Evado e Torno
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EVADO E TORNO
Sono le sei. Un caffèlatte e un po’ di frutta, due biscotti e via in
bicicletta nella notte che sfuma in alba per le vie che si popolano
d’umanità assonnata. Fino al Gobierno Civil, in fila fra i migranti. Alle
otto un poliziotto di mezza età apre le porte e ci fa entrare a
gruppetti. Seguo una coppia d’ucraini attempatelli. La fila scorre. Il
poliziotto la blocca davanti a me. Qualche minuto d’attesa e mi fa
cenno di entrare. Zainetto e giubba sul tappetino della macchina a
raggi X, caso mai contenessero trinitrotoluene. Telefonino e chiavi sul
vassoio accanto al metal detector. Passo attraverso il suddetto. Con
un po’ d’apprensione, ma non suona niente. Allo sportello un negro
spiega pazientemente a una signora che dà i numeri, nel senso cioè
che distribuisce parsimoniosa dei pezzettini di carta con sopra scritto
un numero, che da Mataró l’hanno mandato a Barcellona, nell’edificio
accanto e che nell’edificio accanto gli hanno detto di venire qua e che
non vorrebbe, come insinua la signora, dover tornare a Mataró e
ricominciare daccapo la trafila. La donna infine cede e gli rifila il suo
numerino. Tocca a me. Numerino. Mi siedo stropicciandolo fra le dita.
I “chi l’avrebbe mai detto” s’ingolfano nel mio cervello non
abbastanza caffeneizzato. Chi l’avrebbe mai detto una ventina d’anni
fa, quando prendevo a sassate, dalla retroguardia di un corteo,
trasformata in un batter d’occhio in avanguardia da una carica della
polizia che allora vestiva di marrone, le finestre della sede
emblematica del truce potere statale e per me potere tout court, chi
l’avrebbe mai detto che un giorno, un giorno come oggi di quasi
autunno arido e caldo, mi sarei ritrovato a far la fila fra gente d’ogni
origine, razza e religione, per tacere di sesso ed età, in paziente
attesa del NIE. Cioè del tesserino cifrato che m’identificherà come
straniero residente. Non mi piace. Starmene qui seduto su di una
panca, dietro ad una serie di panche messe in fila, di legno, come in
chiesa, lo sguardo con quello degli altri fisso sul lampeggiare di
queste lavagne luminose su cui le cifre si avvicendano irregolari col
passar dei minuti.
Aspetto, arriva il mio turno. Il sorvegliante gioviale e affabile di una
ditta privata di sicurezza, mi accompagna al tavolo numero 8 in una
stanza affollata di gente che non capisco da dove sia sbucata. Un
ragazzo si siede davanti al computer del tavolino numero 8 e chiama
il 23. Che sarei io. Stampato in duplice copia, carta d’identità,
fotocopia della carta d’identità. Il ragazzo strimpella sulla tastiera e
mette un paio di timbri e mi da un foglio e mi dice di andare a fare il
versamento fuori, in qualsiasi banca e mi fornisce l’indirizzo del
commissariato dove mi concederanno l’agognato permesso. Bene.
Ringrazio. Mi alzo. Esco. M’avvio verso il commissariato ed entro nella
prima cassa di risparmio che trovo. Di banche, casse di risparmio e
bar ne trovi a palate in questa città. Pago. Esco. Individuo la
destinazione dalla fila di gente che si snoda davanti. Questa è
abbastanza corta, meno male. Mi accodo. Davanti c’ho un plotone di
studenti inglesi. Dietro una squadra di pizzaioli italiani. Sulla porta un
poliziotto statale con pancia e barba imponenti regola con fiero
cipiglio il traffico d’umanità straniera. Educato, del resto. Sorride
perfino ai bambini.
Anche lui mi blocca sul primo scalino. Attendo composto. A gesti mi
dice di entrare. Entro. In una sala arredata sobriamente e con gusto:
un cartello con foto di gente scomparsa, un altro con istantanee di
militanti dell’ETA (i professionisti non cedono alla tentazione del
qualificativo dequalificante: il cartello non recita “banda terrorista e
assassina” come le prime pagine dei giornali, solo “organizzazione”).
Sul fondo c’è un bancone con quattro impiegati ambosessi in
postazione davanti ad altrettanti schermi.
Dietro di loro, sulla parete, campeggia la foto del re da giovane.
Divago pensando che in fondo e in un certo senso avere un re è un
risparmio. Un presidente della Repubblica, eletto ogni sei anni, ti
obbliga a cambiare le foto incorniciate di migliaia di pubblici uffici.
Un’effigie del re invece dura una vita.
Tocca a me. L’impiegato aspetta paziente che gli sciorini davanti i vari
documenti. Quindi estrae dal mucchietto quelli di suo maggior
gradimento e si mette a ticchettare. La risposta del computer a
quanto pare non lo persuade perché riticchetta e poi mi chiede se
avevo il numero 23 nel precedente ufficio. Sissignore rispondo, anzi ci
ho ancora il bigliettino, se vuole glielo mostro, aspetti un po’ che
l’avevo qui in tasca.
Ma non ha bisogno del numerino. Solo di consulenza, perché si alza
ed esce borbottando che deve controllare una cosa. Ci siamo, penso.
E infatti quello non torna e invece sento aprirsi una porta alle mie
spalle e un giovanotto atletico coi capelli lunghi mi si accosta e
m’invita a seguirlo “per sistemare la faccenda” fuori. Raccolgo le mie
cose e lo seguo attraverso la porta laterale e poi lungo un corridoio.
Con la coda dell’occhio vedo infilare la nostra scia il poliziotto grosso
dell’ingresso. E ora chi la regola la fila? penso..
Entriamo in uno stanzino e una signora cortese mi dice di
accomodarmi su di una sedia e mi chiede la carta d’identità e se è la
prima volta che arrivo in Spagna.
Il ragazzo coi capelli lunghi è accanto a me. Sulla porta i poliziotti in
divisa sono due.
“Guardi” le dico “la mia è una situazione un po’ particolare”.
E spiego e mentre spiego tiro fuori la sentenza di estinzione della
condanna. Il giovanotto in borghese, che parla un po’ d’italiano, la
prende e l’esamina e la traduce ai poliziotti sulla porta. Uno dei due
entra e si siede a un tavolo guardandomi di sfuggita.
Un paio di minuti e rientra il capellone con i miei fogli spiegazzati in
mano. Mi comunica che stanno cercando di mettersi in contatto con
l’Interpol e che se è tutto in regola mi rilasceranno subito il NIE.
Altrimenti... non dipende da loro.
Beh, allora speriamo che sia tutto in regola, dico io. Tiro fuori il mio
libro del Preston sulla Guerra Civile spagnola e mi metto a leggere.
Quando entra o esce qualcuno alzo gli occhi e sorrido. Son fatto così.
Alla fine il poliziotto più giovane tira su il telefono. Parlotta, lo sento
pronunciare il mio nome, quello antico, quello che non uso da più di
trenta anni. Dice che a loro risulta un mandato di cattura
internazionale per assassinio. “Detto così fa un po’ effetto, no?”
mormoro sorridendo alla signora gentile che sta esaminando
scartoffie in un angolo della stanza e che finge di non aver sentito.
Il difensore dell’ordine tace, in attesa, colla cornetta in mano. Taccio
anch’io. Poi alla fine dice “cesado?” “cesado!”.
Sospiro e poi ricordo il sospiro di sollievo esalato durante la lettura
della sentenza in corte d’assise. Una lettura prolissa, piena zeppa di
articoli del codice penale, di quello di procedura idem, di procedura
civile e chissà che altro. A un certo punto mi era sembrato che la cosa
finisse in assoluzione. E invece un paio di minuti dopo ripartivo
ammanettato e scortato da un nugolo di carabinieri, di ritorno in
galera.
Ma stavolta è diverso. Il poliziotto si alza e viene verso di me
sorridente. È moro, con gli occhi chiari, sembra una brava persona.
Mica sarò caduto sotto la sindrome di Stoccolma? Dice che è tutto a
posto. Che nei loro archivi risultavo ancora ricercato ma che adesso la
sede centrale ha dato l’ordine di annullamento del mandato. Si scusa
perfino. Ma le pare, gli dico. È una storia molto vecchia, mi fa. Si, una
brutta e vecchia storia. Lo ringrazio.
Mi riaccompagna fuori, nello stanzone dove, ignari dell’incidente, i
comunitari continuano a sfilare. Stavolta al computer si siede il
ragazzo atletico dai capelli biondi. Io non trovo i documenti. Mi chiede
se non li ho messi nello zainetto. Io sto al gioco e faccio finta di
cercare e lo svuoto sul ripiano: quaderno, cartelline, penne, libro, un
fazzoletto sporco, spazzolino da denti, ricambio di biancheria perché
avevo messo in conto che un giorno o due in commissariato ce li avrei
pure potuti passare in attesa di chiarimenti.
Entra il poliziotto moro. Comincia a sembrare una commedia dei De
Filippo. I documenti ce li ha lui. Me li dà e sempre sorridente mi
chiede se vivo qui da parecchio. Gli rispondo di sì, tanto ormai non ci
rimetto nulla. Lui mi racconta che ha lavorato con gli italiani della
DEA, mi sembra che dica DEA, e che a Barcellona ci sono un sacco di
latitanti. Lo dice in italiano. Ma senti? Faccio io. Riesce. Ci salutiamo
cordialmente.
Mi danno il NIE. Un foglio con sopra stampato un numero. Si rinnova
fra cinque anni. Nient’altro. Il ragazzo capellone in borghese si scusa
di nuovo. Resisto alla tentazione di proferire il fatidico “ma le pare! Ha
fatto solo il suo dovere!”.
Il grande cancello si aprì lentamente cigolando come cigolano i
grandi cancelli nei film di terrore e si richiuse sferragliando appena
passata l’auto. I tre poliziotti in borghese scesero e dietro io, manette
ai polsi, stordito.
Intorno guardie vestite di grigio. Strane. Non ne avevo mai viste
prima. Parole, occhiate scrutatrici e stancamente curiose. Poi una
porta, una stanzina, una grande scrivania coperta di registri enormi,
polverosi. La firma e le impronte, di nuovo. Un’altra porta, tutta di
ferro e con lo spioncino e dietro un occhio.
Il corridoio. Un ufficio.
L’ufficio matricola.
I poliziotti mi tolsero le manette e se ne andarono salutando l’agente
dietro il banco. Non salutarono me. Erano venuti a depositare un
pacco. Il pacco ero io. Ci avrei fatto l’abitudine.
Il primo giorno in carcere è una cosa che si ricorda. Ricordo deformato
però anche a distanza d’anni nitido. E irreale, come una scena vista al
cinema. Credo che per tutti siano gli stessi sentimenti, paura, dolore,
angoscia, disperazione e perfino, a volte, sollievo. Per me fu
soprattutto stupore. Per gli odori, i colori impoveriti, le sbarre, lo
sbirro che mi ordinò di spogliarmi, il prete che mi chiedeva che cosa
avevo fatto.
Mi tolsero tutto: soldi, orologio, le stringhe delle scarpe, le chiavi di
casa. Mi dettero in cambio una coperta, una gamella di alluminio, un
bicchiere e posate di plastica.
Mi fecero scendere, scortato da tre o quattro guardie, in un
sotterraneo. Ordine espresso del giudice, mi portarono in cella
d’isolamento.
La porta era di ferro. La cella un buco di tre metri per due. Nel mezzo,
unico mobile, un lettuccio di ferro cementato a terra. Niente finestra.
La lampadina schermata da una griglia. I muri scrostati pieni di nomi
e date e di un enorme rozzo disegno di una donna nuda. In un angolo
c’era il bugliolo. Un grosso recipiente di terracotta. Tirai su il
coperchio ed era mezzo pieno. Ci pisciai. Poi mi distesi sul materasso
lurido, avvolto nella coperta. Mi addormentai.
Il giudice mi voleva “ammorbidire” con questo trattamento. Ma io le
uniche idee sul carcere me l’ero fatte leggendo cose del tipo “Ti
scrivo da un carcere in Grecia”, “Le mie prigioni”, Dostojesky,
descrizioni dei lager nazisti o le testimonianze di chi aveva subito la
prigione fascista. Poi dicono che leggere non serve... Per me quella
cella di punizione non era niente di terribile confrontata agli inferni
descritti da Silvio Pellico o Primo Levi.
Poi cominciarono a scorrere le ore, i giorni. Lo squallore o l’orrore di
una foto, di un’istantanea sono una cosa. Diverso il loro ripetersi o
mantenersi, fissi, uguali a se stessi, nel tempo.
Studiavo le pareti. Le macchie di umidità e di chissà che. I disegni, i
graffiti. Cercavo pazientemente di decifrare segni e parole. Di
tradurre a mente parole. In latino, in greco, le lingue morte
imparacchiate al liceo. Recitavo poesie ad alta voce.
La luce sempre accesa e la sensazione di essere sempre spiato. I
rumori, fatti apposta per tenermi sveglio. Allora non lo sapevo.
Con le guardie più giovani a tu per tu nel cortile durante l’ora d’aria a
volte parlavo. Come ti chiami, quanti anni hai, di dove sei, ci hai la
fidanzata e la famiglia? Per chi fai il tifo. Di queste cose insomma. I
più vecchi invece non spiccicavano quasi parola limitandosi a volte a
truci commenti circa il destino che mi attendeva, corredati in qualche
caso dal consiglio di collaborare con la giustizia. A questo punto io
tacevo, loro non insistevano e la conversazione languiva.
Il cibo lo passavano attraverso lo spioncino e uno scopino,
accompagnato da due guardie, veniva ogni tanto a svuotare il
bugliolo. Potevo scrivere lettere. Il Pubblico Ministero aveva dato il
permesso con la speranza che scrivessi qualcosa che m’incriminasse.
Allora mi era sembrata un gentile strappo a un regime severo.
Per un mese non potei lavarmi né radermi. Mi facevo un po’ schifo.
Poi cominciarono le nevralgie, le vertigini, i vomiti dopo ogni pasto. Di
notte dormivo sonni agitati e di giorno restavo ore in un dormiveglia
apatico. Tossivo. Fumare potevo.
Potevo ben poca cosa.
Non c’era granché da fare. Né radio né televisione. Nessuno con cui
parlare fra un interrogatorio e l’altro, salvo appunto le guardie che mi
sorvegliavano durante l’ora d’aria, in un cortiletto minuscolo, da solo
e non tutti i giorni.
Un paio, forse tre settimane di questo trattamento e i pensieri e gli
stati d’animo cominciarono a cambiare. Strana sensazione sentirli
staccare dal corpo e dal cervello. Pensavo a cose da dire al giudice e
me le dimenticavo subito, confondevo situazioni immaginate e altre
già vissute. Non ricordavo chi, come o quando avesse detto una certa
cosa che sapevo importante. Da momenti di euforia ingiustificata
passavo a crisi depressive, giustificate loro. Di quelle che la
disperazione ti mozza il fiato e ti prende la voglia di spaccarti la testa
contro la parete e rifletti a lungo se farlo e soppesi i pro e i contro e i
contro sono che invece di restarci secco puoi diventare paralitico o
mezzo scemo.
Una mattina con un minuscolo pezzettino di vetro raccattato in cortile
mi tagliuzzai con accanimento avambracci e polsi; il vetro era piccolo
e non toccò le vene. Mi feci solo un po’ di male e sporcai tutto di
sangue. Però mi ero sfogato e alla fine mi buttai sul letto e dormii.
Quando entrarono per la conta, il brigadiere mi fece alzare ed
esaminò le braccia. Con fare annoiato ordinò che raccattassero il
pezzo di vetro (allora non c’era tanta paura del sangue infetto) e mi
chiese che cosa speravo di ottenere. L’unica cosa che ne avrei
ricavato, aggiunse, sarebbe stata di farmi sbattere in un manicomio
criminale. Lo ascoltai senza capire, nessuno m’aveva detto che
l’autolesione è una delle forme di protesta più diffuse in carcere.
Nessuno ne parlava di queste cose sui giornali, alla televisione, in
sezione, al bar, al liceo. Nemmeno sui libri le avevo mai lette.
Ero agli inizi, sull’orlo di un universo che non ero minimamente
interessato ad esplorare. Pensavo solo, durante l’isolamento, a come
uscirne. A come far capire le mie ragioni. Pensavo i primi giorni che
fosse un problema di linguaggio, che non mi spiegavo bene o che
loro, giudici e poliziotti avevano un qualche difetto di comprensione.
Ma prima o poi sarebbe saltato fuori qualcuno con un briciolo di
intelligenza! Ma presto mi accorsi che il problema era altro: il mio
linguaggio non esisteva. Non mi ascoltavano. Al massimo
registravano quel che dicevo per trovare contraddizioni, per forzare
interpretazioni. Guardie, giudici, direttori. Gli interrogatori erano
scene da teatro dell’assurdo: facevano le domande, in genere idiozie
ripetute decine di volte, io rispondevo, il carabiniere trascriveva
picchiettando coi due diti sulla tastiera dell’Olivetti. Ogni tanto
leggevano il verbale per farmelo firmare. E su ogni frase s’ingaggiava
una lotta feroce...
No guardi io questo non l’ho detto.
Ma lei non fa altro che contraddirsi.
No è lei che non capisce o non vuol capire quello che dico.
E come ti permetti? io non ti faccio più uscire di qui, capito?.
...Ore ed ore d’insulti, insinuazioni, atteggiamenti istrionici, minacce
proferite ad ogni piè sospinto in presenza di un avvocato, il mio, che
ammazzava il tempo guardando fuori dalla finestra (per tutto il
periodo d’isolamento non mi concessero nessun colloquio con il
difensore, che vedevo solo durante gli interrogatori e che a quanto
pare in quelle occasioni non poteva comportarsi come Perry Mason,
ma solo verificare che non mi pestassero).
Non mi toccarono un capello negli interrogatori, a volte convocati a
mezzanotte. Il giudice che mi fece arrestare e che lottò strenuamente
per farmi dare l’ergastolo non era di questo genere di sadici. Era di
quelli che quando arrivavi, ogni volta più sporco, più stralunato,
trasandato, ti accoglieva con un sorrisino soddisfatto. E cominciava
con le domande subdole o semplicemente sceme, insistenti, con le
provocazioni e le affermazioni martellanti. Lo guardavo, grasso e
lustro, i vestiti di prezzo, la cravatta ben annodata. Era giovane,
provinciale e voleva farsi strada in quell’aristocratica e sprezzante
cittadina continentale. Io per lui ero un buon caso. Una condanna
avrebbe dato una bella spinta alla sua carriera. La condanna
l’ottenne, anche se non quella che avrebbe voluto lui. E carriera fece.
Fino a tornare in Sicilia come magistrato antimafia. Peccato che poi lo
processassero con l’accusa di aver preso un pacco di soldi da un
mafioso in cambio di una assoluzione o riduzione di pena. Ma questa
è un’altra storia.
Non era solo arrivismo il suo. C’era qualcos’altro di più aberrante, che
allora, ragazzo di paese da poco uscito dall’adolescenza, riuscivo
appena ad intuire. La perversione del potere. Il sapere che hai nelle
tue mani il destino di una o dieci o cento persone non può non
procurare sensazioni di tipo forte, dure, come con l’eroina. E come
con l’eroina ci vorrebbe gente integra, con una morale di acciaio, per
resistere e mantenere umanità. Ma sono pochi i probi. Ammesso che
ce ne siano perché conoscerne non ne ho conosciuti. Gli altri,
poverini, si assuefanno e non riescono più a vivere senza la loro dose
quotidiana d’implorazioni, lacrime, urla, sguardi di gente riportata di
peso in cella.
E, soprattutto, il sentimento altissimo di star compiendo una
missione, altissima pure quella “... e che mi buttino fuori dai piedi
quella donna coi suoi quattro marmocchi che tanto la libertà
provvisoria al marito non gliela do... Certa gente non ha proprio
nessuna dignità”.
Insomma la relazione con quel giudice era un po’ quella che si può
stabilire tra il padreterno ed un qualsiasi peccatore che oltretutto osi
negare di averlo commesso, il peccato.
Non so quante volte ricevetti la visita di quel pingue magistrato
durante il primo mese d’isolamento. Tante. Tante da farmi perdere
pazienza ed autocontrollo. Stanchezza per quel clima d’umiliazione
ininterrotta, d’annientamento programmato. Stanco di vedere
insudiciato, deriso maltrattato il mio io, di ascoltare minacce ed insulti
contro la famiglia. Stanco di sentirmi impotente. E finì con la seggiola
rovesciata di colpo, l’avvocato appeso al mio collo “non ti rovinare,
stai fermo”, il maresciallo che annaspava cercando di sbarazzarsi dal
tavolino con la macchina da scrivere, la faccia tonda dell’aguzzino
piena di stupore e spavento mentre cadeva all’indietro e di un odio
senza limiti quando, fra urli ed imprecazioni, le guardie accorse in
massa mi trascinarono fuori. Non mi malmenarono, solo qualche
spintone e l’annuncio che ormai ero fregato: il mio futuro era lì e
tanto valeva che mi mettessi il cuore in pace.
Ma non mi sono mai pentito di quello scatto, di avergli sciupato anche
se solo per un istante il giochino da gatto col topo.
Per rappresaglia mi tennero isolato qualche altra settimana,
dimenticandosi spesso di portarmi all’aria e qualche volta anche di
darmi da mangiare.
Al termine del secondo mese, per intercessione di un sottufficiale
“buono” e di un prete che aveva sostituito temporaneamente quello
di ruolo, ammorbidirono il regime permettendo ai miei di portarmi
pacchi di viveri e qualche giornale, allungando un po’ i tempi d’aria e
scortandomi una volta alla settimana alle docce, anche se sempre
separato dagli altri.
Non smisero però le provocazioni del guardione specialista che, non
avendo di meglio da fare, se ne stava appostato per ore allo spioncino
“tu devi essere matto a comportarti così col giudice.. vedrai che ti
daranno il massimo... confessa che è meglio... sai cosa gli fanno a un
ragazzo come te in un penale?”. E le lettere esaminate parola per
parola: “cancella questa frase.. a chi si riferisce questo commento?”.
Ma la mia capacità di risposta si era esaurita nel tentativo di
aggressione al magistrato. Così finalmente qualcuno decise che era
giunto il momento di lasciarmi un po’ in pace e di tirarmi fuori
dall’isolamento.
Il giorno precedente al trasloco nel braccio i miei riuscirono a
strappare dal labirinto della procura il permesso per un colloquio...
Vidi così lo stanzone dalle pareti imbiancate a calce, l’intonaco
scrostato, le panche ed il lungo tavolato che andava dalla parete alla
faccia dello sbirro piantato lì come un palo. E loro, più piccoli,
dimagriti, la mamma col suo sorriso sereno, il babbo che si mordeva
le labbra per non piangere. Eravamo soli. Impacciati, chiesero alla
guardia se potevano abbracciarmi. No, non si poteva. Seduti, separati
dal bancone provammo a rompere il silenzio tutti e tre alla volta.
Tante cose da dire, da raccontare. Ma c’erano da superare il groppo
alla gola, la curiosità fatta di timori di chi è fuori e l’altra fatta di
speranza di chi è dentro. Un’ora trascorsa a rasserenarli, a
tranquillizzarmi. Un’ora di “stai bene? Mangi? Come ti trattano? C’è
luce nella tua ... stanza? Di cosa hai bisogno?”. Domande vecchie
quanto il carcere. Come le mie: “che dice l’avvocato? E a casa come
state? E i bambini? E la Rita? E gli zii?.
E risposte vecchie, cariche d’angoscia. Un gioco di menzogne pietose.
Molte volte ancora le avrei ripetute, le avrei riascoltate. Sempre le
stesse. Tutto bene, tutto finirà presto e saremo felici come non lo
siamo mai stati. Com’è impossibile esserlo.
Ci attaccavamo a quel povero stare insieme parlando in fretta, a
scatti, cercando così di allontanare l’ora della separazione.
Parlava la mamma soprattutto ed il babbo assentiva o sottolineava
con forza, ripetendoli, gli incoraggiamenti, le esortazioni ad aver
fiducia in loro, negli avvocati, in dio. Non nella giustizia. Sentivamo
tutti che sarebbe stato grottesco farlo. Nessuno lo fa. Non m’è mai
capitato lì dentro di ascoltare nemmeno mezza volta nessuna di
quelle dichiarazioni di fede nella giustizia, nell’obiettività dei giudici e
dei tribunali che escono dalle bocche di tanti personaggi di film o di
romanzi.
Dopo un’ora scarsa arrivò il brigadiere battendo le mani e con
stampata in faccia un’ineffabile espressione da ebete. Il babbo
mormorò “di già?”, tentando un sorriso. La mamma si alzò a fatica e
senza una parola.
È il momento che temi di più. Il babbo mi strinse forte le mani al di
sopra del tavolo, la mamma le accarezzò. Poi la porta si richiuse sulle
loro spalle, curve, dimesse.
Sarebbero seguiti decine di colloqui in sale altrettanto squallide di
diverse prigioni di diverse città. Mia madre non avrebbe mai versato
una lacrima, anche se alcuni secondini si premuravano di
comunicarmi che fuori sì che piangeva, mentre si allontanava a passi
affrettati tenuta a braccetto da mio padre. Ma non dimentico
l’espressione del suo viso quando, vigliacco che sono, gli riferii della
persecuzione di cui ero oggetto da parte di uno scopino ergastolano
che aveva assassinato diversi i ragazzi che gli avevano resistito. Sulle
prime non capiva, poi fu sul punto di svenire. Ma non pianse. E non
pianse nemmeno il giorno che un magnaccia seduto accanto a me
saltò su ad insultare sua moglie e tirò urlando una bottiglia che andò
a frantumarsi alle loro spalle. Né quando io ed altri due gli fummo
addosso, la guardia scappata via al primo urlo e si scatenò una rissa
selvaggia brutale, una rissa fra carcerati.
... Se non non ti sei potuto procurare un coltello te lo fai con un
cucchiaio affilandone il manico per ore sulla pietra del davanzale, sul
pavimento. Oppure col ferro di uno stipetto o un pezzo di branda o
ancora il manico dello spazzolino da denti appuntito a punteruolo o il
pettine che usato bene taglia. O sennò una bottiglia rotta. Ma poi per
picchiare e far male va bene qualunque cosa, la macchinetta del caffè
per esempio la gamba di un tavolo una seggiola la bottiglia prima di
romperla e se non hai nulla in mano calci pugni ginocchiate gomitate
testate o dita infilate negli occhi nel naso in bocca a lacerare
strappare capelli orecchie tirare graffiare stringere gole coglioni
strangolando mordendo…
La mamma mi chiamava con un filo di voce, implorante, ma io non la
sentivo, preso solo dal desiderio rabbioso di buttar fuori e farla pagare
a quel disgraziato.
E non pianse neanche quando, mesi dopo, un altro prigioniero ebbe
una crisi epilettica ed io cercavo di sostenerlo perché non sbattesse la
testa per terra ma era una quercia d’uomo e da solo non ce la facevo
ed i suoi due fratelli, gente già anziana nei loro cappottoni da
contadini, in piedi impauriti non facevano altro che balbettare “Oh
signore o dio mio aiutaci tu”. Dio non li aiutò. Le guardie neppure. In
compenso irruppero diversi agenti e sospesero il colloquio. Ed
oltretutto dovetti faticare, nel corridoio, per convincere la squadretta
già pronta che l’uomo era vittima di una crisi provocata da una
malattia e che a picchiarlo c’era il rischio che gli crepasse fra le mani.
Nei giorni di colloquio si respira un’aria diversa. Le tensioni si
allentano, la noia si rompe. Ognuno pensa alle domande che gli
stanno a cuore: le possibilità di uscire in libertà provvisoria, una
riduzione di pena; come vanno le cose a casa; il nipotino nato che tu
eri già dentro, il vicino morto d’un collasso ed i cugini che mandano
sempre i saluti ed un dolce fatto in casa. Ed aspetta con ansia,
anticipandole, assaporandole, le sensazioni che si provano di fronte ai
volti, alle voci che richiamano il passato, l’era della felicità.
E le lettere, i pacchi; pezzetti di libertà che s’attendono con ansia, che
si ricevono con gioia, che si aprono con amore. Non mancano per i più
fortunati quelli degli amici, dei compagni, ma generalmente sono
pochi e di rado durano. I genitori, i fratelli, a volte una donna, sono
l’alleato sicuro, il legame profondo che unisce alla vita. Un legame
che quando si rompe lascia sempre un vuoto spaventoso. Non è un
caso che il sistema si mostri così meticoloso, duro, crudele nel
controllo di queste relazioni in principio sacre ed intoccabili. Se vuoi
provocare, umiliare, tormentare fino alla distruzione un prigioniero,
limitagli i colloqui, strappagli le lettere, trasferiscilo da un posto
all’altro ad insaputa dei suoi e ben lontano in modo che ogni visita si
trasformi in un calvario. O ancora fai apprezzamenti pesanti su mogli
fidanzate sorelle. Prendi in giro la povertà e l’ignoranza dei genitori.
E così fanno.
Accolsi con indifferenza la fine dell’isolamento. Non m’attirava per
niente la compagnia degli altri, specie dopo aver udito le orripilanti
storie che le guardie più anziane s’erano prese la briga di
raccontarmi, giorno dopo giorno, per allietare la monotonia della
passeggiata nel cortiletto.
E poi avevo voglia di star solo, mi sembrava di poter sfuggire così,
chiuso in un mondo di sogni e fantasticherie, allo squallore che mi
circondava. Però quando mi dissero di preparare la roba non aprii la
bocca e, raccolte le mie quattro cose su di una coperta, ne feci un
fagotto, me lo caricai in spalla e seguii le guardie.
Il miserabile corridoio della sezione sembrava spazioso e pieno di
luce. Due mesi di cella di punizione, di luce elettrica 23 ore al giorno
con il lusso non sempre goduto di un’ora di aria in una scatola di
cemento 4x4 scoperchiata. La luce del sole m’aveva sfiorato una sola
volta, un mattino che m’avevano fatto uscire un po’ prima.
All’entrare nella camerata mormorai un buongiorno a tutti che
ottenne di rimando un altro mormorio. Ad occhi bassi posai le mie
cose sulla branda che mi era stata additata. Sentivo gli sguardi degli
altri addosso mentre le guardie uscivano richiudendo la porta. Mi girai
allora e guardai i nuovi compagni, tre: quello con la faccia da
malavitoso si avvicinò con qualcosa somigliante ad un sorriso sulle
labbra e la mano tesa: “Mi chiamo Andrea, lui è Raffaele e il vecchio
Giovanni, tutti bravi ragazzi, vedrai che qui starai bene”.
Più o meno della mia stessa età Raffaele, sdraiato sul letto, lasciò per
terra il libro che stava leggendo e accennò un saluto. Sapevano già
chi ero, di che cosa ero accusato, della mia posizione processuale.
Radio carcere funzionava davvero.
Il vecchio, a occhio e croce una sessantina d’anni passati fra campi,
arature ed a maltrattare bestiame si rivelò il più chiacchierone e,
come no, il più curioso. Sotto lo sguardo a volte francamente seccato
del malavitoso dette il via ad una girandola di domande e commenti,
inframmezzati dalla descrizione meticolosa ed esauriente delle
disgraziatissime, sfortunate circostanze che avevano portato una
persona rispettabile e ligia alle leggi come lui in quel luogo d’infamia
e perdizione. Me ne liberai a fatica con il pretesto di un mal di testa e
mi sdraiai sulla mia branda, sbirciando i miei nuovi coinquilini.
Andrea, guappo napoletano, non poteva avere più di trenta anni ma
così a occhio doveva averne passati un bel po’ in carcere: coperto di
tatuaggi dalla testa ai piedi, con un serpente attorcigliato intorno a
una gamba, sull’altra un teschio con un pugnale conficcato e scritte
del tipo “donna che manca pace non troverà”... sulla schiena invece
un magnifico drago, con lingue di fuoco e tutti gli attributi di un drago
come si deve, a colori sgargianti, sulle braccia frasi minacciose,
scongiuri e una pistola e un coltello. Anche sul viso aveva i cinque
punti della malavita (omertà, vendetta, onore e non mi ricordo gli
altri). Oltre ai tatuaggi aveva sul ginocchio e sul fianco due cicatrici
rotonde da pallottola. Una striscia biancastra che attraversava il
teschio era il ricordo di una vecchia coltellata.
L’altro ragazzo, che si era rimesso placidamente a leggere era in blue
jeans, maglietta. Aria da studente, forse un politico - pensai– ma no,
me l’avrebbe detto appena entrato -.
Più tardi, quando aprirono le celle, ebbi modo di conoscere la maggior
parte degli ospiti della sezione. Curiosi per quello che avevano letto
sui giornali o sentito dire da guardie e scopini.
C’era un gruppo di tossici, sei o sette, alcuni della mia età, che
m’invitarono subito a prendere un caffè nella loro cella.
Erano in attesa, equipaggiati con radio, sigarette, qualche acido
passato di straforo, un po’ di marijuana e molto vino, che il giudice
istruttore gli concedesse la libertà provvisoria. Erano dentro per furto,
due anche per spaccio e uno per rapina, a quanto pare aveva
minacciato un farmacista con il coltello.
Sulle pareti della loro cella troneggiavano ritagli di riviste, foto di
cantanti e, disegnata a carboncino, una grande siringa. Uno di loro,
capelli lunghi biondicci e la faccia scossa da una serie di tic mi porse
con una smorfia nervosa la tazza di caffè; aveva la barba lunga e
incolta, braccia tatuate: cuore con tanto di “love” nomi e simboli vari.
Ma nella piega della bocca, nello sguardo c’erano disperazione e a
lampi odio. Che straripava quando parlavano di quelli dell’antidroga e
di certi giudici. Faceva uno strano effetto non solo sentire crescere
dentro questo nuovo sentimento ma vederlo anche in altri. In poco
tempo avrei scoperto che l’odio, con la paura, era quello che più ci
accomunava, uomini o belve, lì dentro.
C’era un ragazzone alto e grosso dall’aspetto terribile e sorriso da
bambino. Il giorno prima si era fatto un acido e, seduto sul davanzale
di una finestra, appoggiato all’inferriata, aveva visto le sbarre
diventare fini e fragili, sarebbe bastato allungare una mano per
piegarle ma in quel momento Pastore, il secondino pacioccone, salì su
per le scale; saliva come alla moviola, piano piano e si deformava ad
ogni scalino, gonfiandosi come un pallone rinchiuso in una divisa. E
allora lui era scoppiato a ridere fino a piegarsi in due, e l’altro,
sorridendo affabile e paterno: “e così siamo contenti oggi eh! Bravo,
bravo!”.
Così passarono quel paio d’ore di nuova socievolezza. Poi di nuovo la
chiusura, la conta, il rancio.
E questo fu, grosso modo, l’inizio dell’attesa. Punteggiata di riti
officiati con serietà, disperazione, fanatismo, in una quotidianità
ritmata e sempre uguale a se stessa. E fu la scoperta d’un altro
mondo ancora intuito, mai immaginato. Forse perché inimmaginabile.
Per la prima volta mi sentivo ed ero parte di un’intera collettività su
cui pesava un dominio ridotto all’essenza, privo di travestimenti,
maschere o pudichi veli. La miseria, non solo quella delle cicche
raccattate e riciclate in infernale mistura sfondapolmoni, dei
pantaloni-uniforme per chi non aveva nemmeno uno straccio suo per
coprirsi, del vitto che dà il voltastomaco, ma anche quella dello
sfruttamento o dell’emarginazione da cui avevano cercato di fuggire,
andando a sbattere lì, la maggioranza dei miei nuovi compagni.
Realtà di lavoro nero, di baracche o casupole decrepite, di nidiate di
figli cui dar da mangiare, di freddo, sporcizia, umiliazioni, ignoranza.
“La legge sarà anche uguale per tutti, come dice chi la fa. Ma la
galera di sicuro è privilegio dei poveri”.
“Mi raccomando, evita le cattive compagnie”, le povere madri dei
ragazzi incensurati durante i primi colloqui pronunciavano spesso
questa frase che procurava momenti di amara ilarità ai codetenuti.
Eppure sono proprio i rapporti con i compagni di pena l’aspetto più
problematico della vita del recluso. Pare che l’aggressività di un
detenuto si moltiplichi per otto (od ottanta, insomma parecchio),
rispetto alla media dell’uomo della strada. Non so cosa intendono gli
psicologi per aggressività media, né se l’aggressività sia cosa da
poter sommare, dividere, moltiplicare o comunque quantificare e
dubito che in ogni caso sia possibile superare quella di tanti
personaggi che deambulano (su due zampe o quattro ruote) per le vie
e le piazze delle nostre città e paesi, facce atteggiate a perenne
smorfia di disgusto, amarezza, diffidenza, onesti cittadini che firmano
per la instaurazione della pena di morte.
Non so davvero se siano meno aggressivi il contribuente modello, la
brava massaia, il pacifico commerciante, l’onesto operaio o il
galeotto, essere abituato alla solitudine ed all’ostilità estrema
dell’ambiente in cui si muove, costretto a sopravvivere in una mini
società definita da limiti e norme del tutto naturali e su cui impera,
senza mediazioni né falsi pudori la legge del più forte, dove i giorni si
succedono nella preoccupazione di non buscarsi una coltellata, di non
cedere agli impulsi di autodistruzione, di non permettere alla
macchina di annientarti completamente. Non lo so.
Ma non credo che esista specie animale che non reagisca in modo
violento a situazioni anomale, come il sovraffollamento, la privazione
d’una vita sessuale, la limitazione drastica della libertà di movimento
o delle facoltà sensoriali e della riduzione, altrettanto drastica, degli
stimoli ambientali.
Il carcere è violenza che genera violenza. Cosa detta, ripetuta e
saputa. L’uomo è un animale sociale, ma lì dentro chi non è già
asociale o sociopatico lo diventa. I regolamenti, le autorità
penitenziarie fanno tutto il possibile ed anche di più per svilire
impoverire snaturare quando non addirittura annullare tutti gli spazi e
momenti di comunicazione. Con l’esterno per mezzo di un
interminabile elenco di regole, provvedimenti, ricatti, divieti, abusi e
soprusi. Dentro attraverso il sapiente impiego dei settori più marci e
collaborazionisti dei detenuti (mafiosi e fascisti ed infami d’ogni
risma) e delle contraddizioni, delle tensioni che insorgono inevitabili in
una coabitazione coatta fra gente proveniente dalle più disperate e
disparate esperienze.
Ma, anche se con la merda fino alla gola, continuano ad esserci, in
quella società di asociali, il bisogno di stare con gli altri, il desiderio di
vivere assieme agli altri, di capire e far capire.
Imparai presto a “comportarmi”. Sapersi comportare è la regola
numero uno ovunque ma in carcere in particolare, visto che altrimenti
salute e pelle vanno a rischio. E comportarsi significa salutare i
conoscenti con cordialità ma senza eccessive effusioni, non “attaccar
bottoni”, parlare sempre con rispetto, non prendere mai in giro
nessuno. E anche munirsi di un adeguato sistema di segnali per
comunicare agli altri i limiti del tuo territorio. Sguardi, silenzi,
espressioni, gesti, più che parole.
Mi presero a benvolere in molti e per parecchi divenni una specie di
confessore e consulente legale. Anche se avevo diciannove anni ed
un’accusa di omicidio mi venivano a raccontare le loro storie da
imputati di furti, truffe, traffici. Mi portavano a leggere le lettere della
famiglia, della moglie e mi chiedevano di scrivere le risposte “con
parole mie, ché loro non sapevano manco parlà”.
Sì, sono le regole di comportamento, non scritte ma rigide, la prima
cosa da imparare.
Sennò poi succede che gente in gamba dal carattere troppo
espansivo e atteggiamenti di generoso altruismo si ritrova nei guai,
magari con la faccia spaccata, senza capire perché. E allora si
lamenta e afferma che il famoso codice d’onore della malavita è
ormai scomparso e che i delinquenti odierni altro non sono che
un’accozzaglia di bruti fascisteggianti, incapaci di alcuna solidarietà. E
magari non è né una cosa né l’altra e meglio sarebbe non mitizzare
né disprezzare niente e nessuno.
Allora si faceva un gran parlare di proletariato extralegale e gli si
attribuivano le stesse virtù taumaturgiche che venivano allegramente
attribuite al proletariato “ufficiale”. Ma il fatto è che le società di
delinquenti, come quelle di operai o le classi abbienti dei quartieri alti
si regolano con norme che non sono poi così diverse; solo più dure nel
caso delle prigioni perché adattate ad una realtà idem e che non
ammettono scimmiottamenti o imposizioni di comportamenti estranei
da parte del primo venuto.
C’era tanta gente strana.
Trombetta era un pappa romano dall’espressione d’eterno pagliaccio.
Si lanciava in danze improvvisate, canti e racconti di avventure, come
furti in pollai, di cui era stato protagonista. Esperto edificatore di
baracche abusive, affermava con orgoglio di essere capace di
costruirne una dotata – a suo dire – di tutti i requisiti di legge (che
cioè non poteva essere demolita senza la delibera di un tribunale)
nell’arco di una notte. Passava di botto, provocando generale
perplessità, dalla risata al pianto sconsolato. Una volta a cena scoppiò
in lacrime abbattendosi, dopo aver scansato il piatto di fettuccine
(fatte a mano, con le uova, impastate sulla tavoletta del vater) con la
faccia tra le mani, sul tavolo: gli era venuta in mente l’immagine del
padre di un suo compagno di cella che, con un fazzoletto in mano era
rimasto fino a notte a salutare il suo ragazzo da un prato antistante il
muro di cinta “paretto, come piagneva, seccepenso me prenne na
cosa!”. Era un delinquente abituale, il Trombetta, il che però non
significava che si fosse abituato alla galera, dove d’altra parte aveva
passato un quarto della sua vita.
Alla galera non si fa l’abitudine. Però si era dovuto arrangiare ed
inventarsi un equilibrio.
Equilibrio che invece non riusciva a trovare Mario. Grasso,
pacioccone, con i suoi occhiali spessi un dito e quasi quarant’anni era
la prima volta che entrava e ne aveva per un pezzetto.
Ti ritrovi con molti esempi di ingiustizia in carcere. Un sacco di gente
povera, emarginata, ignorante. Incapace di difendersi di fronte a
regole che non capisce. Condanne sproporzionate. Punizioni che
vanno ben al di là della “neutralizzazione” del soggetto deviante. E
non parliamo di reinserimento. Prepotenze gratuite di magistrati
arroganti. E poi ci sono gli sbagli. Decine, centinaia, migliaia di
“sbagli”.
Quando se ne scopre qualcuno, e se è un caso clamoroso (come
quello del tipo condannato all’ergastolo e che si sorbì 24 anni in un
penale, finché la sua “vittima” non tornò in paese: era emigrata),
merita un trafiletto sul giornale e commenti del tipo “ma guarda un
po’!”.
Non si scomodano in questi casi i mezzi, i paroloni, le evocazioni dei
sacri valori che sono invece all’uso quando i sequestrati sono altri.
“Ma non è mica la stessa cosa”, mi dicono quando azzardo
osservazioni in questo senso, “qui si tratta di errori!”
Embè? Il CP non considera attenuante nei casi di omicidio, lesione,
sequestro ecc. il fatto che tu ti sia sbagliato di vittima. Che
succederebbe, mi chiedo, se una banda terrorista sequestrasse il
sosia di un, mettiamo il caso, noto torturatore (straniero ovvio, da noi
di torturatori non ce ne sono) e dopo averlo tenuto rinchiuso in uno
scantinato qualche mese a pane, acqua e legnate, scoprisse di aver
preso un abbaglio e dicesse all’innocente cittadino “oh scusi tanto,
c’è stato un disguido, abbia pazienza e tenga questi due milioni, no
meglio uno, per il vitto e l’alloggio, capisce”?
Conobbi un gruppetto di sardi, un paio già anziani con i capelli quasi
del tutto bianchi, gli altri piccoli e mori e sguardi profondi. Erano la
gentilezza in persona, educatissimi, non alzavano mai la voce; se si
avvicinavano a qualcuno con l’intenzione di scambiare quattro
chiacchiere, prima salutavano cerimoniosi e poi chiedevano il
permesso di affiancarlo nella passeggiata o di sedersi sulla stessa
panca. Erano tutti pastori. Discreti e generosi (quando gli arrivavano i
pacchi ci offrivano le forme di cacio fatte dalle loro famiglie), sempre
corretti e dignitosi nei gesti e nei discorsi. Scontavano tutti condanne
dai venti ai trent’anni per avere, secondo l’accusa, rapito e tenuto
prigioniero uno speculatore per ricavarne un riscatto.
La vittima del sequestro, intervistata da televisioni, radio e giornali,
aveva affermato che era stata un’esperienza durissima: aveva
dormito tutte le notti in capanne, su di una coperta stesa a terra,
aveva mangiato solo pane e formaggio e bevuto solo acqua e latte...
Insomma aveva fatto per qualche settimana la vita che i suoi rapitori
avevano fatto da sempre, da generazioni.
Il rapimento di un palazzinaro fa notizia, mobilita la stampa, oltre a
polizia, magistratura e carabinieri. L’arresto di un borgataro, di un
baraccato, di uno zingaro o di un disgraziato qualunque no. Eppure
spesso il dramma umano provocato dalla perdita di un lavoro, le
spese per un avvocato, conseguenze solite di una carcerazione anche
breve è ben superiore a quello che rappresenta l’esborso di qualche
milione per uno che di milioni ne ha a palate.
I rapitori di un palazzinaro pagheranno, e caro, perché le nostre
polizie, così inefficaci nel perseguire le frodi fiscali, il traffico
internazionale d’armi o i responsabili delle stragi di esseri umani,
ottengono invece risultati da dieci e lode nei casi di sequestro. E
invece nessun giudice, nessun carabiniere e nessun secondino
pagherà mai per aver privato senza motivo persone di libertà, dignità,
speranza.
Mi sono interrogato spesso su questo paradosso e credo di aver
trovato la risposta leggendo centinaia di articoli di stampa o
ascoltando centinaia di servizi televisivi: i suddetti quando
minacciano, sequestrano, torturano o ammazzano non lo fanno in
veste di uomini ma di solerti funzionari. Servi dello Stato, che tradotto
vuol dire qualcosa che sembra un essere umano ma che non lo è e
che non può, anzi non deve, provare sentimenti, emozioni. Insomma
macchine. E come si sa le macchine, gli scimpanzé e gli indiani
dell’Amazzonia non sono perseguibili a norma di legge.
Salvo poi, a sorpresa, scoprire che tali funzionari-macchine
ridiventano di colpo esseri umani con tanto di madri vestite di nero,
sorelle e mogli in lacrime, vecchi padri affranti, zie sconsolate e
nidiate di figli nei confronti dei quali erano tutto cuore e premurose
attenzioni allorché qualcuno gli spara addosso, magari un idiota che
s’immaginava che un robot al mattino continua ad esser tale anche di
sera.
Ma torniamo al Mario. Aveva emesso degli assegni a vuoto per un
valore di 200.000 Lit. (mi fece leggere la sentenza, che si era oramai
imparato a memoria, e la cifra era questa). Sostenne di averlo fatto
inconsapevolmente: gli risero in faccia, lo insultarono, lo provocarono
come fanno spesso.
E lui reagì, fremente di sdegno, e così si beccò anche qualche mese
accessorio per ingiurie a pubblico ufficiale. Non ho mai avuto il
coraggio di chiedergli che tipo di ingiurie, dato che non me lo
immaginavo proprio a insultare nessuno: inoffensivo, col suo faccione
roseo, la voce acuta, incapace di pronunciare non una bestemmia ma
neanche un’oscenità (il cazzo lo chiamava, arrossendo, il pene). Lo
ebbi come compagno di cella e le notti in cui prender sonno era più
difficile e il silenzio spinge a guardare indietro e parlare aiuta a
sopportare meglio i ricordi, mi raccontava la sua storia. Una storia
come tante altre, condita di povertà, passioni infelici, malattia.
Lui, che era sempre vissuto con sua madre, un giorno si innamorò; la
chiese in sposa (diceva proprio così) e a pochi mesi dal matrimonio,
quando aveva già arredato l’appartamento che doveva essere il loro
nido d’amore, organizzato il viaggio di nozze e fatto tutti i preparativi,
la donna se ne andò con un altro (una volta gli dissi che la capivo
perfettamente dopo averlo sentito russare ma ci rimase così male che
non scherzai più sull’argomento).
Cadde in una depressione e poco dopo ebbe un incidente d’auto, non
si ammazzò per miracolo ma il suo calvario per ospedali e centri di
riabilitazione durò più di un anno. Diceva che non gli importava
assolutamente nulla di vivere o morire. Fu all’uscita dell’ospedale che,
pagando fatture che si erano accumulate, emise gli assegni che gli
valsero incriminazione, arresto e condanna. Era contento che
l’ascoltassi e gli dimostrassi comprensione partecipe e cercava di
dimostrarmi la sua gratitudine preparandomi tazze di cioccolata coi
biscotti sul suo fornellino a gas, o raccontandomi barzellette o ancora
leggendomi brani dei libri che divorava instancabile. Ogni tanto
riceveva un pacco da casa e passava lunghe ore a scrivere a sua
madre pagine fitte di una calligrafia minuta e regolare. Ricevette
anche un paio di lettere dalla sua ex promessa sposa. Me le fece
leggere e gli dissi che mi sembrava una persona dolce e sensibile che
non aveva voluto fargli del male. E lui mi confessò commosso che
l’avrebbe amata per sempre.
Si, dentro trovai degli amici. Con cui parlare della vita, quella che
avevamo lasciato fuori e quella che ci aspettava, fuori. Forse era il
bisogno di poter contare su qualcuno in un ambiente ostile. Forse
semplicemente il desiderio di non star soli. Ci scambiavamo regali,
dividevamo i pochi averi: giornali, cibo, sigarette, facevamo fronte
comune dinanzi al nemico. Il delinquente, dicono, è egoista per
definizione. Sarà, ma difficilmente dopo ho riscontrato il grado di
solidarietà ed abnegazione cui riescono a dar fondo i detenuti quando
se ne presenta l’occasione. Ancor oggi fra le cose che mi sono portato
dietro ad ogni trasloco, nel mio piccolo bagaglio da nomade conservo,
accanto ai ricordi della famiglia, un braccialetto di rame che Vincenzo
fece per me intrecciando i fili strappati dall’altoparlante della sua
cella. Era un eroinomane, di famiglia poverissima, con un mucchio di
fratelli e sorelle; sua madre, vedova, veniva a trovarlo regolarmente
(fra lui e suo fratello la povera donna aveva fatto il giro dei parlatori di
mezza Italia) e gli portava quello che poteva: un po’ di cioccolata,
qualche pacchetto di nazionali, un dolce fatto in casa, frutta. E lui
insisteva per spartire il tutto con gli amici e con i compagni che
avevano ancora di meno. Il braccialetto me lo regalò il giorno in cui gli
comunicarono che gli era stata concessa la libertà provvisoria. Se ne
andò salutandomi con i lucciconi agli occhi. Appena fuori trovò lavoro,
un lavoro infame e malpagato che conservò nonostante tutto finché
dei poliziotti, piccati per il suo rifiuto a “collaborare con la giustizia”
(cioè di diventare loro informatore), consigliarono al padrone di
buttarlo fuori. E quello seguì il consiglio. Lui si fece pagare la mesata
ed andò a casa dei miei e pregò e tempestò finché non accettarono
diecimila lire per me.
Ma c’erano anche gli altri. Con la loro prepotenza. L’esercito di
infami, mafiosi, fascisti, stupratori. Detenuti che rendono l’inferno
carcerario ancora più inferno. Come in molti penali e giudiziari del
sud, dove accade che direttori e marescialli diano del voi e si
sberrettino davanti a padrini che la fanno da padroni garantendo in
cambio il mantenimento dell’ordine: niente evasioni, niente rivolte,
niente proteste. Solo, ogni tanto, sangue.
Mi trasferirono una volta, avevo iniziato uno sciopero della fame, in un
penitenziario ospedale a Pisa. Era pieno di ergastolani che avevano
beccato la tubercolosi, drogati con l’epatite (allora non si sapeva
dell’AIDS), gente convalescente da ferite di ogni tipo, dalle
autolesioni, con vene tagliate, chiodi e lamette inghiottite, labbra
cucite, anche qualche mutilazione: un pezzo d’orecchio, un dito. E
ferite da rissa, da coltello, da bottiglia, ossa rotte, crani incrinati.
Una guardia dall’aria schifata mi portò in una cella dov’erano
ammucchiate sei brande e cinque uomini intenti a diverse
occupazioni come la lettura di un giornale porno, la costruzione della
solita nave fatta di fiammiferi o l’accurato esame del soffitto (si fa da
sdraiato sulla branda, con le mani intrecciate dietro la testa). Cauto
come al solito scambiai quattro chiacchiere con il vicino di branda,
rispondendo con sorrisi brevi e luoghi comuni alle domande, non
molte e generiche anch’esse. Sistemai i miei quattro stracci e mi
distesi sul letto, di fianco, con la schiena appoggiata alla parete e mi
appisolai fino all’ora del rancio. Brodaglia inqualificabile con dentro
pezzi di patata e un tocco di carne coriacea. Ancor peggio che al
giudiziario. Lo scopino che la distribuiva era un gigante che sembrava
uscito di fresco da un film di pirati, nella parte del più brutto.
Completamente calvo, cicatrici dappertutto, l’espressione più
abbrutita che mi sia mai capitato di vedere. Cominciò, nei vari
passaggi davanti al cancello chiuso (non avevamo porta, solo un
cancello) della mia cella, a fermarsi ed a chiedermi le solite cose:
perché ero dentro, da dove venivo, per quanto tempo ne avevo. Io
cercavo di non fargli caso, di far finta di non sentire e non
rispondergli. Gli scopini sono quasi sempre infami, culo e camicia con
i secondini, ragione più che sufficiente per essere trattati con
disprezzo da tutti gli altri. Alcuni non avevano nessun contatto con il
resto dei reclusi e passavano le giornate negli uffici o in cucina
rientrando in cella la notte per ultimi ed uscendone quando noialtri
eravamo ancora chiusi, al mattino. Molti erano dentro per stupro o
assassinio di bambini, altri fascisti. Esseri disprezzati da tutti che
rischiavano di lasciare la pelle in qualsiasi angolo della sezione, se
lasciati a se stessi...
Una volta, camminando per strada passai accanto ad un capannello di
gente che si era formato intorno a due poliziotti che stavano
ammanettando un topo d’appartamento, un ragazzo di una ventina
d’anni; accanto a me un ometto sbraitava che bisognava ammazzarlo
lì, subito, che lo lasciassero a loro.
Molte volte mi sono ritrovato ad ascoltare gente, giovani, vecchi,
uomini, donne, operai e borghesi, sostenere convinti la pena di morte.
La differenza è tutta qui: la gente per bene e moralista che vuole il
sangue del colpevole ne delega l’esecuzione a qualcun altro o vi
partecipa, ma protetta dall’anonimato della folla; il delinquente invece
ammazza in prima persona, se crede che deve farlo, indifferente alle
conseguenze.
Scoprii che lo scopino era molto amico d’un siciliano coi baffetti,
aspetto da ruffiano e serpente, che stava nella mia cella. Mentre
scrivevo o leggevo veniva e mi chiedeva se non sarei stato meglio,
più tranquillo in una cella dove non ci fosse tanta gente e tanto
rumore. Gli rispondevo che stavo perfettamente dov’ero e che non
avevo nessuna intenzione di cambiare. All’ora d’aria o della
televisione insisteva perché uscissi a fare quattro passi ma io,
diffidente, mi rifiutavo sistematicamente di seguirlo e restavo a far
ginnastica accanto alla mia branda. Allora cominciò ad insinuare che
un ragazzo come me in un posto come quello aveva bisogno di
qualcuno che lo proteggesse. Sulle prime finsi di non sentire, e
quando cominciò a diventare troppo ripetitivo lo squadrai e gli dissi
che mi sentivo perfettamente in grado di badare a me stesso. Non lo
impressionai minimamente e tornò presto alla carica affermando di
aver sentito da fonte sicura che già diversi ergastolani si erano
interessati a me e che la cosa poteva finire molto male se non mi
sbrigavo ad accettare la protezione di qualcuno potente e rispettabile.
Come lo scopino, tanto per fare un nome. Avevo sentito decine di
storie di sopraffazione, prostituzione, violenze, di ragazzi ridotti a
puttane, schiave a tutto servizio o ammazzati o rovinati per sempre,
ridotti a bestie; e le parole del siciliano coi baffetti mi gelarono…
... Capita spesso, soprattutto nei telefilm americani, sentire dalla
bocca di personaggi, in genere poliziotti, la spiegazione di come
funzionano in galera le faccende di sesso, sempre in chiave sadico-
sarcastica. Ma già, che t’aspetti da sceneggiatori che mettono in
bocca ai loro eroi frasi del tipo: “lo voglio vedere friggere sulla sedia
elettrica” oppure “sentirai il nodo scorsoio che ti stringe la gola e
come ti scoppieranno i polmoni”...?
Alla fine decisi di affrontare direttamente la bestia. Uscii nel corridoio
quando aprirono e gli risposi quando mi parlò. Era, come dire...
immondo? Spregevole? Doveva scontare una condanna a trent’anni.
Aveva come curriculum cinque omicidi: uno fuori e quattro dentro:
tutti giovani che non si erano sottomessi.
Lo odiavano in molti, dato che oltretutto era una spia e killer della
direzione. Il maresciallo gli permetteva di trafficare tranquillamente
con alcool e droghe e di portare addosso un coltello a serramanico
che esibiva spesso e volentieri. I suoi servizi di delatore e gorilla
consistevano nel provocare ed aggredire tutti i personaggi ritenuti
“scomodi” e partecipava ai pestaggi nelle celle di punizione. Ogni
tanto, per ricompensarlo e tenerlo buono, gli mettevano un
ragazzetto in cella. Nel suo dialetto pressoché incomprensibile mi
disse che con lui sarei stato bene: cognac, musica, mangiare in
abbondanza, solo tutto il giorno senza nessuno che mi rompesse le
scatole. Aveva già chiesto che mi trasferissero nella sua cella, disse, e
sarebbero venuti a comunicarmelo l’indomani.
Provai a discutere, a spiegargli che non avevo bisogno di nulla né
dell’aiuto di nessuno. Ma era un muro d’ottusità, minacciosamente
stupido. La notte non chiusi occhio pensando a cosa fare. Chiedere un
colloquio con il giudice di sorveglianza? Magari appoggiando la
domandina con qualche taglio o ingoiando chiodi per farmi trasferire
in un ospedale civile. Sequestrare una guardia? Cercare di
ammazzare il porco? Ero sicuro di potercela fare, il miscuglio di odio e
paura mi caricava di adrenalina. Anche se aveva l’astuzia e l’istinto di
un animale da preda, era troppo abituato al ruolo di boia. Però dovevo
trovare un coltello. Nella mia camerata c’era un altro siciliano,
ergastolano, trenta anni già scontati. Un uomo silenzioso e gentile che
ogni tanto mi raccontava episodi e storie della sua Sicilia del
dopoguerra. Gli chiesi se poteva aiutarmi a trovare se non una
molletta almeno un punteruolo.
“Tu non hai idea di quanto può essere pericoloso; il coltello bisogna
saperlo usare e qui c’è gente che col coltello in mano c’è nata; e poi,
anche se riesci a farlo fuori?”
- “Me la sarò cavata, almeno questa volta. E in questo schifo di
mondo ci sarà un maiale di meno”.
“... ed un ergastolano in più. Pensa a salvarti. Passare la vita dietro le
sbarre e morire senza rivedere la libertà è il peggior destino che
possa toccare a un uomo; tu sei ancora giovane, puoi uscirne; ma se
oggi ammazzi uno metti in movimento una catena che ti stritolerà:
quello ha dei fratelli, amici che te la vorranno far pagare e nessuno ti
difenderà; pensaci bene, il mio consiglio è questo”
Il brigadiere, passata la conta, mi comunicò freddamente che potevo
cambiar di cella. Gli sibilai che non ne avevo la minima intenzione.
Fece per andarsene bofonchiando che se ne sbatteva. Mi frapposi fra
lui e la porta. Le guardie rimasero interdette. Con i nervi a fior di pelle
e la voce arrochita gli dissi che di lì mi sarei mosso solo per cambiare
di carcere o per un colloquio con il direttore. Altrimenti ci sarebbe
stato spargimento di sangue e non solo il mio.
Mi lasciarono in pace. In fondo io avevo una famiglia di classe media,
dei compagni, ero uno studente. E successe che precisamente lo
stesso giorno arrivò un ragazzo con una condanna a otto anni per
furto. Glielo dettero. Durante tutto il periodo che ancora mi toccò
trascorrere in quel penale non lo vidi nemmeno una volta in cortile,
nel corridoio o alla tivù. Lo scopino ormai mi ignorava completamente
e la mia prima reazione fu di sollievo. Di cui mi sarei vergognato,
dopo. Con l’amaro in bocca. Senso d’impotenza. Di rabbia, schifo e
paura. E anche lo stupore per quel desiderio nuovo, bruciante, di
uccidere. Poi, con il tempo rimase ... quel ragazzo che a volte
sentivamo piangere ed un odio senza nessuna purezza.
Mi rimandarono al giudiziario. Qui c’erano ancora le celle colle
bocche di lupo, finestre semichiuse dall’esterno in modo che entrino
aria e luce – poche – ma che tu non possa vedere né buttar fuori
nulla.
Ma c’era meno gente, la vita era più tranquilla. Durante le ore di
“apertura” passeggiavi su e giù per i raggi, andavi in visita da quello o
da quell’altro ad accettare un invito a un caffè o li ricambiavi, manco
fossimo stati un branco di vecchie zitelle. Ci mandavano un paio d’ore
in cortile, che era grande abbastanza per tirare qualche calcio a un
pallone, fare il bucato, prendere il sole quando c’era e soprattutto
camminare su e giù.
Sembravamo scemi, decine di uomini a camminare in parallelo, a
coppie, chiacchierando, in silenzio, soli, gli sguardi fissi, qualche
saluto, qualche battuta, ogni tanto sguardi di traverso ed allora la
tensione si sentiva e ci si faceva da parte.
Scoppiava qualche rissa, poche, e sapevi quali erano quelle in cui
potevi intervenire a fare da paciere e quelle invece da cui era meglio
stare alla larga ed aspettare che tutto finisse.
Arrivò un gruppo di romani, trasferiti da San Vittore. Facevano la loro
passeggiatina in gruppo nel corridoio a pianterreno. Era l’ora della
televisione e la gente stava prendendo posto sulle panche. I romani
ad alta voce dicevano “ma guarda che posto di merda, è proprio una
città che fa schifo” e tu ti chiedevi se avevano visto nulla della città
perché nel furgone non ci sono manco i finestrini, solo qualche presa
d’aria. E sulle ultime panche c’erano tre o quattro membri di spicco
della tifoseria locale finiti dentro per una storia di furto e per un po’ se
ne stettero zitti e buoni, ma al terzo giro ed al quarto “ma che schifo
di paesone” si alzò il Dela che era piccoletto ma con braccia da
scimpanzé e che una volta era stato arrestato perché in un tafferuglio
colla polizia, roba sempre da stadio, aveva mollato un cazzotto a un
celerino e gli era rimasto incastrato il pugno nel casco. Si alzò e stese
quello più grosso. L’amico del cuore del Dela, nonché secondo gli
inquirenti suo complice, saltò su e sbatté la panca sulla testa del
romano e si sentì un suono secco e uno che aveva già preso posto in
prima fila si girò e disse “oh coso ‘unnè mica una noce”.
Gli altri romani presero su il loro compagno, la guardia aprì il cancello,
lo portarono in infermeria e non si rividero più in sezione.
Un altro problema era il rumore. Molto probabilmente devo la mia
attuale allergia a flamenco, fado ed altre espressioni canore
dell’angoscia popolare, alle ore di canzoni canzonette straripanti
lamenti e storie di morti ammazzati e cuori infranti e disgrazie d’ogni
genere che per un paio di mesi allietarono l’atmosfera del giudiziario
ad opera di un gruppo di napoletani sistemati nella cella proprio sopra
la mia.
Avevano un nastro che io pregavo gli fosse sequestrato o spaccato
nel corso di una fruga, anche se quando cantavano loro era pure
peggio, e lo mettevano a tutto volume perché le loro storie musicate
di guapperia fossero perfettamente udibili anche fuori le mura. Non
legavamo molto. Per fortuna li trasferirono.
Non si potevano tenere soldi, ma il commercio non mancava dato che
ognuno aveva una specie di conto aperto, alimentato dalle famiglie
ma non troppo perché era bene che non circolasse la voce che uno
era ricco, e con quello si poteva chiedere allo spesino, un detenuto
che passava tutti i giorni con un quaderno dove segnava gli ordini,
dentifricio, sapone, carta igienica, qualcosa da mangiare e un
quartino di vino a testa. E poi c’era un giro di francobolli, sigarette.
Ognuno ammazzava il tempo come poteva. C’era anche chi leggeva.
Non tutto quello che avrebbe voluto, perché i brigadieri ed il
cappellano facevano anche da censori e intercettavano quello che
secondo i loro criptici criteri “non era adatto”. Si ascoltava la radio, si
facevano flessioni. Si fumava.
Tutti trovavano qualcosa da fare. Modellini di navi. Posacenere. Anche
se di gran lunga l’attività preferita erano le partite a carte, che a me
non mi prendevano punto nemmeno come spettatore perché poi
andava sempre a finire che qualcuno barava o sbagliava o
s’incazzava e finiva tutto a sberle.
Il primo invito a partecipare ad una evasione mi arrivò da una
banda di rapinatori in attesa di giudizio. Risposi di no spiegando che
ero certo che la corte d’assise m’avrebbe scagionato e che presto
sarei tornato in libertà. Grazie comunque. Dovettero pensare che ero
scemo.
Il fatto è che non me ne fidavo manco un po’. Una strana società la
loro: un pugliese, poco più che un ragazzino ma la faccia da duro,
sempre taciturno e serio, due toscanacci di san Frediano, un
milanesino figlio di papà. Ubriachi da mattina a sera, non smettevano
mai di vantarsi delle passate gesta. Una sera uno dei due toscani, un
tracagnotto dal naso schiacciato, completamente sfatto, obbligò
compagni di cella e di sezione rastrellati nel corridoio ad assistere alla
ricostruzione, in esclusiva, di una delle loro rapine. Per dare un tocco
di maggiore realismo alla scena si coprì la faccia con un fazzoletto
sporco, quindi spiccò un acrobatico salto al di sopra della tavola che
fungeva da bancone. Forse fu il fazzoletto che gli si era spostato sugli
occhi o i bicchieri di troppo, fatto sta che invece di scavalcare la
tavola/banco ci inciampò, cadde rovinosamente mandando in
frantumi una preziosa bottiglia di vino ancora mezzo piena e,
imbestialito per la risposta del pubblico che si stava sbellicando dalle
risate, ingaggiò un furioso pugilato con uno dei suoi coimputati che lo
esortava a piantarla di fare il buffone.
Questo ed altri episodi del genere ne facevano insomma dei ragazzi
con cui potevi scambiare quattro chiacchiere e bere un goccio, ma
non certo dei complici ideali per una cosa come un’evasione. Che è
seria e rischiosa.
Ci restarono un po’ male e insistettero, perché secondo loro quelli là
del Tribunale la parola assoluzione da tempo l’avevano cancellata dai
loro vocabolari. Non mi convinsero e dettero subito il via al piano. Che
non ebbe una esecuzione brillante. Semplice sì che lo era: si trattava
di aprire un buco nel muro, giusto sotto una branda della loro cella e,
approfittando il cambio della guardia verso mezzanotte, uscire e
scalare il muro di cinta. Io e gli altri, in pratica tutti quelli del braccio,
per due giorni facemmo del nostro meglio per distrarre l’attenzione di
guardie, scopini e per sviare la curiosità dei tre o quattro potenziali
infami. Chi aveva la radio l’attaccava a tutto volume, altri
organizzavano veri e propri recital di musica folk con danze
comprese. Particolare successo riscossero le sfrenate tarantelle di un
paio di magnaccia napoletani. Ma era tutta fatica e tempo sprecato: la
cella degli aspiranti evasi sembrava un cantiere. I tonfi si dovevano
sentire fin dalla strada, dalla porta uscivano ogni tanto sbuffi di
polvere. E loro, nonostante i consigli di prudenza, erano sbronzi da
mattina a sera.
Il primo giorno si comportarono in modo più o meno normale. Misero
due a fare il palo mentre gli altri due lavoravano, ma poi già di notte
lasciarono perdere le cautele e cominciarono a sfondare utilizzando
come attrezzi pezzi sempre più grossi delle brande.
Il secondo giorno, era già buio, uscirono tutti e quattro a prendere il
fresco nel corridoio: uno con i vestiti stracciati e impolverati, uno con
una mano sanguinante e fasciata alla peggio, tutti con i capelli e le
facce infarinate di gesso. Insomma fu precisamente la guardia più
rincoglionita e menefreghista, di servizio quella notte, che uscì alla
chetichella dalla sezione ed andò a dare l’allarme. Non fu bello. Dai
finestroni del raggio vedemmo una fila di uomini in divisa appostarsi
lungo il muro di cinta e puntare contro di noi i mitra e i riflettori. Con
gli altoparlanti ci intimarono di star buoni e di rientrare nelle nostre
celle. Ci riunimmo nel corridoio in basso, la cinquantina di detenuti,
meno un paio che preferirono rinchiudersi in cella. Non c’era nessun
secondino e discutemmo per un po’ sul da farsi. Quelli che avevano
esperienza in rivolte ed evasioni dissero che dovevamo rifiutarci di
rientrare finché il maresciallo o il direttore non avesse dato delle
garanzie, almeno per quanto riguardava pestaggi e trasferimenti.
Altre rappresaglie erano inevitabili, legali e amministrative. Questo lo
sapevamo tutti: meno colloqui, meno ore di aria, meno televisione...
Insomma meno di tutto quello che può rendere un tantino più
sopportabile la galera.
Gli altoparlanti da fuori sputavano ormai ultimatum, cosicché
facemmo entrare i quattro, ancor più bianchi (meno il pugliese,
silenzioso e freddo come sempre) in una cella in cui si sarebbero
potuti barricare con facilità se al loro arrivo le guardie si fossero
mostrate troppo violente.
E la squadretta arrivò, armata di scudi, caschi, manganelli, catene e
capitaneggiata da un brigadiere ed un appuntato dei più rognosi, con
ghigni da maiali soddisfatti. Erano una ventina e non ci dettero il
tempo di reagire. Sciolsero la barriera umana che con scarsa perizia
avevamo formato, liquidando i nostri tentativi di parlamentare a
botte, urlacci e spintoni. Ci fecero entrare tutti alla rinfusa nelle prime
celle che trovarono aperte. Poi si concentrarono davanti al camerone
da cui provenivano rumori di barricamento.
Era una cella con la doppia porta: quella di legno col chiavistello dava
sul corridoio e poi c’era un cancello che si apriva verso l’interno e che
era più facile da bloccare. I quattro ragazzi ci stavano ammucchiando
contro le brande, gli stipetti, il tavolo, tutto quello che trovavano.
Il brigadiere con un paio d’agenti andò prima a verificare che nella
cella del buco non ci fosse rimasto nessuno e poi si piazzò davanti a
quella dei rapinatori. Le trattative non andarono troppo per le lunghe.
Il capo squadra si limitò a dire che se fossero usciti subito e con le
buone avrebbero portato alle celle di castigo solo loro quattro,
altrimenti sarebbero entrati con le cattive, portato loro alle celle e
messo tutti in isolamento.
Mario, che evidentemente era stato scelto come portavoce, rispose
che gli altri non c’entravano e che loro tutto quello che chiedevano
era di parlare con il direttore e di rimanere, magari anche chiusi, ma
in sezione. Aggiunse che se fossero entrati con la forza due di loro
erano pronti a tagliarsi.
Errore. La prospettiva di un po’ di sangue caldo non intimorisce una
squadretta di agenti ben predisposti allo scontro. Anzi. E infatti si
affrettarono a trascinare lungo il corridoio lo sbarricatore, un attrezzo
che ricorda una macchina da guerra romana, specie di grossa leva
che permette di togliere di mezzo, da una prudente distanza, le
brande e gli altri ostacoli addossati alle inferriate.
Non ci misero molto. Appena videro che non c’era più nulla da fare i
quattro uscirono con le mani alzate a coprirsi la testa. Non avevano
chiuso gli spioncini delle nostre celle ed era la prima volta che
assistevo ad un pestaggio. Ci mettemmo ad urlare ed a battere le
sbarre ma credo che l’unico effetto fosse di eccitare ancor di più gli
agenti scatenati. Poi qualcuno passò a chiudere tutte le finestrelle e
per un po’ si udirono solo i colpi sordi delle manganellate, le
imprecazioni, le grida, gli insulti dei picchiatori e poi i corpi che
ruzzolavano giù per le scale. Lamenti.
Quando arrivò il silenzio da fuori continuammo per un po’ a sgolarci.
Porci, assassini, la pagherete. Calci contro le porte. Le gamelle di
metallo sbattute contro le sbarre. Ogni tanto passava una delle
guardie “buone” a dire di star calmi, che era tutto finito, che non
succedeva niente di grave. Poi un po’ alla volta si rifece il silenzio e
cominciarono i richiami da porta a porta, da finestra a finestra. Voci
che chiedevano chi era stato portato giù assieme ai rapinatori, che
dicevano i nomi delle guardie riconosciute nella squadretta, che
suggerivano uno sciopero della fame.
E io pensavo alle scale che portavano giù al sotterraneo e che la
prima volta mi avevano colpito con le loro pareti completamente
annerite da segni strani... Manganellate andate a vuoto, pestaggio
dopo pestaggio, anno dopo anno. Ogni due o tre gradini si mette una
guardia e la vittima deve passare fra muro e manganello. Se cade, e
quasi sempre cade, il divertimento è doppio: le lesioni sono ancora
più dolorose e la si può prendere con tutta comodità a calci, pestarle
le mani o schiacciarle i coglioni.
Ci sono, o meglio c’erano, dicono, tribù dell’America del nord (quelle
delle praterie, non quelle urbane) che sottoponevano guerrieri amici e
nemici a una prova di questo genere. Con la differenza che, se il
guerriero era capace di resistere alla gragnola di legnate che gli
piovevano addosso e di arrivare alla fine del corridoio formato dai suoi
aguzzini, non solo era a salvo ma gli erano pure tributati onori. Ma
quelli erano selvaggi. Nel nostro mondo civile invece l’unica speranza
per l’involontario protagonista della cerimonia è che gli officianti si
stanchino il prima possibile.
Era la seconda volta che partecipavo a una protesta collettiva.
Alla prima avevo assistito e partecipato pochi giorni dopo il mio arrivo
in sezione. Una notte ci svegliarono di soprassalto urla molto vicine.
Non esattamente urla, piuttosto una sorta di gemito prolungato,
violento, ripetuto e che terminava in lunghi rantoli. E subito colpi
disperati contro una porta. Saltammo tutti in piedi cercando di capire
cosa succedeva, alla luce della lampada del corridoio. Rumori e grida
provenivano dalla stanza dei tossici, la guardia del turno di notte, uno
dei più giovani, arrivò di corsa e da dentro gli dissero di andare subito
a chiamare il medico perché uno dei ragazzi era in piena crisi
d’astinenza e non ce la facevano a controllarne gli spasimi e le
convulsioni. Quello schizzò via a chiamare il brigadiere che poco dopo
arrivò assicurando che il dottore era già stato avvisato e che sarebbe
arrivato a momenti. Senza aprire la porta dette un’occhiata dentro e
se ne andò. Passò un’ora. Ogni tanto il più giovane della cella
s’affacciava e piangendo e bestemmiando chiedeva quando arrivava
quel cazzo di medico, che il suo amico stava morendo, che non ce la
facevano più a tenerlo, che si stava soffocando e che dappertutto era
pieno di vomito e merda. Qualcuno preparò un tè, qualcun altro tirò
fuori la scorta di valium ed analgesici, la guardia andava su e giù a
portare ora una cosa ora l’altra e non sapeva che altro fare a parte
correre ogni due minuti al cancello della sezione per vedere se si
facevano vivi.
Ed alla fine, attorniato da un nugolo di sbirri, fece la sua trionfale
comparsa l’ammazza sani del carcere. Gli aprirono la porta e,
scortato, lui entrò. Non rimase dentro nemmeno due minuti e uscì
gesticolando, infuriato. Era un omone con pochi capelli grigi e faccia
da pazzo. Gridava “una crisi d’astinenza? E allora? Quello che cercano
questi farabutti è la loro dose e mi fan tirar giù dal letto a quest’ora.
Bastardi, che crepino!”. Non è che il suo comportamento stupisse
nessuno. Era il prototipo del dottore di una galera, quasi una
macchietta da quanto somigliava al cliché del medicastro
incompetente, mezzo lavativo e mezzo sadico, corroso di cinismo fino
al midollo. Il suo personale vangelo diceva che il detenuto è sempre e
comunque un simulatore e che è preferibile che ne crepino dieci
malati davvero che concedere quello che vuole a uno sano che finge
per ottenere un trasferimento, un ricovero o una dose di qualcosa.
Prescriveva sempre le stesse pastiglie, sia che avesse a che fare con
dolori di testa o di stomaco, o con vomiti, vertigini o difficoltà
respiratorie. E Valium per tutto il resto, dall’epilessia all’insonnia. I
compagni del tossico con la scimmia tentarono di sfondare la porta.
La guardia di servizio sembrava un arcobaleno. In ogni cella si
aprirono le finestre e la gente si aggrappò alle inferriate battendole
freneticamente con tutto quello che trovava di più chiassoso, urlando
verso la città che un compagno stava morendo, che lo stavano
ammazzando. Buttammo fogli di giornale accesi nel corridoio. Poi,
un’eternità dopo, il ragazzo superò la crisi. E quella volta non ci
furono rappresaglie.
Il dopo tentativo di evasione fu triste. Si possono subire castighi ed
angherie con un’alzata di spalle. Si possono accettare con indifferenza
le privazioni, i divieti che restringono ancor di più i tuoi già ristretti
spazi di vita, se nelle parole e nei gesti dei “superiori” si leggono la
rabbia, la frustrazione ed a volte la paura dopo una piccola o grande
vittoria di uno o molti di noi: una rivolta, una fuga, una protesta
riuscite. Ma l’umiliazione pesa quando sulle loro facce leggi solo la
volontà di schiacciarti, di farti chinare la testa, di farti ammettere la
loro “superiorità”. Non per nulla volevano che i secondini fossero
chiamati così. Superiori.
Al mattino arrivarono più numerosi del solito a sbattere le sbarre e a
fare la conta. In silenzio, interrotto solo dagli ordini secchi del
brigadiere, si divisero in due squadre e cominciarono le perquisizioni.
Ci fecero alzare ed uscire in corridoio, in mutande, scalzi. Tutti in piedi
per un paio d’ore davanti alle celle da cui uscivano i rumori
inconfondibili della fruga. Gli stipetti di metallo svuotati. Le brande
rigirate. I tavolini o le sedie rovesciati per terra. Buttarono tutto
all’aria. Alla fine, l’intero raggio passato al setaccio, nelle mani del
brigadiere rimase il bottino: delle lettere, qualche manico di cucchiaio
affilato, dei chiodi, un paio di biglietti da mille lire. Rientrammo e
cominciammo, taciturni, imprecando o piangenti a raddrizzare stipetti
e tavoli ed a raccattare da terra i vestiti, le lenzuola, le coperte.
Spazzammo via la pasta, lo zucchero, la roba da mangiare che
avevano calpestato. Raccogliemmo le navi fabbricate con infinita
pazienza con migliaia di fiammiferi. Incollati uno a uno. Risparmiando
la colla perché costava e ci voleva la domandina. Avevano anche
staccato e stracciato poster e disegni. E le foto. Sedetti sulla branda,
accanto al mucchietto delle mie cose raccolte qua e là. La radio
l’avevano scaraventata in un angolo, uno dei compagni di cella
cominciò ad armeggiarci cercando di aggiustarla. Non ci avevano
portato il surrogato di caffè del mattino e si avvicinava l’ora dell’aria
senza che nessuno si facesse vivo.
Il compagno guardava e rigirava la sua radiolina ripetendo “porci,
porci, porci”. Mi innervosiva.
La gente parlava da una cella all’altra, nelle camerate. I più esperti
sapevano che non era finita, che avrebbero continuato a provocarci.
Non perdevano mai l’occasione di dare giri di vite. Di dimostrare
quanto labili fossero e come dipendessero dal loro ben volere le
piccole eccezioni al rigido regolamento carcerario. Di ricordare in
mano di chi era, il manico del coltello.
Non arrivò l’ora dell’aria. Al suo posto scortarono tutti quelli della
sezione, uno dopo l’altro, nell’ufficio del direttore. Una sfilata che durò
due giorni. Non chiedeva molto sua Eccellenza, solo che qualcuno gli
raccontasse, semplice prova di buona volontà, dato che sapevano già
tutto quello che c’era da sapere sul tentativo di fuga, chi era al
corrente del piano ed i nomi degli eventuali aspiranti compagni
d’evasione dei quattro; e che quelli che non sapevano proprio niente
dimostrassero almeno disinteresse se non compiacimento, per la
“sventata fuga” e per la sorte dei colpevoli che “dopotutto se la
sarebbero svignata fregandosene di voialtri, ben sapendo che dopo
ogni evasione il regolamento viene applicato in modo implacabile, i
trasferimenti abbondano ed i colloqui scarseggiano”.
Anch’io ebbi la mia dose:
“e lei che è una persona così diversa da questa feccia non aveva
intuito proprio nulla?... Ma cosa le importa di come stanno? Piuttosto
dovrebbe pensare ad evitare ogni contatto con questa gente, anzi
accetti pure un consiglio, stia sempre sul chi vive che ce ne sono
capaci di tutto... Sciopero della fame? ... Per solidarietà? No dico, ma
sei impazzito? Ma vuoi che io ti rovini del tutto? Ma lo sai che io ti
posso fare schiaffare in Sicilia? Là ci pensano loro a conciarti per le
feste. Qui comando io hai capito? E se mi rompete il cazzo vi taglio i
colloqui e vi tolgo i libri e i giornali e pure le lettere!... E non mi
rispondere che io ti sbatto alle celle, ti faccio pentire di essere nato!
Ho più di cento denunce di detenuti io, ho fatto piangere guappi che
erano il terrore di Porto Azzurro, dell’Ucciardone, di Poggio Reale”.
Comunque andò meglio del previsto. Non ci furono pestaggi né
trasferimenti all’Ucciardone. Qualche spinta, qualche schiaffo,
minacce. Ma niente sangue. Nessuno parlò e per punizione ci
lasciarono un paio di settimane chiusi senza aria né televisione. Ma
alla fine anche i rapinatori, un po’ malconci e demoralizzati vennero
riportati su. Li aspettava il processo e si prepararono a modo loro.
Carlino, quello del salto quasi mortale non faceva altro che ripetere a
destra e a manca che la libertà per lui era questione di giorni e che
giudici, testimoni e poliziotti al massimo gli avrebbero potuto fare una
sega. La mattina del giorno del processo li trovò sbarbati, profumati,
elegantissimi nei loro vestiti da colloquio straordinario e su di giri per i
bicchierozzi già ingurgitati. Uscirono, fra gli incoraggiamenti della
popolazione del raggio, con incedere trionfale. Tornarono a
mezzogiorno mogi come cani bastonati. Soprattutto Mario, il capo.
Che, alle domande dei vicini di cella su come era andata alzò a V le
due dita della mano della destra... “no, ma che vittoria! Due! Come
due che? Due anni, cazzo! Là mica danno le noccioline!!”. Ci fu
spiegato poi che, durante la deposizione del poliziotto che li aveva
arrestati s’era alzato dicendo (secondo lui educatamente) “oh
maresciallo, ma che dà i numeri?”.
Il giudice gli aveva intimato di tacere, aveva sospeso il processo e
chiamato la giuria in camera di consiglio. Dopo un po’ erano riusciti
con i due anni. “Oltraggio a pubblico ufficiale” e aggravanti varie. Poi
dicono che le parole non pesano. Il Carlino continuava a sostenere
imperterrito che comunque a lui al massimo potevano fargli una sega.
Il giorno della sentenza partirono cantando. Non il pugliese che
doveva maledire in silenzio il giorno in cui aveva conosciuto quella
gente. Durante tutto il processo si era limitato a rispondere con dei no
o dei semplici gesti di diniego con la testa a tutte le domande,
seguendo le diverse fasi del dibattimento come se stessero parlando
di qualcun altro.
Il ritorno fu chiassoso anche se non allegro. Tre scopini salirono su a
preparare la roba del pugliese, c’era già la scorta per il trasferimento
verso chissà dove ad aspettarlo e lo avevano lasciato in portineria,
con gli schiavettoni ai polsi. Gli portarono il fagotto, i carabinieri lo
spinsero nel furgone ed una noia di meno. Qualche mese dopo mi
dissero che l’avevano visto a San Vittore, irriconoscibile. Avevano
cercato di violentarlo in tre e lui li aveva spediti all’infermeria, uno
grave, a coltellate. Ma poi gli amici, i picciotti, i gregari lo presero
disarmato e lo pestarono fino a lasciarlo in coma e sfigurato.
Gli altri li mandarono in cella a meditare sulla sentenza: una ventina
d’anni a testa, cinque in più della stessa richiesta del Pubblico
Ministero. Non avevano avuto fortuna con il presidente del tribunale,
una celebre carogna che, a seconda degli stati d’animo, accettava la
richiesta del pubblico ministero o l’aumentava secondo
personalissimi criteri. Gli era perfino accaduto di infliggere condanne
ben oltre i massimi di legge.
Chiusi, i due più giovani si accasciarono sulle brande, uno con la testa
fra le mani e l’altro in lacrime, mentre il capo banda camminava su e
giù come un animale in gabbia. Poi si bloccò e prese a frugare
febbrilmente nel suo materasso. Ne tirò fuori un pezzo di lametta, si
avvicinò alla porta e si fece un taglio un po’ più su del polso. Gli altri
seguirono l’operazione con sguardo assente.
In seguito avrebbe sostenuto di averlo fatto per obbligare il direttore
a dare l’ordine di ricoverarlo in ospedale, da dove lui sperava di poter
fuggire con relativa facilità. Secondo la versione degli altri invece era
ubriaco e non sapeva che cazzo stava facendo. Comunque fosse la
vena se la tagliò sul serio.
“Oddio ragazzi fate qualcosa madonna mia quanto sangue oddio
aiutatemi che muoio ma ‘un lo vedete che moio!” e giù a urlare. I suoi
coimputati impietosamente lo mandarono a farsi fottere lui e le sue
puttanissime idee che li avevano messi in quel casino e ora che cazzo
voleva con le sue scene madri, ammazzati sul serio una volta per
tutte e smettila di rompere i coglioni a noi che di pensieri ne abbiamo
già troppi. Alla fine le guardie dettero un’occhiata dentro e visto che
di sangue ce n’era parecchio lo trasportarono in infermeria, bianco
come un cencio e stringendosi il braccio con un fazzoletto. Il
maresciallo non ci pensò nemmeno a chiamare una scorta e a farlo
portare al pronto soccorso e lo ricucì alla bell’e meglio senza neppure
aspettare l’arrivo del medico. Dopo pochi giorni li trasferirono. In
appello a Firenze gli dimezzarono la condanna.
In carcere le storie di evasioni, fughe, latitanza attirano sempre
l’attenzione del pubblico. Sono in molti quelli che ci hanno almeno
provato. La “libbertà” lì dentro è un concetto tangibile, semplice, vuol
dire riuscire a passare dall’altra parte del muro senza manette ai polsi
e poliziotti al fianco.
“Ce la feci a saltare ma mi slogai la caviglia, mi ripresero dopo
appena mezz’ora ma fu una mezz’ora di libertà e ne valeva la pena”
L’evasione, l’atto cioè di sottrarsi all’esecuzione della pena, è
considerato in se reato lieve. Stranezza forse retaggio di diritti antichi
per cui la fuga dalla prigionia era una forma di difesa legittima. Le
condanne in genere oscillano da qualche mese a pochi anni.
Una mitezza che non ha riscontro nella reazione contro chi ha osato e
fallito o che è stato ripreso: pestaggi, isolamento, trasferimenti,
sezioni speciali e soprusi, angherie, sopraffazioni, provocazioni.
Quando lo conobbi doveva avere un 24-25 anni. Era simpatizzante di
LC, come molti altri coatti reclutati in carcere da organizzazioni che li
trattavano come soggetti politici e gli ridavano una certa dignità. Al di
là delle mura di cinta, sulle piazze, in fabbriche, università e quartieri,
si attaccava il sistema, si lottava contro la legalità borghese. Era un
buon punto di incontro.
Lui era già scappato due volte. La prima lo avevano ripreso ad un
posto di blocco un anno più tardi, la seconda lo avvistarono mentre
scalava il muro di cinta e gli spararono ferendolo a una gamba. Però
ce la fece a depistarli e si nascose in un capannone abbandonato. Ci
rimase tre giorni, senza mangiare e con la ferita che gli si era
infettata. Una donna lo trovò che stava delirando e chiamò la polizia.
Nell’infermeria, ancora convalescente, sputò in faccia ad una guardia
che lo sfotteva, lo trascinarono pestandolo meticolosamente fino alle
celle dove lo rinchiusero, ma fece ancora in tempo ad afferrare
attraverso lo spioncino il braccio di un appuntato e a slogarglielo.
Allora lo mandarono al manicomio criminale, con diritto al
trattamento completo. Malconcio com’era lo picchiarono ben bene,
con metodo, accanendosi particolarmente sulla ferita alla gamba, sul
fegato, sullo stomaco. Gli avvolsero una coperta intorno al capo e lo
colpirono a lungo né troppo piano, né troppo forte. Lo raparono a
zero, gli infilarono a forza un’uniforme marrone, ruvida, di sacco e lo
accompagnarono a calci in cella. Una scorta lo seguiva ad ogni
spostamento: da una cella all’altra, dal dottore, all’aria ed uno degli
agenti, sempre lo stesso, ogni tanto gli rifilava un calcio, così, tanto
per ridere. Finché un giorno lui si girò e gli sferrò un diretto sul naso.
Era un ragazzo robusto. Mentre la guardia andava all’ospedale col
setto nasale rotto lui finì alla sezione speciale, quella dei letti di
contenzione.
Lì ti spogliano nudo e ti legano con cinghie di cuoio. Ai polsi, alle
caviglie ed alla gola, in modo che tu non possa neppure alzare la
testa. 24 ore al giorno. A volte per settimane. In certi casi mesi. Una
coperta buttata sopra. Feci e orina attraverso un buco nel mezzo del
lettino. Gli scopini, accurata selezione di personaggi abietti e
ripugnanti, ti ripuliscono ogni tanto con la scopa o lo straccio da dare
in terra. Sempre loro si incaricano anche di alimentarti. Ti infilano in
bocca una brodaglia, fredda o bollente e la ingozzi o ti strozzi.
Un po’ di tempo dopo andò a trovarlo lo psichiatra. Cercò di mostrarsi
calmo e sereno rispondendo alla serie di domande con un
atteggiamento arrendevole e paziente; parlò della fragilità dei propri
nervi ma anche delle vessazioni di cui era stato oggetto; chiese anche
come stava l’agente colpito. Ma, per favore, che lo slegassero, che
non ne poteva più di quel tormento, che il dolore dei crampi lo stava
facendo impazzire. Lo psichiatra sembrava comprensivo e prendeva
appunti. Continuarono a discorrere un pezzetto ed alla fine, alzandosi,
gli garantì che sarebbe stato trasferito il giorno dopo in un’altra
sezione. “Ma nel tuo fascicolo dovrò segnalarti come elemento
socialmente pericoloso” aggiunse.
“Pericoloso socialmente? Perché? Se fuori di qui non ho mai torto un
capello a nessuno!”.
“Si ma capisci qui anche un santo diventerebbe una belva sanguinaria
quindi io la pericolosità sociale la metto a tutti”
“Ma è assurdo, così ci condannate all’emarginazione per sempre”
“E cosa vuoi che ci faccia io, la realtà è questa, le cose stanno così”.
Allora cominciò a dibattersi, urlando che erano tutti porci bastardi
assassini. Urlò chiedendo aiuto e allora arrivò un infermiere che con
una siringa lo spedì in un mondo d’incubi preceduto da una
sensazione angosciosa di soffocamento. Non sapeva dire quanto
tempo durò la “cura”. Ricordava solo un lento colar via di urla,
imprecazioni, di sogni sullo sfondo del soffitto bianco, le crepe, le
mosche, le macchie di umidità. Quando gli tolsero i legacci non si
reggeva quasi in piedi e barcollava travolto da vertigini, nausea e
capogiri.
Lo avevano slegato perché il giudice aveva concesso un colloquio a
sua moglie che era andato a trovarlo con il bambino, un viaggio
massacrante dopo la kafkiana trafila per ottenere il permesso. Per
l’occasione lo agghindarono con una camicia di tela due taglie più
grandi della sua ed un paio di pantaloni di colore indefinibile, sformati
e che gli lasciavano allo scoperto un bel po’ di caviglie e gli misero il
cinturone. Che è appunto una cintura di cuoio con ai lati due cinghie,
pure di cuoio, con cui si immobilizzano i polsi. È più elegante delle
catene, della palla al piede e della camicia di forza e se i pantaloni
hanno le tasche puoi perfino atteggiarti a disinvolto con le mani
infilate dentro.
Entrò nella sala e vide sua moglie dall’altra parte del vetro con il
piccolo in braccio; la donna lanciò un’occhiata compassionevole verso
quell’infelice che entrava nel parlatorio e riprese a coccolare il
bambino. Lui le si avvicinò esitante. Le si sedette di fronte e davanti
ai suoi occhi sbarrati la pregò di non spaventarsi, di stare calma che
non era successo nulla. La ragazza, livida, per un po’ non riuscì a
spiccicare parola e poi esplose e cominciò a gridare che l’avrebbero
pagata, il bimbo impaurito piangeva e lui con le mani in tasca, dritto
davanti al banco, dondolando da un piede all’altro e senza sapere a
che santo votarsi. Il colloquio finì lì. Lei sconvolta corse via e nel
corridoio per un po’ risuonarono i berci del bambino ed i suoi che
esigevano la presenza del direttore, del giudice di sorveglianza, di
quelle canaglie dei ministri, della vergine Maria.
Quando lo conobbi era un compagno dal fisico ancora forte e dal carattere
indomabile, anche se ormai si stancava molto anche solo a parlare e per
dormire non poteva fare a meno, la sera, delle due compresse di Valium 10 che
gli infermieri gli fornivano senza lesinare. Ne aveva ancora per quattro o cinque
anni. Non so più il suo nome ma rivedo quelle ore, quelle giornate seduti o a
camminare su e giù, a turno, nella cella.
Eravamo a Reggio Emilia, nel manicomio giudiziario dove mi avevano
mandato a fare la perizia psichiatrica richiesta dal Pubblico Ministero
nella speranza di trovare qualcosa a sostegno delle sue accuse e le
prime notti nel buio sentivo le urla di uno che ripeteva senza sosta
“voglio morire, voglio morire”. Ogni tanto qualcuno urlava di rimando
“e ammazzati”. Al che la voce replicava rapida “col cazzo”, prima di
riattaccare con i “voglio morire”.
Parlavamo molto, di cose di cui dopo non ho mai più parlato. Come
della libertà, bene troppo prezioso per aspettarsi che nessuno te la
regali. Bene che va conquistato. E di conquistarla si trattava.
Qualche tempo dopo si presentò un’altra opportunità. Era un piano
“sporco”, con cattura di ostaggi fra i familiari in visita, durante l’ora di
colloquio. Lo stavano preparando dei fasci che avevano buoni contatti
che gli avrebbero passato delle pistole. Dissi di sì. Perché mai avrei
fatto la spia, neppure per denunciare un fascio. Ma non avrei neppure
permesso che mettessero in pericolo povera gente che non c’entrava
per nulla. Ma non ci fu bisogno di atti d’eroismo. Un giudice, diciamo
che simpatizzante del loro movimento, convocò in un ufficio del
carcere i manovali destrorsi e li avvisò che il piano era andato a
monte e che se ne stessero zitti e buoni e che si fidassero di chi fuori
lavorava per loro. Altrimenti.
Se ne stettero zitti e buoni ma non perché si fidassero molto dei
camerati di fuori, piuttosto per l’altrimenti...
In carcere non smisi di “fare politica” con i criminali, i ladri, i
terroristi, gli autonomi, gli anarchici. Ed anche i secondini, i neri, i
mafiosi. Ribelli, molti. Arrabbiati altri. Che non hanno avuto paura a
dire di no anche da soli. Certo, fra i comuni pochi erano i rivoluzionari
da partito. Anche se ce n’erano.
E si creavano organizzazioni o, come si diceva all’epoca, momenti di
aggregazione. Gruppi, circoli, cellule e comitati, collettivi, gruppi di
studio.
Nel giudiziario ci riunivamo in sette: uno più o meno anarchico, due
più o meno di lotta continua, uno più o meno autonomo, e gli altri più
o meno fra trotzkisti ed ellemme Non si dava molta importanza alle
sigle, lì, la maggior parte si era politicizzata dentro ed era incapace di
cogliere le sottigliezze che frammentavano il mondo delle
organizzazioni rivoluzionarie ed antagoniste.
E qui ci andrebbe un inciso perché c’era una cosa allora molto forte e
diffusa ed era proprio questo rendersi conto di essere classe, o
almeno alleati di classe, di gente da sempre vissuta ai margini della
società e che si impegnava sul serio e molti sarebbero stati utilizzati
per fare quello che sapevano fare cioè rubare, falsificare, rapinare,
sparare non più per il proprio tornaconto ma per una causa e ci
credevano e scoprivano una nuova dignità e ammazzavano e si
facevano ammazzare per idee, per principi.
E dentro non c’erano quelle divisioni che poi avrebbero introdotto i
signorini intellettuali dell’autonomia creativa fra politici e comuni e le
stesse brigate rosse nei comitati di lotta stavano insieme a
delinquenti di ogni risma purché non fossero mafiosi o stupratori
oppure ovviamente fascisti. Ma questo è un’altra delle cose difficili da
spiegare in un mondo che sa leggere ormai solo con le lenti di
categorie prefabbricate, fisse, immobili.
Insomma era politicamente indefinibile quel nostro pomposamente
chiamato collettivo. Nessuno era dentro per motivi politici. Nelle
riunioni intorno ad un caffè discutevamo di carcere, della sua natura,
del modo di vincerlo. Niente di che. Era solo un gruppo fra i tanti,
senza nessuna pretesa d’avanguardia, né di agit prop. Però la
semplice consuetudine di trovarsi, di parlare faceva “gruppo” e ogni
volta che ci trovavamo in una cella o nell’altra il secondino dalle
orecchie più lunghe si appostava accanto alla porta o entrava con un
pretesto qualsiasi.
Alcuni dei detenuti più giovani ci avvicinavano, un po’ per curiosità ed
inquietudine, un po’ per avere compagnia, e un po’ per trovare una
difesa da aggressioni e sopraffazioni da parte di clan o guappi vari.
E successe che, divenuti interlocutori organizzati, confrontandoci,
dialogando, discutendo, minacciando o non cedendo a minacce,
successe che il clima in quel pezzetto di inferno carcerario divenne
meno pesante.
Certo non c’era la presenza massiccia di mafie e fascisti.
C’era un sardo di 19 anni, mingherlino, semianalfabeta, arrivato da
poco con un’accusa di resistenza a pubblico ufficiale e di lesione
aggravate e la testa gonfia come un popone policromo... blu, nero,
rosso, viola. In poche ore lo avevano pestato prima i caramba per
strada, poi la polizia in questura e, dulcis in fundo, la squadretta del
brigadiere gli aveva riservato un piccolo ricevimento nel corridoio
all’uscita della matricola.
Venne da noi un pomeriggio piagnucolando che il suo compagno di
cella aveva minacciato di sfregiarlo se non si faceva inculare.
L’anarchico del gruppo, baraccato romano, andò a parlare con il tipo
che aveva poco più di venti anni, ladruncolo che si scusò: il vino, la
solitudine. La tristezza. Capisci, uno diventa un animale, incapace di
controllare gli impulsi.
Il nostro gruppetto cresceva, i nuovi arrivati, ancora sotto il trauma
dell’arresto, venivano subito non appena scoprivano che c’era uno
spazio di gente normale. La cella più grande dove dormivano 4
compagni era il posto di ritrovo. Si prendeva un caffè, un goccio di
vino, un infuso. C’era sempre qualcuno che filava una sigaretta,
giornalini o un boccone di qualcosa. Si ascoltava musica, si parlava
dei nostri problemi, scaricando angosce, dei nostri sogni. Delle paure
e delle illusioni. Accovacciati per terra, sulle brande, seduti sulle
panche fra quelle quattro pareti tappezzate di ritagli di giornali, di
foto e di disegni appiccicati con gomma da masticare e strappati
regolarmente dalle guardie, ci eravamo ritagliati una dimensione
nostra.
Non durò molto.
Uno passò in tribunale dove lo condannarono a sette anni per furto. Il
direttore, il prete, il giudice di sorveglianza gli avevano garantito più
volte che, se l’avessero condannato, non sarebbe stato comunque
trasferito, dato che in città viveva sua madre, unica parente, malata
per giunta e povera in canna. Raccontò poi l’aiutante cuoco (il più
sciatto e zozzo dei detenuti, dato che per gli incarichi in cucina ed
infermeria una spiccata attitudine al luridume sembra che sia
requisito indispensabile), che passava di lì, che avevano telefonato
dal tribunale e che quando il compagno era arrivato, schiavettoni ai
polsi, c’era già pronta una seconda scorta di carabinieri ad aspettarlo
in matricola.
Firmò senza fiatare, sapendo cosa ci avrebbe guadagnato ad aprire la
bocca, di soldi non ne aveva, le sue cose, dissero, gliele avrebbero
spedite; lo caricarono sull’Alfa Romeo e via di corsa verso il sud.
All’Ucciardone lo mandarono.
Non ne seppi più nulla. Era stato operaio, meridionale, compagno un
po’ ingenuo, come molti allora. Era stato nel PCI per, come diceva,
motivi tattici. Per, criticando da dentro, cercare di salvare quello che
sempre credi che resti di rivoluzionario.
Ma il più grande partito d’occidente aveva troppi anticorpi per
risultare minimamente scalfito dall’azione di virus o batteri come il
nostro ex compagno di base.
Eravamo stati in molti del resto a cadere in questo errore. A credere
che una istituzione possa essere modificata con volontà, buon senso,
lavoro tenace. Che il partito fosse davvero uno strumento al servizio
di un interesse superiore e non un ente dotato di una logica, forza,
istinto di sopravvivenza tutti suoi… Un po’ come Harry, il computer di
2001 Odissea nello spazio.
In quegli anni il PCI stava sostenendo la sua ultima battaglia vittoriosa
impegnandosi a fondo per sconfiggere in nome della legalità
democratica e costituzionale il movimento degli anni settanta, cioè gli
autonomi, i gruppi armati, l’insurrezione che scaturiva qua e là. Il PCI,
partito d’ordine, spezzò le reni alle frange estremiste... di sinistra.
Non ebbe lo stesso successo, ovvio, nei confronti dell’eversione nera,
dei protagonisti della stagione delle stragi di stato a tutt’oggi
impunite, degli ideatori e componenti della rete Gladio.
Centralismo democratico era la formula dell’organizzazione. Potevi
dire, senza esagerare, quello che volevi e poi fare quello che ti
dicevano di fare. E ad assicurare il centralismo c’era la casta dei
funzionari. Giacca e cravatta o maglioni a collo alto per le visite in
fabbrica. Oscuri sacerdoti della ristrutturazione, del controllo, capaci
di trasformare scelte di bassa politica in dogmi sacri ed inviolabili ed
una cosca di professionisti dell’intrallazzo, di manager e di tecnocrati
in un olimpo di compagni pressoché infallibili; capaci di tessere
ragnatele di controllo su scuole, fabbriche, quartieri.
Il modello Orwell, o meglio modello “Fattoria degli animali” è il grande
contributo del Pici alla cultura politica generale di un’italietta che non
si è mai scrollata di dosso la nostalgia della mano dura e del grande
capo.
In quegli anni sezioni e federazioni erano anche centri di informazioni,
raccolta ed elaborazione di dati utili alla “lotta al terrorismo”. Altra
vecchia evocazione stalinista, che dà sempre eccellenti risultati. Molti
giovani di base erano in preda ad eroici furori detectiveschi. Voci,
sospetti, indizi vagliati, confrontati. Compilazione di liste di ex
militanti in odore di sinistrismo.
Lui, il nostro compagno finito all’Ucciardone, si era rifiutato di far
parte di una specie di volante che pattugliava punti sensibili, come
prefetture, caserme, tribunali.
Ci fu una discussione, scambio di insulti e di minacce. Lui strappò la
tessera. Nessuno lo seguì, anche se alcuni vecchi partigiani
scuotevano il capo e giù in strada gli dissero che aveva ragione.
Ma il partito non si toccava, contro il partito non si poteva andare.
Bisognava difendere il partito al di sopra di tutto, a qualsiasi costo.
Anche a costo di abbandonare o additare al nemico dei compagni che
sbagliavano. Poi, qualche tempo dopo quelli che del sacro partito
tenevano le redini, lo liquidano, smobilitano. Tutti a casa. La guerra di
classe è finita. Buona parte del popolo di sinistra allo sbando. Un
quarto di secolo dopo stiamo ancora aspettando una spiegazione.
Ma questa è un’altra storia e la racconteremo in un’altra occasione.
Lo trasferirono insomma ed il giorno seguente toccò a un altro. Un
terzo lo cambiarono di sezione. Disperdevano il gruppo. Infine
m’arrivò il turno. Trasferimento verso non sapevo dove. Ma anche la
prima volta in molti mesi che sarei uscito dalle mura del carcere.
Avrei lasciato i compagni. Mi avrebbero allontanato dai miei. Ma avrei
rivisto le strade, la gente, le case, la campagna. Se non avessero
deciso di portarmi in cellulare, cioè un furgone senza finestre in cui
stai rinchiuso tutto il viaggio e vedi solo le facce dei carabinieri di
scorta.
C’era perfino chi veniva tradotto in treno, in vagoni speciali con
finestrelle sbarrate, come quelle dei carri bestiame.
Trasferimento non è semplicemente il passaggio da un carcere
all’altro. Quando sono corretti ti notificano il provvedimento il giorno
prima, con la destinazione da poter comunicare alla famiglia con un
telegramma e la possibilità di preparare le proprie cose. Ma c’è anche
la possibilità che ti prelevino senza preavviso, con quello che hai
addosso senza sapere dove ti portano, senza che nessuno lo sappia.
In matricola mi aspettavano puntuali tre carabinieri in amichevole
conversazione con il brigadiere di turno. Firma qui e qui. Mi dettero
l’orologio. I soldi invece alla scorta. E poi gli schiavettoni. Gli
americani hanno le manette. C’è chi preferisce legare con le corde. O
chi utilizza le fascette di plastica da elettricista, di quelle che
stringono e ti si conficcano nella carne e per toglierle vanno tagliate.
O infine chi porta a morire gente con i pollici legati con un pezzo di
spago. In Italia, per le traduzioni usavano gli schiavettoni. Un pezzo di
ferro a forma di E che imprigiona i polsi con una sbarretta mobile
regolabile per mezzo di un ingegnoso sistema a vite. Tu infili una
mano in un senso, l’altra nell’altro e loro stringono e se non ne vuoi
sapere o sei riottoso all’idea di farti vedere in quelle condizioni in giro,
ci pensano i ragazzi della scorta a convincerti, magari con un
coscienzioso lavorio ai fianchi ed allo stomaco. Va detto ad onore del
Vero e della Benemerita che su 20 occasioni circa m’è capitato una
volta un agente che, dopo aver serrato allo spasimo il marchingegno
chiese “ti fa male?” e, al mio diffidente “si”, allentò la morsa di
qualche giro.
L’aggeggio è corredato da una catenella. All’altro capo c’è di solito un
carabiniere che può sostenerla mollemente o con crudele fermezza.
Sacchetto di plastica-bagaglio in mano ci avviammo in comitiva
all’uscita. Nel cortile esterno l’Alfa con l’autista già pronto al volante.
Mi fecero entrare dietro, nel mezzo, anche se a me piace di più stare
dalla parte del finestrino. I due militi non erano grassi ma non ci stavo
comodo lo stesso. Si aprì il portone. Non era come lo avevo
immaginato. Le case, sì, e il traffico e i passanti e le ragazze. Ma non
c’era allegria. Non era il solito caro, noioso, conosciuto mondo.
Ai lati dell’autostrada sfilavano alberi e campi, colline e oliveti. C’era il
sole, era bello. Stavo male. I carabinieri parlottavano fra di se delle
cose di cui parla la gente, carabinieri compresi: pettegolezzi sui
colleghi, le prodezze scolastiche dei figli, la macchina nuova, il
campionato di calcio, commenti sui giovani di oggi tutti drogati e
perdigiorno, la gente che non lavora. Senti chi parla, pensavo io ma
stavo zitto e facevo finta di non esistere perché forse quelli erano del
genere cinico professionista ma poi ci sono anche i sadici che si
divertono a provocare magari agitandoti sotto il naso, salvo poi a
lamentarsi ed a ricevere funerali di Stato quando qualcuno riesce a
soffiargliela, la pistola; ed anche i bonaccioni che fra uno scherzo, una
battuta ed un incoraggiamento si intrufolano nei fatti tuoi e poi te li
ritrovi a testimoniare in tribunale che il massacro di Valpisello l’hai
fatto te o che sei il complice del mostro di Firenze, insomma il silenzio
è d’oro.
Fermata in una stazione di servizio. Per pisciare tutti e quattro.
Avevano pensato anche a me. O al sedile dell’alfetta. Comunque
carini. Scesero tutti, io, per ultimo al guinzaglio. C’era gente in giro.
Mi piace la gente. Mi piaceva parlare con gli sconosciuti per strada,
scambiare sguardi e sorrisi con le ragazze. Il bar era pieno, al
passaggio della nostra comitiva molti si fecero sulla porta. Come una
sfilata di quelle che facevano i circhi quando arrivavano in un paese,
con gli elefanti in fila indiana, quelli dietro che tengono con la
proboscide la coda di quelli davanti. Io imbarazzato, quelli in divisa
acceleravano il passo. Un omaccione con la faccia da sensale di suini
chiese all’appuntato “che ha fatto?”. E chiedimelo a me che ho fatto
faccia a culo! Mi strattonarono. Davanti alla tazza del water mi
arrangiai con le mani legate, prova tu a pisciare con un poliziotto che
tiene la catena dall’altra parte della porta socchiusa. All’uscita c’era
più gente. Una donna disse “ma è ancora un ragazzino”. Le donne
sono sempre più portate a commuoversi. C’erano bambini fra chi
stava a guardare ed avrei dovuto dire ai genitori che certi spettacoli
meglio non farglieli vedere. Mi guardavano incuriositi ed io li guardavo
incuriosito. Se mi ero aspettato solidarietà, simpatia, calore umano, o
anche indignazione per il fatto di vedere un essere umano in catene,
mi ero sbagliato. Per fortuna però non c’era neanche quell’entusiasmo
popolare che accompagnava al patibolo i condannati in epoca
giacobina, con lancio di sputi ed ortaggi vari.
Solo una coppia di vecchietti seduti in una sala d’aspetto di un
ospedale dove ero stato portato, per ferita o malattia, mi lanciò una
volta un “coraggio figliolo” .
Il resto del viaggio filò via veloce, entrai nella nuova prigione e mi
sottoposi come in trance alle formalità: registri, perquisizione
minuziosa, cancelli che si aprivano e richiudevano con un tonfo. Mi
confiscarono tutti i libri.
Nelal cella dormitorio non ero l’unico appena arrivato. C’era molto
movimento nelle prigioni.
Finita l’epoca delle bande Bonnot o dei ladri gentiluomini dicevano e
dicono. Il delinquente è un egotico. Psicopatici. Lumpen massa di
manovra del potere. Gente incapace di solidarietà. Antirivoluzionari.
Sarà. Ma io ricordo assemblee. Discussioni. C’erano i documenti con
le firme che facevano un cerchio perché nessuno era il primo e tutti
erano uguali davanti alla rappresaglia. E rivolte.
Quasi sempre le lotte si estendevano a ondate. Cominciavano in
qualche grande giudiziario e poi si allargavano ai penitenziari.
La repressione aiutava. Dopo una rivolta i più facinorosi o a volte la
maggior parte dei detenuti erano deportati. Ed ogni deportato poteva
essere la scintilla che appiccava la rivolta dove arrivava. Succedeva
infatti che invece di intimorirsi e rinunciare a qualsiasi protesta al
vedere come erano conciati, a volte nemmeno in grado di parlare, i
nuovi arrivati, che odio e sdegno prevalessero. E che il coraggio degli
altri stimolasse il proprio.
Si rivendicavano miglioramenti delle condizioni di vita. Un vitto più
decente, qualche ora d’aria in più, un po’ di riscaldamento. Creazione
di luoghi di riunione, apertura di raggi e di sezione. Più colloqui, diritto
a ricevere pacchi, stampa alternativa, lettere senza censura, poter
usare il telefono. E allontanamento di torturatori, eliminazione del
sistema di rappresaglie. Amnistia.
Fuori si gridavano gli slogan “il carcere non si riforma, si distrugge” o
“il comunismo, una società senza galere”.
Arrivò a Mammone. Quarta tappa in un mese. Tutto era cominciato a
Venezia. Avevano spaccato tutto e i celerini per entrare si erano
dovuti fare un culo così. Con le bombolette di gas avvolte in stracci e
giornali incendiati avevano bucato il soffitto e su dal tetto bombardato
con le tegole gli agenti che cercavano di sfondare i cancelli. Avevano
sfasciato con metodo porte, letti, finestre, cessi, lavandini. Tutto. Con
metodo perché si trattava di rendere inagibile il carcere. Ma alla fine
nelle camerate i gas lacrimogeni si potevano tagliare col coltello. E
continuavano a tirare candelotti. Era impossibile respirare. Quelli sul
tetto vennero costretti a rientrare perché ormai dal cortile e dal muro
di cinta sparavano. E alla fine gli antisommossa riuscirono a sfondare.
Entrarono e sembravano drogati. Le maschere, gli scudi, i moschetti
che sputavano candelotti a bruciapelo. Colpirono uno in pieno
stomaco e subito ebbe uno sbocco di sangue. Entravano cella per
cella e tutto era grida, frastuono, gemiti. In una trovarono un gigante
in attesa di giudizio perché, dicevano, aveva affondato un motoscafo
della guardia di finanza tirando un masso dall’alto del ponte che
sovrastava il canale. C’entrarono in quattro e ne uscirono uno dopo
l’altro ridotti male. Allora gli riempirono la cella di lacrimogeni e lo
fecero uscire a urli sotto la minaccia dei mitra. Sapeva che gli
avrebbero sparato. Lo ammanettarono, lo fecero inginocchiare e lo
massacrarono coi calci dei fucili.
I celerini avevano bevuto e si accanivano sui prigionieri arresi, legati.
Svenuti. Troppo malridotti per tenersi in piedi. Poi se ne andarono. Ed
entrarono le guardie e ricominciarono il pestaggio.
Lui era un ragazzone alto e forte. Biondo e con gli occhi chiari e da
quel giorno aveva cominciato a balbettare. Mostrava i segni delle
botte. Le cicatrici su tutto il corpo. Li avevano trasferiti tutti. Lui era
arrivato lì in Sardegna dopo un viaggio di due giorni senza mangiare. I
suoi, come molti altri, non seppero per due settimane dov’era stato
portato. Nonostante le visite al carcere, alla procura.
Quando arrivarono erano le dieci di sera e li portarono dal direttore.
Un rinomato boia che li fece mettere tutti sull’attenti. Per il
discorsetto. Che dovevano cacciarsi bene in testa che lì non erano
tollerate proteste di nessun genere. Che gli unici diritti di cui
avrebbero goduto dipendevano dal loro comportamento e dalla buona
volontà dei superiori. Che con lui i piantagrane non duravano molto.
Là intorno c’era il mare ed era facile evadere e sparire. Dico bene
maresciallo? Risatine.
Li mandarono alle celle di punizione. Chiesero di poter scrivere a casa
per far sapere alle famiglie che almeno erano vivi. Il sottufficiale disse
di no. Loro rifiutarono il rancio.
Dopo nemmeno mezz’ora un manipolo di guardie grosse come armadi
e armate di bastoni irruppe nella cella. Loro dissero va bene
d’accordo mangiamo subito. Li bastonarono e li lasciarono lì, lui
svenuto, fra zuppa, sangue, vomito, orina.
Repressione. Rappresaglie. Ritorsioni giuridiche. Non erano pochi
quelli che, entrati per condanne irrisorie, si erano ritrovati a passare
mezza vita in galera.
L’Alberto lo avevano trasferito alle Murate, il giudiziario di Firenze, per
un processo ed era arrivato poche ore prima che scoppiasse il casino.
Non aveva la più pallida idea di quello che stava succedendo e quindi
chiese al secondino di chiuderlo a chiave e cominciò a disfare il
fagotto e ad ordinare per benino le sue cose nello stipetto. Mentre si
faceva il letto sentì l’odore acre dei gas e le urla e il frastuono. Prima
entrarono i gas. Piangeva e tossiva quando aprirono la porta e si trovò
davanti tre o quattro antisommossa con i soliti caschi e i manganelli e
qualche catena. Cercò di spiegare che lui non c’entrava, che era
appena arrivato, che chiedessero al superiore. Poi si rannicchiò sotto i
colpi coprendosi il capo con le mani. Gli ruppero due dita.
Il giorno dopo con la camicia nuova comprata per l’occasione –
particolare strappacuore ma rigorosamente vero – dalla madre,
camicia adesso a brandelli e insanguinata, le labbra spaccate e
gonfie, un occhio tumefatto e chiuso, braccia e spalle doloranti e
coperte di lividi, mano fasciata, si presentò in tribunale a regolare i
conti che aveva in sospeso con la giustizia.
Cercò di dire che cosa era successo e come mai arrivava in quelle
condizioni. Chiese di poter denunciare i maltrattamenti. Il presidente
del tribunale tagliò corto. Non si trattava di questioni pertinenti alla
causa in esame. Aggiunse che, se voleva, poteva inoltrare una
denuncia presso le autorità competenti. L’Alberto lasciò perdere,
come fanno quasi tutti, sapendo che a insistere ci avrebbe
guadagnato solo altre botte, un trasferimento e magari una condanna
per ingiurie o falsa denuncia.
Raccontava piano, esitante. Un vecchio avrei detto allora, di una
settantina d’anni. Pietro si chiamava. Una figura macilenta insaccata
alla meglio in un pigiama. Era capitato in mezzo alla rivolta di Parma,
credo. Non era stata neanche una vera e propria rivolta. Una protesta.
Avevano rotto l’indispensabile per barricare i cancelli e poter salire sui
tetti. I celerini rimediarono al loro arrivo. Razziarono tutto quello che
poteva avere un minimo valore: radioline, mangianastri, accendini,
sigarette, francobolli. Il resto lo fecero a pezzi. Strappavano le foto
delle famiglie, perché quelle cattiverie che fanno gli orchi delle fiabe
ci sono orchi che le fanno davvero. Rompevano le cornici di cartone.
Gli oggetti costruiti con pazienza certosina volarono in pezzi.
Ammassarono in mezzo a un corridoio tutti i cocci e pezzi di vetro che
trovarono per formare una specie di tappeto e si schierarono in fila ai
due lati. Fecero passare tutti i detenuti in mezzo. Colpivano alla testa,
alle gambe, allo stomaco. Urlavano e ridevano. Se qualcuno cadeva
gli saltavano addosso con calci, pugni, i calci dei fucili, sbarre di ferro
e bottiglie rotte. Fecero passare tutti. Anche gli anziani. Anche uno
che era stato operato da poco allo stomaco. Gli si ruppero i punti e
strillava come una bestia al macello. Sangue dappertutto. Urla
dappertutto. Quelli che non volevano scendere dai piani superiori li
buttavano giù per le scale e li trascinavano fra i vetri, i rottami.
Diceva il vecchio che lui aveva visto la guerra, aveva visto immagini
atroci, che aveva sperato che con la fine del fascismo e del nazismo
non fossero più possibili certe cose. Che non capiva che razza di odio
poteva spingere qualcuno a comportarsi così.
Domanda sbagliata. Non è odio quello che muove una muta di cani a
fare a pezzi la preda.
E a pezzi facevano. Ad Alessandria un nucleo di carabinieri comandati
dal generale Dalla Chiesa assaltò il raggio in cui si erano barricati tre
detenuti con degli ostaggi. Sette morti. Dissero che uno dei detenuti
aveva ucciso un ostaggio, una insegnante, e che per questo il
generale aveva ordinato l’assalto.
Con il tempo scoprì che non era vero che “l’unica guardia buona
è la guardia morta”. Dopo di noi, i reclusi, erano la categoria più
numerosa fra i frequentatori del carcere. Avevano uniformi grige
allora. E non erano tutti uguali. C’erano i giovani, i vecchi, i lavativi,
gli zelanti, i torturatori, i contestatori, i camorristi, i sadici, gli
apostolici, i corrotti, i diplomatici, i duri, i rassegnati. Moltissimi
meridionali. Molti quasi analfabeti. Ignoranza stupefacente fino al
grado di brigadiere. Figli di contadini che avevano preferito il disonore
di quel mestiere alla durezza della terra.
In genere la massima aspirazione della guardia carceraria era quella
di evitare le grane. Tirare a campare. Imparando le regole di
convivenza e rispettandole, omertà compresa. I primi ad insegnarmi
le norme di sopravvivenza in carcere furono due appuntati, durante
l’isolamento. Tieniti in disparte. Non parlare troppo. Rispetta e fatti
rispettare. Non fare commenti. Non guardare fisso la gente. Tieni i
capelli corti e non portare catene al collo. Quando vedi una rissa
chiuditi in cella. Non vedere e non sentire nulla che non debba essere
visto o sentito.
I duri erano una minoranza. Divisa fra incorruttibili ligi al dovere e
sadici picchiatori.
Carmelo era un ragazzo moro, poco più di venti anni. Piccolino e gli
occhi chiari. Sorrideva sempre, timido. Aveva paura dei colleghi, dei
superiori, dei detenuti. Si scusava sottovoce quando gli ordinavano di
perquisire una cella o un detenuto prima del colloquio. Ogni tanto ci
parlavo di politica. Ascoltava attento, la fronte corrugata, concentrato.
Poi mi diceva che era d’accordo.
Per spiegargli la logica di chi aveva scelto la via della lotta armata,
che lui diceva di non capire (“ma come si fa ad ammazzare uno che
neanche conosci, che magari c’ha famiglia?”) gli ricordai la notte in
cui avevano cercato di evadere i quattro rapinatori. Lo avevo visto
con gli altri sul muro di cinta col mitra. Gli chiesi che avrebbe fatto se
io, che apprezzava e che in un certo senso considerava amico, avessi
tentato di scavalcare il muro e gli avessero ordinato di sparare. Disse
che non voleva pensarci nemmeno. Io insistetti. Alla fine disse che
avrebbe chiuso gli occhi e sparato perché doveva.
“Per loro è lo stesso”, gli dissi.
I suoi colleghi lo consideravano un po’ scemo. Ma anche con loro
cercavamo di fare un po’ di sensibilizzazione. Lavoro politico, lo
chiamavamo. Non è che rifiutassero di ascoltare o respingessero i
nostri argomenti. Non li capivano. Erano fatalisti e per loro l’ingiustizia
era un male, non necessario forse, ma sicuramente inevitabile.
Passacantando era più anziano. Aveva sempre il berretto di traverso e
il passo strascicato che lo portava da una sedia all’altra, da un
pisolino all’altro. La sua frase più gettonata: “fate quello che vi pare
ma lasciatemi in pace”.
Il Baiocchi invece era un brigadiere preciso sputato a Mike
Buongiorno, personaggio della prima era televisiva che iniziava e
concludeva sempre le sue trasmissioni con un indicibilmente scemo
quanto entusiastico “allegria, allegria!”. Sempre sorridente,
incoraggiava, distribuiva pacche sulle spalle, gli mancava solo
appunto l’”allegria allegria” ad ogni apparizione.
Il Nola invece aveva un unico argomento che gli stava a cuore e con
cui era capace d’intrattenere per ore chiunque si prestasse ad
ascoltarlo: la pensione. D’altra parte non negava un favore a nessuno
e non si rifiutava mai di fare da portapacchi da una cella all’altra
durante le ore di chiusa.
Vitaliano era un pugliese che biascicava a stento qualche frase in
italiano, un bestione che per scherzo menava manate che incrinavano
le costole, sanzionato in diversi penitenziari per i traffici che
organizzava dappertutto, come vendere coltelli o bottiglie di liquore o
qualsiasi altra cosa che gli permettesse di arrotondare lo stipendio.
Ma a parte questo lato imprenditoriale del suo carattere anche lui era
per il vivi e lascia vivere.
Però c’erano anche i duri, i sadici. Un brigadiere napoletano,
originario di Forcella, uno romano, fra gli altri. Portamento,
espressioni da SS. Il primo arrivò seguito dalle informazioni di radio
carcere: era un torturatore, aveva diretto massacri. A Firenze, alle
Murate aveva ordinato di sparare contro i rivoltosi che erano saliti,
naturalmente disarmati, sul tetto.
Le guardie sul muro di cinta, con i mitra, parlavano e ridevano. Uno si
accese una sigaretta, fece un paio di tiri e poi la posò sul muretto.
Prese la mira con cura e sparò. Una, due raffiche. Un altro fece partire
una sventagliata alta. Cambiarono i caricatori. Scambiarono qualche
battuta, schiacciarono i mozziconi sul parapetto. E ricominciarono a
sparare. Ci furono un morto e dodici feriti da arma da fuoco secondo
le fonti ufficiali.
Non si fece mai vedere in sezione senza una scorta adeguata. Diverse
volte mi convocò nel suo ufficio. Mi squadrava un momento senza dir
nulla e poi mi lasciava lì in piedi, mezz’ora, a volte anche di più, senza
prestarmi la minima attenzione. Altre volte mi osservava
tamburellando le dita e mi interrogava. Su di me, la mia causa, i miei
rapporti con gli altri detenuti, sugli altri detenuti. Poi magari, prima di
congedarmi, mi comunicava che il direttore aveva accettato la mia
“supplica” per un colloquio straordinario.
Il Barbi era più stalinista, gli piaceva citare articoli del regolamento
quando ti comunicava che aveva respinto, rimandato indietro, a volte
come a te sgradito, il pacco di un amico, un libro regalo dei tuoi.
Godeva leggendo davanti a me ad alta voce le lettere in arrivo. Con
gli altri il divertimento consisteva nel correggere gli errori di
ortografia, le espressioni dialettali delle mogli, i genitori, le fidanzate.
Gioiva quando poteva aprire un pacco e sbriciolare le torte fatte in
casa, sezionare la frutta. Era il re delle pomiciate, ne ordinava per
ogni sciocchezza e se trovava qualcosa di non previsto dal
regolamento, anche se era un oggettino senza importanza che ti
avevano dato al colloquio con il permesso della guardia, ti faceva
rapporto, ti mandava alle celle, ti sospendeva le visite.
La durezza di un carcere dipendeva anche e soprattutto dalla
percentuale di aguzzini fra le guardie. In quelli più duri abbondavano i
provocatori.
Al manicomio criminale ce n’era uno che sbraitava, ogni volta che
passavano per la conta, che la mia stanza era un porcile. Che dovevo
alzarmi quando entravano. Che dovevo mettermi sull’attenti e
salutare. Gli altri ridacchiavano. Doveva essere il loro modo di
svagarsi un po’. Io stavo zitto. Lo trovai da solo, in un corridoio, una
volta che tornavo da un colloquio con l’avvocato. Era di turno e gli
toccava aprirmi la porta della cella. Misera soddisfazione vederlo
sbiancare mentre gli battevo una mano sulla spalla e gli sussurravo
che cosa pensava di fare ora che eravamo da soli, a quattr’occhi. Poi
lo spinsi da parte, entrai e feci scorrere il chiavistello da dentro.
Ce n’era un altro che quando toccava a lui il turno per i colloqui
gongolava come un affamato invitato a un banchetto nuziale. Mentre
aspettavamo fuori erano frecciatine, pesanti allusioni alle doti fisiche
di mogli o sorelle. Insulti. Ci rideva in faccia, contento come una
pasqua mentre ci palpava.
Dopo il colloquio ci accoglieva a urlacci, maledicendoci e promettendo
a tutti punizioni per aver infranto non si sapeva bene quali regole.
Il giorno del mio compleanno. Uno dei tristi compleanni trascorsi “al
fresco”. Avevo dovuto fare la domandina per ottenere il ricambio di
pantaloni e camicia. Ti davano un modulo su cui era già stampato
“Prego la S.V. Illustrissima di...” e tu la compilavi con la “supplica”. In
quel caso supplicavo che mi restituissero i pantaloni e la camicia
confiscati all’arrivo dal precedente carcere, dato che quelli che
indossavo da un mese e mezzo erano già un po’ sporchi e sgualciti e
che i pantaloni erano pure strappati e che non potevo ricucirli dato
che aghi e filo erano severamente proibiti. I miei genitori e mia sorella
sarebbero venuti a fare un colloquio che avevano ottenuto dopo
molte visite ed attese in procura perché era il mio compleanno. E loro
ci tenevano.
E così mi ritrovai ad aspettare il mio turno, in cella, con i vestiti puliti.
Finalmente vennero ad aprire. Colloquio. Attraversai i corridoi quasi di
corsa. E quasi sbattei contro il boia. Con il fiatone gli dissi che ero
stato chiamato. Non stavo nella pelle dall’ansia di rivedere i miei. Non
farli aspettare ancora. Lui, più lento del solito, palpò schiena, fianchi,
sotto le ascelle, petto, stomaco, le gambe dalle caviglie al culo. Non
per nulla la chiamano pomiciata. Mi frugò fra i capelli. Mi fece togliere
le scarpe. Controvoglia mi fece infine cenno che potevo passare. Lo
stanzone era quasi del tutto pieno. In mezzo al fumo e al rumore vidi i
miei rincantucciati in un angolo. Si alzarono e da sopra il bancone ci
stringemmo le mani. Gli avevano concesso di portare il dolce in sala e
lì era, sul tavolaccio, ridotto in briciole. La mamma lo offrì agli altri.
Tutti accettarono, ringraziarono. Non c’erano candeline, ovvio. Né lo
spumante. Né l’allegria. Fu un colloquio corto. Prima di andarsene il
babbo e la mamma mi si aggrapparono al collo da sopra il bancone.
Mia sorella mi abbracciò e mi dette un piccolo rosario di legno. Non
eravamo religiosi né io né lei ma glielo aveva dato una persona cara
per me. Lo mostrai alla guardia che paterna ci diceva “su su
andiamo” e che mi rispose “tienilo pure”. Uscii nel corridoio con il
groppo alla gola. Adesso erano in tre a perquisire. Aspettai il mio
turno. Quando avevo alzato le braccia mi urlarono di tirare fuori
quello che mi avevano dato. Subito. Di farglielo vedere. Mostrai il
rosario. Ma non mi ascoltavano. Sentii arrivare due pugni sui reni.
Stetti fermo. Ero forte ed agile. E rabbioso. Sarebbe stata una bella
rissa. Fuori. Non lì. M’insultarono. Spintonarono. Minacciarono.
Tacevo. Non mi proteggevo. Le mani dietro la schiena. Mi fecero
spogliare. Esaminarono ogni indumento. Strapparono perfino gli orli.
Non trovarono nulla. Frenetici palpavano ogni cosa. Io, nudo in piedi
sul pavimento, tremavo di freddo. Zitto. Passò un brigadiere e chiese
che stava succedendo. Gli risposero che mia sorella mi aveva passato
una cosa al termine del colloquio. Gli dissi del rosario. Gli dissi che
potevano farmi una radiografia o sbudellarmi, che non avevo
nient’altro. Ordinò che mi rivestissi e che mi riaccompagnassero in
cella.
È questo tipo di angherie che spesso fa andar fuori di testa e
succedono cose come la storia dell’ergastolano che aveva ricevuto in
dono chissà da chi un topolino bianco. Gli dava da mangiare, gli aveva
fatto una casetta di cartone, lo teneva libero e quello gli andava
dietro quando camminava su e giù per la cella. Lo prendeva in mano.
Ci parlava. Un giorno entrarono a fare una perquisizione, una di
routine. Non scappava nessuno di lì e lui era ormai un vecchio. Ma gli
buttarono lo stesso le cose per terra, gli sfecero il letto
meticolosamente lisciato. Quando la perquisa finì e lui poté rientrare
in cella trovò in un angolo il topolino schiacciato, una poltiglia di
sangue. Ripulì. Cominciò ad uscire un po’ di più nel corridoio, in
cortile. A scambiare qualche parola con quello e quell’altro. Finché
non seppe chi aveva schiacciato il topolino. E un giorno che quella
guardia entrò per la conta l’uccise colpendolo con il bugliolo finché
non gli schiacciò il cranio e le altre guardie non riuscirono a
trattenerlo e solo quando fu sicuro che fosse ben morto si lasciò
trascinare via. Quando il giudice lo interrogò rispose “aveva ucciso
mio figlio”.
Era accaduto anni prima, non molti, in uno di quei penali che
chiamavano ergastoli dove la gente si ammalava e si ammala di
tubercolosi e quasi tutti i detenuti hanno lunghe, lunghissime
condanne o una vita da scontare, lontani da ogni cosa, con i pensieri
ridotti alla sigaretta al bicchiere di vino, all’ultimo colloquio con un
parente con cui non hanno più nulla da dirsi, al pranzo del prossimo
natale o a quello dell’anno scorso. Dimenticati da tutti. Dimenticati
perfino dal prete, dall’assistente sociale, dalle Damine di San Vicenzo.
Gli altri personaggi della galleria di quadri della prigione.
Dei preti ce n’era uno che visitava regolarmente le celle dopo una
perquisizione o un pestaggio a spiegare alle vittime che non
dovevano dimenticare che i cattivi erano loro e che si meritavano
inferni molto peggiori e che l’unica, benché remota, speranza di
salvezza consisteva nel pentimento, nella sottomissione,
nell’obbedienza. Spesso l’infelice destinatario del sermone preferiva
un supplemento di botte o di isolamento e lo buttava fuori a calci o a
bestemmie.
Un altro era un menefreghista, diceva la sua messa e non rispondeva
mai alle richieste, che voleva solo per iscritto, di colloquio.
Il meno peggio della categoria fu un francescano che venne come
supplente al giudiziario. Parlava del più o del meno, ci portava libri,
aiutava in piccole cose come far passare lettere all’esterno e
messaggi confidenziali. Comunque anche con lui tutti i salmi, è il caso
di dirlo, finivano in gloria. E giù con i “figliolo abbi pazienza e fede in
Dio”, “rassegnazione, figliolo, rassegnazione”.
Le damine di San Vincenzo avevano, rispetto ai preti, la candida
ingenuità del dilettante. La più vecchietta, un po’ curva, minuta,
voleva sempre entrare in sezione a salutarci di persona. Portava
qualche dolciume, riviste. Parlava con i più disgraziati, chiedeva
informazioni sulla posizione processuale di ognuno. E diceva,
circondata da braccia tatuate, facce irsute e sfregiate “oh i miei
ragazzi! Quanto mi piacerebbe vedervi fuori di qui... E come vi
trattano? Bene vero? Eh si, anche loro, le guardie, sono brave
persone... Per me siete tutti dei bravi ragazzi che hanno avuto
sfortuna, ecco, questo io dico alle mie amiche... e prego per voi
sapete? Prego per voi continuamente”.
Portò un giorno una cesta di rosari che distribuì a tutti e dopo averne
spiegato il modo d’impiego a quelli che se li stavano appendendo al
collo o decorandoci le inferriate, chiese se sapevamo come
mantenerli sempre lucidi. Il “Topo”, dopo qualche istante di
imbarazzato silenzio, suggerì sfoderando il suo miglior sorriso di
provare a strofinarli bene col Sidol. Gli altri scoppiarono a ridere. E chi
ce l’avrebbe dato il Sidol? Il maresciallo non faceva passare neanche
la colla e le vernici per i modellini, figurarsi il Sidol! Poi la vecchina
spiegò che perché un rosario fosse sempre bello brillante bisognava
usarlo, cioè pregare parecchio. Freddezza in platea. Andava meglio
quando distribuiva cioccolate. Un po’ scadenti ma a molti piacevano.
Di assistenti sociali ne ho vista una, una volta. Compilai la domandina,
confesso, più che altro per vedere da vicino una donna. Dicevano che
era giovane e belloccia. Con un po’ di fortuna ne avrei potuto ricavare
un po’ di simpatia, un sorriso. Una delusione. Non alzò quasi gli occhi
dai fascicoli che aveva davanti. Mi ascoltò un po’. E poi mi interruppe
per dirmi che la miglior cosa che avrei potuto fare era andare alle
lavorazioni. Le lavorazioni erano un laboratorio dove per quattro soldi
te ne stavi sei o sette ore al giorno a montare interruttori che poi
venivano venduti a non so quale società. Visto che il costo della mano
d’opera era praticamente zero e che gli impianti ce li metteva lo Stato
qualcuno doveva guadagnarci parecchio con quegli interruttori. Non
c’erano pause. Ti sorvegliavano da vicino. E anche gli altri detenuti
premevano perché tu producessi di più. C’era gente che non aveva
nessuno o, peggio, gente da mantenere fuori e aveva un disperato
bisogno di quella miseria.
C’ero stato: file di banconi e in catena ci passavamo i pezzi. Io dovevo
incastrare un mucchietto di affari di plastica uno ad uno nella
scatoletta che mi passava quello in piedi accanto a me, che a sua
volta lo riceveva da un altro che lo tirava fuori da uno scatolone. Ad
ogni passaggio io educatamente dicevo grazie al collega che alla fine
mi disse anche un po’ brusco che la smettessi di ringraziarlo, che gli
stavo dando sui nervi. Smisi. Poi quando vidi quello che pagavano
smisi anche di lavorare. Il mix di repressione e sfruttamento alla
cinese era troppo.
L’assistente sociale mi disse che se non davo prova di buona volontà,
tornando alle lavorazioni, ben difficilmente avrebbe potuto dire una
parola in mio favore al giudice di sorveglianza e questo in futuro
avrebbe avuto conseguenze sui permessi, sul certificato di buona
condotta. C’aveva il discorso pronto però a me di tutte quelle cose lì
non me ne poteva fregare di meno. Mica pensavo di restarci, in
galera. E lì finì il colloquio. Chissà quanto la pagava la ditta
appaltatrice?
C’è molta gente sì, che gironzola per il carcere. Responsabili o
capataz delle lavorazioni. Avvocati. Insegnanti. Educatori sociali. Poi,
nei posti più aperti o con i direttori più progressisti, ci sono le attività
con gente esterna e le ONG e si fa teatro e concerti e radio e
conferenze. Io mai viste cose del genere. E nemmeno mai visto un
giudice di sorveglianza. Mai visto uno. Tutti si chiedevano come
faceva a sorvegliare uno che non lo vedevi mai? Ma forse la
sorveglianza si riferiva a noi, i detenuti e, visto che erano già in tanti a
sorvegliare, lui delegava. Mah?
E infine gli psichiatri, psicologi, insomma gli “psisgherri” che si danno
da fare per reinserire, recuperare, neutralizzare il coatto - deviante
per mezzo di tecniche meno truculente di quelle tradizionali. E forse
più efficaci.
Una sera d’estate, ad una festa in un’isola del Mediterraneo avrei
conosciuto uno psichiatra tedesco che aveva “lavorato” a
Stammheim. Dopo un po’ non ce l’aveva fatta più e si era ritirato dal
programma e dalla professione, a vivere lontano dal suo paese. In
quel carcere di massima sicurezza, ideato per annientare i membri
della RAF avevano perfezionato, sistematizzato le tecniche di
deprivazione sensoria utilizzate fino ad allora come complemento alla
tortura fisica. E già studiate dagli inglesi in Long H contro prigionieri
dell’IRA. Cubicoli piccoli, pareti, soffitto, tutto bianco. Niente finestre.
Nessuna visibilità sul fuori. Luce accesa 24 ore al giorno. Nessun
contatto con altre persone. Silenzio. Né radio, né libri, né televisione,
né oggetti personali. L’occhio di una telecamera sempre addosso. La
chiamarono tortura bianca. Squadre di psicologi e psichiatri
monitoravano il processo di destrutturazione dei prigionieri. Ne
registravano meticolosamente l’insorgere degli stati confusionali, la
perdita di orientamento, le angosce, le crisi depressive.
Preziosi studi che sarebbero stati poi applicati in numerosi
penitenziari e bracci speciali in tutta Europa.
Gli psichiatri che conobbi io però non erano così à la page. Erano di
quelli che tramortivano a pasticche o ricettavano lettini di
contenzione.
***
Sfoglio un fascicolo. Un vecchio quaderno con ritagli di giornale
ingialliti incollati accuratamente, meticolosamente da un
capostazione che cercava così di lenire l’angoscia.
Un volto giovane. Il mio. Di 30 anni fa. Scorro gli articoli, i titoli, i
sottotitoli, ma poi mi stanco. Ormai non ci vedo più granché bene.
Non mi si rigira lo stomaco al leggere le oscenità, le idiozie, la mia
vita di ragazzo messa in piazza snaturata deformata grottesca.
Irriconoscibile. Come scrivono male questi cronisti e come il loro stile
meschino riesce ad immiserire la realtà, a renderla inesorabilmente
sordida!
Un titolo però mi fa sobbalzare: “Un’altra evasione facile”
La conta era passata da poco. Avevano aperto, battuto i ferri e i
muri. Gli scopini avevano portato il caffelatte, cioè quella brodaglia
che chiamavano caffelatte ma che comunque era calda, cioè quasi
sempre era calda e le porte erano aperte. Non mi alzai, stringendo gli
occhi, cercai di riprendere il sogno interrotto da luci e rumori. Magari
era un bel sogno. Un altro giorno che cominciava. Non c’era fretta.
Qualche libro, la radio, le fantasticherie, le quattro chiacchiere mentre
si andava su e giù per il corridoio o il cortile. Stretta allo stomaco.
L’Anselmo entrò con gli occhi spiritati, le spalle insaccate nel solito
maglione troppo grande e sformato. Sembrava portare grandi notizie.
Si guardò intorno circospetto. Lo guardai interrogativo, tirandomi le
coperte su fino al mento. Faceva freddo. Si sedette sulla sponda del
letto fremendo: ce l’abbiamo. Disse. Ce l’abbiamo il che? Gli risposi. Il
seghetto, avevamo il seghetto, di là, nella sua cella. Con quattro lame
di ricambio. No? Si! Mi alzai e vestii. Chi la sentiva l’umidità fredda dei
pantaloni e della maglia? Preparai la macchinetta del caffè.
Mi aveva chiesto una settimana prima se ci sarei stato ad
un’evasione. Saremmo stati in tre. Ero sotto processo e risposi che
avrei aspettato la sentenza. Adesso il processo era finito. Mi avevano
condannato e non avevo nessuna intenzione di restare. Facevo bene.
Ero al giudiziario e lì sarei dovuto rimanere fino al processo di appello,
a Firenze. Ma il mio PM non era del parere e mi aveva già preparato
un trasferimento a Porto Azzurro. Il suo personale modo per
vendicarsi di non essere riuscito a farmi dare l’ergastolo. A 21 anni e
incensurato a Porto Azzurro. Figlio di un cane.
C’era un terzo e sarebbe stato un fascio. Storsi il naso ma l’Anselmo
mi disse che il seghetto era suo. Che glielo aveva filato un secondino
simpatizzante, perché se la svignassero i camerati. Ma lui dei
camerati non si fidava e si era rivolto a lui, prigioniero comune.
Immaginai i titoli dei giornali. Ma chi se ne fregava, a quel punto avrei
sottoscritto qualsiasi patto anche col diavolo pur di uscire di lì. Però il
fascio doveva far credere al secondino complice che aspettava il
momento più adatto per scappare con i suoi. Fra un paio di settimane,
forse.
Insomma si partiva. Ma le cose andavano fatte bene. Il piano era di
tagliare le inferriate in una delle nostre celle al piano terra. Quella
dell’Anselmo, che era la meno frequentata. Poi dovevamo scalare il
muro di cinta. Di solito non ci facevano la ronda. Meno ancora in
pieno inverno. Però dovevamo controllare. Dal muro di cinta saltare in
un campo sportivo e poi via. Una macchina ad aspettarci. Doveva
esserci una macchina ad aspettarci.
Facevamo il palo a turno mentre l’Anselmo segava l’inferriata. Ci mise
tre giorni. Durante la chiusa e prima della conta coprivamo i tagli con
dello stucco ammorbidito ricavato dai finestroni del raggio e sopra ci
spolveravamo della ruggine.
Le guardie avevano subodorato qualcosa. Chissà, forse quella del
seghetto non era stata l’iniziativa isolata di un agente fascisteggiante.
Battevano le inferriate più accuratamente del solito. Con delle mazze
controllavano anche le pareti. Fecero una perquisa a fondo nella mia
cella. Era l’ultimo giorno. Avevo un pezzo di seghetto. Riuscii a
nasconderlo nella manica prima di uscire sul corridoio. Poi, mentre
entravano e prima che mi perquisissero, riuscii a infilarlo nello stipite
di una cella vuota. Sperando che non arrivasse nessun nuovo.
La sera del terzo giorno, all’ora di apertura per la televisione la via era
aperta, mi bisbigliò l’Anselmo sedendosi accanto nell’ultima panca.
Dopo un po’ ci ritrovammo nella sua cella. La porta spalancata per
non dare nell’occhio. Un normale scambio di chiacchiere. Ripasso
generale: c’era la corda, la classica corda ricavata da un lenzuolo
strappato a strisce ed annodato, ne avevo assicurato un capo a un
gancio, fabbricato con un pezzo di stipetto. Avevamo qualche soldo,
fatto passare durante i colloqui. Francobolli da barattare in caso di
bisogno.
Bisognava partire subito. Chiamai un ragazzo romano, pugile della
Garbatella, come si definiva orgoglioso. Gli dissi che ce ne andavamo.
Che avevamo bisogno di qualcuno che tirasse per le lunghe e
deviasse dalla cella del buco l’attenzione di secondini e curiosi. Non
batté ciglio. “Non darti pensiero” mi disse e mi salutò stringendomi il
braccio.
L’ultima conta era verso le undici, forse più tardi. Se tutto andava
bene c’erano due o tre ore di tempo prima dell’allarme. Dovevamo
essere già lontani. In pochi minuti confezionammo ognuno il nostro
bagaglio. Un sacchetto di plastica. Dentro indumenti di ricambio.
Pepe macinato. Per i cani. Una fotografia, qualche lettera.
Franco, il fascista, era il più nervoso. Chiudemmo la porta. Una
ripassata veloce al “materiale”. Fuori pioveva. Nelle torrette non
c’era nessuno. Le sbarre erano tenute su con del nastro adesivo. Le
tirammo via aprendo un quadratino sulla grata. Era piccolo. Toccava a
me uscire per primo. Mi ci buttai a capofitto. Non ci passavo. Rientrai
e provai di nuovo tirando fuori un braccio e la testa mentre gli altri
saltellavano dietro bestemmiando sottovoce. Rimasi incastrato. Mi
tirarono dentro di nuovo e l’Anselmo mi disse di provare con le gambe
in avanti. Lo feci, aggrappandomi alla parte superiore dell’inferriata.
Fu facile. Scivolai fuori fra il vento e l’acqua. Sensazione di pioggia
fredda sul viso. Una sferzata di vita. Da dentro mi passarono la corda
arrotolata ed i sacchetti. Pochi passi ed arrivai sotto il muro di cinta.
Non c’era nessuno. Nessuno sul muro, nessuno fuori, nessuno alle
finestre. C’erano i riflettori ma bastava stare nelle zone d’ombra. Al
secondo lancio l’uncino si incastrò fra i ferri della ringhiera. Mentre gli
altri due uscivano mi arrampicai aggrapato alle strisce di lenzuolo.
Teneva.
Arrivato in cima vidi che non aveva fatto presa l’uncino ma un nodo
della corda. L’assicurai meglio. Gli altri due arrivarono, sagome scure
nel buio. I loro sacchetti di plastica stretti fra i denti. Ricordai una
scena dei “Soliti ignoti” e cominciai a ridacchiare. L’Anselmo venne su
agile nonostante i suoi quaranta anni. Franco invece non ce la faceva
e dovemmo issarlo a braccia.
Piegati in due percorremmo il muro fino alla zona da cui dovevamo
saltare. Sul vicolo sottostante non passava nessuno. Ripiazzammo la
corda. In fondo era un bel salto. Stavolta scese prima l’Anselmo. Poi il
nero e quando stava per arrivare in fondo i suoi 90 chili ruppero la
corda. Soffro e soffrivo di vertigini. Arrivai fino all’ultimo lembo della
corda. Mi lasciai spenzolare un momento e poi saltai.
L’asfalto era bagnato e le scarpe di gomma scivolarono via. Di colpo
era tutto un dolore che saliva su dall’osso sacro. Mi si mozzò il fiato e
non ce la facevo ad alzarmi. Mi aiutarono a girarmi. Ripresi a
respirare. Poi mi tirai su. Sentivo le gambe strane. Cominciammo a
camminare. In fondo al vicolo ci trovammo faccia a faccia con un
ometto con un ombrello, guinzaglio e cane che ci osservava. A quanto
pare aveva seguito con interesse tutta la scena.
Ci disse buonasera e fece un gesto di saluto con la mano che
sosteneva il guinzaglio. Gli sfilammo davanti mormorando saluti. E
cominciammo a correre. Qualche occhiata al carcere, sempre
silenzioso. Né grida, né spari, né sirene. Faceva strano vederne da
fuori la mole scura. Arrivammo al punto previsto per l’appuntamento.
La macchina non c’era.
Gli altri due non se la presero bene. Io ripiegai subito sul piano B: la
ferrovia. Ci sganciammo da Franco. Ognuno per conto suo. Si sarebbe
costituito il giorno dopo. Dopo fu uno dei pochi neri a subire condanne
pesanti, che scontò in penitenziari duri.
C’incamminammo con Anselmo a passo normale verso la stazione.
C’erano vagoni merci e vagoni passeggeri sui binari morti. Salimmo
su. Per asciugarci un po’ e riordinare le idee. Era un convoglio lungo e
passammo da un vagone deserto all’altro avvicinandoci ai
marciapiedi della stazione. Spargemmo lungo i corridoi, al nostro
passaggio, il pepe macinato.
Arrivò un treno passeggeri. Andava verso il sud. Avremmo preferito
l’altra direzione ma c’era poco da scegliere. Quando stava per
ripartire saltammo giù e salimmo di corsa sull’ultimo vagone.
Era un accelerato. Il controllore uno giovane. Contrattammo il prezzo
del biglietto fino ad Orte, capolinea. Dando fondo ai pochi soldi ed ai
francobolli. Beh stava per cominciare l’epoca in cui in Italia erano
scomparsi gli spiccioli e ti davano per resto gomme da masticare,
caramelle, mini assegni emessi da banche, casse di risparmio ed
istituti di credito di ogni tipo e, naturalmente, francobolli. E cosi quello
mercanteggiò un po’ ma poi ci dette il biglietto. Ci sedemmo in uno
scompartimento. Passò un ragazzo e buttò dentro un’occhiata
distratta. Tornò indietro e aprì la porta. Era uno del mio paese. “To’,
non lo sapevo che ti avessero lasciato andare”. Mi disse. “Veramente
non mi hanno lasciato andare”, risposi.
Non eravamo proprio amici. Era più giovane di me. Mi dette i quattro
soldi che aveva addosso e voleva darmi anche il cappotto, ma i suoi
gli avrebbero fatto un sacco di domande e di storie. Non erano una
famiglia ricca. Non aprì la bocca con nessuno. Né quella notte né mai.
Lo ringraziai.
Arrivammo ad Orte. Dovevano essere passate un paio d’ore. Era l’ora
della chiusa. Scattava l’allarme. Conta e riconta gliene mancavano
tre. Alla fine scoprirono il buco, ci misero un po’ perché l’Anselmo
aveva rimesso a posto le sbarre da fuori e si resero conto di come
eravamo usciti solo quando si misero a sbattere tutte le celle. Si
scatenò il solito casino. Guardie sul muro. Al freddo e al gelo. Guardie
nel recinto, riflettori impazziti, luci di lampade, torce, lampadine,
fotoelettriche. Il direttore urlava impazzito. Da contrappunto fuori gli
ululati delle sirene di pantere, gazzelle. Su tutte quella del carcere.
Subito dappertutto piazzarono posti di blocco. Intorno al quartiere.
Alle porte della città. Sulle strade ad anelli concentrici. Avvisi alle
stazioni. Sguinzagliarono un sacco di cani. Carabinieri e polizia. Per
giorni in battuta nelle campagne intorno. Cani lupo bagnati seguiti da
poliziotti infangati ed imprecanti.
Andarono a casa delle famiglie, degli amici. Minacciarono di sfondare
la porta della casa dei miei, gridando “aprite polizia”, fuori era tutto
un lampeggio di luci multicolori e sfoggio di armi. Aprì mio padre, in
ciabatte e pigiama. Gli puntarono sul petto due pistole. Due amici di
mia sorella che erano nel salotto buono a farle compagnia furono
messi in ginocchio coi mitra puntati in testa. Urlavano tutti che
dicessero dov’ero. Mia madre, in camera cercò di spiegare che non
sapevano nulla. Ma quelli non l’ascoltavano. E allora in silenzio
aspettò che finissero di buttare tutto all’aria. Un’altra volta. E chiuse
la porta in silenzio dietro il questore che andandosene le ricordava
che doveva avvisarli nel caso in cui avessero saputo dov’ero. Non
disse niente.
La Flora aveva gli occhi chiari, il sorriso dolce, la voce pacata.
Ascoltava tutti, sempre, con attenzione. Era la più piccola di quattro
sorelle, figlie di un capostazione, nata fra le due guerre in un’epoca in
cui morire giovani era facile. E vide morire la sorella maggiore, la
Laura. Anni dopo, molti anni dopo, quando la ricordava, quando
ricordava gli anni da ragazza, da “citta” nelle visite settimanali della
zia Renata, piangeva ma erano lacrime che sapevano di vicinanza e di
assenza. Sfida umile ma caparbia alla realtà.
Suo padre, il nonno Tito, era un capostazione di ferrovie locali.
Trasferito in Veneto si era portato dietro moglie e figlie e poi era
tornato in Casentino. Era una persona mite che ricordo poco: morì di
un tumore che io ero bambino. Poco dopo lo seguì la moglie, la nonna
Gina. Erano brave persone, gente tollerante con quel senso
dell’umore toscano che riveste la realtà, anche la peggiore, di
amabile ironia e che non scade mai nel sarcasmo, del resto anch’esso
assai esteso in Toscana.
Capo rispettato e non temuto della sua stazioncina ai piedi della
montagna, durante l’occupazione tedesca nascondeva nei vagoni
armi per i partigiani. Era una zona di frontiera quella. Finita la guerra
avrebbe rifiutato ogni onorificenza per non “discutere” con la figlia
maggiore, giovane fascista idealista e rimasta nostalgica per il resto
dei suoi giorni.
Avevano un cane da caccia, Febo, protagonista di un racconto che la
Flora mandò, noi bambini, unica concessione alle sue velleità
letterarie, ad una rivista femminile per un concorso. Che vinse. Il
premio era una polaroid, meraviglia tecnologica dell’epoca.
Avevano perso Febo nel corso di un bombardamento alleato sul
paesino, nella confusione dello sfollamento. E lo avevano ritrovato,
ridotto ad uno scheletro, un anno dopo che si aggirava fra le rovine
della stazione che era stata la loro casa.
Tutti gli abitanti del villaggio si rifugiarono nei boschi delle montagne
della zona. Mesi e mesi di dura sopravvivenza evitando
bombardamenti e i rastrellamenti dei tedeschi. Adulti vecchi donne e
bambini. Freddo, paura, fame e sete. La Flora era sempre stata
schizzinosa, sin da piccolina. Gli altri bevevano l’acqua delle gore che
trovavano ma lei non voleva saperne ed allora suo padre si
allontanava e di nascosto la faceva bollire e la filtrava con un
fazzoletto e gliela portava dicendo di aver trovato una sorgente.
Ma nei suoi racconti sofferenze e patimenti erano solo uno sfondo
sfumato di quadretti di umanità intensa. Come la “matta Fringuelli”,
così la chiamavano, ragazza madre figlia di una famiglia bene del
posto e il fatto di essere ragazza madre era allora prova sufficiente di
insanità mentale. Portava a cavalcioni il bambino durante gli
spostamenti del gruppo. Una lunga fila di borghesi, impiegati, operai,
manovali con le famiglie e le quattro cose che erano riusciti a portarsi
dietro in valige e fagotti, arrancando su per viottoli e sentieri, fra
boschi di castagni ed abetaie. Una sera la ragazza scivolò in un
passaggio difficile sulla sponda di un ruscello e cadde con il bimbo.
Che rimase a terra, forse svenuto, forse semplicemente
addormentato. Lei si rialzò, lo guardò e disse “To’ l’è morto” e si
rimise in cammino. Gli altri, anche loro stanchi allo sfinimento
raccolsero il bambino e la seguirono.
Avevano un cavallo nel gruppo e la Flora che ha sempre amato gli
animali e piante ci si affezionò. Un giorno arrivarono al loro
accampamento dei partigiani. Dissero che il cavallo andava domato e
per domarlo lo legarono con un nodo scorsoio. L’animale si strangolò
e già che c’erano lo macellarono e lo mangiarono. Brutta cosa la
fame. Ma alla Flora la cosa non andò giù e forse per questo ricordava
che quando se ne andarono lasciarono nascoste delle armi accanto a
loro. Se i tedeschi le avessero trovate sarebbe stata la morte per tutti
gli uomini e magari anche per le donne e i bambini. Erano in terra di
nessuno, un nessuno che non aveva scrupoli né pietà.
Ma non c’era mai odio nei suoi racconti. Un miracolo, me ne sarei
accorto più tardi, in una terra dove le SS massacravano intere
popolazioni buttando bombe a mano nelle chiese dopo averci
rinchiuso la gente. In cui gli alleati bombardavano e mitragliavano la
popolazione civile in volo radente, in cui le camice nere impiccavano
comunisti o presunti tali o li bruciavano vivi. In cui dei partigiani
avevano sepolto due diciassettenni in lacrime arruolati, questo si,
volontari nelle truppe di Salò.
Evitava lo scontro ma se era inevitabile non chinava il capo ed era
decisa. Contro l’omertà corporativa dei suoi colleghi maestri prese un
giorno la difesa di una povera cittarella compagna di classe di mia
sorella. Era una bimba border line si direbbe oggi, di una famiglia
povera in canna. Non era brava a scuola. Grassottella, con il
grembiulino sempre macchiato d’unto ed il fiocco rosa fatto alla meno
peggio, di sghimbescio. La maestra, una donna segaligna inacidita ed
incattivita dagli anni, la maltrattava. Non i soliti urlacci o punizioni che
erano in uso all’epoca. Le sue erano vere torture: la strattonava,
l’insultava umiliandola davanti a tutte le altre bambine, obbligandola
a restare in ginocchio per ore, l’irrideva per le treccine sporche, per la
faccia paffuta che spesso schiaffeggiava con rabbia, la picchiava col
righello sulle mani, la schiena, la testa. Non ricordo come si chiamava
quella poveretta, solo quella faccia tonda sempre impaurita. Tutti
sapevano e tutti tacevano. I genitori erano gente semplice che
credevano che la figlia si meritasse botte e rimproveri e che non si
sognavano nemmeno di opporsi a quella persecuzione.
Non so bene come andò, eravamo piccoli anche noi. La Flora non
denunciò la maestra seviziatrice. Lei che non era una cattolica
granché praticante e che andava in chiesa più che altro per
concessione rassegnata ai codici di comportamento sociale, applicava
invece con fermezza certi principi evangelici come quello del “chi è
senza peccato scagli la prima pietra”. Non la denunciò ma si dette da
fare per strapparle quella creatura dalle mani. Propose di prendere la
bambina nella propria classe e davanti alla riluttanza di direzione e
consiglio minacciò. E la spuntò.
Prima che mi arrestassero le assegnarono una scuola in una frazione
poco lontano da casa, una classe con bambini dalla prima alla quinta.
Ci andava in macchina, aveva preso apposta la patente: mio padre
metteva in moto la millecento di terza mano, lei ingranava la prima,
poi la seconda ed a scossoni imboccava il viale. Percorreva i dieci
chilometri in seconda e quando arrivava spegneva il motore e
lasciava la macchina davanti alla scuola. Al ritorno uno dei padri dei
suoi alunni girava la macchina e lei ripartiva. Quando andava bene
rifaceva i dieci chilometri in seconda fino alla porta di casa, spegneva
il motore e scendeva. Se invece trovava il passaggio a livello chiuso
erano guai e spesso il babbo o un manovale dovevano andare a
recuperare macchina e maestra.
Ero andato a trovarla a scuola. C’era un silenzio tranquillo: i bambini
chini sui libri, lei che passava fra i banchi mormorando, ascoltando.
All’uscita parlava tranquilla con madri preoccupate e convinte di
avere figli capoccioni buoni solo per il lavoro dei campi.
Quando lasciarono il paese ottenne un trasferimento in città. Poco
dopo ci fu il sequestro di Aldo Moro. In tutte le scuole d’Italia una
circolare impose la lettura di un comunicato di condanna del
terrorismo e delle Brigate Rosse. Solo una manciata di maestri e di
professori ebbero il coraggio di opporsi a questa manifestazione di
regime. Alcuni ci rimisero il posto. Lei fu uno di quei pochi e al posto
del comunicato lesse dei brani del Vangelo sul perdono, la parabola
della pagliuzza sull’occhio altrui. Il preside la chiamò, i genitori le
dettero il loro appoggio nonostante l’isterica caccia alle streghe
dilagante. Agì così perché aveva un figlio in galera, un criminale in
famiglia? Forse si, ma già anni prima, convocata a far parte di una
giuria popolare si era rifiutata di andarci. “chi sono io per giudicare un
altro essere umano?” ci disse.
Alla terza perquisizione, mi dicono, sputò in faccia al questore. Per lei
che aveva in orrore gli sputi, che le provocavano autentico ribrezzo,
fu senza dubbio la massima espressione di disprezzo, disgusto, sfida.
Anche il babbo era stato sfollato, anche lui in montagna. I suoi erano
ricordi un po’ diversi, forse perché era un uomo anche se ragazzo ed i
suoi non si erano curati più di tanto di proteggerlo dalla vista degli
orrori della guerra. Erano ricordi da incubo. E gli incubi lo visitarono
tutta la vita. Immagini di campi minati, di uomini impiccati col filo
spinato, di campi di battaglia cosparsi di morti. Un soldato tedesco e
un nero americano infilzati a vicenda con le loro baionette. Era
sfuggito alla coscrizione dei repubblichini perché era già capostazione
e aveva un fratello prigioniero in India, combattente ufficiale a El
Alamein, scampato nemmeno lui sapeva come a giorni di
bombardamento ininterrotto. Uno della manciata di sopravvissuti
prima alle bombe e poi a dissenteria, alla malaria, agli stenti del
campo di prigionia. Non avevo un buon rapporto con questo zio, alto
funzionario del ministero dei Trasporti, però quando ero in isolamento
fu lui a farmi avere le sigarette. Sapeva per esperienza che i piccoli
diversivi, i gesti ritualizzati ti aiutano a sopravvivere.
Anche il gruppo di profughi in cui si trovava la famiglia del babbo si
muoveva in terra di nessuno, fra le incursioni dei guastatori tedeschi,
delle camicie nere ed i raid alleati. Finché una bomba a
frammentazione colpì sua sorella. Ventenne pianista dal viso grazioso
incorniciato di riccioli ramati. Una scheggia le sezionò la spina
dorsale. Lo mandarono a cercare aiuto verso il fronte tedesco, quello
più vicino ma un drappello di soldati in ritirata lo prese. Non capivano
una parola d’italiano e si accinsero a fucilarlo. Quando lo raccontava
noi lo prendevamo in giro immaginandolo a scavarsi la fossa con la
meticolosità che lo caratterizzava. Lo salvarono per il rotto della cuffia
mia nonna, matrona napoletana che impensierita per il ritardo era
andata a cercarlo e un ufficiale austriaco che masticava un po’ della
lingua.
Intrapresero allora una marcia penosa trasportando la ferita in una
lettiga fatta di rami fino a raggiungere le linee alleate. L’accolsero in
un ospedale da campo medici ed infermieri indiani che li trattarono
con umanità e lenirono il dolore della ragazza con morfina. Per mio
padre gli indiani sarebbero stati per sempre quella gente dalla pelle
scura e dai sorrisi grandi che permisero a sua sorella di non morire
come un cane.
Amici e conoscenti, ex compagni di prigionia, furono portati,
col cappotto o un giubbone buttato sulle spalle, in commissariato.
Interrogati, minacciati. Qualche schiaffo. Così non trovano mai
nessuno. Ma lo fanno.
Anche a chi era rimasto in carcere la fecero pagare. Interrogatori,
meno visite, meno pacchi, meno aria, meno tutto. Poi costruirono
torrette nuove sul muro di cinta. Chiuse, coi vetri blindati e,
immagino, col riscaldamento.
Non ho mai corso come quella notte. La galera infiacchisce. La vista
si abbassa. La pelle diventa biancastra e insana. Perdi il fiato. Metti su
pancia o dimagrisci, come me, che da settanta ero sceso a meno di
sessanta chili. Ma quella notte correvo leggero sotto la pioggia, nel
freddo. L’Anselmo dietro reggeva. Corremmo per tutta la notte. Sulle
traversine, lungo la massicciata. Al passaggio di un treno ci
nascondevamo fra i cannicci o ci buttavamo a terra dietro un pilone,
un rialzo di terra. Evitammo un posto di blocco dei carabinieri,
piazzato in una curva della statale vicinissimo ai binari. Li vedevo.
Sentivo le voci. Si muovevano fra le luci lampeggianti con i mitra
imbracciati.
Avanzavamo nel buio ed ai lati scivolavano lenti i campi. Le ombre
degli alberi. Le case ancora immerse nel sonno. Con qualche luce
accesa qua e là. Immaginavo le grandi cucine, i focolari. Uomini
taciturni seduti a tavoli di legno con tazze di caffelatte bollente
davanti. Pane inzuppato dentro. La prima sigaretta accesa sulla
soglia. Il bavero rialzato nell’aria frizzante dell’aurora.
Corremmo fino a giorno. Non avevamo quasi parlato. Quando sei
braccato ridiventi animale e ti funziona l’istinto più della ragione e la
parola serve a poco. Avevamo paura, freddo. Eravamo stanchi oltre lo
sfinimento. E non volevamo che ci prendessero. Eravamo evasi. Ci
inseguivano. Dovevamo correre. Correre più di loro. Correre e basta.
Il cielo si era fatto chiaro. Avevamo lasciato indietro il temporale. Le
macchie, le ombre indistinte e inquietanti diventavano alberi,
cespugli, capanne. Sulle colline e sui prati emergevano i colori
dell’erba, dei boschi. Aspiravo l’odore della terra. L’aria fredda che
pungeva i polmoni. Ero vivo e libero. E volevo restarlo.
In un paese salimmo su di una corriera di pendolari. Non avevamo
soldi e non pagammo. Non eravamo gli unici. Erano cominciate le
autoriduzioni. Ed erano migliaia, centinaia di migliaia, forse milioni
quelli che si riducevano le bollette della luce, gli affitti, il telefono, che
facevano le spese proletarie, che occupavano spazi. Era tanta la
gente che aveva spostato dalla fabbrica alla vita quotidiana la lotta
per il salario. Si rivendicava anche la gratuità dei trasporti pubblici.
Che li paghino i padroni, tanto servono per portarci a farci sfruttare.
E infatti la corriera era piena di operai e impiegati, le facce assonnate,
la borsa sdrucita col panino o il pentolino a chiusura ermetica.
Entrammo in città. Nelle toilette di un bar ci cambiammo con gli
indumenti puliti dei sacchetti e ci rassettammo un po’. Tirammo su un
giornale da un cestino. La notizia dell’evasione era in quarta pagina.
Ci restai un po’ male. Ero anch’io un coatto e fra i coatti ci sono quelli
che fanno le rapine invece dei furti, a rischio di dieci anni in più di
carcere, solo per avere un trafiletto sul giornale col proprio nome.
Bussammo a diverse porte. Cercando di vendere quel poco che
avevamo. Informazioni, notizie, esperienze. Raccattammo qualche
soldo. Poi telefonate tirando le fila di una ragnatela di contatti. Finché
non trovai una compagna di un collettivo di lotta. Colpo di fulmine.
Era bella. Io avevo il fascino del ribelle fuggiasco. Fascino della rabbia,
della voglia di vivere. Ci accolse. Ma non poteva durare.
I nostri nomi scomparvero dai giornali. Erano cessati i rastrellamenti
nei posti dove potevamo esserci nascosti. Ma le indagini si
allargavano e prima o poi sarebbero arrivati all’appartamentino di un
quarto piano di un quartiere popolare romano.
Mi disse che c’era un suo parente, insospettabile. Che sarei potuto
stare a casa sua finché le acque non si fossero calmate. L’uomo
viveva da solo. Aveva una camera. Non sarei dovuto uscire di casa. E
non c’era posto per Anselmo. L’Anselmo che a ogni condanna
ripeteva “questi qui ci hanno preso per pappagalli”. No. Lui mi disse
di non fare lo stupido, che se la sarebbe cavata da solo. Che era
meglio dividerci. Mi sentì traditore ed infame quando lo vidi
andarsene per la strada, le spalle incassate. Si costituì una settimana
dopo. Non aveva trovato nessuno che l’aiutasse ed era solo questione
di tempo che lo riprendessero, senza documenti, senza soldi, senza
un buco dove rifugiarsi. Solo. D’inverno.
Una stanza alla periferia della città. Vista sui casermoni. Poche luci
natalizie.
L’appartamentino era un bilocale e passavo le giornate alla
televisione a mangiare a divorare i libri che trovavo. L’uomo che mi
nascondeva era sempre fuori a lavorare, aveva quaranta, forse
cinquant’anni taciturno e, mi chiarì subito, un nostalgico, cioè fascista
mussoliniano. Anche mia zia lo era sempre stata, non ne rimasi
sconvolto. Era un romantico quell’uomo, del duce ricordava gli occhi
magnetici secondo lui visti una volta e il timbro della voce e le parole
gonfie di idee che sembravano grandi e le ovazioni, le folle oceaniche
e poi la sconfitta il tradimento l’obbrobrio e per alcuni la
persecuzione. E non era romantico solo per quello. L’altra storia però
non me la raccontò lui. Aveva un amore, un grande amore
d’adolescente cresciuto con gli anni per una ragazza, poi una donna
che finì per sposarne un altro più ricco, potente. Ma lui non cambiò e
le restò fedele e dedicò tutta la sua vita ad esserle amico, aiutante,
confidente, solo per starle accanto
Venne un giorno la compagna. Mi dette una busta e un borsello di
pelle. Lo aprii, dentro c’erano soldi e dei gioielli. Nella busta una
lettera. Quattro parole d’amore e incoraggiamento dei miei genitori.
Era andata a trovarli. Era molta la gente che lo faceva. Amici miei,
della famiglia. La polizia non poteva controllarli tutti. Era entrata in
camera di mia madre. Mia madre malata. Angosciata. Il pensiero fisso
su immagini di me braccato, inseguito, magari morto o agonizzante in
un fosso, una baracca, in un bosco. Le disse che ero vivo e al sicuro.
Lei si era alzata di scatto e aveva tirato fuori da un cassetto dei soldi
e qualche gioia. Disse che li aveva messi da parte aspettando questo
momento. L’abbracciò, la ringraziò, la benedì. Le dette un recapito
dove avrei potuto scrivere. Un altro complice al di fuori di ogni
sospetto. Rimasi un mese nascosto in casa di Alberto, chiamiamolo
così. Poi, quando non ne potei più di stare al chiuso a leggere,
ascoltare la radio, guardare la strada dalla finestra, decisi di non
abusare oltre dell’ospitalità. Avevo dei soldi, non avevo documenti ma
mi sarei arrangiato.
Uscii e affittai una camera. Prima da una coppia di anziani
commercianti della zona della Piramide. Poi in casa di una famiglia
della Garbatella. Strinsi amicizia con una delle figlie, bruna e
sorridente popolana, giovanissima e già sposata con un bambino.
Legammo troppo e alla fine me ne dovetti andare.
In quei pochi mesi frequentai ambienti dell’Università, assemblee di
quartiere. C’era lotta. C’era vita a Roma quell’anno. Speranza. Nei
quartieri si organizzavano le autoriduzioni, i presidi contro i tagli della
luce, gli sgombri. Si occupavano caseggiati, rioni interi accoglievano
la polizia con battaglie campali. C’erano i raid fascisti. Le cariche dei
celerini, i pestaggi. Fiorivano i collettivi, le radio libere, i muri
parlavano, cantavano, urlavano. Circolavano giornali, volantini. Le
librerie erano vulcani di idee con centinaia, migliaia di titoli portatori
di teorie, esperienze, sogni di rivoluzione. Le manifestazioni senza
paura. Con centinaia di compagni armati di caschi, molotov, spranghe
e anche qualche pistola. Che dopo poco avrebbero cominciato ad
usare. Me ne stavo in disparte alle assemblee dell’università, durante
i cortei. Partecipai a qualche scontro da spontaneo. Rischiando di
farmi beccare dalla polizia come autonomo e dai manifestanti come
provocatore.
Mi contattò gente di un gruppo. Reclutatori di un gruppo armato.
Rifiutai di arruolarmi. Vollero comunque mantenere il contatto e mi
offrirono documenti. All’ultimo appuntamento venne una ragazza.
Avevo Cien años de soledad in mano, e passeggiavo fingendomi
turista in un angolo di Piazza San Pietro. Sbrigativa, mi disse che
niente documenti e che stessi attento perché la polizia l’aveva
seguita.
Non tornai nemmeno nella mia cameretta d’affitto e andai alla
stazione, dopo aver fatto un po’ di salite e discese da autobus,
entrate ed uscite da grandi magazzini, da chiese. Tutto quello che
avevo di valore lo portavo addosso: i soldi e i gioielli che non avevo
venduto in un borsetto. Forse fu quel borsetto che mi salvò
dall’arresto. Forse pensarono che ero armato.
Presi un treno, stavolta verso il nord. Cambiai a Firenze. Poi non so
dove. Arrivai a Trieste. Seppi poi che mi tallonarono fin lì. Bravi: non
mi accorsi di nulla. Ma poi a Trieste mi persero di vista. Quello che mi
seguiva doveva essere stanco e assonnato, come me, forse più di me.
Non ero mai stato a Trieste. Veramente ero stato in ben pochi
posti. Prima dei diciannove anni la gente del mio paese viaggiava
poco, al massimo emigrava. Nemmeno i figli dei ferrovieri, che eppure
avevano i biglietti gratis per tutta l’Italia.
Al banco di un bar un ragazzo leggeva Lotta Continua. Alto, moro,
robusto. Mi sedetti accanto, ordinai un caffè e gli dissi se sapeva di
qualche posto dove dormire. Rispose che c’era la casa dello studente.
Che era stata occupata e che potevamo sistemare una brandina nella
camera di qualcuno del suo collettivo.
Una casa dello studente occupata non mi sembrava il massimo della
sicurezza. Comunque avevo poco da scegliere, una notte, due, poi
avrei cercato una stanza.
Mi ci accompagnò. Mi presentò i compagni, le compagne. Chiese dove
c’era posto. Sistemarono la brandina, che era una di quelle militari
pieghevoli requisita chissà dove, nella stanza che un friulano grande e
grosso divideva con un turco mingherlino. Il “turcheto” appunto lo
chiamavano, praticamente l’unico straniero dell’università. Dissi che
andavo a prendere i bagagli e in un supermercato mi rifornii di
quattro ricambi e una borsa, spazzolino da denti, dentifricio, rasoi. In
una cartoleria comprai una penna e un quaderno. In una libreria un
paio di volumi. Ecco.
La stanza era piena di piante che il friulano curava con amore,
orgoglioso del suo pollice verde. Era tutto un viavai di visite durante
la giornata, di notte. Come in carcere, con la differenza che qui non
c’era pericolo di buscarsi una bottigliata per una rissa o una faida e
che c’erano ragazze. Belle, bellissime alcune. Sorridenti, con le loro
voci dolci, i corpi ed i gesti soavi. L’odore fresco.
Ci stavo bene. La mensa non costava nulla e dopo quella del carcere
sembrava alta cucina. Mi sentivo circondato da una comunità
accogliente, amica. Le giornate passavano fra volantinaggi, letture,
discussioni interminabili, riunioni, cene, bevute. Nottate a parlare di
tutto. Della vita, dei sogni, delle utopie, delle contraddizioni, delle
lacerazioni. Il personale era politico e si mescolavano le idee, i
proclami, i pensieri, le letture e le confidenze, le storie, le passioni ed
emozioni. Ed io cominciai a mentire.
Cioè ad inventarmi una storia. Un passato fabbricato, risposta dietro
risposta, con pezzetti di verità deformate e piccole invenzioni. A
cominciar dal nome. Ero Alessio in quei giorni.
La provenienza, cioè la riposta al “di dove sei?” era un problema
perché io conoscevo ben poco al di fuori della mia cittadina e non
potevo mica rischiare di trovarmi qualcuno che, se a domanda
rispondevo che ero di Pisa, mi dicesse, “ah, bello quel posto” o “c’è
ancora quel bar?” e io senza averlo mai visto ... Mi andò bene come
primo banco di prova della nuova identità perché c’era tanta gente
curiosa ma non ficcanaso e non rischiavo, anche se mi avessero
smascherato, di vedermi arrivare la polizia in camera. Erano tempi in
cui la delazione era sempre e comunque una cosa brutta.
In quel per me enorme edificio alveare c’era rappresentato tutto
l’arco dell’estrema sinistra. Perfino l’anarchico individualista, uno
studente di matematica che passava le ore chiuso in camera o in
biblioteca a calcolare, matematicamente appunto, i tempi necessari
per la rivoluzione. O il ricercato delle brigate rosse, rinchiuso giorno e
notte in camera di una compagna ma che usciva di soppiatto ogni
tanto a scrivere sui muri frasi inneggianti alla lotta armata.
M’era toccato e mi stava anche bene un collettivo m-l. Mi piacevano
le riunioni, le discussioni. Ero preparato, “sapevo la lingua”. Ero buono
anche per i picchetti e i presidi. Un occhio ai fascisti, uno ai poliziotti,
uno agli agenti in borghese e sempre pronto a scattar via. Coi
compagni la vedevamo un po’ diversa rispetto agli anarchici e ci fu un
piccolo scazzo quando mi opposi nettamente a caricare col servizio
d’ordine contro uno spezzone che voleva partecipare a un corteo con
le bandiere nere e le A dentro il circolo. Mi erano simpatici gli
anarchici: sognatori e idealisti, anche se con zero senso pratico. Io
almeno li vedevo così. Chiaro che non ne conoscevo praticamente
nessuno. Erano funghi rari nella mia rossa zona.
A me piaceva ascoltare Guccini. In carcere cantavo la Locomotiva,
stonando quando attaccavo a pieni polmoni “illuminava l’aria la
fiaccola dell’anarchia”. Lì alla casa dello studente c’era un compagno
che suonava la chitarra e la cantavamo in coro e allora saltava su il
“commissario politico” e diceva “ma smettetela con queste cazzate”
e giù discussioni. D’altra parte mi era simpatico anche lui, il
commissario politico, soprattutto da quando aveva preso a schiaffi
sulla porta della facoltà uno di Comunione e Liberazione perché gli
aveva detto che i soldi per i volantini glieli aveva dati il KGB.
“Si, ma tu gli avevi chiesto prima se i suoi volantini li aveva pagati la
CIA”, gli ricordava la sua ragazza, una mora alta e decisa che lo aveva
trascinato via per un braccio.
“Che c’entra”, si difendeva lui, “il suo era un insulto e la mia
un’analisi politica...”
Nel frattempo aveva cominciato a funzionare la ragnatela di sostegno
e complicità che sola può permettere la sopravvivenza di un
fuorilegge. I fiancheggiatori, diceva la stampa. Chi non li ha è perduto.
Cosca, tribù, partito. Vincoli di interesse, ideali, di sangue che
affondano le loro radici in leggi antiche e poderose.
“Non ti abbandoneremo mai” mi dissero quando mi arrestarono. E
furono di parola. Quando gli occhi del paese cambiarono colore e
divennero cupi ed ostili, tutta la mia famiglia si trasferì in città e
grazie al nuovo parziale anonimato riuscirono ad organizzarsi per
sostenere la mia latitanza.
Il primo contatto diretto con la famiglia fu attraverso lo zio Enzo.
Avevamo fissato l’appuntamento su di un treno fra Milano e Venezia.
Lui doveva prender posto in uno scompartimento ed io sarei passato
e ripassato per controllare che non fosse seguito. Ci abbracciammo,
aveva con se una valigia piena di regali, delle lettere, una busta con
dei soldi che dovevano aver racimolato in una colletta familiare.
Era un ufficiale dell’esercito, anche se non l’avevamo mai visto in
divisa. Piccolo, calvo, sempre incredibilmente allegro ci faceva ridere
da piccoli con il suo repertorio di aneddoti di gioventù: usque tandem
Catilina che lui e i suoi compagni del classico traducevano in “perché
vai in tandem Catilina”. Erano gli stessi amici che entravano nei bar
d’estate e chiedevano al barista “scusi, ce l’ha il caffè freddo? SI?
Allora me ne scaldi una tazza”.
Al liceo aveva avuto un professore, mutilato della grande guerra, gli
avevano amputato un braccio, mi pare. Quando la classe era troppo
agitata era solito, raccontava lo zio, rammentare con voce stentorea e
vibrante che lui aveva “condotto trecento uomini alla morte”, al che
la classe rispondeva in coro “obbravo!!”. E continuava lo zio “hai
capito te? Aveva condotto trecento uomini alla morte. L’aveva fatto
proprio un bel capo di lavoro!”
Nel corso della guerra gli era toccato andare in Yugoslavia dove con i
suoi uomini aveva accuratamente evitato ogni scontro con la
resistenza. L’armistizio li aveva infine sorpresi in Sardegna e lì, con
l’esercito allo sbando, compì con la sua compagnia, lui era tenente,
l’unico fatto d’arme catturando una pattuglia tedesca, giusto per
evitare di esser loro a venir fatti prigionieri. Li disarmarono, se li
portarono un po’ dietro ed alla fine li lasciarono andar via. Volevano
tornare a casa e basta. Era un militare pacifista, che avrebbe votato
per l’abolizione di tutti gli eserciti se se ne fosse presentata
l’occasione e che nei primi anni della mia latitanza si mosse da
perfetto clandestino. Non ebbe esitazioni nè tentennamenti anche se
ci si giocava il lavoro, lo status sociale di una famiglia perbene e la
libertà. Violava la legge, aiutando il nipote latitante, con lo stesso
buonumore e bonaria ironia con cui copiava gli esami quand’era
ragazzino.
In una occasione mi raccontò le istruzioni ricevute dal babbo
mimando la scena:
“Guarda Enzo ti scrivo l’indirizzo su questo pezzettino di carta, così se
ti prendono lo ingoi”.
“Alò Enrico oh unn’esagerare! Che vo’ ingoiare! E poi senz’acqua
come si fa?” gli ho detto e oh té, o ‘un se l’è messo in bocca e l’ha
ingollato davvero? E io a dirgli “o su Enrico occheffai? ‘un me far
paura, via!”.
Era ancora abbastanza giovane quando si ammalò di un tumore allo
stomaco e mi raccontarono che mentre gli iniettavano la morfina
aveva ancora la forza di dire ridendo che alla fine aveva voluto
provare anche a fare il drogato.
La zia Renata, sua moglie, lo seguì qualche anno dopo. Non avevano
avuto figli e tenevano a noi come ai loro bambini. Era una
“nostalgica” la zia Renata. Quando passò il fronte ed il loro paese era
ormai occupato dagli alleati, andò alla sede del comando per
denunciare la caduta di un aviatore nemico, come volevano le leggi
della Repubblica di Salò. Solo che l’aereo caduto era un caccia
americano di ritorno da un’incursione e gli ufficiali inglesi al principio
non capivano cosa gli stesse dicendo quella ragazzina. Per fortuna il
nonno Tito andò a riprendersela prima che la sbattessero in un campo
di concentramento.
Era una fascista strana mia zia, non sopportava i rossi ma mi regalava
i libri di Marcuse, approvava le manifestazioni del 68 e leticava col
macellaio prendendo le difese dei brigatisti rossi “Sono gli unici in
questo schifo di paese che almeno hanno il coraggio di lottare per
delle idee”.
Credo che quello che non sopportava era l’ipocrisia di un popolo che
aveva osannato il duce e che gli aveva sputato addosso da morto,
cosa non bella, certo. Non ho mai saputo darle del tutto torto.
Crocerossina, sempre indaffarata in opere di carità, fondatrice
dell’Ente nazionale protezione animali della sua città, volle che la
seppellissero con l’uniforme e mi mandò in regalo la medaglia che le
avevano dato in segno di riconoscimento. Era stata maestra anche lei,
anche lei benvoluta dalle centinaia di ex bambini che l’avevano
conosciuta sui banchi di scuola.
Quando il tumore prese il sopravvento non volle morfina sperando
che il cuore non avrebbe resistito troppo a lungo al dolore.
Fu un caso. Seguivo un corteo e una ragazza della mia zona, lontana
conoscente e compagna auto esiliata al nord mi riconobbe, mi
avvicinò, parlammo.
Lei e il suo collettivo erano cani sciolti. Cioè gente che partecipava
alle lotte di quartiere, alle assemblee in fabbriche e università ma per
conto proprio, non inquadrata in organizzazioni o strutture rigide e
definite. Nulla di strano, erano molti quelli che stavano imparando a
vivere senza strutture né discipline di partito. In collettivi di base,
comitati di quartiere, gruppi di affinità.
Nelle città in una notte potevano bruciare, saltare, finire a pezzi
decine o centinaia di agenzie immobiliari, succursali bancarie,
centraline telefoniche.
I giornali lo chiamavano terrorismo diffuso. Per noi era legittima difesa
contro il vero terrore fatto sistema.
Insomma lei era di un gruppo così. Che assisteva anche compagni in
fuga, ricercati. Li aiutava a trovare documenti, soldi, ne organizzava
l’espatrio. Cose del genere.
Quando le feci presente che non ero un rappresagliato politico rispose
che politico è chiunque lotti e si ribelli. Ce n’erano a migliaia in giro.
L’anno successivo alla mia evasione scapparono in più di trecento
dalle patrie galere.
Non erano carceri colabrodo, non più di quelle francesi tedesche
spagnole svedesi. Era solo più diffusa e intensa la volontà di esser
liberi.
Parlammo un po’ e mi disse che potevano procurarmi una carta
d’identità, portarmi in Svizzera. Da lì sarei potuto andare a Parigi. Ed
a Parigi qualcuno mi avrebbe aiutato a fare il gran salto in America
Latina. O in Libano. Sì, perché allora anche il Libano e la Palestina
rientravano nell’immaginario ribelle.
Dubitai. Ci stavo bene a Trieste, con quei compagni. Avevo un
contatto stabile con i miei attraverso un convento. Ma sapevo che non
poteva durare, che dovevo continuare a correre se volevo essere
sicuro, ragionevolmente sicuro di far perdere le tracce. E volevo
cominciare a lottare sul serio, a combattere e mi attirava l’idea di
luoghi e situazioni in cui tutto sembrava più chiaro e semplice, anche
se infinitamente più duro.
Allora le dissi di si, una sera a Venezia. Un appuntamento che
sembrava romantico. Due giovani che s’incontrano in una notte di
maggio e che camminano lentamente sui ponti, lungo le calli deserte,
nel silenzio. Che si fermano e si abbracciano e si baciano.
Non sapevo gran cosa di lei. Non parlammo delle nostre vite. C’erano,
ed erano molto più importanti, i sogni collettivi. Non l’avrei più rivista
e lo sapevo. Mi accompagnò al mattino a prendere il treno. Guardai
allontanarsi i suoi incredibili occhi viola.
Mi dettero un documento. Salii in macchina con un ragazzo che
chiacchierando mi portò al valico. Non ricordo nemmeno se i poliziotti
ci fermarono o ci dissero di circolare a gesti. Fu rapido. Niente di
solenne. Mi ritrovai in Svizzera, a Lugano. Andammo a mangiare in un
ristorante. Mi dettero i soldi che avevano portato in un’altra macchina
a scanso controlli e che avevano già cambiato in franchi svizzeri e
francesi. Mi accompagnarono alla stazione. Dovevo andare a Zurigo.
Lì due compagne mi avrebbero portato a dormire a casa loro ed il
giorno dopo avrei preso un altro treno per Parigi. Dove avrei trovato il
contatto che mi avrebbe fornito passaporto e destinazione definitiva.
A Zurigo però due ragazze che parlavano appena italiano mi vennero
a prendere alla stazione in macchina e poco dopo mi scaricarono
davanti a una pensione. “C’hai un documento vero?” Mi disse una.
Beh, per avercelo ce l’avevo ma non sapevo fino a che punto era
buono. Comunque prima o poi avrei dovuto provarlo. Nello
stabilimento era scritto tutto in tedesco: listino prezzi, informazioni,
indicazioni su per le scale, all’ingresso, dietro la porta della camera.
L’unico cartellino in italiano era al di sopra del minuscolo lavello
incassato in una parete della stanza: “vietato pisciare nel lavandino”.
Non dormii granché, doveva essere la zona di svago notturno perché
fino all’alba sentii voci di avvinazzati.
In piedi all’alba. La stazione era vicina. Feci il biglietto. Solo andata. A
Parigi. Era tutto strano. I suoni. I treni. Poi il paesaggio. Strano e bello.
Alla frontiera i poliziotti francesi dettero un’occhiata distratta alla mia
carta d’identità. Indicarono la mia valigia. La tirai giù dalla reticella.
L’aprii. Dettero un’occhiata dentro. Se ne andarono. Mi rimisi a
guardare il paesaggio. Chilometri e chilometri di pianura. Di campi
verdi, di boschi. Rare case, pochi paesini. Così diverso dalla mia
popolata terra dove le notti attraversate dal treno non sono mai del
tutto nere, con puntini di luce che si rincorrono e richiamano ovunque.
Gente che saliva e scendeva. Gente che parlava strano. Che vestiva
strano. Che guardava strano. Strani anche gli odori.
Ed infine Parigi. Polverosa stazione grigia, traboccante di folla,
valige, pacchi, fazzoletti, tonfi, fischi berci lacrime. Caldo.
Andai al bar della stazione e misi alla prova le mie nozioni di francese
faticosamente messe insieme negli anni delle medie. Certo che c’era
da immaginarselo che a fare dettati e ad imparare parole come canif
o parbleu non me la sarei poi cavata granché bene alla prova del
fuoco. Chiesi un bicchiere di latte e il cameriere me lo fece ripetere
tre volte, dopodiché chiamò il collega e tutti e due si misero a
gorgogliare qualcosa che poteva anche essere una battuta scherzosa,
ma l’espressione era ostile.
Rinunciai al latte. Uscii dalla stazione pensando a come organizzare la
sopravvivenza. Avevo qualche soldo ma dovevano durare. Entrai in
una boulangerie a comprare un po’ di pane ed a chiedere se per caso
sapevano di qualche stanza in affitto. I bottegai queste cose le
sapevano nei paesi. Certo che a Parigi magari era diverso. La padrona
era una bretona grassottella che non mi prese in giro per l’accento,
anzi. Mi disse che sapeva di una chambre de bonne al che le risposi
che una chambre de bonne sarebbe andata benissimo mentre mi
chiedevo fra me e me che cosa diavolo fosse. Mi accompagnò perfino
lasciando al comando del bancone la commessa. Suonò al
campanello, parlò con una portinaia. Capivo ben poco in tutto quel
chiacchiericcio pieno di suoni gorgheggianti. Come in una staffetta, la
portinaia prese il testimone e mi accompagnò fino ad un
appartamento del terzo piano. Salutai la fornaia ringraziandola. La
signora dell’appartamento, gentile, mi condusse a sua volta fino al
settimo piano.
L’affitto non era caro, però la stanza aveva le dimensioni di un
armadio a muro con un letto ed un tavolino incastrati dentro. Era una
mansarda sotto il tetto spiovente, potevi starci in piedi solo dal lato
della porta. Il gabinetto alla turca ed il lavandino erano in fondo al
corridoio. Per la doccia c’erano a nemmeno tre isolati di distanza dei
bagni pubblici.
Pagai. Rimasto solo iniziai la cerimonia della trasformazione di uno
spazio sconosciuto in casa, rifugio. Nel mio caso secondo la
terminologia mediatica in uso all’epoca, covo.
Tirai fuori dalla valigia le mie cose: radiolina, un paio di libri, una
caffettiera, vestiti che, piegati e risistemati nella valigia, piazzai sotto
il letto. Un libro, la radio e un quaderno sul tavolino. La caffettiera sul
fornellino a gas giusto dietro la porta. La sera l’avrei preparata e
messa accanto alla branda. Un’abitudine che avevo preso in carcere.
L’altro libro sul letto. Appiccicai due o tre fotografie spiegazzate sul
muro. Feci un cuscino con il giaccone ed un asciugamano. Preparai il
letto, legando i capi delle lenzuola sotto il materasso di gomma
schiuma perché fossero belle tese. Casa.
Dopo qualche sforzo riuscii ad aprire il lucernaio e mi affacciai su di
un paesaggio di tetti grigi, tante finestre, un cortile, la punta di un
grattacielo, la Tour de Montparnasse, ed un cielo ora grigio e carico,
asmatico. Richiusi e mi sdraiai sul materasso con le mani intrecciate
dietro la testa, lo sguardo sul soffitto.
Mi svegliai il giorno dopo, tardi. Con nel cervello una ridda di cose da
fare. Mi presi il caffè, bollente. Scalzo in mutande e con lo spazzolino
in mano barcollai fino al gabinetto sfilando davanti ad una serie di
porte che la sera prima non avevo nemmeno notato. Una si aprì e
sulla soglia apparve una ragazza alta e sottile con una massa di
capelli rossi che frinì qualcosa in risposta al mio ciao.
In programma c’era la visita al contatto. L’indirizzo era in un taschino
interno dei pantaloni. Cifrato. Ma prima avevo bisogno di una doccia.
Scesi i sei piani di scale di legno scricchiolante, gagliardo. La portinaia
mi spiegò a gesti dove erano i bagni pubblici. Mi aspettavo una specie
di terme romane o di bagni turchi. Delusione. Erano solo una serie di
cabine con un mini spogliatoio e una doccia. Simili, ma più disadorni,
dei bagni comuni che avevamo alla stazione quando ero ragazzo, due
anni e una vita prima. Uno per i capistazione. L’altro per i cantonieri.
L’acqua si scaldava in una caldaia a legna. Era un luogo spazioso e
accogliente, soprattutto d’inverno. Mi piaceva andarci, anche quando
installarono una vasca da bagno in casa.
Feci comunque la doccia. Avevo bisogno di sciacquarmi via di dosso la
sporcizia ed il sudore del viaggio, dello smog cittadino, del sonno.
Erano pochi franchi, ti davano un asciugamano pulito. Uscii alla
ricerca di una cartina della città. Non fu facile capire dov’ero e poi
individuare il quartiere dove abitava la persona che cercavo. Era a
nord. Dall’altra parte. Dovevo prendere la metropolitana. Un altro
mondo sconosciuto. Mi ci avventurai. Ristetti un po’ a guardare
cartelli, cartine, indicazioni finché non pensai di aver capito come
funzionava. Chiesi un biglietto. Di che tipo? Un biglietto, cazzo. No,
non da turista, non abbonamento settimanale, non un ridotto per
famiglia numerosa, né uno scontato per militari. Un biglietto.
Entrai. Di nuovo suoni, odori, colori nuovi. Tanta gente. Avevo
imparato ad annusare la paura negli altri e lì dentro ce n’era mica
male. Paura dei blouson noir, degli arabi, dei poliziotti, dei nazirazzisti,
e anche la paura d’arrivar tardi, o di non farcela ad arrivare a fin di
mese.
Sbucai alla fine, salendo su delle scale - oh meraviglia! - meccaniche
in mezzo ad un’altra città. Arabi, neri, mulatte, torme di bambini,
vocio incomprensibile, musiche dell’altra parte del mediterraneo,
aromi buoni di cose da mangiare mai assaggiate. Cercai la via. La
trovai. Salii su per delle scale strette, incrociando sguardi diffidenti.
Bussai alla porta. Dallo spioncino un occhio mi chiese chi ero.
Bofonchiai il nome di chi mi mandava e una specie di parola d’ordine.
La porta si aprì. Era una ragazza. Biondina, caruccia. Chiamò un
nome, senza aprire del tutto la porta. Arrivò un bel ragazzo arabo. Mi
chiese cosa volevo. Non era cosa da discutere sul pianerottolo, cercai
di dirgli. Ma lui rispondeva svelto ed io capivo la metà. Ripetei il nome
del contatto ed alla fine dissi che volevo andare in America latina o in
Libano, a imparare a combattere. Mi disse che avevo sbagliato
indirizzo e mi chiuse la porta in faccia.
Già proprio così, volevo andare a combattere in America Latina o in
Libano. Nei diari che riempivo ogni giorno con una scrittura a zampa
di gallina, scrivevo allora cose come “Non credo più nel comodo mito
della neutralità. Fin dove si estende la morsa del dominio, ovunque la
norma e la normalità si fondino sulla divisione in classi, sullo
sfruttamento di tutto lo sfruttabile, sulla logica del massimo profitto
non esiste istituzione, organismo, pratica sociale che non sia
inquinata fino al midollo”. Allora sentivo così. Oggi pure, solo che mi
esprimerei altrimenti.
E soprattutto oggi non farei più lo sbaglio di pensare che i nemici dei
miei nemici siano sempre e comunque miei amici.
Come il Khomeini che era in quei giorni ai miei occhi ed a quelli di
tanti il personaggio mitico che sfidava la prepotenza imperialista
yankee. Un simpaticone. Finché non vidi su Liberation le foto di
militanti curdi legati davanti a delle mitragliatrici, fucilati a grappoli.
Finché non mi stufai di vedere alla televisione, giù al bar, cortei di
donne isteriche coperte di nero. Finché non mi spaccai le palle di
sentir inneggiare ad Allà ed alla sua infinita potenza e tutte le cazzate
che mi rimandavano agli anni stupidi del catechismo.
Furono mesi e mesi di bohème. Latitante bohemien, suonava bene.
Imparai molte cose... Per esempio che quando un omosessuale ti
faceva delle avances per la via o in un bar non c’era bisogno di
rompere una bottiglia e di minacciare di sfregiarlo, bastava dirgli di
no. Imparai a fumare ed a rollare canne. Mi piaceva imparare.
Mi piaceva la città. Presto vi tracciai i miei percorsi. Le abitudini e gli
appuntamenti che servono a scandire e disciplinare una giornata. I
musei avevano giorni di visita gratuiti. E una volta alla settimana
bighellonavo su e giù per le immense sale del Louvre. Seduto a
rincorrere ricordi e pensieri davanti alla Gioconda o a quadri di Tiziano
o a misteriosi reperti egiziani. A Notre Dame suonavano l’organo la
domenica.
La Carte Orange serviva per un numero illimitato di viaggi ed io
passavo ore, in autobus, ad esplorare la città dai finestrini. C’erano
parchi dove passeggiare, sedere sulle panchine, leggere.
C’erano i quais, i bouquinistes. Le Halles, il vecchio mercato centrale
che era stato demolito ed al cui posto si apriva il grande buco in cui
proprio allora stavano girando Touche pas a la femme blanche, uno
strampalato film di culto.
C’era il recentemente inaugurato Georges Pompidou, dove trovavi
manuali per fabbricare esplosivi e dove potevi trascorrere pomeriggi
interi a leggere in santa pace fumetti o classici russi.
Nella zona delle Halles m’incantavo spesso davanti a una botteguccia
di robivecchi dalla vetrina antica e polverosa in cui erano esposti dei
topi enormi, grandi come conigli imbalsamati. Catturati quando era
stato sventrato l’antico mercato. In un altro minuscolo negozio faceva
bella mostra di se una testa rimpicciolita dai Jivaro. Era mummificata.
Le palpebre e gli occhi cuciti con uno spago grossolano.
Anche a Parigi arrivava l’onda lunga del movimento italiano. Il fior
fiore della intellighenzia francese pubblicò un manifesto contro
l’attacco alle libertà che stato e poteri paralleli portavano avanti in
Italia. La goccia che colmò il vaso della sensibilità democratica di
Deleuze, Foucault e compagnia fu il processo del 7 aprile, la cui
impalcatura era tutta tesa a dimostrare che dietro ai movimenti di
fabbrica e di piazza ed alle organizzazioni armate c’era una sola regia.
Processo diventato celebre grazie al cosiddetto teorema Calogero.
Secondo il disinvolto ragionamento di quel Pubblico Ministero,
membro di “Magistratura Democratica”, se tu hai gli stessi obiettivi di
un gruppo armato, sei gruppo armato, anche se quelli delle
organizzazioni clandestine manco li conosci e non hai preso mai una
fionda e tantomeno una pistola in mano.
Molti dei processati del 7 aprile si rifugiarono a Parigi, e vi rimasero
più o meno indisturbati grazie alla parola data da Mitterand. Perché i
francesi c’hanno anche questo di strano: presidenti ed istituzioni che
onorano i loro impegni.
Gruppi di ragazzi, nelle università e nei quartieri, emulavano i loro
molto più numerosi ed organizzati compagni dell’autonomia italiana.
Si trovavano a Jussieu. Ogni tanto partivano in una manifestazione
offensiva. Qualche molotov che bruciava male. Qualche vetrina in
frantumi. Scontri con la polizia. Nell’aula magna dell’università
pestarono un pomeriggio con catene da moto due tecnici di un ufficio
che avevano seguito il gruppetto di ragazzi che gli avevano spaccato
tutti i computer.
Mi muovevo ed agivo da solo. Scritte sui muri. Qualche piccolo
sabotaggio. Una macchina bruciata. Vetrine spaccate con ordigni
confezionati alla meglio che a volte scoppiavano e a volte no. E poi, in
disparte, cortei, presidi, occupazioni di facoltà.
Mi aggiravo con cautela per la città fra fiumi di facce grigie, di sguardi
spenti. Di automobili incolonnate. Camminavo molto nel lento
avanzare d’immensi blocchi di cemento o pietra punteggiati rivestiti
di vetro e metalli. Nello scorrere di luci urlanti, di richiami ipnotici.
Rumori ovunque. Acuti penetranti laceranti. Ovattati nella neve o la
nebbia come nella pianura dov’ero nato. Assistevo all’esibizione di
ricchezza abbondanza spreco e di miseria solitudine degrado. La
metropoli era un gigante che si vomitava addosso.
Ma era facile scomparire in quel caleidoscopio di umanità diverse
Parigi. Crogiolo di classi razze età culture accenti modi di vivere.
Cercai di raggiungere per telefono i compagni che mi avevano dato il
contatto. Non fu possibile. Il collettivo si era disperso e due erano stati
arrestati.
Non potevo tornare. Né andare altrove, con una semplice carta
d’identità. Di nuovo attesa. Condita di stanchezza, paura, amarezza,
solitudine. Non peggio della galera, pesante comunque. Bocconi sul
letto ad ascoltare la radio, decifrando con pazienza i suoni sempre
meno strani che ne uscivano. O seduto sotto un platano nel parco
delle Tuileries. Pensavo ai miei, alla vita da ragazzo che avevo
lasciato indietro.
Giorni, settimane e poi mesi a deambulare sotto il cielo, i tetti neri
delle case, le facciate dei palazzi. Nei parchi rallentavo il passo lungo i
vialetti coperti di ghiaia o mi sedevo su di una panchina a respirare
immagini, odori e suoni. Le foglie, i fiori, l’acqua di una fontana. Passò
un autunno magnifico di colori, silenzi, alberi lucenti di pioggia, cerchi
disegnati dalle gocce sullo specchio di uno stagno.
Mi ero iscritto ad una biblioteca di quartiere. Una ragazza carina e per
nulla curiosa mi aveva dato la tessera dopo avermi chiesto
semplicemente il nome. Presi l’abitudine di portarmi sempre un libro
dietro quando uscivo. Sei molto meno sospetto se porti qualcosa di
inoffensivo o banale in mano: anche una cartellina, uno sfilatino, un
sacchetto della spesa, un giornale. Un libro ti aiuta a mantenere un
atteggiamento normale, disteso quando ti avvicini a dei poliziotti che
quando ti guardano non sai mai cosa fare con le mani: se le metti in
tasca possono scattare sul chi vive, se le fai ciondolare troppo, se ti
gratti o fai un gesto qualsiasi dai nell’occhio.
Lo stesso per lo sguardo: se li fissi è provocazione, se lo scosti troppo
è timore. Con un libro in mano invece ti puoi fingere assorto in un
passaggio particolarmente interessante. E puoi anche sollevare lo
sguardo a fissare un punto proprio al di sopra della testa di chi ti
guarda. Non è sfidante ed esprime calma e sicurezza. Di solito
funziona.
Cercai lavoro ma non era facile, per la lingua, per i controlli e perché
non sapevo far nulla di concreto. Facevo durare i soldi dei miei
spendendo il minimo indispensabile: l’affitto, la carta orange, pane,
latte e riso, formaggio e un po’ di frutta. Ogni tanto andavo a
prendere un caffè, tanto per sentire un po’ di calore umano e,
d’inverno, semplicemente calore.
E fu in un caffè che conobbi la May, una moretta graziosissima che mi
si avvicinò, si presentò, si complimentò per il mio stentato francese e
poi, oh delusione, mi chiese se volevo bere qualcosa con lei ed il suo
compagno. Simpatica coppietta parigina, anche lui un bel ragazzo,
biondo e sorridente. Parlammo del più e del meno, loro con accento
da parigini puro sangue ed io inciampando ad ogni pie sospinto su
fonemi e sintassi. Alla seconda birra lui andò alla toilette e lei
semplice e diretta mi chiese se volevo fare un ménage a trois. Lì per lì
non afferrai il concetto e poi le dissi che spiacente ma che avevo un
grosso problema personale, dei traumi e cose di questo tipo, che mi
impediva di envisager contatti omosessuali. D’altra parte con lei ...
Non se l’ebbero a male e diventammo amici. I primi amici che avevo a
Parigi. Mi invitarono a casa loro, uno studio immochettato pieno di
cuscini, di poster e di odore d’incensi, ed un sabato anche dai genitori
di lei. Un’agiata famiglia ebrea, con un padre colto e cordiale, che a
tavola rifilò una kipa a me e a Francis ignorando le battute
sarcastiche della May.
Fu con loro che mi drogai per la prima volta. Beh, per me, educato
nella rigida morale di paese, prima cattolica e poi comunista ed infine
cattocomunista, fumare uno spinello era drogarsi. Ma con quei due mi
sentivo sicuro, seduto per terra su cuscini, ad ascoltare musiche
nuove. Pink Floyd, Moustaki, Alan Stivell, Jacques Brel, insomma
nuove per me. L’esperienza non fu così sconvolgente come avevo
temuto. Mi sentivo solo un po’ diverso e di ritorno alla mia tana, a
notte fonda, io che di notte non uscivo mai per norma di sicurezza (di
notte c’è meno gente, i controlli sono più frequenti, meno possibilità
di confondersi fra la folla, i poliziotti più tesi e sospettosi) affrontai la
strada senza paura, con l’animo leggero. Se questa era la droga ben
vengano le droghe, pensai.
Il mio francese migliorava e mi sentivo più a mio agio nel muovermi
per la città. E conobbi il Joan, in una fila all’ufficio di collocamento.
Veniva dalla Catalogna, cosa molto esotica, dato che nemmeno
sapevo che esistesse un paese chiamato così, e che mi introdusse nel
suo giro di studenti stranieri, a Parigi per specializzazioni varie.
Facevano la bohème pure loro, anche se più d’uno viveva, lusso
inaudito, in appartamenti dotati di doccia. E non erano ricercati dalla
polizia.
Rientrai a far parte di una comunità. La solitudine mi pesava meno e i
pomeriggi e le notti si accorciavano in quelle riunioni in cui si cenava,
fumava, chiacchierava in un misto di francese, spagnolo, catalano,
italiano. Si organizzavano pasti in comune a spese del supermercato
accanto, ci si procuravano biglietti gratis per cinema e teatri o si
escogitavano trucchi, come entrare passando dalle uscite
d’emergenza, si scambiavano libri requisiti in grandi librerie, si
falsificavano abbonamenti e una vasta gamma di tesserini che ti
permettevano di frequentare le mense dell’università, delle poste,
delle ferrovie, si facevano circolare informazioni su posti liberi in case
occupate, su ospedali dove ti assistevano senza fare troppe domande,
su telefoni pubblici guasti da cui chiamare gratis all’altro capo del
mondo. Così riuscii anche a parlare con il babbo che andava a fare
volontariato ogni pomeriggio in un centro assistenziale cattolico.
Anche se era improbabile che controllassero quel numero non
chiamai più di due volte.
E finalmente traslocai dalla mia mansarda in una stanza di un
appartamentino a Gentilly, proprio dietro la città universitaria, con i
suoi giardini, le frotte di coetanei spensierati o afflitti da
preoccupazioni che invidiavo, la tetra sagoma della casa della
Cambogia, chiusa un paio d’anni prima dopo una rissa in cui era
rimasto ucciso un ragazzo.
Una foto. È un uomo col passamontagna, piegato in avanti impugna
una pistola, le braccia tese, puntandola contro un nemico che non si
vede. È in mezzo a una strada, sullo sfondo c’è fumo, altre sagome,
disordine urbano.
Un’altra: un ragazzo salta, esultante, sorride con un sorriso da
bambino gioioso, alle sue spalle qualcosa brucia.
Erano le immagini che arrivavano dall’Italia. Nelle manifestazioni di
massa si rispondeva al fuoco della polizia. Bruciare gipponi della
celere a colpi di molotov era motivo di gioia. La rivoluzione era
giovane, bella, incazzata e felice.
Un paio di mesi e cambiai di nuovo indirizzo. Un grande appartamento
a Place d’Italie, pieno di brasiliani. Guru, chiamato così per
l’incredibile faccia da santone indiano, era il titolare del contratto
d’affitto e primo abitatore dell’alloggio e, quindi, una sorta di padrone
di casa. Piante che circondava di premure e attenzione occupavano
rigogliose tutti gli angoli luminosi della casa. Aveva una trentina
d’anni, forse di più, sempre di buon umore, con le sue camicie dai
colori sgargianti e svolazzanti (mi piacciono le camicie grandi e le
donne minute, diceva) ma ogni tanto doveva sommergersi nella vasca
da bagno con acqua calda e sale per lenire i dolori. Non erano
reumatismi. Era di un gruppo armato marxista, quasi tutti studenti,
cittadini. Lo presero, torturarono selvaggiamente e rilasciarono:
volevano che gli altri, che tutti sapessero cosa succedeva a chi
cadeva nelle loro mani. Aveva cicatrici su tutto il corpo, anche da
arma da fuoco. Non parlò mai delle torture. Ne ho conosciuti altri che
hanno subito questa esperienza. Non ne parlano, come le donne
stuprate. Sono dimensioni assolute, inspiegabili. Potere, dolore,
umiliazione, disperazione assoluti. Terrore vero.
Il Guru era scappato dal Brasile e si era rifugiato in Cile. Poco prima
del colpo di stato di Pinochet. Si ritrovò allo stadio di Santiago.
Ricordato dai sopravvissuti come quello che dopo due giorni alle
intemperie e senza mangiare, durante la distribuzione di un
minestrone si alzò fra le grade e tirando fuori una rachitica ala di pollo
dalla sua gamella chiese se qualcuno la voleva perché lui era
macrobiotico.
Non so come, uscì dallo stadio e riuscì ad ottenere lo status di
rifugiato politico in Svezia. Dalla Svezia arrivò a Parigi. Dove si
guadagnava da vivere facendo le pulizie in supermercati ed uffici.
Quando i dolori glielo permettevano.
Nell’appartamento abitavano altri brasiliani, esiliati anche loro, uno
senza documenti ed a perenne rischio d’espulsione. Telefonavano
solo da cabine, scrivevano numeri e indirizzi su cartine da sigarette,
usavano nomi di guerra, per strada controllavano sempre che
nessuno li pedinasse, evitavano di parlare delle loro storie in casa o in
locali chiusi.
E poi due o tre volte alla settimana organizzavano festicciole che
finivano regolarmente con la polizia che bussava alla porta, chiamata
da qualche vicino che doveva alzarsi la mattina alle sei e che non
amava la samba.
E allora sulla soglia il Guru, spalleggiato da qualche ragazza ubriaca
sfatta, assicurava agli agenti che non si sarebbe fatto più rumore, che
quella era l’ultima volta e tante scuse per il disturbo.
Insomma non era il posto più adatto per un latitante. Del resto il
sodalizio stava per sciogliersi. C’era stata l’amnistia in Brasile e,
contro ogni previsione, c’erano rientrati tutti, Guru compreso.
Prima di partire mi raccontò la sua storia ed anche di che cosa era
stato accusato. Un agguato ad un ufficiale dell’esercito. Nel conflitto a
fuoco lo avevano ferito. Non aveva una buona mira cosicché
l’ufficiale era sopravvissuto e a lui era andata come già sapevo. Mi
dette un indirizzo. Che persi.
C’era una ragazza che lasciava la sua chambre de bonne nei pressi
del Pere Lachaise. Mi piaceva camminare lungo i vialetti di quel
cimitero e la andai a trovare. La Margot era infermiera in uno dei
grandi ospedali parigini, ma aveva deciso di andare per qualche mese
in Ogaden con Medecins sans Frontières. Non mi raccontò della sua
vita mentre faceva il tè, ma dei feriti, dei vecchi, dei malati che
doveva curare. Sospettava che i clochard più anziani ricoverati
venissero utilizzati come cavie umane, per sperimentare certe nuove
tecniche e quando una mattina seppe che ne era morto uno a lei
particolarmente caro presentò una denuncia. La trattarono da pazza,
la denuncia venne archiviata, e poco tempo dopo la sanzionarono per
aver cercato di scassinare l’armadio dov’erano chiusi gli oppiacei per
prendere morfina. Una donna stava morendo fra dolori atroci e il
medico si era dimenticato di firmare l’autorizzazione. Insomma aveva
deciso di andarsene e di lasciare l’appartamento e tutto il resto.
Sarebbe tornata, non sapeva quando.
La rividi qualche mese dopo. Carica di frustrazioni ed impotenza. Nei
campi profughi aveva visto i camion dono della cooperazione
internazionale portare via i ragazzi e gli uomini considerati idonei alla
guerra. Attrezzi agricoli regalati a una popolazione nomade che
considerava l’agricoltura attività più ignobile della prostituzione.
Donne che ridevano o si arrabbiavano quando le cooperanti
imboccavano i figli più deboli, abbandonati alla loro sorte. Carichi di
bibbie da distribuire ad analfabeti animisti.
Tornò e scoprì che sul suo conto c’era un bel gruzzolo, lo stipendio
versatole dalla ONG. Erano soldi che non voleva. Era una che di soldi
non ne voleva mai, trovava sempre qualcuno o qualcosa che secondo
lei ne aveva più bisogno. Li offrì a me, che non li accettai ed alla fine li
regalò a uno che aveva conosciuto per strada.
Faceva lo stesso con il proprio corpo. Era carina e trasandata e spesso
gli uomini la utilizzavano e poi la lasciavano, magari con qualche
malattia venerea.
Da bambina suo padre l’aveva stuprata. Non lo odiava. Se n’era solo
andata, sedici anni appena compiuti, dal miserabile patelin in cui era
nata. Ma non era una persona triste.
Quando, già nel Midi le scrissi che avevamo avuto una figlia ci venne
a trovare, carica di regali. Ci scambiavamo lettere. Un giorno mi
scrisse che aveva un ragazzo, che lavorava in un ristorante. Una vita
normale. Le stava bene così. Poi un ultimo messaggio. Il suo
compagno si era suicidato. Si faceva d’etere imbevendo un batuffolo
di cotone ed aspirando finché non sentiva che il cervello diventava
una specie di groviera pieno di buchi. Non le risposi subito. Non
sapevo cosa dirle. Quando infine la cercai mi dissero che era partita e
nessuno sapeva per dove.
Passavano i mesi ed i soldi dei miei, anche se spartanamente
razionati, non potevano durare eternamente. Non avevo molta
scelta: lavoro nero o furti e rapine.
Feci il mio primo tentativo di vero furto durante un breve soggiorno in
Normandia. Mi avevano prestato una tenda che avevo piantato in un
campeggio vicino ad un paesino sulla costa. C’era un commissariato,
in una palazzina isolata. Di notte i poliziotti se ne andavano a dormire
a casa e il locale restava incustodito. La mia formazione in materia si
limitava ai racconti sentiti in carcere, a libri gialli e film d’azione.
Studiai la zona, gli orari, i punti d’attacco. Mi procurai un paio di
sacchetti di plastica da infilare ai piedi per non lasciare orme, guanti
di gomma rosa da massaia – c’erano solo quelli nel supermercato del
posto -, un grosso cacciavite, colla, una lampadina. Una notte
burrascosa mi arrampicai fino al balcone del primo piano.
Impiastricciai un vetro con la colla. Ci appiccicai un cartone. Detti un
colpetto. Niente. Il vetro al rompersi sarebbe dovuto rimanere
attaccato al cartone e invece al terzo colpo andò giù tutto con un
fragoroso tintinnio. Dei cani cominciarono ad abbaiare. Saltai giù,
pancia a terra in un’aiuola, fra petunie e gerani. Aspettai. I cani si
calmarono e risalii fino alla finestra rotta. Aprii girando la maniglia
dall’interno ed entrai. Spalancai porte, armadi e cassetti trovando un
mucchio di scartoffie, macchine da scrivere e qualche spicciolo.
Alcuni cassetti erano chiusi a chiave. Cercai di forzarli con il
cacciavite, forse dentro c’erano armi o documenti. Il cacciavite si
spezzò. Era tardi per andare a cercare attrezzi da scasso. Mi venne
l’idea di dar fuoco a tutto. Era un edificio isolato, non c’era rischio per
nessuno ed io con la polizia, tutte le polizie, ero in guerra.
In un bagno scovai una bottiglia d’alcool con cui cosparsi carte,
archivi, scrivanie. Mi frugai in tasca. Non c’era l’accendino. E
nemmeno una scatola di fiammiferi in tutto il commissariato.
Riscavalcai il davanzale. Richiusi la finestra. Saltai giù. Prima di
rientrare sotto la luce dei lampioni mi tolsi i guanti rosa da massaia.
Di ritorno a Parigi mi misi d’impegno alla ricerca di lavoro. Ore di
metropolitana fra spinte gomitate e malumore collettivo. Ore di fatica.
Il ritorno su per le scale interminabili fino alla branda e dormire,
meglio se senza sogni, fino al mattino successivo. E ricominciare.
Metro, boulot, dodo, era la formula “metropolitana, sgobbo, nanna”
che guidava la vita della gente.
Erano lavori di merda. Pagati di merda e con la cantilena di
sottofondo “se non ti sta bene quella è la porta e fuori ce n’è una
decina che aspettano”. Ed era vero.
Lavare piatti, scaricare casse, distribuire propaganda, fare traslochi,
sorvegliare bambini. In compagnia di immigranti, studenti, giovani
disadattati, hippies.
Arrivammo un po’ tardi una mattina e c’erano i TIR parcheggiati fermi
in lunghe file e la gente era seduta immobile sui piani caricatori o a
formare capannelli silenziosi. Antoine, un veterano, un fascio di
muscoli di 50 anni era rimasto intrappolato pochi minuti prima fra il
cassone del camion ed il muretto di carica. L’autista non se n’era
accorto. Gli aveva spappolato il torace ma era forte e aveva resistito
fino all’ospedale.
Non era la prima volta che succedeva. Presi i miei guanti, il cartoccio
con la colazione e me ne andai. Non si poteva morire così, schiacciato
come uno scarafaggio, senza un perché accettabile che non fossero
quei quattro soldi con cui far vivacchiare la famiglia. Assurdo. Assurdo
dire “che disgrazia” nel restituire un mucchietto di carne fredda alla
donna, nel buttare due secchi d’acqua sul sangue raggrumato per
terra.
Un’altra foto. Consegna delle medaglie dei Giochi della Gioventù,
alle scuole medie. Io spavaldo, le mani sui fianchi, con la medaglia
d’oro. Il Nanni, al secondo posto, sul podio rimediato alla meglio con
cassette e sgabelli, piega la testa per scansare il mio gomito.
Eravamo nella stessa classe alle elementari. Coi capelli corti, il
grembiulino sfilacciato sui polsi, era “un bravo bambino, non dà noia,
si applica, però allo studio non c’è proprio portato”. E comunque il suo
avvenire era già tracciato. Finita la scuola dell’obbligo c’era l’officina
meccanica. Cioè sessanta ore alla settimana, i lavori più pesanti, gli
urlacci del padrone ed a mo’ di salario qualche spicciolo per andare a
ballare il sabato. Non so nemmeno se ci andasse a ballare il Nanni.
Era agosto ed una bombola di gas esplose e lo arse vivo. Non aveva
nemmeno sedici anni e non fu colpa di nessuno. Fu una disgrazia.
Come quella che portò via il babbo alla Tina. Abitavano accanto alla
stazione, negli alloggi per i lavoratori della ferrovia. Lui era un
cantoniere, un uomo bonario che stravedeva per la sua unica figliola e
che andava al bar a fare una partitina a carte solo la domenica dopo
pranzo. Chissà cosa stava pensando quel giorno, quando salì sul
traliccio e toccò il filo sbagliato e sussultò e si annerì finché non
riuscirono a staccarlo. Quando lo composero nella bara con il suo
vestito buono gli misero due monete sugli occhi. Forse un’antica
usanza, l’obolo che il defunto paga a Caronte. Una delle donne che
avevano lavato il corpo si era sentita male.
Li chiamavamo omicidi bianchi. Chissà cosa ci vedevamo di bianco in
corpi carbonizzati o sfracellati, in arti maciullati, nello sputo dei malati
di silicosi, nei tumori che divoravano le vittime delle “fabbriche della
morte”.
Ripresi a passeggiare di notte. Non potevo dormire, i pensieri mi si
affollavano in testa e pigiavano e si spintonavano come in un vagone
della metropolitana. Mi piaceva la notte. Il silenzio. Anche se ora c’era
sempre la paura.
E m’imbattei nel primo controllo d’identità. A pochi passi da casa mi si
affiancò una macchina scura. La via era deserta, solo un ragazzo
negro a una sessantina di metri che camminava sul marciapiede
opposto. La macchina si fermò davanti a me, si aprirono di scatto gli
sportelli e saltarono tre brutti ceffi. Mi misi con le spalle al muro e
mentre cercavo una via di fuga con la coda dell’occhio vidi il negro
che girava sui tacchi. Dietro i tre spuntò un poliziotto in divisa,
volevano i documenti, volevano sapere chi ero, dove andavo, cosa
facevo. Avevo la carta d’identità falsa e mentre l’esaminavano uno
dei quattro si rese conto della manovra del ragazzo che si allontanava
a passo spedito e, al grido, le noir, là bas, le noir, buttarono in terra
tutto quello che avevano trovato nelle mie tasche e si lanciarono
all’inseguimento ululando.
Rientrai nella mia stanza.
Di giorno però non rinunciavo ad uscire. Frequentavo librerie
anarchiche, andavo a lezioni a Jussieu o a Vincennes, l’università
ghetto, astuta mossa del governo francese post sessantottino:
facciamo un bel campus a una settantina di chilometri dalla città, in
mezzo al bosco, ci mettiamo i professori più rompicoglioni che a loro
volta attireranno gli studenti più spacca cazzo e così se la vedranno
fra di se, tanto poi se vogliono arrivare a Parigi per fare cortei e
casini vari gli tagliamo la strada ed è fatta. Era passato poco tempo
ma l’espediente funzionava di già, con le file di pusher a spacciare
accanto ai cancelli e parecchia gente che frequentava solo per il voto
politico. Ma c’era comunque vivacità, gente d’ogni tipo, esperienze
d’ogni dove.
Una delle librerie che mi attiravano di più era gestita da un gruppo,
Marge, composto secondo loro da ladri, drogati e puttane. Che
sapevano recitare a memoria “I fiori del male” e citare i classici della
letteratura francese o russa. Li conobbi ad una conferenza di Umberto
Eco, venuto a dissertare sui nuovi linguaggi. La sala era gremita dai
soliti italiani di sinistra in trasferta fra cui spiccavano diversi elementi
dai vestiti stazzonati ed espressioni truci che pensavano e dissero che
ci voleva coraggio a teorizzare e disquisire accademicamente mentre
i soggetti d’analisi e disquisizione erano perseguitati, incarcerati,
malmenati e ogni tanto accoppati.
Nemmeno il mio intervento fu all’altezza della conferenza, ma
l’allusione ai compagni di Radio Alice, del 7 aprile e delle
organizzazioni armate destò l’interesse di alcuni dei presenti in
servizio. Al grido “fuori gli sbirri bastardi” si scatenò una parapiglia.
Uno spilungone con giacca di cuoio nera sdrucita e capelli lunghi neri
arruffati mi accompagnò all’uscita, mi dette un volantino e mi disse
che se volevo li potevo contattare alla libreria X. Ci andai, facevano
una rivista. Vivevano in comunità. Mi piacevano.
Una delle loro attività preferite era seguire le apparizioni in pubblico
di Bernard Henry Levi, giovane esponente della corrente cosiddetta
dei Nouveaux Philosophes. In una conferenza che il nostro faceva al
Georges Pompidou li accompagnai. Fu divertente, il Bernardo
dell’epoca, beau garçon, sempre attento alle telecamere, si vide
sequestrare il microfono da un tipo mingherlino dagli occhi spiritati e
il maglione troppo largo che fra un brano di Rimbaud e una citazione
di Marcuse spiegò che non se ne poteva più di vedere come
monopolizzavano la parola sempre gli stessi prodotti del mercato
culturale e che coi microfoni bisognava cominciare a fare un po’ per
uno. E mentre si passavano il micro l’uno all’altro e l’offrivano a chi
avesse qualcosa da dire, in sala scoppiavano i battibecchi, si
accennavano zuffe e si scoprivano affinità. Come la bionda
spettacolare in abito da sera che proclamò in piedi in mezzo alla sala
che lei, come donna, come ebrea e, soprattutto, come donna ebrea
non ne poteva più di quel mondo di falsa cultura mercantilizzata e
“forza ragazzi diamogli addosso a tutta ‘sta merda”.
Un altro ebreo che non ne poteva più di quella società ipocrita e
vigliacca era stato ammazzato a Parigi poco prima, abbattuto da tre
sicari in pieno giorno, in mezzo alla folla. Il delitto venne rivendicato
da una organizzazione denominata Honneur de la police. Si chiamava
Pierre Goldman, ed aveva scritto due libri. Il primo era una
autobiografia: ebreo polacco nato in Francia, figlio di un partigiano,
era stato attivo in diversi gruppi di estrema sinistra e partecipato a
una guerriglia in America latina. Di ritorno in Francia cominciò a fare
rapine. Lo avevano catturato. Accusato di due omicidi. Senza prove.
Divenne un caso che richiamava quello del Dreyfus. Nel comitato di
appoggio c’erano la Simone Weil, Sartre. Rischiava la condanna a
morte. In primo grado ebbe l’ergastolo. Poi la cassazione riaprì il
processo, venne prosciolto dalle due accuse di omicidio ma
condannato a dodici anni per tre rapine. Scarcerato, scrisse un altro
libro. Un romanzo carico di odio nei confronti della polizia, della
magistratura, di tutte le istituzioni repressive. Dicono che volesse
organizzare una rete di sostegno armato ai baschi dell’ETA contro la
struttura che la polizia spagnola stava mettendo su ricorrendo a
delinquenti della mala marsigliese. Dicono che lo ammazzarono per
questo. Non hanno mai trovato gli assassini.
I suoi libri erano una rarità e quando riuscii a scovarne un esemplare
in una specie di centro sociale mi sentii pure trattare da avvoltoio da
un allampanato capellone “quand il etait vivant vous en foutiez de lui,
tous! Et maintenant c’est la mode!”.
Nonostante i tic da straniero che come tutti avevo e che spingono ad
attribuire al posto in cui stai, alle sue genti, le cause dei tuoi disagi,
malesseri, sofferenze, -in fondo li accusi di non essere come te, come
la terra che hai lasciato, per poco o per sempre-, cominciavo ad
amare Parigi. Ad amarla sul serio. Di quegli amori impossibili che ti
fanno star male perché sai che non sono corrisposti o che non
potranno durare.
C’era gente meravigliosa, mi piacevano i colori dei loro vestiti, la
diversità stupefacente, la bellezza di corpi e volti di mille espressioni
frammista alla mostruosità di facce come maschere. E mi piaceva la
città, punteggiata di angoli fatati, di quartieri incantevoli, come Le
Marais. Con la moltitudine di bar, locali. Le boulangerie che
emanavano fragranze deliziose.
Perfino i suoi militanti clandestini erano diversi. Ne volli conoscere
alcuni che erano stati amnistiati qualche tempo prima.
All’appuntamento avrei dovuto riconoscere il contatto dal giornale che
avrebbe portato sottobraccio. Originali. Arrivai in anticipo, scovai un
tavolino di un caffè con una bella panoramica e mi misi a controllare.
Un po’ prima dell’ora prevista vidi un tizio che si mise a ciondolare lì
in giro con un giornale sotto il braccio. Mi alzai lo segui lo affiancai e
gli dissi “sei tu?”. Fece un salto. Era il palo. Facile capire come
avevano fatto a beccarli tutti. Arrivarono i due combattenti, una era
una ragazza. Carina, con la voce roca. Mi spiegò arrossendo che
faceva la maestra. Parlammo, gli dissi che volevo fare un articolo ed
era anche vero. Mi interessava la loro esperienza di gruppo armato,
diverso da quelli italiani. Erano spiritosi, contenti di poter parlare con
qualcuno. Era un piccolo gruppo ma avevano fatto azioni abbastanza
grosse, come la bomba messa sul pianerottolo della casa di un
ministro e non esplosa. Mangiammo cuscus in un ristorantino arabo,
bevemmmo un po’, ridemmo parecchio. Mi dissero che forse il peggio
era stato vedere come i media avevano trattato la loro lotta, le loro
scelte. “Sai che novità” pensai con tenerezza. Ci salutammo poi con
trasporto. Mi dileguai nella metro. Dopo un paio d’ore e decine di
manovre di elusione rientrai nella mia cameretta.
Passeggiavo lungo i quais trovando graziosi perfino i bateaux
mouches e le peniches, chiatte da trasporto. Mi soffermavo sui ponti a
guardare come scorreva l’acqua torbida. Salivo spesso su a
Montmartre ad ammirare i tramonti sulla città, la distesa di tetti neri.
Guardavo la variopinta umanità di Pigalle, Barbais. I locali con le
insegne al neon accanto ai piccoli bar coi vetri polverosi. Guardavo
senza osare avvicinarle prostitute bellissime.
Guardavo i clochard. Certo, anche nei paesi toscani c’erano i
barboni, gli scemi del villaggio, anzi nel mio ce n’erano due, l’Ezio e il
Roggi. Erano della zona e con la Nanna formavano il terzetto di
emarginati che si guadagnavano una vita stentata facendo da
zimbello ai perdigiorno, veramente non cattivi, solo ritardati
eticomentali che combattevano la noia a suon di scherzi più o meno
innocenti. La Nanna era una vecchietta minuscola che a quanto
potevo dedurre doveva avere esercitato ai suoi tempi la nobile ed
antica professione di meretrice. Lo spasso consisteva, quando
passava davanti al bar gremito di figli delle concorrenti della
medesima, stravaccati intorno ai tavolini, nell’interpellarla e
punzecchiarla finché non s’inviperiva e, a dimostrazione
dell’infondatezza dell’accusa di andare in giro senza mutande,
s’alzava la gonna affinché i presenti vedessero che le mutande ce
l’aveva eccome.
L’Ezio invece soffriva quello che i tecnici definirebbero un handicap
più severo, incapace di parlare in modo intellegibile, forse anche
perché nessuno si era preso la briga d’insegnarglielo. Era, credo, figlio
di una famiglia contadina, ma se ne stava sempre in giro fra la
stazione e il piazzale antistante a guardare i treni ed a rispondere con
un sorriso stupido o stupito agli sbeffeggiamenti di tassisti e passanti.
A volte giocavano ad aizzarli gli uni contro gli altri e finiva con la
Nanna che menava bastonate a destra e a manca, l’Ezio che
barcollava agitando le braccia a casaccio ed il Roggi, che era più
robusto e raccattava qua e là cartoni e cianfrusaglie ma che era
zoppo e che spesso perdeva l’equilibrio, che finiva a terra sotto
l’attacco degli altri due.
Ma questi non erano gli scherzi più crudeli.
Sospetto ora che in qualche serata estiva particolarmente tediosa
qualcuno di quella brava gente normale non abbia cercato di
provocare accoppiamenti fra quei poveri disgraziati. Spesseggiavano
comunque le spinte, gli insulti, gli sputi anche dai ragazzini più
carogne, incoraggiati o comunque non scoraggiati da altrimenti severi
genitori.
Una sera d’estate, aspettavamo la notte per andare a cercare le
lucciole, un numeroso gruppo se la stava spassando facendo volare
da una parte all’altra il cappello nuovo dell’Ezio, regalo di qualche
paesano di buon cuore, che ce n’erano, cristiani o comunisti che
fossero, restituendoglielo ogni tanto dopo averlo riempito d’acqua.
C’era anche mio padre, che ovviamente non partecipava alla facezia
e che se ne stava in disparte sorseggiando un caffè. La mamma lo
chiamò dalla finestra, gli andò incontro per le scale e gli disse
qualcosa che non capimmo, non alzava mai la voce la mamma, dopo
di che il babbo si diresse verso il taxista che era in possesso del
cappello, se lo fece dare con un gesto e lo rese in silenzio all’Ezio che
se lo calcò forte in testa e se ne andò strascicando i piedi. Il
capannello si sciolse. Non so se qualcuno si vergognò. Forse si, non
erano cattivi, solo stronzi che si annoiavano.
I barboni parigini però erano diversi. Di ogni razza, età e sesso.
Accomunati dal vivere per strada, dal vino da cartone, dallo scansarsi
degli altri sulle panchine della metropolitana. Ce n’erano che
parlavano da soli, o che ti raccontavano della guerra in Viet-nam o in
Algeria. Alcuni leggevano, altri se ne stavano in silenzio a fissare il
vuoto o contavano e ricontavano con la fronte corrugata le monete
che avevano in mano per poi chiedere al primo passante i centesimi
che mancavano per il litro di rosso. E poi quelli che si tiravano dietro
cani e gatti, quelli che avevano un posto fisso in un parco o in un
portone o quelli che vagavano finché l’alcool non li stendeva in un
angolo qualsiasi di un qualsiasi marciapiede.
E Parigi era anche... una città in cui ghigliottinavano ancora esseri
umani. Su Liberation lessi la cronaca dell’ultima esecuzione, un
ragazzo. Gli offrirono l’ultima sigaretta. La fumò tremando e poi ne
chiese un’altra e poi un’altra ancora ed allora uno dei boia disse il
exagere e lo legarono e distesero a faccia in giù e gli bloccarono la
testa sotto la couperette...
E la città che pochi anni prima, in piena guerra d’Algeria, era stata
scenario d’un massacro di cui era quasi riuscita a cancellare la
memoria.
Avevano decretato il coprifuoco per gli arabi nel 1961. E gli arabi, con
l’appoggio di organizzazioni di francesi – beh, cittadini francesi lo
erano anche loro, solo che di seconda classe - solidali, decisero di
romperlo e di organizzare una manifestazione pacifica diretta verso il
centro della città. Furono migliaia a scendere dai quartieri del nord. E
proprio nel centro si scatenò la repressione. CRS e soprattutto
gendarmi caricarono, picchiarono, infierirono su decine e centinaia di
manifestanti. La marcia si trasformò in una caccia all’arabo. Molti
vennero pestati a morte, altri gettati nella Senna agonizzanti o già
cadaveri. Nessuno sa quanti morti ci furono quella sera del 17 ottobre
1961 a Parigi. Il fiume rese molti cadaveri nei giorni successivi. Venti
anni dopo si scoprirono fosse comuni.
La rabbia non mi abbandonava. Leggevo sui giornali delle morti di
molti compagni, in Italia. Mi colpivano le immagini, le storie, le
emozioni che leggevo dietro le parole squallide o velenose delle
cronache. Anche in Germania morirono a Stammheim quelli della
Baader Meinhof. Nelle loro celle d’isolamento insonorizzate, controllati
a vista ventiquattro ore al giorno, la luce sempre accesa, senza
contatti con l’esterno, Irmgard Möller si inferse quattro pugnalate
vicino al cuore. Andreas Baader si sparò alla nuca con una pistola
calibro nove, Gudrun Ensslin si impiccò. Il democratico stato tedesco
faceva così sfoggio di un senso dell’umore tutto particolare. Ma le
opinioni pubbliche non si scandalizzarono per queste piccolezze non
più di quanto lo fanno adesso.
Anzi un giornale sensazionalista parigino colse l’occasione per
pubblicare fotografie di Gudrun Ensslin seminuda. Le affiggevano
molti edicolanti sulle loro locandine di legno ed io ne strappai via
diverse prendendomi a male parole con gli adirati esercenti.
Leggevo molto, accovacciato sulla moquette della FNAC o seduto alla
biblioteca del quartiere. O al Beaubourg, l’edificio mostruoso ma
accogliente dove trascorrevo lunghi pomeriggi e fredde serate.
Leggevo di tutto. Romanzi, classici, ma soprattutto testi politici, da
Fanon alla Luxembourg, riviste. Di tutto. Scoprii Jean Genet attraverso
una sua introduzione ad un libro sulla RAF. Parlava di brutalità e di
violenza. La brutalità è la forza che impone, che schiaccia, che
immobilizza, che perpetua ingiustizie. La violenza è vita, è divenire. Il
parto è violenza, diceva, ogni nascita è violenza: un fiore rompe la
terra. La brutalità è potere e di solito è legale. La violenza è rivolta e
di solito è legittima.
Mi procurai una pistola, una pistolina piuttosto. Una 22 che sembrava
un giocattolo. Non volevo farmi prendere. Mi terrorizzava l’idea di
tornare in galera. Non sapevo sparare e con quell’affare al massimo
sarei riuscito, in caso di scontro a fuoco, a farmi ammazzare dando
tutte le giustificazioni necessarie ai poliziotti di turno. O a fare la
stessa fine di un ragazzo rom che avevo conosciuto al manicomio
criminale.
Circondato dalla polizia (c’era anche l’elicottero, raccontava fiero) in
un prato estrasse una 7,65. Gli spararono coi mitra. Lui rispose ma
quelli erano ovviamente fuori tiro. Lo ferirono. Sua madre conservava
ancora la camicia insanguinata. Lo presero e lo condannarono a 17
anni per tentato omicidio.
Vennero diverse volte a trovarmi a Parigi. Prima lo zio con un
valigione zeppo di roba da mangiare, vestiti, regali, generi di conforto,
che nel gergo della zia erano cioccolate e cioccolatini e bombon e
fotografie e lettere.
Seguendo il piano meticolosamente tracciato dal babbo aveva girato
per mezza Italia saltando da un treno all’altro per depistare eventuali
segugi e poi aveva trascinato i bagagli che gli erano stati portati alla
stazione di Genova da un amico fidato, ma non tanto da dirgli dove
andava, su e giù per Parigi. In parte come ulteriore misura di
prudenza e in parte perché si era scordato l’indirizzo. Cioè lo aveva
imparato a memoria ma non bene e non voleva prendere un tassì per
non lasciare indizi, e quindi passò una giornata a provare e riprovare
finché finalmente non trovò la portinaia che gli disse che abitavo lì e
scalò i sei piani fino alla mia mansarda che subito gli piacque, con il
tamburellare della pioggia sui tetti di ardesia che, come mi raccontò
per l’ennesima volta, gli ricordavano le notti passate sotto la tenda
nel precario tepore della sua branda di soldato. Quando al mattino
doveva rompere il ghiaccio sulla superficie di una tinozza per darsi
una lavata.
Rimase pochi giorni. Giorni di gioia ritrovata. Lessi le lettere di mia
sorella, della mamma, il babbo, la zia, le cugine. Risposi ad ognuna
passeggiando lungo la Senna, fermi al tavolino di un caffè, mentre lo
zio si guardava intorno curioso e contento. Ricordammo le giornate al
mare quando lui era l’anima del gruppo dei ragazzi
Lo portai a mangiare un cuscus. Superò subito le prime perplessità, lo
zio, estasiato dalla scoperta di nuovi sapori.
Infine lo accompagnai al treno, triste immaginando la sua tristezza nel
lasciarmi lì, ad agitare la mano da quel marciapiede gonfio di gente
che parlava strano.
Ma ero già meno solo. Avevo amici, ragazze che mi parlavano di
esperienze, storie, emozioni, idee e di paesi lontani, solo immaginati:
il Brasile, la Spagna, Germania dell’Est. Che mi davano momenti di
tenerezza e di sensualità.
Un giorno m’innamorai. Una festa dove mi avevano trascinato quasi
di forza perché io di feste non ne volevo sapere. E alla festa c’era una
ragazza bruna coi lunghi capelli ricci. E fu colpo di fulmine. E molte
cose cambiarono.
Avevo una compagna. Era di Barcellona. Sarebbe tornata più volte
finché non decise di restare. Poi rimase incinta.
In quel periodo vennero a trovarmi il babbo e la mamma. Le avevano
già diagnosticato il tumore e aveva deciso di non dirmi nient
imponendo il silenzioanche al babbo. Avevo trovato un
appartamentino per i giorni della visita. Quando gli raccontai della
gravidanza mio padre sobbalzò ma la Flora disse subito che era una
bellissima notizia e ci abbracciò. Adorò quella città. Beveva con gli
occhi i luoghi, gli scorci, tante volte letti, scenari impregnati di storia e
di storie. Malgrado le paure, il dolore e il sapere vicina la morte gioiva
vedendomi salvo, in un mondo affascinante, centro di nuovi affetti.
Io mi sapevo incosciente. Latitante. Sul filo del rasoio. Incapace di far
nulla. E mettevo su famiglia.
Ma che colpa ne avevano i miei che avevano sognato dei figli normali,
la mia compagna, che voleva essere madre, la bimba che sarebbe
dovuta nascere?
E del resto stavo già mimando una vita normale. Dovevo solo risalire
qualche altro gradino: un lavoro, una casa.
Ma a Parigi era troppo difficile.
E così riprese il viaggio.
Carcere di Perpignano. Ici ils ont raccourci le dernier de la bande à
Bonnot. Dice uno nell’autobus mentre ci passiamo davanti.
Era un gruppo di rapinatori, anarcheggianti. Mettevano i soldi dei colpi
in comune, per finanziare altre lotte e magari alla fine per finanziare
la loro sopravvivenza, che era comunque lotta. Ce n’era uno, un
polacco, che invece voleva sempre la sua parte. Ma non era uno che
spendesse, che andasse a puttane, che avesse vizi. E non aveva
nemmeno famiglia cosicché i compagni, curiosi di sapere che ci
faceva con i soldi, lo seguirono un giorno fino a un quartiere di Parigi
dove c’era un mercatino di uccelli da canto o da richiamo e lì
scoprirono che comprava tutti quelli che poteva e col carretto se ne
andava fuori Parigi, in un bosco e li liberava.
Una foto. Sono io a 24 anni. Appoggiato a una scala. Accanto una
coppia di contadini, i padroni del pescheto che si vede alle spalle. Lui
è il Francis. Piccolo proprietario che mi assumeva ogni tanto come
bracciante.
Da ragazzo aveva fatto la guerra d’Algeria e ce ne parlava a volte,
durante le pause o mentre ci passavamo le ceste di frutta o le casse
di patate. Aveva combattuto e aveva visto cose brutte. Aveva sentito
come le pallottole miagolavano al di sopra della sua testa. Aveva
partecipato a rastrellamenti e una volta aveva fatto scappare un
maquisard ferito. L’uomo era acquattato in un fosso, insanguinato e lo
fissava con gli occhi spalancati. Lui gridò ai compagni che lì non c’era
nessuno. Aveva un amico d’infanzia. Andavano a caccia insieme. Una
volta la loro pattuglia aveva catturato un ribelle. Si erano accampati
con il prigioniero legato in un angolo. Prepararono il pranzo, si misero
a mangiare. A un certo punto il suo amico si alzò, prese l’arabo,
ancora legato. Tirò fuori il coltello, gli tagliò la gola e con un calcio
spinse il corpo sussultante nel fiumiciattolo. Lui rimase paralizzato,
atterrito. “Non sono mai riuscito a capire perché lo fece”, mi diceva.
Gli arabi, ce nerano due nella squadra, ogni tanto gli davano del
razzista.
“Ah si?”, ribatteva. “E voi allora? Cosa fareste se la vostra sorella
andasse con un negro? Magari uno di quei senegalesi che
combattevano per l’esercito francese e che si lanciavano all’attacco
convinti che un amuleto al collo li avrebbe protetti da pallottole,
granate e coltelli? La buttereste fuori di casa. Minimo. Se qualcuno
non l’ammazza prima. Non siete razzisti voi?”
Dei due algerini il più giovane faceva il ramadan e non mangiava e
non beveva neanche sotto il solleone. Noi buttavamo giù un sorso
nelle pause quasi di nascosto chiedendoci come cavolo faceva a
restare in piedi.
L’altro, un po’ più anziano, delle loro usanze aveva conservato solo
quella di non mangiare carne di maiale ma stava allo scherzo quando
i lavoratori francesi altri gli offrivano canzonatori fette di prosciutto,
salamini e salsicce. Nei giorni di festa andava a Marsiglia, “dagli
ebrei” ci spiegava, e comprava vestiti a buon mercato, valige. Cose
che poi poteva rivendere ai suoi connazionali in paese o
occasionalmente agli emigranti spagnoli.
Eravamo arrivati per caso a Bages, in pieno Rosselló, un paesino in
pianura circondato da vigne. Il caso era il Joan, ex compagno di
facoltà della mia compagna che se l’era trovato un giorno alla
stazione di Barcellona. Aveva messo su famiglia e coltivava un pezzo
di terra nella Catalogna nord con la donna e due figlioli. Erano dei neo
rurali, hyppie per la gente del posto, che guardava con un misto di
sorpresa, simpatia e diffidenza quei ragazzi che invece di allontanarsi
di corsa da quelle terre alla ricerca di un posto da impiegati, da operai
o da poliziotti si mettevano a coltivare con metodi che definivano
biodinamici e che erano quelli dei nonni, un orto, che preparavano la
terra con un aratro tirato da un mulo, il macho.
Salvato in extremis dal mattatoio, zoppo e malconcio, si era trovato a
vivere una seconda esistenza, in una casetta di legno tutta per lui, un
sacco di buon fieno e di grano tutti i giorni nella mangiatoia, paglia in
abbondanza, burbere ed affettuose strigliate e poco lavoro.
Ci trovarono una casetta in paese, una casa che il proprietario teneva
per alloggiarvi i braccianti che venivano dalla Spagna all’epoca della
vendemmia. Tre piani, un water piantato sul pavimento di terra
battuta del pianterreno che completammo con una grande tinozza di
plastica per lavarci. Al primo c’era la cucina, con l’acquaio e un
focolare e una camera da letto. Al secondo la soffitta. Pavimento di
legno cigolante. Muri scrostati, porte e finestre malridotte. Ma era una
casa e ci piacque.
A Bages potevamo guadagnarci la vita. Non avevo mai preso una
zappa in mano prima d’allora, ma erano in molti ad avere bisogno di
braccia giovani e schiene forti. Ed io ce le avevo. Lavoravo col Joan
nell’orto coltivando fagiolini insalate patate carote pomodori cocomeri
poponi melanzane zucchine peperoni piselli baccelli ed i contadini
degli appezzamenti accanto si stupivano che senza fertilizzanti
chimici e pesticidi le cose ci venissero su così bene. Ridevano ma in
fondo ci rispettavano perché eravamo robusti e non ci tiravamo
indietro davanti alla fatica. Le ragazze andavano a vendere i prodotti
sui mercati dei paesi vicini e nella buona stagione ci si guadagnava di
che vivacchiare. Ma non bastava ed allora c’erano le giornate da
bracciante. Raccogliere frutta, tirar su patate. Tagliare canne per farci
sostegni per le piante di pomodoro. Seminare fagioli. Irrigare.
Sradicare alberi malati. Piantare vigne. Potare. Caricare, scaricare.
Una mattina d’estate mi lasciarono in un campo di albicocchi rachitici
che andavano sradicati facendo tutt’intorno una grande fossa da
disinfettare. La terra era malata. Un piccone e una pala e il sole
picchiava e picconando pensavo a tutte le battute che fa la gente
quando vede operai appoggiati al piccone e mi sarebbe piaciuto far
provare a più d’uno come si sta dopo mezz’ora, mica più, mezz’ora di
alzare ed abbassare quei chili sotto il sole o il vento. Il sudore mi
appannava la vista, la luce bruciava ed io scavavo senza pensare e ad
una picconata sentii schizzarmi sul corpo, ero nudo fino alla cintola,
qualcosa e mi guardai ed era sangue, forse di un coniglietto. Sentii di
nuovo l’angoscia dei giorni del carcere, mentre mi ripulivo alla meglio
il petto, il viso, le mani sporche di terra sudore sangue.
Mi procurai una bicicletta e per lunghi periodi la mattina alle sei
facevo i miei dieci chilometri, spesso controvento, una tramontana
che faceva impazzire e che un po’ più a occidente chiamavano già
mistral, e poi le mie 8-10 ore sotto il sole o al freddo, con gli altri in
silenzio o scambiando battute sul programma di radio sempre
presente, sul tempo, il raccolto, il matrimonio, i figli, le tradizioni, la
politica, la salute.
Era dura, ma mi aiutava la curiosità per quel mondo nuovo di
esperienze, idee, situazioni, consuetudini. Che poi non erano tanto
diverse da quelle del mio paese.
***
Anche se nel paese della mia infanzia ed adolescenza c’era la
stazione. E le notti d’estate erano profumate di sentori di terra viva.
La stazione era al limite dell’abitato, in fondo ad un viale illuminato da
lampioni inframmezzati da platani ed ippocastani. Al di là della
ferrovia c’erano i campi, il canale che serpeggiava nella pianura
scivolando fra gli argini coperti di erba e di fiori.
C’era molto movimento merci allora, soprattutto di notte. A letto, sin
da piccolo, mi aveva cullato il monotono sferragliare di interminabili
convogli carichi di pirite, barbabietole, patate.
Spesso i vagoni sostavano sul binario morto. A volte per qualche ora,
a volte per giornate e giornate.
C’erano molti carri bestiame: polli, pulcini, maiali, vitelli, ogni tanto
cavalli.
Succedeva che uno di questi vagoni venisse sganciato lì accanto al
piano caricatore e noi ragazzi andavamo a vedere gli animali dalle
finestrelle inferriate.
Un giorno d’agosto lasciarono lì sotto il sole un vagone pieno di vitelli.
Non so da dove venivano ma c’era la canicola e chissà da quanto non
bevevano. Erano muggiti disperati che si sentivano dalla cucina del
nostro appartamento, al primo piano della stazione. La mamma era
inquieta e la vedemmo confabulare con l’Enrico che era di turno di
notte.
Sul tardi, verso mezzanotte, scendemmo, con la mamma e mia
sorella, in silenzio per non svegliare le famiglie degli altri
capistazione. Il babbo ci aspettava con la sua divisa estiva,
impeccabile come al solito, ed il manovale Monti, un brav’uomo che a
noi sembrava anziano. In fila indiana, commando familiare, ci
munimmo di secchi e ci avviammo su, al piano caricatore, dietro i
capannoni dove incassettavano gli ortaggi. Il babbo fece saltare i
piombi della porta del vagone e l’aprì. Il Monti che era di famiglia
contadina e pratico di bestie entrò e noi in catena cominciammo a
passare secchi d’acqua. Lavoravamo in silenzio e sudati ed anche i
vitelli sembravano aver capito che non era il caso di fare troppo
rumore e si agitavano ma senza muggire aspettando il loro turno.
Più tardi, molto più tardi a giudicare dalla stanchezza, dissetati fino
all’ultimo gli animali, i grandi richiusero la porta, sistemarono alla
meglio i sigilli e ripartimmo.
Non lo sapevamo, ma violare i sigilli era una cosa grossa, specie per
uno come il babbo, legalista quasi maniaco che un giorno aveva
anche rincorso un sensale, che per oliare un po’ la prenotazione di un
carro merci aveva lasciato una bustarella sulla scrivania del titolare,
cioè lui. Lo aveva rincorso lungo tutto il viale che attraversava il
paese vociando “guardi che si è dimenticato questa busta sul
tavolo!”.
***
Era un tipico paesino del Midi, Bages. La sua strada principale, con il
comune, le poste, la scuola appariva minuscola e polverosa dopo i
grandi viali parigini. Le case piccole, viuzze laterali troppo strette
perché ci passasse una macchina. Le tendine delle finestre da casa di
bambole si muovevano al nostro passaggio. Un’isola di tetti rossi in
un mare di vigne, di verde che sfumava nei rossi marronosi
dell’autunno e in terra nera costellata di scheletri di legno, d’inverno.
La gente nei negozi, al bar, dal fornaio ci guardava e salutava
guardinga ma senza ostilità. Dagli angoli delle strade, degli
altoparlanti diffondevano a intervalli le note di una sardana, per
richiamare l’attenzione dei paesani sull’annuncio di una morte, di una
festa, di un matrimonio, per comunicare la scadenza di una tassa,
l’arrivo del mercato ambulante o di un venditore di materassi o di
arance.
I miei averi a Parigi entravano comodamente in un valigione. L’unica
cosa che avrei potuto accumulare erano i libri, ma avevo preso
l’abitudine di regalarli ad ogni trasloco da una stanza all’altra, salvo
due o tre da cui non mi separavo mai e primo fra tutti la mia bibbia
personale, regalo di un professore quando facevo ancora le medie. Me
lo portò a casa quando mi ammalai di una di quelle febbri altissime ed
interminabili che mi stendevano a letto mezzo delirante.
“Tre uomini in barca” di J.K. Jerome, umore di borghese inglese del
XIX secolo e compendio di tutti gli archetipi umani e sociali che puoi
incocciare nella vita.
La mia compagna però aveva bisogno di un po’ più di roba e visto che
avevamo messo su casa volle portare da Barcellona i suoi quattro
oggetti.
Il “trasloco” da Barcellona a Bages lo aveva fatto il Vicenç, con un
furgoncino che gli aveva prestato un collega di lavoro. Era il marito
della sorella maggiore.
Piccoletto, bruno, una ventina d’anni più anziano di noi, era operaio di
un’azienda familiare. Piuttosto metà operaio e metà artigiano, dato
che progettava e realizzava macchine che poi servivano a produrre i
diversi pezzi. Era un tuttofare: elettricista, idraulico, muratore,
imbianchino, falegname. Per se per la famiglia gli amici. Era una delle
anime dell’Orfeó del suo quartiere, via di mezzo fra coro e centro di
socializzazione, uno dei tanti che compongono il peculiare tessuto
associativo catalano. Lavoratore instancabile, solidale. A nemmeno
diciotto anni si era fidanzato con una ragazzina che poi sarebbe
diventata sua moglie per sempre, madre dei suoi tre figli.
Moderatamente di sinistra, profondamente catalanista. Cosa che non
gli impedì di accogliere con generosità e senza riserve prima me, il
giovane italiano convivente non sposato della cognata, e poi il figlio
d’immigrati andalusi che avrebbe sposato la sua figlia primogenita, la
nineta dels seus ulls, la luce delle sue pupille. Casa, famiglia, Orfeó,
lavoro e le vacanze a Canet o in un camping trasformato in una
comune senza pretese libertarie, dove si trasferivano un mese
all’anno con le famiglie degli amici. I bambini giocavano, gli uomini
facevano attività da uomini e parlavano di sport o di politica e le
donne si occupavano di faccende da donne. Come unico vizio aveva il
fumo e un goccio di cognac da poco nel caffè dopo pranzo. Fumava
Ducados o Habanos a pacchetti. Un paio di volte gli feci il caffè con la
crema, come mi avevano insegnato dei napoletani in carcere,
battendo lo zucchero con le prime gocce di liquido nero e denso che
viene su nella macchinetta espresso.
Li avevo invitati a mangiare la parmigiana. Gli piacque tanto che ne
parlava con tutti i suoi amici. Poi si ammalò. Un tumore alla gola.
Qualche mese, forse un paio d’anni di pappine trangugiate attraverso
una cannula, di ospedali, di medici, di parole pronunciate con sforzo
tappando con la mano il foro dell’apparecchio sulla gola. E poi morì. Il
verdetto medico lo volle colpevole in quanto tabagista. Le statistiche
lo condannarono come vittima della sua dipendenza. Nessuno si
chiese fino a che punto non c’entrassero nella sua malattia e morte
gli anni passati a contatto con prodotti chimici d’ogni tipo, ad inalare
senza protezioni, che al tempo non usavano, gas e polveri tossiche.
A settembre, finiti i lavori nei frutteti, cominciava la vendemmia.
Arrivavano a migliaia gli spagnoli in una migrazione stagionale che li
portava dall’Andalusia al Rossiglione e poi su per tutta la Francia fino
all’Alsazia. Io mi fermavo in zona ed incatenavo gli ingaggi in pianura
con quelli in collina.
Vendemmia. In un quaderno trovo una foto ricordo di una colla:
Henriette detta la Saca perché sua madre si faceva i grembiuli con dei
sacchi. Paul, il marito, detto Paul d’en Roc. Roger, il figlio: 28 anni,
grande e grosso e scansafatiche. Louis, vicino. Jose, fratello minore
del precedente. Jeanette. Moglie di Louis. André, suo figlio 23enne.
Juliette: moglie di José. Isabelle, la bambina. Jean Marie, soldato in
licenza, amico di Roger.
Io sono il portatore, cioè quello che trasporta l’uva dai filari ai
rimorchi, nonché unico dipendente in questo gruppo di tre famiglie
che si uniscono per vendemmiare l’uva delle loro vigne.
Al mattino mi carico la hautte, sorta di grosso secchio di plastica che
si porta a mo’ di zaino, sulle spalle. Il contenuto della hautte si scarica
nelle tinozze o direttamente sul rimorchio e allora si deve salire su per
una scaletta di metallo sdrucciolosa. All’inizio della giornata quando
sei in forze va tutto liscio, l’aria è fresca e non ci sono insetti, poi con
la stanchezza arrivano le storte alle caviglie o ai ginocchi, gli strappi
muscolari, le vertebre che si comprimono, le cadute, i rami recisi delle
viti che graffiano.
Per tre, quattro settimane. Poi le squadre di vendemmiatori svuotano
lentamente il paese dirette verso il Cognac, l’Alsazia, la Champagne.
Io me ne ritorno a valle.
Un giorno a Bages arrivò un’altra famiglia, che si alloggiò in una
delle casupole della nostra via. Erano parenti del Joan. Lei, la sorella,
una ragazza placida e sempre affaccendata. Lui, un barbuto tranquillo
e di poche parole. Avevano due figli, uno affetto da male incurabile.
Avevano deciso di cambiare di vita con quel peso sul cuore ed
avevano scelto quel paesino sperduto, lontano ma non troppo dal loro
passato. Con il ragazzo lavoravamo spesso assieme come braccianti e
mi aveva incuriosito sin dall’inizio una profonda cicatrice che aveva
sul braccio. Un giorno più loquace degli altri mi raccontò che si era
bruciato fabbricando un “petardo”. Pensai a qualche festa paesana
ma lui chiarì che si era trattato di far saltare un simbolo franchista.
Non era uno politicamente molto impegnato, era semplicemente
membro di un gruppo di escursionisti. Giovani di entrambi i sessi che i
week end si riunivano ed andavano a camminare, bivaccare,
accampare per le montagne della loro Catalogna. Non ne sapevano
granché di politica, né di lotta di classe, ma sapevano che il
franchismo era il nemico comune e lo attaccavano a modo loro.
Poi un mattino che eravamo a potare le vigne sentimmo la sirena
dell’automezzo dei pompieri, orgoglio di un villaggio che non aveva
caserme della polizia né vigili urbani. Quando tornammo a casa e
saltammo giù dal furgone trovammo il capannello di vicini, con le
nostre ragazze, i bambini e la Magda, sua moglie, in mezzo piangente
che ripeteva “la mia casetta, la mia casetta”. Era bruciato tutto. Un
corto circuito e l’impiantito di legno, i mobili, gli infissi erano andati in
fiamme.
Ma non bastò. La burocrazia si mise in moto, passò qualche giorno e
arrivò l’ordine d’espulsione. Non per lui, che era stato assunto da un
contadino compassionevole, ma per la moglie e i bambini. Se ne
tornarono in Spagna. Poco tempo dopo se ne andò anche lui.
Il lavoro che più mi piaceva era la potatura delle vigne. Si lavorava
meno, le giornate erano di sette ore. Le squadre erano poco
numerose, i ritmi meno frenetici di quelli della raccolta. Faceva
freddo, questo si, con la tramontana tagliente d’inverno. Ma era in
qualche modo un’occupazione creativa, quasi uno scolpire la pianta
ridotta a scheletro dal freddo. I capisquadra erano pazienti, piccoli
proprietari del posto o immigrati spagnoli ed a forza d’imitarli imparai.
Ci si fermava per la colazione, a volte si accendeva un fuoco, si
mangiava e si beveva vino a garganella dalle fiaschette. Mi piacevano
quelle pause al riparo dal vento, imbacuccato in giacche e maglioni,
con il berretto calcato a coprire le orecchie.
Lavorai anche in una cantina ripulendo i tini. Ci entravi seminudo,
dallo sportellino a un metro da terra, con i piedi in avanti. Dentro, la
lampadina illuminava le pareti circolari foderate di cristalli viola, le
nuvolette di anidride carbonica che si alzavano quando smuovevo con
il forcone i mucchietti di grappoli pigiati. Il capataz mi chiamava ogni
tanto e mi faceva metter fuori la testa perché respirassi e per vedere
se ragionavo ancora. Era pericoloso ma pagavano bene
Intanto cresceva la pancia della mia compagna. I primi mesi di
gravidanza spesso era sui campi con me, a calibrare le pesche o a
raccogliere fagiolini oppure al mercato a vendere ortaggi a paesani
che già allora preferivano pagare qualche cosa di più per i prodotti
freschi del terroir.
Non avevamo una “vita sociale”. I giovani del villaggio, i pochi che
c’erano, erano troppo presi dal progetto di tagliare la corda prima
possibile e poi guardavano con diffidenza a quel gruppo di hippie
anarchici spagnoli che oltretutto si ostinavano a parlare catalano.
In paese e soprattutto nei campi il catalano si sentiva. Anche se adulti
e vecchi con i figli si sforzavano di usare solo il francese. E così erano
ben pochi i giovani in grado di parlare scorrevolmente la lingua
materna, che per loro comunque era un semplice patois, che non
aveva spazio nelle scuole, nelle amministrazioni, nei media, insomma
negli ambiti pubblici. Confinato alle pareti di casa dove stava
morendo, come l’occitano, passato in poco più di una generazione da
8 milioni di parlanti a quasi nessuno.
Alcuni dei contadini erano figli dell’immensa colonna di centinaia di
migliaia di profughi che nel 1939 aveva cercato rifugio in Francia,
incalzata dalle orde franchiste. Erano i resti dell’esercito repubblicano
e soprattutto civili. Tantissimi. Alla frontiera li disarmarono e li
rinchiusero in improvvisati campi profughi, sulla spiaggia i più
numerosi, ad Argeles. Intorno filo spinato e fucilieri senegalesi. C’era
chi cercava di costruirsi ripari di fortuna con le canne e pezzi di legno
portati dal mare ma le guardie li abbattevano. Il freddo, la sete, la
fame, la dissenteria, la sporcizia fecero strage. Poi i superstiti si
dispersero in mille rivoli. Chi si imbarcò. Chi si arruolò per combattere
contro i tedeschi. Chi finì in altri campi, stavolta di sterminio. Chi
trovò lavoro. Alcuni rimasero sul posto, accolti da famiglie pietose e
bisognose di braccia.
Uno dei piccoli proprietari che ogni tanto mi assumevano come
bracciante andava spesso a caccia verso i laghi di Carançà, da dove
era passato un grosso spezzone dell’esercito della Repubblica in
ritirata. Avevano nascosto le armi subito dopo la frontiera, prima di
essere avvistati dalle pattuglie francesi. Lui aveva recuperato una
pistola inglese, un mauser, un revolver, tutte armi antiquate ma in
perfetto funzionamento.
Anche a me piaceva, nei radi periodi d’inattività o meglio di
disoccupazione, prendere lo zaino ed andare su in montagna a
cercare valichi, funghi o a fare i conti con me stesso, magari con
l’aiuto di un acido. Dormivo sotto gli alberi, in un sacco a pelo. Vagavo
senza bussola né cartine, orientandomi col sole o l’istinto, ma una
volta mi sentii male, colto da una febbre improvvisa con mal di testa
atroce. Non avevo nulla da mangiare né da bere. Mi salvarono due
escursionisti che mi dettero un panino e una tazza di tè caldo.
***
Avevo preso il mio primo acido a Parigi. Mi ero letto qualche libro
di antipsichiatri: Basaglia, Cooper, Lang. Mi interessarono le terapie di
Cooper, che in certi casi prevedevano l’uso di LSD. Ti apriva la porta a
viaggi, incursioni nei tuoi sogni, nelle paure, certezze e desideri.
Erano viaggi in territori sconosciuti e mi sarei dovuto far guidare, ma
io non mi potevo permettere di far entrare nessuno nel mio mondo
nascosto, nel mio mondo di doppie verità. Se c’erano scoperte da fare
dovevo farle da solo.
Anche se una notte di capodanno, finito non rammento più come in
una festa in un appartamento di Montmartre, finestre sulla città
illuminata e tranquilla, fra sudamericani assortiti seduti in circolo su
una polverosa moquette a parlare di politica - allora era
semplicemente parlare - in francese e spagnolo accanto ad un
ragazzo italiano, capelli lunghi e la stessa età, ad aspettare uno
spinello che faceva mezzo giro e poi tornava indietro e che non
arrivava mai fino a noi che ogni volta protendevamo speranzosi mano
e corpo. Cominciammo a chiacchierare in italiano, visto che tanto
esclusi eravamo, guardinghi all’inizio. Dopo un ultimo infruttuoso
tentativo di fare un tiro, il mio nuovo amico si alzò dicendo che se ne
andava a fare un giro, che aveva un acido e che se volevo me ne
dava la metà. Al diavolo la prudenza, mi dissi pensando che la notte
di capodanno era un buon momento per sperimentare un rischio
nuovo. E dopo un po’ eravamo nella luce fredda e grigia dell’alba ad
ascoltare i nostri passi e i nostri accenti toscani. Attraversammo la
città addormentata che respirava lenta dalle bocche della
metropolitana, dalle grate sui marciapiedi, dai portoni dei palazzi grigi
e seri. Lui abitava in periferia, non lontano da casa mia. Lo invitai a
prendere un caffè e mentre ero in cucina che armeggiavo lo sentii
dire: ma questo è un compagno di Lotta Continua di A.!
Bofonchiai che era impossibile, prendemmo il caffè, lo riaccompagnai
in strada. Domani penserà che è stata un’allucinazione fra le altre,
pensai.
Quello che aveva visto sulla foto appesa alla parete accanto a mia
sorella incinta era Tiziano.
Passarono gli anni ma il babbo evitò sempre di pronunciare la parola
suicidio. E poi il prete aveva celebrato il funerale in chiesa e lo
avevano seppellito in terra consacrata. Era stato quindi un disgraziato
incidente. Una caduta fortuita.
Da anni ormai andava alla deriva. Droga, parola sussurrata cosi,
vagamente, senza dettagli, come si fa per i tumori che diventano
semplicemente il “brutto male”. Comunque un progressivo ed
imparabile allontanamento dal mondo. Era uno degli elementi di
spicco di Lotta Continua, comunque una scelta coraggiosa in quel
bastione del partito comunista. Era giovanissimo quando aveva
accettato di avere un bambino, di sposarsi, di lavorare all’edicola
della stazione, dove un giorno che aveva visto passare un ricercato
aveva convinto il collega che lo voleva denunciare a non farlo. I primi
tempi della mia latitanza offrì il suo passaporto.
Il loro bambino doveva essere sottoposto ad un intervento a cuore
aperto. Aveva appena tre anni. C’era la possibilità di farlo operare in
un ospedale pubblico dove le probabilità di sopravvivenza erano del
30%. Del 90% invece dal noto chirurgo formato negli USA ,con la sua
clinica privata dotata delle più moderne attrezzature. Bastava solo
trovare i milioni necessari. Tiziano diceva che avrebbe fatto una
rapina ma il babbo e la mamma e gli zii che di galere, tribunali e
parlatori ne avevano visti anche troppi riuscirono ancora una volta a
operare il miracolo con i loro stipendi d’impiegati statali.
Racimolarono i soldi necessari e il bambino fu operato e salvato.
Quel primo “viaggio” psicodelico parigino non fu granché. Forse la
dose insufficiente. Ci riprovai qualche tempo dopo con un paio di
quadratini di carta assorbente con una gocciolina in mezzo e il
disegno di un cane. Sulle facce della gente vedevo maschere, i viali, i
parchi, i palazzi si allungavano, scorciavano, dilatavano. Le macchine
rallentavano e si separavano dai suoni di clakson e di motore.
Dopo, avrei “viaggiato” solo in boschi e montagne, dove gli alberi
respiravano e le nuvole mi chiamavano. Gli acidi, la mescalina erano
la prova del nove nei momenti di crisi. Quando non sapevo dove
andare, mi dicevano se ero sulla strada giusta.
... Non mi aveva mai fatto domande indiscrete il Joan ma
quando alla fine gli dissi che per la nascita della bambina mi sarebbe
piaciuto andare a Barcellona, e che era meglio se non passavo la
frontiera “ufficiale”, si calò appieno nel ruolo di guida. Tirò fuori
mappe e cartine, se le studiò, andò un paio di volte ad esplorare dei
tratti sul confine. Era bravo e resistente, capace di macinare
chilometri e chilometri su e giù per viottoli di montagna, sempre allo
stesso passo, senza mai perdere l’orientamento. Una macchina ci
portò nei pressi della vecchia cascina che era servita da rifugio al
Quico Sabater, uno degli ultimi maquis spagnoli, abbattuto negli anni
sessanta dalla Guardia Civil a Sant Celoni durante una delle sue
incursioni in territorio franchista. Lo seguii, una lunghissima mattina
di fine estate, lui infaticabile ed io col fiato grosso, senza parlare,
senza fermarci. Non trovammo nessuno, solo il silenzio dei boschi,
delle pareti a strapiombo e poi del ruscello che si gonfiava a tratti e si
faceva baldanzoso e io morivo dalla voglia di tuffarmici dentro.
Un cartello di riserva di caccia, diverso da quelli della parte francese
mi disse che eravamo in Spagna. In Catalogna mi corresse la mia
guida. Arrivammo al punto d’incontro, una spianata in cui finiva la
stradina di montagna che veniva su dal paesino a valle, e sulla
spianata in un angolo, seminascosta fra gli alberi, c’era la macchina,
con la mia compagna e un amico che non aveva voluto farla viaggiare
da sola, con la sua pancia da più di otto mesi. Accompagnammo il
Joan a Figueres, a prendere il treno che lo avrebbe riportato in
Francia, ma prima ci fermammo in un bar, a brindare con birra fresca
per il successo dell’operazione, per lo scampato pericolo, per
l’amicizia e la solidarità, per il bambino o bambina che doveva
nascere. Il bar era carino, con una pergola, sulla piazza di un paese di
strade e di edifici di pietra e di una luce diversa. Mi guardavo intorno
e sentivo nelle voci della gente, leggevo sulle scritte dei negozi una
nuova lingua, respiravo nuovi odori.
Tutto mi sembrò più povero, meno verde. Bello.
A Figueres mentre entrava in stazione il Joan mi fece promettere che
lo avrei avvisato per fare il passaggio di ritorno, qualche mese dopo.
Il Joan morì sui quarant’anni. Un tumore al cervello. In un primo
momento lo trattarono da malato mentale. Un universitario che aveva
scelto di vivere zappando la terra non poteva non avere qualche tara
psichica. Poi non ci fu nulla da fare. Non l’avevo più rivisto da quando
ce n’eravamo andati dal Rossiglione. Telefonò un giorno un’amica,
una ragazza del paese e disse che era in fin di vita. A casa dei
genitori, confinato in una stanzetta. Ci andai in treno, i suoi abitavano
in un piccolo centro della costa. Restai ad aspettare in un bar la Lidia,
sua moglie. Venne a dirmi che era meglio che non andassi a trovarlo.
Che a lui non sarebbe piaciuto che lo vedessi così. Era fiero della sua
forza, della sua resistenza alla fatica e al dolore. Adesso era un vinto.
Era figlio di una famiglia operaia catalana. Si diceva anarchico e si
sentiva indipendentista e si era messo con la figlia di gente dell’alta
borghesia, di quelli che in casa parlavano spagnolo. Avevano avuto
quattro figlioli e le due più piccole sarebbero andate a vivere una con
un ebreo praticante e l’altra con un islamista, in due città lontane.
Non si parlavano più le due sorelle e la non- sposa dell’islamista
faceva il ramadan e sputava di nascosto per non ingoiare la saliva
perché il profeta aveva detto di non farlo. Ci sarebbe rimasto tanto
male Joan, ateo convinto, nemico dei dogmi.
Il giorno che avevano strangolato e spezzato il collo al Puig Antich, in
una sala colloqui della prigione Modelo, vittima di quello strumento di
tortura che era il garrote vil, Joan era a lavorare sul suo campetto e
piantava la vanga in terra con rabbia e piangeva. Impotente come
molti, moltissimi della sua generazione. Aveva anche lui il suo odio.
Frutto di umiliazioni e terrore e paure. Ed aveva anche lui un piccolo
arsenale. Lo aveva sotterrato in un angolo del suo campicello, un
vecchio mauser, un winchester, una 7,62. Vi aggiunsi la mia 22.
Ospitava ogni tanto gente che fuggiva dalla Spagna ancora troppo
franchista nonostante la morte del vecchio tiranno. Uno rimase a
lavorare con noi qualche tempo. Era un operaio, basso e tarchiato, di
origine andalusa. Di un gruppo che faceva rapine per finanziare gli
scioperi delle grandi fabbriche dell’hinterland barcellonese. Con il
fiato della polizia sul collo passò le montagne e si rifugiò da noi,
assieme ad una ragazzetta giovanissima che non spiccicava mai
parola, timida o impaurita. Anche lui sotterrò il suo revolver calibro 38
nel nostro zulo domestico. Era un lavoratore e sgobbava sodo
meritandosi così il rispetto di Joan, ma era anche comunista e un po’
rozzo d’idee ed espressione e le discussioni duravano a volte fino a
notte inoltrata.
Per lui tutto era semplice: eravamo in guerra, una guerra in cui “loro”
avrebbero vinto inevitabilmente perché “loro” erano non solo più
potenti, più numerosi e più forti ma anche e soprattutto perché
sapevano torturare, terrorizzare i loro nemici, colpire, minacciare la
famiglie, spandere la paura. Senza scrupoli e remore che
infiacchiscono e fanno dubitare. A noi restava solo la possibilità di
restituirgli un po’ di terrore.
Dopo un po’ di tempo se ne andò, da un giorno all’altro e senza dir
nulla. Con tutte le armi. Lì per lì ci restammo male, poi ci dicemmo
che forse ne avrebbe fatto buon uso.
Mi bevvi con gli occhi il pezzo di Catalogna che scorreva ai lati della
strada per Barcellona. Erano i primi di settembre e faceva caldo. La
città mi apparve piena di traffico, polverosa, abbagliante di luce
sporca.
Andammo a casa di lei, di sua madre, una donna gioviale ed attiva,
infermiera militare repubblicana al fronte durante la guerra di
Spagna, iscritta come tante altre ragazze piene di speranze e di sogni
alla FAI. Quando sua figlia le aveva detto di essersi innamorata e che
aspettava una bambina e che non si sarebbe sposata, si era limitata a
dirle “cosa ti serve?”.
Poco dopo nacque la bambina, un parto non facile, con il padre, cioè
io, che andava su e giù senza sapere bene cosa fare e le infermiere
che non ci prestavano granché attenzione e che non volevano
disturbare di notte il medico e insomma senza anestesia in una sala
operatoria in un angolino a guardare lei che tutta sudata gridava ogni
tanto e il dottore che le parlava e le infermiere con i camici e tanta
luce e pensavo quando venne fuori la bambina che ce n’era troppa di
luce e che l’avrebbe abbacinata. Le guardavo e mi sentivo strano
dentro. Quell’esserino lì era arrivato per decisione nostra ed era
responsabilità nostra proteggerlo. Un’altra sfida.
Dopo qualche settimana riattraversai il valico e tornai al lavoro dei
campi. Trovammo una nuova casa, un appartamentino di un paio di
stanze ma con un bagno, una cucina col frigorifero e l’acqua calda e
le finestre e la porta che si chiudevano bene ed una stufa a cherosene
che riscaldava e passarono i mesi e la bimba che cominciava a
zampettare imparò la prima parola in italiano ed era ”brucia” perché
io le dicevo “non toccare che brucia” e lei alla fine toccò e vide che
effettivamente bruciava.
Lavoravo, andavo a spasso, facevo la spesa, dormivo, giocavo con la
bimba. Ogni tanto le visite di amici di lei o di Parigi ed anche una dei
miei, contenti, la mamma soprattutto, di vedermi così normale, con
una vita ed affetti normali anche se non esattamente nella posizione
sociale che avevano sognato. Che poi non era mica tanto ambiziosa:
giornalista, ufficiale di marina, un mestiere sicuro con un pizzico di
avventura.
Ma a me non bastava. Ora che avevo messo un’altra creatura al
mondo avevo una ragione in più per cambiarlo, perché quel mondo
era uno schifo, faceva schifo e come si fa a metterci dentro qualcuno
senza almeno provare a renderlo un po’ più decente?
La lotta politica si adattava. La chiamavo in quel periodo, quando ci
pensavo un po’ su, perché ogni vera lotta deve avere la sua parte di
teoria e riflessione sennò è semplice ribellismo, “difesa del territorio
dall’aggressione capitalista”, aggressione che poteva consistere nella
costruzione di una strada, nel taglio di un bosco, in un’urbanizzazione,
cioè in qualche violenza alla natura. Era una guerriglia da week end.
Nelle rare scampagnate in 2 CV individuavo gli obiettivi e la settimana
dopo ci tornavo in bicicletta, o in pullman se era più lontano, armato
in genere di un pacco di zucchero, tenaglie, sigarette e cerini per gli
inneschi. Il ritardo è di cinque dieci minuti dipende dalla sigaretta e
dal vento. Di notte piantavo chiodi sugli alberi segnati, svellevo
paletti, mettevo zucchero ed acqua nei motori, tagliavo fili elettrici,
bruciavo ruspe e macchine isolate e casotti degli attrezzi, seminavo
chiodi a quattro punte fatti in casa con tappi di sughero sui sentieri di
accesso ai cantieri. Mi muovevo con prudenza e controllavo sempre
che non ci fossero sorveglianti, sistemi di allarme, ma poteva capitare
che ci fossero cani e infatti una volta me la stavo filando in bicicletta
e c’era la luna e respiravo il buio della notte e ne sentii e poi vidi uno
che scendeva di corsa verso la strada, cioè verso di me. Non
abbaiava, brutto segno se è vero il detto del “can che abbaia non
morde”, era grosso e sembrava nero ed io avevo solo una fionda e
biglie di ferro per rompere eventuali lampioni o fari cosicché scesi e
tesi l’elastico e presi la mira mentre quello continuava a venir giù e lo
sentivo che ringhiava mentre cercava un posto per saltare e così mi
presentò il fianco e tirai e lo beccai in una costola e rotolò di lato
guaendo e poi scappò.
Per il resto avevo scelto una vita normale, da lavoratore. Ma ero
ricercato, non avevo documenti. Sarebbe bastato un controllo, un
incidente, anche banale, come quello del compagno di squadra che
s’infilò una scheggia di canna in una mano e dopo qualche ora aveva
il braccio gonfio e dovettero portarlo di corsa all’ospedale con il
tetano, per far crollare tutto il mio nuovo mondo come un castello di
carte.
Tanto sarebbe valso rubare, rapinare, anche se non sapevo. Cioè
anche se sapevo che sono mestieri che non si improvvisano. Ma tutto
si impara. E poi avevo letto Bertolt Brecht:
“è più criminale fondare una banca che svaligiarla”.
L’occasione me la presentò un pomeriggio un ex impiegato di banca
dalle idee radicali. “Ragazzi senza soldi non si fa la rivoluzione”, “per
lottare contro il capitale ce ne vogliono di capitali” e via dicendo. Essì,
proprio così, e i soldi ci sono basta andare a pigliarli dove li tengono
ammucchiati, per esempio in una banca. Per esempio in una banca di
cui un ex dipendente incazzato potrebbe fornire piani e informazioni.
Sentiamo un po’. Un caveau antiquato ma con un sacco di soldi
dentro. È facile. Un piccolo tunnel, poi si sfonda il pavimento, poi si
apre con la lancia termica, poi si insacca, si carica e si parte. Milioni
garantiti. Abbastanza milioni da viverci una vita per la rivoluzione.
Occorrerebbe un piano. E ce lo abbiamo. Tre o quattro compagni
decisi. Ci sono. La lancia termica. Ce l’ha lui. E poi bombole di
ossigeno per la lancia, furgoncino, attrezzi vari. Che per rimediarli ci
vogliono soldi. Che, quelli, vanno trovati.
E si trovano dando fuoco a un paio di macchine di nemici del sistema,
operazione commissionata da un gruppetto di intellettuali poco
portati all’azione diretta. I compagni-complici trovano ammirati che
non è male come modus vivendi. Freno il loro entusiasmo.
Decidiamo di attaccare attraverso le fogne. Facciamo il sopralluogo
una notte di dicembre. Nevica. Entriamo da un tombino in un vicolo
deserto. Percorriamo chilometri alla luce delle lampadine, sotto volte
fantasmagoriche. Abbiamo stivali da pesca che sguazzano nell’acqua
biancastra, melmosa. Abbiamo la bussola. Abbiamo tempo, non c’è
rischio che nessuno scenda con ‘sto freddo e i canali gonfi d’acqua.
Troviamo il punto. Sopra scorre la strada. Siamo ad una decina di
metri dalle fondamenta della banca. Si può fare. Il più giovane del
terzetto si fa male. Una storta. Devo portarlo a cavalcioni. Fra la
nebbiolina sospesa, le pareti di pietra sgocciolanti, le gallerie piccole
e grandi che si aprono ai lati del tunnel principale come in un
labirinto. Fuori scorre il traffico, si scioglie la neve. L’acqua entra a
fiotti da canali e tubazioni.
Raggiungiamo l’uscita sul greto di un fiume. Spezziamo la catena che
chiude il cancello con una tronchesina. Usciamo. Mettiamo un altro
lucchetto, uguale all’altro. Entreremo da qui con tutto il materiale. Da
dietro le nuvole scende il chiaro di luna. Per terra, sul bianco della
neve, vedo un rettangolino scuro. Mi chino a raccattarlo. È la carta
d’identità dell’ideatore del piano, che sta osservando compiaciuto la
catena che chiude l’inferriata, con il lucchetto nuovo. Gli porgo la
carta in silenzio, toccandogli un braccio. La prende e ridacchia. Lo
fisso perplesso. Ci togliamo gli stivali e li ficchiamo in buste di
plastica. La macchina è vicina, sarebbe proprio sfiga se qualcuno ci
fermasse. Ma tanto andare in giro con gli stivali da pesca una notte di
neve mica è un reato, dice uno. Non rispondo.
In macchina tacciamo fino ad un bar aperto. Scendiamo, entriamo,
ordiniamo quattro bicchierini di rum flambé, anche se il barista
brontola perché i bicchieri bruciati dopo non c’è verso di pulirli.
Accendiamo le sigarette e facciamo il punto della situazione. Ormai
non dovrebbe mancare nulla.
Abbiamo anche provato la lancia termica, in un paesino di montagna
abbandonato. È ingombrante: ci sono le aste di un metallo speciale
che si consumano e bisogna cambiarle, ne abbiamo una dozzina,
speriamo che bastino. Poi le bombole di ossigeno rubate in un
cantiere perché non sono mica cose che si comprano al supermercato
e poi ancora la tuta d’amianto.
Interrompo l’esposizione. “Scusa, ma come siamo messi con gli
allarmi, li neutralizzano dall’interno?”. “Ah no, mica lavora più li, il
contatto. Comunque forse non ci sono allarmi”. Fa il regista del colpo.
Sospiro. “Scusa non ho capito bene. Non eri tu che avevi detto che il
piano era pronto e che mancavano solo tre o quattro cosette? Quella
degli allarmi mica sarà per caso una delle tre o quattro cosette? Non
avevi pensato agli allarmi. Come sarebbe a dire che forse non ce n’è?
Ecchecazzo ma se ce l’hanno anche nella libreria del mio paese, gli
allarmi! Che sicuro che non ci hanno speso soldi che tanto si
trasferiscono? Ma tu sei o fai da scemo? Ma se telecamere, sensori di
presenza peso calore rumore oggi te li regalano in kit fai-da-te per le
lezioni di applicazioni tecniche!”. La discussione rischia di degenerare.
Il barista ci guarda preoccupato. Paghiamo ed usciamo.
Poco dopo anche il sodalizio con gli altri due si sciolse. Cominciai ad
immaginare con tristezza un futuro di svegliatacce all’alba e di pastis
prima di pranzo e fino all’alcolismo se andava bene. Fortuna che un
amico di passaggio insisté perché ci trasferissimo a Maiorca. Era di
Maiorca, lui, e ci assicurò che lì avremmo potuto trovare lavoro e
casa, “di certo meglio di qui” affermò alludendo all’umile dimora e
alla situazione in genere in cui ci trovavamo, di una evidente sia pur
dignitosa povertà.
Cosicché impacchettammo, chiudemmo la casa, salutammo i vicini e i
conoscenti e via, si riparte! Prima tappa Barcellona, cioè prima la
scarpinata in montagna e poi Barcellona. E da lì il traghetto per
Maiorca.
Maiorca è un’isola tranquilla.
L’isola della calma, la chiamano. I controlli per la via erano inesistenti
o quasi. Il quasi è per il re, che lì c’ha sempre avuto i suoi giri e gli
piaceva scorrazzare su e giù, non sempre precisamente in visita
ufficiale, trasformando la città e dintorni in un vespaio di poliziotti in
borghese. E così una sera che rincasavo da solo nell’appartamentino
accanto alla ferrovia che va a Sóller, due giovanotti mi fermarono
chiedendomi i documenti. Dove andavo, da dove venivo e cosi via
interrogando. Erano alti e dall’aria tosta e non si accontentarono della
solita scusa: “sa sono un turista e da noi non c’è l’abitudine di portarsi
dietro i documenti”, come a dire educatamente “da noi dei paesi
democratici la gente normale va in giro liberamente a farsi i cazzi suoi
senza che la polizia gli rompa i coglioni”. Quelli di sicuro avevano
viaggiato più di me e questo tipo di ragionamento non li
impressionava più di tanto e decisero di approfondire anche perché,
osservò uno dei due, per essere un turista parlavo molto bene lo
spagnolo. “Il fatto è che sono un turista di mestiere traduttore”,
spiegai io, al che l’altro osservò sarcastico che non sapeva che ci si
potesse guadagnare la vita con un mestiere così. Certo che, pensai
guardandomi bene dal dire, in quanto a modi strani di guadagnarsi il
pane il vostro, secondo il mio modesto parere, ha pochi rivali. Ma,
dico, andare in giro a minacciar e picchiare e sparare alla gente lo
chiamate lavoro? E invece alzai le spalle con l’aria di “che ci vuoi fare,
si tira a campa’” e visto che comunque non ero basco mi dissero di
andar via.
L’isola della calma…, sarà stato prima dell’arrivo delle orde di turisti
che per fortuna in genere si limitavano e limitano a scottarsi,
ubriacarsi, abbuffarsi di hamburger e patate, scoparsi fra di se ed
ogni tanto affogarsi senza spostarsi troppo da circuiti strettamente
segnalati. Se evitavi le spiagge traboccanti di alberghi e la zona di
svago notturno, piena di discoteche e fauna umana uscita da un film
di un Fellini rincoglionito, potevi anche avere la sensazione di vivere
in un posto da favola.
Il trenino di legno che andava da Palma a Soller, un binario, le
carrozze da far West con una prima classe che era come un salottino
e la locomotiva a vapore, aveva la stazione capolinea, una stazione
da cartolina della corsa all’oro, a due passi da casa nostra. Ogni tanto
con la bimba lo prendevamo ed era bello quel lento scorrere
osservando dalle panche di assi lucidate dall’uso la campagna e poi i
tunnel e poi il belvedere sulla montagna che digrada verso il mare e
paesini. Era luminoso e sereno.
La campagna era bella, coi suoi olivi, mandorli, carrube, i campi di
fichi coi contadini che ti dicevano di prenderli, perché tanto li davano
ai maiali, i villaggi dal nome e l’atmosfera romantica. Valldemosa.
Deià. E c’erano le cale, in molti periodi dell’anno deserte. Ce n’era
una con una fonte d’acqua dolce che scaturiva a cascatella proprio
sulla spiaggia. Ci si praticava il nudismo in quella spiaggetta e in una
pozzanghera ci s’infangava prima di tuffarsi fra le rocce.
C’era il sole, il mare, l’odore del mare e dei pini. Notti di luna e luoghi
incantati.
E le panetterie e i cibi, retaggio cristianizzato nei nomi ma spesso
cogli stessi ingredienti legati dal passato ebraico. Gli ebrei convertiti,
cioè quelli che avevano come alternativa l’espulsione o la morte, qui
sono ancora chiamati xuetes, oggetto di un malcelato razzismo. E
sono passati cinque secoli.
La gente è come nel resto del Mediterraneo, immagino. Pacioccona,
tranquilla, amabile e diffidente. E conservatrice, anche se si è
venduta al turismo, almeno in apparenza, anche l’anima. Tranquilla si,
anche se questo non significa molto, perché a quanto mi dicono era
tranquilla anche prima del ’36 e, non appena circolò la notizia del
colpo di mano di Franco, in pochi giorni i morti si contarono a migliaia.
Anche per questo mica ci fece tanto piacere sentire del colpo di stato
di Tejero. Maiorca rientrava nella regione militare di Valencia, dove il
generale ammutinato era Milans del Bosch e la radio diffondeva un a
ripetizione il suo proclama di stato d’assedio. Credo che non ci fu
nemmeno bisogno di minacciare i redattori con le armi, si sa, i
giornalisti sono lavoratori, mica eroi, anche se poi si danno tante arie
da quarto potere e garanti della democrazia. Una voce marziale
avvertiva che chiunque fosse trovato in possesso di armi sarebbe
stato passato per le idem. “Ma di che cazzo di armi parla ‘sto figlio di
cane?”, chiese uno di noi, scandalizzato. Scandalizzato perché quei
militari sediziosi, che si riempivano la bocca di paroloni come onore e
coraggio e valore e orgoglio, poi il colpo di stato lo facevano, come lo
avevano sempre fatto, contro una popolazione che, se prima di armi
ne aveva poche, dopo quaranta anni di dittatura del vecchio
sanguinario era una delle più inermi del mondo. A Valencia
comunque, per dissuadere la plebe dall’impugnare i coltelli da pane e
le bombole di gas, il generale mise in piazza i carri armati. A Maiorca
no, anche se Guardia Civil e polizia, altri eroici difensori della
democrazia, erano piuttosto in agitazione, caso mai alzasse la cresta
qualche rosso. Poi il golpe rientrò, anche se io credo, come molti del
resto, che invece riuscisse alla perfezione: scusa perfetta per
legittimare una monarchia insediata da Franco ed a garantire la
continuità gattopardiana del regime.
Nei giorni successivi c’era chi tirava sospiri di solllievo mentre i
fascisti facevano di quell’idiota del Tejero, coi suoi baffoni da circo
equestre, un eroe e sulle pareti delle case i viva Tejero si sprecavano
e una sera partimmo in comitiva, quattro o cinque, e con la nostra
tecnica da commando urbano, cioè aspetto da giovani coppie coi
bambini andammo un po’ a zonzo per la città e sotto ogni viva Tejero
aggiungevamo a spray un y su pastelera madre, formula adottata
dopo un serrato per quanto breve dibattito, perché noi ragazzi
propendevamo piuttosto per il più classico e certamente più offensivo
y su puta madre, bocciato però dalle compagne, di credo femminista
e anche un po’ più tendenti al détournement creativo.
La tecnica del gruppone familiare l’avevamo già sperimentata e
l’avremmo applicata in seguito in piccole iniziative di dispettaggio, via
di mezzo fra dispetto e sabotaggio, come i boicott a agenzie
immobiliari o Mc Donalds: si sosta davanti all’obiettivo a chiacchierare
ed intanto uno silicona la serratura o butta acido sui vetri, o graffia la
vetrina con una punta a diamante o piscia sull’ingresso, a seconda.
La bimba cresceva. La mia compagna dava lezioni private per
ripetenti e recitava in una piccola compagnia teatrale. Io montavo
esposizioni oppure insegnavo italiano a figli e soprattutto figlie della
Palma-bene. Una delle mie alunne era figlia di un capitano della
polizia. Ce la ingegnevamo per pagare affitto, luce, mangiare. Non
avevamo vizi cari, ogni tanto una birra con gli amici, un panino al bar.
Ogni tantissimo un cinema con la bimba in collo che se ne stava
buona buona e poi si addormentava.
Passeggiavo spesso vicino alla zona del porto e chiacchierando con il
padrone di un bar seppi un giorno che cercavano gente per
riverniciare, incatramare, lucidare lo yacht di un riccone tedesco che
lo lasciava ancorato tutto l’anno a Maiorca con il capitano dentro. Ci
andai e mi presentai al capitano, un ometto serio serio e dall’aria da
ubriaco triste e coi baffi e che triste non so se lo fosse, ma ubriaco di
certo e quasi sempre. Il padrone, a quanto capii, veniva ogni tanto
con qualche amico a pavoneggiarsi al timone. Quando infine lo
conobbi, questo riccone tedesco, scoprii che era uno giovane, che non
so come aveva fatto i soldi, ma era simpatico e non s’incazzò anche
se invece di navigare sulle fresche acque mediterranee, gli toccò
starsene sul dique seco a dare una mano con pennelli e prodotti
chimici vari.
Il fatto è che la squadra di lavoratori era composta da me e da
Philippe, e su di una scala da uno a dieci la nostra esperienza in fatto
di natanti era di un due ed il due ce lo metteva il Philippe che, pur
essendo svizzero, era padrone di un piccolo veliero.
Ne parlava male della sua Svizzera il Philippe, troppo ordinata, chiusa,
intollerante e se n’era andato per non sottostare a quella disciplina
sociale che trovava insopportabile. Non è che fosse un ribelle o una
testa calda, era tranquillo, pacato nei modi e nel parlare. Aveva una
casetta in affitto in mezzo a campi di olivi, piccolina e austera e
dentro ordinata e immacolata. Ed era un anfitrione felice quando
invitava gli amici ad una fondue o a un müsli che preparava lui.
Lavorammo insieme per qualche mese, lui con meticoloso rispetto
delle misure di sicurezza, cioè con mascherine, guanti ed occhiali. E
aveva mica torto perché la polvere era da silicosi e i prodotti che
spalmavamo sulla scafo erano tutto meno che innocui per ambiente e
persone.
Persi di vista Philippe quando ce ne andammo da Maiorca. Non
avevamo telefono. Cellulari o e-mail erano fantascienza e scrivere era
faticoso. Fu un amico comune a dirmi qualche anno più tardi che
Philippe era scomparso in una tempesta al largo della costa galiziana.
Durò un anno il soggiorno maiorchino. Un anno in cui fui più
vicino che mai all’idea che in genere ci si fa, del vivere la gioventù. I
lavori che facevo, in confronto con quelli in Francia, erano di tutto
riposo. Andavamo spesso al mare, su spiagge ancora incontaminate.
Come quella lunghissima di Es Trench, con la pineta che arrivava fino
alle dune, lontana da ogni paese.
Avevamo una cerchia d’amici composita. Camerieri ballerine
professori di liceo. E un doganiere dell’aeroporto di Palma che
lavorava con Guardias Civiles e ci raccontava dialoghi esilaranti del
tipo:
“oggi mi sono comprato un impianto isterico”,
“vorrai dire stereo”,
“beh, è inverosimile!”,
“vorrai dire che è indifferente”,
“vabbè, sono parole sinagoghe”. E così via. Giurava che era tutto
vero.
Eravamo gli unici del gruppo ad avere una figlia e tutti le facevano
volentieri da zietti e lei era felice. Con noi andava dappertutto, sul
passeggino o in collo, in gita a spasso o sulla spiaggia. Cantava e
rideva allegra con gli occhi azzurri e il sorriso da pagliaccetto.
Cominciai a fare taek won do, per l’iscrizione non chiesero nulla, a
parte i soldi ovvio e il maestro mi prese a benvolere e mi disse che
c’avevo il fisico e perché non mi mettevo a gareggiare, ma quando gli
dissi che avevo venticinque anni mi fece “ah beh allora no, mi
dispiace, sei troppo vecchio”. Cazzo cominciavo bene e comunque
non avrei potuto entrare nel mondo della lotta perché bisognava
iscriversi ad una federazione, sottoporsi a visite in centri ufficiali e
quindi presentare qui e là documenti eccetera.
Si faceva anche un po’ di vita da bar. Cioè ci si ritrovava,
chiacchierava, beveva in localini simpatici, fuori dal circuito turistico e
da quello malavitoso. Ci si andava a socializzare, ma erano vicini al
porto e poteva capitarci dentro qualche marinaio o marine yankee
ubriaco. Ed un giorno che eravamo lì tranquilli arrivò uno, marinaio a
giudicare dai tatuaggi, spagnolo, a giudicare dalle quattro parole che
pronunciava, e ubriaco sfatto a giudicare dal comportamento. Afferrò
la birra di una compagna e se la bevve. Poi prese la mia. E se la
bevve. Allora l’altra compagna finì in fretta la sua. La cosa lo irritò e
disse che gliene ordinassimo un’altra. Allora io feci “va bene ce ne
andiamo” e ci alzammo e ci avviammo all’uscita, ma quello mi si
piazzò davanti bofonchiando che non me ne potevo andare perché lui
voleva un’altra birra ed allora picchiai e sentii il rumore che fa il
pugno sulla carne e sull’osso e barcollò e fece tre o quattro passi
indietro e si resse al bancone e non cadde e due o tre ragazzi del bar
lo portarono fuori.
Era bella Maiorca. Con una sua magia, diversa da quella dei boschi di
castagni, dei faggeti o delle montagne aspre della mia terra. I
maiorchini che conosco non sanno restare lontani dal mare. Gli
prende l’angoscia, hanno bisogno della vicinanza di quella distesa
immensa sempre uguale e sempre diversa che li circonda da tutte le
parti e che gli serve da strada per il mondo. Ma hanno anche le loro
montagne.
Una notte di maggio, notte di luna piena. Eravamo andati a cogliere
camomilla in un anfiteatro di rocce, alberi dal tronco nero, aria tiepida
che ti ubriacava, pesante com’era di aromi densi. Silenzio frammisto a
rumore esitante di passi, versi di uccelli, il vento. Fu una delle ultime
notti a Maiorca.
Era passato un anno di placida vita isolana e la bimba cominciava a
farsi grande. Forse un giorno l’avremmo portata a scuola e di lavoro
ce n’era poco e l’isola era piccola e tutti si conoscevano. Era meglio
muoversi. Forse ormai non mi cercavano più di tanto, ma non si sa
mai. Prendemmo la decisione di tornare a Barcellona.
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*************************Barcellona è un delta. Ramificato lento
impantanato aperto a mareggiate e fertile. Qui il viaggio durato sette
anni si disperde in mille rivoli. La militanza, gli affetti, il lavoro, la
cultura. La famiglia le amicizie. Paure angosce speranze gioie dolore.
Il quartiere del “basso” dove vivevamo, un pianterreno un po’ buio ed
umido che dava direttamente sulla via, era accanto alla Plaça
d’Espanya. Un rione popolare, vicino alla Zona Franca, con le grandi
fabbriche della Seat e di altre industrie. Relativamente vicino al porto,
c’era, accanto ad officine e capannoni, il mattatoio. Oggi divenuto
parco, con la statua del Miró “Dona amb ocell”.
C’era la piazzetta dei gitani, gitani bianchi cioè stanziali e ci si
incrociava tutto il giorno e si conviveva, anche se sono fatti a modo
loro – come noi del resto - e per esempio la mia compagna, che
conoscevano sin da piccola, quando la incontravano da sola la
salutavano ed erano gentili, ma quando andavano in gruppo non la
guardavano nemmeno.
Le ragazze erano bellissime e sempre in minigonna e scollature
audaci. E i patriarchi vestiti di nero col cappello a tese e il bastone,
eleganti e signorili. Ce n’era uno che ogni giorno faceva il giro delle
case del suo numeroso clan per assicurarsi che tutti avessero da
mangiare.
Gitano era anche Helios Gómez, cartellonista della Repubblica,
abitante forzato del quartiere quando lo rinchiusero nella Modelo, la
prigione davanti alla stazione di Sants. Ed alla Modelo affrescò la
cappella, la “cappella gitana” la chiamano, e dicono che era
bellissima, ma poi una direzione decise di ripulire il tutto e coprirono
di calce i dipinti.
All’imbrunire dalle finestre delle cucine si diffondeva il suono delle
forchette sbattute sul piatto, nell’immancabile rito della frittata per
cena.
A quattro passi da casa c’era il Montjuïc, la montagna che strapiomba
sul mare, sovrastata da un castello o meglio una fortezza al cui
interno fino a poco tempo fa c’era il museo militare con la statua di
Franco e la bandiera catalana esposta sotto una teca come bottino di
guerra.
Ci portavo a spasso la bambina che era socievole e quando vedeva un
altro essere delle sue dimensioni gli si avvicinava sorridente con
l’intenzione di arruolarlo nei suoi giochi. E un pomeriggio che ero lì
sulla mia panchina dando un’occhiata a lei e una ad un libro sentì che
un bambino le diceva che il catalano era una lingua da ignoranti e che
secondo suo padre lui non doveva giocare con bimbi ignoranti. La
portai via dicendogli (al padre) che al mio paese gli avrebbero rotto il
muso.
Intorno alla fortezza c’è il fosso, che si estende per centinaia di metri.
Fa il giro della montagna e adesso ci hanno fatto i giardini ed un
campo di tiro all’arco. Cosa di dubbio gusto, visto che il tiro al
bersaglio ce l’hanno fatto in questo esatto punto per decine di anni e
contro gente in carne ed ossa. Qui venne passato per le armi anche
l’ultimo presidente della Generalitat repubblicana, Lluis Companys.
Subito dopo la morte di Franco, a Montjuïc si riunirono centinaia di
migliaia di persone per le giornate anarchiche. In un tripudio di
bandiere rosse e nere parlò Federica Montseny, eroina del movimento
libertario, ex ministro anarchico del governo repubblicano, una vita da
esiliata.
Adesso la montagna è piena zeppa di impianti artistico-culturali: la
fondazione Miró, il Museu d’Art de Catalunya, il complesso teatrale del
Teatre lliure, nello spazio del vecchio Mercat de les Flors, il teatro
Grec, riproduzione appunto di un teatro greco e poi fontane e aiuole e
giardini di stile modernista ed ancora il giardino botanico.
E ci sono anche il palazzetto dello sport e lo stadio olimpico. Lo stadio
era stato costruito per le olimpiadi del 36 che dovevano svolgersi qui
ma il comitato olimpico, che già allora doveva essere composto da dei
begli elementi, scelse la Berlino hitleriana ed allora Barcellona decise
di fare delle olimpiadi popolari, ma poi scoppiò la guerra e lo stadio
finì nell’abbandono.
Gli anni cominciano a scorrere, a sfilare sempre meno lentamente in una girandola di
colori, odori, sensazioni, fitte, grida, sussurri, lacrime e risa. Sorrisi. Uns vita normale,
una famigliola di lavoratori con una bambina che allevano come meglio possono.
Conoscevo uno che raccontava che da piccolo lui pensava che tutti i
babbi e le mamme degli amici fossero tossici che si facevano le pere
quando erano in casa, perché il suo mondo era così.
Noi non eravamo così marginali, al massimo un po’ hippyes.
Niente alimenti raffinati, zuccheri, coloranti. Niente pannolini usa e
getta che inquinavano e irritavano il sederino. Usavamo quelli di
cotone, che si lavavano a mano e per farli venire bianchi si
stendevano al sole o ci si metteva un po’ d’acqua ossigenata. Niente
succhiotti e biberon. Latte materno e poi pappine fatte con cereali
integrali tostati e macinati in casa e miele e frutta. Fuori caramelle e
dolciumi. I vestitini recuperati da familiari, conoscenti.
Paffutella e sorridente i primi anni. Poi mingherlina e un po’ timida.
Andavamo a spasso, la portavo in bicicletta.
Una bimba zampettante felice col cappottino due taglie più lungo che
si tuffa di colpo nel Mediterraneo gelido di gennaio, che si guarda le
scarpine nuove appena fregate mentre passiamo davanti alla cassiera
del supermecato. Che ascolta affascinata i racconti di magia e vuole
essere una fata e che di notte si alza e corre in preda ai sogni. E poi la
polmonite e ascolta contenta sul lettino dell’ospedale le storielle che
invento per lei, che poi sono versioni comiche di episodi come il Ratto
delle Sabine o i Musichieri di Brema, che piacevano tanto anche a me
quando ero piccolino e lei sogna di diventare veterinaria e di salvare e
curare animaletti.
Poi cresce, diventa adolescente, studia, va all’università, viaggia e un giorno viene
investita da una macchina e per poco il mondo non si ferma. Per un soffio. Per un
miracolo non si ferma.
Gente normale con preoccupazioni normali: trovare una casa nuova più in centro,
arredarla, pagare l’affitto. Cerco lavoro e ne trovo e via via divento sempre più bravo
fino a discreto professionista. Stimato da colleghi e clienti. Parliamo di lavoro e di sport
e di politica e della famiglia e dei fatti del giorno. Nessuno sospetta le paure i batticuori,
le acrobatiche operazioni per schivare controlli. Per entrare, senza documenti, in luoghi
ufficiali. Eludo misure di sicurezze non per attentare né per rubare. Per lavorare. Se ci
pensi è buffa. Rischiare ad ogni piè sospinto anni di galera per andare a faticare.
Nessuno sospetta ed io arrivo a fine mese fra una scarica di adrenalina e l’altra. Ma ti
abitui. Come ti abitui ad andare in giro scrutando la strada per scoprire controlli, posti di
blocco.
Clandestino nel lavoro, per strada. Anche con gli amici e dispiace perché sono gente che
amo ed ammiro.
Non ti esporre, mi diceva il babbo. Ed io invece mi esponevo. Manifestazioni, riunioni,
iniziative. Tiravo sassi e bottiglie e facevo barricate. Partecipavo a movimenti d’ogni
genere. Alle grandi mobilitazioni di massa di un paese che è capace di scendere in
piazza a fiumi senza partiti od organizzazini che lo inquadrino. Referendum contro
l’ingresso nella NATO, le lotte contro il nucleare, contro la repressione, contro la guerra
in Jugoslavia e poi in Irak. Collaboravo con gruppi e gruppettini. Frequentavo centri
sociali. Scrivevo su riviste alternative. Partecipavo al movimento di radio libere.
Barcellona è una piccola grande città. Vivibile, affabile. Ma io avevo bisogno di aria
pura, di spazi liberi e così viaggiavo e percorrevo in lungo e in largo in bicicletta, in
treno questo paese che sentivo ogni volta più mio. Montagne e spiagge e pianure.
Montserrat. Paesi con le loro tradizioni, molte basate sul fuoco: “correfocs”, diables,
castells de foc, falles, fogueres. Fino ai trabucaires, cioè squadre di amanti della polvere
che con i loro schioppi sparano in aria salve assordanti. Sfilano in costume d’epoca,
hanno i tamburi ma quello che gli piace è il rumore e l’odore della cordite.
E mi allontanavo dall’Italia anche con il pensiero. Non cercavo più giornali,
m’interessavo poco per quello che succedeva.
Gli anni ottanta decretarono la fine delle grandi speranze e dei sogni dei 70. Vinsero gli
altri. Imponendo le loro menzogne, la loro brutalità.
Restavano le visite del babbo. Era in pensione e una volta all’anno indossava i panni del
perfetto clandestino e, infilando una coincidenza dietro l’altra con la precisione che
permetteva la puntualità delle ferrovie, passava due, tre giorni in treno per venirmi a
trovare. Con le notizie della famiglia. Le foto della casetta comprata con sacrifici per
dare una gioia alla mamma che aveva sempre sognato un focolare suo con un pezzetto
di terra dove sistemare le sue piante. Se la poté godere solo un anno perché poi il tumore
la vinse ma in quell’anno disegnò un giardino con aiole che sarebbero fiorite in tutte le
stagioni dell’anno.
Venne la Lucia a dirmi che la mamma era morta. Quasi da due mesi.
Aveva proibito a tutti di farmi sapere della sua malattia. La polizia
sorvegliava troppo da vicino il babbo, gli zii, mia sorella. Anche al
funerale c’erano carabinieri in borghese a scrutare se per caso non mi
fossi confuso fra la folla per seguire la bara. Si offrì lei. Era la cugina
più piccola. Andavamo al mare insieme. Al campeggio. Giocavamo da
piccoli sulla piazzetta davanti a casa sua, a strapiombo sul fiume.
Rientravo in casa. Era un basso, la porta dalla strada dava sul
soggiorno. C’era un vecchio sofà proprio davanti. Lei era seduta lì.
Si alzò e mi abbracciò senza dir nulla. Le chiesi se aveva sofferto
molto. Mentì dicendomi di no.
Uscimmo per una triste passeggiata. Era marzo, il cielo grigio. Ripartì
la sera stessa.
Mi raccontava anche le nascite, il babbo, mi portava le foto dei fratelli piccoli,
dei nipoti. Bambini che diventavano giovani e poi adulti e trovavano un posto,
un’occupazione e mettevano su famiglia.
Poi le visite cessarono, qualche telefonata da Roma o da Firenze, una voce
stanca, poi più niente. Finché non delegò il suo ruolo di staffetta fra me e la
famiglia. Mi dissero che stava male. Che era stato operato. Poi che non si
poteva più muovere.
Imparai la loro lingua. Quella che non era ancora del tutto ufficiale. Facevano
quadrato intorno. Era un segno d’identità. Lo spagnolo lo parlavo per obbligo,
anche se era una lingua che mi piaceva, il catalano per rispetto e perché mi
accorgo che ti permette di comunicare in un altro modo.
Poco a poco m’imbevevo anche di nuove tradizioni. A mezzanotte di
capodanno mangio i dodici anici di uva. Uno per ogni rintocco. C’è chi ci si
strozza. La notte dell’epifania mettevo la calza per la befana accanto alla
scarpina per i regali dei re magi e l’acqua e i biscotti per i loro cammelli. La
notte di San Giovanni mangiavo coca bevo cava e saltavo i falò (bè, li saltai
finché il comune non proibì i fuochi pr strada). Il lunedì di pasqua andavo a
mangiare la mona in campagna. Facevo “cagar el tió” tradizione identica a
quella del ceppo casentinese: prendi un tronco e lo batti con un bastone,
mentre i bambini cantano una filastrocca e lui caga caramelle, torroni, leccornie.
Mangiavo bunyols per la quaresima. Regalavo una rosa alla mia compagna e
ne ricevevo un libro per Sant Jordi. Imparai a cucinare frittate di patata, risotti,
spinaci e verdure. Ad andare in montagna non solo a depredare il bosco di
funghi, castagne e di quel che capita, ma per il piacere di respirare, osservare i
paesaggi, sentire gli alberi vivere, annusare le essenze, provare la
soddisfazione che ti da “fer cims”.
Così passarono gli anni.
“Abbiamo pagato caro, abbiam pagato tutto!”
Fa freddo. È sera, inganno l’attesa tagliuzzando con una lametta
nascosta nel cavo della mano indumenti sportivi di marca – il mio
granello di sabbia alla lotta al consumismo - in un grande magazzino
al centro della città. Alle otto, sotto una pioggerellina fine, raggiungo
il gruppo che si è formato in un angolo della piazza. Saluto i
conoscenti dietro lo striscione. Partiamo. Furgoni della polizia a decine
agli angoli delle strade da dove dovremo passare. È morto Raul, un
giovane okupa assassinato da un nazi skin durante le feste di un
quartiere. Davanti ci sono i genitori del morto e dei suoi amici.
Cinquantenni a viso scoperto. Vado con loro. I ragazzi dietro sono
incappucciati. Penso che il loro compagno è morto perché non sanno
picchiare, perché nonostante le espressioni truci e gli atteggiamenti e
i vestiti da guerriglieri metropolitani non sanno difendersi. Penso alla
rabbia puerile che li spinge a chiedere, loro anarkopunk, condanne
pesanti e più galera. Non sono uno di loro. Sono qui perché me
l’hanno chiesto e perché comunque fa schifo che un gruppo di fascisti
scorrazzi in questa città ed ammazzi qualcuno e che per strada
scenda solo questo manipolo scalcinato di uomini e donne di mezza
età a proteggere un altro scalcinato manipolo di giovani.
Sarebbe davvero da scemi, l’ennesima beffa, “cadere” proprio
adesso, a pochi giorni forse dalla meta di tutti questi anni. In una
manifestazione in cui mi sento estraneo. Guardato di traverso dai
ragazzotti che mi circondano e che ricambio con occhiate assassine.
Non mi sento punto tenero, sarà l’età o sarà che ne ho visti troppi
imboscarsi, cambiare letteralmente la giubba di cuoio per quella di
velluto da professore universitario, verso gli atteggiamenti da duri
della lotta sociale. “Ammazza un fascio” scrivono sui muri o gridano
dalle loro radio e poi magari qualcuno, magari un ragazzo ingenuo e
con tanta rabbia dentro ci crede, e va e cerca di ammazzare il fascio,
e ci rimette la pelle. Oppure ci riesce e ci rimette comunque la vita
perché con noi non sono teneri, per noi la galera è sicura.
Ricordo con rabbia gli slogan “con il sangue delle camice nere più
rosse faremo le nostre bandiere” urlati in coro e le canzoni di lotta.
Ma poi invece i compagni che si armarono, i compagni che lottarono
spranghe e pistole in mano, furono additati come provocatori, infiltrati
e il nemico da sconfiggere e da abbattere e tanti finirono in galera e
molti morti ammazzati e non è giusto e non è bello e insomma penso
che se vuoi ammazzare un fascio fallo pure, predica con l’esempio.
Ma stasera nessuno tira sassi, né bottiglie. La polizia sorveglia da
lontano. Interrompono il traffico. Una ragazza legge un manifesto
ricco di retorica combattente. Qualcuno fa scoppiare mortaretti. Altri
scrivono sui muri con gli spray. Continuiamo. Qualche slogan.
Silenzio. La pioggia è cessata. Finisce il corteo. Ite, missa est. Brevi
saluti. Ce ne andiamo. Lanciando ogni tanto una sbirciatina alle
spalle.
Squilla il telefonino ed è mia sorella. È quasi un anno che non la sento
e per un attimo ho paura che sia la notizia di un altro lutto ed invece
mi dice « ciao uomo libero » e mi sento di colpo lacerato, sento
proprio il rumore in testa come di un lenzuolo che si strappa, fra
l’esultanza di uno che è riuscito a attraversare un campo minato e
l’angoscia dell'ergastolano graziato ormai vecchio che con le quattro
cose infilate in una borsa di plastica, regalo di qualche associazione
filantropica, se ne resta imbambolato davanti alla porta del carcere,
sgomento, frastornato, spaventato da quel mondo che gli scorre
davanti troppo veloce. E che vorrebbe, sapendo che non può (non
solo farlo, neanche proprio volerlo), rientrare fra le mura e gli odori
conosciuti del suo piccolo e domestico inferno ed esita davanti alla
voragine di quel che gli resta d'una vita « normale ».
Mi viene in mente un brano di Assalti Frontali. “Va bene che non vado
a mettere le bombe, va bene che non sputo sulle vostre tombe”,
sublime sintesi che viene a dire ecco, basta, non spaccatemi più le
palle. Abbiamo pagato caro, abbiamo pagato tutto. Per noi e per gli
altri. Per quello che abbiamo fatto e per quello che non abbiamo fatto
e anche per quello che avremmo dovuto fare. Anche se sembra di no.
Anche se il 93% degli italiani trova normale che gli irriducibili della
lotta armata degli anni settanta, cioè gente che alle sue idee, giuste o
sbagliate che fossero, è rimasta fedele, coerente, continui in galera
ed all’esilio, fuori da qualsiasi indulto, amnistia perdono. Lo stesso
93% che non si chiede che fine hanno fatto stragisti, “gladiatori” e
piduisti.
Finiti i 33 anni di latitanza, di paura, disperazione. Ma anche la
tranquillità del non decidere, la scusa sempre pronta per il non agire.
Chissà cosa c’è adesso al di là del limbo rassicurante dell’esilio, della
falsa identità, di questa in fondo mia unica vera vita?
Ci sono, tanto per cominciare, giorni e settimane e poi mesi di
indecisione, perché gli avvocati non sanno bene cos’è meglio fare
perché di casi come il mio ce ne sono ben pochi e tutti diversi.
Sento il babbo al telefono, adesso non c’è più la paura delle
intercettazioni. Ha la voce rotta e stanca e mi dice di far presto. Alla
fine decido di andare. Non ho documenti, risolverò una volta lì.
Andiamo in macchina. Scelgo un valico che ho già fatto altre volte,
vicino alla Jonquera. Una stradina che si inerpica attraverso le
Alberes, la catena coperta di querce e macchia mediterranea che
finisce a strapiombo sul mare, al Cap de Creus. L’autostrada scorre
lungo il Midi. Ci fermiamo ad Arles. Dormiamo in un alberghetto
accanto al fiume. Parlo poco ed ascolto quel francese familiare, dei
campi e dei villaggi, delle conversazioni nei bar. I colori delle case
sono di un pastello luminoso, si confondono con il cielo, gli stagni, le
pianure ancora verdi. Non passiamo da Ventimiglia e deviamo verso
Besançon. La macchina si arrampica su per i tornanti. Le Alpi ai due
lati sono innevate. Fa freddo. In alto c’è nebbia e cade una
pioggerellina mista a nevischio. Qando scolliniamo intravedo il
cartello che dice che siamo in Italia. Niente poliziotti, niente controlli.
Italia. Bardonecchia, dove avevano mandato un babbo diciannovenne
a farsi le ossa come capostazione.
Ci fermiamo a mangiare in un ristorante, tipica osteria di montagna,
ed il padrone è un siciliano, specialista in pesce, dice orgoglioso, e
ridiamo pensando all’Ordinealfabetix, il pescivendolo del villaggio
dell’Asterix.
E poi ancora chilometri di paesaggi che mi sono sconosciuti stranieri
e cerco di capire che sento e non sento niente, nemmeno tanta
curiosità. Che cresce a misura che ci avviciniamo a casa. Cioè a quel
pezzo di terra che per tanti anni ho chiamato casa.
È sera di nuovo quando ritrovo mio padre, la mia famiglia.
Racconto. Ascolto. Mi destreggio con l’aiuto di mia sorella e mio
cognato in una gimkana burocratica. Nessuno sembra saper bene
cosa bisogna fare per restituirmi lo status di cittadino munito di
tessere, carte, numeri, cioè a norma.
“Scusi ma lei dov’è stato in tutti questi anni?” mi chiedono in
Comune, “Possibile che non abbia un documento un certificato un
permesso di residenza, insomma qualcosa che dimostri che lei è lei?”,
insistono.
Eh no, non ho nulla nulla che possa dimostrare che io sono io, a meno
che non vogliate le impronte digitali e poi portarle alla polizia, spiego.
Ma capisco subito che nessuno vuole sollevare troppo baccano, chissà
perché, mi chiedo, ma poi in fondo me ne infischio.
Le impiegate comunque sono gentili ed efficienti e trovano il modo di
darmi una carta d’identità utilizzando l’iter che applicano di solito ai
nomadi: un foglio con il nome, una foto, una dichiarazione giurata di
due testimoni che dicono che tu sei tu e che vivi dove dici che vivi.
Sono rientrato in città dalla porta da cui ne ero uscito 32 anni or sono.
Tutto è più piccolo che nel ricordo, anche il carcere, con le sue mura
sulla via le torrette rinnovate subito dopo la fuga.
Fuori una guardia dai capelli grigi cammina rasente al muro
scansando le macchine. Lo guardo, casomai fosse uno dei vecchi
secondini. Comunque non li riconoscerei. Quelli più anziani saranno in
pensione o morti da un pezzo e di giovani ce n’erano pochi, tre o
quattro. Magari uno è proprio questo qui. Lo guardo, mi guarda. Penso
di no e comunque me ne frego. Che dovrei fare? Invitarlo ad
un’allegra rimpatriata per ricordare i bei tempi andati? Continuo a
camminare, il portone si apre per far entrare il camion della nettezza
urbana. Getto un’occhiata dentro, sul cortile ricoperto ancora di
cemento e ghiaino o, come mi dico, ricordando il dialetto, brescino..
Guardo per un attimo le mura. Da fuori, le finestre con le sbarre,
ancora illuminate. Correvamo nel buio sul terreno bagnato.
Quasi nulla è cambiato, più macchine verso la stazione, gente di
pelle scura, accenti diversi. Stesse strade, stessi palazzi aristocratici.
Stessa atmosfera di culto al bello, meglio se redditizio, meglio se
vendibile, affittabile, sfruttabile. Senza le esagerazioni di mal gusto di
altri territori e paesi. Un po’ più di qualunquismo, ce n’era già tanto
allora, nei discorsi che s’intrecciano nei soliti bar, nello stesso corso,
nella medesima piazza. Cambiano, ma poi mica tanto, le musiche che
escono dai locali. Le divise dei poliziotti. Il look delle frotte di
adolescenti. Uguali anche i giornali, con lo scandalo, la cronaca nera,
la polemica, lo sport, gli eventi culturali – rigorosamente locali -.. Che
cazzo come se fuori di qui ci fosse cultura!
Torno da solo al cimitero. La mamma è morta a 53 anni dopo aver
lottato per difendermi. Non aveva più energie per affrontare il tumore.
È qui nella cappella di famiglia, assieme ai nonni, alle sorelle, al figlio
Tito e allo zio Enzo.
Piove. Prime avvisaglie dell’autunno. Piove sui cipressi, gli olivi, le
vigne, le pendici e le tamerici che mai ho capito bene cosa cazzo
fossero. Piove comunque sulla dolce terra toscana, dura in realtà
come qualunque altra. Toscana, la terra in cui una frase come “coso
cosami il coso” può significare “scusi signore, mi può passare il sale”
o “Paolo salutami il tuo caro babbo”... e il bello è che ci si capisce.
Guardo la televisione.
È un’Italia dove la corruzione ha raggiunto livelli sudamericani. Dove
si organizzano cacce ai rom, novello popolo maledetto. Dove a Roma
capitale la folla saluta, appunto alla romana, il nuovo sindaco. Dove
un truffatore di bassa lega è padrone di televisioni, media e del
governo. Dove le decisioni economiche le prendono quattro
multinazionali. Dove i ragazzi dei licei credono che le stragi di piazza
Fontana Bologna, Brescia siano state opera delle Brigate Rosse. Dove
la strategia della tensione, quella dei massacri di piazza Fontana,
dell’Italicus, Brescia o Bologna viene ricordata solo in programmi
specializzati in ufologia e misteri delle piramidi. Dove si orecchia
sempre più nitidamente, dietro la demagogia e il populismo becero di
una destra gretta e forcaiola, amplificate nell’arena televisiva, il
“muera la inteligencia” che Millán Astray urlò in faccia ad Unamuno.
Inizio uno strano periodo di pendolarismo. Spesseggiano i viaggi. I luoghi del transito
sono gli aeroporti di Barcellona, Girona, Pisa, Firenze. Stazioni. L’allegria delle persone
care, le sorprese, gli amici. Pochi, pochissimi, anzi nessuno di quelli di allora. Vado a
Marigliano a trovar mia zia. Sono passati 35 anni. Siamo invecchiati. Lei è più esile che
mai, debole. Ha quasi del tutto perso la vista e questo l’addolora perché non può
leggere. La casa che conoscevo della sua famiglia risultò danneggiata dal terremoto ed
ora vive fuori dal paese, in uno dei tanti caseggiati costruiti sulla ferace campagna
partenopea…
In casa non ha posto, ci ha prenotato una camera.
L’albergo è grande, lussuoso, stona in quella periferia degradata. Mi addormento nella
stanza confortevole, calda. Nel sonno sento bussare, la mia compagna che si alza, una
voce che le chiede di aprire. Quando apro gli occhi accanto alla sponda del letto c’è un
poliziotto giovane. Ha l’accento napoletano. Dice che devo accompagnarlo per chiarire
la situazione. Quante volte dovrò chiarirla, mi chiedo. Lei si veste in bagno, vuole
venire a tutti i costi anche se il poliziotto insiste a dire che non ce n’è bisogno, che sarà
questione di un’oretta. Io, m’infilo i pantaloni, lentamente, tenendo le mani bene in
vista, le scarpe, la maglietta. Usciamo in corridoio. Lui ci precede, mormorando
spiegazioni. Fuori aspetta l’altro, più arrogante, giovane anche lui, la mano sulla
fondina.
Il cervello comincia a macinare pensieri. E se non sono poliziotti? E se qualcuno ha
deciso di farmi sparire, stavolta definitivamente? In fondo qui è più facile. Qui, tanti
anni fa, la camorra ha ammazzato un mio zio solo perché si era opposto
all’urbanizzazione di un pezzo di quella terra nera che lui, conservatore colto, voleva
mantenere incontaminata.
Fuori però ci aspetta una volante. Le uniformi va bene ma tanta mssa in scena per uno
come me sarebbe troppo. Mi tranquillizzo. Ci fanno salire dietro. Sui sedili di plastica.
Scomodi ma più facili da ripulire se si sporcano di sangue, vomito, orina, residui
dell’umanità che li frequenta di solito: drogati, barboni, immigrati.
Filiamo veloci e in silenzio lungo una strada deserta. Fuori c’è il buio. Ci fermiamo
davanti a una palazzina. Squallida. Dentro ci sono solo altri due agenti in borghese. Dei
ragazzi anche loro. Ci dicono di sedere in una specie di sala d’aspetto. Ubbidiamo.
Nell’ufficio i quattro si danno da fare intorno a un computer. Telefonano. Mi dicono di
entrare e m’interrogano. È curiosità, spiegano. Capiscono che è una cosa vecchia e che
dev’essere prescritta ma nei loro archivi risulta un mandato di cattura rinnovato nel 92,
quindi devono fare accertamenti. Gli racconto la storia. Di un’epoca in cui loro non
dovevano essere nemmeno nati. Alla fine decidono di chiamare il commissario.
Sento che al telefono parlano di “una storia di comunisti e fascisti”. Poco dopo arriva un
uomo della mia età. Mi saluta. Confabula con gli altri. Mi dice che telefonerà a Roma.
Una mezz’oretta dopo esce dal suo ufficio, viene e mi suggerisce “da coetaneo a
coetaneo” che appena arrivato ad Arezzo vada in tribunale a poi da quelli della brigata
criminale perché sono loro che devono togliere dal programma il mio nome. “noi ce la
siamo presa con calma” aggiunge “ma se ti fermano per strada puoi trovare qualcuno
che si innervosisce”. Poi tutti e si mettono a redigere il rapporto. Ognno dice la sua e la
cosa va per le lunghe ma alla fine sembrano soddisfatti. Ci riaccompagnano in albergo
gli stessi poliziotti della pattuglia ch entrano per spiegare al receptionista che si è
trattato di un banale errore. Mi riaddormento subito. Di mattina vado a comprare
mozzarelle di bufala e il babà per il babbo in una pasticceria dai colori del tutto diversi
da quelle toscane. Andiamo a salutare la zia. Tornate presto, ci dice.
Cerco di stare il più possibile col babbo.
Lo chiamavano argento vivo, da piccolo, perché non stava mai fermo un momento.
Anch’io lo ricordo sempre in azione, sempre agitato. E adesso è su di una sedia a
rotelle, con la canottiera ingiallita dai tanti lavaggi. Un paio di pantaloni di una tuta. I
piedi deformati dall’artrite infilati in due sandali. Ha piaghe da decubito. Cerotti di
morfina non gli fanno sentire il dolore. Quello fisico. Ma il rintontimento lo angoscia.
Ha sempre avuto terrore della malattia psichica, di essere trattato da matto. Terrori che
si tira dietro dall’infanzia, come quello di finire sepolto vivo. Inorridito ricordava un
cadavere che avevano riesumato e che si era mangiato le mani.
La chiesa però adesso permette la cremazione e lui si raccomanda, vuole che le sue
ceneri vengano messe nel loculo accanto alla bara della mamma.
Tanto ho pensato a quello che avrei fatto per lui, per aiutarlo dopo tutto l’aiuto e i
sacrifici. Ogni tanto esasperato urla che non lo capiscono e poi mi sussurra “tu si che lo
capisci, tu sai cosa vuol dire essere in una prigione”.
La prigione è il suo corpo. Dov’è rinchiuso, impotente. No, non so cosa si sente. Non
riesco a immaginarlo. Non voglio immaginarlo.
Conversazioni interminabili con mia sorella, mio cognato, i loro amici. Gli unici che
all’epoca del processo e dell’evasione gli furono accanto. Sono curioso di sapere.
Strano, tanti anni e mi rendo conto che non sapevo nulla di quello che accadeva fuori ed
un’idea vaga di come si ordiva l’accusa nei miei confronti. Un’idea molto vaga
dell’inferno che quel periodo rappresentò per la mia famiglia.
Non ne parla di quel periodo il babbo. I suoi sono ricordi vaghi. Non per demenza
senile, non è mai stato molto attento al passato. Era un capostazione, attento,
scrupolosamente attento al presente ed all’inmediato futuro.
Cedo alla tentazione di andare a fare un giretto nei luoghi della mia
infanzia e gioventù che vorrei poter definire felici. Non sono cambiati
granché. Le porte della stazione ora sono d’alluminio. C’è un
parcheggio davanti al posto del piazzale e del campetto dove una
volta avevano trovato una tartaruga enorme e dove giocavamo al
pallone o ad attività come tirarci zolle di terra o palle di neve, a
seconda della stagione, con qualcuno che nelle palle ci metteva
dentro sassolini che provocavano a volte sberci di cuoio capelluto con
abbondante spargimento di sangue e cazziatone dei genitori del
ferito.
Guardo su verso le finestre dove si affacciava mia madre a
sorvegliare i nostri giochi. Salgo mentalmente su per le scale
accarezzando il passamano. Sotto lo zerbino c’è la chiave. Il corridoio
e in fondo la cucina a destra, con la grande tavola col ripiano di
marmo dove la mamma correggeva i compiti o scriveva le relazioni
per la scuola aiutata dal babbo che batteva a macchina, o che
fabbricava fiori di carta perché lì, con la cucina economica sempre
accesa, si stava al calduccio.
La mamma ogni tanto si alzava e con la sua mezza sigaretta accesa si
avvicinava alla stufa. Era come i suoi gatti: ci si accostava tanto che
aveva quasi tutte le gonne bruciacchiate. Davanti alla porta della
cucina, dall’altra parte del corridoio, c’è la camera dei ragazzi, cioè
mia e dei miei fratelli. Sotto la finestra una scaletta da sul balcone-
terrazza, a così pochi metri dalle catenarie che si vedevano le scintille
nel buio quando passavano i treni ed a volte le tempeste facevano
saltare i grossi isolatori di porcellana e ne ritrovavamo i frammenti sul
davanzale.
Sul terrazzo la mamma ci teneva le sue piante che nutriva di terriccio,
fondi di caffè, acqua e premure. Ci tendeva anche i panni, ritirandoli
rigidi come baccalà nelle giornate d’inverno perché lì fa freddo e una
notte che aveva tirato dentro la nostra camera i vasi perché
minacciava gelo la mattina ritrovammo le piante tutte stecchite. Io mi
vestivo da sotto le lenzuola, le coperte, il coltrone.
Torno fuori. Sul parcheggio le macchine sono più numerose e lungo le
vie del paese vedo più negozi, più bar, più gente. Non mi tolgo gli
occhiali da sole e non scendo dalla macchina perché sono io il reprobo
il proscritto, il cattivo insomma. E’ stato scritto e deciso così da
stampa e magistrati.
Io e non quelle decine d’infami che per viltà o cattiveria permisero
che mi schiaffassero in galera e rovinassero la mia famiglia e...
Dài, non te la prendere, ormai è acqua passata. E andiamo a vedere il
mio vecchio liceo che è sulla collina, al cuore di un paese che fu prima
etrusco poi medievale. Da lassù il panorama è davvero magnifico, con
la valle che si allarga quadrettata di campi fino all’Amiata e al
Trasimeno. Racconto della battaglia di Annibale, della strategia dei
cartaginesi, dei romani che avevano abboccato come lucci, delle
località che si chiamavano Sepoltaglia Ossaia Sanguineto. Tanto per
dire la carneficina che ci fu. E tutto a mano, osservo, mica come oggi
che basta pigiare un bottone per ammazzare qualche migliaia di
cristiani, o musulmani o buddisti che siano.
Imbocchiamo la via principale, rigorosamente pedonale anche perché
le macchine d’oggi ci passerebbero appena, e la piccola austera ed
altera cittadina è diventata un parco tematico, come Venezia
Carcassona Disneyland il Vaticano, insomma un posto che vende
l’anima o quel che ne resta dopo averla messa in vetrina
infiocchettata, incartata e col cartellino col prezzo sotto.
È tutto un susseguirsi di negozi e ci hanno fatto perfino un albergo di
lusso. Prima, che io ricordi, c’era solo quello del Menci che ci teneva le
puttane, che aveva fatto la sua galera e che aveva la mosca che gli
saltava facilmente al naso. Come una sera che raccontava di fronte al
solito pubblico di giovinastri sfaccendati di quando lo avevano
tradotto, assieme ad altre decine di detenuti, a Firenze. Li avevano
messi in fila, venti o trenta, incatenati gli uni agli altri, con i fagotti
stretti in mano e fatti passare alla stazione fra due ali di gente. Uno
del gruppo di giovinastri aveva chiesto sghignazzando se la scena non
l’aveva vista in un film di quelli sulla Russia. Ma sghignazzò poco
perché il narratore, che oltre a magnaccia era comunista ortodosso,
gli spaccò una sedia addosso e finì in rissa generale coi tavolini
rovesciati e vetri rotti.
Adesso sciamano i turisti vomitati a frotte da pullman, auto a
noleggio, auto con targhe strane. E filmano fotografano e comprano.
Entriamo in un bar e ricordo che ai tempi la barista era
indiscutibilmente il più bel speciwomen della zona, e con perversa
curiosità scruto dietro il bancone per vedere che è diventata. Non c’è,
meglio così.
Fuori, sulle scalinate del Comune, stanno provando un impianto
musicale, a tutto volume con la hit parade dei successi di trenta anni
fa, proprio gli stessi, che rimbombano fra le pietre antiche e fanno
vibrare le insegne delle bottegucce di souvenir.
Non chiedo neanche che cosa festeggino, prima c’erano solo la festa
dell’Unità e qualche rara sagra paesana. Adesso di sagre ne fanno, a
quanto ho visto, di tutti i colori e sapori. Nessuno mi riconosce e non
riconosco nessuno. I giovani non erano manco nati quando io sparii
dalla circolazione. Quelli della mia età adesso chissà che facce hanno
e quelli più vecchi saranno o morti o inchiodati su qualche sedia a
rotelle davanti alla Tv, con l’unica preoccupazione di non pisciarsi
addosso.
M’è venuto il mal di testa. Saranno le emozioni, sarà il rumore, ma
devo fermarlo prima che esploda e che il mondo scompaia in una
girandola di suoni, luce, odori. Entro in una farmacia, mi sembra che
sia quella solita, generazioni di onesti esercenti. Quello al banco avrà
un 40 anni, manco dieci quindi quando io bazzicavo in questi posti,
figurati se me lo ricordo.
Un Aulin, gli dico. “C’ha la ricetta?” fa lui e lo dice con tono sospettoso
e guardingo, manco gli avessi chiesto se sua moglie è in casa da sola.
“Non sapevo che ci volesse la ricetta. Per fortuna non vengo quasi
mai in Italia, sa? E comunque vorrei qualcosa per l’emicrania”, taglio
corto io anche se mi piacerebbe specificare, magari prendendolo per
un orecchio, che non sono un drogato e che invece lui sì che è uno
spacciatore o, se preferisce, pusher che ha reso tossici centinaia di
clienti vendendogli Aulin Optalidon Prozac barbiturici e chissà quanta
altra merda. Così come pusher e spacciatore era suo padre, che
vendeva anfetamine e si sapeva già allora, cazzo, che provocavano
assuefazione ma andava bene lo stesso che le massaie le
comprassero per mangiare meno e i trattoristi per star svegli tutta la
notte. O come suo nonno, che oltre che spacciatore era fabbricante
di laudano, cioè tintura di oppio che vendeva per far star buoni i
bambini, e ci credo che stavano buoni, e le ragazze giovani perché
non entrassero in calore.
E invece gli dico educato che l’aspirina alle mie emicranie non gli fa
manco il solletico e lui mi guarda alzando le spalle e una cosa davvero
non è cambiata, osservo, nonostante il glamour, ed è l’antica,
rinomata cafoneria locale.
Riprendiamo la macchina. Prendo una strada secondaria. Da queste
parti viveva il Baldi.
Suo padre era un omone grande e grosso e peloso come un orso.
Abitavano in una villa scalcinata circondata da un parco inselvatichito
come il padrone. Aveva una moto di quelle che non si fabbricavano da
anni, probabilmente un residuato bellico. La moglie era una donnina
dimessa dai modi timidi e signorili. Il loro unico figlio frequentava la
mia stessa classe al liceo. Tutti i giorni faceva in bicicletta parecchi
chilometri in salita per venire a lezione, sotto pioggia, neve o un sole
spaccapietre. Un po’ perché non avevano una lira e un po’ perché suo
padre voleva farne un’atleta. Ma lui poveretto il fisico non ce l’aveva
proprio. Non eravamo molto amici, forse perché lui di amici veri e
propri non ne aveva, sempre in disparte, silenzioso. Ma quando sui
giornali un mattino arrivò la notizia che mi avevano condannato, mia
madre sentì suonare il campanello giù in strada e uscì sul pianerottolo
ed in fondo alle scale c’era il Baldi che le disse soltanto “signora mi
dispiace tanto” e scappò via di corsa. Uno dei pochi.
Il babbo peggiora ad ogni mia visita. Lo ricoverano in ospedale.
Comincia il delirio: crede di essere ospitato a casa di ferrovieri che lo
hanno trovato, solo, abbandonato in una stazione. Non ho dove
andare, mi dice. Vede animali strani inseguirsi sulla parete. Vede
scene da film muto. Ogni tanto cerca di alzarsi. Mi guarda e mi dice:
adesso mi porti a casa?
Poi perde la parola. Ci fissa, pronuncia suoni che non capiamo. Si
dispera. Poi tace. Il respiro affannoso. Il sibilo dell’ossigeno. Le sonde.
Si lamenta quando le infermiere lo martoriano alla ricerca di una vena
per le analisi del sangue. Una notte dico ad una che basta così. Lei se
ne va dicendo che il dottore non sarà contento. Ed al dottore ripeto
che lo lascino in pace, che non ha senso quell’accanimento. È uno
giovane. Dice che è d’accordo. Ma il giorno dopo un altro medico gli
mette una sonda direttamente nella iugulare. Un sacchettino di
liquido bianco che lo idrata ed alimenta, ci spiegano.
È forte il babbo. E resiste. Apre gli occhi e sembra che si guardi
intorno. Giorni e giorni.
Riparto. Il lavoro. La famiglia. Gli impegni. Il tremendo egoismo che mi
allontana dallo spettacolo di quell’agonia.
Sto uscendo da un lavoro. Una stupida riunione. Telefono e mi dicono
che è appena spirato. Stavolta partiamo in macchina. È ancora notte.
È un viaggio teso. Piove in tutta la Francia e sulla liguria.
La casa di mia sorella è in aperta campagna. Su di una collina. Il
sentiero è bagnato e pieno di buche e pozzanghere. Lei e mio fratello
mi aspettano sulla porta. Piangono. Ci abbracciamo. In un angolo
della sala il babbo è in una bara. Di quelle semplici, come voleva lui. È
un po’ rattrappito, la bocca un po’ aperta. La sua badante gli ha
messo un vestito, ereditato dal fratello maggiore. Non aveva mai
avuto vestiti, lui, al di fuori delle divise. Il viso, rasato, ha il colore
innaturale dei morti. Ci sono i fiori. Non tanti. Delle donne venute dal
paese dicono il rosario.
Il funerale è nella chiesetta del paese. Celebra la messa il parroco, un
uomo di mezza età grassottello. Non lo ascolto. Nessuno fa la
comunione. Ci resto male. Sul sagrario mi presentano gente. Cerco di
associare volti e le descrizioni che mi faceva dei suoi vicini, delle
persone amiche.
In attesa della cremazione portiamo il feretro alla cappella ardente
della misericordia, in città. Ci sono degli amici dei miei fratelli, mio
cugino e sua moglie. Parliamo. Ogni tanto una battuta.
Di notte lo lasciamo solo. Torniamo alle quattro. I tre figli maschi. Lo
portiamo a Perugia. L’impianto di Arezzo non è stato ancora
omologato. Fa freddo. Seguiamo il furgone funebre nella nebbia.
Parliamo poco. Il lavoro, la gente. Barcellona. Ricordi della loro
infanzia. Perugia dorme ancora quando arriviamo. C’ero stato l’ultima
volta quarant’anni fa. Una manifestazione antifascista in cui si gridava
Almirante a testa in giù ci piace di più. Ci furono scontri. Corse.
Il cimitero è in alto. Ci fanno entrare in un ufficio. Mi fanno firmare un
sacco di fogli. Poi risaliamo un macchina. Un po’ fuori c’è la struttura
del forno crematorio. Tirano fuori la bara due uomini. Uno è rumeno.
Entriamo in una stanzina. L’accostano con un carrello a uno sportello
metallico. Ci dicono se vogliamo fare l’ultimo saluto.
Poi l’attesa in uno dei pochi bar aperti. Un cappuccino. Gli altri
avventori sono un gruppo di negri anziani. Fuori fa giorno. Aspettiamo
in macchina. Viene l’uomo dell’impresa di pompe funebri. Hanno
finito. Altri fogli. Altre firme. Mi consegnano l’urna in un contenitore
isolante perché brucia. Al ritorno la tengo accanto a me sul sedile
posteriore.
Al cimitero di A. andiamo alla cappella di famiglia. I becchini hanno
aperto il loculo della mamma. Metto l’urna accanto alla bara segnata
dal tempo. Risistemano la lapide. Ci sono anche l’Elena e suo marito e
la prima ragazza romena che gli fece da badante. Uscendo dal
cimitero ci accorgiamo che non abbamo messo la fede nuziale nel
loculo. Come avrebbe voluto.
Le sue cose ammucchiate in una scatola di cartone. Una foto della
mamma incorniciata e con il vetro rotto. Una scatoletta di plastica con
quattro oggetti di lei. Un rossetto. Un fazzolettino ricamato. Il ritratto
di una bambina negra e la lettera del missionario che ringraziava il
signor Enrico per i soldi che permettevano di farla studiare. Santini,
immagini di Santa Rita. Un rosario.
Vado in città. Passeggio per il centro. Sotto i porticati della piazza
grande c’è la porta della Corte d’Assise.
Una targhetta fuori dal palazzo adesso informa i turisti che trattavasi
in origine della sede di un teatro, e questo spiega un sacco di cose
anche se penso che poteva andar peggio, sarebbe potuto essere per
esempio un bordello.
Indici tesi, braccia allargate e il Pubblico Ministro con quella sua toga
nera e il nasone aquilino che sembrava un gufo pronto a spiccare il
volo, i carabinieri con la sciabola, i baffoni ed il pennacchio bianco e
rosso sul cappello. La dea bendata che presiedeva con la bilancia la
sessione sembrava una fruttivendola. I giudici togati e i giurati con la
fascia tricolore. Nella sala tutto trasudava simbolismo, gli arredi
pesanti e polverosi, velluti, in alto il legno lucido della presidenza, più
in basso il recintino in cui mi sedevo io in mezzol a due carabinieri
senza sciabola e senza pennacchio. Poi i tavoli per gli avvocati ed il
pubblico ministero ed infine gli spazi per il pubblico con le panche
come in chiesa.
Una farsa.
Al processo erano venuti ben pochi dei miei compagni ed amici.
All’università ancora non ne avevo, mi ero appena iscritto ed ero un
fuorisede cioè uno che doveva andare a venire col treno. C’era poco
da socializzare. Quelli del partito dovevano avere ricevuto precisi
ordini e da quello che cominciavo a capire erano tutti gente che gli
ordini li eseguivano, nella speranza mica tanto segreta di essere poi lì
un giorno a impartirli. Erano venuti invece gli ex compagni della
squadra d’atletica, si vede che correndo, saltando, tirando bocce di
ferro e giavellotti si stringono legami più solidi che lottando per il
radioso sol dell’avvenir. Pochi quelli del liceo e fra i pochi il Taddo che
fra l’altro doveva testimoniare a mio favore su uno dei traballanti
indizi su cui reggeva la traballantissima logica dell’accusa, sostenuta
a malapena dai “potrebbe” di un perito certamente alcolizzato. Il
Taddo categorico smentiva un’audace teoria del professionista. E lo
smentiva assieme ad altri quattro ragazzi ed uomini, tutti del PCI. Alla
corte questa cosa dei testimoni che smontavano indizi sembrò
oltraggiosa e rimediò sbattendoli in galera uno dopo l’altro tirandoli
fuori solo dopo opportune visite notturne di madri e moglie affrante
alla “ma ‘un ti rovinà” e ormai disposti a non ricordare bene.
Ma il Taddo teneva duro, cosicché il PM che intuì di trovarsi davanti a
un testone che non che non avesse paura della galera, perché quando
vide portar via gli altri ammanettati fra i carabinieri era diventato
palliduccio anziché no, ma che aveva un carattere di quelli “prima mi
ammazzi ma non te la do vinta perché c’ho ragione io”, insomma il
PM gli chiese subdolo se era matematicamente sicuro di quello che
aveva visto e gli andò bene perché il Taddo, che era uno anche di
espressione maniacalmente precisa, gli disse che non aveva nulla a
che vedere la matematica con quello che uno aveva visto, al che
l’altro frettoloso fece mettere a verbale che il testimone non era
matematicamente sicuro e lo fece buttar fuori nonostante le proteste.
Del testimone, perché i miei avvocati stavano pensando
evidentemente ad altro.
A salutarmi alla sbarra durante il processo venne la Valentina,
accompagnata dalla mamma, contenta che non tutti mi avessero
abbandonato. Era rossa come la ricordavo a scuola ogni volta che si
doveva fare avanti per una interrogazione o l’appello. Timida,
graziosa, silenziosa figlia di montanari, in classe se ne stava sempre
in disparte con la sua amica Rosina, anche lei giovinetta dai riccioli
biondi ed occhi chiari, ignorata però dai ragazzi per il modo di fare
riservato e brusco, alla montanara, e i vestiti alla buona. Venivano da
cascine lontane e non le vedevamo mai fuori dalle mura del liceo,
creature di un mondo di maglie di lana ruvida i calzettoni tirati su fino
al ginocchio e la scrofa che una volta, raccontarono in lacrime,
avevano dovuto sacrificare perché il verro l’aveva “sciupata”.
... Mio padre, tenuto insieme dal suo dovere di capostazione non
aveva potuto riconoscere il corpo perché di corpo praticamente non
ce n’era e si era aggirato lungo la massicciata con i carabinieri ed altri
ferrovieri alla ricerca di brandelli di vestiti e di carne.
Il prete non aveva fatto storie ed al funerale c’era tutto il paese.
Dopo il funerale, come altri ragazzi, mi rifugiai nella pizzeria, abituale
luogo di ritrovo, a gettonare nel juke box una delle canzoni allora in
voga.
Ero seduto in fondo al locale, con la mente alla maglietta rossa che
Natalino indossava quella notte d’estate, l’ultima in cui lo avevamo
visto, sulla piazzetta davanti alla stazione, alla figura grassottella e
patetica del medico condotto, suo padre, alle due anziane sorelle che
avevano fatto da madri al bambino orfano e ragazzo, ai fiori, agli
sguardi della gente, allo scalpiccio silenzioso di tutto il paese in
processione dietro la bara.
Davanti alla porta del locale arrivò il Batani con la sua moto, una 125,
erano pochi in paese ad avere moto più grosse. Si mise a parlare ed a
ridere con qualcuno di quelli che erano seduti fuori. Ogni tanto dava
gas e il motore rombava.
Lo avevo osservato assorto per qualche istante, poi dette una sgasata
e fece una risata di troppo, sicché mi alzai di scatto e dal mio angolo
attraversai la pizzeria quasi di corsa e gli saltai addosso piazzandogli
un pugno sulla mascella. Cadde e la moto gli rovinò dietro e io rimasi
fermo a guardarlo senza dir nulla. Subito mi sentii afferrare dal
padrone del locale, un veneto con braccia da lottatore che mi
spintonò da una parte. Lasciai fare e me ne andai a casa in silenzio.
Ed in silenzio rimasi in tribunale quando lo fecero deporre per
dimostrare che ero un soggetto violento ed aggressivo. Povero Batani
che non ha mai saputo il perché di quel pugno.
Alla fine si ritirarono in camera di consiglio. Molti anni dopo un
membro della giuria confessò a un conoscente che erano rimasti
quelle ore seduti a girare i pollici ed in silenzio, in attesa che il
presidente desse l’ordine di rientrare in aula. La sentenza l’avevano
già pronta. Quattordici anni. Pochi per un omicidio. Troppi se non lo
avevi fatto.
Era finita e nonostante la condanna, tirai quasi un sospiro di sollievo e
chiesi ai carabinieri che mi portassero via mentre il presidente
snocciolava le pene accessorie. Il pubblico in silenzio. Solo una
ragazza scoppiò a piangere. C’erano i miei zii, le cugine, mia sorella.
Mia madre non era in aula, rimasta a casa, già malata del tumore che
l’avrebbe uccisa, ad aspettare pregando che tornassimo con una
buona notizia. Mio padre chiese timidamente alla scorta se poteva
accompagnarmi fino al cellulare. Fuori era già buio. Una sera fredda di
dicembre. In strada avevano spento le luci dei lampioni e un cordone
di poliziotti aveva ributtato indietro a manganellate gli amici ed i
compagni di mia sorella che avrebbero voluto avvicinarsi a farmi
coraggio. La scorta tirava la catena strattonandomi, cercando di farmi
abbassare il pugno alzato. Chissà perché ritenni che era un buon
momento per intonare l’Internazionale e la cantai a squarciagola col
babbo che mi seguiva, tenuto a distanza dai carabinieri, dicendomi
“bravo, canta, canta” e poi mi spintonarono dentro e allora smisi di
cantare e il giorno dopo su un giornale dissero che avevo cantato
bandiera rossa e io attribuii lo sbaglio a ignoranza musicopolitica del
redattore. Dentro, nel furgone, per tutto il tragitto ci fu solo silenzio.
Né io, né i carabinieri aprimmo la bocca. Qualcuno disse che reagì con
troppa calma per essere innocente. Io pensavo solo che per
sopravvivere dentro dovevo mantenere un comportamento freddo,
senza cedimenti, senza lacrime.
Mi scrollo di dosso i ricordi, agitando la testa come un cane.
Passo davanti a un portone. L’edificio è vecchio, imponente, esala
fredda umidità. M’infilo a curiosare nell’androne polveroso. Mi
soffermo davanti ad un monumento-lapide ai caduti della prima
guerra mondiale, con i nomi dei figli prediletti morti in combattimento
nella difesa della patria. Chissà quanti di loro caddero sotto il fuoco
dei carabinieri che sparavano su quelli che volevano scappare
dall’inferno delle trincee. In fondo, separato dagli altri ce n’è uno,
sotto la dicitura “Guerra di Spagna” e “Medaglia d’oro”.
È il nome di un membro dell’Aviazione Legionaria. Cioè di un corpo di
spedizione di centinaia di aerei. Bombardieri da ricognizione, da
trasporto, caccia. Che scaricarono fra il 1936 ed il 1939 tonnellate di
bombe sui “rossi”, che altro non erano che l’esercito di una
Repubblica legittima e perfettamente legale e le popolazioni civili di
città e paesi di una Spagna e di una Catalogna che si opponevano ad
una masnada di militari felloni, fanatici, spietati e brutali.
(...). La verità sui bombardamenti di Barcellona è che li ha ordinati
Mussolini a Valle, alla Camera, pochi minuti prima di pronunciare il
discorso per l'Austria. Franco non ne sapeva niente e ieri ha chiesto di
sospenderli per tema di complicazioni con l'estero. Mussolini pensa
che questi bombardamenti siano ottimi (...) Quando l'ho informato del
passo di Perth, non se ne è molto preoccupato, anzi si è dichiarato
lieto del fatto che gli italiani riescano a destare orrore per la loro
aggressività anziché compiacimento come mandolinisti. Ciò, a suo
avviso, ci fa anche salire nella considerazione dei tedeschi che amano
la guerra integrale e spietata.
Così scriveva Ciano e solo per questo viene da pensare che Mussolini
si meritava di finire a testa in giù a piazzale Loreto, coperto di sputi
da quel popolo pecorone che voleva educare ad essere duro e
spietato. A occhio con un certo successo.
Quell’omaggio a uno che contribuì al trionfo del golpe franchista mi rivolta lo stomaco.
Non sono più un latitante e posso fare qualcosa. Martellare la scritta sarebbe facile ma
molti non capirebbero. Ci vedrebbero solo un atto di vandalismo di qualcuno che non
rispetta la memoria dei morti.
Nei mesi seguenti mi metto all’opera. A Barcellona hanno fondato un’associazione di
giovani italiani. Ormai siamo la prima comunità di stranieri in città. Decine di migliaia.
Ci parlo, propongo una raccolta di firme ed una petizione alle autorità. Che ritirino
quell’omaggio che è un insulto ai morti innocenti delle bombe fasciste. Faccio un blog
dove spiego l’iniziativa, il perché. Arrivano le adesioni. Decidiamo di portarle ad
Arezzo. In comune, in provincia. C’è da pagare il viaggio, trovare qualche giorno di
tempo strappato agli impegni, al lavoro, alle famiglie. Sono l’unico disponibile e parto.
Giorni di riunioni, incontri. Un’associazione intitolata a Camillo Berneri da il suo
sostegno. Organizzano una conferenza stampa. Dubito ma poi penso che sono passati
due anni e mezzo e che tutti sanno del mio ritorno. Al massimo, mi dico, abbaieranno i
fascisti che dai loro blog inveiscono già contro i profanatori della sacra italica memoria.
Piduisti in testa.
All’uscita della conferenza stampa il giornalista mi chiede se io sono quel D. Si, gli
rispondo. Sembra un ragazzo onesto. Ha fatto un buon trattamento della campagna.
Decido di fidarmi. Vuol farmi un’intervista, gli dico di no ma gli passerò una bozza con
la mia storia. Vorrei farne un libro. Un modo come un altro di credere che tutti i dolori e
gli strazi sono serviti a qualcosa: a dimostrare che nella nostra disumanizzata ed
ipercontrollata società occidentale c’è ancora posto per valori antichi. La solidarietà, la
parola data, l’impegno, il rispetto. E a denunciare l’ipocrisia di un sistema che nasconde
dietro mura e burocrazie tanti piccoli inferni dove dignità e diritti sono parole vuote.
Gli chiedo di separare le due notizie. Mi assicura che lo farà e che il suo non sarà un
trattamento sensazionalista. Poi mi telefona per dirmi che il libro gli è piaciuto molto e
se può pubblicarne alcuni stralci. Gli dico di si. Immagino che pubblicherà l’articolo
dopo qualche giorno. Che userà qualche frammento. La mattina dopo cerco su internet
la pagina del giornale. Il titolo è “Il Corriere d’Arezzo scopre un latitante”. Mi vengono
i sudori freddi. Segue una valanga. Assisto impotente alla tempesta che si scatena. Mi
sento risucchiato indietro nel tempo. Di nuovo si scatena il branco. Cominciano i
giornali, stampa e internet e, immagino, tele e radio. Continuano i blog, i commenti.
Fioccano le accuse di protervia, parlano del “ritorno dell’omicida”. Riprendono le
cronache di 35 anni fa, sottolineando le mie presunte origini calabresi. I politici di destra
e sinistra salvo rare eccezioni fanno a gara a chi condanna di più.
In molti dicono che l’ho fatta franca, che queste leggi che permettono
il ritorno al civile consesso di gente come me andrebbero abolite
subito.
Mi viene in mente una barzelletta che raccontava la mamma: c’è un
cacciatore, uno di quei tipici travet che si vestono da Rambo il week
end e che popolano o piuttosto spopolano i nostri boschi e campagne
le domeniche d’autunno e d’inverno.
Beh dunque c’è questo cacciatore bardato di tutto punto: completo
mimetico, occhiali scuri, fucile ultimo modello a ripetizione, profusione
di proiettili nella cartucciera a tracolla, pugnale al fianco, tascapane,
anfibi… Avanza guardingo, l’arma imbracciata, ai bordi di un prato. Ad
un certo punto fa capolino fra l’erba una lepre. Lui la vede e punta il
fucile. Lei lo vede e fa un salto. Il primo sparo decima una famiglia di
margherite. La lepre scarta agilmente a sinistra. Il secondo sfonda un
cespuglio. La lepre continua a zigzagare. La terza rosa di pallini
sbuccia una quercia. La quarta stende uno spaventapasseri. La quinta
stecchisce il cane dell’amico del cuore del cacciatore venuto a dare
una mano.
Sull’eco dell’ultima detonazione la lepre saltella via e raggiunge
indenne i margini del bosco.
Al che il cacciatore, stizzito, getta via il fucile ormai scarico, si strappa
il berretto dal capo, lo sbatte in terra e calpestandolo urla: “Quando
fanno così le ammazzerei”.
Per tutti questi anni avevo creduto che, da libero, sarebbe stato facile
ribattere con logica e buon senso le accuse, le ingiurie. Scopro che
non è così. Per la magggioranza chiassosa sono l’assassino, l’evaso,
l’antisocrate per definizione.
Scelgo il silenzio. Non servirebbe a nulla urlare che sono io chi ha
subito il torto, che non ho nulla da nascondere, che voglio scrivere la
mia storia non per vendetta né per orgoglio ma come omaggio a tutte
le persone che per umanità, solidarietà ed amore mi hanno aiutato a
sopravvivere contro quel mostruoso connubio di apparato statale e
mediatico. Che...
Uno degli storici che aveva aderito alla campagna con un impegnativo
messaggio “d’accordo a far parte del comitato scientifico di un
eventuale congresso se non c’è troppo lavoro da fare”, mi manda un
mail inquisitorio. Come mi sono permesso di associare il mio status di
feccia sociale alla sua prestigiosa firma di professore universitario,
anche se di idee libertarie? Chiede spiegazioni.
Non una parola di dubbio. Eppure trentacinque anni dopo qualcuno
dovrebbe interrogarsi, chiedersi come mai un caso di omicidio venne
risolto così rapidamente con un processo indiziario, senza che
venissero seguite altre piste. Nessuno trova strano che quel caso
venisse risolto, senza prove, in una zona dove la P2 stava spiegando
in segreto tutta la sua trama, penetrando procure e tutti i luoghi di
potere e decisione, dove agivano poco disturbati gruppi armati
neofascisti, dove c’era quel rimasto misterioso Gladio, dove il partito
comunista era in piena virata autodistruttiva, dove il razzismo nei
confronti dei meridionali faceva parte dell’ADN delle popolazioni
locali. C’è la sentenza, dicono. Anche e soprattutto quelli che si
sgolano nella denuncia dei complotti delle toghe rosse quando le
sentenze toccano i poderosi di oggi.
La metastasi si era estesa e, ricoverata in ospedale, mia madre ormai
agonizzava. In uno degli ultimi momenti di lucidità pregò i miei fratelli
di non lasciarla sola nemmeno un istante perché si era resa conto che
una infermiera, nel suo dormiveglia, la interrogava. Voleva sapere
dov’ero. Come poteva una madre non sapere dov’era il figlio, sia
pure latitante? Di certo non l’avevo scordata. Di certo le avevo
mandato qualche messaggio. Mio padre, mia sorella pensarono ad un
incubo. Ma il cagnolino di mia zia pacifico e silenzioso abbaiava
infuriato quando quella donna si avvicinava.
Mi pento. Mi pento di essere stato così stupido da pensare che il mio
girar pagina e non voler cedere ad odi e livori sia corrisposto dagli
altri. Mi pento di aver agito come un normale cittadino mettendo in
imbarazzo i pochi compagni che vengono adesso accusati quasi di
complicità con l’esibizionismo di un criminale incallito. Mi pento.
Mi pento di non aver sparato a pallettoni su facce paffute di tronfi
magistrati. Di non aver tagliato gole d’infami cronisti. Di non aver
schiacciato la testa a sprangate, martellate a traditori e compagni
sleali.
Vi maledico. Maledico te Pubblico Ministero che con il dito accusatore
raccomandasti che mi infliggessero l’ergastolo, sotto gli occhi attoniti
dei miei genitori. Maledico voi poliziotti che puntaste mitra e pistole
contro due impiegati invecchiati dal dolore, in piena notte. Voi
secondini che ritagliavate i minuti dall’ora dei colloqui. Voi abitanti del
paese, vicini che non li salutavate più. Voi colpevolisti che soffiavate
sul fuoco delle dicerie e maledicenze. Voi carabinieri che vi
presentaste al funerale della Flora, sperando che ci fossi e così
potermi catturare. Voi vigliacchi, spie, delatori, pettegoli, morbosi,
giornalisti da strapazzo, politicastri di provincia, avvocati.
Maledico ogni molecola dell’aria che respirate, ogni immagine che si
fissi sulle vostre retine, ogni boccone di cibo, ogni sorso di liqjuido che
inghiottiate. Maledico i suoni che tocchino le vostr orecchie e gli odori
che arrivino al vostro olfatto. Maledico ogni vostro pensiero, ricordo,
emozione, sentimento. Maledico le mura che vi ospitano, i letti su cui
riposate.
Quando il dolore di malattie, incidenti, della vecchiaia avrà corroso
ogni vostro nervo. Quando quel poco di anima che avete morirà
torturata dall’abbandono, dall’insofferenza della vostra immonda
prole. Quando il terrore della morte vi avrà ridotto a tremanti
spauracchi di voi stessi io sarò lì, spettatore impassibile della vostra
disperazione. Quando le vostre miserabili carogne finiranno sottoterra
o in una nicchia verrò a pisciare sulle vostre tombe. Darò le vostre
ossa ai topi di fogna. Sputerò sulle vostre lapidi.
E poi vi cercherò all’inferno. Vi strapperò il cuore, le viscere.
Riempirò di merda le vostre bocche urlanti, brucerò le vostre ferite,
mutilerò ogni vostra speranza, sigillerò con melma putrida le vostre
orbite svuotate.
... Calmati. Basta.
Sono stanco. Schifato.
Ho capito.
Non c’è posto per me nel civile consesso di questa tranquilla provincia
toscana. Scusate tanto il disturbo. E grazie. Grazie di avermi
finalmente fatto capire che per un branco di sciacalli una preda è
sempre una preda. Di avermi ricordato la mia essenziale diversità.
E anche di avermi dimostrato fino a che punto è un crimine per voi la
ribellione. Il non volersi rassegnare a prepotenze ed abusi.
Di avermi reso l’orgoglio di essere evaso, di aver detto no, non ci sto,
sono un uomo libero e voglio vivere libero. Di non aver accettato di
subire la loro prepotenza.
Ero una preda, non importa se sbagliata. E ve l’ho tirato nel culo.
Me ne vado, stavolta per sempre.
Torno in treno. Ho bisogno di vedere scorrere i campi e i boschi sotto
il cielo le nuvole e poi le luci che punteggiano la notte. Di sentirmi
cullare nel dormiveglia dalla ninna nanna sferragliante delle ruote.
Dall’odore di metallo e di olio. A Milano prendo il talgo. Lo
scompartimento è pieno di valigioni ed immigranti di chissà che
nazionalità. Me ne sto al bar finché la stanchezza non mi spinge ad
arrampicarmi sulla mia cuccetta, abbracciato alla borsa. Mi sveglio a
Port Bou, dal finestrino vedo lo schieramento di mossos.
Non è il comitato di ricevimento che mi aspettavo. Guardo oltre, verso
il mare. Comunque non sono lì per me, i poliziotti. Un altro paio d’ore
di viaggio, la pianura e le colline dell’Empordà, Figueres, Girona ed
infine le sagome del Montjuic e del Tibidabo. Il treno si ferma poco
dopo il ponte sul Besòs. Dal finestrino vedo le strutture del Fòrum con
la spianata che negli opuscoli viene definita la più grande piazza del
mondo dopo quella di Tienanmen, che avrebbero fatto meglio
secondo me ad evitare il confronto.
Nel 2004 avevano deciso che la fine del Forum “un incontro che
cambierà il mondo” cioè un calderone dove si schiaffava di tutto,
dalla religione, alle lingue, nel nome dell’interculturalità, coincidesse
con la festa della Mercè, patrona della città. Festa che viene
suggellata da molti anni a questa parte da un mega spettacolo di
fuochi artificiali. Perché qui col fuoco ripeto c’hanno la fissa, fra falò,
diables, castelli di fuoco.
Quell’anno i fuochi di artificio li facevano sul mare e lungo i quattro
chilometri di spiaggia della città si ammassarono centinaia di migliaia
di persone. C’era la solita attesa, con in più il piacere di non starcene
accalcati prendendoci a gomitate in qualche piazza. Gli altoparlanti,
strategicamente disposti lungo tutto il lungomare, vomitarono il
manifesto-conclusione dei lavori del Forum. Pieno zeppo delle solite
fregnacce sulla partecipazione, la diversità, i diritti eccetera.
Fregnacce dico, perché poi gli sponsor erano tutti quelli che sulla
partecipazione, le libertà, i diritti ci pisciano allegramente sopra. Cioè
banche, multinazionali e compagnia.
Le centinaia di migliaia di spettatori sopportarono stoicamente tutto il
discorso e poi… silenzio. Non un fischio, non un applauso.
È questa la mia Barcellona! Quella che riempie le strade contro la
guerra. Quella che fa i referendum auto organizzati per l’abolizione
del debito estero, che sfila senza bandiere, solo quelle catalane e
nemmeno tante, convocata da una piattaforma che si chiama
commissione per la dignità e sotto lo slogan per il diritto a decidere,
quella che nelle manifestazioni spontaneamente si riversa come folla
anonima davanti agli striscioni dei politici e li lascia in coda. Quella
che si dà da fare per aiutare palestinesi, sahariani, immigrati. Quella
che si astiene alle elezioni. O che vota in massa contro l’entrata nella
NATO. Quella che occupa piazze e giardini pubblici per opporsi alle
parate militari. Quella che fischia il re alla cerimonia di apertura delle
olimpiadi e che riempie la città durante i giochi di bandiere catalane
facendo impazzire i cameraman delle televisioni statali che non
trovano uno sfondo adeguato con simbologia abbastanza ispanica,
ma che poi spesso si dimentica di appenderla al balcone, la propria
bandiera, e ride quando qualcuno propone di insegnare a scuola l’inno
nazionale. Che a maggioranza vuole l’indipendenza ma che non vuole
uno stato proprio.
Gli stati in genere non le piacciono, come non le piacciono i loro
simboli. Soprattutto se i loro simboli sono, come spesso sono,
caserme, fortezze, prigioni o commissariati.
Sempre nel 2004, era ancora l’epoca dei controvertici, partecipai alla
paterada. Si trattava di raggiungere a nuoto, in zattere ed
imbarcazioni di ogni tipo improvvisate, in chiaro riferimento alle
pateras, cioè i barconi con cui gli immigrati cercano di raggiungere le
coste dell’Andalusia o delle Canarie, ed occupare la spianata recintata
vigilata sorvegliata e protetta del Forum.
Volevamo denunciare che sotto il pomposo slogan dell’”incontro che
cambiera il mondo” la realtà era che, molto più modestamente, quello
che avevano fatto era cambiare questa parte della città, nutrendo
generosamente conti in banca delle isole Caiman, di Andorra o di
Barcellona.
Per l’occasione si erano date appuntamento le diverse tribù del
mondo alternativo e la spiaggia si riempì di elementi dal pallore
cadaverico che spiccavano simpaticamente fra le migliaia di
abbronzature autoctone e alloctone. Il mare si punteggiò di
pneumatici di camion, materassini riciclati, bidoni vuoti di benzina,
damigiane di plastica, insomma di tutto quello che galleggiasse. Degli
squatter di una delle case occupate di maggior glamour della città
avevano fatto una vera zattera con legname recuperato qua e là,
completa di ogni accessorio compresi timone e vela. Solo che il vento
soffiava nel senso sbagliato, e non appena presero un po’ il largo
vennero sospinti dall’altra parte della spiaggia, dove naufragarono
miseramente.
C’era la Guardia Civil con i gommoni a pattugliare e le lance della
Croce Rossa, e ben vennero, perché ci fu chi si sentì male e che
venne raccolto allo stremo delle forze e riportato ignominiosamente a
riva. Io segui un po’ a nuoto la scia di natanti, ma all’arrivo sicuro che
avrebbero identificato i partecipanti e non era il caso, cosicché feci
dietro front rifiutando cortesemente l’altrettanto cortese offerta di
aiuto da parte di quelli della Croce Rossa.
... Il treno riprende ad avanzare lentamente. Prendo un caffelatte
accanto ad una ragazzina room dallo sguardo d’animale selvatico. I
giorni di cucina toscana di mia sorella mi hanno appesantito. Domani
tornerò a correre sulla sabbia della spiaggia, la mattina presto,
quando ancora non c’è gente. Ho imparato ad amare il mare anche se
continuo a preferire l’odore di alberi e cespugli, il freddo della
montagna i cieli neri ricamati di stelle.
Arriviamo. L’Estació de França, ripulita, è imponente con le sue
strutture di ferro e vetro. Adesso ci arrivano pochi treni. Ne hanno
fatto uno spazio espositivo. Il piccolo fiume di gente si affretta verso
l’uscita. Vedo la donna bambina room filar via veloce con un
sacchetto di plastica in mano. Tutto il suo bagaglio.
È una stazione ma non ci si respira più quell’atmosfera di estraneità
che ti accomuna agli altri. Corpi e storie in un viavai incessante, un
fiume che si riversa disperso in mille rivoletti nella città e che dalla
città si ricompone e riparte, ricompattato con la regolarità di un
respiro.
Esco sulla strada. Ha smesso di piovere. Lascio i bagagli in consegna.
Nessuno mi aspetta oggi. Sento il bisogno di ritrovarmi con questa
città, con questo mondo.
Faccio una capatina al moll de la fusta -molo del legno- dove
scaricavano i tronchi dal Sudamerica o dall’Africa, magari le stesse
navi che avevano trasportato gli schiavi. Alcune delle grandi fortune
catalane vennero fatte trasportando schiavi in America e quando
tornavano, indiani li chiamavano, si facevano fare grandi palazzi, ville,
mausolei, parchi.
Davanti, per chi se ne va, c’è il mare con le sue mille destinazioni ed i
suoi mille destini o la stretta linea dei binari che si allunga in pensieri,
immagini, odori e colori lontani. Si parte e si arriva. E si aspetta.
Persone ed affetti, cose o sogni. O semplicemente si guarda, medita,
ricorda. Un piacere che mi sono a lungo negato, perché le stazioni ed i
porti sono anche nuclei nevralgici, punti strategici del controllo
poliziesco di una città, un territorio sempre brulicante di poliziotti in
divisa o in borghese, sospettosi e scrutatori.
Da questo molo verso la metà degli anni ottanta un gruppo con cui
collaboravo, la Crida, attaccò una motovedetta USA pochi giorni dopo
i bombardamenti americani su Tripoli a colpi di secchi di vernice rosa.
Volevano simbolizzare il sangue innocente... ma avevano comprato
poco colorante.
Collaboravo allora con una rivista, L’Europa de les Nacions,
pubblicazione di attualità e storia delle nazioni senza stato d’Europa,
che abbandonai quando decisero di concedere il loro premio annuale
di difensore dei diritti dei popoli a Franjo Tudjman, cioè uno che
sosteneva da storico, nonché presidente del fiammante stato croata
che gli ustascia nella seconda guerra mondiale non avevano
massacrato un milione di serbi ma solo 600.000.
Respiro l’odore di acqua salmastra, carburanti, marciume. Seduto su
di una panchina osservo le barche, i velieri, il brutto conglomerato del
Maremagnum, un ragazzo che fa scivolare la sua canoa sull’acqua
oleosa. Ascolto lo sciabordio dell’acqua sulle pareti del molo ed il
tintinnio del metallo sugli alberi e pennoni delle imbarcazioni. Non fa
freddo ma sento l’umidità. Mi accendo una sigaretta, mi tiro il
cappuccio della felpa sul capo e torno indietro. Passo accanto alla fila
di extracomunitari che si è allungata sul marciapiede davanti al
Gobierno Civil e arrivo al parco della Ciutadella. Dopo la conquista di
Barcellona, nel 1789, le truppe di Filippo II avevano raso al suolo gran
parte del vecchio quartiere di pescatori ed avevano eretto una
fortezza. Adesso non ci sono più le mura, solo una cancellata che
racchiude il perimetro con i suoi vialetti, gli edifici di mattoni che
accolgono un liceo, un museo. C’è un laghetto artificiale con le oche e
le barchette. In fondo l’edificio del Parlamento e, proprio dietro, lo
zoo.
Sorrido alla facile ironia e al ricordo di un ex presidente della Camera,
un vecchietto simpatico e colto che, durante una seduta
parlamentare, dopo l’annuncio che al dibattito su di una legge relativa
all’allevamento di suini o una cosa del genere sarebbe seguito quello
su di una misura riguardante le forze dell’ordine, aveva sussurrato
che comunque di animali trattavasi.
Si era dimenticato di spengere il microfono cosicché il commento
ebbe ampio eco.
È uno dei pochi parchi della città, questo, e ci venivo a fare il
malinconico solitario nelle serate autunnali, a passeggiare fra la serra
con le piante tropicali e le aiuole.
Era ed è scenario di concerti, di fiere della solidarietà, dell’acqua, per
l’ambiente, di comizi e di presidi
Attraverso il vasto viale ed entro nel quartiere della Ribera. L’antico
mercato centrale del Born è ancora chiuso. Non sanno se farci una
biblioteca o un museo. Bontà loro non un edificio di appartamenti
d’alto standing o un albergo a 4 stelle. È una grande struttura a
cupola di ferro, il mercato, salvata dallo smantellamento negli anni
settanta dall’assemblea dei lavoratori dello spettacolo, cioè un folto
gruppo di giovani attori ed attrici e musicisti di tendenza anarchica o
autonoma ai margini della più perbenista e riformista assemblea della
Catalogna. Avevano occupato un teatro, il Diana, effervescente
laboratorio di arti e politica, e riconquistarono il Born per la città
allestendo una rappresentazione maratoniana e multitudinaria del
Don Juan Tenorio.
A cinque minuti c’è la chiesa di Santa Maria del Mar. Gotica, con le
colonne che salgono su vertiginose. Di qui una sera buttarono fuori
me e il babbo. Dovevano celebrare un matrimonio e gli inservienti
invitavano i turisti ad uscire e lo dissero anche al babbo, inginocchiato
e raccolto in preghiera, e visto che lui non capiva gli fecero
l’universale cenno dello smammare, al che io dissi al buonuomo che
dalle mie parti si sarebbe chiamato sacrestano che stavano buttando
fuori l’unico che ci credeva, e quello alzò le spalle. E il babbo mi
chiese mentre uscivamo “che cosa gli hai detto?” ed io “niente babbo,
niente”.
Accanto c’è il Fossar de les Moreres. Una specie di piazzetta incavata
che digrada fino alla scritta su marmo “al Fossar de les Moreres no
s’hi enterra cap traïdor. Fins perdent nostres banderes serà l’urna de
l’honor. Als màrtirs de 1714”. Qui vennero fucilati i capi della
resistenza di Barcellona dopo la capitolazione, l’11 settembre 1714,
davanti alle truppe del borbone Felipe. E tutte le mattine dell’11
settembre è il luogo d’appuntamento delle diverse anime
dell’indipendentismo radicale. Bancarelle coperte di libri, magliette,
simboli, accendini, autoadesivi, bandiere. Dietro la chiesa erigono un
palco, con gli altoparlanti che emettono musica e comizi tutta la
mattina.
Il Carrer Moncada. Gremito di turisti e di scippatori. Gli antichi palazzi
signorili adesso accolgono musei. Quello del tessile, il Picasso.
All’inizio della via c’è una specie di piazzetta, una palma e l’Euskal
Etxea. Taverna basca e centro culturale. Entro, data l’ora non c’è
nessuno e una cameriera mi assalta chiedendo cosa voglio. In piedi al
banco prendo una birra e un paio di pinchos. Sono anni ormai che non
torno nel “Nord”.
In Euskadi, terra degli irriducibili di quest’Europa sempre più
uniforme. Terra verde, dolce, che sovrasta un mare sempre cupo.
Affascinante e primaria. Come i suoi abitanti. Ultimi eredi, dicono,
delle prime popolazioni di cacciatori-raccoglitori, respinti in
quest’angolino del continente dalle successive ondate, dal neolitico
ad oggi, di nuove popolazioni e civilizzazioni. Testardi e rudi. Una
lingua che non ha legami con nessun’altra lingua al mondo. Una
società maschilista e al tempo stesso matriarcale. Mangiatori, bevitori
e praticanti sport a dir poco rudi: taglio di tronchi, sollevamento di
pietre, tiro alla fune, gare di rematori sul mare agitato.
Quando si parla del conflitto basco trionfa il punto di vista per cui
l’ETA è il problema. Anche perché se ne sostieni un altro sei a rischio
di galera. Senza ETA Euskal Herria, la Spagna, l’Europa, il Mondo
sarebbero un Eden di pace, giustizia, ordine e concordia. O quasi.
L’ETA nacque contro il franchismo. Cioè quarant’anni di terrore con
decine e decine di migliaia di morti, incarcerati, torturati, profughi. La
prima vittima di un attentato terrorista dell’ETA fu un poliziotto, noto
seviziatore. Di quelli che applicavano la picana o la bañera ai
prigionieri legati e facevano scoppiare timpani e rompevano ossa. Era
stato anche collaboratore volontario della Gestapo. Una personcina
ammodo insomma.
Melitón Manzano si chiamava e ora gli danno una medaglia d’oro,
socialisti al governo, gli stessi che promossero a Generale un certo
Galindo, specie di remake di Franco in Guardia Civil, uno dei registi
della “guerra sporca”. Organizzatore di sequestri e torture nella sua
fortezza-caserma di Intxaurrondo, specie di forte Apache nel cuore dei
paesi baschi (cinquemila agenti con le famiglie)
Arregui, già in democrazia, lo ammazzarono torturandolo. Ricordo le
foto sulla stampa semiclandestina che circolava in quegli anni.
Zabalza finì in un fiume ammanettato, anni dopo scoprirono che
l’acqua che lo aveva affogato era di una vasca; altri cadevano dalle
finestre. Sotto il governo del Felipe Gonzalez, Lasa e Zabala, due
ragazzi ventenni, colpevoli di aver bruciato qualche cassonetto
vennero sequestrati, torturati, assassinati con un colpo alla nuca e
sepolti. Gli avevano strappato le unghie.
Txiki, uno degli ultimi assassinati da un plotone d’esecuzione, fu
martirizzato a Barcellona sotto gli occhi del fratello e dell’avvocato. I
membri della Guardia Civil volontari per la fucilazione spararono a
intervalli, uno dopo l’altro, mirando a punti non vitali per prolungarne
l’agonia. Dicono che Txiki cantasse l’Eusko Gudari Irrintzia, l’inno del
soldato basco. La legge della “Memoria storica” lo considera “non
riabilitabile”.
Il corpo di un etarra morto in prigione venne rimpatriato nel suo
paese. Lo aspettava la folla sulla piazza, per le onoranze funebri. I
baschi danno molta importanza a questo tipo di cerimonie, ci tengono
ai loro riti. La polizia teneva a distanza i presenti. Permisero solo ai
familiari di avvicinarsi al furgone. La bara fu caricata a spalla. Dalla
folla partì un grido. Un irrintzi, grido di guerra, omaggio tributato a un
guerriero. La polizia si scatenò.
Picchiavano coi manganelli, coi calci dei fucili. Si accanirono contro i
parenti che trasportavano il corpo. La madre, il padre, i fratelli.
Resistettero ai primi colpi barcollando, poi cedettero, il feretro finì a
terra. Sotto i colpi cercarono di tirarlo su. Non glielo permisero,
inferociti. Tutt’intorno le solite scene di giovani raggomitolati sotto i
calci degli scarponi, volti insanguinati, donne di mezza età spintonate.
... Le viuzze medievali sono più pulite. Poca gente in giro. Il sole non
le riscalda. Con via Princesa sembra di attraversare una invisibile
frontiera. Qui c’è un sacco di movimento. Nordafricani, sudamericani,
turisti. Ci sono bar latini e bar marocchini. Barbieri che si chiamano
Ali. Alimentari gestiti da pachistani. Fast food libanesi. Rara avis un
pizzicagnolo con gli insaccati ordinatamente disposti in vetrina.
In via Layetana, piena al solito di traffico c’è ancora il commissariato
centrale della polizia nazionale. Per decenni “Layetana” è stato
sinonimo di cella, botte, torture, umiliazioni, manette, maltrattamenti.
Proprio li davanti ebbi la brillante idea di spiaccicarmi la faccia
sull’asfalto con lo zainetto carico di adesivi destinati a una campagna
personale di boicott alle agenzie di viaggio che offrivano destinazioni
in Turchia.
Era per solidarietà con Oçalan, dirigente del PKK condannato alla
forca e per fortuna finora risparmiato, se di risparmiare si può parlare
quando si tratta di una condanna a vita in una prigione turca.
Il giorno prima mi avevano convinto ad andare in una discoteca di
quelle dove la gente si impasticca e balla tutta la notte. Mi è sempre
piaciuto fare nuove esperienze. Cosicché buttai giù un paio di extasi
con il contenuto di tutta una bottiglia d’acqua seguendo il consiglio
del mio Virgilio e quasi di colpo tutti erano diventati belli, a tutti volevi
bene, le ragazze affascinanti, la musica, quel martellio di incudini in
una officina, una cadenza pulsante al ritmo del cuore, i cessi scenari
da fiaba.
Ero uscito verso le sei di mattina mentre scattava l’operazione
rimorchio in un frenetico comporsi di coppie, trii, quartetti omo, bi,
eterosessuali. E nell’alba inforcai la mia bicicletta e deambulai per le
vie deserte, osservando come ipnotizzato alberi ed edifici fino alla
porta dell’Angel, deserta, eccetto un poveraccio ubriaco e tre o
quattro ragazzini a dir molto dodicenni che gli soffiarono il portafoglio
lasciandolo lì barcollante a gridare insulti.
Io guardavo e sorridevo e così passai parte della mattinata e poi
mentre scendevo lungo la via Layetana sentii una botta sulla fronte e
subito dopo la faccia di una ragazza sullo sfondo del cielo, niente
male la ragazza, che mi chiedeva il numero di telefono.
Era successo che la bicicletta si era rotta ed io ero andato giù a
capofitto e c’avevo la faccia ridotta da far paura e non mi riuscivo a
muovere e rimasi lì disteso mentre la ragazza, che era un medico,
chiamava un’ambulanza. Nell’attesa si avvicinò uno dei poliziotti di
guardia davanti al commissariato, che frugando nello zainetto trovò
gli adesivi con la scritta “boicottiamo il turismo in Turchia”. Mi chiese i
documenti, io disteso sull’asfalto, con faccia e testa insanguinate.
Mi ero già trovato anni prima in una situazione del genere. Aveva
preso fuoco l’appartamento di sotto al locale della radio. Era agosto e
non c’era nessuno nel palazzo, solo il portinaio, un settantenne obeso
ed il sottoscritto e provammo a spegnere l’incendio a forza di secchi
d’acqua che io riempivo di sopra e portavo giù di corsa mentre l’altro
collaborava gridando a perdifiato “aiuto, al fuoco!”. Arrivarono due
poliziotti e sul pianerottolo mi stopparono mentre risalivo di corsa
ansimante le scale coi due secchi vuoti. Dovevo identificarmi. Il
portinaio li mandò affanculo, io non gli risposi e i pompieri che
arrivavano su per le scale li buttarono fuori.
Stavolta a salvarmi furono due vigili urbani che s’intromisero
dicendogli che ero di loro competenza.
Rimasero lì con la ragazza finché non arrivò l’ambulanza. Nella clinica
mi ricucirono alla meglio e poi mi fecero le radiografie ed il TAC e mi
visitò un medico che doveva aver preso la laurea alle isole Caiman o a
forza di bustarelle perché con il paziente, cioè io, che si lamentava di
insensibilità alle braccia, non si accorse che avevo due vertebre
cervicali schiacciate.
E cosi, ripulito e rappezzato alla meglio, dopo un paio di giorni in
osservazione, cioè osservato dalle infermiere che mi mettevano il
termometro e dalle inservienti che controllavano se avevo sporcato il
bagno, mi rimandarono a casa.
Poi c’è chi canta ancora le lodi del privato.
Con l’incidente di bicicletta le vertebre messe male salirono a tre o
quattro, equamente distribuite lungo tutta la spina dorsale.
“Che devo fare dottore?” Chiesi a uno che mi aveva appena
enumerato la quantità e gravità delle lesioni a ossi vertebre dischi
nervi e dintorni. “Un’assicurazione”, rispose lui.
Proseguo per qualche centinaio di metri fino alla piazza Sant Jaume,
dove si fronteggiano l’edificio della Generalitat, cioè del governo
catalano, e quello del Comune, presidiati dalle rispettive forze
dell’ordine pubblico. E’ uno spazio che venne aperto, come la Plaça
Reial, all’epoca degli incendi di conventi, monasteri, chiese. Attività
ricorrente nella storia locale che la dice lunga su come fosse
benvoluto il clero in questa parte del mondo. Nulla di strano se pensi
a quante ne hanno fatte, inquisizione compresa. È il punto di arrivo di
manifestazioni, cortei e di festeggiamenti più o meno tradizionali,
come la dedica alla cittadinanza delle coppe delle squadre di calcio o
di pallacanestro.
Per Natale ci fanno il presepio, fortemente custodito da quando un
gruppo di squatter rapì il Gesù bambino chiedendo un riscatto. O, per
la festa della Mercè, il concorso di castells, torri umane tirate su fino
ad altezze impressionanti con una tecnica di vera e propria
ingegneria. Le colles sono composte da centinaia di persone, ognuna
con un compito preciso. Senza distinzione di sesso, età, razza e
stazza. Ognuno trova il proprio posto. Dicono che sia una metafora
dello spirito catalano, questa capacità di organizzarsi
disciplinatamente e di collaborare per un obiettivo comune. Senza
divismi né individualismi di sorta, dato che il personaggio che culmina
il castello è sempre un bambino, l’”anxaneta”.
Stessa cosa si può dire per la sardana, il ballo tondo con musica di
ciaramelle, che a prima vista sembra un saltellare così da niente, ma
se provi a seguire è complicatissimo. La ballano formando circoli di
gente che si tiene per mano e si muove girando intorno al mucchietto
degli oggetti personali dei ballerini, borse, giacche, golfini, ombrelli,
che così non li perdono d’occhio.
Rimango nel quartiere gotico, gironzolando fra le viuzze dell’antico
ghetto. Entro nella piazzetta di san Filippo Neri, con la facciata della
chiesa punteggiata ancora dai fori della mitraglia di una bomba
italiana che uccise, nel 1937, decine di persone in un rifugio. Era un
angolino recondito e romantico, finché non dettero ad un hotel di alta
categoria il permesso di metterci i suoi tavolini, con gli ombrelloni e le
stufe d’inverno.
Attraverso il Call. La comunità ebrea, numerosa e antica venne
massacrata dal popolino aizzato dal clero nel 1391. I pochi superstiti
sarebbero poi stati definitivamente espulsi un secolo dopo come in
tutta la Spagna dai re cattolici. Adesso qualche pannello sui muri delle
strade offre spiegazioni ai turisti. L’antica sigagoga è aperta al
pubblico.
Sul Carrer Ferran sono dilagati i negozietti di souvenir, come quegli
incredibili cappelli messicani, che non sono nemmeno messicani, che
ogni tanto finiscono a sormontare una faccia da rimbecillito, di solito
italiano o inglese. Abbondano anche le birrerie irlandesi, le gelaterie
pseudo italiane, i fast food.
Entro nella Plaça Reial, con la polizia ormai presente in pianta stabile.
I tossici ci sono ancora, solo che adesso sono punkabestia italiani o
barboni tedeschi. I gitani sono spariti e le borse dei turisti ormai le
scippano gli algerini o balordi di diverse nazionalità, spagnola
compresa.
All’angolo della piazza c’è il palazzo dove ha sede la radio.
Eravamo diversi, e parecchio, ma in comune avevamo il rispetto e
quella cosa strana che tutti rivendicano e che pochi praticano che è la
curiosità.
Gruppo d’affinità, lo chiamavamo cosi. Messicani svizzeri irlandese
italiani tedeschi spagnoli e catalani. Diverse erano anche le origini
politiche, i percorsi di militanza. Comunque capaci di metterci
d’accordo. Al Glaciar, un bar sulla plaça Reial, prendemmo la
decisione di fare una radio.
Di soldi ce ne volevano mica tanti, e li racimolammo con mercatini di
seconda mano, cene, sorteggi in cui il premio era un battesimo
dell’aria, perché c’avevamo pure un pilota nel collettivo.
E soprattutto attingimento alle proprie tasche, fino all’acquisto degli
ambiti apparecchi, ed all’affitto del locale, un appartamento
miracolosamente trovato proprio nel cuore della città vecchia.
Per il ripetitore qualcuno scovò un posto fantastico, lassù sul
cocuzzolo del Carmel, proprio sotto le postazioni antiaeree della
Repubblica. Una collinetta da cui si domina tutta la città. Lì in cima al
Carmel abitava, in un quartiere di casupole auto costruite, una gitana
sulla cinquantina, cogli orecchini e un paio di denti d’oro, i capelli a
crocchia e piglio deciso che affittava casotti fatti coi mattoni
recuperati e cemento, che probabilmente erano stati pollai finché non
si era resa conto che era più redditizio metterci gli apparecchi di
radioamatori, taxisti, servizi diversi che non si potevano pagare un
ripetitore ufficiale. Di legalità e permessi ovviamente alla locatrice
non gliene poteva fregar di meno e quindi bastava andare su una
volta al mese a pagarle l’affitto. E il bello era che si poteva dormire
tranquilli, senza assicurazioni né sistemi d’allarme, perché non
abbondano gli idioti che andrebbero a rubare in casa di un clan
gitano. “Una radio metropolitana di movimento a Barcellona, con le
leggi che hanno fatto, ma siete matti?”, ci dicevano. Oppure: “se
fosse possibile qualcuno l’avrebbe già fatto”... poi ci si stupisce che
sia così difficile fare le rivoluzioni.
Tirammo dritto, ed una domenica lanciammo in onda un programmino
amorosamente registrato con mezzi di fortuna. Funzionò. Cava,
brindisi, festeggiamenti davanti a piatto di verdure e pollo arrosto. Ma
l’euforia durò poco, perché l’emittente si sfasciò, ce lo avevano
venduto compagni italiani.
Allora si mossero le autorità competenti. E lo fecero telefonando a
casa mia, che ancora non so come cavolo riuscirono a rintracciarmi,
forse la gitana, per ricordarmi le conseguenze di trasmissioni illegali.
Multe, sequestri eccetera. Non che mi preoccupassero più di tanto,
ma non era il massimo nella mia situazione sapermi nel mirino di una
qualche autorità, perché poi le autorità spettegolano fra di loro e c’era
il rischio che intervenisse quella che con me aveva più direttamente
conti in sospeso.
Ma anche a questi livelli i catalani sono gente restia a impicciarsi dei
fatti altrui, e visto che allora non avevano competenze in materia di
pubblica sicurezza o di permessi di soggiorno, se ne infischiavano
allegramente che io fossi straniero in posizione regolare o no.
Insomma ci chiamarono a una riunione. Il direttore generale
responsabile dell’area telecomunicazioni era uno del centro destra
catalanista al governo, giovane e liberale, e ascoltò e s’informò e
scoprì che c’erano radio libere in tutti i paesi democratici del mondo.
E dovette pensare “checcavolo perché mai la Spagna, con la
Catalogna dentro malgrado lei, debbono essere sempre così
differenti?”. E si aprì una strabiliante tavola di trattative fra
l’amministrazione e un’accozzaglia di punk, neo hippies, disoccupati,
rossi di diverse tonalità e un latitante straniero. Anche se questo non
saltava alla vista come le creste e le borchie dei metallari.
E alla fine Barcellona ebbe la sua radio libera di copertura
metropolitana, più due frequenze per le radio di quartiere. Che
vissero tutto il loro senso durante lo sciopero generale del 94, quando
ci mobilitammo e mettemmo le radio al servizio della lotta e
dimostrammo che un’altra informazione è possibile, perché dai
microfoni aperti e senza censure la gente interveniva, affermava, si
correggeva, suggeriva, proponeva, in una sorta di grande piazza dove
ci si incontrò in migliaia e migliaia.
Ma le difficoltà erano tante.
Noi, il gruppo di gente strana ma in fondo normale o strana in quanto
normale, dopo cinque anni di tentativi, oscurati da una nuova radio
cittadina, tanto per cambiare socialista, prendemmo anche la via
delle manifestazioni di piazza pur sapendo che era da scemi uscire
allo scoperto e farsi contare. E infatti al primo corteo, una specie di
passacaglie, non eravamo manco un centinaio. E un altro po’ fini
pure male, perché mentre andavamo su e giù per il quartiere dietro
uno striscione, ci rendemmo conto che mancava il Roger, un ragazzo
giovane e timido recentemente arrivato in radio da uno dei quartieri
più marginali della città. L’avevano arrestato due vigili urbani in
borghese mentre faceva una bella scritta sul monumento a Cristoforo
Colombo. Il corteo allora virò verso il commissariato della Rambla.
Oramai non eravamo nemmeno una quarantina, ma sempre con lo
striscione ed io entrai e parlai con quello che mi sembrava il più
tranquillo dei poliziotti. Gli altri mi guardavano in cagnesco ma alla
fine tirarono fuori il ragazzo e cominciò un battibecco fra quelli del
corteo, il fermato e le guardie più spaccone. Riuscii a strattonarlo via.
Non erano pochi i rischi della militanza in una radio libera.
Avevamo organizzato una specie di coordinamento statale, con le
emittenti basche che erano le più serie e che di coordinamenti statali
in genere fino ad allora non ne avevano mai voluto sapere, e quelle di
Madrid divise in due o tre fazioni che cercavano di tirare dalla loro i
“periferici”.
Facemmo una delle riunioni a Santiago, ospiti di radio Kalimero,
emittente gestita da un’assemblea di autonomi, anarchici, femministe
antimilitaristi che per scacciare la sfiga che gli faceva saltare tutti gli
apparecchi e cadere le antenne avevano deciso in assemblea di
chiamare una meiga, cioè una strega. Perché la Galizia è una terra
verde, sotto un cielo sempre incupito e dal treno le stazioni isolate
nella campagna sono grigie di pietra e lucide di pioggia ed è la terra
della Sacra Compaña di streghe e misteri, della morriña, la malinconia
inesplicabile che assale i suoi figli emigrati. Di uno strano matriarcato
scaturito da generazioni di donne sposate senza marito, perché
l’uomo era in mare o a lavorare in America, Germania, Francia.
Terra di marinai che non sanno nuotare e che non imparano perché
tanto chi cade a mare in quel mare è comunque perduto. E un
governo locale, la Xunta, presieduto da Fraga, ex ministro fascista
responsabile del massacro di Vitoria, quando la polizia sparò sugli
operai che si erano rinchiusi in una chiesa e ne ammazzò sette o otto.
In treno da Barcellona il viaggio dura quasi un giorno e una notte e lo
feci con un paio di ragazzi di un’altra radio di un quartiere di
Barcellona. Uno era galiziano, moro, non parlava granché ma non
mancava mai a una riunione, una manifestazione, un presidio e
c’aveva sempre lo spinello pronto. In quel viaggio lo scompartimento
sembrava un affumicatoio all’aroma di cannabis ed io ero un po’
nervoso perché non si sa mai e il controllore invece di infischiarsene
poteva magari chiamare la polizia. Lui però era tranquillissimo e
rollava canne al ritmo di una sigaraia di Manila. E infatti un paio
d’anni dopo saltò fuori che era un agente della polizia nazionale,
infiltrato nei movimenti di Barcellona.
E insomma per farla breve quella che avevamo sognato come una
esperienza di comunicazione alternativa, orizzontale, partecipativa
andò alla deriva. Ridotta a emittente privata, cassa di risonanza di
ego politici o artistici castigati dalla realtà, ad associazione di
personaggi che pensavano di aver qualcosa importante da dire a un
mondo in attesa di sentirli. E l’ultimo gesto di onestà politica del
gruppo fondatore, cioè il comunicato pubblico con il nostro dissenso
per la degenerazione del progetto, mi avrebbe causato non pochi
problemi rendendomi bersaglio di infamate attraverso messaggi
anonimi in rete, o voci diffuse ad arte.
Nell’altra chiesa gotica di Barcellona, quella del Pi, poco lontano, qui
tutto è poco lontano, ci furono le occupazioni di immigrati. Gente di
tutti i paesi, centinaia, con l’appoggio di un sacco di organizzazioni di
base cristiane e non, e ci furono scioperi della fame ed uno, un
senegalese mi pare, si cucì pure la bocca e la foto finì su tutti i
giornali. Ma quello stesso tipo fu alloggiato poi in uno dei locali delle
associazioni di sostegno e violentò una ragazza nigeriana, che
cercava anche lei rifugio ai rastrellamenti della polizia. Me lo dissero
tutti impauriti quei ragazzi che c’avevano scritto “sono buono e bravo
ma non so che cazzo fare in una situazione così” sulla fronte, ed io
suggerii di massacrarlo di botte e loro mi risposero che veramente ci
avevano già pensato, ma che il tipo aveva pure una pistola, al che io
consigliai prima di disarmarlo e poi massacrarlo di botte. Ma non ne
fecero niente e tirarono un sospiro di sollievo quando quello se ne
andò.
Sono bravi ragazzi quelli dei movimenti di qui, ma ‘sta storia della
violenza non la sanno proprio gestire, e non solo perché qui come
altrove ha ormai trionfato l’idea che la violenza va condannata
sempre se l’esercitiamo noi, criticata al massimo se la usano loro. E
questo atteggiamento a volte ha conseguenze molto brutte, come alla
prima conferenza mediterranea alternativa, al palazzetto dello sport
della Mar Bella, accanto alla spiaggia.
Un sacco di gente, bancarelle, dibattiti, conferenze, cibi speziati. Una
settimana o quasi di incontri fra genti delle due sponde. Ma una
mattina arrivai e vidi un gruppo di uomini e donne con le bandiere
marocchine che urlavano ed inveivano contro qualcosa in un angolo
del recinto, e mi avvicinai e vidi che avevano circondato una decina di
rappresentanti del Sahara. Gli urlavano contro in arabo, immagino
che non fossero complimenti, e molti degli uomini avevano tutto
l’aspetto di poliziotti. Incrociai lo sguardo di uno ed era da assassino,
un altro riprendeva con una telecamera i sahariani. Andai di corsa a
cercare rinforzi e trovai un paio di organizzatori e gli dissi che
bisognava fare qualcosa subito. Mi risposero che quello che andava
fatto era starsene fermi e buoni e non cedere alle provocazioni. Ecco,
ci siamo arrivati, pensai: a porgere l’altra guancia. Cristianamente,
ma di un altro.
E la sacra difesa dell’ospite? Erano nostri ospiti no? E la solidarietà
con i più deboli? I perseguitati, gli oppressi? Niente da fare. Erano dei
non violenti radicali, gli organizzatori, di quelli che spezzerebbero le
gambe ai violenti.
I marocchini minacciarono, qualcuno esibì anche pistole, insultarono,
schedarono e poi se ne andarono tranquillamente. I sahariani
rientrarono nel loro stand e chissà che cosa pensarono dei loro amici
ed alleati europei.
“Ramblas di Barcellona, la prima crisi dura dentro in me” cantava
Guccini quando ero un ragazzetto e a me sarebbe tanto piaciuto farmi
una crisi in un posto così. Eccomi accontentato.
Piene di stranieri in trasferta, macchina fotografica imbracciata, e di
statue, cioè di gente che fa la statua e si mette in posa perché i
suddetti stranieri in trasferta scattino e paghino il dovuto obolo. Non
ci sono più invece i venditori di sigarette di contrabbando o i
lustrascarpe e nemmeno quell’omino macilento con un berretto a
visiera che faceva pagare il biglietto ai turisti che si sedevano sulle
poche panchine.
Quando arrivai era in uso un verbo, ramblejar, che indicava l’andare
su e giù per questo viale, dalla fontana di Canaletes, che se ci bevi
torni a Barcellona, alla statua di Colombo che indica l’America, a
quanto pare dalla parte sbagliata, e viceversa. In questo deambulare
trovavi conoscenti e amici e si formavano crocchi di gente che
parlava di se, della famiglia, di calcio, di politica.
E la Rambla, proprio davanti al Liceu, era lo scenario nei primi anni
settanta di scontri praticamente quotidiani fra polizia e gruppetti
dell’estrema sinistra. Cariche corse barricate coctails molotov
manganellate lacrimogeni e pallottole di gomma. E gente che correva
davanti ai grigi e poi ai marroni e infine agli azzurri o blu, ultimo
cambiamento d’immagine della polizia statale, adesso sostituita da
quella autonoma.
C’erano i tifosi del Barça che il lunedì si riunivano in folti capannelli a
confrontarsi su strategie, tattiche, campioni, vittorie e sconfitte, per
tacere degli arbitri e dell’eterno nemico, il Real Madrid.
Ci fu il periodo dei travestiti, con la curiosa coabitazione, nell’arco
delle 24 ore, di giovani e non più giovani famigliole che prendevano il
fresco e di puttane, ubriachi, clienti delle puttane, ragazzi smunti
truccatissimi e vestiti da sposa, cuori solitari ed allegre comitive.
C’erano anche i turisti, certo, ma molti di meno e anzi nel loro piccolo
contribuivano ad arricchire la tavolozza di tipi umani che popolava
questo spazio lungo e sinuoso.
Mi fermo a guardare i titoli dei giornali. Qui per anni sono venuto a
sbirciare i giornali italiani, a comprare l’Egin, prima che venisse
sequestrato manu militari. Oggi la notizia è la candidatura di
Barcellona come sede delle olimpiadi d’inverno del 2016. Il sindaco i
turno non ha trovato di meglio che ripetere la formula dei grandi
eventi sportivi per rilanciare l’immagine e l’economia della città.
Come per i giochi del 92, quando tutta Barcellona diventò un grande
cantiere: dal recupero della facciata marittima, alla costruzione del
villaggio olimpico, al rifacimento dei grandi impianti sportivi come lo
stadio di Montjuich.
Feci allora uno dei lavori più strani. Nel 91 lo stadio era già pronto e
per non lasciare fermi gli impianti, decisero di tenervi una serie di
manifestazioni musicali con gente come i Rolling Stones, Madonna,
David Bowie, Prince. E successe che la sicurezza, che ora a quanto
pare va chiamata security, al concerto dei Rolling Stones fece un
sacco di casini, perché i quattrocento sorveglianti, assunti da una di
quelle ditte che forniscono gorilla alla metropolitana, avevano avuto
la bella pensata di frugare in tasca e nelle borse di migliaia di
adoranti seguaci degli Stones, di cui molti ovviamente non
concepivano un concerto senza qualche canna o robetta più forte, e di
sequestrargliele. Nuocendo così fortemente al clima di celebrazione
festaiola che si addice ad un grande concerto, dove tu oltretutto vai
pagando una cifra. Insomma i produttori cercarono qualcuno che
controllasse i controllori ed un’amica pensò a me, che secondo lei
avevo le idee giuste e m’introdusse così nel business dello spettacolo.
Ritmi frenetici, stress, coca, isteria e aneddoti da raccontare in serata
agli amici. Dal capo dei vigili urbani, in seguito inquisito per una storia
di corruzione, che voleva vedere da vicino la Madonna rischiando
grosso con i guardaspalle della dama; ai poliziotti che con piacere
pregai di levarsi dai piedi perché David Bowie non usciva in scena se
c’era gente armata intorno. Dal rappresentante di uno dei divi che
dette un pacco di soldi a uno che “passava” coca e che poi aveva
chiesto se era uno da fidare. Tranquillo, gli risposero, è un ispettore di
polizia. Al membro di una ONG che riuscì a saltare tutti i filtri con un
badge della televisione italiana ed a far indossare una maglietta alla
Madonna (che se la infilò sorridente e dopo il concerto attaccò furiosa
a pugni la sua guardia del corpo).
Poi nel 92 lo stadio accolse la cerimonia d’inaugurazione con
sceneggiatura dei Comediants. Uno spettacolone. Accesero la torcia
olimpica con una freccia infuocata e il re pronunció il discorso
d’inaugurazione fra i fischi delle migliaia di presenti. I responsabili
delle televisioni spagnole impazzirono perché era impossibile filtrare
il suono e non potevano inquadrare null’altro che la tribuna delle
autorità perché tutto lo stadio era pieno di bandiere catalane
ondeggianti e immagini di una contestazione che giunse al culmine
con le note dell’inno spagnolo. A mò di rivincita, le istituzioni
democratiche scatenarono la caccia all’indipendentista. Ne presero
una quarantina e li conciarono male. Molti anni dopo il tribunale di
Strasburgo ammise che si era trattato di casi di vera tortura. Non è
che nessuno, né i mandanti né gli esecutori abbian pagato nulla, si sa
come funziona: un verdetto simbolico, qualche rimbrotto. Ma almeno i
ragazzi di allora ed uomini di oggi che erano stati asfissiati,
bruciacchiati, malmenati, minacciati, insultati, umiliati hanno avuto la
soddisfazione di veder riconosciuta la verità.
Boquería
Sulla scia di un drappello di polacchi o russi o chissacché in
pantaloncini corti entro nel mercato della Boqueria. Come l’hanno
ridotto. Sembra un luna park e alle bancarelle gli mancano solo le
insegne luminose ed i neon lampeggianti. Se vuoi multiculturalità fai
un giretto qui e sei servito. Ci sono rappresentanti di tutti i paesi
d’Europa muniti di macchine fotografiche e occhiali da sole, e
rappresentanti di tutti o quasi i paesi del cosiddetto terzo mondo,
muniti di sporte, borsoni, bambini in collo. La principale attrazione
della Boqueria era diventata ultimamente la bancarella di un signore
grassottello che vende funghi in tutte le stagioni dell’anno e che si era
allargato sul ramo degli insetti, sì sì proprio insetti: formiche
scarafaggi scorpioni termiti larve eccetera. Ma poi nel dubbio gli
hanno fatto chiudere l’attività, ma senza fare tanto casino, non fosse
mai che qualcuno accusasse le politicamente correttissime autorità
cittadine di discriminazione gastronomica. Comunque resta
l’attrattiva della rotonda centrale, dove ci sono le pescivendole, che
però a forza di tante fotografie e clientela dai linguaggi gutturali
hanno perso la loro vivacità e non ti chiamano più “reuccio mio bello
caro guarda un po’ che sogliole c’ho oggi”.
Rambles... Dio, quante volte l’ho percorsa questa via. Quanta gente
c’ho conosciuto. In quante manifestazioni ho sfilato. Quante rose ho
comprato.
Ogni anno il 23 aprile, Sant Jordi, patrono della Catalogna la Rambla si
riempie di bancarelle cariche di libri e di rose. Un fiumana di gente di
ogni età, corrente ininterrotta e ordinata.
Nel pomeriggio c’è sempre qualche corteo, in genere in difesa della
lingua. In uno dei primi anni di emissione della televisione catalana
TV3, a Canaletes, all’incrocio fra C/ Pelai, Plaça Catalunya e Rambles
un gruppo di femministe chiede la legalizzazione dell’aborto. Con un
fornellino cercano di gonfiare un piccolo pallone aerostatico. Arrivano
le camionette della polizia. Scende un drappello di uomini coi caschi e
gli scudi. Rompono il pallone a manganellate, poi cercano di rompere
qualche femminista. La folla reagisce. Una telecamera filma. Arrivano
i rinforzi. Sullo schermo uomini in divisa rovesciano bancarelle,
buttano in terra i libri, picchiano anziani che si difendono con un
ombrello, sfoderano le pistole. Si vedono vecchie signore distese sul
selciato, volti insanguinati. Ma la gente non se ne va. A centinaia,
disarmati e incazzati incalzano da tutte le direzioni i poliziotti che
molte scene di violenza dopo rientrano nei furgoni e si ritirano.
La televisione “regionale” trasmette e ritrasmette le immagini finché
un giudice non ne ordina il sequestro. “In ottemperanza alla decisione
del magistrato consegneremo i nastri alle autorità – dice il
presentatore del telegiornale – ma prima li trasmetteremo
integralmente”.
Erano altri tempi. Altri giornalisti.
Tirem innanz...
L’Ateneu Barcelonès, piazza Vila de Madrid. Greve edificio con
androne lastricato di pietra e scalinata di idem e portinaio che ti
chiede dove vai. Dentro c’è un caffè con sala di lettura ed il giardino
romantico in un cortile interno. Ci venivo ogni tanto quando ero socio
dell’Associazione di scrittori in lingua catalana. Ci si riuniva per cose
come la prima guerra in Irak e con persone come la Montserrat Roig,
ma erano i tempi degli scrittori impegnati politicamente e, si sa,
l’impegno politico uccide la creatività. E infatti si è visto dopo l’
esplosione di creatività che c’è stata quando l’associazione si è
arroccata sulla difesa dei diritti d’autore, delle tasse sulle fotocopie e
quant’altro. Io che invece ero sostenitore del copyleft, cioè della
libertà di copia non lucrativa, e della libera circolazione del sapere,
continuai a pagare la quota perché mi era utile avere un tesserino di
scrittore, con la foto appiccicata sopra, da tirar fuori come surrogato
di documento d’identità. Finché a Praga non venne arrestata mia
figlia, assieme a decine di altri ragazzi catalani, in un sit-in di no
global. Il presidente della Cechia era Havel, scrittore famoso e
venerato dai nostri ed io chiesi alla “Giunta” dell’Associazione di
scrittori, di fare una lettera o un comunicato di protesta. Da scrittori
democratici difensori della libertà di espressione a scrittore
democratico e amante delle libertà. Ma la Giunta mi rispose che
l’Associazione di scrittori di lingua catalana non faceva politica, cosa
d’altra parte non vera, dato che poco prima avevano condannato con
fermezza un attacco a una libreria nei paesi baschi, cioè un libro è
sacro, la libertà di ragazzi anticapitalisti ed internazionalisti no, ma
vaffanculo va! E così terminò la mia frequentazione dei circoli di
scrittori, dell’Ateneu Barcelonès e, aimé, del giardino romantico.
Chino
Bighellono per le vie del Xino finalmente tranquillo, io non il quartiere,
perché tanto ora al massimo mi rapinano. Hanno “esponjat” la zona,
vecchia aspirazione degli architetti ed urbanisti illuminati della città:
ridar luce e salubrità aprendo nuove strade, piazze, ristrutturando
edifici, buttando giù quelli fatiscenti, costruendone di nuovi, solidi e
funzionali, creando impianti e servizi pubblici. A me sembra piuttosto
che l’abbiano “espugnata”. Alle prostitute andaluse e galiziane di ogni
età e categoria sono subentrate africane, rumene, russe
sudamericane. Resta ugale il meretricio. Nemmeno la clientela non è
cambiata granché da quella notte di Natale di trent’anni fa quando
dal dedalo di vicoli deserti sbucai in una specie di corso, una rambla
striminzita e gremita di uomini male in arnse. Poveracci la maggior
parte, vecchiotti o almeno così mi sembravano, che sostavano sul
marciapiede o in mezzo al selciato con l’aria di aspettare qualcosa
davanti a porte di bar illuminati ed il qualcosa erano appunto puttane
colle tette di fuori malgrado il freddo e la scarsa appetibilità delle
stesse, anche se l’apprezzamento è soggettivo visto che appetibili
risultavano per tutta quella dolente umanità. C’è più luce ora, questo
sì, e più polizia e piazze, negozi di pakistani uno accanto all’altro e
turisti e alberghi per turisti e ristoranti per turisti e botteghe per
turisti.
Sono quasi scomparsi i gitani e le loro donne, vestite di nero se
vecchie e sposate, e di colori sgargianti e scollature e spacchi sulle
gonne quelle più giovani. Invece ci sono le musulmane coi loro veli,
scialli e addirittura qualche specie di burka, anche se per fortuna
scollature e minigonne non mancano grazie a sudamericane e
studentesse straniere.
Esponjar / espugnare. Hanno chiuso le pensioni miserabili, vere topaie
e gli alberghi a ore. E così le africane e le rumene scopano e fanno
pompini all’angolo della via e sui portoni e i vicini si lamentano e
allora intervengono i vigili urbani e le africane e le rumene son fatte
emigrare o meglio riemigrare verso un’altra zona dove poi i vicini si
lamentano e così via.
Passo davanti ad uno dei tanti alberghi di lusso e la piazza antestante
la vogliono dedicare a Vazquez Montalban che odiava questa
ristrutturazione post moderna di un quartiere che racchiudeva tanta e
tante storie di umanità disgraziata e umiliata. Se lo sapesse si
rivolterebbe nella tomba. Ma ai nostri piace approfittare dei nomi dei
morti illustri che tanto mica possono protestare. E così hanno
intitolato un’altra piazza a Orwell, che i predecessori politici di quelli
che governano adesso avevano cercato di liquidare quando venne a
combattere nelle brigate internazionali, ed una a Jean Genet, tanto
chi cavolo lo conosce.
C’è ancora la viuzza dove per un soffio non finì la mia carriera di
latitante.
“Está amartillada!” ripeteva il poliziotto puntandomi la pistola sulla
nuca. Stai calmo, sono disamato e non ho fatto nulla, gli dicevo
mentre il suo collega, anche lui pistola in mano correva giù per la via
fredda e deserta gridando “gli altri sono lì! Fermi, Fermi!”. E pensavo
con la guancia sul gelo del tettuccio di una macchina che era proprio
una maledetta sfortuna cadere in una retata contro spacciatori da
quattro soldi e quasi quasi desideravo che a quell’idiota con la mano
tremante gli partisse un colpo e farla finita e poi l’idiota mi spintonò
verso un portone e dentro l’atrio del palazzone c’erano sei o sette
professori ed alunni della scuola di lingue dove lavoravo e con cui
avevo appena cenato allegramente in casa di un collega, tenuti a
bada dall’altro poliziotto, tutti in fila alla parete gambe divaricate e
mani appoggiate al muro e quando entrai si girarono tutti verso di me
e mi chiesero in coro “R. ma che hai fatto?”. Era seguito un concitato
battibecco fra i pulotti nervosi e i catturati sempre meno spaventati e
sempre più incazzati, che minacciavano denunce e lettere ai giornali
ed infine i due se ne andarono, senza nemmeno rendersi conto che
per terra c’erano meno documenti che persone allineate contro la
parete, rinfoderando walkie talkie e pistole, seguiti da esclamazioni
indignate e da una sfilza di “ma non finisce qui” a cui avrei voluto
contribuire con un ultimo “lei non sa chi sono io!”. Dopotutto ero
insegnante di italiano.
Diceva il babbo che mi ha salvato l’angelo custode, cioè lo spirito di
mia mamma, perché tante volte l’avevo scampata, troppe per la
fortuna o il caso...
Riunione dell’MRG. Movimento di Resistenza Globale, siamo nelle lotte
no global. Tutto alla luce del sole, pacifico, innocuo, ma durante
l’intera giornata mentre parliamo, discutiamo e scherziamo un paio di
giovanotti fanno il palo all’angolo dell’edificio dell’università di Lleida.
Finiamo che annotta. Io ed un altro andiamo alla stazione, gli altri
partono in macchina, saranno una trentina. Alla stazione facciamo i
biglietti e poi andiamo al bar. Due poliziotti in divisa entrano e
vengono dritti verso di noi. Ci chiedono i documenti. Il compagno è
nervoso perché ha qualche fogliolina di marijuana in tasca e perché
ha precedenti come “insubmis” cioè non sottomesso, renitente
politico alla leva. “Se tu sapessi!”, penso e intanto ripeto ai poliziotti il
solito ritornello “spiacente ma ho dimenticato i documenti”. I
“mossos” traccheggiano con le ricetrasmittenti ripetendo il nome che
gli ho dato e quello del compagno. Arriva il treno. Mi dicono che non
posso andarmene. Rispondo che ho fretta. Che vengano con me o mi
facciano aspettare a Barcellona. Il capotreno s’impazienta. Salgo sul
predellino deciso e cortese. Non mi trattengono. Il compagno respira
sollevato, telefoniamo agli altri. Una ragazza ci dice sottovoce che
sono fermi a un posto di blocco pieno di poliziotti col passamontagna
e i mitra che gli han detto che è un controllo antiterrorista e li stanno
perquisendo tutti, frugando in macchine e tasche, documenti ed
agende, anche quelle degli avvocati che hanno protestato ricevendo
come risposta che in un controllo antiterrorista l’unico diritto che
hanno è di tenere la bocca chiusa. Riattacca.
Quando sono in pericolo c’è una specie di nebbia. Tutto è lento. Gli
anni e l’istinto t’ insegnano a mascherare la rassegnazione, il
fatalismo da serenità tranquilla. Il sospetto innervosisce e il
nervosismo prolunga il gioco. L’immobilità in natura è una difesa
poderosa. Se non fuggi, se non tremi vuol dire che forse sei
pericoloso. O che non sei commestibile.
I sensi si adattano a una vita il cui sale è la paura. Angoscia che può
sfociare in panico. Paura del dolore, la malattia, l’abbandono. Il
rischio, l’ignoto, la morte, l’oscurità. La violenza.
Dell’attesa di una scampanellata o di un tonfo alla porta in piena
notte o all’alba. Della calma inquieta di una strada deserta. Di
un’ispezione sul lavoro. Di un controllo di routine. Di un telefono
intercettato. Di un incidente stradale. Una manifestazione.
Dell’ubriaco che ti incroci per strada, dell’albergatore il portinaio il
sorvegliante il vicino il collega.
Non avevo mai fatto caso alla quantità di laboratori di piercing e
tatuaggi. Vorrei farmene uno bello, uno di quelli che adesso sfoggiano
tutti e vorrei che fosse un lupo, il mio animale totemico. Ma quelli che
vedo nelle quattro o cinque bottegucce di tizi quasi tutti stranieri,
decorati come alberi di natale con pezzetti di metallo appesi
dappertutto, sono solo immagini di lupi che sembrano usciti da un
film di Walt Disney o da un droga party.
Mi terrò il mio simbolo della pace, fatto da un tossico con tre aghi e
colorante da pareti. Il tatuaggio venne fuori storto e me lo sono
nascosto per molti anni perché si vedeva da un miglio che era roba
fatta in galera. Però la tecnica era semplice e una volta cercai anche
di farmi una stella a cinque punte.... Non mi venne una stella ma una
specie di clessidra. E me la sono tenuta. Così imparo...
Sbuco nella piazza del MACBA. Piena come al solito, malgrado le
ordinanze, di skatters. Sono tentato di entrare e chiedere cos’hanno
in programma di vampirizzare nei prossimi mesi. MACBA, covo di
marchand della rivoluzione fatta arte e quindi prodotto-merce. Subito
dopo le mobilitazioni no-global organizzarono una mostra sui
movimenti di protesta degli ultimi decenni. C’erano un sacco di
fotografie di manifestazioni cui avevo partecipato, di cartelli che
avevo incollato, di riviste che avevo distribuito. All’ingresso mi dissero
che il biglietto costava otto euro. Anche per gli autori? Chiesi.
Un po’ più su c’è la concorrenza: il CCCB e davanti la fiammante
facoltà di storia dell’università centrale.
In C/ Tallers cerco il negozio di strumenti musicali dove lavora il Ton.
Lo conosco da una vita, da quando mi guadagnavo la vita come
traduttore. Mi pagavano tutto in nero allora. Per fortuna la contabilità
delle agenzie non era granché rigorosa, e fra tutte la meno rigorosa
era quella della PAX, una società fondata dal Ton ed altri quattro
amici neolaureati: a fine mese, il giorno di paga, il socio contabile in
una stanza faceva le buste coi soldi dentro mentre in quella accanto il
socio con bilancina e coltello tagliava pezzi di hashish e confezionava
bustine di coca o speed e noi, i traduttori, si faceva la fila prima
davanti a una porta e poi all’altra.
Faccio capolino nel negozio chiedo al padrone se c’è e mi dice di no,
che è malato. Non mi stupisce. Stupisce che sia ancora vivo con tutte
le porcherie che si è fottuto per anni per vena, naso, bocca. Lascio i
saluti.
La piazza Universitat è sempre stata bruttina, malgrado l’edificio
dall’aspetto severo e un po’ pomposo che accoglie l’università
centrale, uno dei quattro o cinque atenei pubblici della città. Ha un
bel giardino e nel quartiere abbiamo fatto lotte perché venisse aperto
al pubblico, poi visto come il pubblico lo trattava abbiamo lasciato
perdere.
Ha anche due bei chiostri dove gli studenti accoglievano la polizia
franchista a sassate ed a bottiglie di acidi tirate dai ballatoi. In anni
recenti è stata il quartier generale delle mobilitazioni contro la
riunione dei capi di stato e dei ministri degli esteri dell’Unione
Europea sotto il governo Aznar.
Era tutto un via vai di gente, un riunirsi, uno scrivere manifesti,
preparare cartelli, confezionare tute anti-antiantisommossa sotto gli
occhi un po’ annoiati dei bidelli che non sembravano granché
simpatizzanti. Ma quando sulla porta si presentarono un gruppo di
poliziotti, se ne alzò uno faticosamente da dietro il suo banchino e
bofonchiando “questi col cazzo che entrano” gli andò a chiudere
deciso la porta in faccia.
Proprio davanti, giù nell’atrio della stazione della metropolitana hanno
allestito una mostra “Barcellona sotto le bombe”.
Hanno riprodotto le immagini di un ricovero antiaereo. La popolazione
di Barcellona, in un’opera immane di resistenza, ne costruì a
centinaia.
Ci sono le autorità, qualche giornalista. Molti vecchi, uomini e donne.
Ascoltano i discorsi del politico, uno di sinistra. Si aggirano ad
osservare le immagini, le sequenze di documentari su piccoli
schermi. Qualcuno piange. Erano ragazzini allora, bambini come quelli
che una foto mostra cadaveri allineati su di un marciapiede.
Costeggio la Plaça Catalunya. Davanti al Corte Inglés hanno messo
una bancarella per la raccolta di firme. Vogliono fare un’iniziativa
legislativa popolare per chiedere l’abolizione della corrida.
È una festa o tradizione che non riscuote molto successo ed ancor
meno simpatie la cosiddetta fiesta nacional, la corrida.
Qui a Barcellona continuano a farne alla Monumental, un’arena di stile
modernista. Mi è capitato di andarci in processione dietro signore
scalmanate che cercavano di spiegare alle centinaia di turisti che “se
la corrida è arte il cannibalismo è gastronomia”. Quando arrivavi sul
posto trovavi sempre il solito schieramento di poliziotti che ti
consigliavano paterni di andartene prima che finisse la corrida
perché, dicevano “voi siete gente per bene ma quelli lì dentro sono
degli animali”. E non si riferivano ai tori né ai turisti ma alle decine e
centinaia di amanti della “fiesta”, che ce ne sono e di solito sono
spagnoli di pura casta e bruti fascistoidi. Degna compagnia di alcuni
settori di artisti ed intellettuali che per snobismo o altre basse ragioni
difendono da giornali e tivù la tauromachia.
Un amico che da piccolo ne aveva viste a decine, perché era della
Castiglia profonda e suo padre era un aficionado, mi spiegò che la
cosa è semplicissima: si fa entrare il toro, che quando va bene non è
stato drogato né “rasato”, cioè con le corna spuntate, ma che è
comunque frastornato e che di suo non ci vede niente bene, e così,
d’acchito gli piantano un paio di uncini sulla groppa. Quindi entra il
picador a cavallo e con la lancia lo buca due o tre volte, tanto per
fargli perdere qualche litro di sangue. Poi quando è ormai quasi
sfinito, gli mettono le banderillas che fanno un male boia e lo
spronano a dar fondo alle ultime energie. Lo fanno correre su e giù
fino al “momento de la verdad”, che sarebbe il momento in cui il toro
non ha più nemmeno la forza di tenere la testa alta. A questo punto
se tutto va bene il matador gli trafigge il cuore con la spada che infila
nel punto della groppa rimasto scoperto, sennò è il descabello, che
consiste nel finire l’animale con lo stocco o il pugnale, colpendolo
dietro la nuca o, a volte, addirittura lo sgozzamento. In questi casi
hanno l’accortezza di nascondere la macelleria alla vista del pubblico
facendo un cerchio coi capotes e le muletas.
Firmo, con il numero d’identificazione stranieri accanto al nome. Sono
legale. Firmo anche se l’ultima iniziativa di questo tipo, per obbligare i
partiti a discutere in Parlamento la costruzione di centrali nucleari, finì
con quattro centrali nella mobilitatissima ed antinucleare Catalogna
mentre nei paesi baschi centinaia di sabotaggi e l’azione dell’ETA
evitarono la costruzione di quella di Lemoiz. Poi dicono della superiore
efficacia della parola rispetto all’azione.
Urquinaona è la piazza dove ancora negli anni settanta i capataz
andavano a prelevare i manovali ed i muratori per farli lavorare a
giornata in un cantiere. Qui accanto nei miei primi giri di scoperta
della città vidi un cartellino sulla porta di un palazzone. “Associazione
Familiari ed Amici Prigionieri Politici”. Suonai il campanello e mi
presentai. Erano una vera famiglia con diversità generazionali e
legami parentali di ogni ordine e grado con prigionieri politici. Li avrei
visti negli anni, sempre in testa alle manifestazioni più combattive, i
più anziani con le bandiere rosse o l’ikurriña o la senyera con la stella
rossa, anche quando c’era il rischio di buscarne, anzi soprattutto
quando c’era il rischio di buscarne.
Simpatizzammo. Il Pere, della mia età, aveva visto morire un
compagno colpito da un proiettile poliziotto alla schiena durante una
delle prime grandi manifestazioni del dopo Franco. Llibertat, amnistia
estatut d’autonomia urlava la folla e i “grigi” sparavano. C’è ancora
un cartello appeso nel punto in cui venne colpito Gustau, sulla via
Ferran. Poi c’erano l’Encarna e il Ramon. Lui vecchio operaio, piccolo,
magro e lei minuta donna lavoratrice, affabile, affettuosa, materna e
tenace.
Li andavo a trovare nel loro localino. Mi raccontavano della situazione
nelle prigioni spagnole, dei FIE, cioè i detenuti considerati altamente
pericolosi, delle lotte della COPEL, organizzazione di carcerati comuni,
dei detenuti politici, dei baschi organizzati ma sempre nel mirino di
guardie e giudici. Dei via crucis delle famiglie. Dei brani di
conversazione nelle file davanti ai cancelli dei carceri speciali, in
attesa dei colloqui. “Anche la settimana scorsa ci hanno fatto una
perquisizione e hanno rotto due mobili”. “Sa, a me hanno sfondato la
porta quattro volte. Eppure io glielo dico sempre al commissario, ma
guardi che se suonano al campanello io la porta gliel’apro sa?”.
Nel bar accanto, da Marisa, dove andavamo a farci un panino dopo le
riunioni e dove a mezzogiorno per quattro soldi ti davano un menù
niente male ora cuochi, cameriere e proprietari sono tutti cinesi.
Come del resto praticamente tutti i bottegai del quartiere. Grossisti
del tessile, parrucchieri, negozi di alimentari, di elettrodomestici,
ristoranti.
Mentre mi avvio lemme lemme verso il Passeig de Gràcia mi arrotolo
una canna con l’ultima caccola che pesco in fondo al pacchetto di
sigarette. Mi viene da fare schifo. Non sono granché abile con le mani.
Seduto su uno dei banchi-lampione rivestiti di trencadís assaporo con
il fumo la soddisfazione di guardar passare una pattuglia di mossos e
di ricambiarne imperturbabile lo sguardo scrutatore. Non ho più
paura. Ho dei documenti in tasca e non sono falsi e non ho più
mandati di cattura né condanne in sospeso. Sono libero. Di sedermi
dove voglio, di fumare, attraversare frontiere, prendere aerei,
guidare, dormire in alberghi o sulle panchine di un parco o nella sala
d’aspetto di una stazione. Libero di ubriacarmi e di raccontare la mia
storia ad altri ubriachi o a un barista annoiato. Libero di pagare le
tasse e di scrivere lettere al direttore. Libero di buttarmi sotto un
treno, di tagliarmi le vene, di parlar da solo. Libero.
Per ora mi riposo. Sono nel mio quartiere.
Pochi anni dopo il nostro arrivo a Barcellona cambiammo casa pr
trasferirci nell’Eixample, costruito agli inizi del 900 secondo il Piano
Cerdà, urbanista illuminato.
L’appartamento era grande e bello, almeno per noi usi a ristrettezze
d’ogni sorta. C’era perfino l’ascensore. Affitto ragionevole e contratto
per un periodo illimitato, un lusso che sarebbe poi divenuto oggetto
d’universale invidia, visto che proprio in quei mesi il governo
socialista si rimboccava le maniche per aprire la cassa di Pandora
della corsa al mattone e della speculazione selvaggia.
Non che mi piacesse granché il nuovo quartiere. Uffici, bar notturni di
quelli che mio cugino chiamava night e che qui chiamano invece
puticlub. E poi altri uffici e altri night, però era a due passi dal centro
e da Gracia. In compenso il traffico era intensissimo e i lavori
perennemente in corso: luce, fibra ottica, acqua, telefono, tunnel,
Ave, metropolitana e ricomincio: acqua, telefonia, fibra, ottica…
Aveva anche i suoi personaggi bizzarri, come un inglese che ogni
tanto, con barba e baffi rasati a metà, si piazzava ad un incrocio di
Balmes, una delle principali arterie della città e, munito di un
bandierone a quadretti di quelli delle corse automobilistiche, dava il
via alle macchine ferme al semaforo.
Ci abitavamo da poco e un mattino mi alzai presto per andare al
mercato. Mi piacciono i mercati, con le loro bancarelle del pesce al
centro e poi tutt’intorno i fruttivendoli, i macellai, i baccalaisti, i
legumisti che vendono i fagioli ed anche - orrore - pasta già bell’e
scotta, rivendite di uova, olive, frattaglie, volatili, mentre fuori, lungo
il perimetro della struttura di mattoni e ferro, pendono festoni di
vestiti, pentole, pantofole, padelle, mutande, calzini.
La via era deserta, la gente qui non si alza mica tanto presto e sono
rari i posti che aprono prima delle nove. C’erano due poliziotti un po’
più avanti sul marciapiede che srotolavano uno di quei nastri con su
scritto “vietato passare, polizia”. Lo tesero intorno ad un rettangolo di
marciapiede legandolo a delle transenne e in mezzo al rettangolo
c’era un corpo e sotto la testa calva e bianca si allargava una chiazza
di sangue spesso e amaranto. Due piani più in su c’era un balcone
con la finestra aperta e, appeso alla ringhiera, un bastone di quelli di
una volta, da vecchi, con il manico curvo. Un poliziotto accese una
sigaretta, l’altro disse qualcosa alla radio gracchiante. Non mi fermai,
solo un’ occhiata alla pantofola accanto al cadavere, alla vestaglia
marrone e lisa.
Non molto tempo dopo, stavolta era una notte d’estate ed ero uscito
a respirare un po’ di aria carica di odori, di vita, all’angolo di casa si
fermò un’ambulanza con i lampeggianti accesi. Ne scesero due
infermieri, che s’infilavano quei guanti di lattice che ti metti se devi
toccare sangue o merda o uno malato e s’incamminarono verso uno
dei nuovi edifici. Accanto alla parete c’era una ragazza colla
minigonna. Distesa col viso appoggiato sul selciato, sembrava una
bella ragazza, non più giovanissima, ma bella e anche lei aveva quel
grande fiore rosso che le incorniciava la testa.
Avevo, allora, ancora tanta paura di essere ripreso, di finire di nuovo
in galera. Era nei miei incubi di ogni notte, il carcere. Sognavo
evasioni. Inseguimenti. Cani e pallotole che mi rincorrevano e a volte
raggiungevano. Quel vecchio e quella ragazza mi dissero di non
preoccuparmi più di tanto, che nessuno avrebbe potuto mai togliermi
la possibilità di evadere.
L’Eixample racchiude gran parte del patrimonio modernista della
città. Dicono che Gaudí avesse commissionato per il grande ingresso
della Pedrera una immensa lastra di vetro di Boemia che costò un
occhio della testa, anche perché il trasporto mica era una cosina da
nulla. Quando il vetro arrivò a destinazione tutto bello impacchettato,
l’architetto ordinò agli operai che chiedevano istruzioni su dove e
come collocarlo, di lasciarlo semplicemente cadere lì. E quelli lo
fecero, immagino fra imprecazioni bofonchiate a mezza voce contro
quel buonomo che era fuori di testa, anche se non tanto come quelli
che pagavano che, continuo a immaginare, non dovevano essere
presenti alla scena. La lastra ovviamente andò in frantumi, doveva
essere uno spettacolo notevole. I frammenti pazientemente raccolti
furono ricomposti in una intelaiatura di metallo dal disegno
arabescato e fantastico, e questa fu la porta dell’impressionante e
onirico edificio che attrae frotte di turisti giapponesi. Come tutte le
altre opere di Gaudì, punteggiate di elementi tratti dall’attenta
osservazione della natura, come il suo celebre e rivoluzionario arco, o
dalle droghe, forse funghi allucinogeni. Alchimista, drogato, geniaccio
comunque. La città ne va orgogliosa, anche se adesso quelli che se lo
mettono all’occhiello nei loro viaggi d’affari all’estero, in queste
strane comitive di uomini politici e imprenditori, sono gli stessi che
trent’anni fa non sollevavano grandi obiezioni quando un palazzinaro
comprava edifici emblematici del Modernismo per demolirli e farci
appartamenti da vendere a peso d’oro. Ed era la gente del quartiere
che doveva mettersi a fare i presidi e le occupazioni di notte degli
edifici condannati a morte da ruspa e che talvolta riusciva a salvarli,
come nel caso dell’Elisenda, placida figlia di bottegai, e degli anonimi
abitanti del suo rione che bloccarono in extremis la demolizione dello
Chalet, graziosa palazzina modernista sulla Gran Via, oggi sede di un
Centro Civico.
Butto il mozzicone in un cestino sperando che bruci. E cerco una
fermata del bicing. Con sollievo vedo che la bici che mi tocca è meno
sfasciata del resto. Pedalo a casaccio alla ricerca di un bar che mi dica
qualcosa: a me piacciono quelli di sempre, di quartiere, con i
pensionati che giocano a carte e gli operai che si fanno il panino e un
cicchetto alle dieci di mattina. E ce n’è sempre meno. Passo davanti
alla sede della Delegazione del Governo in C/ Mallorca.
Era scomparso un prigioniero basco catturato dalla Guardia Civil.
Dissero che era fuggito. Con le mani legate dietro la schiena, era
fuggito da un furgone blindato e scortato da una mezza dozzina di
agenti armati. Non avevano ancora perfezionato l’arte del comunicato
stampa, quelli della “Benemerita”. Poi lo ritrovarono affogato in un
fiume. Una ventina d’anni dopo avrebbero ammesso che l’acqua dei
polmoni non era del fiume e che insomma il prigioniero era morto
mentre gli facevano la tortura della “bañera” che consiste nell’
immergere nell’acqua la testa dell’interrogato fino a farlo quasi
affogare. Adesso lo fanno coi sacchetti di plastica.
Per noi era facile immaginare come fossero andate davvero le cose ed
eravamo diverse migliaia quella sera, sotto la pioggia, a urlare contro
lo Stato e finì a sassate e bottigliate contro l’edificio del Governo da
cui sparavano pallottole di gomma e noi ci si riparava dietro una
macchina dei vigili urbani che erano rimasti in mezzo, e ci
prendemmo a spintoni e poi a calci con gente di un sindacato che ci
accusava di provocatori.
Mi attiravano molto le lotte di strada nei primi anni ottanta e novanta.
Manifestazioni che finivano in scontri, picchetti nelle giornate di
sciopero. Ci andavo con Stephan, uno svizzero biondino, Mark, un
bavarese moro, atletico e sorridente, e Pere, figlio di immigrati nato in
Francia. Formavamo una piccola brigata internazionale che faceva
barricate, tirava sassi e biglie di ferro, spaccava vetrine. Come quelle
del grande magazzino da cui saltò fuori un gruppo di antisommossa
coi caschi e manganelli come in una di quelle scatole col pupazzo che
schizza fuori a molla e fu tutto un mulinio di scudi manganelli bastoni.
L’adrenalina non fa sentire il dolore e tutto è rapido e solo dopo ti
rendi conto dei lividi, le escoriazioni, le nocche arrossate.
Poi il mio gruppetto di autonomi si sciolse, Mark tornò in Germania, lo
arrestarono e condannarono a una ventina d’anni per “terrorismo”.
Stephen morì a nemmeno quarant’anni, si faceva di troppe cose. Il
Pere riemigrò, stavolta con moglie e figli.
Risalgo verso Gràcia. Il quartiere-paese dove ancora gli abitanti,
giovani e vecchi, quando vanno in centro – a due fermate di
metropolitana, dicono “vado a Barcellona”. Qui per anni ho frquentato
un paio di locali libertari, un ateneo ed un centro sociale. Mi
attiravano gli ambienti anarchici. Atenei, locali, bar, librerie, concerti.
Meno i sindacati, perché si stavano scannando in tribunale fra quelli
della CNT dell’esilio e quelli dell’interno con ulteriori divisioni che mi
sfuggivano e sfuggono. Non era proprio come l’avevo immaginata la
Barcellona libertaria, quella della Rosa de Foc, delle milizie operaie,
dell’autoorganizzazione, delle fabbriche e degli alberghi e dei servizi
collettivizzati, del Ferrer i Guàrdia, delle sommosse popolari contro la
leva obbligatoria. Ma era pur sempre un mondo che mi affascinava.
L’Ateneo era in Via del Perill ed una notte i fasci bruciarono il portone
con un paio di molotov e il pomeriggio seguente ci fu un presidio e poi
un corteo che partì dal locale e fece un giro per il quartiere, che è un
quartiere popolare, catalanista e di sinistra e si distribuirono slogan e
volantini e la gente applaudiva e gridava “resistete ragazzi”.
E di ritorno al punto di partenza, mentre quelli dell’Ateneu stavano
pronunciando il discorsetto di saluto alla “occhei ragazzi ora tutti a
casa e in campana”, scoppiò il finimondo e la tranquilla C/ Perill si
trasformò in uno scenario da film western, e più in concreto nel
saloon quando si gira la scena della rissa, con gente che si azzuffava
accapigliava graffiava scalciava mordeva rotolava per terra. Un
attempato signore, probabilmente di ritorno dal lavoro, con abito liso
e cartella di similpelle sottobraccio, che era venuto ad esprimere
solidarietà e sostegno eccetera aggrappandosi al mio braccio mi
bisbigliò “ma cosa succede?”. “Una discussione interna, immagino”
gli risposi facendogli strada al di fuori dalla mischia.
Mi ci trovavo comunque bene a Barcellona, dove la polizia tappezzò
un giorno i muri di un intero quartiere di cartelli con foto di uomini e
donne ricercati del GRAPO, un gruppo armato marxista leninista,
cartelli che prima di sera erano scomparsi, strappati dai ragazzini che
andavano a scuola, tirati via dai passanti, rimossi con accuratezza
professionale dalle portinaie.
Era una società pacata ma che sapeva cos’era resistere e lottare.
Anche senza partiti, senza grandi strutture politiche o religiose a
dirigerla.
Quando i socialisti neo arrivati al governo organizzarono il referendum
truffa per l’ingresso del paese nella NATO, la risposta fu spontanea e
di massa. Gruppi di amici, coppie di anziani, membri di associazioni di
ogni tipo incollavano i manifesti pagati da un’assemblea di centinaia
di asssociazioni, riempivano città e paesi di slogan, conferenze,
dibattiti. La Catalogna votò no alla Nato.
Non è cambiata granché Gràcia. Gli squatter adesso sono più giovani,
independentisti o a volte italiani. Continua vivo l’associazionismo:
esplais, centres excursionistes, centri civici, sedi di associazioni e le
commissioni delle feste, che resistono anche se a stento agli attacchi
del turismo, al sostituismo delle amministrazioni, all’individualismo
dilagante. Le feste del quartiere si celebrano ad agosto e durano una
settimana con decine e centinaia di attività organizzate quasi tutte
dalle commissioni delle diverse vie che, oltretutto, decorano,
“mascherano” il proprio spazio. Gli stradaioli insigniti del premio al
miglior allestimento vanno fieri del riconoscimento che costa in
genere centinaia di ore di lavoro da parte di decine e decine di
persone di ogni sesso ed età.
È una delle poche feste, con Sant Jordi, che mantiene una identità,
nonostante la massificazione tristica e la militarizzazione, promosse
entrambe dal sempre più dispotico e sempre meno illuminato
comune.
Non ha avuto la stessa fortuna quella di Sant Joan, il 24 di giugno,
festa del fuoco. Prima facevano i falò per strada, nei campi, nelle
piazze dei paesi. Il combustibile che usavano avrebbe fatto arricchire
centinaia di antiquari, perché la gente buttava sulla catasta i tavolini,
i bauli, le sedie, le poltrone, gli armadi vecchi. Poi le autorità decisero
che i falò erano pericolosi e poi sciupavano l’asfalto, anche se ci
mettevi la sabbia sotto, e di colpo diventò un’attività illegale.
Invece i fuochi d’artificio, visto che si devono comprare, sono
legalissimi e ne bruciano a quintali e ora la città è tutto uno
scoppiettio, scintillio, tonfi, botti di giorno e di notte.
Era tipico fino agli anni settanta fare festicciole sui terrazzi delle case,
perché qui, visto che non nevica, al posto dei tetti a spioventi
moltissimi edifici hanno vaste terrazze dove la gente beveva cava e
mangiava coca, una specie di schiacciata dolce. Adesso i tetti sono
spazi proibiti.
Concludo la mia escursione di riscoperta e ricordo. Ferrocarrils de la
Generalitat, stazione di Gràcia fino alla stazione Tibidabo. Aspetto il
tramvia blau e poi la funivia, quella moderna, che mi porta in cima
alla montagna. E da lassù abbraccio tutta la città, all’ora più bella, al
tramonto, l’estensione immensa del porto, la trama dell’Eixample.
Laggiù la Sagrada Familia, la cattedrale sognata da Gaudì, che morì
investito da un tram mentre dirigeva i lavori, e di cui dicono che sia
una formula alchemica scritta in pietra.
Penso che forse solo in questo paese era possibile, in Europa,
sopravvivere 25 anni senza documenti. Nell’era del controllo, delle
telecamere anche nei cessi, delle schede antropometriche, delle
banche di ADN, delle impronte digitalizzate. Del grande fratello
insomma.
Una strana terra dove un contadino che non ha mai visto una grande
città ti può dire che a lui il matrimonio fra omosessuali non gli sembra
una cosa fatta bene, ma che d’altra parte l’importante è che non
obblighino nessuno a sposarsi, no? Dove c’è tolleranza nei confronti
dell’altro, cazzo il 50% è gente venuta da fuori nell’ultima
generazione!
Sorrido al pensiero di come mi accolsero a braccia aperte, decine di
figli della piccola borghesia e di qualche famiglia operaia che a
vent’anni sfidavano gli ultimi colpi di coda del vecchio sadico che si
faceva chiamare e che in molti chiamavano Caudillo di Spagna. Per
volontà di Dio. Nientemeno. Quella iena subdola e mediocre, Caudillo
per volontà di esercito polizia chiesa banca latifondisti grande
industria.
E quei ragazzi e ragazze, brava gente che non ha mai fatto a botte in
vita sua, affrontavano quello schieramento di carogne senza scrupoli
con manifestazioni, assemblee, libri, volantini, riviste, scritte sui muri.
Erano ragazze come la F. con i vestiti e le treccine da hippyes che nel
borsone di paglia comprato ad Ibiza portava le molotov. O la D.,
magrolina scattante e dalla battuta pronta che inseguita dalla poliza
si aggrappava ad un lampione dicendo “di qui non mi muovo se non
viene l’avvocato”, e che con la V., studentessa anche lei e aspirante
attrice dal profilo di dea greca andava ai concerti della Nova Cançó e
faceva passare la frontiera a militanti di organizzazioni clandestine.
Ragazzi come il P., di famiglia operaia, malmenato, arrestato, pestato
ai funerali del Salvador Puig Antich. O l’I., barbuto e robusto vulcano
di trovate e slogan arguti. Come il T., così bruno che malgrado un
albero genealogico catalanissimo veniva spesso scambiato per arabo,
con le sue camice e scarponi da escursionista-geologo, militante e
fondatore di partitelli operaisti.
Di quella generazione di lottatori antifranchisti alcuni hanno fatto
carriera: in genere quelli che assicurano che se a vent’anni non sei di
sinistra non hai cuore e se a quarant’anni non sei di destra non hai
cervello.
Ma la maggior parte, quelli che avevano intelligenza coraggio
preparazione e onestà, non si sono venduti ed hanno fatto scelte di
vita semplici, pulite. Non sono imprenditori, né politici. Non sono
diventati famosi, né ricchi, né tantomeno poderosi. Sono professori,
maestri, impiegati, artigiani, qualcuno giornalista, qualcuno attore,
qualcuno operaio. Gente modesta che con modestia vive nel lavoro,
in casa, nel quartiere, con gli amici, mettendo in pratica quei pochi
valori che fanno che una società non esploda.
Ad ovest cerco con lo sguardo la montagna di Montserrat. Non ci sono
più tornato dall’anno del grande incendio. Tutti i giornali
pubblicarono allora la foto di un anziano monaco che metteva in
salvo, abbracciandola stretta, fra il fumo, la “Moreneta”, cioè l’effigie
della madonna della Mercè, la vergine nera trovata in una grotta di
questa montagna. Patrona di Barcellona.
Trovai un paesaggio desolato, lunare, fantasmagorico.
Ci sono leggende su Montserrat, forse la più sacra delle montagne
sacre dei catalani, che parlano di giganti e del diavolo. Di principesse
assassinate da eremiti impazziti, e capisci perché se ti addentri un po’
fra le gigantesche rocce tondeggianti, scivoli di pietra immensi,
nebbie improvvise, scheletri di alberi abbarbicati a invisibili crepe. Se
ascolti il silenzio del vento, dei tuoi passi, del tuo respiro.
Raccolsi una manciata di terra rossiccia davanti ad un eremo.
Volgendo lo sguardo ad est vedo il nuovo skyline (sic) di grattacieli su
cui spicca, anche se leggermente in disparte, l’edificio del cazzo,
familiarmente noto come torre Agbar o appunto cazzo, per la forma di
idem. Sede della compagnia dell’acqua, che a quanto pare ci fanno un
sacco di soldi con l’H2O.
E più in qua il mare, che quando arrivai era nascosto alla città da una
fila di tetri capannoni, magazzini del porto, tinglados si chiamavano. E
che adesso invece è nascosto da grandi moli e stazioni marittime e
centri direzionali ed alberghi di lusso.
La mia città inquinata, affollata, piena di bar, musei, teatri, quasi tutti
in catalano con grande sdegno di idioti che non capiscono che se qui
non rappresentano Lope de Vega tutti i giorni e tu vuoi vedere Lope
de Vega la cosa più logica è che tu te ne vada a Madrid o a
Salamanca o a Toledo, perché nessuno ti obbliga a venire a rompere
le scatole a gente che non si sognerebbe mai di andare a dire a un
berlinese, un romano, un londinese che cavolo devono o dovrebbero o
sarebbe meglio che parlassero nelle loro città e paesi.
Scendo a piedi. In fondo in discesa è una passeggiata. Casa mia è in
una zona che negli anni si è gremita di bar, locali, negozi e perfino
hotel solo per gay e lesbiche. E’ il “gay eixample” adesso, ma qui il
via vai di coppiette omo non ha mai scandalizzato nessuno. E non
scandalizza nessuno in città che vi si svolgano olimpiadi di
omosessuali, manifestazioni, e perfino congressi di poliziotti gay e
lesbiche.
In casa accendo la TV. Al telegiornale dicono che sui Pirenei hanno
trovato un lupo dell’Appennino. Solo. Magari scacciato dal suo branco.
Magari alla ricerca di spazi più liberi. Magari in fuga anche lui da
un’Italia sempre più berlusconiana, regno di iene ed inadatta a un
lupo per bene. Alla ricerca di lupe dagli occhi ambrati o di greggi
incustoditi. Sempre avanti malgrado la stanchezza, la solitudine, la
paura. Cibandosi di carogne o dei rifiuti di qualche discarica.
Le montagne di qui devono essergli piaciute anche se agli ululati non
ha risposto nessuno, ma forse poi non ulula nemmeno più. Un lupo
silenzioso, errante fra abetaie, castagneti, prati e faggeti. In una
quiete incantata, boschi popolati di fruscii e manairons.
Resterà qui. Senza arrendersi perché la sua non è stata una fuga per
la sopravvivenza ma per la vita. O continuerà a correre con nella
mente il ricordo di tanti spaventati, timidi, eroici compagni di strada.
Ponte alla Chiassa, 9 agosto 2008 / Barcelona, 14 de setembre 2008