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Pierantonio Gandoglia LAS Savona 2019 Etica del design Note da “Uomo al centro del progetto. Design per un nuovo umanesimo” La società consumistica condiziona spontaneamente e subdolamente tutte le scelte che ciascuno di noi compie. Il sentimento ecologico, pur essendo molto diffuso, è quasi impotente di fronte a comportamenti fortemente radicati del vivere quotidiano, che nei fatti lo negano totalmente. Si comprano o si abbandonano con assoluta leggerezza prodotti o beni, e spesso si cerca conferma della propria esistenza attraverso l’acquisto di un oggetto. Anche a livello progettuale non si ha la coscienza di contribuire con il proprio lavoro a perseguire questo cammino, e si ritiene che la causa dei problemi ecologici sia una cattiva educazione ambientale e che la situazione attuale dipenda dal comportamento altrui. La nostra stessa vita viene misurata sul possesso o la scelta di determinati oggetti. Questa visione del mondo è molto limitata e per poter essere modificata dobbiamo ricostruire un diverso sistema culturale ed etico con al centro dell’attenzione e delle riflessioni l’uomo. 1

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Pierantonio Gandoglia LAS Savona

2019

Etica del design Note da “Uomo al centro del progetto. Design per un nuovo umanesimo”

La società consumistica condiziona spontaneamente e subdolamente tutte le scelte che ciascuno di noi compie. Il sentimento ecologico, pur essendo molto diffuso, è quasi impotente di fronte a comportamenti fortemente radicati del vivere quotidiano, che nei fatti lo negano totalmente. Si comprano o si abbandonano con assoluta leggerezza prodotti o beni, e spesso si cerca conferma della propria esistenza attraverso l’acquisto di un oggetto. Anche a livello progettuale non si ha la coscienza di contribuire con il proprio lavoro a perseguire questo cammino, e si ritiene che la causa dei problemi ecologici sia una cattiva educazione ambientale e che la situazione attuale dipenda dal comportamento altrui. La nostra stessa vita viene misurata sul possesso o la scelta di determinati oggetti. Questa visione del mondo è molto limitata e per poter essere modificata dobbiamo ricostruire un diverso sistema culturale ed etico con al centro dell’attenzione e delle riflessioni l’uomo.

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IL PRODOTTOQuando si ha la necessità di progettare un oggetto, attualmente si agisce pensando al prodotto da realizzare; le ricerche che vengono svolte in fase preprogettuale, quindi, s’indirizzano verso l’individuazione di azioni atte a risolvere esclusivamente le aspettative che il consumatore avrà nei confronti del prodotto. Un buon team di lavoro deve essere composto da persone con differenti conoscenze e che agiscono secondo competenze diversificate per definire con maggior successo obiettivi comuni. In un team si pensa non come singoli ma come un insieme di capacità, e si ha in tal modo la possibilità di capire meglio le relazioni sociali e di rispettare, con la progettazione, le necessità del consumatore. Pensando al prodotto quale «focus» principale di un progetto, si concretizzano immediatamente una serie di valori a esso correlati.In cima alla lista troviamo le materie prime, che sono il primo concreto elemento che un processo industriale deve necessariamente considerare per poter avviare la catena produttiva. L’acquisto di materie prime consente ai produttori di trasformarle con il processo produttivo in un oggetto. Essi hanno la possibilità di mostrare al mondo la loro abilità nel plasmare un materiale informe in qualcosa che esprime significati. Tutto ciò significa flusso di denaro e ritorno di investimenti: si investe denaro in un prodotto per ottenere profitti. Gli acquirenti sono fortemente attratti da un prodotto che fornisca loro l’occasione di sentirsi parte di un clan, di un gruppo sociale. Uno status symbol che certifica una posizione ben precisa all’interno di una società, che trasmette e significa sicurezza. Le azioni successive, che garantiscono che un prodotto arrivi dal produttore al consumatore, sono gestite dalle politiche di marketing, dalla comunicazione espressa nelle campagne pubblicitarie e dalla forza seducente insita nell’imballaggio. Il marketing tradizionale (non strategico) si preoccupa essenzialmente di ciò che le persone vorrebbero, spinge a fornire al consumatore risposte immediate che, purtroppo, non sono necessariamente le migliori. Chi consuma desidera soprattutto ciò che vede in televisione, o sui cartelloni pubblicitari non ciò che mente e cuore realmente suggeriscono di richiedere al mondo della produzione industriale.

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“Cosa succede se consideriamo

quale focus principale del

progetto il prodotto o

l’uomo”

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L’imballaggio non viene solo realizzato come mera protezione di un prodotto, ma viene progettato piuttosto come se fosse un «medium»: una pelle utile per veicolare visivamente i messaggi del marketing e della pubblicità. Il consumatore, quindi, il più delle volte acquista in realtà «l’idea» che si è fatto di quel prodotto specifico: la conseguenza è che il suo possesso non è nient’altro che la soddisfazione di un desiderio indotto, non di una reale necessità. Possedere di più per affermare uno status è la ragione principale che spinge all’acquisto, a prescindere dalla funzione ricercata o fornita. Il termine «produzione» comprende la vera e propria fase creativa di design, che trasforma un «concept» in un’idea e un’idea in un progetto di massima. Sta poi ai tecnici ridimensionare questa visione in termini di progetto esecutivo. La logistica servirà invece a gestire la realizzazione del prodotto all’interno dell’azienda e la sua veicolazione sui mercati di vendita. Il prodotto rappresenta valori economici e simbolici che vengono concretizzati produttivamente e venduti all’utente. Quest’ultimo percepisce gli oggetti in primo luogo come «cose» rappresentanti questi valori; solo in un secondo momento, cioè in fase d’uso, egli comincia a rendersi conto della reale funzione di un prodotto. Ogni oggetto viene visto sempre nella sua totalità, come se fosse privo di parti costituenti. Un occhiale, un telefono, un’automobile, sono prodotti che viviamo per quello che rappresentano e forniscono, senza che ci si renda conto, se non quando si rompono, che essi sono un mondo estremamente più complesso. Ed è solo quando non funzionano più e bisogna, il più delle volte, dismetterli, che si ha la reale percezione del loro ciclo di vita. La legislazione europea è tutta concentrata sul «fine vita», sul riciclo: è una modalità per tentare di risolvere “a valle” un problema che potrebbe invece essere già essere affrontato “a monte”. Anche solo una migliore manutenzione dei prodotti potrebbe già essere un buon punto di partenza. In ogni caso, proprio per il fatto che non esiste la percezione dei componenti interni, non ci preoccupiamo di ciò che realmente fa funzionare il prodotto. Non essendo direttamente «coinvolti» nel suo funzionamento, la preoccupazione principale non è tanto che fornisca una prestazione, quanto piuttosto che continui a rappresentare ciò che simboleggia. È da vent’anni che si parla di disastri ambientali sempre più frequenti, di riscaldamento del pianeta, di desertificazione, di disboscamento, di depauperamento di risorse non rinnovabili, di inquinamento, di buco nell’ozono. Ma se in passato se ne parlava sempre «al futuro», oggi se ne parla «al presente», perché è «ora» che si sta arrivando al punto di non ritorno. Oggi ne abbiamo la reale percezione. Se oggi abbiamo la percezione che qualcosa debba cambiare nel processo produttivo, parallelamente non abbiamo quasi idea di come agire per far sì che questo cambiamento possa avvenire. L’UOMOL’uomo al centro del progetto, l’uomo che è in relazione sistemica con il mondo circostante. Se agiremo così, noteremo subito che il valore più importante da attribuire all’intero processo produttivo sarà la vita. La vita biologica, intesa come esistenza in quanto tale. La preservazione dell’esistenza di ciascuno, che può essere mantenuta solo ponendosi in relazione armonica con «l’intorno».

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In una società come la nostra, governata dal prodotto, dove il principio di prevaricazione sta raggiungendo livelli estremi e, quel che è peggio, tali comportamenti, per quanto deprecati, vengono poi al contempo esaltati proprio da quei media (non solo tv o giornali) che paradossalmente li condannano. La carenza di valori comportamentali ci fa capire quanto sia importante una vita etica, più consona a una società che vuole considerarsi matura; ritrovare certe valenze relazionali consentirebbe un sicuro miglioramento dei rapporti fra gli individui.

Dall’intreccio equilibrato delle tre vite (biologica, sociale ed etica) ha origine la vita culturale. La questione è quella di prendere atto delle diversità in cui si svolge la vita di milioni di persone (ciascuna calata in contesti sociali, etici e culturali tanto difformi quanto unici), così da poter agire produttivamente in modo mirato e non confondendo le varie utenze come se appartenessero a un unicum indistinto, i prodotti dovrebbero semplicemente essere i mezzi essenziali attraverso i quali l’essere umano esprime le azioni che ne consentono l’esistenza. La specificità culturale dei contesti è ciò che deve stare alla base della percezione e delle funzionalità dei prodotti. La tendenza, invece, purtroppo è quella di creare prodotti unici con la pretesa che abbiano significati e utilità identici a tutte le latitudini, quando è evidente che agendo in maniera opposta si avrebbe l’opportunità di creare un mondo strumentale più adatto alle differenti necessità e, proprio per questo, un parco oggetti che sicuramente troverebbe la strada della dismissione solo al momento opportuno e non solamente quando è passato di moda. Posizionare l’economia in ambito periferico non vuole dire negarla ma, anzi, valorizzarla. Il fatto di poter produrre per mercati differenziati consente la creazione di sistemi economici non globalizzati e indistinti, ma specifici e contestualizzati. Creare nuovi mercati vuol dire produrre prodotti corretti, funzionalmente e percettivamente dalla società per la quale sono stati progettati; e ciò significa creazione di nuovi posti di lavoro e benessere più diffuso. Il ritorno di investimento è perciò duplicato, sia economicamente che socialmente. Ecco perché il prodotto è in questo scenario soltanto l’ultimo dei valori da mettere in gioco: senza valutazioni opportune di quanto esso sia realmente necessario all’esistenza, senza rendersi conto in anticipo di quanto altri valori siano più importanti per la vita umana, la produzione di un oggetto perde quasi di significato. Scegliendo come «focus» principale i valori connessi o al prodotto o all’uomo, cambiano di conseguenza le strategie, le priorità all’interno del ciclo produttivo. Come designer, ci si dovrà allora chiedere se vorremo continuare a «progettare esclusivamente il prodotto» o se preferiremo «progettare per l’uomo». Qualunque sarà la scelta che compiremo o la posizione che assumeremo di comune accordo con l’industria, dovremo però aver ben chiaro sin d’ora quali potranno essere le conseguenze, positive o negative, del nostro agire. La pratica del design industriale richiede un profondo cambiamento: si tratterà di affrontare le responsabilità che, come progettisti, abbiamo nei confronti di chi ci affida la risoluzione di problemi reali, la realizzazione di desideri non ancora appagati, il miglioramento qualitativo della propria vita. La sostenibilità non è una proprietà individuale, ma un valore condiviso che coinvolge l’intera comunità.

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Abbiamo di fronte un futuro in cui potremo progettare e realizzare delle comunità ecologicamente sostenibili organizzate in modo tale che le tecnologie adottate e le scelte politiche non siano in contrasto con il sistema del mondo naturale: si potranno immaginare delle tecnologie che imparino dalla natura e non vogliano, al contrario, controllarla.

L’integrazione delle conoscenze nella formazione del designer contemporaneo Design è una parola attraverso la quale comunemente si intendono due differenti significati: nel sentire comune design è sinonimo di avanguardia formale e di stile moderno. Design è però anche sinonimo di progetto, una delle parole che meglio caratterizzano e identificano il fare industriale come cultura e come capacità di modificare la realtà a partire da un agire programmato di risorse disponibili, in tempi pianificati e con un risultato definito a priori, mediando tra gli interessi del sistema di produzione e di quello di consumo. L’azione progettuale è sempre caratterizzata da un’osservazione della realtà, dalla costruzione di un modello semplificato di realtà, dalla manipolazione del modello per poi trasferire nella realtà il risultato concreto.

- Dove la creatività dell’arte incontra la fattibilità della tecnologia si manifesta la forma, che è uno degli effetti più espliciti del design.

- Dove la prestazione incontra l’utilità nasce la funzione. - Dove la ricerca del profitto dell’economia incontra gli interessi della società prende

corpo il valore. - Dove la cultura incontra l’intuizione dell’arte si manifesta il senso.

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“Il design come mediatore tra

saperi”

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Quando osserviamo un brillante oggetto prodotto dalla cultura del design (o forse, dovremmo dire, da un maestro del design) riconosciamo la capacità di fare sintesi tra: Forma Funzione Senso Valore che rappresentano il risultato dell’azione di sintesi del progetto (output). Il ruolo del design dovrebbe essere quello di gestire l’equilibrio tra i quattro fattori risultanti che, viceversa, si troverebbero a essere attratti da una forza che potrebbe essere:• tecnica;• economica;• politica; • estetica.

Esiste anche il rischio che la cultura del design diventi autoreferziale. Ci troveremmo, e spesso ci troviamo, di fronte a un risultato nel quale senso-forma-funzione-valore sono ridimensionati per lasciare spazio all’attore del gesto di sintesi che, in quanto «creatore», diventa tutt’uno con il risultato trasformando l’azione progettuale nella celebrazione del gesto del creatore.

Abbiamo già osservato in precedenza che progettare è eseguire una sequenza di comportamenti complessi e sinergici: osservare la realtà, fare modelli sintetici e manipolabili della realtà, trasformare poi i modelli valutati in realtà. L’osservazione è un’azione «intenzionale», richiede cioè che l’osservatore abbia un’intenzione precisa che anima la sua azione, viceversa l’azione sarebbe il mero guardare. Questa intenzione sottende un’ipotesi, un obiettivo, una direzione verso cui guardare. Osservare richiede dunque che l’osservatore si trovi in uno stato di conoscenza rispetto alla realtà a cui si rivolge. Un primo elemento qualitativo attraverso il quale valutiamo il progetto è determinato dal livello di conoscenza che il progettista possiede di quella realtà prima di manipolarne le condizioni e provocare degli effetti. Conoscere è progettare bene. Fare modelli della realtà è necessario, perché la realtà è talmente complessa che non è possibile né produttivo agire progettualmente in scala 1:1 sui problemi. Manipolare la complessità richiede una riduzione di scala consapevole di quella realtà. Ogni riduzione di scala del problema porta come prima conseguenza la perdita di qualcosa. È indispensabile ridurre la complessità conservando gli elementi che identificano e caratterizzano il problema, trascurando l’irrilevante. Per trascurare l’irrilevante è necessario: - conoscere molto bene il fenomeno su cui si progetta allo scopo di individuare

l’essenza portante del problema che si intende risolvere; - utilizzare un linguaggio di sintesi del fenomeno adeguato.

Innovare: in che modo? Stiamo vivendo in un’epoca in cui si è raggiunto un forte grado di sofisticazione di prodotti e sistemi produttivi, ma al contempo abbiamo una trasformazione negativa dell’ambiente in cui viviamo, una diffusa crisi dell’attuale sistema economico, un depauperamento costante dei rapporti sociali nell’obiettivo esasperante della crescita economica. Innovare. Ma che cosa significa, in realtà, questa parola? Il dizionario ci propone: «mutare un sistema introducendo qualcosa di nuovo: idee, modi di vedere». Questa

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definizione non esorta a cambiare tecnologia, come la tradizione industriale ci ha invece abituato a pensare; vuol dire, piuttosto, inserire in un sistema una visione nuova, un modo nuovo di affrontare la realtà. L’innovazione non risiede nel continuo aggiornamento tecnologico o del suo perfezionamento. I progettisti, l’industria e anche gli utenti del modello occidentale sono concentrati sulla realizzazione di prodotti; questi ultimi soddisfano i sogni degli acquirenti, muovono l’economia e incentivano la società nel continuo crescere di questo obiettivo. Il tutto non sarebbe dannoso se contemporaneamente non avessimo gli scarti delle produzioni dei prodotti, oltre che i prodotti stessi a fine vita. Il mondo produttivo investe risorse per ottenere un risultato economico sul breve-medio periodo: per il mondo industriale attuale non è infatti concepibile investire su tempi eccessivamente dilatati. Per proporre un’innovazione in linea con l’evoluzione sociale che ci troviamo a vivere quotidianamente devono allora esistere altre realtà (Università, Centri di Ricerca) che trainino, studino, vedano le problematiche sotto un punto di vista più lungimirante. Tale visione a lunga scadenza potrà essere poi col tempo condivisa, metabolizzata e infine messa in atto dall’industria. È quindi necessario cambiare l’approccio ai problemi e partire dal presupposto di far parlare, dialogare, mettere a confronto più ambiti: progettuale, industriale, politico, ambientale, sociale, economico, ecc. Nessuno di questi è autonomo, formano un sistema, cioè un insieme per definizione «costituito da più elementi interdipendenti, uniti tra loro in modo organico».

Il Design come mediatore Il sistema del design può essere osservato come potente processo di stabilizzazione e valorizzazione sociale di un territorio. Proprio grazie al tradizionale ruolo intermedio che il designer è chiamato a svolgere tra sistema della produzione e sistema di consumo. Se tecnologia e design non restano connessi ai luoghi della speculazione, dell’arte, della scienza, il sistema si orienta verso una modello di innovazione incrementale incentrato su meccanismi simili a quelli della moda, che si «autoalimenta» producendo fenomeni di costume sulla base di fenomeni di costume. La cultura di progetto progressivamente si abitua ad autodeterminarsi anche in modo scollegato dalla conoscenza, dall’arte e dalla scienza e produce valore indipendentemente. Il valore non è più nella produzione dei beni materiali, ma nella conoscenza . Quindi, le iniziative vincenti sono quelle che riescono a creare emozioni, valore simbolico, ricordi, qualità della vita. Già nel 1976 Tomás Maldonado metteva in guardia il progettista dal considerare soltanto la dimensione estetica dei prodotti.

Cos’è un’attività di design? Il design deve essere inteso come valore culturale aggiunto al prodotto e risorsa strategica per lo sviluppo economico e culturale del territorio. Coinvolge, pertanto, il sistema progetto, il sistema impresa e il sistema utenza. Tra i parametri che oggi definiscono il grado di innovazione (qualità e competitività) dell’attività di design, troviamo:

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a) l’innovazione sociale, intesa come capacità di creare consapevolezza nelle utenze e di promuovere atteggiamenti sostenibili ed eco-compatibili; attenzione al «fattore uomo»; attenzione a un prodotto non discriminante, bensì per tutti; b) l’innovazione tecnologica, quando riferita a un uso appropriato, consapevole e sostenibile delle tecnologie tradizionali e avanzate; c) l’innovazione produttiva, quando orientata a nuove strategie di produzione (filiera), promozione e distribuzione, competitive sul mercato internazionale ma orientate alla «glocalizzazione» (tra globale e locale), ossia difesa delle identità territoriali specifiche; d) l’innovazione espressiva (che non è solo stile), indice di una reale maturità espressiva che appartiene ai prodotti originali (non «bizzarri»), capaci di veicolare sul prodotto valore culturale aggiunto.

Cos’è un prodotto di design? È un’attività in cui il design rappresenta un valore culturale aggiunto che si accompagna al cambiamento delle prassi progettuali e produttive. Il design come valore culturale aggiunto è misurabile attraverso la qualità del progetto e del processo. Industriale, artigianale? Oggi, le attività e le forme di design da considerarsi non sono, tra l’altro, unicamente quelle della produzione seriale, ma anche quelle di ambiti della produzione artigianale che vantano casi di «eccellenza» e di «strutturazione del processo» in cui il design costituisce una delle risorse strategiche per lo sviluppo economico e culturale del territorio. Cos’è il progetto di design? Il progetto è proiettare in avanti la propria visione di futuro. Lo studio delle possibilità di attuazione di un’idea, mossa da date motivazioni, per il raggiungimento di determinati risultati.Ogni progetto è ricerca. Achille Castiglioni: “mettetevi in testa che il lavoro di ricerca è tutto, e il singolo oggetto prodotto ne è una tappa, un momentaneo stop, più che una conclusione”.La curiosità intesa come condizione di ricerca continua è uno stato mentale che si sviluppa attraverso la conoscenza approfondita dei fenomeni e che porta ad attingere a ogni fonte, ad ascoltare ogni voce, a raccogliere ogni spunto. L’industria la società, la scuola hanno bisogno di menti prima critiche, quindi assertive, poi propositive, mai ossequiose né accondiscendenti; è necessario predisporsi al dubbio, alla discussione dello stato di fatto, all’esplorazione del possibile.

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Designer Consapevole Il designer CONSAPEVOLE ricerca per il proprio prodotto un valore culturale aggiunto associato all’ampiezza e alla precisione delle prestazioni offerte: ne deriva un prodotto che appare progettato con rigore, il prodotto si afferma come la concretizzazione di un percorso progettuale che considera come parametri di valutazione le esigenze, i requisiti, le prestazioni richieste, la misura delle prestazioni offerte e delle prestazioni fornite. Un prodotto, quindi, che: - esplica la propria funzione senza lacune;- è sostenibile;- non è discriminante; - possiede una propria identità espressiva. Il nodo cruciale dell’insegnamento nelle scuole è quello di mettere in relazione e calibrare opportunamente le connessioni tra funzione, suggestione, innovazione e adattamento al contesto, requisiti tutti indispensabili per una buona progettazione e raggiungibili innanzitutto attraverso una metodologia strutturata e condivisa. Il designer consapevole dà una risposta coerente all’interno di un sistema che non è sottoposto a verifiche profonde, a revisioni fondamentali del “brief” iniziale. Il grado di innovazione della proposta dovrà comunque essere compatibile con il posizionamento dell’azienda sul mercato, con le tecnologie di cui essa dispone e realizzabile con tempi e costi definiti.

Designer di Scenario Quando la ricerca diventa collettiva, condivisa tra attori diversi, e il designer lavora in collaborazione con competenze altre (aziendali, territoriali, specialistiche...). Momento centrale di questa ricerca è la costruzione di uno scenario in cui si accumulano come massa critica valori sociali, culturali, etici, biologici, tecnologici. Lo scenario è una massa critica di dati e riferimenti intorno all’argomento da affrontare: un’analisi del panorama del consumo condotta al fine di definire le caratteristiche delle tipologie di utenza finale a cui si rivolge il progetto. La costruzione dello scenario conduce talora a intuizioni che deviano dall’ambito definito producendo un feed-back sul “brief” iniziale, che ne viene influenzato e che si

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“Designer Consapevole”

“Designer di Scenario”

“Designer Navigante”

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arricchisce di nuove prospettive, talora totalmente diverse dalla direzione iniziale (new-concept). Obiettivo del designer di scenario è la definizione di nuove tipologie di prodotti o di famiglie di prodotti non per l’innovazione di prodotto in se stessa, ma per un’innovazione con ricadute più ampie: valorizzare/rilanciare un sistema, un’azienda, un territorio, un ambito, un processo, interpretando la realtà e le sue potenzialità e creando nuove connessioni. Può essere anche considerato autonomo rispetto al decorso successivo del progetto e funzionale all’orientamento delle scelte strategiche future, in coerenza o rottura con il presente di quel sistema. Designer Navigante Forte della sua curiosità senza limiti, di collaboratori aperti e riferimenti culturali e materiali ampi, complessi e multidisciplinari guida l’esplorazione a tutto campo su ambiti aperti, oceani da indagare alla ricerca di “nuovi mondi” che poi il tempo e l’applicazione possono confermare o confutare. L’esploratore navigante è una figura propositiva, che cerca nuovi ambiti non battuti per il progetto di design; è un soggetto innovatore. Per il designer navigatore: - non esiste una committenza; - esiste un meta-ambito (ambito allargato) sistematizzato delle parole-chiave, ad esempio il tempo, l’aria, l’acqua, la luce... Il primo momento progettuale avviene tramite brain-storming e focus-group. Il punto di forza di questo approccio è la capacità di mettere in luce aree del progetto non ancora esplorate… un ruolo di acceleratore di cambiamenti. Per risolvere i problemi è necessario comprendere appieno la natura dei fenomeni, senza isolarli dal contesto, e sviluppare soluzioni non precostituite né confinate nella consuetudine.

L’utilizzo del mezzo virtuale è oggi sempre più diffuso in tutti i campi, anche in quelli più restii al cambiamento. La sostituzione tout court del mondo reale con quello virtuale ha però provocato e continua a provocare gravi danni. L’accelerazione impressa ai processi e la relativa facilità con cui si riescono a ottenere dei risultati, che non sono però accompagnati da un adeguato approfondimento, contribuiscono a stimolare un approccio ai problemi sempre più superficiale e subalterno agli strumenti utilizzati. Si ha una conoscenza sempre più approfondita della tecnologia utilizzata, ma si perde di vista il perché venga usata e per quale scopo: il mezzo si è trasformato nel fine.

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“Considerazioni sulla

virtualizzazione delle realtà”

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Attualmente la comunicazione visiva, parlata e scritta, espressa attraverso la virtualità, è di qualità così alta e raffinata che l’occhio e la mente vengono distratti continuamente a scapito dei contenuti e della finalità della comunicazione. La rappresentazione visiva, tramite la virtualità, deve infatti essere sfruttata (e non subita) come mezzo dalle grandi potenzialità espressive e come strumento utile a esaltare i valori sostanziali di ogni progetto (sia esso di design, architettura, editoriale). La maggiore difficoltà che oggi ci troviamo ad affrontare è proprio quella di trovare un linguaggio che si adatti al nuovo mezzo virtuale; spesso l’errore che si compie è quello di considerare il mondo virtuale come mera trasposizione e mutazione da quello reale, ma questo nuovo mondo effimero ha la necessità di essere ripensato ex novo e non può più essere considerato esclusivamente come una semplice estensione di ciò che appartiene al mondo della comunicazione che da sempre conosciamo. Scrittura, disegno e comunicazione sono ambiti che si sono sviluppati e affinati negli anni, tramite l’interazione fra persone, supporti e tecniche di esecuzione: mezzi e supporti propri di una realtà concreta (matite, carta, giornali, libri, parole) non possono essere semplicemente travasati da un mondo a un altro. La rappresentazione di un progetto è un’azione consapevole dettata dalla necessità di descrivere l’oggetto progettato secondo la sequenza di sviluppo del concept. Non è ancora disponibile una strutturazione di mezzi virtuali dedicati al progetto che riesca a rapportarsi dinamicamente ed emotivamente con l’utente come lo sono i mezzi di rappresentazione e di lavoro tradizionali. Il più delle volte si è abbagliati dalle possibilità offerte. Molti progettisti si lasciano infatti affascinare dalla resa grafica finale dei loro lavori trascurando il processo analitico progettuale; è come quando i docenti pensano di poter demandare a un filmato il momento più importante del loro operato, cioè il rapporto e la comunicazione diretta con gli studenti. Sembra necessario riprogettare una forma di linguaggio, di comunicazione, di simbologie, di grafie che siano propri del mondo virtuale e che non confondano le idee all’utente ma gli siano semmai d’aiuto. La sfida che ci troviamo ad affrontare è quella di inventare i corrispettivi della matita e della carta per un mondo che non ne fa più uso.

Il percorso progettuale è un percorso mentale complesso, per certi versi labirintico, con orizzonti da indagare molto aperti e vasti, costituito da continui approfondimenti e frequenti feed-back che man mano consentono al pensiero di trasformarsi in prodotto reale. In questo modo la sintesi, che è la scelta individuata, diventa voluta, meditata e inequivocabilmente quella per quel determinato percorso di analisi. La possibilità di poter ripercorrere con lo sguardo, e di conseguenza con la mente, le evoluzioni del cammino compiuto è un ulteriore elemento di controllo delle sintesi fatte e aiuta a definire con più chiarezza le scelte. L’essere passati dalla «matita» allo strumento informatico ha certo aperto infinite possibilità di connessione con altri strumenti (foto, rendering, automazione di passaggi, ecc.), consentendo velocità di azione e di controllo e una facilitazione di tutte le operazioni. Tuttavia, si è persa la possibilità di poter abbracciare tutto il percorso quasi con un colpo d’occhio e si è caduti inevitabilmente nella ricerca del particolare che è completamente isolato ed evidenziato dallo schermo. Per di più le facilitazioni offerte dallo strumento condizionano fortemente il progettista: si perde la visione d’insieme, essenziale al percorso progettuale, il processo mentale diventa superficiale nelle scelte, che dipendono quasi esclusivamente dai particolari, spesso presi dalla biblioteca di riferimento del software, sposta l’attenzione dal processo di approfondimento delle

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scelte progettuali alla semplice e banale resa grafica e fotografica, che spesso è talmente perfetta da risultare percettivamente finta in quanto avulsa dal contesto, e così dettagliata da essere troppo distante dalla realtà. Si passa dalla profondità di scelte alla banalità superficiale di forme. Le tecnologie informatiche sono banali nei confronti dei processi mentali che mettiamo in campo in fase progettuale, mentre sono molto complesse nella generazione di soluzioni coerenti rispetto al progetto. Solo quando avremo una totale libertà operativa di creazione, rielaborazione e scambio dei dati, potremo dire che la tecnologia non sarà più percepita come un limite ma sarà totalmente trasparente. Nell’ambito progettuale, la soluzione non sarà quindi la simulazione e riproduzione fedele delle tecniche tradizionali, ma la definizione di un nuovo modo, ancora tutto da scoprire, di lavorare con le nostre possibilità fisiche (ossia mentali e anatomiche), attraverso l’uso di nuovi strumenti che non necessitino più di lunghe fasi di apprendimento ed esercizio per essere utilizzati correttamente. Senza queste libertà, si genereranno solo ulteriori vincoli. Se prendiamo una matita e la diamo in mano a un bambino, dopo pochi istanti questo sarà in grado di utilizzarla nel modo corretto. Questo è quello che dovrà avvenire nella definizione dei nuovi strumenti informatici per la progettazione: essi dovranno essere semplici, intuitivi, diretti e concepiti a misura d’uomo.

Lo spazio pubblico dà forma alla struttura spaziale che collega le aree private, favorisce o codifica le loro relazioni, il commercio, l’espressione della vita comunitaria e di alcune forme di libertà e di conflitti. Lo spazio pubblico come oggetto di studio e di riflessione teorica è però un concetto recente. Prende avvio alla fine degli anni cinquanta in funzione di un duplice problema: la ricostruzione della città dopo le distruzioni belliche e l’esigenza di recupero di un’identità non riconoscibile nelle città in forte sviluppo demografico. A Gordon Cullen si devono le proposte di controllo della pubblicità intesa come forma di comunicazione, la sottrazione di spazi alla mobilità trasformati e rivalutati in spazi di relazione e la definizione di una immagine di riferimento del luogo specifico, in ordine alla quale indirizzare gli interventi sul paesaggio. Il merito di Cullen, pertanto, è quello di avere individuato per primo la necessità di interventi programmati sullo spazio pubblico in sintonia con l’immagine fisica e culturale del contesto (unica per ogni città e per ogni luogo di essa). Kevin Lynch con il termine immagine della città definisce ciò che dell’osservazione e della fruizione fisica e percettiva della città resta memorizzato. La proposta di Lynch, e da qui la sua attualità, si incentra sullo spazio pubblico come rete dei flussi, di genti, di funzioni e di relazioni. L’immagine di una realtà può variare notevolmente da un osservatore all’altro.

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“Considerazioni sullo spazio

pubblico”

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Il non luogo, concetto introdotto da Marc Augé, è uno spazio pubblico in cui si riproducono, pur in contesti diversi, codici di comportamento e ambienti standardizzati. Nel “non luogo” (alberghi, centri commerciali, stazioni di servizio, ecc.), attraverso la ripetizione di funzioni e immagini, il singolo utente è guidato, insieme agli altri, in una esperienza che proprio per il ripetersi del modello può essere percepita come protettiva e conosciuta. Pertanto, se ai LUOGHI vengono riconosciuti tipicità, spontaneità, flessibilità, ai NON LUOGHI si associano anonimato, regola e una certa rigidità. Per Aldo Cibic non sono l’architettura e l’arredo che determino l’identità di uno spazio ma le azioni delle persone. Dobbiamo attraverso la riorganizzazione di potenzialità ed energie, attivare quelle occasioni di incontro, di scambio e di condivisione che caratterizzano i momenti di vita collettiva. Il messaggio di Cibic è chiaro: ripensando alle funzioni urbane in modo creativo si può deviare dai processi e dalle immagini consolidati, percorrendo direzioni più stimolanti in cui l’uomo e non il prodotto ambiente è al centro della socialità e delle nuove direzioni della sostenibilità. Il maquillage urbano proposto dal design industriale, attraverso la moltiplicazione seriale di un’oggettistica standardizzata, come si trattasse di una merce qualsiasi, non ha relazioni né con il contesto né interpreta le reali esigenze (e anche i sogni) dei suoi abitanti. I segni nella città si riproducono all’infinito secondo una logica funzionalista che esclude dal processo di decisione i fruitori, primi fra tutti gli abitanti. E poi sono segni banali e inadeguati al dialogo con il contesto. L’arredo dovrà essere portatore di valori e prestazioni di qualità nei confronti dei due principali beneficiari: il paesaggio cioè la scena urbana (ambiente fisico) nelle sue diverse accezioni storiche, funzionali ed economiche e l’utente finale (uomo) nelle sue diverse accezioni, pertanto con soluzioni non discriminanti e che ne favoriscano la socializzazione.

L’arte pubblica deve essere strumento di mediazione tra la cultura della rappresentazione e la cultura del luogo. Non ha solo più funzione commemorativa e/o rappresentativa, ma diventa generatrice di nuova sensibilità: nei confronti del paesaggio, attraverso opere che mettono in valore l’espressività fisica del luogo; orientate alla socializzazione, alla dimensione culturale e politica del contesto. La presenza dell’arte potrebbe diventare parte integrante della scena urbana della città per la sua capacità di dialogare quotidianamente con gli abitanti. L’arte urbana contemporanea è strumento di riqualificazione: nei confronti del degrado sociale di quartieri urbani, dell’anonimato delle periferie, dell’impatto di devastanti strutture e infrastrutture.

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“Considerazioni sull’arte

pubblica contemporanea”

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L’arte urbana contemporanea quale espressione di cultura, deve assumere valore didattico a sostegno di principi che la città intende comunicare (ad esempio sicurezza, sostenibilità, aggregazione sociale, multietnicità). Lo strumento del programma, e non il singolo episodio, è la prima forma di garanzia nell’approccio all’arte intesa come risorsa strategica per la trasformazione della città.

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