Eventmag Aprile 2009

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management Camper: tradizioni, lifestyle e ricerca in azienda eventmag eventmag - periodico on line, anno 1 - numero 4- Aprile 2009 strategie Incontro con Silvio Barbero, segretario nazionale di Slow Food mestieri Intervista a Marco Roveda, fondatore di Lifegate (s-low) 4 linguaggi Wired Italia raccontata dal direttore Riccardo Luna

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strategie Incontro con Silvio Barbero, segretario nazionale di Slow Food

mestieri Intervista a Marco Roveda, fondatore di Lifegate

(s-low) 4

linguaggiWired Italia raccontata dal direttore Riccardo Luna

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eventmag - periodico on line

anno 1 - numero 4 - Aprile 2009

direttore editoriale

Davide Pellegrini

capo redattore

Francesca Fornari [email protected]

ufficio stampa

Silvia Galli

progetto grafico e illustrazioni

Alessandro Denci Niccolai

hanno collaborato

Davide Bennato, Francesca Fornari, Arnaldo Funaro, Silvia Galli, Davide Pellegrini,

Stefano Rollo, Enrico Tanno, Bol

Pag 4 editoriale

Pag 9 profondo web

Pag 13 strategie

Pag 26 management

Pag 20 mestieri

Pag 22 eventi

Pag 17 linguaggi

sommario

Pag 6 eye tech

Pag 30 recensioni

Pag 24 serious comics

Pag 31 no words

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un’alternativa alla formazione

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Mentre l’Europa cerca di rattoppare i dissesti dell’intenso processo di americanizzazione del proprio sistema economico e culturale, negli USA si assiste al fenomeno inverso: con una progressiva affermazio-ne di uno stato centrale che amministra e controlla, Obama ripropone l’idea di uno Stato centrale forte, che nell’assumersi direttamente le re-sponsabilità della ripresa, cerca di ripristinare un ordine civile di rego-le e buon senso. Senza alcuna forzata glorificazione del personaggio, quello che ne viene fuori è il fallimento dell’uomo in quanto individuo auto-organizzato, l’idea che la natura umana – in fondo – non possa che produrre altro che lo spettacolo a cui stiamo assistendo: specula-zione, sperequazione, individualismo. In realtà, e forse i nuovi ecosiste-mi del 2.0 lo dimostrano, c’e’ un mondo di persone che vorrebbe fare, partecipare, contribuire al miglioramento, ma che semplicemente non può. Perchè, qual è la causa? È chiaro, verrebbe da dire, l’accessibilità, ma in realtà tutto ciò dipende dalla gestione del tempo, dal ritmo ec-cessivamente accelerato non solo delle risposte alle nostre necessità, ma dei modelli che vi ruotano attorno. Da un lato, l’idea di un orizzonte più ampio di possibilità e di opportunità ha vanificato la tollerabilità di ogni rinuncia, tutto è diventato rincorsa, compulsivo e nevrotico rag-giungimento di obiettivi incalzanti. Dall’altro, la preoccupazione di non avere tempo a sufficienza, di non voler invecchiare, non consente di accettare serenamente il proprio destino che, per molti di noi, sarà quello di testimoni di una lunga, continua, immutata (se mi consentite il gioco di parole) trasformazione. Il nuovo che avanza e che deve essere consumato il più in fretta possibile è solo un’utopia; il nuovo avanzerà

di Davide Pellegrini

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comunque, lasciando molte persone a godersi il proprio piccolo mondo antico. E non c’è nulla di male né di sbagliato, se non che l’angosciata corsa al benessere ci costringe a trattare il futuro come una discarica – come ha detto benissimo Alessandro Baricco in un intervento di Ve-nice Sessions, progetto Telecom. Tutti i problemi che richiederebbero di essere analizzati, studiati, affrontati ora affinché possano essere risolti dalle prossime generazioni, vengono solo posticipati, buttati in un futuro che proprio perché a venire non dà preoccupazioni. Ecco allora, ritrova-

re il ritmo delle cose è potersi fermare un momento, riflettere sul senso e la qualità della nostra vita, magari consapevoli del fatto che c’è una naturale staffetta, con il tempo che passa, dal meno giovane al giovane, fatta di un moderno trasferimento di possibilità.In questo numero di Eventmag vi proponiamo, perciò, una riflessione su tutto ciò che è Slow, nel senso di lento, economico, leggero. Una rifles-sione che coinvolge i linguaggi, il web, gli stili di vita e che passa da Wi-red italia a Slow Food, da Camper a Lifegate. Diteci cosa ne pensate...

illustrazione di Enrico Tanno

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di Davide Bennato

Una vulgata piuttosto diffusa sulla tecnologia – considerata rispetto alla società – la vuole come un elemento “disumanizzante”: la tecnolo-gia è qualcosa di artificiale, di estraneo all’uomo e, in quanto tale, po-tenzialmente pericolosa. Questo atteggiamento poteva essere – solo in parte – giustificato da una società che aveva subito l’invasione della tecnologia, come il mondo industriale del XVIII secolo, che aveva visto avanzare i mostri di metallo, fumo e rumore. Oggi le cose sono piuttosto cambiate e l’equazione tecnologia come disumanizzazione è difficile da sostenere. Si può avere una tecnologia frutto di una cattiva progettazione, ma la tecnologia non è disumaniz-zante in sé, semplicemente perché è frutto dell’uomo. A questo punto il paradosso: è possibile una tecnologia che sia in sintonia con i ritmi umani? La risposta a questa domanda spesso è tecnologicamente so-fisticata. Si prenda il caso di Segway. Questo interessante sistema di locomozione a due ruote sfrutta un originale apparato di giroscopi particolarmente innovativi per dar vita a un mezzo di trasporto elettri-co che non inquina e dà un’accezione completamente nuova al concet-to di movimento. Infatti usa lo spostamento del corpo per trasportare il passeggero in modo morbido e compatibile con l’ambiente: nessun rumore, nessun gas di scarico.Oppure la plastica intelligente Power Plastic sviluppata dalla Konarka: è un materiale formato da composti organici fotovoltaici in grado di convertire la luce del sole in energia elettrica e di ricaricare piccoli

“come rendere una tecnologia umana, sostenibile, etica”

una questione di design

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McLuhan, «L’artista è sempre impegnato a scrivere una mi-nuziosa storia del futuro perché è la sola persona consape-vole della natura del presente».

dispositivi elettronici (iPod, palmari, cellulari). Se la cosa suonasse poco interessante, si rifletta sul fatto che il fotovoltaico organico viene prodotto usando procedure tipiche delle nanotecnologie più avanzate. Un modo ad altissimo contenuto di conoscenza per ottenere e consumare energia. Ma la conoscenza dentro una tecnologia non prende forma solo dalla ricerca, bensì anche dall’osservazione creativa. È il caso di Soil Lamp di Marieke Staps, una lampada formata da un led che illumina grazie all’energia pro-dotta da una particolare batteria fatta di fango, in cui i microrganismi che la compongono sviluppano l’elettricità usata per alimentare il led. Alcune volte la tecnologia diventa semplicemente materia prima in grado di dare vita ad altri artefatti: lo chiamano “riciclaggio”, ma molto spesso è progettazione creativa per usi alternativi. Gli esempi possono essere tanti, ma uno particolarmente curioso è Bob Hanger di Joan Nadal. Die-tro questo nome c’è una curiosissima gruccia fatta di cartone ondulato pre-stampato e bottiglie di plastica riciclate. Il cartone opportunamente piegato diventa una base all’interno della quale inserire le classiche bot-tiglie di PET che diventano i bracci della nostra gruccia, così da poter appendere qualsiasi tipo di abito. La conoscenza in questo caso diventa l’idea progettuale che vede usi innovativi di materiali che potrebbero es-sere considerati poveri o di scarto.Un mezzo di trasporto avveniristico, materiali fotovoltaici del futuro, lam-pade a fango e appendiabiti in cartone e bottiglie di plastica. Cos’hanno in comune tutti questi artefatti? Sono conoscenza incarnata dentro oggetti, sono idee che diventano sapere grazie al contributo del design. Perché è il design a rendere una tecnologia umana, sostenibile, leggera, compa-tibile o come la si vuole chiamare. Il futuro necessita di un modo diverso di concepire la tecnologia, non solo per motivi ecologici – salvaguardia dell’ambiente – ma per motivi etici. Finora il futuro è stato appannag-gio degli ingegneri – i produttori di tecnologia – adesso è appannaggio degli artisti – i produttori di bellezza, dal momento che, come ricordava

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di Arnald

Cari Navigatori,

per la prima volta la rubrica Profondo web ospita un’in-tervista. Non a una persona qualsiasi, badate bene, ma a qualcuno che ha fatto della rete qualcosa in cui non rimanere intrappolato, bensì uno strumento per catturare e liberare cervelli. Sto parlando di Paolo, rap-presentante della ormai famosissima Molleindustria, progetto che ha l’obiettivo di esplorare le potenzialità persuasive del mezzo e decostruire la retorica dei vi-deogames mainstream.

Iniziamo con le domande di rito: come, dove, quando, perché e con chi.È l’anno 2003, il cosiddetto movimento no-global rag-giunge il suo picco e mi trovo sempre più spesso a

pensare che certe idee debbano travalicare i limiti del discorso politico e infiltrarsi nella pop culture dominata dal monologo capitalista. In fondo è attraverso la cultura popolare, non con idee brillanti, che Berlusconi ha conquistato e continua a ipnotizzare gli italiani. È stato un lungo processo di ottundimento che non ha coinvolto solo il controllo dell’in-formazione. Il fascino dei petrolieri di Dallas, la pseudo-satira di Striscia la notizia, la risata pavloviana di Paperissima, le perverse meccaniche dei reality show hanno promosso attivamente quel cinismo, individuali-smo e sfiducia nella sfera pubblica funzionali al conglomerato mafioso-imprenditoriale tuttora al potere.

Ascolta, tu sai che il Pentagono – attraverso un progetto che si chiama Army Experience Center – ha trovato un sistema di reclutamento eccezionale, facendo giocare i giovani americani alla guerra. Tu cosa ne pensi? Quali sono i risvolti di un’ope-razione come questa?È l’ennesimo passo di una campagna di re-branding iniziata con il vide-ogioco America’s Army. L’idea è quella di promuovere la guerra sfrut-tando il diffuso feticismo tecnologico. Il soldato di oggi non è un eroe

radical games

Tra attitudine mediattivista e critica video ludica, La Molleindustria si racconta

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pronto a soffrire e rischiare la vita per un ideale superiore, ma piuttosto un cyborg potenziato dai più avanzati ritrovati tecnologici. Si tratta di so-vrapporre un’interfaccia gelida e pulita alla sporca e ingiustificabile realtà del conflitto asimmetrico. Non c’è da stupirsi che un veterano su cinque soffra di post-traumatic stress disorder. Parliamo di ventenni reclutati e addestrati con questi giocattoli hi-tech che si ritrovano improvvisamente catapultati nel deserto in mezzo a una guerra civile. Le operazioni del Pentagono possono sembrare perversamente intelli-genti, ma il fallimento delle avventure in Iraq e Afghanistan e la generale perdita di potere internazionale degli USA corrisponde al fallimento di questa scienza militare.

Sul tuo sito affermi: «Molleindustria non ama i videogiochi, per questo motivo li crea». Puoi spiegarci meglio?Quello dei videogame è un settore in forte crescita. Ma fino a pochi anni fa praticamente privo di narrazioni alternative. Ci si può lamentare, si possono scrivere elaborate analisi sul sessismo e il militarismo che per-vadono la maggior parte dei giochi come se fossero caratteristiche in-trinseche del medium. Oppure ci si può mettere al lavoro e provare a cambiare le cose.

Chi vi segue di più, sia dal punto di vista dell’età, che per quan-to riguarda lo status sociale? Vi rivolgete a un target preciso o cercate di allargare la platea di seguaci?Il target è fondamentalmente quello dei “casual gamer”. Sono giocatori non necessariamente fissati coi videogiochi, senza troppo tempo o denaro da investire nell’intrattenimento. È un segmento di popolazione partico-larmente vario in termini di sesso ed età, difficile fare una classificazione precisa.

l tuo gioco preferito, tra quelli da voi realizzati ovviamente.Non saprei, però sono abbastanza fiero del Papa Parolibero.

On-line o download? Pregi e limiti di due modi di giocare.Online è cross-platform, download puoi metterci dentro più roba.

Il tema di questo numero di EventMag è “S-low”: il ritmo lento - slow, appunto - è anche il ritmo di chi abbraccia una filosofia di vita più sana e a misura d’uomo, consumando meno e, quin-di, privilegiando le economie low cost. Avete mai pensato di realizzare giochi educativi in questo senso?

screenshots dal sito www.molleindustria.it

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Sto pensando a un paio di giochi che potrebbero essere col-legati, ma non posso anticipare niente. Che ci piaccia o no, la questione della decrescita, intesa come abbandono de-gli attuali parametri di crescita economica, dominerà il resto delle nostre vite. La crisi appena iniziata è strutturale, non si tratterà di abbracciare spontaneamente una filosofia, ma di adeguarsi alla devastazione sociale e ambientale che le passate generazioni ci hanno lasciato in eredità. Il ruolo di noi produttori culturali dovrebbe essere quello di mettere in evidenza le inedite possibilità che questa crisi ci offre. Avre-mo più tempo da dedicare ad affetti e attività al di fuori dello

“Diciamo che ho smesso di fare previsioni sul web”

scambio economico, dovremo riscoprire la gioia del mettere in comune cose, spazi e conoscenze.

Bene. Ora una tua previsione sul futuro del web. E una sul fu-turo della Molleindustria.Quando hanno lanciato Wikipedia ho dichiarato: «questa roba non funzio-nerà mai». Quando hanno lanciato Twitter ho pensato: «Nessuno userà questo sistema demenziale». Qualche anno fa avrei scommesso che entro il 2009 un buon sistema di carpooling si sarebbe imposto e siamo ancora in alto mare. Diciamo che ho smesso di fare previsioni sul web. Per quanto riguarda Molleindustria, sono sincero, non ne ho la più pallida idea…!

screenshots dal sito www.molleindustria.it

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www.illy.com

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C’è chi non ci pensa più ma, parlando dei temi della qualità della vita, della cultura alimentare e della soste-nibilità ambientale, bisogna ammettere che Slow Food è stato uno dei più ammirevoli precursori dell’eco-cultura. Nato in Piemonte nel 1989, con un manifesto ben presto diventato la base filosofica dell’associazione, Slow Food parte dall’idea che la consapevolezza sui temi del cibo (e di tutto ciò che ruota attorno ad esso) sia la grande rivoluzione degli ultimi 50 anni e che la globalizzazione, nei suoi ritmi di modernizzazione selvaggia, abbia cau-sato notevoli danni da recuperare.

Dottor Barbero, ci può descrivere il movimen-to? Beh, cominciamo col dire che mentre la cultura del fast food è quella dell’uguale dappertutto, dei prodotti artifi-ciali fatti in serie, la cultura dello slow food riconsidera il cibo come forte elemento culturale e territoriale, in cui la diversità si lega all’identità più intima del prodotto natu-rale. Con questo voglio dire che SF riconosce la sovrani-tà dell’identità locale, sottolineando come la biodiversità rappresenti la vera ricchezza del nostro (e non solo) paese. Per noi il cibo è da riconnettere all’idea di piace-re gastronomico, un comportamento, un’attitudine che non si riconosce in un modello efficientista, quanto nella lentezza dell’assaporare e di gustare i diversi sapori. la

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Incontro con Silvio Barbero, fondatore dell’associazione e segretario nazionale di Slow Food

a cura di Davide Pellegrini

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Quali sono gli obiettivi di Slow Food?Sono obiettivi di tutela e difesa della cultura gastronomica e della va-lorizzazione del prodotto di “classe A” come elemento identitario. È chiaro che la cultura del cibo è stata da sempre l’elemento unificante: all’ini-zio, infatti, si trattava di Arcigola – nata come Associazione Gastronomica, pri-ma italiana, poi internazionale – in cui la passione per la gastronomia era la cifra stilistica prioritaria… da tutto ciò è nato Slow Food.

E dal punto di vista organizzati-vo?Slow Food ha una struttura a rete che favorisce l’approccio di soluzione per problemi di piccola scala, una rete costituita da gruppi locali – Con-vivia o Condotte Gastronomiche –, realtà di aggregazione a dimensione locale che portano avanti le idee e le attività dell’Associazione con una coerenza rispetto alle varie identità di territorio. I Convivia sono circa quattrocento in Italia e milleduecento nel mondo.

Di cosa si occupano i Convivia?Principalmente di ricerca e tutela della qualità. Se consideriamo che il mondo “veloce” ha portato al peggioramento della nostra alimenta-zione, appare chiara l’importanza di avere una serie di segnalatori per l’individuazione di prodotti di qualità. Ovviamente non si tratta di certi-ficazioni, perché Slow Food non vuole essere un ente di certificazione, ma un soggetto culturale con una sua propria capacità di monitoraggio rispetto a prodotti e produttori artigianali che vale la pena valorizzare.

Questo elemento, in particolare, è di fondamentale importanza: non ci sono solo le certificazioni di qualità IGP, IGT, ecc, ma anche produzioni minori, spesso poco visibili. Un altro livello di attività dell’Associazio-

ne riguarda la comunicazione. Noi la dividiamo in un’attività di sensibiliz-zazione al gusto, una di informazione dei consumatori sull’esistenza della qualità, un’altra relativa al processo culturale sui temi della gastronomia.

Ci fa degli esempi?Abbiamo portato nelle scuole elemen-tari un progetto, l’Orto in Condotta, che ha come obiettivo quello di ripar-

tire dalla coltivazione. Prima vengono formati gli insegnanti rispetto a quella che noi definiamo la cultura alimentare e sensoriale. In questo senso, il rapporto con il prodotto è diretto; non c’è tecnicalità o teoria, ma un rapporto di conoscenza diretta dei processi produttivi. Per noi l’assunto «se non sai come si fa, non puoi sapere cosa è» è sacro. Il recupero del comportamento sensoriale permette di decidere se un prodotto è buono e se dà piacere.

Organizzate anche dei corsi?Certo, come dicevo, la consapevolezza alimentare è tutto: proponia-mo degustazioni sui vini, sui formaggi sui salumi… un altro dei nostri obiettivi è, del resto, la formazione di veri e propri Master of Food. Lo dimostrano l’Università di Scienze Gastronomiche a Pollenzo, la vecchia struttura dei Savoia a Parma, la Reggia di Maria Luigia, in cui giovani laureati in materie gastronomiche escono pronti a contribuire alla pro-mozione e diffusione della cultura della corretta alimentazione.

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La gastronomia rappresenta anche un possibile valore spen-dibile nel turismo?Certamente, più riusciamo a valorizzare la qualità delle produzioni lo-cali, più siamo in grado di formare attitudine al turismo scelto. Inol-tre, sono tanti gli eventi territoriali promossi da Slow Food: abbiamo contatti con Regioni, Comuni, Pro-loco, per organizzare manifestazioni dedicate a momenti di distribuzione di prodotti eno-gastronomici. Tra i nostri eventi, ad esempio, contiamo il Salone del Gusto a Torino, la ma-nifestazione Cheese a Bra, Slow Fish a Genova (in cui si trattano i temi della pesca irresponsabile e dell’ambiente sostenibile), Distinti Salumi, che facciamo nelle Marche.

Poi, ci sono i progetti… Appunto. Il Progetto dei Presidi nasce nel 2000, con l’idea che non ci può essere cultura alimentare senza la difesa della biodiversità in cam-po alimentare. I Presidi individuano i prodotti e le tecniche produttive a rischio di estinzione, le recuperano e le inseriscono in progetti di rilan-cio, in cui diventa centrale l’obiettivo di salvare i sapori più tradizionali. Con intense attività agronomiche e pubblicitarie, con circa duecento prodotti e duemila produttori, i Presidi si occupano di alimenti come il Salame di Suino Nero dei Nebrodi, il Bitto della Valtellina, il Cardo Gobbo di Nizza.

E le città Slow?Le Città Slow è un progetto nato nel 1995 che riunisce alcuni sindaci convinti che la filosofia slow possa diventare un modello di vita. Potrem-mo vederla così: se il rumore è fast, il silenzio è slow, se il cemento è fast, il verde è slow, se l’omologazione è fast, la bio-diversità è slow...

Che prospettive hanno i giovani nel mondo di Slow Food?Consideriamo che c’è una forte necessità di educare e culturalizzare all’uso del cibo. La formazione può trasmettere questi valori agli altri. I Convivia ammettono partnership con altri enti, università, agenzie, per-ché l’obiettivo è promuovere la cultura dell’alimentazione e per questo obiettivo ci si organizza anche in reti aperte, che rappresentano il futuro.

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Dedichiamo questo numero al concetto di S-low, contrapposto alla velocità e all’iperconsumo. S-low è anche un riferimento al low cost, al fatto che or-mai l’economia della conoscenza si basa su micro-economie, su relazioni e interazioni. Vorrei iniziare con una domanda al direttore della rivista Riccardo Luna su Wired come concetto. Nel 1993, quando è uscito il primo numero, nasceva un giornale rivolto a quanti guardavano all’innovazione. Da subito Wired si è posto all’attenzione come prodotto di nicchia, prodotto particolare.

a cura di Davide Pellegrini

Intervista a Riccardo Luna, direttore del mensile Wired italia

Qual è stato il linguaggio scelto?Direi lo stesso linguaggio che Wired ha oggi: autorevole ma scanzonato, narrativo ma tecnicamente competente.

Wired ha riunito sotto la sua ala una serie di giornalisti, opi-nionisti, tecnologi, futurologi, fornendo una visione a tut-to campo. Questo think tank era già all’epoca un precursore dell’era 2.0?Sì, se per 2.0 si intende una partecipazione collettiva e una comun-cazione crossmediale. No, se si ragiona in termini di feedback e con-versazione. Wired parlava e la sua voce era il verbo, «the first word on technology».

Qui da noi è tutto un po’ più lento e c’è chi dice “vecchio”. Quali sono stati i problemi di ri-collocazione di questa idea in territorio nostrano?Sarebbe forse sbagliato fare paragoni tra Wired Usa e Wired Italia. E’ vero che noi siamo da sempre abituati a leggere di case histories af-fascinanti, di giovani menti che propongono un’innovazione o un’idea, ma la vera difficoltà non è trovare grandi storie (che ci sono seppure in numero minore rispetto agli usa), ma saperle raccontare. Quasi tutti quelli che vogliono collaborare mi propongono storie Usa, pochi sanno vedere l’innovazione dentro casa.

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ti? Possiamo davvero pensare a una sorta di talentscouting?Gli eventi ci sono e Wired può concorrere a farli diventare più impor-tanti. Vorremmo contribuire a cambiare l’agenda del paese, far tornare l’innovazione di moda.

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la copertina del numero zero di Wired italia

Ho da subito notato nelle vostre pagine una se-zione dedicata a giovani menti brillanti. Mi con-forta pensare che anche da noi ci sia gente che apre dei trend innovativi. Sarà questa la lingua di Wired Italia? E come pensate di monitorare le nuove realtà?Pensiamo di monitorarle aprendo una conversazio-ne ininterrotta con tutte le nicchie di innovazione che esistono in Italia. Eventi, convegni, parchi scientifici e tecnologici, start up e aziende consolidate. Wired girerà l’Italia. Sempre. Così sarà più facile bussare alla nostra porta.

Una grande attesa per Wired, un bellissimo pro-dotto. Ho notato, poi, la straordinaria offerta dell’abbonamento. Qual è la strategia di mar-keting che avete scelto?Il prezzo basso degli abbonamenti punta a creare un club, un superclub di innovatori, per dare al giornale una base autorevole di riferimento. Visti i risultati, la cosa ha avuto successo subito.

Wired potrebbe diventare un hub creativo, o nella tua idea lo è già e ne vedremo delle bel-le?Deve diventare un hub creativo, ma servono tempo la-voro e umiltà.

Qualcosa si muove nella dialettica culturale ita-liana. Penso a Venice Sessions di Telecom. Che ruolo potrà avere Wired in questa serie di even-

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LifeGate è un vero e proprio modello nel settore della nuova economia sostenibile. Impegnata da tempo nel segmento eco-culturale, diffonde progetti legati all’ambiente e all’uo-mo, alla cura di se stessi e di ciò che ci circonda. Eppure, che è la cosa davvero interessante, LifeGate è anche un merca-to. Il profit visto come naturale e spontanea conseguenza dell’agire, del lavorare contribuendo al miglioramento del mondo. Da Fattoria Scaldasole al Nuovo Rinascimento di Li-feGate tra musica, cultura, benessere...

Se si dovesse definire il modus imprenditoriale di Marco Roveda, cosa si potrebbe dire?È il modello delle 3p: people, planet, profit. Ovvero uno stile di business in cui persone, profitto e pianeta vivono in ar-monia.

LifeGate, ancora prima di un progetto, è un manife-sto. Quali sono gli obiettivi che vuole raggiungere e per mezzo di quali attività intende farlo?

LifeGate nasce nel 2001 come “network di comunicazio-ne” – Radio, Portale e Magazine – proprio per diffondere consapevolezza e creare un punto di riferimento comune per tutte le realtà operanti nel settore dell’alimentazio-ne biologica, della salute olistica, della salvaguardia am-bientale, della ricerca interiore: un mezzo per diffondere il concetto stesso di “qualità della vita” e indurre le per-sone – e le aziende – a una riflessione e alla scoperta dei valori della coscienza, già insiti in ognuno, ma spesso trascurati per distrazione. In pochi anni LifeGate diventa punto di riferimento per il “mondo ecosostenibile” e, a fianco ai mezzi di comunicazione, nascono nuovi progetti in cui la teoria si fa pratica. Progetti concreti, a favore dell’ambiente, come Impatto Zero®, che offre la pos-sibilità ad aziende e persone di compensare l’impatto ambientale attraverso la creazione di nuove foreste e Li-feGate® Energia Rinnovabile, ovvero la distribuzione ad aziende e privati di energia ricavata esclusivamente da fonti rinnovabili. Gli ultimi progetti LifeGate mirano invece direttamente al “cuore” delle persone: sono nati così i LifeGate Ecojeans per indossare un messaggio di amore e di armonia con l’uomo e l’ambiente, e YouImpact®, la nuova piattaforma online per condividere immagini, vi-deo e audio di qualità.

Proprio in quanto manifesto, si parte dal pre-supposto di una condivisione di valori e di ideali, di conoscenze e competenze. Esiste un profilo particolare per lavorare in e con LifeGate? l’i

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a cura di Francesca Fornari

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Il desiderio di una Società più consapevole e sostenibile.Oggi lo scenario attorno è cambiato. Le tecnologie stanno rendendo possibile una maggiore partecipazione delle persone. Le informazioni circolano più velocemente. Le persone sono maggiormente in grado di farsi un’opinione, di scegliere e decidere per sé. Le imprese non posso-no più guardare solo al profitto, le tematiche attuali le richiamano a una maggiore assunzione di responsabilità che vada oltre al profitto.

Qual è la posizione di LifeGate in proposito?LifeGate promuove dal 2000 – quando ancora non si parlava di “pro-blematiche ambientali” – un nuovo modello di business etico, che non guarda solo al profitto, ma è in grado di coniugare le esigenze aziendali a quelle ambientali e delle persone. Da circa dieci anni siamo dunque in prima fila nella diffusione di una coscienza ecologica e nella promozione di uno stile di vita etico, eco-sostenibile, equo-solidale per ottenere una vita migliore e un progresso sano. Il successo dei nostri progetti dimo-stra che le persone e le aziende sono ricettive e disposte a cambiare le loro abitudini. Basti pensare che attraverso Impatto Zero®, dal 2002 a oggi, oltre cinquecento aziende hanno deciso di compensare le proprie emissioni di CO2, tanto che oggi sono presenti sul mercato oltre duecen-to milioni di prodotti con il marchio Impatto Zero®. Una radio, un magazine, un portale internet, pubblicazioni, cd; insomma, attorno a LifeGate prodotti e servizi del mon-do Eco. Un’organizzazione che produce una sorta di “cultura altra” che si diffonde anche nei tradizionali valori d’impresa. Fino al marchio, a questa certificazione di qualità e di appar-tenenza al mondo eco-culturale. Come deve essere l’impren-ditore sociale di nuova generazione, l’imprenditore LifeGate?

Gli anni ’60 sono stati gli anni della distribuzione, gli anni ’70 quelli della qualità, gli anni ’80 quelli dell’estetica, gli anni ’90 quelli del pro-dotto “sano o sicuro”; gli anni 2000 hanno portato l’ultimo elemento che mancava alla formula del prodotto perfetto, l’etica. L’imprenditore di nuova generazione, quindi, è un imprenditore etico. Il nuovo modello di business sarà, come dicevamo, quello delle 3P, people, planet profit. Un modello sostenibile: una filiera di produzione, distribuzione, consumo che guardi al pianeta nel suo complesso, che assicuri risposte reali alla domanda, che faccia girare il denaro perché ci possa essere lavoro, che generi il legittimo ed equo profitto all’imprenditore, all’impresa e ai suoi collaboratori.

Dedichiamo questo numero di EventMag al concetto di “s-low”, nella doppia accezione di ritmo meno frenetico di vita e di economie accessibili. Visto che per noi la vostra è un’azien-da “slow”, quali sono gli scenari di mercato futuri che si van-no aprendo secondo LifeGate?Ci sarà un vero e proprio cambiamento da una società consumista com-pulsiva a una società di consumatori consapevoli. I nostri consumi non saranno più allineati all’apparire ma finalmente all’essere.

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«Serendipità è lo scoprire una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra, è un atto di ricerca pura, scevra dal pre-giudizio, in grado di accettare l’errore e di seguire fino il fondo la sequenza inesorabile del caso fino a... scoprire di nuovo le Americhe? Un concetto, quello di seren-dipità, che richiede una forte dose di coraggio perché il risul-tato non è certo, di autonomia di pensiero e azione perché si tratta di un tracciato inesplorato». (Anna Barbara)

C’è un denominatore comune negli eventi firmati da DROME: ogni luogo “colonizzato” dai suoi artisti regala una sensazio-ne inedita che avvolge il visitatore, come se il Genius loci sve-lasse una dimensione imprevista, così chiara eppure mai letta prima, proprio attraverso la performance, il site specific.

«Nullus locus sine Genio», ha scritto Servio. Con Norberg Schultz, in una dimensione cronologica a noi più vicina, il genius loci diventa una matrice di caratteristiche sociali, culturali, architettoniche, linguistiche che qua-

di Silvia Gallila sensazione, denominatore comune degli eventi

targati DROME

the inspired

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lificano un luogo, rappresentandone l’anima e distinguendolo dal puro spazio. DROME ha quella straordinaria sensibilità necessaria a entrare in scena con una maschera, con una performance artistica capace di stra-volgere l’abitudinarietà del luogo e di renderlo qualcosa di improvvisa-mente effimero e diverso. Un’installazione, la danza, il canto, poco impor-ta, l’arte diventa il medium per riscoprire spazi privati o spazi dimenticati, per esplorare dimensioni alternative. ALMA DROMESTICA, realizzato in occasione del secondo compleanno di DROME, rappresenta proprio que-sto: l’arte è un filtro che ci permette di rileggere sette abitazioni private nel quartiere romano del Pigneto, eccezionalmente aperte al pubblico per un solo giorno, di farle essere non più nidi, bensì esperimenti psicogeo-grafici, plurimediali, ma sempre fedeli a se stessi. Capita così, nella casa dedicata al tema della Fede, di trovare dei ceri e un filo di piccole luci a illuminare un poster sbiadito con l’immagine di Che Guevara, o, nella casa dedicata alla Follia, di scoprire una donna in bagno davanti allo specchio, intenta a truccarsi. Peccato soltanto che si tratti di una maschera di cera bianca con un rossetto ciliegia troppo sbavato, che la fanno somigliare più a un terribile joker che a una ragazza. Piccoli gesti, segni di un lato oscuro, irrazionale, viscerale, presente negli oggetti e nelle persone, si manifestano inaspettati come un corto circuito, pur risiedendo già nell’essenza di quel luogo.

Diversa cornice, diverso evento, stessa sensazione. The inspired by DRO-ME night porta questo spirito inquieto all’ex Mattatoio di Testaccio a Roma, dove, all’interno del Festival Bestiario del settembre 2008, sbarca-no alcuni tra i più sorprendenti artisti della scena emergente. Uno di que-sti è il gruppo MK, che mette in scena uno spettacolo di ricerca corporea, in cui la danza diventa un moto di deriva e di costruzione di un rapporto spaziale, pura energia che con il suono e il movimento invade il Mattatoio e lo rapisce in una dimensione selvaggia. Pura ipnosi, che si scioglie

come neve al sole non appena la musica e la danza si fermano, ma che lascia una sensazione profonda in chi ha assistito, in chi ha scoperto questo squarcio.

immagini da DROMEmagazine

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Esiste una via mediterranea al marketing, un design cre-ativo e “industriale” che non tradisca tradizioni e valori? È possibile raggiungere i propri consumatori in modo non predatorio e aggressivo, ma avvicinarli rimescolandosi con essi in una corrispondenza di sensibilità e culture dif-ferenti? Si può, partendo da questo bagaglio identitario, guardare al futuro orientandosi finalmente, verso sud? Ironia e creatività, spontaneità e design, imprenditorialità e autenticità sono binomi che hanno qualche possibilità di successo nella “contemporaneità”? La risposta – almeno secondo alcuni – è “sì”, o, per dirla attraverso un caso di marketing internazionale, la risposta è “Camper”.«Camper e la sua fortuna possono essere visti come figli del “Pensiero meridiano”» (Franco Cassano, Laterza, Bari 1996), ossia come il prodotto di un’autentica attitudine mediterranea al pensiero globale, una forma mentis smus-sata e levigata da secoli di storia e di incontri tra popoli e culture differenti. Un serbatoio di identità e tradizioni forti che oggi – paradossalmente – possono costituire un pa-trimonio inestimabile per un mercato post-moderno dove non esistono più marchi leader in senso assoluto, ma in cui il consumatore ricerca brand autentici con cui condivi-dere simboli, valori e stili di vita. Prodotti che custodiscono storie, reali o immaginifiche, che possono nascere da un

incontro – possibilmente democratico – tra acquirente e brand.

Quello che sappiamo di Camper è che si tratta di un brand che si ispira a una forte tradizione territoriale. Nasce nel 1975 nell’isola di Maiorca grazie alla famiglia Fluxà. E, sembra, che lo spunto sia venuto dalla trasformazione dell’economia dell’isola, diventata ben presto meta turistica. È corretto?Non proprio. Camper è la realizzazione di un sogno che prende il via dalla tradizione di una famiglia che fa scarpe da oltre 130 anni, ha ori-gini antiche con un prodotto e un’immagine fatti di contenuti reali; con una comunicazione sempre in divenire che non ha come unico obiettivo quello di vendere, bensì quello di trasmettere uno stile di vita, un valo-re. Valore applicabile sia in città che in campagna, sia al passato che al futuro… Un plus creativo per dare densità alla nostra parte emotiva. Sì, Camper è un brand “emozionale” che è nato da una pulsione creativa con forti radici nel settore, divenuta idea commerciale non strettamen-te legata alla trasformazione economica dell’isola in meta turistica. La

tradizioni, lifestyle e ricerca in azienda; intervista a Silvia Storelli, responsabile comunicazione di Camper

a cura di Stefano Rollo

slow

foot

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coincidenza può sussistere ma non è la vera spinta di questo grande progetto. Direi che ha potuto solo facilitare e accelerare la fase di start up, niente di più. Il salto del brand verso una dimensione, come dire, indu-striale, non ha fatto allontanare l’azienda da una certa cul-tura artigiana, da certe radici locali che non sono andate in conflitto con l’esplosione del brand a livello globale. Come è stato possibile?Camper non è il primo esempio né l’ultimo di realtà industriali partite da una dimensione artigianale con un’evoluzione di respiro fortemente in-ternazionale, ma questo aspetto commerciale non intacca minimamente la forza della tradizione artigiana da cui nasce il prodotto; né il suo spirito creativo e ironico o l’attenzione sempre alta verso il design e il confort, caratteristiche imprescindibili per tutti i prodotti Camper, indipendente-mente dalla famiglia e progetto a cui appartengono. Anzi, la sfida è sem-pre più stimolante e lo sforzo di ogni dipartimento dell’azienda, di ogni

cellula che anima il sistema è davvero notevole. La nostra energia viene investita per mantenere sempre alto il livello qualitativo dei prodotti, la produzione; la scelta del canale distributivo (sia per i monomarca che per i multibrand), cioè il retail, non è solo un punto vendita per Camper, ma l’universo Camper, dove il consumatore di qualsiasi età e provenien-za è libero di entrare, fermarsi e nutrirsi dei nostri valori per capire la nostra storia, le radici, le idee rivoluzionarie. Il punto vendita Camper è una porta sul Mediterraneo e la sua anima, e arriva a un target preciso di consumatore, tra l’altro molto trasversale. La dimensione industriale che è partita dal 1981 a Barcellona con il primo monomarca e nel 1992 con una forte accelerazione in ambito internazionale, non ha per nulla intaccato la nostra anima localmente radicata nel Mediterraneo, perché è da qui che partono le idee che si concretizzano in prodotto e nei nostri progetti di diversificazione (come Casa Camper e Dos Palillos a Barcellona); idee che sono frutto del lavoro di team internazionali sele-zionati, legati alla tradizione e allo stesso tempo con un occhio attento verso tutto ciò che è modernità su scala industriale: a Inca come a New York, da Parigi a Tokyo, per poi tornare a Milano.

Mi piace molto la definizione di Cultural Brand, ovvero l’at-tenzione ai valori del quality lifestyle. In che modo questa scelta di posizionamento è diventata strategia di managment all’interno del gruppo?Non è stata una scelta fatta a tavolino, una scelta di management fredda e schematica, ma tutto ha seguito una naturale evoluzione; un pas-saggio morbido che non poteva avere altra forma, altrimenti avremmo perso la nostra identità e i punti di forza che ci differenziano sostanzial-mente dagli altri marchi presenti sul mercato nazionale e internazionale. Avremmo potuto correre il rischio di confondere e perdere il nostro con-

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sumatore finale a cui invece teniamo molto e che non è solo un fruitore di scarpe da mettersi ai piedi per camminare, ma è un vero appassiona-to del brand. La strategia ha seguito l’idea, in modo complementare e senza snaturarla, si sono alimentate a vicenda grazie a un management internazionale di altissimo livello. Camper è famosa in tutto il mondo per la sua creatività. Ha lanciato e spesso propone una serie di “azioni culturali” dav-vero interessanti. Ce ne fai qualche esempio?Lo scambio e la contaminazione culturale hanno sempre caratterizzato l’evoluzione di Camper – fin dal design del primo negozio a progetto To&ether – che si declina in architettura con concetti di negozi disegnati da partner creativi diversi o nella collezione di prodotto che è oggi alla sua seconda stagione. In Italia, abbiamo sostenuto il Festival del Cinema Spagnolo di Roma e la Mostra Indigena a Milano; in Spagna, abbiamo collaborato con il Festival Internazionale di fotografia “Photo Espagna” e a Parigi col Fiac (Foire Internationale d’Art Contemporain). I nostri prodotti icona sono stati scelti e pubblicati su diverse riviste riguardanti il design moderno e contemporaneo o in testi universitari specialistici editi da Electa e Mondadori. Quali sono i valori dell’azienda e come intende comunicarli in futuro?I valori Camper sono la creatività, l’innovazione e la rottura con gli sche-mi, insieme a un forte attaccamento ai valori della terra: onestà, auten-ticità, una certa austerità che nasce dal rispetto dell’ambiente culturale e naturale e la tradizione come chiave di lettura del futuro. Attraverso il nostro prodotto, la comunicazione e le iniziative di Camper come azien-da, comunicheremo anche in futuro.

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Forse è vero che le nostre decisioni sono, ormai, il frutto di tempi troppo veloci di decisione, tempi che non possono corrispondere a una coscienza di lungo periodo. L’impa-zienza si affronta con il ritrovamento della responsabilità, con la lungimiranza, con un processo a lungo termine. Ste-wart Brand, inventore, designer, scrittore, anticipatore della critica sociologica sull’informatica dei “personal computer”, con questo saggio non facile, ma affascinante, introduce il lettore nella dimensione de The Long Now Foundation, istituita nel 1996 per la promozione della responsabilità a lungo termine.Insieme ad altri grandi menti, tra cui citiamo – per conven-zienza e sintesi – Danile Hillis di Disney, Kevin Kelly, editore esecutivo di Wired e Brian Eno, grande guru della musica elettronica ambient e artista concettuale visivo, Brand si fa portavoce di una riflessione sull’importanza del tempo, dei ritmi connessi al suo scorrere, tra preveggenza, cutlura e costruzione di un futuro sostenibile.

il lu

ngo

pres

ente

di Francesca Fornari

Stewart Brand, Il lungo presente, tempo e responsabilitàprefazione di Brian EnoMattioli editore, 2009

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in basso, un’opera di BOL23

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