149), accennata nel quinto capitolo:

“la regione è uno spazio di specifica localizzazione che in qualche modo si distingue da altri spazi e che si estende nella misura di questo distinguersi”.

8.3 – Le regioni formali.

Fino a qui abbiamo cercato di definire quale significato viene “comunemente” attribuito al

concetto di regione. Si può notare, inoltre, come una regione venga generalmente distinta

dalle altre in virtù di una sua certa omogeneità, dovuta alla predominanza di uno o più

elementi che, in un certo modo, la caratterizzano rispetto il “suo esterno”. In altre parole, è

l’aspetto, o meglio, la forma –che si sostanzia nella coerenza interna dettata dal principio di

uniformità– a caratterizzare questo tipo di regione, che è stata, per l’appunto, battezzato

regione formale. E’ così che

“ora come territorio caratterizzato da una certa uniformità naturale, etnica o economica, ora come distretto ereditato dalla storia e che non rispecchia nessuna realtà attuale, la regione è concepita come una specie di ‘dato’ di cui ci si sforza, all’inizio degli studi, di giustificare i limiti” (Juillard 1978, p.25).

Sorge ora spontaneo chiederci dove e quando sia nata questa idea di regione, ma anche quali

mutamenti abbia subito all’interno dei vari paradigmi che si sono succeduti nell’evoluzione del

pensiero geografico.

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È chiaro che vi sono, ad esempio, delle sostanziali differenze tra la “regione alpina” e “la

regione dei Dogon” o, meglio, tra i criteri teorici per definire queste due regioni: la prima viene

definita da un’omogeneità fisica mentre la seconda lo è in riferimento alla organizzazione

territoriale di un popolo.

Diciamo subito che il primo caso: regione definita da un’omogeneità fisica, anche oggi

largamente utilizzato, affonda le sue radici nel XVIII secolo, ossia in quel periodo che nel

secondo capitolo avevamo definito come “fase preparadigmatica” del pensiero geografico:

“La data di nascita del concetto di regione naturale è da collocarsi nel 1752. In quell’anno, infatti, Philippe Buache pubblicò un saggio nel quale suddivise il territorio francese in bacini fluviali, sostenendo che essi erano ‘regioni naturali’, in quanto il fiume e la sua valle costituiscono una sede che determina ‘in modo naturale’ le forme di insediamento, di agricoltura e di allevamento. Un’idea semplice, quindi affascinante e destinata al successo. Nel corso del secolo successivo il concetto si avvalse di notevoli progressi, poiché il substrato fisico della regione naturale venne identificato nelle strutture geologiche, di cui il bacino idrografico è un’espressione. Ad esempio, un bacino sedimentario di origine quaternaria, un’area a rilievi di origine ercinica come gli Appalachi (340 milioni di anni or sono), oppure uno scudo archeozoico, possono essere considerati regioni naturali” (Vallega, 1995, p.21).

Questo “concetto di regione” intesa esclusivamente come regione naturale incontra

grande favore anche all’interno del paradigma determinista in quanto si presta perfettamente

all’approccio nomotetico. Come sintetizza Adalberto Vallega (1983, p.26) nella geografia

umana di tutte le “scuole deterministe”, infatti:

“i rapporti tra consorzi umani e l’ambiente sono visti in chiave ecologica, ma il protagonista primo resta sempre l’ambiente fisico: l’insediamento e i fatti umani vivono di luce riflessa, subiscono effetti ed, entro certi limiti, reagiscono. In questo clima matura il concetto di regione naturale, che veniva già intesa dal Ritter come un grande individuo geografico, ben definito e chiaramente rilevabile, tanto per i confini che per i propri caratteri essenziali. Il rigore scientifico e la tendenza a sistemare risultati acquisiti dall’esperienza e dalla speculazione, tipici aspetti della cultura positivista, inducono tosto a stabilire oggettivamente queste grandi unità, a definire criteri per la loro determinazione e delimitazione”.

Come si è visto, infatti, l’approccio determinista applicato al rapporto uomo-natura viene a

considerare l’ambiente fisico come la causa, e le forme d’uso del territorio come l’effetto,

concezione riflessa, appunto, dal concetto di regione naturale:

“si riteneva che l’estensione di una certa struttura fisica, come un bacino fluviale, fosse anche quella della regione, perché la struttura fisica era la causa e l’organizzazione del territorio l’effetto” (Vallega, 1995, p.23).

Agli inizi del Novecento la concezione determinista viene messa in crisi e scalzata, anche

se lentamente e forse non completamente, dalla concezione possibilista secondo la quale

l’uomo è svincolato dall’ambiente e l’azione umana assume un ruolo protagonista, all’interno

delle possibilità offerte dalla natura.

“l’ambiente naturale offre una gamma, più o meno ampia, di risorse, da cui deriva una serie di opportunità di utilizzazione. I gruppi umani, di fronte a questo ventaglio, compiono scelte, che si traducono in tipi di organizzazione territoriale;

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godono, insomma –per usare una terminologia corrente– di certi gradi di libertà” (Vallega, 1983, pp.38-40).

E’ così che al concetto di regione naturale i possibilisti contrappongono quello di regione

umanizzata, cioè:

“uno spazio in cui una comunità umana, dotata di una propria cultura (genere di vita), organizzava un territorio, costituito da un solo ambiente fisico, o da più ambienti fisici contigui. La circostanza secondo cui era considerato ‘regionale’ anche un territorio composto da più ambienti fisici dava luogo alla confutazione del concetto di regione naturale, secondo il quale una regione è necessariamente costituita da un solo ambiente fisico. Di qui il rifiuto del principio di causalità unidirezionale, in base al quale l’ambiente era la causa della regione. Infatti, se una regione si stende su più ambienti fisici si deve dedurre che a determinarla siano anche altre cause: quelle umane, appunto. Un esempio ricorrente di regioni basate su substrati fisici è offerto dalla regione costiera con coste alte e rocciose: la compongono due ambienti naturali, la striscia che costituisce l’interfaccia tra mare e costa e i versanti dei rilievi retrostanti. Due individualità fisiche ben distinte, come si vede, eppure associate in un unico disegno organizzativo, frutto della cultura e della tecnologia delle comunità locali” (Vallega, 1995, p.24).

È chiaro che la soluzione di tutto sta, nel paesaggio inteso, quest’ultimo, come la proiezione

delle tecniche e delle pratiche organizzatrici del sistema sociale [la cosiddetta cultura materiale

del gruppo] sul sistema ecologico [l’ambiente naturale], una proiezione attiva che lo costruisce

in conformità con lo scopo da raggiungere. Il paesaggio è la manifestazione reale e visibile di

quel mondo possibile –la regione– che rappresenta il progetto attuato da quella società su quel

territorio: è un oggetto reale che si vede, si studia e nel cartografare i suoi tratti caratteristici

se ne tracciano i confini e si individua la regione. Il concetto di paesaggio, nella sua sostanza

già in parte implicitamente presente nella regione naturale, viene ripreso e riformulato dai

possibilisti che:

“ne ampliano, appunto, la portata, riferendola anche alle forme di insediamento, alla copertura umana, ai modi di utilizzazione del territorio: dall’idea di paesaggio naturale si passa a quella di paesaggio umanizzato, cioè di paesaggio tout court” (Vallega, 1983, p.38).

In questo modo il concetto (o l’idea) di regione si confonde con il concetto (o l’idea) di

paesaggio: i due termini appaiono come dei sinonimi? Senza dubbio, nota Etienne Juillard

(1978, p.28):

“nel paesaggio c’è una forma di regionalizzazione, e la ricerca dei paesaggi permette su un dato territorio di scoprire e di delimitare, per esempio, delle regioni agricole, caratterizzata ognuna da una certa omogeneità di organizzazione dello spazio rurale; delle agglomerazioni urbane, anch’esse paesaggi suddivisi in zone più o meno omogenee, quartieri, periferie…”.

Questo tipo di approccio in realtà è alquanto problematico, se non altro per la difficoltà a

individuare, nella realtà, regioni assolutamente omogenee:

“due insiemi naturali molto simili e anche molto vicini possono veder nascere due paesaggi differenti, così, per esempio, i contrasti agrari dei Vosgi e della Foresta Nera, per il gioco contrastato delle pressioni demografiche delle forme d’industrializzazione, ecc. A fortiori molti paesaggi possono sovrapporsi nel tempo

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sullo stesso spazio: pensiamo ai mutamenti agricoli nelle contrade mediterranee, all’urbanizzazione dei bacini minerari, ecc.” (Juillard, 1978, pp.27-28).

Ne consegue che territori morfologicamente simili abitati da popolazioni culturalmente simili

possono dar origine a diverse regioni umanizzate oppure nella stessa regione umanizzata la

forma del paesaggio può differenziarsi, per differenti sviluppi storico–economici, dando origine

a nuove regioni. In altri termini: è evidente che l’omogeneità interna di ciascuna regione –che,

ricordiamo, rappresenta l’elemento chiave– può essere tale solo in apparenza e può

mascherare un tessuto funzionale diversificato. La definizione della regione –oggetto

immanente e concreto dell’indagine– dipende dunque solo dall’esistenza di un paesaggio

definito genericamente come il tratto visibile della superficie terrestre; la stessa esistenza della

regione umanizzata è quindi legata solo a ciò che appare. Il paesaggio –quindi la regione– è sì

una realtà essenzialmente visibile ma:

“non si può spiegare senza fare appello a dei fattori che sfuggono alla vista o non sono riportabili alla materialità topografica come, per esempio, l’idrologia sotterranea, la natalità, il regime fondiario, la circolazione dei capitali, la pratica religiosa” (Juillard, 1978, p.28).

La “regione naturale” e la “regione umanizzata” (entrambe –abbiamo visto– definibili

attraverso una varietà di criteri del tutto soggettivi) rientrano in una visione idiografica dello

spazio, basata cioè sull’omogeneità dei paesaggi. Esiste però anche un altro tipo di approccio

alla regione formale: quello tassonomico, spesso associato a una visione quantitativa che offre

infinite possibilità di definire una regione, pur all’interno di un rigore logico–matematico.

8.4 – La regione funzionale.

Il criterio di uniformità sul quale si fonda il concetto di regione formale è sicuramente il più

antico e conosciuto, ma non l’unico. La geografia teoretico quantitativa rifiutando sia la

staticità della regione naturale sia l’indeterminatezza della regione umanizzata propone nuovi

modelli regionali influenzati dal potere accentratore esercitato dai poli industriali e dalle

metropoli. Le regioni derivate dalla geografia teoretico quantitativa non sono certo legate al

principio di uniformità, che garantisce la coerenza interna delle regioni formali, ma a quello

della coesione spaziale esercitata da una metropoli, con forti valenze industriali e terziarie, sul

territorio circostante. La base teorica che spiega la formazione di tali regioni risiede nella

Teoria di Christaller che –come brevemente accennata nel sesto capitolo– mostra la

formazione delle aree di mercato. Tali aree di mercato, la cui ampiezza è funzionale alla

dimensione economica della città, rappresentano delle vere e proprie regioni che esistono solo

in funzione dell’azione coordinatrice (capacità di attrazione) esercitata dalle varie città. In altri

termini, per Walter Christaller lo sviluppo economico e sociale determina una gerarchia degli

spazi organizzati coordinati da una gerarchia di città ciascuna con proprie funzioni e propria

regione di pertinenza. Alla base di questa teoria non viene posta l’industria genericamente

intesa, ma l’industria motrice, cioè quella particolare industria capace di influenzare sia

l’organizzazione del luogo in cui sorge, sia quella del territorio circostante, fino a plasmare

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l’organizzazione della regione, a determinarne l’estensione e l’evoluzione. L’industria è motrice

quando risponde a tre requisiti:

a) possiede grandi dimensioni, non soltanto in termini di produzione, ma anche in rapporto

all’occupazione, poiché è quest’ultima a influenzare lo sviluppo regionale;

b) esercita notevole capacità di innovare tecnologie e processi produttivi, in modo da rivestire

una funzione di leadership nel settore di appartenenza;

c) intrattiene intense relazioni con attività che si dispongono a monte e a valle del processo

produttivo.

Sono sufficienti queste note per comprendere come il polo industriale venga considerato

soprattutto in rapporto agli effetti propulsivi cui dà luogo sul territorio. L’industria motrice,

infatti, attrae nel polo non soltanto attività che si dispongono sia a monte (ad esempio, servizi

di manutenzione), sia a valle (ad esempio, servizi di trasporto dei prodotti finali) del processo

produttivo, ma anche attività che si dispongono lateralmente (ad esempio, imprese di

assicurazione e sedi bancarie). Inoltre, le convenienze locali possono crescere fino al punto da

attrarre nel polo anche produzioni e servizi non collegati al procedimento produttivo

nell’industria motrice, ma che qui trovano utile localizzarsi per usufruire dei servizi esistenti.

I geografi teoretico–quantitativi puntano sullo studio di una realtà regionale non più

sezionabile in “compartimenti” omogenei e fissi, ma costruita piuttosto sulla base di relazioni e

processi. Non si parla più di natura o paesaggi ma di polarizzazione, potenza d’attrazione,

forza d’inerzia, nodalità, gerarchie di centri, flussi…

Il punto debole dell’approccio funzionalista, legato alla geografia teoretico quantitativa, sta

nel suo riduzionismo:

“la geografia regionale funzionalista non fu capace di formulare una teoria generale sulla regione perché non riuscì a inquadrare in un’unica immagine d’assieme la globalità delle funzioni esistenti sul territorio” (Vallega, 1995, p.34).

Una visione parziale, ricordiamo che la Teoria di Christaller è esclusivamente legata alle attività

terziarie, che fornisce immagini unidirezionali della regione.

I concetti di regione naturale e di regione umanizzata erano fondati –sia pure su terreni

molto diversi– sulle relazioni tra comunità umana e ambiente fisico. Il concetto di regione

funzionale, invece, è stato riferito soltanto alle attività economiche, senza attribuire alcuna

rilevanza alle relazioni con l’ambiente.

8.5 – La critica attuale al concetto di regione.

Vogliamo concludere questa sommaria analisi con qualche riflessione sul ruolo e la

legittimità del ‘concetto di regione’ ai giorni nostri.

Ci si può chiedere a questo punto in che modo possa venire rappresentata una realtà

(territoriale) quale quella attuale, in cui lo sviluppo tecnologico e la globalizzazione, che ha

condotto a una compressione spazio-temporale, hanno fatto, in un certo senso, “saltare” i

tradizionali riferimenti e hanno imposto nuove ed inedite logiche di organizzazione spaziale.

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120

In un mondo dominato e controllato da reti di interiezioni e di flussi globali in cui sono

venuti meno molti dei presupposti su cui fin verso la metà del nostro secolo si fondava l’idea di

regione come base territoriale stabile di una comunità, ha veramente ancora senso parlare di

“regione”? Secondo Giuseppe Dematteis (1997):

“non possiamo più credere, come faceva la vecchia geografia umana regionale, che le regioni si possano definire a partire dalle loro dotazioni ambientali naturali e storico-culturali. Neppure possiamo pensare con la (anch’essa ormai vecchia) geografia funzionalista, che per definirle basti l’autocontenimento dei flussi. E non solo perché i circuiti dei flussi che contano tendono oggi ad assumere la forma di reti globali, ma soprattutto perché alla regione geografica non può mancare la corposità della terra, su cui si sedimenta la componente essenziale del milieu".

La rivoluzione telematica (pensiamo a internet) e le nuove logiche di mercato (pensiamo

alle multinazionali e alla divisione internazionale del lavoro che porta ad una segmentazione

delle varie fasi produttive, spesso localizzate in Paesi diversi) hanno introdotto nuove

coordinate spaziali, mettendo in crisi il concetto di distanza e contribuendo alla nascita di nuovi

paesaggi estremamente frammentari, non più descrivibili ed interpretabili secondo i metodi

tradizionali. Nell’ambito della rappresentazione regionale, Giuseppe Dematteis (1997) individua

la “vera rottura con il passato” nel fatto che se:

“prima la regione era pensata come un dato, un'entità primaria e tendenzialmente invariante (non importa se di origine divina, naturale, costituzionale, storica, economica ecc.), ora può solo essere pensata come una costruzione intenzionale: un ordine geografico locale che nasce dalla turbolenza dei flussi globali e che deve interagire con essi per continuare ad esistere”. Il quadro attuale del mondo, a detta di Agelo Turco (2000), è infatti caratterizzato non

più da uno spazio paratattico (ossia una messa in sequenza di aree in qualche modo

“sensate”), ma ipotattico, dove “trionfa la giustapposizione sulla connessione” e spazi di varia

natura (quali quello territoriale e quello della rete informatica, ad esempio) convivono

all’insegna della frammentarietà, dei sincretismi e degli intrecci. La geografia regionale

tradizionale riduceva la rappresentazione delle complesse relazioni tra società, culture,

economie e poteri a un unico tipo di spazio di derivazione euclidea, interiorizzato attraverso

pratiche cartografiche, che portano a pensarlo come un’entità oggettiva. Questa

rappresentazione semplificata e ingenua della regionalità può tuttora assolvere a compiti

elementari, di tipo essenzialmente tassonomico, ma a patto di essere ben conscia dei suoi

limiti e non voler trattare aspetti complessi della realtà con modalità inadeguate e in definitiva

mistificanti. Per uscire da questi limiti occorrerà uno sforzo al tempo stesso di immaginazione

creativa e di analisi, quale ogni impresa scientifica d’altronde richiede. Occorrerà anzitutto far

riferimento a modelli concettuali capaci di trattare i sistemi complessi. Con essi bisognerà

riuscire a rappresentare le dinamiche regionali come interazioni che si svolgono

contemporaneamente nello spazio-ambiente-locale, nello spazio delle relazioni di prossimità e

in quello delle reti virtuali non condizionate dalla distanza fisica. Bisognerà anche

rappresentare alle diverse scale (senza mai dimenticare quella basilare dei vissuti quotidiani)

spazi relazionali molteplici, corrispondenti alle multi-appartenenze (e sovente multi-identità)

Page 122: Fabio Lando - Concorso Fahrenheit 451

121

dei soggetti locali e ricostruire le ‘geometrie variabili’ delle reti e dei sistemi territoriali a cui

essi appartengono ed entro cui agiscono. Occorrerà, infine, evitare i determinismi (naturali,

economici, storici), in modo da rappresentare la regionalità nel suo divenire ricco di

contraddizioni e di potenziali conflitti, perciò aperto a differenti proposte, progetti, soluzioni.

8.3 – Il caso italiano.

La nostra idea di regione –legata alla colorata carta geografica dell’Italia così ben

cristallizzata nel nostro immaginario– ha conferito alla “regione istituzionale” un potere

straordinario, corroborato tra l’altro dal tipo d’insegnamento della geografia nelle scuole del

nostro Paese che, non a caso, partiva tradizionalmente proprio dallo studio delle Regioni

d’Italia. Ed è stato così che, attraverso un curioso processo di naturalizzazione, partito proprio

dal nostro primo impatto scolastico con la regione amministrativa, ci siamo appropriati non

solo del concetto di regione intesa fondamentalmente in questo senso, come fosse un’entità

naturale, presente sul territorio a priori e non una costruzione politico-culturale, ma anche di

tutta una particolare logica che ci fa accettare la partizione territoriale cui siamo abituati come

fosse la più giusta e naturale. Contemporaneamente è importante ricordare che si tratta di una

situazione che non è condivisa da tutti gli altri Paesi334.

Il caso italiano si rivela poi particolarmente emblematico, oltre che per questa ambiguità

linguistica, anche per un altro motivo: l’attuale suddivisione regionale del nostro territorio, che

tendiamo spesso a concepire come la più naturale (tanto da non riuscire ad immaginarne altre

e provare un certo disagio e sconcerto dinanzi a proposte alternative), in realtà non è –come

forse saremmo portati a credere– il frutto di un attento e scrupoloso studio da parte di geografi

ed esperti, bensì una soluzione operata sulla base di scelte politiche. Di solito il territorio viene

suddiviso sulla base di elementi contingenti, metascientifici, cui si cerca di conferire una

patente di obbiettività scientifica. In Italia la circostanza è ricorsa nei lavori preparatori per la

Costituzione della Repubblica. Dopo aver convenuto di creare uno Stato articolato su regioni, i

costituenti decisero di elencare le regioni [articolo 116 regioni a statuto speciale; articolo 131

regioni a statuto ordinario] in cui il territorio dello Stato si sarebbe articolato. A quel punto non

seppero far meglio che dare veste di regioni a quelle circoscrizioni statistiche che, nel secolo

scorso, appena costituita l’unità d’Italia, furono delimitate per raccogliere e raggruppare i dati

censuari. È certo però che i Costituenti nel 1948 avevano ben altri problemi da risolvere che

non pensare al come suddividere scientificamente lo Stato italiano in regioni e così accettarono

quella divisione che, tramite la scuola, era diventata un dato naturalmente accettato.

8.6.1. - Le Regioni italiane: loro nascita ed affossamento.

Il primo ad articolare il territorio italiano in Regioni, disegnate in modo preciso sulla carta

ed intese come parti funzionali dello Stato, derivanti da unioni di Province assommate per

334 Questa coincidenza di termini (regione = regione istituzionale), infatti, si riscontra in italiano ma non in inglese, ad esempio, dove il termine region non corrisponde affatto alla regione istituzionale (negli Stati Uniti ci sono, infatti, gli states e le counties, mentre in Inghilterra le counties.

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122

vicinanza, struttura ambientale, struttura economica e comunità sociale, è stato Piero

Maestri335. Un passato patriottico con una parte molto attiva alle 5 Giornate di Milano del 1848,

espulso anche dal Piemonte andò esule a Ginevra ed a Parigi336. Il suo esilio in Francia gli ha

permesso di conoscere le vicissitudini politico-amministrative di quel paese descritte attraverso

alcuni articoli apparsi sulla rivista Il Politecnico, in buona parte poi ripresi in un volume nel

1863. Collaborò con Cesare Correnti alla stesura dei primi annuari statistici diventati poi gli

archetipi di tutti i successivi. Nel 1861 venne chiamato a dirigere l’Ufficio Centrale di

Statistica337, mentre Cesare Correnti diveniva presidente della Giunta di Statistica. La loro

funzione era quella di ricostruire –dopo la soppressione degli uffici preunitari– una statistica

nazionale, funzionale al nuovo ed unificato Regno d’Italia, organizzando ed uniformando i

criteri di rilevazione ed elaborazione dei dati338. È stato un importante statistico con una

notevole capacità organizzativa: sua è l’organizzazione e la gestione del primo censimento del

1861, preso a modello anche per i successivi339.

Dal nostro punto vista appaiono molto importanti le sue idee sul “dicentramento

amministrativo”. Idee che pubblica, la prima volta, in un articolo apparso su Il Politecnico nel

1861: lo stesso anno in cui, chiamato da Camillo Benso di Cavour, divenne direttore dell’Ufficio

Centrale di Statistica e contemporaneamente viene bocciato il progetto di ordinamento

regionale. Interessante notare questa triplice coincidenza temporale.

Il 1861 è l’anno in cui Piero Maestri viene chiamato da Camillo di Cavour a dirigere l’Ufficio

Centrale di Statistica: una struttura, quest’ultima, assolutamente fondamentale per la

riorganizzazione amministrativa del nuovo Stato340. Fondato lo Stato Nazionale a Camillo di

Cavour cominciavano ad imporsi anche problemi di natura amministrativa legati non tanto a

scelte di politica internazionale quanto a quelli, non tanto banali, dell’organizzazione e gestione

della farragine organizzativa e territoriale del nuovo Stato la cui conoscenza era abbastanza

limitata e legata a delle parziali “statistiche corografiche” del Settecento. Probabilmente sono

questi i motivi lo hanno spinto a chiamare alla direzione dell’Ufficio Centrale di Statistica Piero

Maestri: era forse un po’ distante dal suo pensiero politico ma aveva dimostrato di ben

conoscere la Statistica, di saperne interpretare i risultati, era un organizzatore, un personaggio

che aveva molto a cuore le sorti del nuovo Stato e probabilmente per questo era disposto a

soprassedere alle sue idee giovanili di rivoluzionario mazziniano.

335 Una breve biografia si trova in A.Monti (1949); un accenno ne fa G.Favero (2001, pp.41 e 60); un’interessante analisi sul suo pensiero e sulla sua posizione politica si trova in F.Della Peruta (1958). 336 Durante il suo esilio mantenne sempre contatti con l’ambiente patriottico milanese scrivendo articoli di matrice statistica per gli Annali Universali di Statistica e politico-amministrativa per Il Politecnico. 337 Sulle motivazioni che spinsero Cavour, una volta formato il nuovo stato “le cui parti avevano a lungo vissuto staccate le une dalle altre”, a potenziare gli studi di statistica creando ex novo una Direzione Generale di Statistica (tale era il nome dell’attuale ISTAT) si veda A.Caracciolo (1960, pp.47-48). 338 Si veda G.Favero (2001, pp.59-69) e S.Patriarca (1996, pp.178-184). 339 Sulle sue capacità di direzione ed organizzazione si veda R.Fracassi (1957, pp.103-105) e ISTAT (n.d., pp.45-77). 340 Come nota P.Villani (1978, p.884) “Misurare, quantificare, conoscere anche statisticamente, si rivelava una funzione indispensabile del nuovo Stato. In tal senso assumeva essa stessa una dimensione latamente politica”. Sull’imporatnza delle “statistiche” per la politica del nuovo Stato si veda S.Patriarca (1996) e G.Favero (2001).

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Il 1861 è l’anno in cui Piero Maestri, direttore dell’Ufficio Centrale di Statistica, pubblica sul

Politecnico un importante articolo dal significativo titolo Del dicentramento amministrativo in

Francia in cui esplicita in modo netto ed inequivocabile le sue idee sull’organizzazione politico-

amministrativa di un moderno Stato democratico. In questo articolo341 inneggia alla

democrazia francese attuata attraverso una legislazione che definisce il principio d’uguaglianza

dei cittadini ottenuto attraverso due elementi: il “suffragio universale” ed il “dicentramento

amministrativo”. Articolo di spirito mazziniano in cui, contrastando l’accentramento

dispotico342, esalta sia i sacrosanti diritti dell’uomo343 sia gli importanti doveri del singolo

“verso la famiglia il commune e la nazione”. Il riferimento è la Francia del 1860 ma appare

chiaro che il tutto è rapportabile a qualsiasi Stato Nazionale. In ogni caso questa forma di

“dicentramento”, secondo Pietro Maestri, non minerebbe l’unitarietà dello Stato344 né sarebbe

legata a forme particolari di governo345 in quanto lo Stato Nazionale è democratico di per sè346.

L’articolo si riferisce sempre al caso francese ma le due pagine della conclusione finale sono in

toto riferite alla situazione italiana in cui egli depreca la piemontesizzazione:

“imporre leggi piemontesi alla Lombardia... la Toscana non può lungamente resistere a codesta improvvida violenza… anche la pregevole legislazione civile delle Due Sicilie è minacciata dalle meschine lucubrazioni dei giuristi piemontesi” 347.

Non era certo questo il pensiero di Camillo di Cavour che, pur propenso a pensare ad uno

Stato Nazionale unito in cui potessero coesistere delle forti autonomie locali, dovette gestire,

negli anni ’60, il succedersi dei plebisciti e la discussa campagna garibaldina del Regno delle

Due Sicilie trovandosi così nella necessità di accelerare il processo di omogeneizzazione delle

diverse parti del regno348. Per questo egli ha certamente dovuto mettere da parte le sue idee

sulle autonomie locali a favore di una vera e propria campagna di accentramento349.

341 Articolo che viene ripreso ed ampliato nel suo libro del 1863 La Francia Contemporanea in cui interessante è notare come gli ultimi due capitoli abbiano come titolo: “la Rivoluzione ed il principio dell’eguaglianza” e “Il principio di libertà e il dicentramento amministrativo”. 342 Tipico dell’ “aristocrazia britannica, spezzatrice della plebe; la Germania, sempre feudale; l’Austria, nemica d’ogni diritto; la Russia, che numera ancora a milioni li schiavi” (P.Maestri, 1861, p.289). 343 “Libertà di possesso, di lavoro, d’associazione, di coscienza, di pensieri” (P.Maestri, 1861, p.297). 344 “Nessuno in Francia pensa a contestare la necessità d’un potere supremo e nazionale, in cui mano già da tempo si riposero l’unità di legislazione, il comando della forza armata, la rappresentanza diplomatica, il diritto di guerra e di pace; e ad esso si vorrebbe pur sempre riservato il diritto di determinare in via legislativa le norme comuni a cui dovrebbero uniformarsi le aziende provinciali, dipartimentali e municipali; nonché un diritto di suprema vigilanza, per impedire li abusi e le deviazioni” (P.Maestri, 1861, pp.300-301). 345 “Indifferente che la forma del governo sia piuttosto repubblicana con capo elettivo e mutabile, o monarchia con capo ereditario” (P.Maestri, 1861, p.301). 346 Perché “lo Stato è il tutore della società, non padrone” (P.Maestri, 1861, p.301). 347 Continuando poi con: “per impedire che questa confusione legislativa inondi tutta l’Italia… sarebbe necessaria la convocazione d’un’Assemblea Costituente” (P.Maestri, 1861, p.305). Il testo finisce con una nota a firma La Redazione in cui dichiarandosi d’accordo con l’autore, sia per il caso francese sia per i riferimenti italiani, pone un freno all’afflato di P.Maestri chiedendosi come procedere nell’immediato, nell’attesa della riorganizzazione: “e frattanto, chi ha l’incarico di riparare, in modo costituzionale e legittimo e valido alla più necessarie urgenze delle legislazioni e amministrazioni locali?”. 348 Come nota A.Caracciolo (1960, p.68): “Va forse sottolineato il posto che ebbe, nella definitiva scelta di un sistema politico-amministrativo fortemente centralizzato, l’esperienza della conquista meridionale. Ci si trovava di fronte, nell’Italia inferiore, a una realtà che il moderatismo piemontese e padano non riusciva a comprendere, sapeva solo

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Inoltre, terza coincidenza temporale, nel 1861 viene definitivamente affossato il progetto di

ordinamento regionale portato avanti, nel biennio 1860-1861, da Luigi Carlo Farini e Marco

Minghetti che sostituirono Camillo di Cavour al Ministero per gli Affari dell’Interno350. Progetto

su cui Camillo di Cavour non era, almeno inizialmente, d’accordo ma che alla fine appoggiò in

modo abbastanza sostenuto351. Occorre però notare come l’appoggio dei due ministri ai

progetti di legge regionale, nella Commissione Temporanea per l’istituzione delle Regioni, fosse

abbastanza tiepido con ricorsi a grandi affermazioni di principio e poche argomentazioni ben

precise. La discussione in Commissione non ebbe risultati favorevoli tanto che Sebastiano

Tecchia352, nella relazione finale della Commissione presentata alla Camera il 22 giugno 1861,

illustrando le ragioni che avevano portato la commissione ad essere contraria alle Regioni

affermava:

“a chi ben consideri le origini del nostro movimento verso l’unità italiana verrà fatto scoprire la causa prima di quelle obbiezioni”

causa prima che risiedeva solo ed esclusivamente nell’idea dell’Unità d’Italia

“troppe erano le tradizioni gloriose dei comuni italiani…profonde e dolorose vivevano le memorie di male spente rivalità di provincia… ogni terra contava con santa superbia le tombe de’ suoi grandi”

secondo la Commissione il concetto di Regione, data la storia delle singole parti del nuovo

Regno ed il recente processo di unificazione renderà sicuramente

“men ferma la fede nella unità… [perché]… “senza unità è impossibile la indipendenza”

per cui

“nulla più conferisce alla unità nazionale, ed alla sintesi di uno stato, che la colleganza immediata tra il potere centrale e i suoi naturali aiuti, le provincie e i comuni”.

Le Regioni quindi, sotto qualsiasi forma intese, non ebbero l’appoggio della Commissione

Temporanea che propose invece di estendere a tutto il Regno la legge amministrativa

piemontese del 1859: portando di fatto ad una “piemontesizzazione” amministrativa dell’Italia.

disprezzare…Alla esteriore dittatura garibaldina si vedeva la necessità di far seguire una più sostanziale dittatura amministrativa, in ogni settore della cosa pubblica meridionale”. Si veda anche quanto riportato da E.Ragionieri (1967, pp.87-97). 349 A.Petracchi, 1962, vol.I, p.288: “Il Cavour mirava ormai consapevolmente ad una concentrazione dei poteri e delle decisioni che permettessero di unificare realmente sotto un governo forte, le regioni da poco conquistate, più che realmente unite per volontà di popolo”; sull’ambiguità del Cavour nei confronti delle autonomie locali si veda l’intera Parte Terza del volume di A.Petracchi (1962). 350 Come nota E.Ragionieri (1967, pp.152-153): nonostante “tutto il moderatismo italiano…[si professasse favorevole]… ad un tipo di Stato fondato sulle più ampie autonomie locali e ispirato a larghi criteri di decentranto amministrativo… [vari furono i motivi che]… fral’estate del 1860 e l’ottobre del 1861 portarono all’attenuazione prima, poi all’insabbiamento ed infine al definitivo affossamento dei disegni di legge del Farini e del Minghetti”. Si veda anche A.Petracchi, 1962, vol.I, pp.297-298. 351 Sulla tardiva difesa del Cavour si veda A.Petracchi, 1962, vol.I, pp.343-357. 352 Le citazioni della Relazione di S.Tecchia sono referibili a A.Petracchi, 1962, pp.409-411, corsivo del testo originario.

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8.6.2. - I Compartimenti Statistici e la delimitazione territoriale delle Regioni.

Come visto sopra il progetto di legge istitutivo delle Regioni amministrative italiane non è

stato mai approvato e la divisione dell’Italia in Regioni territorialmente delimitate venne

definitivamente, almeno fino alla Costituzione del 1946, abbandonata.

Di fatto l’idea della partizione regionale del Paese –quelle Regioni in cui a tutt’oggi l’Italia è

divisa– continuò sotto altra forma: i Compartimenti Statistici ideati ed utilizzati da Piero

Maestri per le pubblicazioni ufficiali dell’Ufficio Centrale di Statistica che, occorre ricordare, era

ed è un organo alle dirette dipendenze dello Stato.

Piero Maestri pubblica nel 1864, tre anni dopo il definitivo affossamento del progetto di

ordinamento regionale, due importanti lavori di statistica. Il primo è l’ Annuario Statistico

Italiano, un testo non ufficiale che firma assieme a Cesare Correnti, in cui ripropone le

“Regioni” mentre il secondo è la Statistica del Regno d’Italia, una pubblicazione ufficiale

dell’Ufficio Centrale di Statistica, in cui utilizza i Compartimenti Statistici -una suddivisione del

Regno in strutture territoriali di grado superiore alle province- per ripartire i dati del

Censimento del 1861, il primo dell’Italia unita. Anche qui è interessante notare la coincidenza

temporale: nello stesso anno firma due volumi di contenuto quasi analogo. Il primo, un testo

non ufficiale, in cui ritorna sull’idea delle Regioni ed il secondo, una pubblicazione ufficiale, in

cui definisce i Compartimenti Statistici, un altro modo per dire Regioni.

L’Annuario Statistico Italiano (Correnti Maestri, 1864), che firma assieme a Cesare

Correnti, appare come volume secondo di cui il primo era stato pubblicato nel 1858, ben

quattro anni prima, con la sola firma di Cesare Correnti. Il primo volume appariva come un

classico esempio di Statistica Patriottica353 in quanto conteneva un articolo dal titolo

“Popolazione dell’Italia” in cui già nel 1858 Piero Maestri, firmatario dell’articolo, mostrava una

tabella che preconizzava un’Italia unificata dai numeri: questo ben due anni prima delle

“annessioni” del 1860, tre anni prima della nascita del Regno d’Italia e dodici dalla presa di

Roma354. Il secondo volume del 1864, oltre alla premessa, riportava un interessante e lungo

saggio in cui venivano descritte le problematiche relative al decentramento amministrativo: è

un intervento a firma di Tullo Massarani noto esponente del patriottismo lombardo, fervente

regionalista e deputato dal 1860 al 1867. È uno scritto, quest’ultimo, molto complesso in cui,

fra l’altro si discute di “teoria del dicentramento”, delle “fasi dell’idea regionale”, di

“regionalismo” definito quest’’ultimo come:

353 Per Statistica Patriottica si intende quella descrizione economica della nazione che avesse anche un forte valore critico nei confronti del sistema politico pre-unitario; si veda l’interessante analisi che ne fa S.Patriarca (1996, pp.122-154) e F.Lando (2009). Interessante la considerazione sulla Statistica Patriottica, quasi una definizione, che ne fa F.Lampertico (1870, pp.154-155) “allorché i Borboni ci davano delle cifre si faceva atto di patriottismo credendole false; corpi franchi di economisti insorgevano contro la statistica ufficiale: si iniziava una statistica patriottica, che studiando la penisola intera associasse nelle cifre le provincie del nord alle meridionali… rovesciando così le barriere che cessavano d’esistere sulla carta ricostituisse l’unità nazionale”; concetto ripetuto, con pochi cambiamenti, nel 1879 (F.Lampertico, 1879, p.168). Una piena accettazione questa della tabella di P.Maestri che viene indirettamente indicata come esempio concreto di Statistica Patriottica. 354 La tabella è in P.Maestri, 1858, p.383. È stata ripresa e commentata in F.Lando (2009, pp.320-322) e citata anche in S.Patriarca (1996, pp.122-154) che però, erroneamente, la attribuisce a C.Correnti.

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“la teorica pura dell’amministrazione negli ordini liberi” (Massarani, 1864, p.174).

Interessante notare come Cesare Correnti e Piero Maestri, importanti e autorevoli commis

d’état, abbiano recuperato un vecchio scritto di Statistica Patriottica pubblicandone, dopo ben

quattro anni, una continuazione come volume secondo in cui sottoscrivono –indirettamente

essendo i firmatari del volume– il lungo e complesso pamphlet di Tullo Massarani a difesa del

regionalismo.

Se in quel testo, l’Annuario Statistico Italiano a carattere non ufficiale, poteva far affermare

a Tullo Massarani che le Regioni erano funzionali al decentramento amministrativo, è chiaro

che una pubblicazione ufficiale uscita dall’Ufficio Centrale di Statistica non poteva usare il

termine Regione né far evidente riferimento al decentramento: come visto nelle pagine

precedenti, nel 1861 era miseramente fallito lo schema di organizzazione amministrativa.

Pietro Maestri, nella sua funzione uficiale di Direttore dell’Ufficio Centrale di Statistica

emanazione diretta del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, non poteva far

riferimento alle Regioni ma solo ipotizzare una struttura territoriale, che definisce

Compartimento Statistico, pensata esclusivamente per la pubblicazione dei dati censuari.

Compartimenti Statistici che appaiono chiaramente come delle strutture regionali mascherate

descritte però come lo strumento meglio appropriato per le analisi statistiche:

“ci riusciva disagevole procedere per raffronti tra Provincie e Provincie senza un intermediario punto d’appoggio intorno a cui venissero a coordinarsi le naturali relazioni delle Provincie tra loro sia per vicinità di luogo, sia per conformità di costituzione fisica, sia per analogia di complessione economica, sia infine per comunanza di tradizioni civili”355.

È veramente interessante la sequenza delle motivazioni: vicinanza, struttura ambientale,

struttura economica e comunità sociale. Motivazioni che vanno ben di là di una mera volontà

classificatoria funzionale al solo scopo statistico: la pubblicazione dei dati del primo censimento

dell’Italia unita.

Ovviamente, egli cerca subito di eliminare un qualsiasi riferimento, anche velato, alle

Regioni del decentramento e così quei raggruppamenti di province li chiamerà Compartimenti

Statistici:

“i nostri compartimenti sono topografici, o per dir tutto in una parola statistici: essi non fanno che riprodurre le divisioni territoriali fondate sulla natura del suolo e sulle leggi della convenienza economica”.

È un continuo insistere sulle affinità territoriali ed economiche con accenni sulle caratteristiche

morali senza però mai un riferimento a valutazioni politico-amministrative e con un preciso

richiamo sulla loro provvisorietà:

“Nè con ciò vogliamo dire che i compartimenti, quali da noi vennero adottati, rispondano ad una divisione scientifica e definitiva del territorio nazionale anche dal solo punto di vista statistico ed economico [e questo perché]… gli studi della topografia italiana non sono ancora stati portati al desiderabile grado di perfezione

355 Interessante è la sequenza di motivazioni: vicinanza, struttura ambientale, struttura economica e comunità sociale che vanno ben al di là di una mera volontà classificatoria.

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[e nemmeno]… la statistica agraria, appena sul nascere fra noi, non ha ancora potuto determinare le varie zone [è quindi ovvia la loro provvisorietà tanto che]… la determinazione definitiva dei compartimenti economici e statistici non potrà essere condotta a termine se non quando gli studi topografici, meteorologici ed agronomici non saranno meglio avviati”.

Nonostante questo ribadire la loro provvisorietà, Pietro Maestri è convinto della loro bontà

tanto che subito dopo afferma che col passare del tempo ed il mutare delle condizioni

economiche sono le province che dovranno essere riorganizzate e ridisegnate e non i

Compartimenti che, in questo caso, potrebbero avere anche una funzione politica:

“L’accorciamento delle distanze, cui si dee giungere per mezzo delle ferrovie potrà forse persuadere più tardi il legislatore a diminuire il numero delle Provincie, assegnando a ciascuna una distesa di superficie maggiore dell’attuale. Nel qual caso le circoscrizioni, che noi consigliamo come una opportunità statistica, potrebbero essere forse utilmente meditate dal punto di vista della convenienza politica e amministrativa, anche perché di questa guisa l’Italia finirebbe coll’adagiarsi in un’omogenea e proporzionata ripartizione di superficie e popolazione, la quale, nella moltiplicità delle parti, anziché offendere, rispetterebbe e conserverebbe l’integrità del territorio nazionale. La Patria nostra infatti uscirebbe da siffatto rimaneggiamento di circoscrizioni migliorata nella sua membratura, emendata quasi dall’imperfezione dell’eccessiva lunghezza, e quasi direbbesi arrotondata, con regioni che si verrebbero raggruppando intorno a Roma, antico suo centro naturale e tradizionale”356.

Tre anni dopo, nel 1867, pubblica per l’Esposizione Universale di Parigi un interessante

volume sull’economia italiana: una pubblicazione voluta dalla Commissione Nazionale per

l’Esposizione per presentare ufficialmente l’economia del nuovo Regno357. Commissione che, è

bene ricordare, era una emanazione diretta del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio

da cui dipendeva l’Ufficio Centrale di Statistica diretto da Piero Maestri. Nelle prime pagine di

questo volume, che doveva presentare i traguardi raggiunti dal nuovo Stato in campo

economico, egli tratteggia delle nozioni geografiche dell’Italia con un paragrafo sulle “tradition

et aspect des diverses régions” dove ciascuna Regione viene definita come una precisa unità

sia dal punto di vista fisico sia da quello umano:

“la Région, c’est-à-dire une grande subdivision du territoire italien, qui, par son aspect naturel, diffère des autres, et qui depuis longtemps habitée par la même race. Les grandes régions que présente l’Italie, considérée dans sa physionomie physique, historique, statistique et économique, sont au nombre de 20; savoir le Piémont, la Ligurie, la Lombardie, la Vénétie, l’Emilie, l’Ombrie, les Marches, la Toscane, les Abruces et Molise, la Campanie, les Pouilles, la Basilicate, les Calabres, la Sicile, la Sardaigne, le Latium, la Rhétie, les vallées Juliennes et l’Istrie, la Corse et Malte. Chacune de ces régions a pour ainsi dire un horizon qui lui est propre. Chacune a visiblement un trait d’affinité avec les régions sœurs, auxquelles elle se relie. Chaque région a tellement son caractère que… vous pourrez dire le nom du pays écrit sur les montagnes ou dans le cours des eaux. Chaque région naturelle coïncide en grande partie avec l’une des divisions

356 Le citazioni sono tutte tratte da P.Maestri, 1864b, pp.VI-VII. Un più facile reperimento di queste, riportate per intero, si può trovare in ISTAT (n.d., pp.62-65) e in O.Marinelli (1923, nella nota 2 di pp.840-841) che ne riporta un amplissimo stralcio. 357 Che giustamente M.Carazzi (1972, p.4) definisce “il primo tentativo di descrizione complessiva del giovane Regno”.

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historiques de l’Italie, avec un des centres intellectuels et économiques du pays” (P.Maestri, 1867, p.7 )358.

L’anno seguente nell’edizione italiana359 riporta in modo un po’ più articolato la descrizione

delle Regioni che definisce in diciotto non citando la Corsica e Malta. Ha ormai abbandonato i

Compartimenti Statistici e per suddividere il territorio del Regno si avvale sempre del termine

Regione intendendo così come i due termini siano perfettamente equivalenti360:

8.6.3. - La decisiva accettazione “dell’uso statistico” della partizione regionale di Piero Maestri.

Il superamento dell’ambiguità avviene nel 1912, quando La Direzione Generale di

Statistica361 adotta definitivamente il termine Regione per indicare in tutte le sue pubblicazioni

quei “raggruppamenti di province” individuati e definiti in precedenza da Piero Maestri362.

L’accettazione ufficiale, netta e precisa, avviene nell’Annuario Statistico Italiano del 1912

nella cui prima tabella viene riportata una nota un cui si afferma:

“Le Regioni sono circoscrizioni che non hanno alcun carattere legale: corrispondono generalmente alle antiche divisioni politiche d’Italia o si riattaccano a tradizioni storiche. Nelle pubblicazioni statistiche esse vengono di solito chiamate ‘Compartimenti’, e con tale denominazione furono anche indicate, il più delle volte, negli Annuari statistici precedenti. In questo abbiamo creduto conveniente attenerci costantemente alla denominazione di ‘Regione’ allorché non trattasi di circoscrizioni compartimentali propriamente dette, quali, ad esempio, i Compartimenti ferroviari, telegrafici, telefonici, marittimi, catastali, ecc.” (ISTAT, 1913, p.11).

Come si vede, da questo momento, le Regioni italiane entrano definitivamente, anche se

dalla porta di servizio in sordina con tutte le cautele possibili e solo dal punto di vista operativo

statistico, nella vita dello Stato. Da quel momento, e fino a quello del 1917/1918, tutti gli

Annuari Statistici Italiani riporteranno sia la nota sia la divisione in Regioni.

In questo modo quella divisione territoriale divenne di uso comune tanto che al Congresso

Geografico Italiano del 1924 Olinto Marinelli ne consacra l’accettazione anche da parte dei

geografi:

358 Queste venti regioni comprendono quelle sedici del Regno d’Italia mentre le ultime quattro “la Rhétie, les vallées Juliennes et l’Istrie, la Corse et Malte” sono quelle non ancora redente. 359 G.Sacchi (1871, p.83) afferma: “L’esito di quell’opera fu tale e tanto, che dovette l’autore farne tosto un’edizione italiana…”. L’iniziativa dell’Italie Economique continuò, in effetti, negli anni successivi con degli annuari dal titolo l’ Italia Economica nel… che firmò fino a quello relativo al 1870 stampato nel 1871, anno della sua morte, e che in seguito vennero continuati dal suo successore L.Bodio. 360 Il primo fra i geografi a parlare della relazione tra Compartimenti Statistici e Regioni è stato O.Marinelli (1923; 1925) L’analisi di O.Marinelli è stata rivista da A.Sestini (1949), seguita, una diecina d’anni dopo da B.Nice (1958). Una approfondita ripresa, con valutazioni politiche, ne fa L.Gambi (1964) nei primi anni del dibattito regionalistico italiano del secondo dopoguerra; valutazioni riprese da F.Compagna (1968, pp.86-108) ed approfondite da C. Muscarà (1968). Sul significato e valore dei Compartimenti Statistici si veda anche S.Patriarca (1996, pp.176-209). 361 Tale era allora il nome dell’attuale ISTAT. 362 Per quanto riguarda i censimenti: nel 1871 (effettuato pochi mesi dopo la morte di P.Maestri) in alcune tabelle appare la suddivisione dell’Italia per Compartimenti; in quello del 1881 la suddivisione è eliminata per riapparire in quelli del 1901 (nel riepilogo) e del 1911 (nelle tabelle riassuntive); nel 1921 e nel 1936, durante il ventennio, le province vengono raggruppate nei Compartimenti; dal 1951 in poi i Compartimenti sono definitivamente sostituiti con le Regioni.

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“Nel 1863 Pietro Maestri introdusse nell’uso della statistica ufficiale, e quindi poi dei geografi, quegli aggruppamenti delle provincie del Regno, che si dissero per un pezzo compartimenti poi, più modernamente, regioni” (O.Marinelli, 1925, p.252, corsivo dell’autore) 363.

Lo stesso Roberto Almagià nel 1933 sull’Enciclopedia Treccani alla voce Italia afferma

acriticamente: “la divisione attuale, ufficiale, dell’Italia in regioni o compartimenti” (AA.VV,

1933, p.738). Una accettazione questa, fatta da Olinto Marinelli e Roberto Almagià due

importanti ed ascoltati maestri della geografia italiana, così, probabilmente anche per questo il

termine divenne così di uso comune che lo studio delle Regioni entrò da allora in tutti i

programmi ed i testi di Geografia in uso nelle varie scuole. Inoltre questa suddivisione venne

consacrata come simbolo del Paese tanto che nelle varie aule delle scuole di ogni ordine e

grado sulla parete alle spalle della cattedra e quindi di fronte agli alunni era quasi sempre

presente la carta geografica dell’Italia divisa nelle sue Regioni.

Anche dal punto di vista politico la questione regionale permeò il dibattito dalla fine

dell’Ottocento all’avvento del Fascismo364. In ogni caso la divisione del Paese in Regioni, dato il

pericolo di una deriva verso forme più o meno mascherate di decentramento, non riuscì mai a

concretizzarsi rimanendo costantemente allo stadio di discussione. Nella sostanza prevalse

sempre la necessità di un forte potere centrale che potesse far fronte ai contrasti fra le varie

parti e forze economico-politiche della penisola.

Data la particolare concezione che il regime fascista aveva dello Stato il suo atteggiamento

nei confronti del problema regionale non poteva che essere negativo. Questo sia per il grande

pericolo che poteva portare all’unità sia, e principalmente, per rafforzare la posizione del

partito appena salito al potere365. Lo stesso Giacomo Acerbo nel suo discorso sul primo anno di

governo del Fascismo definisce chiaramente come il principio unitario debba prevalere sulla

concezione regionalista: qualsiasi forma di regionalismo sarebbe contrastante con uno “Stato

Nazionale forte nello spirito e nel corpo”366. Per questo l’ISTAT fa sparire il termine Regione367

dalle sue pubblicazioni: mantiene però la ripartizione regionale attribuendovi la denominazione

più neutra di Compartimento, così come aveva fatto Piero Maestri in condizioni analoghe

sessant’anni prima.

363 O.Marinelli fa poi approvare dallo stesso Congresso Geografico Italiano (Vol.I, p.261) un Ordine del Giorno in cui si afferma “Il IX Congresso Geografico Italiano, mentre plaude all’iniziativa del Comitato Geografico di avviare la considerazione geografica dell’intero problema della divisione dell’Italia in regioni e ciascuna di queste in provincie…” ma, probabilmente non se ne fece nulla; non ne ho trovato mai nessuna traccia. 364 Non è qui il caso di ripercorrere i vari interventi e prese di posizione. Per un approfondimento su questa tematica si veda l’accenno che ne fa E.Ragionieri (pp.1668-2483), l’interessante lavoro di R.Ruffilli (1971) ed il dossier raccolto da E.Santarelli (1970). 365 Si veda R.Ruffilli (1971, pp.389-400) e M.Monaco (s.d., pp.62-64). Da notare che nello stesso periodo il termine Regione sparisce anche dagli Annuari di Statistica dove viene sostituito con il termine neutro di Compartimenti. 366 Il discorso di G.Acerbo è molto semplice: l’istituzione della Regione sarebbe una iattura perché “potrebbe condurre alla disgregazione, prima dell’unità morale, poi di quella territoriale della Patria, con tanti sforzi e sacrifici raggiunta. Il governo nazionale, informato ai principi essenzialmente unitari, la cui finalità ultima è quella dello Stato forte nello spirito e nel corpo, non può aderire ad alcuna forma di ordinamento politico-amministrativo che costituisca un pericolo o una minaccia della composizione politica dello Stato” (Acerbo, 1923, p.25-26). 367 Come nota S.Ardy (1948, p.209) “l’Istituto Centrale di Statistica era tornato per ordine superiore a chiamarle compartimenti”.

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8.6.4. – La definitiva accettazione delle Regioni.

Finita la Seconda Guerra Mondiale, con la redazione della Costituzione, viene pienamente

accettata la partizione dello Stato nelle Regioni e l’art. 131 recita:

“Sono costituite le seguenti regioni: Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia; Trentino-Alto Adige; Veneto; Friuli-Venezia Giulia; Liguria; Emilia-Romagna; Toscana; Umbria; Marche; Lazio; Abruzzi; Molise; Campania; Puglia; Basilicata; Calabria; Sicilia; Sardegna”368.

Questa partizione scaturì da una lunga discussione in seno al “Comitato per le Autonomie

Locali”, composto da dieci deputati e presieduto dall’On. Ambrosini, che aveva il compito di

definire “l’affidamento dell’ordinamento regionale”369. Lo scopo principale di questo Comitato fu

appunto quello di impostare la soluzione di due ordini di problemi: uno relativo ai poteri da

attribuire al nuovo ente territoriale e l’altro, ben più importante per noi, riguardava la precisa

delimitazione dei suoi confini.

Nella prima relazione, di carattere generale, presentata alla Seconda Sottocommissione370

l’on. Ambrosini, relatore per il Comitato, dà per scontato il riferimento al “criterio storico” e la

questione del territorio regionale, cioè la concreta possibilità di identificare le singole regioni e

di conseguenza poterle “istituire”, viene quasi esclusivamente vista come una precisa esigenza

di dare un’identità politico-istituzionale alle tradizionali comunità territoriali della realtà storico-

geografica italiana371. In effetti, lo Stato con la Costituzione non poteva creare le Regioni ma

solo riconoscere l’esistenza articolandone i poteri. L’on. Mannironi esplicitamente afferma:

“Qualcuno ha parlato di creazione della Regione. È un termine erroneo: lo Stato, la legge, non crea la Regione, la riconosce, perché le Regioni esistono come realtà economiche, storiche, geografiche, linguistiche ecc.” (Camera dei Deputati, vol.VII, p.846).

Prima di arrivare all’Assemblea Costituente il nuovo progetto venne discusso nell’assemblea

plenaria della Commissione dei 75 nella quale l’on. Einaudi fa un interessante richiamo in cui

precisa cosa si debba intendere per “tradizionale ripartizione geografica dell’Italia” affermando

come effettivamente questa tradizione si rifà esclusivamente ad una “tradizione puramente

statistica”:

368 L’art. 1 della legge costituzionale 27 dicembre 1963 n.3, ha modificato il numero delle regioni, portandolo dalle originarie 19 alle attuali 20, scindendo il Molise dagli Abruzzi, prima considerati assieme come “Abruzzi e Molise”. 369 Per redigere il Progetto della Costituzione l’Assemblea Costituente (formata da 556 eletti) nominò tra i suoi membri una speciale commissione, composta da 75 membri (la Commissione dei 75). Questa si suddivise in tre sottocommissioni. La seconda di queste, che doveva discutere dell’ordinamento costituzionale, vista la mole e la complessità dei problemi, si suddivise in due sezioni la prima delle quali, relativa al potere esecutivo, operò una ulteriore suddivisione con l’affidamento dell’ordinamento regionale ad un Comitato Ristretto di dieci membri (Ambrosini G., 1975, p.XVI). 370 Dell’attività del comitato per le autonomie locali non venne redatto nessun processo verbale per cui occorre rifarsi alle discussioni nell’ambito sia della Seconda Sottocommissione sia della Commissione dei 75. 371 Su questo si veda l’interessante analisi che ne fa M.Pedrazza Gorliero (1979, pp.14-27). Anche G.P.Dolso (1999, p.20) nota come “le regioni, pur essendo, dal punto di vista strettamente giuridico, estranee all’ordinamento dello Stato italiano, appartenevano sicuramente alla radicata tradizione storico e geografica del Paese”.

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“dal 1860 in poi le regioni non sono esistite, se non negli annuari statistici, ma non hanno mai avuto alcun significato giuridico” (Camera dei Deputati, vol.VI, pp.285-286).

Si arriva poi, dopo lunghe discussioni, all’approvazione dell’art.131 della nostra

Costituzione in cui sono elencate le Regioni, così come le abbiamo ora372 ma che corrispondono

alle Regioni/Dipartimenti così come le aveva pensate e disegnate Piero Maestri.

Fonte: F.Compagna, 1968, p.106.

Solo vent’anni dopo nel 1968, in piena discussione sull’attuazione dell’ordinamento

regionale, esce un importante lavoro di Francesco Compagna che, primo e ultimo, propone una

nuova riorganizzazione delle Regioni Italiane portandole da 20 a 13 mediante l’annessione al

Veneto del Friuli-Venezia Giulia e della Provincia di Trento, lo smembramento e l’annessione ad

altre della Liguria, Umbria, Basilicata e Molise mentre La Valle d’Aosta e la Provincia di Bolzano

potrebbero, se non proprio fondersi, almeno consorziarsi con il Piemonte e con il Veneto. In

modo tale che la ripartizione regionale italiana possa risultare:

“conforme alle esigenze della politica di piano, e tale da rendere le regioni italiane altrettanto funzionali delle “grandi” regioni europee” (Compagna, 1968, p.105).

Una riorganizzazione questa che riceve il plauso solo da Calogero Muscarà e da Pasquale

Saraceno ma che rimane solo “sulla carta” qui riportata373.

372 Occorre però tener presente che l’art. 1 della legge costituzionale 27 dicembre 1963 n.3, ha modificato il numero delle regioni, portandolo dalle originarie 19 alle attuali 20, scindendo il Molise dagli Abruzzi, prima considerati assieme.

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8.6.5. – Conclusioni.

Piero Maestri aveva in mente le Regioni quali strumenti del decentramento amministrativo

ma, bocciata dal parlamento quella idea, propose i Compartimenti come utensile di

configurazione statistica di un territorio374. Per il suo pensiero i Compartimenti –legati alla

statistica– e le Regioni –legate al decentramento– coincidevano. Ne fa fede anche l’ambiguità

che egli fa del loro utilizzo quando passa dall’uno all’altra per designare sempre lo stesso

concetto: una suddivisione del territorio nazionale. In questo modo è attraverso la neutralità

d’uso del mero “utensile” statistico che la suddivisione territoriale delle Regioni amministrative

(uguali a quelle attuali e non altre) viene mantenuta viva e vitale e quando si tratterà di

dividere effettivamente l’Italia in Regioni, durante i dibattiti della Commissione di 75 e le

discussioni all’Assemblea Costituente, è a quelle che si fa riferimento.

L’idea di Piero Maestri fu così forte che i suoi Compartimenti/Regioni, passando indenni

attraverso i vari mutamenti politici intervenuti in Italia, furono tranquillamente trasformati

nelle attuali regioni amministrative italiane. Fu certamente merito anche della loro tacita

accettazione “da parte degli stessi geografi, come degli statistici, della scuola, del pubblico in

genere, e la rapida diffusione nei libri e nelle carte”375 ma è certo che non furono una banale

improvvisazione statistica.

Furono disegnate, nella loro forma attuale, nella seconda metà del 1800, un’epoca in cui la

mobilità delle persone cominciava a passare dalla carrozza alla ferrovia: forse, continuando

l’idea di Francesco Compagna, sarebbe ora di ridisegnarle, di dar loro nuovi confini, di dar loro

una dimensione europea.

373 Per C.Muscarà si veda il volume (1968) alle pp.163-184; mentre P.Saraceno in un intervento su la “Voce Repubblicana” afferma “e la regione, nelle nuove dimensioni, nei diversi confini che, avverte Compagna, la odierna realtà impone ma che vanno ancora accertati, costituisce l’unità elementare, elementare, vorrei dire il modo di esperienza più vitale su cui può essere fondato il nuovo tipo di azione pubblica che oggi urgentemente si impone” (quest’intervento è stato ripreso poi in un volume del 1970, la citazione è alle pp.487-488)- 374 Si usano qui i termini utensile e strumento nell’accezione che ne fa A.Koyré, 1967, pp.101-111 si veda in particolare la sua definizione di strumento a p.106. 375 A.Sestini, 1949, p.132. Circa l’accettazione da parte dei geografi, oltre all’affermazione di O.Marinelli ricordata prima, R.Almagià nel 1933 sull’Enciclopedia Treccani alla voce Italia afferma “la divisione attuale, ufficiale, dell’Italia in regioni o compartimenti” (AA.VV, 1933, p.738);

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