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Arne Dahl

Europa Blues

Arne Dahl Europa Blues

Il quarto caso del Gruppo A

«Cinque lettere, che si dispongono una dopo l’altra come carte da gioco. Una parola priva di senso. È tragico morire con un altro mistero impenetrabile sulle labbra»

«Un intreccio mozzafiato che coinvolge l’odierna industria del sesso e la storia più oscura dell’Europa» gt

«Un altro colpo di genio nel poliziesco europeo: duro e provocatorio, ricco di spunti di riflessione, complesso e condito da un magnifico senso dell’umorismo» Tobias Gohlis, die zeit

Uno straniero viene ucciso a Skansen, il grande museo all’aperto della capitale svedese. Poco prima, otto donne scompaiono da un centro per rifugiati alla periferia di Stoccolma. Ma cosa lega questi episodi all’omicidio di un anziano studioso del cervello, ritrovato nel cimitero ebraico della città con il cranio trapassato da un sottile filo metallico? Il Gruppo A di Paul Hjelm e Kerstin Holm, sulle tracce di un drammatico traffico di prostitute, ha un’unica pista: una parola incomprensibile da decifrare, oscuro messaggio tracciato nel terreno da una delle vittime prima di morire. Alla ricerca di un nesso in un’intricata serie di omicidi, la rinata unità per i crimini internazionali trova un indizio in un diario, che conserva tra le sue pagine stralci dall’abisso dell’ultima guerra, un’ombra che ancora oscura l’Europa.L’indagine dalla Svezia ai paesi dell’Est, fino all’Italia, percorre il continente in un susseguirsi di colpi di scena che rimandano alle costanti variazioni del blues. Quasi un filo musicale che, dall’orrore di ricordi mai leniti, si snoda negli anni attraverso una sofferenza che si placherà solo con la vendetta.

In copertina: illustrazione di Fabio Visintin.

arne dahl è lo pseudonimo di Jan Arnald (1963), tra i candidati all’European Crime Fiction Award per il suo diffuso riconoscimento internazionale. Editor, scrittore, critico letterario, a Stoccolma collabora con l’Accademia di Svezia. Autore di romanzi e racconti, ha raggiunto le classifiche internazionali con la serie del Gruppo A, tradotta in venticinque lingue e premiata tra l’altro con il Palle Rosenkrantz Prisen e più volte con il Deutscher Krimipreis. Questo è il quarto episodio, dopo Misterioso, La linea del male e Falso bersaglio.

© Sara Arnald

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«Con la sua serie, Arne Dahl sta scrivendo la cronaca dell’Europa»

DIE WELT

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Arne Dahl

Europa Blues

Arne Dahl Europa Blues

Il quarto caso del Gruppo A

«Cinque lettere, che si dispongono una dopo l’altra come carte da gioco. Una parola priva di senso. È tragico morire con un altro mistero impenetrabile sulle labbra»

«Un intreccio mozzafiato che coinvolge l’odierna industria del sesso e la storia più oscura dell’Europa» gt

«Un altro colpo di genio nel poliziesco europeo: duro e provocatorio, ricco di spunti di riflessione, complesso e condito da un magnifico senso dell’umorismo» Tobias Gohlis, die zeit

Uno straniero viene ucciso a Skansen, il grande museo all’aperto della capitale svedese. Poco prima, otto donne scompaiono da un centro per rifugiati alla periferia di Stoccolma. Ma cosa lega questi episodi all’omicidio di un anziano studioso del cervello, ritrovato nel cimitero ebraico della città con il cranio trapassato da un sottile filo metallico? Il Gruppo A di Paul Hjelm e Kerstin Holm, sulle tracce di un drammatico traffico di prostitute, ha un’unica pista: una parola incomprensibile da decifrare, oscuro messaggio tracciato nel terreno da una delle vittime prima di morire. Alla ricerca di un nesso in un’intricata serie di omicidi, la rinata unità per i crimini internazionali trova un indizio in un diario, che conserva tra le sue pagine stralci dall’abisso dell’ultima guerra, un’ombra che ancora oscura l’Europa.L’indagine dalla Svezia ai paesi dell’Est, fino all’Italia, percorre il continente in un susseguirsi di colpi di scena che rimandano alle costanti variazioni del blues. Quasi un filo musicale che, dall’orrore di ricordi mai leniti, si snoda negli anni attraverso una sofferenza che si placherà solo con la vendetta.

In copertina: illustrazione di Fabio Visintin.

arne dahl è lo pseudonimo di Jan Arnald (1963), tra i candidati all’European Crime Fiction Award per il suo diffuso riconoscimento internazionale. Editor, scrittore, critico letterario, a Stoccolma collabora con l’Accademia di Svezia. Autore di romanzi e racconti, ha raggiunto le classifiche internazionali con la serie del Gruppo A, tradotta in venticinque lingue e premiata tra l’altro con il Palle Rosenkrantz Prisen e più volte con il Deutscher Krimipreis. Questo è il quarto episodio, dopo Misterioso, La linea del male e Falso bersaglio.

© Sara Arnald

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«Con la sua serie, Arne Dahl sta scrivendo la cronaca dell’Europa»

DIE WELTe

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Dello stesso autorenelle «Farfalle»

MisteriosoLa linea del maleFalso bersaglio

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Marsilio

Arne Dahl

Europa Bluestraduzione di Carmen Giorgetti Cima

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Titolo originale: Europa Blues© Arne Dahl 2001Published by agreement with Salomonsson Agency

© 2012 by Marsilio Editori® s.p.a. in VeneziaPrima edizione digitale 2012ISBN [email protected] Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autoreÈ vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata

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1.  

Era una sera d’inizio maggio. E l’aria era perfettamen-te immobile.

Non il minimo alito di vento increspava le acque del Saltsjön. La bandierina sulla torre dell’isolotto di Kastell-holmen pendeva floscia. Le facciate dentellate delle vec-chie case di Skeppsbron formavano una sorta di quinta in lontananza. Non un guizzo attraversava le bandiere lungo Stadsgården, non una cima d’albero ondeggiava in Fjällgatan, e neppure il verde di Mosebacke mostrava alcun fremito. L’unica cosa che distingueva l’acqua scura del Beckholmssundet da uno specchio era il riverbero di una macchia d’olio che galleggiava pigramente con tutti i colori dell’iride.

Per un attimo l’immagine riflessa del giovane uomo fu circondata da un arcobaleno concentrico quasi perfetto, come in un mirino telescopico, poi il cerchio si dissolse, proseguendo il suo viaggio indolente in direzione di Beckholmsbron, in forme del tutto diverse e in costante mutamento. L’uomo si scosse di dosso il momentaneo senso di disagio che l’aveva attraversato e inalò la prima striscia.

Poi si lasciò andare contro la panchina, allargò le brac-cia sullo schienale e alzò il viso verso il cielo cristallino

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che si stava rapidamente oscurando. Si concentrò: nessun effetto degno di nota. Solo la calma un po’ sfrontata che per un istante aveva ricevuto una scossa. Con un sorriso di sfida guardò la carta da gioco appoggiata accanto a lui sulla panchina. La donna di picche. Con sopra già pronta la seconda striscia.

Srotolò la banconota e leccò i resti della polvere bianca. Poi la fissò. Mille corone. Un biglietto da mille corone svedesi. Un vecchio con la barba. Nel corso dei mesi avrebbe finito per stancarsi di vederlo, quel vecchio, ne era certo. Tornò ad arrotolare la banconota e sollevò cau-tamente la donna di picche. Si sentiva ancora più audace, più forte. Già essere seduto su una panchina di un parco pubblico a sniffare coca dopo una settimana appena in una nuova città in un paese nuovo era di per sé abbastan-za coraggioso, e ancor più lo era per il rischio che un improvviso colpo di vento si portasse via tutta la neve.

Anche se quella sera non si muoveva una foglia.Ormai gli ci volevano due strisce perché facesse effet-

to. Al fatto che presto ce ne sarebbero volute tre e poi quattro e poi cinque non dedicava un solo pensiero men-tre avvicinava il vecchio alle delizie della dama nera e risucchiava in sé la chiave che apriva le porte del para-diso.

E arrivò. Non con una botta, come una volta, una maz-za da baseball dritta in faccia, ma di soppiatto, una voglia immediata e insaziabile.

L’ebbrezza cominciò a crescere, piano piano, e distor-se lentamente i contorni del campo visivo, inclinandolo. La città che andava scurendo era ancora immersa in una calma immobile, e pareva quasi una cartolina. Già si era accesa qualche luce sulle facciate delle case, i fari delle automobili disegnavano coni luminosi che si muovevano

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silenziosi in lontananza, e il sentore lievemente marcio della primavera si accentuò d’improvviso come un lezzo di fogna, il tanfo degli escrementi di un paio di gigante-sche giraffe, che tutto d’un tratto troneggiavano sopra di lui sullo sfondo distorto di grida infantili stridule ed echeggianti. E lui che detestava gli animali. Gli animali lo spaventavano, odiava gli animali fin da bambino. E adesso quelle enormi, mostruose, puzzolenti, orrende giraffe, come una visione da incubo. Un breve presagio di panico lo attraversò prima che si rendesse conto che le giraffe erano solo un paio di gru del porto e che le grida infantili provenivano dal vicino luna-park che ave-va appena riaperto per la stagione. Il puzzo di escremen-ti di giraffa si affievolì e ridiventò un mite sentore di primavera.

Passò del tempo. Molto tempo. Un tempo ignoto. Lui era da qualche altra parte. In un altro tempo. Quello dell’ebbrezza. Primordiale e sconosciuto.

Dentro di lui qualcosa cominciò a rimbombare. Si alzò in piedi e fissò la città come se stesse guardando un nemico. Stoccolma, pensò, e sollevò la mano. Tu, minia-tura brutalmente bella di una grande città, pensò, e strin-se il pugno. Così facile da conquistare.

Si voltò nel buio del crepuscolo che si infittiva. I suo-ni e gli odori erano ancora lievemente distorti. Non c’era nessuno nelle vicinanze. Per tutto il tempo non aveva scorto anima viva. Eppure avvertiva una sorta di presen-za. Qualcosa di vago, come un miraggio. Che pareva scivolare lungo i margini del campo visivo, ancora un po’ obliquo. Se lo scrollò di dosso. Non era il genere di sensazione adatto a un uomo che doveva conquistare una città.

Recuperò la dama di picche dalla panchina e la ripu-

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lì voluttuosamente con la lingua, se la mise nella tasca interna, vicino al cuore, e si diede una pacca sul davan-ti della giacca estiva rosa chiaro. Poi arrotolò la banco-nota che gli era rimasta appiccicata alla mano durante il tempo dell’ebbrezza, un tempo che sfuggiva a ogni mi-surazione. Leccò ancora una volta i resti della polvere bianca, quindi con ostentazione stracciò la banconota e lasciò cadere a terra le strisce di carta. Non si mossero di un millimetro. L’aria era immobile.

Quando si mise in movimento produsse un rumore di ferraglia. Ormai gli succedeva sempre. Per lui la ricchez-za doveva essere misurata dallo spessore della catena d’oro che portava al collo. La gente il suo successo lo doveva sentire.

Si stupì che il Vattugränd, di cui lesse a fatica il nome sillaba dopo sillaba sul cartello stradale, fosse assoluta-mente deserto. Gli svedesi non uscivano, di sera? Poi si rese conto di quanto l’aria fosse diventata fredda. E il buio pesto. E il silenzio totale. Non un solo strillo di gioia infantile dal luna-park.

Per quante ore era rimasto seduto sulla riva, sprofon-dato nella sua ebbrezza?

Qualcosa passò accanto ai suoi piedi. Per un istante pensò a dei serpenti. Animali. Un breve terrore.

Poi vide di cosa si trattava.Brandelli di una banconota da mille.Si voltò. L’acqua del Saltsjön si era increspata. Ora

l’aria lo stava trafiggendo con gelide punture. I serpen-telli di carta proseguirono verso Djurgårdsstaden.

Fu allora che avvertì di nuovo quella strana presenza. Niente. Eppure era lì. Una presenza gelida. Un vento ghiacciato attraverso l’anima, invisibile. Sempre in un punto nel quale la vista non arrivava.

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Sbucò sulla strada principale. Nessuno. Non un vei-colo. La attraversò e si infilò nel bosco, o almeno in quello che sembrava un bosco. Alberi dappertutto. E la presenza sempre più evidente. Udì il grido di una ci-vetta.

Una civetta?, pensò. Animali.E poi vide con la coda dell’occhio un’ombra che sci-

volava dietro il tronco di un albero. E un’altra ancora.Si fermò e rimase immobile. La civetta gridò nuova-

mente. Minerva, pensò. Le storie degli antichi che aveva sentito da piccolo nel quartiere popolare di Atene dov’era cresciuto.

Atena, la dea della saggezza, poi Minerva, da quando era stata rubata dai romani.

Era ancora immobile.Sta succedendo davvero? Non sono io che mi sto im-

maginando questi movimenti quasi impercettibili? E per-ché provo un tale terrore? Non mi sono forse trovato faccia a faccia con drogati completamente fuori di testa e non li ho forse resi inoffensivi con qualche rapido colpo? Di cosa posso avere paura?

Ma ecco che la paura si materializza. Ed è quasi me-glio. Quando il ramo si spezza dietro l’abete e il rumore sovrasta perfino quello del vento, lui sa che sono davve-ro lì. In un certo senso gli fa piacere. È una conferma. Non vede niente, ma scatta.

È buio pesto, e gli sembra di correre attraverso una foresta primordiale. I rami gli frustano la faccia. E la pesante catena d’oro tintinna, come un campanaccio.

Animali, pensa, e attraversa la strada in un balzo. Non un’automobile. È come se il mondo avesse cessato di esistere. Ci sono solo lui e alcune creature che lui non capisce.

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Altro bosco. Alberi dappertutto. Altro vento che lo trafigge sibilante. Un vento ghiacciato. E le ombre che scivolano ovunque lungo i margini del campo visivo. Creature primordiali, pensa. Attraversa un’altra strada e finisce addosso a una fitta recinzione di ferro. Si arram-pica sulla recinzione, che ondeggia. Ma lui continua ad arrampicarsi. Le dita scivolano. E non un rumore, tran-ne quello del vento. Anzi no, eccola di nuovo: la civetta. Un grido stridulo. Un gemito spaventoso che si unisce al vento incessante. Un urlo primordiale.

Le punte delle dita si lacerano sulle maglie taglienti della recinzione e iniziano a sanguinare. La presenza è ovunque adesso, un gioco di ombre più scure attraverso l’oscurità.

Sfila la pistola dalla fondina sotto l’ascella. Si tiene alla recinzione con una mano e con l’altra spara. Spara in tutte le direzioni. In maniera incontrollata. Colpi si-lenziosi nella foresta primordiale. Nessuna risposta, nes-suna reazione. Il movimento sfuggente intorno a lui con-tinua.

Goffamente rimette la pistola nella fondina. Ha anco-ra qualche colpo, un’ultima misura precauzionale. La vicinanza delle ombre gli dà una forza sovrumana, o almeno è quanto gli sembra quando si solleva e afferra il filo spinato in cima alla recinzione.

Forza sovrumana, pensa con un sorriso ironico, poi libera le mani dalle spine di ferro e salta.

Avanti, pensa mentre atterra dall’altra parte della re-cinzione. Vediamo se ci riuscite anche voi, adesso.

E loro ci riescono. Avverte immediatamente la loro presenza. Si alza dai cespugli dove è finito e si ritrova a fissare un paio di occhi obliqui e giallastri. Lancia un urlo. Orecchie appuntite si alzano al di sopra degli occhi,

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e al di sotto si scopre una fila di denti acuminati. Un animale, pensa, e si getta di lato. Dritto contro un’altra bestia uguale. Gli stessi occhi obliqui e giallastri che ve-dono un mondo completamente diverso da quello che vede lui. Occhi primordiali. E quando comincia a corre-re a precipizio nel bosco gli sembra di essere in un’altra era geologica.

Lupi, gli viene in mente all’improvviso. Santo iddio, sono lupi?

Ma è una città, questa?, grida a se stesso. Come dia-volo può essere una grande città europea, questa?

Mentre corre produce un tintinnio assordante. Il suo percorso è una rumorosa autostrada. Afferra la grossa catena d’oro, se la strappa dal collo e la getta fra la ve-getazione. Nella natura.

E poi arriva a un muro, e vi si aggrappa senza esitare con le dita sanguinanti che gli inviano impulsi di dolore in tutto il corpo, e come uno scalatore si arrampica su per la parete verticale fino a una recinzione che la sovra-sta, e giù la natura sembra avvolta in ombre elusive e gli alberi sembrano muoversi, un bosco che si avvicina. E lui estrae la pistola, e spara. Ma nulla cambia, tranne che a un certo punto la pistola fa un clic a vuoto. Allora la getta contro le ombre. L’intero campo visivo è inutiliz-zabile. Non sa cosa l’arma vada a colpire.

Si ritrova su una strada. Asfalto, finalmente asfalto. Si lancia su per una salita, e dappertutto ci sono animali che lo fissano con un’espressione cupa, indifferente, e il vento è pieno di odori e di versi e di grida, e lui cerca di dare un nome a quelle ombre elusive che lo persegui-tano e sembrano non volersi arrendere.

I nomi hanno il potere di tranquillizzare.Furie, pensa mentre corre. Gorgoni, arpie. No, non

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proprio. No, com’è che si chiamano? Le dee della ven-detta?

E d’improvviso capisce che si tratta proprio di dee della vendetta. Inarrestabili divinità primordiali. La ven-detta femminile. Ma com’è che si chiamavano? Nella sua pazzia ha bisogno di un nome.

Corre, ma è come se non arrivasse da nessuna parte. Corre su un nastro trasportatore, su dell’asfalto appicci-coso. E loro sono lì, si materializzano, continuano a sci-volare elusive ma diventano corpo. Corpi. Ora crede di vederle. Cade. Qualcuno lo ha fatto cadere.

Si sente sollevare. Intorno è buio pesto. Tenebre pri-mordiali. Il vento gelido continua a sibilare. Il suo corpo rotea, o forse no. Non lo sa. All’improvviso non sa più niente. All’improvviso il mondo è diventato un caos sen-za nome. Lui vuole solo trovare un nome, il nome di quelle creature del mito. Vuole sapere chi è che lo sta uccidendo.

E vede un volto. O forse sono molti, sono volti di donna. Dee della vendetta.

Tutto è capovolto. La luna gli compare in mezzo ai piedi e la notte diventa sempre più oscura.

Adesso vede un viso. Capovolto. Una donna che è tutte le donne che lui ha visto, stuprato, maltrattato, umi-liato. E la donna diventa un animale, e poi di nuovo una donna, e poi di nuovo un animale. Un simpatico muset-to, come di martora, che si spalanca in enormi fauci as-sassine. Gli si attacca alla faccia, e lui sente le punte in-sanguinate delle proprie dita danzare contro un fondo terroso e prova un dolore che va oltre qualsiasi ragione, e che fa sembrare una carezza il morso della bestia, di quella bestia che se ne sta andando con la sua guancia fra i denti. E lui non capisce nulla, assolutamente nulla.

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Tranne il fatto che sta morendo.Che sta morendo di puro dolore.E allora, con un ultimo guizzo di soddisfazione, ricor-

da il nome di quelle ombre.La terra che si appiccica alle punte insanguinate delle

dita è l’ultima cosa che percepisce.E questo lo tranquillizza.

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2.  

Il vecchio pescatore ne aveva viste tante. Ormai cre-deva di avere visto tutto. Ma, mentre al tramonto stava per chiudere la bancarella dei cocomeri che da tempo aveva sostituito le reti da pesca, dovette ammettere che c’era ancora qualcosa che poteva sorprenderlo. La vita, e in particolare il turismo, aveva ancora da offrire un bel po’ di follia. E questo era rassicurante.

Erano passati molti anni da quando aveva capito che vendendo cocomeri ai turisti avrebbe guadagnato ben più che non pescando. E con uno sforzo considerevol-mente minore.

Lui non era molto portato per la fatica. Come invece ogni vero pescatore dovrebbe essere.

Diede un’occhiata al Mar Tirreno che s’inarcava nel crepuscolo primaverile. Il suo sguardo risalì poi verso le colline boscose che circondavano il piccolo paese e oltre, verso le mura intorno alla città vecchia, che un tempo era stata un porto etrusco. Anche se questo il vecchio pescatore lo ignorava. Sapeva però, mentre inspirava l’aria salmastra profumata di pino, che Castiglione della Pescaia era casa sua e che lì stava bene.

E quel giorno era rimasto sorpreso per la prima volta dopo tanto tanto tempo.

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Con lo sguardo un po’ offuscato dagli anni aveva scor-to un ombrellone bianco e blu in mezzo alla spiaggia, dove il resto dei bagnanti cercava il sole primaverile. Sotto l’ombrellone erano seduti tre bambini di età diver-sa, bianchi come la neve, i corpi candidi come i capelli. Poi era arrivato un altro bambino uguale, e poi una donna uguale che conduceva per mano il più piccolo di quella schiera di bambini identici. Adesso sei creature bianche come la neve erano sedute sotto l’ombrellone, a spartirsi la piccola ombra circolare sulla spiaggia appena riscaldata dal sole.

Mentre osservava affascinato quella singolare visione, il vecchio pescatore dimenticò per un istante il senso degli affari. Fu proprio in quel momento che sentì dire, come in lontananza: «Cinque cocomeri, per favore.»

Lo stupore per quella bizzarra famiglia sotto l’ombrel-lone bianco e blu si mescolò allo stupore per la singola-re ordinazione, e il pescatore ebbe un ulteriore sussulto alla vista del sorriso bonario del cliente.

Apparteneva a un uomo magro, anche lui bianco come la neve, con un completo di lino sgualcito e un cappello da sole con sopra un Pikachu giallo squillante.

Nonostante la pronuncia particolare, l’ordinazione era assolutamente chiara, anche se esorbitante.

«Cinque?»«Cinque» confermò l’uomo bianco come la neve che,

dopo aver pagato, si allontanò lungo la spiaggia, ondeg-giando come un equilibrista ubriaco con cinque grossi cocomeri fra le braccia. Che sprofondarono nella sabbia, oltre il cerchio d’ombra, uno dopo l’altro, come semi enormi messi a dimora da un gigante. Poi l’uomo si fiondò sotto l’ombrellone, quasi provenisse da una zona radioattiva e avesse finalmente la possibilità di ripararsi.

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Il vecchio pescatore rifletté un po’ sui modi per divi-dere cinque cocomeri fra sette persone. Poi formulò l’inevitabile domanda: perché mai uno viene in Italia, sulla costa della Toscana, in Maremma, a Castiglione della Pescaia, se non sopporta il sole?

Arto Söderstedt non aveva una risposta. Il motivo “bellezza” non reggeva, rispetto a una scelta così drasti-ca come un’assenza da scuola di cinque bambini in un cruciale mese primaverile. E neanche il motivo “tranquil-lità”, rispetto a un congedo di un paio di mesi dai ri-spettivi pubblici impieghi di due adulti, in particolare se le dichiarazioni dei redditi avevano appena invaso il grat-tacielo degli uffici della finanza nel quale abitualmente si svolgeva il proprio incarico. E questo era il caso di Anja, la moglie di Söderstedt.

Era quindi naturale che la coscienza fosse sempre lì a punzecchiare sia la bellezza sia la tranquillità. Ma Arto Söderstedt non provava il benché minimo rimorso per avere temporaneamente abbandonato il corpo di polizia.

Il Gruppo A, vale a dire l’unità speciale della polizia di stato per i crimini internazionali, aveva lavorato a pie-no ritmo nell’anno precedente, ma dopo che il caso del Massacro di Sickla aveva raggiunto la sua singolare con-clusione non era successo nulla di altrettanto clamoroso. Söderstedt aveva assistito a qualcosa che avrebbe potuto trasformarsi in una catastrofe, ma ormai era trascorso quasi un anno e il tempo, si sa, ha la tendenza a rimar-ginare tutte le ferite. Così, quando tutti quei soldi erano arrivati come la manna dal cielo, lui non aveva esitato.

Inoltre si sentiva esaurito, pur senza capire cosa signi-ficasse. Ma tutti erano esauriti, e probabilmente anche lui lo era sempre stato pur senza averlo saputo.

In ogni caso adesso era il suo turno. Sotto il segno

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