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6 La Rassegna d’Ischia n. 4/2012 Ex libris a cura di Raffaele Castagna La Riviera di Napoli di H. M. Vaughan II edition, London 1908 * (...) Da Torregaveta, piccoloa stazione della Ferrovia Cu- mana, che attraversa il distretto classico dei Campi Flegrei, siamo rapidamente trasportati con un vaporetto costiero oltre il promontorio di Miseno all’isola e al porto di Proci- da, l’ “alta Prochyta” di Virgilio. Anche se il poeta chiama l’isola “alta”, essa è notevolmente piana, considerando la sua origine vulcanica, poiché Procida e Ischia sono state senza dubbio unite in epoche remote, come congetturò giu- stamente Strabone. L’unica sua eminenza è la Rocciola, il castello che incorona la collinetta a nord-est dell’isola, e questa collina deve aver attirato primamente l’attenzione del nocchiero di Enea, per cui forse l’epiteto è dopo tutto non così fuori luogo come sembrerebbe a prima vista. Dis- sodata con cura e densamente popolata, l’isola produce una gran quantità di frutti, verdura, e olio d’oliva, che vengono venduti nel mercato di Napoli, e in antichità non fu posses- so romano, non ha chiese medievali, non opere d’arte, ma soltanto poche bellezze naturali sono le sue attrattive che vi richiamano gli stranieri. I suoi abitanti, che sono princi- palmente agricoltori, sono grandi lavoratori e indipendenti, e contenti anche di conservare gli usi e i costumi dei loro avi, e di continuare l’uso del loro costume nazionale, in modo che le feste di Procida hanno più interesse e colore locale rispetto a quelle di Capri o Sorrento. Non interessati al progresso del mondo esterno, non attratti dal denaro del forestiere, i Procidani perseguono il tenore anche dei loro vecchi usi, non invidiosi dei loro vicini in terraferma. Ci fermiamo al porto di Procida, con le sue case vario- pinte dai tetti piatti che costeggiano il molo e s’elevano sul dolce pendio verso la Rocciola. Da lì, costeggiando le fer- tili rive dell’isola, e passando l’isolotto di Vivara, si giunge in vista del promontorio scosceso sul quale è appollaiata la grigia massa del Castello di Ischia,.. Coperto dalla base alla cima con erbaccia, lentisco, ci- sto aromatico, e ogni pianta che ama il sole, il vento e la schiuma salata del Mediterraneo, l’enorme rupe si erge so- litaria e maestosa dalle profonde acque azzurre. Se visto al sole brillante sotto un cielo senza nuvole, o durante il cattivo tempo, quando il mare spinge le sue onde sul ponte di pietra che congiunge lo scoglio isolato con la cittadina di Ischia, la prima vista di questo storico castello è singo- larmente impressionante. Né è diminuita la sua imponenza al nuovo approccio, poiché la salita alla sua torre più alta ci conduce attraverso un labirinto di scale e misteriosi passag- gi sotterranei, attraverso camere a volta e curiosi giardini * The Naples Rivera, by Herbert M. Vaughan, IB. A. (Oxon.), II edition, London 1908 pensili di una piattaforma aerea, che gode di una meravi- gliosa vista in ogni direzione sulla terra e sul mare. Costruito da Alfonso V d’Aragona nel XV secolo, que- sto masso enorme, metà fortezza e metà palazzo, è famoso negli annali italiani per la sua lunga associazione con la no- bile poetessa Vittoria Colonna, marchesa di Pescara. Nata nello storico castello di Marino, vicino a Roma, una delle roccaforti della grande casa feudale dei Colonna, la poe- tessa divenne nella sua infanzia, su iniziativa del re Ferdi- nando di Napoli, la fidanzata del giovane erede della fami- glia d’Avalos, governatori ereditari dell’isola d’Ischia. La sorella maggiore del marito-fidanzato di Vittoria, Costanza d’Avalos, la vedova Duchessa di Francavilla, era la “castel- lana” di Ischia durante la minore età di suo fratello, cosiché era naturale che la promessa sposa dovesse essere inviata a dimorare con Costanza in questo castello. Qui Vittoria sotto la tutela di Costanza crebbe fino all’età adulta in mez- zo al clima intellettuale del Rinascimento italiano, e qui fu addestrata a diventare uno delle più dotte e più interessanti figure che l’Italia produsse in questo periodo. Senza figli nel suo precoce matrimonio a diciotto anni, e con il marito spesso, per non dire di solito, impegnato in spedizioni mi- litari sulla terraferma, Vittoria ebbe l’opportunità di colti- vare la sua mente e di incontrarsi nel suo palazzo cinto dal mare con uomini di genio. I poeti Caritco e Bernardo Tasso (il padre di Torquato Tasso), erano frequentatori di questo Superbo scoglio, altero e bel ricetto, Di tanti chiari eroi, d ‘imperatori, Onde raggi di gloria escono fuori, Ch’ogni altro lume fan scuro e negletto. (…) Ischia è di per sé una pittoresca città di case sparse, in possesso di una piccola cattedrale di antica fondazione, ma modernizzata dentro e fuori, il suo unico elemento di interesse è un curioso fonte battesimale che poggia su leoni di marmo. Il fascino della città si trova soprattutto nelle scene affollate che ogni giorno si possono vedere sulla sua spiaggia e sul ponte di pietra che conduce al Castello, dove una gran parte della popolazione sembra passare molto del suo tempo nella riparazione delle scure reti da pesca o nel pitturare sfarzosamenre le barche. Quasi adiacente al margine della piccola capitale delll’i- sola è Porto d’Ischia, con un porto profondo circolare che un tempo fu il cratere di un vulcano spento, in cui si vedono in rada vari tipi di imbarcazioni da pesca del Mediterraneo. Vicino al porto, nascosto tra i boschetti di aranci e limoni che nel periodo invernale sono carichi di brillante o pallida frutta gialla, sorge una bella villa antica dei re Borbone di Napoli, un tempo residenza estiva preferita di Sua Maestà il Re Bomba. I Reali hanno da tempo abbandonato Ischia, e la villa è stata ora trasformata in stabilimento di bagni. Al di là del suo parco si estende una estesa foresta di pini, abbellita in primavera con le margherite, le calendole e gli

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6 La Rassegna d’Ischia n. 4/2012

Ex libris a cura di Raffaele Castagna

La Riviera di Napolidi H. M. VaughanII edition, London 1908 *

(...) Da Torregaveta, piccoloa stazione della Ferrovia Cu-mana, che attraversa il distretto classico dei Campi Flegrei, siamo rapidamente trasportati con un vaporetto costiero oltre il promontorio di Miseno all’isola e al porto di Proci-da, l’ “alta Prochyta” di Virgilio. Anche se il poeta chiama l’isola “alta”, essa è notevolmente piana, considerando la sua origine vulcanica, poiché Procida e Ischia sono state senza dubbio unite in epoche remote, come congetturò giu-stamente Strabone. L’unica sua eminenza è la Rocciola, il castello che incorona la collinetta a nord-est dell’isola, e questa collina deve aver attirato primamente l’attenzione del nocchiero di Enea, per cui forse l’epiteto è dopo tutto non così fuori luogo come sembrerebbe a prima vista. Dis-sodata con cura e densamente popolata, l’isola produce una gran quantità di frutti, verdura, e olio d’oliva, che vengono venduti nel mercato di Napoli, e in antichità non fu posses-so romano, non ha chiese medievali, non opere d’arte, ma soltanto poche bellezze naturali sono le sue attrattive che vi richiamano gli stranieri. I suoi abitanti, che sono princi-palmente agricoltori, sono grandi lavoratori e indipendenti, e contenti anche di conservare gli usi e i costumi dei loro avi, e di continuare l’uso del loro costume nazionale, in modo che le feste di Procida hanno più interesse e colore locale rispetto a quelle di Capri o Sorrento. Non interessati al progresso del mondo esterno, non attratti dal denaro del forestiere, i Procidani perseguono il tenore anche dei loro vecchi usi, non invidiosi dei loro vicini in terraferma. Ci fermiamo al porto di Procida, con le sue case vario-pinte dai tetti piatti che costeggiano il molo e s’elevano sul dolce pendio verso la Rocciola. Da lì, costeggiando le fer-tili rive dell’isola, e passando l’isolotto di Vivara, si giunge in vista del promontorio scosceso sul quale è appollaiata la grigia massa del Castello di Ischia,.. Coperto dalla base alla cima con erbaccia, lentisco, ci-sto aromatico, e ogni pianta che ama il sole, il vento e la schiuma salata del Mediterraneo, l’enorme rupe si erge so-litaria e maestosa dalle profonde acque azzurre. Se visto al sole brillante sotto un cielo senza nuvole, o durante il cattivo tempo, quando il mare spinge le sue onde sul ponte di pietra che congiunge lo scoglio isolato con la cittadina di Ischia, la prima vista di questo storico castello è singo-larmente impressionante. Né è diminuita la sua imponenza al nuovo approccio, poiché la salita alla sua torre più alta ci conduce attraverso un labirinto di scale e misteriosi passag-gi sotterranei, attraverso camere a volta e curiosi giardini

* The Naples Rivera, by Herbert M. Vaughan, IB. A. (Oxon.), II edition, London 1908

pensili di una piattaforma aerea, che gode di una meravi-gliosa vista in ogni direzione sulla terra e sul mare. Costruito da Alfonso V d’Aragona nel XV secolo, que-sto masso enorme, metà fortezza e metà palazzo, è famoso negli annali italiani per la sua lunga associazione con la no-bile poetessa Vittoria Colonna, marchesa di Pescara. Nata nello storico castello di Marino, vicino a Roma, una delle roccaforti della grande casa feudale dei Colonna, la poe-tessa divenne nella sua infanzia, su iniziativa del re Ferdi-nando di Napoli, la fidanzata del giovane erede della fami-glia d’Avalos, governatori ereditari dell’isola d’Ischia. La sorella maggiore del marito-fidanzato di Vittoria, Costanza d’Avalos, la vedova Duchessa di Francavilla, era la “castel-lana” di Ischia durante la minore età di suo fratello, cosiché era naturale che la promessa sposa dovesse essere inviata a dimorare con Costanza in questo castello. Qui Vittoria sotto la tutela di Costanza crebbe fino all’età adulta in mez-zo al clima intellettuale del Rinascimento italiano, e qui fu addestrata a diventare uno delle più dotte e più interessanti figure che l’Italia produsse in questo periodo. Senza figli nel suo precoce matrimonio a diciotto anni, e con il marito spesso, per non dire di solito, impegnato in spedizioni mi-litari sulla terraferma, Vittoria ebbe l’opportunità di colti-vare la sua mente e di incontrarsi nel suo palazzo cinto dal mare con uomini di genio. I poeti Caritco e Bernardo Tasso (il padre di Torquato Tasso), erano frequentatori di questo

Superbo scoglio, altero e bel ricetto, Di tanti chiari eroi, d ‘imperatori, Onde raggi di gloria escono fuori, Ch’ogni altro lume fan scuro e negletto.

(…) Ischia è di per sé una pittoresca città di case sparse, in possesso di una piccola cattedrale di antica fondazione, ma modernizzata dentro e fuori, il suo unico elemento di interesse è un curioso fonte battesimale che poggia su leoni di marmo. Il fascino della città si trova soprattutto nelle scene affollate che ogni giorno si possono vedere sulla sua spiaggia e sul ponte di pietra che conduce al Castello, dove una gran parte della popolazione sembra passare molto del suo tempo nella riparazione delle scure reti da pesca o nel pitturare sfarzosamenre le barche. Quasi adiacente al margine della piccola capitale delll’i-sola è Porto d’Ischia, con un porto profondo circolare che un tempo fu il cratere di un vulcano spento, in cui si vedono in rada vari tipi di imbarcazioni da pesca del Mediterraneo. Vicino al porto, nascosto tra i boschetti di aranci e limoni che nel periodo invernale sono carichi di brillante o pallida frutta gialla, sorge una bella villa antica dei re Borbone di Napoli, un tempo residenza estiva preferita di Sua Maestà il Re Bomba. I Reali hanno da tempo abbandonato Ischia, e la villa è stata ora trasformata in stabilimento di bagni. Al di là del suo parco si estende una estesa foresta di pini, abbellita in primavera con le margherite, le calendole e gli

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anemoni, e persino nel mese di febbraio rallegrata con os-sali gialle e odorose con il profumo di viole nascoste. La strada da Ischia a Casamicciola, una distanza di quat-tro miglia, conduce lungo le falde del Monte Epomeo tra oliveti e vigneti, le pareti imbiancate a calce delle case, i tetti a cupola e cisterne, e i frequenti ciuffi di aloe o fichi d’indie che danno un aspetto orientale al paesaggio, an-che se il forte tintinnio dei campanacci delle pecore tra i cespugli di bianca erica e la macchia di scuro mirto sui fianchi delle colline e il continuo mormorio delle onde che si infrangono sulle rocce sottostanti, servono a ricordarci che siamo sulla Riviera napoletana. La nostra meta è final-mente raggiunta, la strada attraversa la profonda valle del Gurgitello con i suoi bagni di zolfo, che una volta avevano una grande reputazione e sono ancora molto frequentati nei mesi estivi dal popolo di Napoli. Sebbene le fonti delle sor-genti siano state certamente danneggiate dal terremoto del 1883, gli stabilimenti balneari sono stati ricostruiti, e un discreto numero di pazienti ancora una volta si avvalgono di queste acque benefiche, che ovviamente sono garanzia di guarigione per ogni male del corpo sotto il sole. In prece-denza il più popoloso e prosperoso comune di tutta l’isola, Casamicciola costituisce oggi principalmente un ammasso di rovine informi, insieme con una serie di tristi capanne di lamiera raggruppate attorno ad una moderna chiesa, né possono la sua mirabile vista e i rigogliosi giardini fare am-menda per l’aria persistente di malinconia che continua a rimuginare su questo luogo funesto. Ogni lettore senza dubbio ricorderà la storia del terribile terremoto del 28 luglio 1883, quando, quasi senza preav-viso, tutta la città, affollata con il suo consueto afflusso di visitatori d’estate, fu demolita e inghiottita nello spazio di pochi secondi. Alberghi, ville, chiese, case, tutto sofferse allo stesso modo, e anche se il numero esatto di coloro che sono morti di tutte le classi non si saprà mai, i conti più moderati danno la cifra più alta di 3000 anime. Diversi gli inglesi che persero la vita in quello sconvolgimento breve ma terribile, e molti dei corpi recuperati dalle macerie furo-no sepolti nel piccolo cimitero fuori della città, un appezza-mento di terreno a strapiombo sul mare, e ombreggiato da cipressi ed eucalipti. Molte e interessanti sono le storie che ancora si sentono dalle labbra degli abitanti presenti, che sono abituati a datare gli eventi da quella notte spaventosa dell’oscurità e della distruzione, e che hanno storie pietose da raccontare circa i morti e le case cadute. La padrona di casa, inglese, della Piccola Sentinella, che quasi ebbe una miracolosa salvezza nell’occasione, ci ha dato una descri-zione viva e straziante di come il suo albergo e la maggior parte dei suoi clienti furono travolti in quella notte terribile del mese di luglio, e che l’attuale locanda è stata letteral-mente ricostruita su fondamenta che sono piene di molti corpi delle vittime non recuperati. (…) A due miglia, procedendo a piedi attraverso stradine di pietra sormontate da rami di fico e arancio, da Casamic-ciola si arriva a Lacco, un grande villaggio situato in una piccola baia che si distingue per una curiosa pietra a forma di fungo, giustamente soprannominata “Il Fungo” dai nati-

vi. Questo luogo, che ha anche sofferto molto nel terremo-to del 1883, è il quartier generale dell’industria d’intreccio della paglia; le donne e i bambini insistentemente e con suppliche invitano ogni visitatore ad acquistare la loro mer-ce nelle forme di cesti, cappelli e ventagli; le belle piastrelle colorate (mattoni), che vengono utilizzate con buoni risul-tati nelle chiese e case dell’isola, sono anche costruite qui. Lacco è particolarmente associato con la grande festa an-nuale di S. Restituta il 17 maggio, che è sempre caratteriz-zata da processioni religiose e da fiere-mercato, seguita da illuminazioni e fuochi d’artificio al calar della notte. Questa santa, di cui un primo ritratto esiste ancora nella sua antica cappella all’interno della cattedrale napoletana, un tempo era la patrona della città di Napoli, ma fin dal Medioevo è stata venerata come la speciale patrona di questa isola, e il suo corpo (secondo la leggenda) arrivò miracolosamente dall’Egitto in una barca condotta dagli Angeli. Una tradi-zione locale afferma anche che al suo sbarco sulla spiaggia di Lacco, un fiore di loto egiziano fu trovato nella mano della santa, fresco come quando era stato strappato mesi prima dalle rive del Nilo. Lasciata la piccola baia con le sue sabbie impregnate di zolfo, e girando nell’entroterra, si procede lungo una strada che attraversa un antico torrente di lava, coperta con pini, capperi selvatici e un groviglio di sterpaglie aromatiche, sino a Forio che, con le sue bianche case a cupola, le sue palme e le sue donne che a piedi nudi portano alte brocche sulle loro teste, dà al primo impatto l’impressione di una città orientale. C’è poco da vedere anche in Forio, ad eccezione di alcu-ni pregiati paramenti di ricamo che sono conservati nella sacrestia della sua chiesa principale, ma nessun viaggiatore dovrebbe mancare di visitare il suo monastero francesca-no meravigliosamente pittoresco, un edificio di abbaglianti bianche pareti e cupole dall’aspetto barbarico sullo sfondo di un mare cobalto, che sta all’esterno della città su una piattaforma rocciosa che si protende nel Mediterraneo ed al quale si accede da una ampia rampa di gradini di mar-mo decorati con realistiche figure di anime nelle fiamme del Purgatorio. Questo punto offre anche una bella visione dell’estremo promontorio dell’isola, una alta falesia nota come Punta Imperatore in onore del grande imperatore Carlo V, oltre il quale i visitatori raramente possono andare a causa della ruvidità, o meglio della mancanza di strade, sebbene il lato meridionale dell’isola, che si trova tra que-sto capo e il castello di Ischia, è altrettanto bello come la parte settentrionale ora descritta. L’attrazione principale, comunque, di una visita ad Ischia è l’ascesa del Monte Epomeo, una facile escursione a piedi per le persone attive e fattibile per i deboli o pigri a dorso di mulo. Questo vulcano spento, la cui alta vetta è visibile da molti punti del golfo di Napoli, è naturalmente ricco di richiami classici, e gli antichi credettero che sotto di esso si trovasse imprigionato il gigante Tifeo, i cui movimenti agonizzanti erano ritenuti la causa delle frequenti eruzio-ni del cratere che forse costrinsero i primi coloni greci a fuggire da questa isola, - l’Aenaria o Inarime dell’antichi-tà - e in tempi successivi fu presa in consideraione come

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stazione invernale dai lussuriosi Romani, nonostante la sua vicinanza a Baia maggiormente di moda. Così distruttive per la vita e gli edifici erano queste convulsioni della natu-ra, che per lunghi periodi, nonostante il suo terreno fertile e le lucrative attività di pesca, l’isola rimase disabitata, e una antica tradizione, citata da Ovidio, deriva uno dei suoi nomi antichi, Pithecusa, da una razza di scimmie (pithékoì) che abitava sulle sue rive abbandonate. Dopo la grande eruzione del 1302, i cui effetti possono ancora essere visibili tra i boschi di pino vicino a Porto d’Ischia, la montagna è stata quiescente, e la popolazione dell’isola è aumentata notevolmente, anche se le costanti scosse di terremoto hanno sempre rese un po’ insicura una residenza permanente in Ischia. Né si può essere certi che Tifeo stesso sia veramente morto, e non solo addormenta-to, ma pronto a rinnovare i suoi sforzi dopo il lungo sonno e cambiare il volto della natura in modo imprevisto come ha fatto il Demone del Vesuvio durante ill regno di Tito. Come il grande vulcano dell’Etna, cui la montagna ischi-tana assomiglia un po’ in piccolissima scala, l’Epomeo pre-senta tre distinte zone climatiche. La più bassa è quella del-la linea di costa con la sua ricca vegetazione sub-tropicale: la prima parte della salita conduce per ripidi sentieri roccio-si attraverso assolati vigneti che producono il vino bianco di Ischia, salutare e leggeoa ma di sapore un po’ acidulo. Per la conservazione i contadini usufruiscono delle nu-merose torri di pietra, che un tempo servivano come ritiri di sicurezza quando i pirati barbari spesso scendevano sulle coste italiane a saccheggiare e schiavizzare. Molto curioso è passare dalla luce del sole accecante all’interno di uno di questi luoghi medievali, dove nel buio gelido stanno le grandi botti del nuovo vino bianco, ciascuna segnata con una frase di preghiera in lode di S. Restituta, da una delle quali il contadino dalla carnagione scura, in attesa di pochi centesimi, spilla un bicchiere dell’acido freddo liquido da offrire al suo visitatore. Lasciando i tratti di case e di coltivazioni, si arriva in una foresta ricoperta da boschi di castagni e querce, con un sot-tobosco di erica, mirto, lauro e profumata coronella gialla; c’è erba sotto i nostri piedi, e dappertutto margherite dai lunghi steli, violette, anemoni. Attraverso gli alberi arriva un canto nasale, ma non di-sarmonico, di un invisibile taglialegna, o la nota lamentosa del piccolo rustico piffero di capo-mandria, accompagna-ta dal tintinnio di campanacce del gregge; per un attimo pensiamo di immaginare noi stessi nella pastorale Italia di Teocrito, dove ninfe e pastori, contadini e driadi vivevano insieme in amicizia nei boschi. Ma ben presto i castagni appaiono rachitici, e gli oliveti si fanno sempre più radi, e finalmente raggiungiamo l’ultima zona, la distesa desolata di roccia nuda e i depositi di lava scura della vetta, dove possono prosperare solo alcune erbacce resistenti. Qui in alcune vecchie camere umide abita un eremita - (quasi tutte le montagne classiche del Sud Italia sono tenute in fitto da un anacoreta - in genere un vecchio e ignaro, ma pio, conta-dino del tipo di Pietro Morrone, santo eremita degli Abruz-zi, che fu infine indotto a lasciare le sue celle, per indossare con forza le vesti pontificali e la tiara come Celestino V.

L’eremo attuale del Monte Epomeo risale però compa-rativamente ai tempi moderni, e il suo primo occupante si dice essere stato un nobile tedesco, un tale Joseph Arguth, governatore di Ischia sotto il primo re Borbone, in conse-guenza di un voto solenne fatto in battaglia, per cui delibe-rò di passare gli ultimi anni di esistenza sulla vetta più alta dell’isola, già da lui governata. Il suo esempio fu imitato e le celle furono occupate da altri eremiti, sopportando le piogge di primavera, la calda estate, le tempeste d’autunno e il gelo invernale a questa ventilata altezza, dove una ma-gnifica vista può essere considerata come un compenso per i continui disagi, se gli eremiti sono propensi ad apprezzare qualcosa di così banale come scenario. Il santuario e le cel-le sono dedicate a San Nicola di Bari, e a questa circostanza si deve il nome di Monte San Nicola a tutta la montagna, la cui cima, circa 3000 piedi sul livello del mare, noi final-mente guadagniamo per mezzo di passi quasi tagliati nella lava. La vista da questa altezza, che abbraccia due delle tre baie storiche della costa partenopea, è una delle più nobili e più estese del Sud ltalia. Guardando verso sud, le scogliere fantastiche di Capri sono viste emergere bruscamente dal mare; dopo appare il profilo grazioso di Monte Sant’An-gelo, con il cratere del Vesuvio accanto, velando il cielo blu chiaro con intenso fumo scuro. Al di sotto si estende la linea frastagliata della costa, allungandosi a nord e a sud, per quanto l’occhio possa percorrere, con i suoi capi clas-sici e le isole che si crogiolano al forte sole: mentre, dietro la linea di terra e mare ove si frange la schiuma, s’eleva la linea frastagliata delle Montagne Abruzzesi con l’enorme massa innevata del Gran Sasso d’Italia dominante sui pic-chi più bassi. Ai nostri piedi si estende l’isola bella e ferti-le, in apparenza poco cambiata dai giorni in cui il vescovo Berkeley quasi due secoli fa in una lettera ad Alexander Pope descrisse Ischia come “epitome di tutta la terra”. Nonostante l’eloquente tributo del vescovo per il clima gioviale e la bellezza naturale di Ischia, si deve ricordare che una residenza sull’isola comporta uno o due inconve-nienti gravi. Oltre alla sempre prescnte paura di terremoti, che pende come la spada di Damocle sopra la testa degli abitanti, c’è ancora un altro svantaggio, prosaico ma molto reale, nella mancanza di acqua pura, essendo in Ischia più o meno impregnati con zolfo ogni sorgente e rigagnolo, con il risultato che l’acqua per bere (e in estate anche per uso domestico) deve essere trasportata in navi-cisterna da Na-poli. È già abbastanza grave essere dependenti da una città lontana per un approvvigionamento alimentare (che è in qualche misura anche il caso dell’isola), ma la possibilità di sopportare una carestia d’acqua in caso di tempeste o disavventura sarebbe una calamità ben più grave; tuttavia come visitatori occasionali in quest’isola affascinante e poco conosciuta, si può facilmente permettersi di sorridere a tali supposte disgrazie.

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Osservazioni sul terremoto che ha avuto luogo sull’isola di Ischia il 2 febbraio 1828 *

di Nicola Covelli - Accademia delle Scienze di Napoli **

* Bibliothèque universelle des Sciences, Belles-Lettres et Arts fai-sant suite à la Bibliothèque Britannique rédigée à Genève, tome XXXIX, 1828** Gli uomini di lettere più illustri di Napoli hanno appena pub-blicato una rivista scientifica, letteraria e tecnologica sotto il ti-tolo Il Pontano; abbiamo tradotto dal n. 2 di questo giornale, le osservazioni sul terremoto di Ischia che qui riportiamo, e che, più scientifiche delle notizie che abbiamo già cpmunicate sullo stesso argomento nel nostro T. XXXVII (p. 236), possono servire come un supplemento.

L’estremità meridionale d’Italia è sempre il teatro delle grandi rivoluzioni della natura: vulcani che in passato han-no devastato tutta Europa sono spenti, hanno abbandonato queste terre bruciate nella mano dell’uomo operoso, che le ha trasformato in campi fertili e città fiorenti, ma qui i vul-cani, mantenendo la stessa forza, hanno esteso questi terri-bili disastri. Il Vesuvio, l’Etna, lo Stromboli, rinnovano di tanto in tanto le loro eruzioni, per espellere dalle viscere della terra gli immensi materiali che si sono accumulati, e nel 1301 un flusso di lava si diffuse in tutta l’isola d’Ischia, e nel 1603 una violenta eruzione formò una montagna in ventiquattro ore nella terra ancora fumante di Pozzuoli. Nel 1805, epoca del terribile terremoto che causò la ro-vina di molte città, e si estese fino agli estremi confini del Regno di Napoli, frequenti scosse furono percepite in di-versi luoghi e si sono ripetute negli ultimi anni; ne abbia-mo avuto fino a quattordici nel 1827 sull’isola di Ischia, la più grande ha avuto luogo l’11 aprile mentre io e il signor Lancellotti eravamo in questa isola, per l’analisi delle’ac-que termali. Questi terremoti sembrano essere provocati dai contributi di quelli che hanno avuto luogo a distanze più o meno grandi, come lo fu quello dell’11 aprile che sembrava provenire dall’isola di Ponza, dove il terremo-to fu più forte che altrove: erano i precursori del terribile evento che sarebbe ben presto arrivato. Il 2 febbraio 1828, alle dieci e un quarto del mattino, un violento terremoto scosse l’isola d’Ischia così fortemente che sembrava pronta ad essere sepolta nel mare. La scossa fu annunciata da tre colpi che sembravano provenire dal basso verso l’alto, e si succedettero nell’intervallo di tre secondi, provocati forse da un urto violento in una delle grandi caverne dell’isola: rimbombarono come tre colpi di cannone partiti dall’interno dell’Epomeo, ma piuttosto simili a un gemito profondo più che alla detonazione della polvere. Questo boato sotterraneo fu molto sensibile lungo la costa di Ischia, Forio e Lacco, ma fu quasi nullo all’in-terno dell ‘isola, anche nei luoghi in cui la scossa mag-giormente si avvertì. Noi abbiamo sentito un solo colpo

come se fosse stato dato da uu grande martello sotto la volta della casa; al primo segnale, ci precipitammo in giar-dino per metterci in sicurezza. Il luogo più colpito non fu precisamente quello di Casamicciola, ma quello tra il Fan-go e Casamennella ad ovest di Casamicciola, che è molto vicino. Qui tutti gli edifici furono fortemente danneggiati, e molti di loro crollarono. Tutte le barriere e i muri a secco che gli indigeni chiamano parracine e che servono a soste-nere il terreno furono completamente soggetti a crollo, ad eccezione di quelli che non avevano che quattro o cinque palmi di altezza. I primi rapporti dei contadini avevano fatto credere che la terra s’era aperta al Fango, e che si vedevano uscire va-pori di solfo e di bitume, ma erano notizie infondate. Le crepe erano solo piccole fessure, e si mostravano solo sui bordi delle terre sostenute dai muri che avevano perso il loro equilibrio, crepe che non si vedevano più nelle terre compatte: esse erano al massimo lunghe venti piedi e lar-ghe un pollice. La scossa tra il Fango e Casamennella venne dall’inter-no dell’Epomeo, per una linea obliqua appena inclinata da ovest a est tra il Fango e Casamicciola, e si estese a nord del Fango verso Lacco, giungenddo a riflettersi in direzio-ne opposta da est a ovest a Forio; così la regione del Fango, di Casamennella e Casamicciola, che ricevette immediata-mente il colpo, fu distrutta,; le case a Lacco furrono solo danneggiate, mentre il paese di Forio non ebbe punto a sof-frire. Oltre a questo centro di movimento nel quartiere del Fango, un altro meno energico si mostrò a Fontana, dove la scossa, anche se minore di Casamicciola, si sentì più fortemente per circostanze locali. Questo terremoto, che sconvolse un intero villaggio con tante case di campagna, che minacciava di far saltare in aria l’Epomeo e che agitò fortemente l’isola, anche se in modo non uniforme, tuttavia non si propagò oltre, perché non ebbe riscontro nella vicina isola di Procida e nella ter-raferma. Nella stessa mattinata del 2 febbraio, una scossa molto forte fu sentita a San Severo in Puglia, nella notte dal 2 al 3 dello stesso mese, Imola, nello Stato romano, sentì una leggera scosa, ma nei paesi intermedi nessuna oscillazio-ne, il che dimostra che questi tre diversi eventi non proven-gono dalla stessa causa. Discende da quanto si dice che gli effetti di questo terribile terremoto furono limitati all’isola di Ischia, provocando una trentina di morti e il ferimento di circa cinquanta persone. Nessun fenomeno degno di osservazione ebbe luogo pri-ma o dopo il terremoto: il mare era perfettamente calmo prima del fenomeno e mantenne la stessa calma tutto il giorno. La medesima cosa con l’aria, calma ininterrotta durante il giorno, con nessun fenomeno degno di nota, pri-ma o dopo l’evento. Confrontando le osservazioni meteorologiche fatte dal Sig. Nobili all’Osservatorio Reale di Napoli durante i mesi di gennaio e febbraio con le osservazioni che ho fatto sull’isola dal 25 gennaio 1828 fino al 14 febbraio, vale a

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dire sette giorni prima del terremoto, e undici giorni dopo, si vedrà che lo stato dell’atmosfera ha seguito il suo corso abituale sia a Napoli, sia all’isola di Ischia, tranne che a metà di gennaio il barometro è salito in modo straordinario rispetto a quanto accaduto negli ultimi sei anni. Le osservazioni sullo stato delle acque termali dopo l’e-vento erano della massima importanza per scoprire quanto fosse profonda la scossa avvenuta, e valutare all’incirca le catastrofi che potrebbero accadere in futuro. Per determinare all’incirca la differenza tra lo stato pre-cedente delle acque termali e fumarole e quello in cui le abbiamo trovato dopo l’evento è necessario confrontare le osservazioni termometriche che ho fatto al rguardo con i Signori Monticelli e Lancellotti. La zona delle acque termali non sembra, a prima vista, molto estesa: si può dire che essa occupa solo la parte set-tentrionale dell’isola, ed è limitata in una zona il cui limite, da est a ovest, termina sulla sponda settentrionale, preci-samente tra la città di Ischia e Forio. La regione di Citara è l’unica al di fuori della zona dove acqua e terra hanno una temperatura più elevata. Il serbatoio universale di ca-lore delle sorgenti calde si trova all’interno dell’Epomeo: intorno a questo centro di calore, ad una certa altezza, la temperatura è molto superiore nelle parti basse o ai bordi del mare. Nella parte superiore della montagna, che è cir-coscritta tra 468 e 500 piedi sul livello del mare, la tempe-ratura dell’acqua bollente è 80° Reaumur, e si ha nei fan-ghi di Bobo, e quella di 78° nella fumarola di Monticeto. Il calore è in calo nelle regioni più basse, poi all’altezza di 163 metri la temperatura dell’acqua della Rita scende a 50° ed è a 58° a 120 piedi nell’acqua del Cotto o Fontanielle,

e 55° a 108 piedi nell’acqua di Gurgitello. La temperatura massima ai bordi del mare non supera i 54° ad eccezione dell’acqua del Capitello e della sabbia di Castiglione, men-tre in altre fonti, come Citara, San Montano, Santa Restitu-ta, è tra 40° e 50°. Sembra che le acque termali si riscaldino all’interno dell’Epomeo, a circa 500 piedi sotto il mare, e che da questo serbatoio si diffondano nelle parti basse della re-gione settentrionale, dove subiscono una riduzione di tem-peratura più o meno grande. Mi affrettai a confrontare lo stato attuale delle acque termali con la tabella delle stesse osservazioni che avevo fatto sette giorni prima del terre-moto, nei luoghi che ho citato, e solo allora ho notato le leggere differenze che dipendono dallo stato termometrico della stagione. Le acque termali e le fumarole non mani-festarono alcun segno che avrebbe potuto far prevedere le grandi convulsioni della terra. Ma dopo la terribile scossa, non dubitammo sul fatto che non ci fosse qualche grande cambiamento, sia nella temperatura sia nella riduzione di acqua e vapori. I nostri sospetti sono stati controllati per la fonte della Rita, la più vicina al centro del movimento, ma con nostra sorpresa le stufe di San Lorenzo visitate otto ore dopo il terremoto, non mostrarono alcun cambiamen-to significativo né nella loro temperatura né nella quantità dei loro vapori. L’acqua alla Rita si trovò il giorno dopo a 48°,5 R. (l’aria libera essendo a 10°), esattamente come era due giorni prima della scossa: nella scorso autunno, l’acqua era a 48°,9 (l’aria libera essendo a 18, e nell’estate precedente a 49°,5, essendo l’aria libera a 22°. La quantità di acqua, prima e dopo il terremoto, non è mutata. La temperatura della regione superiore della montagna,

Casamicciola prima del terremoto del 1883 (da un giornale tedesco dell’epoca - Archivio G. Mazzella)

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nei luoghi di Gurgitello, Tamburo, Cotto, ecc., non offrì modifiche sostan-ziali, mentre la temperatura in riva al mare (bagni di San Montano, S. Resti-tuta, Lapitetto, ecc.) non presentò mo-difiche diverse da quelle provenienti dallo stato termometrico dell’aria. L’effetto di questo terremoto, che ha distrutto molte case e ha causato tanto allarmismo in quest’isola, è stato nul-lo per i grandi serbatoi che riscaldano l’acqua e alimentano le fumarole; que-sto fatto è molto più singolare, poiché è l’area delle acque termali che è stata particolarmente scossa, come se ci fos-se stato un intimo legame tra la causa del terremoto e la causa che produce il calore. Ma la sede del calore che si conserva da molti secoli nell’Epomeo, senza un sensibile raffreddamento, è molto più elevata dei luoghi da cui proviene l’attuale scossa; perché, se queste località fossero state vicine l’u-na all’altra, i serbatoi dell’acqua e delle fumarole avrebbero avuto grandi cam-biamenti. Sembra che l’esplosione ab-bia avuto luogo ad una profondità tale che le vibrazioni sono arrivate molto indebolite all’interno dell’Epomeo, che non subito alcun cambiamento ap-prezzabile. Dodici giorni dopo il terremoto, la mattina del 14 febbraio, diversi edifici

Casamicciola prima del terremoto del 1883 - Disegno (da un giornale tedesco dell’epoca - Archivio G. Mazzella)

Casamicciola prima del terremoto del 1883 - Disegno(da un giornale tedesco dell’epoca - Archivio G. Mazzella)

nelle campagne di Casamicciola sono crollati per una violenta scossa. Il Vesuvio, che era stato a riposo per sei anni, ha ripreso le sue eruzioni il 14 marzo 1828, alle due del pomeriggio, provocando un’apertura al centro del cratere; gli abitanti del vicinato sono rimasti spaventati nella notte dal ru-more degli scoppi; questa nuova bocca

si linita fino ad ora a lanciare nell’aria scorie e piccoli pezzi di lava, talmen-te morbida che le guide del Vesuvio vi fanno delle impronte con le monete. Questa leggera eruzione è stata annun-ciata da frequenti scosse; l’esperienza ci ha insegnato che tutte hanno un’ori-gine vulcanica.

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