ESTIMONIARE LA FEDE «CREDO SIGNORE!» Gv La ...1 TESTIMONIARE LA FEDE: «CREDO, SIGNORE!» (Gv...

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1 TESTIMONIARE LA FEDE: «CREDO, SIGNORE(Gv 9,38) La sequela Christi fonte della nostra gioia! Alle comunità parrocchiali, ai sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose, laici, alle associazioni, movimenti e gruppi ecclesiali Carissimi fratelli e sorelle, mi avvicino a voi all’inizio di un nuovo anno pastorale per soste- nere e vivificare i processi di accompagnamento alla fede cristiana nella nostra diocesi, facendo mia la «pedagogia di Dio, che sa fare della vicinanza la sua identità, il suo nome, la sua missione» 1 . Lo scenario nel quale vi scrivo, oltre ad essere diverso rispetto ai decenni precedenti, è mutevole e cangiante. Viviamo in un mondo in continua trasformazione e cambiamenti 2 . Anche volendolo fermare, non è possibile: è un processo inarrestabile. Non si può fare a meno di capire e interpretare questo tempo, di cogliere non solo precarietà e svantaggi, ma anche opportunità, che alla luce della fede cristiana ci permettono di riconoscere la presenza dello Spirito di Dio all’opera per rinnovare e rinvigorire le nostre speranze (cf. Rm 15,13), a co- 1 J.M. BERGOGLIO PAPA FRANCESCO, Agli educatori. Il pane della speranza – non stancarti di seminare, Lev, Città del Vaticano 2014, p. 140. 2 Cf. CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, 4 ottobre 2010, cap. primo.

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  • TESTIMONIARE LA FEDE: «CREDO, SIGNORE!» (Gv 9,38)

    La sequela Christi fonte della nostra gioia!

    Alle comunità parrocchiali, ai sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose, laici, alle associazioni, movimenti e gruppi ecclesiali

    Carissimi fratelli e sorelle, mi avvicino a voi all’inizio di un nuovo anno pastorale per soste-

    nere e vivificare i processi di accompagnamento alla fede cristiana nella nostra diocesi, facendo mia la «pedagogia di Dio, che sa fare della vicinanza la sua identità, il suo nome, la sua missione»1.

    Lo scenario nel quale vi scrivo, oltre ad essere diverso rispetto ai decenni precedenti, è mutevole e cangiante. Viviamo in un mondo in continua trasformazione e cambiamenti2. Anche volendolo fermare, non è possibile: è un processo inarrestabile. Non si può fare a meno di capire e interpretare questo tempo, di cogliere non solo precarietà e svantaggi, ma anche opportunità, che alla luce della fede cristiana ci permettono di riconoscere la presenza dello Spirito di Dio all’opera per rinnovare e rinvigorire le nostre speranze (cf. Rm 15,13), a co- 

    1 J.M. BERGOGLIO – PAPA FRANCESCO, Agli educatori. Il pane della speranza – non stancarti di seminare, Lev, Città del Vaticano 2014, p. 140.

    2 Cf. CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, 4 ottobre 2010, cap. primo.

  • minciare dalla speranza fondamentale, quella della nostra vocazione (cf. Ef 4,4)3. La nostra – specie nei tempi di difficoltà ai più vari li-velli e del più diverso tipo (economico-sociale, politico, culturale, di integrazione anche fra popoli diversi, ecc.), come quelle che anche le nostre comunità locali civili ed ecclesiali stanno vivendo (fatica ad individuare un’idea e un progetto condiviso di bene comune, territori impoveriti, crisi del lavoro, giovani non sempre accompagnati e spes-so in partenza per altri luoghi, accoglienza crescente di migranti, ri-fugiati e richiedenti asilo, ecc.) – è una precomprensione credente che ci spinge ad osare, perché il Cristo di ieri, è lo stesso di oggi e di sempre (cf. Eb 13,8), e in Lui troviamo «la massima prova di amore» (cf. Gv 15,13) per gli uomini «e così ci dona la luce che illumina… l’intero arco del cammino umano»4. Su questo sfondo più ampio, ar-ticolato e complesso mi permetto di collocare questi nostri Orienta-menti pastorali diocesani per l’anno 2014-2015.

    Ecco in breve il nostro percorso, svolto e ancora da svolgere: - accogliendo l’anelito della Conferenza Episcopale Italiana e-

    spresso negli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-20205; - inserendomi nel percorso triennale in cui abbiamo suddiviso il no-

    stro percorso diocesano6, volto a promuovere una nuova sta-gione dell’evangelizzazione con appropriati percorsi di ‘vita buona’ nei vari ambiti della vita ecclesiale proposti dal 4° Convegno Eccle-siale Nazionale (Verona, 16-20 ottobre 2006): vita affettiva, lavo-ro e festa, fragilità umana, tradizione, cittadinanza;

    - dopo aver riflettuto sulla tematica della fede annunciata (anno pa-storale 2012-2013) e della fede celebrata (anno pastorale 2013-2014), ci dedicheremo ora alla fede testimoniata o vissuta (2014-

      3 Tra le sfide più vive che si pongono alla vita della comunità cristiana, da ulti-

    mo, cf. SINODO DEI VESCOVI – III ASSEMBLEA GENERALE STRAORDINARIA, Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione. ‘Instrumentum Laboris’, 24 giugno 2014; in merito, si rimanda al Documento conclusivo della 47ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani (Torino, 12-15 settembre 2013), su cui cf., COMITATO SCIENTIFICO E ORGANIZZATORE DELLE SETTIMANE SOCIALI DEI CATTOLICI ITALIANI, La famiglia fa differenza. Per il futuro, per la città, per la politica, 11 aprile 2014.

    4 FRANCESCO, Enc. Lumen fidei, 29 giugno 2013, nn. 16, 20. 5 Cf. CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Educare alla vita buona del Vangelo. 6 Cf. i tre trienni: Educare alla fede (2012-2015); Educare alla speranza (2015-

    2018); Educare alla carità (2018-2020).

  • 2015)7. In concreto, questo anno pastorale, ha per noi – persone permanentemente evangelizzate dall’Annuncio pasquale e santifi-cate dalla grazia sacramentale – una valenza etico-testimoniale, al fine di motivare ulteriormente e spronare ogni credente ad una ri-sposta concreta ed efficace alla vocazione cristiana in quegli am-biti suggeriti dal Convegno di Verona e in vista del 5° Convegno Ecclesiale Nazionale (Firenze, 9-13 novembre 2015) per promuo-vere in Cristo Gesù il nuovo umanesimo.

     7 Per approfondimenti sul progetto ecclesiale diocesano del triennio 2012-2015,

    insieme alle pertinenti riflessioni esegetico-dottrinali-pastorali sul tema “educare alla fede”, cf. A. DE LUCA – DIOCESI DI TEGGIANO POLICASTRO, Orientamenti pastorali, 2 settembre 2012; ID., Orientamenti pastorali, 1 settembre 2013.

  • 1. Il compito della comunità cristiana: l’educazione alla fede testimoniata

    Dalle situazioni che vi ho descritto, emerge rafforzata la centrale

    priorità dell’evangelizzazione, intento principale del Concilio Vatica-no II8 e base del cammino pastorale della Chiesa italiana in questi ul-timi decenni9, entrata in una nuova tappa storica costituita dalla co-siddetta “nuova evangelizzazione”, resa tale soprattutto perché chia-mata ad essere «nuova nel suo ardore, nei suoi metodi e nella sua e-spressione»10, alimentando nel contempo la nostra fiducia nella Paro-la di Cristo: «Duc in altum!»11.

    La Chiesa, nel suo insieme comunità educante, è testimonianza di ciò che Essa è, e di ciò che Essa vive, crede, spera, ama, attraverso un processo di permanente educazione alla fede di giovani, adulti, fami-glie, che ha di mira quattro finalità principali: - «Nutrire e guidare la mentalità di fede: “Educare al pensiero di

    Cristo, a vedere la storia come Lui, a giudicare la vita come Lui, a scegliere e ad amare come Lui, a sperare come insegna Lui, a vi-vere in Lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo”. Cristo è lo “specchio” in cui il credente “scopre la propria immagine rea-lizzata”, per cui il cristiano “comprende se stesso in questo corpo, in relazione originaria a Cristo e ai fratelli nella fede”, realizzando così nella comunione ecclesiale lo “sguardo plenario di Cristo sul

     8 Gli obiettivi del Concilio «si riassumono, in definitiva, in uno solo: rendere la

    Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunziare il Vangelo all’umanità del XX secolo» (PAOLO VI, Es. ap. Evangelii nuntiandi, 8 dicembre 1975, n. 2).

    9 Cf. CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Il rinnovamento della catechesi, 2 feb-braio 1970; ID., Evangelizzazione e sacramenti, 12 luglio 1973; ID., Evangelizzazio-ne e sacramenti della penitenza e dell’unzione degli infermi, 12 luglio 1974; ID., E-vangelizzazione e sacramento del matrimonio, 20 giugno 1975; ID., Evangelizzazio-ne e ministeri, 15 agosto 1977; ID., Comunione e comunità, 1 ottobre 1981; ID., E-vangelizzazione e testimonianza della carità, Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per gli anni novanta, 8 dicembre 1990, Introduzione; ID., Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del 2000, 29 giugno 2001, nn. 5-6; ID., Educare alla vita buo-na del Vangelo, cap. quarto.

    10 GIOVANNI PAOLO II, Discorso all’Assemblea dei vescovi del CELAM, 9 marzo 1983.

    11 ID., Lett. ap. Novo millennio ineunte, 6 gennaio 2001, n. 15.

  • mondo”. - Sviluppare uno sguardo e un ascolto continuo verso le istanze, le

    domande i bisogni del tempo e delle persone, in forza del “pensie-ro di Cristo”, con il conforto di un discernimento comunitario, sot-to la guida dei pastori, nel continuo riferimento alla Parola.

    - Sostenere la fedeltà a Dio e all’uomo: “non si tratta di due preoc-cupazioni diverse, bensì di un unico atteggiamento spirituale, che porta la Chiesa a scegliere le vie più adatte, per esercitare la sua mediazione tra Dio e gli uomini. È l’atteggiamento della carità di Cristo, Verbo di Dio fatto carne”.

    - Educare a esprimere con la vita e la parola ciò che si è ricevuto. Il cristiano è un testimone che, per rendere ragione della sua fede, impara a narrare ciò che Dio ha fatto nella sua vita, suscitando co-sì negli altri la speranza e il desiderio di Gesù. Questo avviene at-traverso una circolarità virtuosa, un richiamo costante tra cono-scenza ed esperienza, in cui la fede illumina la vita e le opere di carità illuminano la fede: nel proporla evangelizzano»12. L’annuncio che la Chiesa è chiamata a fare nella storia si riassume

    in un’affermazione centrale: «Dio ti ama, Cristo è venuto per te, per te Cristo è ‘Via, Verità, Vita’»13. Dalla forza e dalla radicalità di que-sto annuncio scaturiscono l’ardore della vita e l’impegno di una for-mazione permanente dei cristiani, l’incisività e la capacità di rendere contemporaneo il messaggio annunciato e portato ad efficacia di vita, attraverso la novità e fecondità dei metodi di cui deve far uso oggi l’evangelizzazione.

    «La Chiesa può affrontare il compito dell’evangelizzazione solo ponendosi, anzitutto e sempre, di fronte a Gesù Cristo»14: meditando anzitutto e sempre «sul mistero di Cristo, fondamento assoluto di o-gni nostra azione pastorale»15, essa può seguire l’esempio del Signore Gesù, il «primo e più grande evangelizzatore»16.

    Questo diventa possibile perché «la nostra testimonianza sarebbe  

    12 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Incontriamo Gesù, Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia, 29 giugno 2014, n. 24.

    13 GIOVANNI PAOLO II, Es. ap. Christifideles laici, 30 dicembre 1988, n. 34. 14 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Comunicare il Vangelo in un mondo che

    cambia, n. 10. 15 GIOVANNI PAOLO II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 15. 16 PAOLO VI, Es. ap. Evangelii nuntiandi, n. 7.

  • insopportabilmente povera se noi per primi non fossimo contemplato-ri del volto di Cristo… E la contemplazione del volto di Cristo non può che ispirarsi a quanto di lui ci dice la Sacra Scrittura, che è, da capo a fondo, attraversata dal suo mistero»17. È la «parola di Dio viva ed eterna» (1Pt 1,23) che genera la Chiesa, ed Essa a questa fonte primaria si alimenta, cresce e si espande. Non possiamo pretendere di evangelizzare, se noi per primi non veniamo costantemente evange-lizzati, nutrendoci e ‘bramando’ la Parola di Dio fatta carne in Gesù (cf. Gv 1, 14), come il bambino cerca il latte di sua madre (cf. 1Pt 2,2).

    A tal fine, «La Parola di Dio ascoltata e celebrata, soprattutto nell’Eucaristia, alimenta e rafforza interiormente i cristiani e li rende capaci di un’autentica testimonianza evangelica nella vita quotidia-na»; da qui la necessità anche per il nostro cammino diocesano «che la Parola rivelata fecondi radicalmente la catechesi e tutti gli sforzi per trasmettere la fede»18 in ogni attività e impegno pastorale che contraddistingue l’intima natura della Chiesa: «annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyria), celebrazione dei Sacramenti (leiturgia), servizio della carità (diakonia)»19.

     17 GIOVANNI PAOLO II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, nn. 16-17. 18 FRANCESCO, Es. ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, nn. 174-175. 19 BENEDETTO XVI, Enc. Deus caritas est, 25 dicembre 2005, n. 25.

  • 2. L’icona biblica di riferimento La Parola di Dio a cui faremo costante riferimento nel nostro im-

    pegno pastorale quest’anno è tratta dalla professione di fede del cieco nato guarito da Gesù, che culminerà in un’adesione di fede professata e testimoniata: «Credo, Signore!» (v. 38). L’episodio è raccontato dall’evangelista Giovanni al cap. 9. Il cieco guarito è una figura co-raggiosa che diventa cifra dell’itinerario di ogni uomo che nell’incon-tro con il Signore accoglie l’annuncio salvifico e, fidandosi della sua parola (cf. v. 7a), si lascia coinvolgere in un’azione liberante e quasi sacramentale (cf. v. 7b). Infatti, il lavacro nella piscina di Siloe, nella sua ritualità, è quasi una celebrazione del mysterium salutis e dell’esperienza della verità della Parola che illumina e guarisce. Così, l’incontro con il cieco nato offre a Gesù l’occasione per rivelarsi co-me colui che dona la vista e la luce a chi è nell’oscurità. L’incontro con Lui genera una visione nuova del mondo e apre ad un conseguen-te rinnovato agire, ad una nuova etica della testimonianza: la fede an-nunciata e celebrata diviene martyria, testimonianza coraggiosa nella vita quotidiana. Gesù è colui che riesce a dare senso ai limiti e ai condizionamenti umani, alle sofferenze e alla malattie, alle margina-lità e alle periferizzazioni esistenziali: per mezzo di ciò si manifesta-no le grandi opere di Dio (cf. v. 3) e un agire umano rinnovato dalla Grazia. Ma, nel testo di Gv 9 c’è anche un’altra priorità di Cristo: condurre l’uomo alla fede in lui, e mediante la testimonianza del cre-dente operare un nuovo annuncio.

    L’incontro con il cieco non è casuale: c’è un piano divino che si realizza in quell’incontro ed in ogni incontro. L’uomo illuminato da Gesù, a sua volta, vede, crede e testimonia audacemente nei vari am-biti della vita l’incontro redentivo operato da Cristo (cf. vv. 10.15.17.25.31).

    Gesù ha una precisa missione: «Finché sono nel mondo, io sono la luce del mondo» (v. 38). L’espressione ‘aprire gli occhi’ richiama l’attesa biblica del liberatore di Dio a favore del suo popolo (cf. Is 28,18; 35,5). La missione del servo del Signore, chiamato ad essere ‘luce delle nazioni’, è di aprire gli occhi ai ciechi (cf. Is 42,6.7; 49,6.9). E ridare la vista a un cieco è il segno visibile, esteriore di questa missione. Nel testo compaiono diversi protagonisti: Gesù e i discepoli, il cieco guarito e i presenti curiosi, il gruppo dei farisei, i

  • genitori e i Giudei. In tale prospettiva il lungo testo di Gv 9 si può suddividere in sei unità minori: - incontro tra Gesù ‘luce del mondo’ e il cieco nato (vv. 1-7); - discussione tra i vicini e conoscenti del cieco (vv. 8-12); - primo interrogatorio del cieco da parte dei farisei (vv. 13-17); - interrogatorio dei genitori del cieco da parte dei Giudei (vv. 18-

    23); - secondo interrogatorio del cieco parte dei Giudei (vv. 24-34); - incontro finale di Gesù con il cieco: giudizio e sentenza contro i

    farisei (vv. 35-41). Il contesto in cui si inserisce la narrazione è il periodo della festa

    delle capanne o delle tende. Uscendo dal Tempio, dopo lo scontro con le autorità giudaiche, lo sguardo di Gesù cade su un uomo di cui si dice che è cieco dalla nascita. Si sottolinea il primato di Dio che guarda le miserie umane: se l’uomo non ‘vede’ Dio, Dio guarda e comprende il dramma dell’uomo (cf. Es 3). Il Signore vuol far com-piere un nuovo esodo a chi è oppresso dalle sue schiavitù e cecità. Gesù passa, vede in profondità, prende l’iniziativa: «passando vide un uomo cieco dalla nascita» (Gv 9,1). Non è l’uomo che, origina-riamente, vede Gesù. Al contrario è Gesù che conosce e vede le mise-rie umane, le oscurità da illuminare. Sarà questo sguardo di miseri-cordia che alla fine spingerà il cieco guarito a fissare lo sguardo risa-nato su Gesù e riconoscerlo come colui che viene da Dio e a schierar-si coraggiosamente dalla sua parte (cf. v. 37).

    Mentre Gesù è attento all’uomo che vive nel suo limite, ha in mente il bene da operare, ovvero la guarigione degli occhi e il recu-pero della sua vista e con questa la fiducia e la fede dell’uomo reden-to. Invece, i discepoli del Signore sono presi dai loro pensieri pseudo-teologici e aprono la questione sulla causa del male: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?» (v. 2). An-che i discepoli, inconsapevolmente vivono una certa cecità: essi han-no in mente un Dio che retribuisce con un castigo l’uomo peccatore, cosicché la malattia è espressione di una punizione di Dio. Per loro la sofferenza è sempre segno di colpevolezza. La teologia del “merito” e della “colpa” impedisce ai discepoli di imitare Gesù nello sguardo di misericordia rivolto al cieco e ai bisogni dell’uomo più che all’ermeneutica e alle varie disquisizioni circa le cause della malattia. I discepoli conoscevano la teoria della retribuzione: la cecità derive-

  • rebbe sempre da una colpa, in quanto Dio punirebbe il peccatore pri-vandolo della possibilità di leggere la Torah, la Parola di Dio. Il cieco è davanti alla Parola (Logos) ma non la vede. Tuttavia, una volta guarito accoglierà nella fede il Cristo e leggerà l’evento guardando Lui come Parola vivente, Logos fatto carne, storia ed esperienza vi-va. Gesù, in linea con il messaggio dei profeti (cf. Ger 31,30 ed Ez 18,1), attribuisce a ciascuno la responsabilità delle proprie azioni e non ai padri, negando una connessione punitiva tra malattia e colpa.

    Viene messa in crisi un’equazione terribile dell’Antico Testamen-to: i ricchi e i sani non sono sempre i benedetti da Dio; i poveri e i malati non sono i maledetti dal Signore. La missione del Messia è per la liberazione dal male che impedisce di vedere Dio, Bene infinito, e camminare per la sua Via. La risposta di Gesù rivela che Dio non causa la sofferenza dell’uomo, ma vuole affiancarsi a lui ed eliminar-la. Vuole renderlo capace di vedere e leggere la Parola fatta carne e riconoscere così la Sua Signoria sul mondo e sulla storia. Le osserva-zioni ideologiche, l’indagine sociologica, le analisi religiose diven-gono secondarie; ciò che importa realmente è l’impegno per la vitto-ria sul male e la redenzione integrale di ogni uomo.

    L’azione di Gesù, come quella di Dio, è impegnata a ripristinare l’integrità della persona e guidarla a testimoniare la propria liberazio-ne con l’adesione del cuore e della mente a Lui, Parola del Padre. Già a questo livello possiamo intravvedere una lezione ad intra: anche i discepoli del Signore, la cerchia più vicina a Lui, hanno bisogno di essere guariti dalle visioni parziali del sapere e del conoscere, dai loro punti di vista ristretti rispetto alle problematiche globali dell’esistenza, dalle loro osservazioni pregiudiziali, dalle idee che non focalizzano la realtà così come Dio la vede.

    Gesù compie un’azione ‘rituale’: «…fece del fango con la saliva e spalmò il fango sugli occhi di lui» (v. 6). Alcuni esegeti rilevano che l’uso terapeutico della saliva faceva parte della tradizione primitiva intorno a Gesù, ma diventava un elemento esposto alla critica di ge-stualità magico-pagane. In realtà è necessario rileggere il gesto del “plasmare con il fango” come azione che richiama la creazione dell’uomo, fatto dalla terra (cf. Gn 2,7; Is 64). In verità le azioni di Cristo sono da rileggere nel simbolismo della nuova creazione. In-sieme al gesto narrativo è necessario affiancare il simbolismo sacra-mentale. L’espressione “plasmare con il fango” in realtà è ungere.

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    Per alcuni esegeti siamo di fronte a un evento di guarigione prodigio-sa, e ad un’azione simbolico-sacramentale che rinvia all’illuminazio-ne battesimale, al gesto crismale.

    «Poi gli disse: “Và a lavarti nella piscina di Sìloe - che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva”» (v. 7). Come non evocare un precedente e analogo ordine in 2Re 5,10-13 dove Eli-seo non guarisce Naam sull’istante, ma gli fa compiere un cammino, un percorso verso la fonte del Giordano. La piscina di Siloe (Shiloah) ha la stessa radice di ‘Inviato’ (Shalah). Cristo è l’inviato del Padre, che – a sua volta – invia l’uomo immerso nelle tenebre a compiere un percorso di illuminazione della fede attraverso il simbolismo battesi-male. L’uomo accoglie l’invito di Gesù con l’obbedienza della fede e viene guarito, illuminato: crede e vede. In breve il cieco nato recupe-ra la vista quando obbedisce alla Parola di Gesù che gli dice di lavarsi nella piscina dell’“Inviato”. Accoglie l’‘annuncio’ espresso dalla Pa-rola di Gesù, ritualmente compie il lavacro quasi come celebrazione simbolica della verità che la Parola annuncia. E testimonia l’evento: ‘ora ci vedo’. Ma siamo soltanto all’inizio di un processo a larghi o-rizzonti che si ostina a negare in tutti i modi la realtà nuova che in Cristo si è realizzata.

    Il primo confronto avviene con i vicini: essi sembrano incapaci di integrare l’avvenimento nel loro sapere ordinario. Lo avevano visto sempre a terra, per la sua infermità egli è «il seduto». È Gesù che mette in moto nell’uomo un nuovo dinamismo: da un essere chiuso e bloccato nel suo oscuro orizzonte a un uomo non più impedito e im-prigionato dal suo limite, ma finalmente liberato per agire: «È lui, non è lui, gli somiglia…» (v. 9). Il cieco, inconsapevolmente rispon-de ai suoi vicini, definendo se stesso con un’espressione che evoca il nome di Dio, il quale attraverso Gesù gli ha restituito, come nuova creazione, l’immagine e la somiglianza divina originaria: «Sono io» (v. 9). È un invito per la cerchia di conoscenti a rileggere nella nuova realtà umana liberata dall’oscurità, l’azione di Dio che rinnova tutte le cose. Tuttavia anche questo gruppo di persone vicine e conoscenti dimostrano di essere affette da una miopia spirituale: sono più inte-ressate alle modalità dell’evento che alla realtà. Uno sguardo e una visione limitata alla dinamica dei fatti e non capace di andare oltre: «Com’è che ti sono stati aperti gli occhi?» (v. 10). Una cecità risanata è già di per sé una testimonianza soprannaturale. Ma la gente sembra

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    bloccata nella ricerca di risposte descrittive e di superficie. La seconda fase del dibattito è quella con i farisei: ha lo scopo di

    puntualizzare il significato religioso del segno compiuto da Gesù. Questi, associati ai Giudei, costituiscono il fronte avverso a Gesù. L’accusa opposta a Gesù è di trasgredire il riposo del sabato e così mettersi contro la Legge di Dio. Essi si trovano di fronte al dilemma: violando la Legge Gesù ha peccato; guarendo il cieco si è manifestato come uomo di Dio. Non riescono a prendere posizione e tuttavia sono ostili. L’interpretazione del gesto di guarigione provoca una divisione all’interno del gruppo dei farisei: «è un peccatore», «è un uomo da Dio» (v. 16). La questione per l’evangelista è aperta: schierarsi pro o contro Gesù. Così, mentre gli occhi dell’uomo che prima era cieco si aprono gradualmente alla verità su Gesù, i farisei e i Giudei diventa-no sempre più ostinati nel non voler vedere la verità. Anche questo gruppo di osservanti sono impegnati nell’osservare i loro precetti in maniera così puntuale che il loro punto di vista restringe talmente l’orizzonte da impedirgli uno sguardo aperto all’agire libero dello Spirito di Dio che supera ogni legge, decreto, norma, regola, canone, ecc.

    Il codice della Legge ha preso il posto di Dio nella visione dei fa-risei e non c’è spazio per la novità. Così dimenticano che la Legge è fatta per l’uomo, per il suo agire, e non l’uomo fatto per essere sotto-posto a regole e precetti. Non è semplicemente la canonicità del “di-ritto” e l’agire forense che libera l’uomo e lo salva. È Cristo, Parola vivente, il nuovo principio dell’agire etico dell’uomo liberato dalla Grazia. Così l’agire di Cristo sfugge alla canonicità della mentalità farisaica e i suoi oppositori non riescono a darne una definizione che rientri nel loro schema: peccatore o uomo di Dio? Il cieco guarito, interrogato dai farisei, dà la sua testimonianza: “È un profeta” (v. 17). In questa risposta dimostra due cose: che è in linea con la Tradizione, in quanto nell’Antico Testamento il profeta Eliseo guarisce Naaman (cf. 2Re 5,10-13). In secondo luogo, dimostra di aver maturato ancora meglio la visione di fede: ai vicini aveva definito Gesù “un uomo” (v. 11), ora la testimonianza diventa ancora più esplicita e coraggiosa, «un profeta» (v. 17).

    La terza fase del confronto coinvolge la testimonianza dei genito-ri. I Giudei rappresentano le istituzioni giuridiche a vari livelli: «I Giudei però non credettero che lui fosse stato cieco e avesse ricupera-

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    to la vista, finché non ebbero chiamato i genitori di colui che aveva ricuperato la vista» (v. 18). L’agire di Dio viene portato in tribunale per essere sottoposto ad un processo in cui sono chiamati in causa gli stessi genitori del cieco. Essi confermano la cecità dalla nascita, ma non si esprimono su Gesù, la persona che ha operato la guarigione viene ignorata. Anche questa famiglia, per paura di compromettersi, non vuole vedere e riconoscere Gesù: «Questo dissero i suoi genitori perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabili-to che se uno riconoscesse Gesù come Cristo, fosse espulso dalla si-nagoga» (v. 22). Alla famiglia viene impedita la testimonianza con un subdolo ricatto: riconoscere Gesù e testimoniarlo significa emar-ginazione e espulsione dai circuiti di cittadinanza ostili al Vangelo.

    La sinagoga rappresenta la vecchia appartenenza, cui rischiano di essere espulsi quanti si schierano con Cristo. Sebbene i genitori han-no occhi per vedere, si comportano come coloro che chiudono gli oc-chi alla verità per paura di compromettersi socialmente, istituzional-mente, giuridicamente e religiosamente. E chiudendo gli occhi, di-ventano anch’essi come ciechi. Questi genitori che non testimoniano coraggiosamente e affettivamente la guarigione del figlio nato cieco e guarito da Gesù sono immagine di tante famiglie che ancora nel mondo odierno e in tanti ambiti della vita sono sottoposte, a motivo della fede, a pressioni estenuanti, a minacce implicite ed esplicite, a costrizioni subdole, a coercizioni indegne, a estorsioni di consensi, purché si oscuri e ignori il Vangelo del Signore. Non riconoscere le “radici” di una trasformazione avvenuta nell’uomo rinnovato signifi-ca voler mettere l’azione di Dio nel dimenticatoio, per paura che Lui scomodi le signorie mondane a rinnovarsi con una nuova visione del-la realtà e della storia.

    La quarta interrogazione riguarda ancora i Giudei e il cieco. È la fase in cui l’istituzione giudaica prende posizione contro Cristo: sia-mo di fronte alla persecuzione da una parte e alla martyria dall’altra: «Dà gloria a Dio. Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore» (v. 24). Il cieco si trova sottoposto a pressioni psicologiche ed estorsioni di consenso forzate, al fine di far riconoscere che la sua guarigione è opera di un “dio” che è fuori dall’orizzonte umano e non passa attra-verso Gesù, ritenuto dai Giudei “peccatore”. La risposta del cieco guarito è una sfida, una presa di posizione rischiosa e comprometten-te: «Se quell’uomo non fosse da Dio, non avrebbe potuto fare nulla»

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    (v. 33). Egli paga di persona: «Lo cacciarono fuori» (v. 34). Riconoscere Cristo significa rischiare di essere estromessi dalle

    vecchie appartenenze, di essere cacciati fuori dal circuito delle strut-ture di potere mondane che si sentono minacciate dalla vita del Van-gelo. Le persecuzioni assumono semantiche diverse nei diversi ambi-ti della vita familiare e affettiva, nel campo del lavoro, della Tradi-zione e istruzione, della fragilità e della testimonianza. Ci sono ostili-tà e vessazioni verso la testimonianza di una famiglia secondo il cuo-re di Dio e del Vangelo. Ci sono emarginazioni e dileggio verso chi testimonia responsabilmente una vita lavorativa onesta e improntata sui valori cristiani. Talvolta si assiste a un accanimento verso chi vuole trasmettere i valori della verità e della fede nel campo dell’istruzione e della scuola. Si assiste al prevalere della logica dell’economia che domina sulla logica dell’accoglienza verso il mondo delle fragilità. Il campo del bene comune e della cittadinanza responsabile rischia di soccombere a una dittatura dell’autoreferen-zialità, più che della comunione e della solidarietà evangelica. Tante cecità che attendono una guarigione!

    Il cieco guarito prende le difese di Gesù a partire dalla sua espe-rienza e mostra una maturazione progressiva nella conoscenza di Lui: un uomo che si chiama Gesù (cf. v. 11), un profeta (cf. v. 17), un uomo pio che fa la volontà di Dio (cf. v. 31), Signore (cf. v. 38). Si! La Signoria di Gesù è liberante: riconoscerlo come Signore è permet-tere alla luce della Verità di illuminare ogni ambito oscuro della vita.

    3. Riflessioni sul brano biblico

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    Ritornando all’inizio della narrazione, possiamo elaborare delle conclusioni.

    1. ‘Gesù vede un uomo cieco’. La visione di una corretta antropologia ed etica della testimo-

    nianza cristiana passa attraverso lo sguardo di Gesù. L’immagine del cieco illuminato e guarito è un invito a superare un umanesimo chiu-so, oscurato nella sua autoreferenzialità e accogliere il nuovo umane-simo cristiano aperto alla martyria. Da una visione chiusa ad una vi-sione aperta alla Grazia. Accanto alla fede annunciata e celebrata è necessaria una fede testimoniata, come quella dell’uomo guarito; una fede che sa pagare e rischiare di persona, sfuggendo alla logica dell’anonimato e alla dinamica dell’impersonalità. L’esegesi del te-sto evangelico ci lascia intravvedere che esiste una cecità ad intra, tra chi è già discepolo di Cristo, ed una cecità ad extra, fra chi vede Cri-sto come un ostacolo per la realizzazione dei propri punti di vista non conformi alla luce del Vangelo. È necessario il superamento della pa-ura, dell’inquietudine e delle preoccupazioni di compromettersi per Cristo. In questo senso, come mostreremo di seguito, risalta l’invito costante di papa Francesco ad avere una fede che ci sollecita a “usci-re dal chiuso e dalle chiusure” e abitare gli ambiti la vita. La paura di “uscire” non è per caso frutto della “paura” di incontrare il tu, il noi, gli altri, che nell’epoca in cui viviamo sono spesso avvertiti come una minaccia per l’integrità dell’io?20

    2. Il cieco è spinto a prendere posizione: parlare pro, per Cristo. E

    tutto ciò, per il cieco guarito, avviene in ogni ambito della vita: nella propria famiglia di origine (i genitori), nel mondo della Traditio rap-presentata dai farisei e dalla sinagoga che lo escluderà, nel mondo dei suoi vicini immersi nel lavoro ordinario che registrano la sua meta-morfosi e conversione, nel mondo delle fragilità per dare una speran-za di liberazione, nei contesti della cittadinanza che vive l’evento.

    3. «Professare con la bocca, a sua volta, indica che la fede implica una “presenza sociale”. Il cristiano non può mai pensare che credere

      20 In merito, cf., COMITATO PREPARATORIO DEL 5° CONVEGNO ECCLESIALE NA-

    ZIONALE, In Gesù Cristo il nuovo umanesimo, Invito al Convegno.

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    sia un fatto privato. La fede è una decisione di stare con il Signore per vivere con Lui… La fede è un atto di libertà, esige anche la re-sponsabilità sociale di ciò che si crede»21.

    Tra gli impegni fondamentali che come credenti siamo chiamati ad assumere e incarnare, menzioniamo i seguenti: a) «il primo contributo che possiamo offrire è quello di testimoniare

    la nostra fiducia nella vita e nell’uomo, nella sua ragione e nella sua capacità di amare. Essa non è frutto di un ingenuo ottimismo, ma ci proviene da quella “speranza affidabile” (Spe salvi, 1), che ci è donata mediante la fede nella redenzione operata da Gesù Cri-sto»22.

    b) Inoltre, insieme alla «passione per l’educazione»23, basilare è la «credibilità del testimone»: «Ogni adulto è chiamato a prendersi cura delle nuove generazioni, e diventa educatore quando ne assume i compiti relativi con la dovuta preparazione e con senso di responsabilità. L’educatore è un testimone della verità, della bellezza e del bene, cosciente che la propria umanità è insieme ricchezza e limite. Ciò lo rende umile e in continua ricerca. Educa chi è capace di dare ragione della spe-ranza che lo anima ed è sospinto dal desiderio di trasmetterla. La passione educativa è una vocazione, che si manifesta come un’arte sapienziale acquisita nel tempo attraverso un’esperienza maturata alla scuola di altri maestri. Nessun testo e nessuna teoria, per quanto illuminanti, potranno sostituire l’apprendistato sul campo. L’educatore compie il suo mandato anzitutto attraverso l’autorevolezza della sua persona. Essa rende efficace l’esercizio dell’autorità; è frutto di esperienza e di competenza, ma si acqui-sta soprattutto con la coerenza della vita e con il coinvolgimento personale. Educare è un lavoro complesso e delicato, che non può essere improvvisato o affidato solo alla buona volontà. Il senso di responsabilità si esplica nella serietà con cui si svolge il proprio servizio. Senza regole di comportamento, fatte valere giorno per giorno anche nelle piccole cose, e senza educazione della libertà

     21 BENEDETTO XVI, Lett. ap. Porta fidei, 11 ottobre 2011, n. 10. 22 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Educare alla vita buona del Vangelo, n.

    15. 23 Ibid., n. 30.

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    non si forma la coscienza, non si allena ad affrontare le prove del-la vita, non si irrobustisce il carattere. Infine, l’educatore si impe-gna a servire nella gratuità, ricordando che «Dio ama chi dona con gioia» (2Cor 9,7). Nessuno è padrone di ciò che ha ricevuto, ma ne è custode e amministratore, chiamato a edificare un mondo mi-gliore, più umano e più ospitale. Ciò vale pure per i genitori, chiamati non soltanto a dare la vita, ma anche ad aiutare i figli a intraprendere la loro personale avventura»24.

    c) In questo lavoro di discernimento idoneo a favorire la crescita in-tegrale della persona e testimoniare la fede, è necessario: da un la-to affrontare le «tentazioni degli operatori pastorali», quelle pato-logie costituite dall’individualismo, le crisi d’identità, calo di fer-vore, i complessi di inferiorità, l’accidia egoistica, le mancanze di motivazioni, le delusioni, i pessimismi sterili; dall’altro, quale te-rapia assolutamente idonea, bisogna uscire da se stessi e dagli iso-lamenti, dire «no alla mondanità spirituale» che si manifesta con il dominio degli spazi nella Chiesa, occorre affermare risolutamente no al prestigio, no alla cura ostentata, alla vanagloria, al funziona-lismo manageriale, «alla guerra tra di noi», alla vanitosa sacraliz-zazione della propria cultura25.

    d) Per poter eliminare, da un lato, le miopie (come il vedere fin sotto il proprio naso e nel proprio orto, ma non guardare agli orizzonti larghi della missione), e dall’altro, le ipermetropie (tra cui il mira-re e focalizzare prospettive lontane, ma non accorgersi delle pros-simità che ci girano attorno), unico imperativo promettente è quel-lo di affermare con forza «Sì alle relazioni nuove generate da Ge-sù Cristo»26. Su questa scia, in conclusione, possiamo rilevare quanto sia affa-

    scinante il percorso compiuto dal cieco nato: da uomo esistenzial-mente passivo, nell’incontro con Gesù diventa espressione di obbe-dienza liberata e – memore del bene ricevuto – si espone quasi come suo apologeta; si tratta di un cammino di sequela e di vita in Cristo senza pari. Nasciamo tutti un pò ciechi. L’incontro con il Signore è illuminante: «Chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il

     24 Ibid., n. 29. 25 cf., FRANCESCO, Es. ap. Evangelii gaudium, Cap. II, parte II. 26 Ibid., nn. 87-92.

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    percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto, stella mat-tutina che non tramonta»27. Chi crede è disposto, come il personaggio di Gv 9, a testimoniare la propria fede anche a costo di pagare di per-sona. Con l’espulsione dalla prima appartenenza e la nuova inclusio-ne alla sequela di Cristo, almeno… ci vede!

    4. Agire e dover agire nella luce della fede. Percorso di educazione alla gioia del Vangelo.

     27 ID., Enc. Lumen fidei, n. 1.

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    È scritto come carattere indelebile nell’essere divenute creature

    nuove, l’impulso originario e insopprimibile per cui la fede cristiana proietta le proprie qualità nel vissuto storico dell’uomo, ponendosi non solo come orizzonte generico di riferimento, ma come energia viva e sorgiva, critica e progettuale: è così che – divenute creature nuove attraverso il battesimo (cf. Gv 5,24; 8,12; Ef 2,8; Rm 5,1; 8, 9; 2 Cor 5,17; Col 3, 9-10) – si alimenta la nostra fede concreta, vissuta, generando quella testimonianza che è annuncio vero di Gesù e del suo amore nel vissuto di ogni giorno, qualsiasi sia il contesto e l’ambito di riferimento in cui siamo collocati.

    Verifichiamo se è così per la nostra fede vissuta, quella che testi-moniamo e siamo chiamati ad annunciare nello specifico agire di o-gni giorno: è davvero questa riserva escatologica di senso che illumi-na e orienta le coscienze della nostra umanità e delle nostre comunità, o quali sono altrimenti i criteri decisionali alla luce dei quali ispiria-mo e guidiamo le nostre scelte concrete? Il nostro vivere umano e cristiano sarà autentico quando, a cominciare da noi, non ridurremo nel vissuto la nostra fede a buoni sentimenti o a bagaglio astratto e generico che poco informa il nostro cammino quotidiano; al contra-rio, abbiamo bisogno che carità e verità si incontrino per un servizio intelligente all’uomo28, espressione di «quel grande sì che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo»29.

    Da questo significato basilare che illumina e orienta le coscienze del nostro impegno evangelizzatore possiamo individuare con estre-ma sinteticità un possibile percorso di educazione alla fede testimo-niata: identifico sostanzialmente un criterio generale rilevante per la verifica e la progettualità del nostro cammino pastorale; a ciascuno degli operatori pastorali affido il compito di aggregare e convogliare attorno a esso modalità e significati pertinenti ad esprimere e intensi-ficare, approfondendo in una logica di ‘fedeltà dinamica’ appropriati percorsi di testimonianza di fede della/nella nostra Chiesa diocesana.

     28 Cf., BENEDETTO XVI, Enc. Caritas in veritate, 29 giugno 2009, nn. 3-4. 29 ID., Discorso con i partecipanti al IV Convegno Nazionale della Chiesa Italia-

    na, 19 ottobre 2006.

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    Per sviluppare questi aspetti, mi avvalgo di una citazione prelimi-nare tratta da un Discorso tenuto dal Pontefice, incontrando il 27 set-tembre 2013 i partecipanti al Congresso internazionale sulla cateche-si, che mi sembra racchiuda bene gli ambiti interconnessi sui quali vorrei soffermarmi nel seguito. Francesco diceva: «Chi mette al cen-tro della propria vita Cristo, si decentra! Più ti unisci a Gesù e Lui diventa il centro della tua vita, più Lui ti fa uscire da te stesso, ti de-centra e ti apre agli altri. Questo è il vero dinamismo dell’amore, questo è il movimento di Dio stesso! Dio è il centro, ma è sempre do-no di sé, relazione, vita che si comunica... Così diventiamo anche noi se rimaniamo uniti a Cristo, Lui ci fa entrare in questo dinamismo dell’amore. Dove c’è vera vita in Cristo, c’è apertura all’altro, c’è uscita da sé per andare incontro all’altro nel nome di Cristo. E que-sto è il lavoro…: uscire continuamente da sé per amore, per testimo-niare Gesù e parlare di Gesù, predicare Gesù. Questo è importante perché lo fa il Signore: è proprio il Signore che ci spinge a uscire»30.

    Quanto qui riportato, contiene in sintesi la prospettiva fondamen-tale dell’ultimo documento magisteriale di papa Francesco, l’Esorta-zione apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, comu-nemente designata, secondo l’uso, con l’incipit latino Evangelii gau-dium31: si tratta di un testo notevolmente lungo che richiederà un a-deguato approfondimento; in questa sede delimito la presente analisi richiamando lo spirito che anima l’intero testo e che unisce le varie affermazioni lì proposte. Circoscrivo l’indagine a un criterio e princi-pio generale che declino nel prosieguo in tre modalità che fungono da orientamenti per l’azione pastorale concreta, perché ciascuno di noi (in specie penso ai sacerdoti e a tutti gli operatori pastorali della no-stra Diocesi) possa usarli per verificare il cammino ecclesiale com-piuto e programmare il cammino pastorale da compiere, educandoci così – possibilmente – alla testimonianza della fede cristiana nel quo-tidiano.

    Il criterio che vi propongo è quello apostolico della gioia: quale

     30 FRANCESCO, Discorso ai Partecipanti al Congresso Internazionale sulla Cate-

    chesi, 27 settembre 2013. 31 È stata pubblicata lo scorso 24 novembre 2013, alla chiusura dell’Anno della

    fede indetto da Benedetto XVI per celebrare il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II (11 ottobre 1962).

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    gioia? La gioia del Vangelo. a. In una prima modalità che vi consegno, parlo di gioia come Van-

    gelo da accogliere e da vivere. Papa Francesco ci propone inces-santemente nel suo Magistero ordinario – e lo ha condensato spe-cificamente in Evangelii gaudium – il volto di una Chiesa estro-versa, gioiosa, che reca al mondo il buon annuncio di Cristo risor-to, vincitore del peccato e della morte. Già nel suo inizio e per ben 52 volte nel testo, il pontefice indica la gioia come condizione ‘permanente’ che caratterizza il Vangelo e l’evangelizzatore; il vescovo di Roma lega strettamente gioia, Vangelo e liberazione dell’uomo, in particolare, «dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isola-mento»32. Il motivo di questa gioia il pontefice lo indica nel lasciarci rag-giungere e salvare da Gesù, e aggiunge: “Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia”33. Se è Gesù il fondamento, il principio, il centro e la meta della gioia, quella vera, comprendiamo perché il cristiano nel testimoniare la sua fede non può essere triste, e anche nella prova, nella sofferenza deve esserci in noi la gioia del Van-gelo, perché sappiamo che in noi abita lo Spirito, tra i cui frutti maturi vi è proprio «la gioia» (Gal 5, 22), che contagia, diffonde e condivide l’annuncio cristiano tra gli uomini con entusiasmo e “per attrazione”. Chiediamoci allora: da dove scaturisce continuamente per me e per noi tutti la gioia del Vangelo? Andando alla mente e al cuore, individuiamo e specifichiamo quali sono i luoghi e gli spazi, i tempi e le modalità dove vivo/viviamo la gioia, e dove sono chia-mato/siamo chiamati ad accrescerla e favorirla nel vissuto?

    b. La seconda modalità con cui declino il criterio apostolico della gioia per la nostra vita pastorale: la ‘gioia’ che è costituita dal Vangelo da testimoniare ai fratelli, recando loro un annuncio di salvezza. Se la Chiesa «esiste per evangelizzare… Evangelizzare, infatti, è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda»34, «la massima sfida per la Chiesa»35 è rappresentata

     32 FRANCESCO, Es. ap. Evangelii gaudium, n. 1. 33 Ibid. 34 PAOLO VI, Es. ap. Evangelii nuntiandi, n. 14.

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    dall’attività missionaria, e il primo compito della Chiesa deve es-sere la causa missionaria, ossia la tensione all’annuncio testimo-niante della fede ai vicini e ai lontani deve essere il «paradigma di ogni opera della Chiesa»36. Come si alimenta e sostiene la testimonianza della fede? Attraver-so la missione, ma come nasce e vive la missione? La gioia dell’incontro con Cristo ci fa apostoli, mandati al mondo, perché tutti possano incontrare Cristo e vivere nella sua gioia. È questa gioia, la gioia del Vangelo comunicata e trasmessa ai fratelli e so-relle che vivono nel nostro mondo che genera e alimenta la mis-sione, e una missione caratterizzata da cosa? Dalla gioia della missione. Papa Francesco nel suo insegnamento precisa costantemente che la Chiesa che vive la gioia è necessariamente in ‘uscita’. Il Vange-lo di Matteo riporta il mandato di Gesù ai discepoli: l’invito ad andare, ‘a partire’ per annunciare a tutti i popoli il suo messaggio di salvezza (cf., Mt 28, 16-20). ‘Andare’, o meglio, ‘partire’ verso il mondo: è il comando di Gesù ai discepoli, dopo la sua Ascen-sione al cielo, missione fatta propria dalla Chiesa di ogni tempo e di ogni luogo, dalla nostra Chiesa diocesana che vive ed esiste per evangelizzare con amore gli uomini e le donne di questo nostro territorio, prolungando nel tempo la missione di Gesù, la cui ulti-ma parola terrena è: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popo-li» (Mt 28,19). È un mandato preciso, non è facoltativo! La comu-nità cristiana è una comunità “in uscita”, “in partenza”. Di più: la Chiesa è nata “in uscita”»37. È così anche per noi? Andiamo a tutti? Portando Dio a tutti e tutto a Dio? Chiediamoci, se siamo Chiesa fatta di piccoli o grandi ‘in-dividui’, chiusi nelle proprie comode e avare autoreferenzialità, o lasciamo spazio autentico al dinamismo missionario che contagia, diffonde e condivide l’annuncio cristiano tra gli uomini e donne del nostro territorio? Lo facciamo ‘uscendo-partendo’ con entu-siasmo e attrattiva? Quale e quanto entusiasmo e attrazione, cia-

                                                                                                                                   35 GIOVANNI PAOLO II, Enc. Redemptoris missio, 7 dicembre 1990, nn. 34, 40,

    86. 36 FRANCESCO, Es. ap. Evangelii gaudium, n. 15. 37 ID., Regina Coeli, 1 giugno 2014.

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    scuno secondo la vocazione ricevuta, esercitiamo nell’annuncio testimoniante della fede cristiana?

    c. Se siamo ‘in uscita’, perennemente in partenza, dove siamo chia-mati e interpellati a vivere la gioia del Vangelo? Nella vita quoti-diana, secondo le indicazioni maturate nel Convegno ecclesiale di Verona: vita affettiva, lavoro e festa, fragilità umana, tradizione, cittadinanza, calati nell’anno della fede testimoniata provocano a un serio esame di coscienza su quale sia la testimonianza del cre-dente e quale lo stile pastorale di vita delle nostre comunità par-rocchiali, uffici diocesani, movimenti, gruppi, ecc.. Dobbiamo domandarci, infatti, quanto delle indicazioni maturate nel Convegno ecclesiale di Verona è stato recepito e attuato, e quanto siamo disposti a recepire e attuale nel prossimo anno per il nostro cammino pastorale diocesano, in modo da rinnovare l’azione ecclesiale e la formazione dei laici, chiamati a coniugare – attraverso una matura spiritualità – senso di appartenenza eccle-siale e amore appassionato alla città degli uomini, al mondo nel quale viviamo; in altre parole, si tratta di favorire insieme l’identità della persona umana e la forma cristiana del vivere u-mano. Comprendendo le prime due modalità nelle quali ho declinato il principio pastorale della gioia del Vangelo, e attuandolo negli ambiti di Verona, chiediamoci: quanto della nostra vocazione cri-stiana traspare nella testimonianza concreta? Viviamo quotidia-namente nelle nostre comunità cristiane, attraverso gli ambiti di Verona, il dinamismo della gioia vera e sincera? Quanto e come partecipiamo con gioia alla missione evangelizzatrice della nostra Chiesa diocesana? È ancora faccenda di specialisti o quale con-versione pastorale sono/siamo chiamati ad assumere e incarnare per testimoniare lo zelo missionario che ci spinge nell’‘uscire’ e andare verso tutti, in specie dove vivono i ‘piccoli’ secondo il Vangelo (poveri, emarginati, ‘periferie esistenziali’ continuamen-te presenti nel ministero di papa Francesco, affaticati e oppressi, i senza voce, ecc.), i lontani o i tiepidi nella fede? In quest’ultimo senso è necessario avere presente i tre ambiti nei quali siamo chiamati a realizzare la nuova evangelizzazione: la pastorale ordinaria, quella verso le persone che non vivono le e-sigenze del battesimo, e quella verso chi non conosce o ha sempre

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    rifiutato Gesù Cristo38. Per quanto prospettato, poiché si evangelizza ‘tutto l’uomo’, in

    ogni ambito e servizio pastorale (diocesi, uffici pastorali, foranie, parrocchie, gruppi ecclesiali, associazioni e movimenti, ecc.), è chia-ro ed urgente individuare e lavorare insieme nel favorire dinamiche e processi per un corretto dialogo e una convergente collaborazione ec-clesiale. A spronarci in questo senso, con tono profetico-progettuale, vorrei invitare ciascuno a meditare con attenzione e ad apportare il suo fattivo contributo di pensiero e di azione, in relazione a quanto papa Francesco scrive: «La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre co-sì”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ri-pensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità. Una individuazione dei fini senza un’adeguata ricerca comunitaria dei mezzi per raggiungerli è con-dannata a tradursi in mera fantasia. Esorto tutti ad applicare con generosità e coraggio gli orientamenti di questo documento, senza divieti né paure. L’importante è non camminare da soli, contare sempre sui fratelli e specialmente sulla guida dei Vescovi, in un sag-gio e realistico discernimento pastorale»39.

    5. Indicazioni operative Carissimi, con il contributo degli organismi diocesani, e a se-

     38 ID., Es. ap. Evangelii gaudium, n. 14. 39 Ibid., n. 33.

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    guito delle suggestioni emerse nel Convegno Pastorale Diocesano dello scorso 17-18 giugno 2014, abbiamo provato a sviluppare alcu-ne considerazioni operative, attraverso le quali offrire un’esplicita testimonianza di rinnovato e fecondo impegno etico, capace di tra-durre concretamente la prospettiva cristiana in sequela Christi. L’obiettivo pratico che ci poniamo – in linea e come necessaria con-seguenza rispetto a quanto abbiamo già esposto in questo testo – è quello di aiutare l’intera comunità diocesana e le singole realtà fora-niali e parrocchiali ad intraprendere un percorso ecclesiale conver-gente capace di trasmettere efficacemente la vita buona del Van-gelo, alla luce delle esigenze e delle sfide della nostra società.

    Recentemente i Vescovi italiani hanno scritto: «L’attuale contesto socio-culturale pone diversi interrogativi: la secolarizzazione avan-zata; il pluralismo culturale, etnico e religioso; una mutata percezio-ne dell’impegno sociale e civile dei cattolici; l’esigenza di testimo-niare armonia tra fede e ragione, tra conoscenza e ricerca di Dio e infine l’esigenza di annunciare la conversione al Vangelo, la libera-zione dal peccato, dall’ingiustizia e dalla povertà… Accanto ai cam-biamenti dobbiamo registrare anche difficoltà e ritardi nell’impegno ecclesiale: la “conversione pastorale” in senso missionario, posta in agenda ormai da lungo tempo, ancora attende di maturare nel tessu-to di molte comunità»40.

    La nostra Chiesa Diocesana, interpellata da questa lettura, intende immergersi in una matura spiritualità missionaria che può rendere le nostre comunità – a vari livelli – luoghi privilegiati in cui poter fa-re esperienza viva e reale di fedeltà alla vocazione cristiana, così da poter essere in grado di portare in tutti i luoghi in cui vivono gli uo-mini e le donne di oggi l’annuncio testimoniante del Vangelo. So-prattutto ci anima la prospettiva di un rinnovato impegno etico capa-ce di coniugare fede e vita, con la consapevolezza che solo in Cristo Redentore l’uomo diventa veramente persona: infatti, «l’uomo è per-sona e agisce da persona se nel suo essere e nel suo agire risplende Cristo come luce di Dio Salvatore»41. Concretamente, la prospettiva dell’impegno cristiano dovrebbe rifulgere per il suo potenziale di ve-

     40 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Incontriamo Gesù, n. 2. 41 D. CAPONE, «Cristocentrismo in teologia morale», in L. ALVAREZ VERDES – S.

    MAJORANO (edd.), Morale e Redenzione, Edacalf, Roma 1983, p. 67.

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    rità dialogica e inclusiva rispetto alle variegate e parziali etiche rela-tive alla vita, personale o sociale che sia. Ecco alcune delle questioni sulle quali offriamo un contributo alla riflessione.

    1. La vita umana resta uno di quei valori che papa Benedetto

    XVI ha definito ‘non negoziabili’, ossia, inviolabili, senza tralasciare l’attenzione e il rispetto dovuti a tutti i momenti della vita dell’uomo, in tutto il suo percorso esistenziale. Al di là delle formule, resta la so-stanza del rispetto sacro che merita la vita e ogni vita, indipendente-mente dalla sua qualità funzionale, tra cui emergono in particolare: - il rispetto per la vita non ancora nata e per la vita al tramonto42; - la riscoperta della missione cristiana del matrimonio43.

    Ogni arbitraria chiusura e limitazione offensiva alla vita è un atto moralmente disordinato. Tante giovani famiglie, inconsapevolmente condizionate dal senso della paura e dell’incertezza, si lasciano inti-morire nella grande vocazione a trasmettere la vita. A noi pastori e operatori pastorali spetta il compito di formare, educare, assicurare vicinanza e informare le coscienze. Una responsabilità convinta e consapevole deve spingere i coniugi cristiani a riflettere con serietà sul loro compito di generare la vita in modo consapevole.

    La vita si alimenta e si custodisce anche nel rispetto dell’amma-lato, dell’anziano, nell’accoglienza di profughi, rifugiati, migranti, ecc.; sono queste alcune delle categorie che rivendicano un rispetto che non possiamo elargire per nostra benevolenza e nemmeno solo per leggera solidarietà, quanto piuttosto è il riconoscimento della di-gnità umana che reclama diritto e giustizia: «Con la sua opera edu-cativa la Chiesa intende essere testimone dell’amore di Dio nell’of-ferta di se stessa; nell’accoglienza del povero e del bisognoso; nell’impegno per un mondo più giusto, pacifico e solidale; nella dife-sa coraggiosa e profetica della vita e dei diritti di ogni donna e di ogni uomo, in particolare di chi è straniero, immigrato ed emargina-to; nella custodia di tutte le creature e nella salvaguardia del crea-

     42 Cf., CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istr. Donum vitae, 22 feb-

    braio 1987, nn. 1, 3. 43 Tra gli altri, cf. CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Evangelizzazione e sa-

    cramento del matrimonio; GIOVANNI PAOLO II, Es. ap. Familiaris consortio, 22 no-vembre 1981, parte terza.

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    to»44. Papa Francesco ci ricorda inoltre che il rispetto della persona

    umana si traduce anche nell’accoglienza incondizionata senza di-scriminazioni ed esclusioni, ad esempio, nel rispetto delle leggi sul lavoro: «Mi ha sempre addolorato la situazione di coloro che sono oggetto delle diverse forme di tratta di persone. Vorrei che si ascol-tasse il grido di Dio che chiede a tutti noi: “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9). Dov’è il tuo fratello schiavo? Dov’è quello che stai ucci-dendo ogni giorno nella piccola fabbrica clandestina, nella rete della prostituzione, nei bambini che utilizzi per l’accattonaggio, in quello che deve lavorare di nascosto perché non è stato regolarizzato? Non facciamo finta di niente. Ci sono molte complicità. La domanda è per tutti! Nelle nostre città è impiantato questo crimine mafioso e aber-rante, e molti hanno le mani che grondano sangue a causa di una complicità comoda e muta»45.

    È, d’altronde, fondamentale ribadire che: «Le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere, nella misura del possibile, lo straniero al-la ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita, che non gli è possibile trovare nel proprio paese di origine. I pubblici poteri avranno cura che venga rispettato il diritto naturale, che pone l’ospite sotto la protezione di coloro che lo accolgono. Le autorità politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili, possono subordinare l’esercizio del diritto di immigrazione a diverse condi-zioni giuridiche, in particolare al rispetto dei doveri dei migranti nei confronti del paese che li accoglie. L’immigrato è tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, ad obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri»46.

    Il rispetto di ogni esistenza impone a tutti una rinnovata e auten-tica solidarietà nei confronti di tanti fratelli bisognosi, sollecitando una particolare forma di carità e di vicinanza che si concretizza – tra le altre forme – nelle adozioni a distanza. Sulla vita umana è chiama-ta in gioco la radicalità del nostro impegno. Nei corsi di preparazione  

    44 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Educare alla vita buona del Vangelo, n.

    24. 45 FRANCESCO, Es. ap. Evangelii gaudium, n. 211. 46 Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vati-

    cano 1997, n. 2241.

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    al matrimonio delle giovani coppie si ponga una speciale cura su questo tema della vita, e della speranza nella vita. In merito, vi segna-lo quanto segue: «Oggi la nostra speranza è insidiata da molte parti e rischiamo di ridiventare anche noi, come gli antichi pagani, uomini “senza speranza e senza Dio in questo mondo”, come scriveva l’apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (Ef 2,12). Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita». «Come cristiani dobbiamo sentire forte il dovere di trasmettere la possibilità di una vita buona che scaturisce dall’incontro persona-le con Cristo: “Il proprio comportamento e stile di vita – lo si voglia o meno – rappresentano di fatto una proposta di valori o disvalori. È ingiusto non trasmettere agli altri ciò che costituisce il senso profon-do della propria esistenza»47.

    2. Un ulteriore passaggio ci obbliga a soffermare la nostra atten-

    zione sul delicato tema della cittadinanza, che risulta essere senz’altro uno degli impegni più suggestivi ed impegnativi.

    «Avvertiamo la necessità di educare alla cittadinanza responsabi-le. L’attuale dinamica sociale appare segnata da una forte tendenza individualistica che svaluta la dimensione sociale, fino a ridurla a una costrizione necessaria e a un prezzo da pagare per ottenere un risultato vantaggioso per il proprio interesse. Nella visione cristiana l’uomo non si realizza da solo, ma grazie alla collaborazione con gli altri e ricercando il bene comune. Per questo appare necessaria una seria educazione alla socialità e alla cittadinanza, mediante un’ampia diffusione dei principi della dottrina sociale della Chiesa, anche rilanciando le scuole di formazione all’impegno sociale e poli-tico. Una cura particolare andrà riservata al servizio civile e alle e-sperienze di volontariato in Italia e all’estero. Si dovrà sostenere la crescita di una nuova generazione di laici cristiani, capaci di impe-gnarsi a livello politico con competenza e rigore morale»48.

    In quanto comunità educante, la Chiesa non può tralasciare la formazione specifica di coloro che intendono impegnarsi, con altis-

     47 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Educare alla vita buona del Vangelo, nn.

    5, 10. 48 Ibid., n. 54b.

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    simo profilo etico, alla costruzione della vita politica del proprio ter-ritorio, ispirando il personale e comune operato ai valori cristiani che hanno seminato tanto bene nei solchi della nostra storia, antica e re-cente. Inoltre, dobbiamo riconoscere che una rinnovata domanda di eticità insorge nei giovani e nei cittadini, che si fa richiesta e offerta di trasparenza, visibilità, coerenza: «oggi nascono molte forme di as-sociazione per la difesa di diritti e per il raggiungimento di nobili o-biettivi. In tal modo si manifesta una sete di partecipazione di nume-rosi cittadini che vogliono essere costruttori del progresso sociale e culturale»49.

    Questa sensibilizzazione ad assumere impegni concreti per il bene comune può scaturire dalla conoscenza non superficiale della Dottri-na Sociale della Chiesa: in questo senso, ritengo imprescindibile e doveroso che ogni Forania si accordi con i vari dirigenti scolastici del territorio, per permettere a degli esperti di tale disciplina di incon-trare i giovani e i ragazzi delle nostre scuole ed istituti. Laddove è possibile, non si escluda la possibilità di organizzare incontri perio-dici che illustrino il messaggio sociale del Vangelo.

    A tal proposito vorrei sottolineare l’urgenza di completare il pri-mo triennio della scuola del Vangelo, aiutando i nostri laici che vi hanno generosamente risposto, ad operare una scelta preferenziale in rapporto ai cinque ambiti di Verona.

    3. Una preziosa occasione per formare le coscienze può esserci

    offerta, senz’altro, quando i nostri fedeli richiedono di essere ammes-si ai sacramenti della vita cristiana. Infatti, «È per mezzo dei sa-cramenti della Chiesa che Cristo comunica alle membra del suo Cor-po il suo Spirito Santo e santificatore…»; così che «queste “meravi-glie di Dio”, offerte ai credenti nei sacramenti della Chiesa, portano i loro frutti nella vita nuova, in Cristo, secondo lo Spirito»50.

    I sacramenti costituiscono il momento privilegiato in cui l’uomo entra in comunione con Dio, il quale, donando la Grazia, conferisce la salvezza a coloro che li ricevono, portando frutti di vita eterna.

    «I sette sacramenti sono i segni e gli strumenti mediante i quali lo Spirito Santo diffonde la grazia di Cristo, che è il Capo, nella Chie- 

    49 FRANCESCO, Es. ap. Evangelii gaudium, n. 67. 50 Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 739-740.

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    sa, che è il suo Corpo. La Chiesa, dunque, contiene e comunica la grazia invisibile che essa significa. È in questo senso analogico che viene chiamata “sacramento”»51.

    Tutti i sacramenti agiscono e trasfigurano l’uomo, ma in modo eminente la Santa Eucarestia compendia in sé tutto l’amore e la predilezione di Dio per l’uomo, che dona il suo stesso Figlio. «La Li-turgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù»52. Da qui si comprende come la celebrazione dei sacramenti costituisca per la Chiesa un evento di salvezza, che compie nell’oggi dell’uomo la volontà di Cristo di far fruttificare la vita in abbondanza (cf., Gv 10,10), segno che compie ciò che significa nel momento in cui la liturgia lo celebra. «“Forze che escono” dal Corpo di Cristo (cf. Lc 5,17; 6,19; 8,46), sempre vi-vo e vivificante, azioni dello Spirito Santo operante nel suo Corpo che è la Chiesa, i sacramenti sono i “capolavori di Dio” nella Nuova ed Eterna Alleanza»53.

    Appare chiaro che la richiesta dei sacramenti – in special modo quelli dell’iniziazione cristiana – deve diventare per noi occasione pastorale propizia per riproporre il rapporto fede e vita, cultura e reli-gione; non si tratta di farsi ‘fustigatori’ degli altri, ma come pastori dovremmo riuscire a rivitalizzare nel cuore dei battezzati quell’anelito di bene, la nostalgia di Dio che – anche attraverso un percorso graduale – contagi tutta l’esistenza con la bellezza della se-quela Christi e, quindi, porti a maturazione l’esigenza morale della vita cristiana. A questo proposito, le parole di Benedetto XVI sono di una profondità enorme: «Tutta la mia vita è sempre stata attraver-sata da un filo conduttore, questo: il cristianesimo dà gioia, allarga gli orizzonti. In definitiva un’esistenza vissuta sempre e soltanto “contro” sarebbe insopportabile»54.

    La celebrazione di un sacramento deve trovare l’immediata ac-coglienza e la proposta di un accompagnamento attraverso un digni- 

    51 Ibid., n. 774. 52 CONCILIO VATICANO II, Cost. Sacrosanctum concilium, 4 dicembre 1963, n.

    10. 53 Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1116. 54 BENEDETTO XVI, Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi, Una

    conversazione con Peter Seewald, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, p. 27.

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    toso percorso di riscoperta della fede. Occorre proporre all’uomo di oggi, senza tentennamenti, la bellezza dell’Eucarestia domenicale come luogo di incontro, innanzitutto con Dio e poi con la comunità che condivide la fede, la speranza e la carità. Non tralasciamo di in-dicare il sacramento della Riconciliazione come luogo e spazio di salvezza, che libera l’uomo dalle maglie del peccato e lo ristabilisce nella sua originaria dignità: «All’uomo, naufrago a causa del pecca-to, con il sacramento della riconciliazione hai aperto in Cristo croci-fisso e risorto il porto della misericordia e della pace. Nella potenza del tuo Spirito hai stabilito per la Chiesa, santa e insieme bisognosa di penitenza, una seconda tavola di salvezza dopo il Battesimo e in-cessantemente la rinnovi per radunarla al banchetto gioioso del tuo amore55.

    Cerchiamo di dissuadere coloro che chiedono i sacramenti senza un’adeguata preparazione, o che limitano la loro adesione esclusiva-mente ad una frequenza scolastica. Al contrario, è necessario innesca-re consapevoli e compiuti percorsi di fede. Sconsigliamo dal rice-vere i sacramenti in maniera meccanicistica, formale o, peggio anco-ra, con una visione magica. La consapevolezza di ciò che si celebra spinga a vivere ciò che si crede!

    4. Bisogna formare le coscienze anche attraverso la pietà popola-

    re. La Conferenza Episcopale Campana ha emanato un Decreto che intende regolarizzare alcune forme ritenute eccessive riguardo la pie-tà popolare56. Abbiamo la responsabilità di adeguarci con saggia pe-dagogia pastorale a quanto ci viene indicato dalle disposizioni eccle-siastiche. Nella nostra Diocesi permangono alcune improprie consue-tudini in rapporto alla raccolta delle offerte, l’ostensione di oggetti d’oro (ex voto), percorsi ormai desueti per le processioni, e modalità non troppo oranti per portare tra le case le immagini della Beata Ver-gine Maria e dei Santi. Sottolineo ancora: a) Anzitutto, l’organizzazione delle manifestazioni di natura civile,

    ludica e ricreativa in occasione delle feste del Signore, dei Santi o della Beata Vergine Maria sia ispirata a quella correttezza e a

     55 Messale Romano, Prefazio della Penitenza. 56 CONFERENZA EPISCOPALE CAMPANA, Evangelizzare la pietà popolare. Norme

    per le feste religiose, 18 febbraio 2013.

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    quel sano pudore che, lungi da ogni puritanesimo, deve necessa-riamente essere rispettoso delle sensibilità di tutti coloro che vi partecipano; questa esigenza nasce proprio dalla natura della fe-sta che sempre deve essere intesa come segno di appartenenza a Cristo e alla Chiesa, anche nei momenti di svago e di distensione.

    b) Tutte le persone che, a vario titolo, vengono coinvolte nel percorso di preparazione della festa, siano anche invitate a percorrere un cammino di riscoperta della fede che promuova un adeguato con-solidamento spirituale. Sono persone che offrono il loro tempo, ma non per questo possono agire senza il coordinamento e l’intesa con il parroco.

    c) La custodia premurosa e vigile delle sane tradizioni e del patrimo-nio di fede – che nella pietà popolare è racchiuso – deve respon-sabilizzare tutti. 5. Anche l’informazione deve avere una sua etica. Ormai è indi-

    scusso il valore enorme che ricoprono i mezzi della comunicazione sociale, la cui importanza è accresciuta dal fatto di abbattere le di-stanze e i confini, fino a rimpicciolire lo stesso spazio globale.

    «I media possono aiutare a farci sentire più prossimi gli uni agli altri; a farci percepire un rinnovato senso di unità della famiglia u-mana che spinge alla solidarietà e all’impegno serio per una vita più dignitosa. Comunicare bene ci aiuta ad essere più vicini e a cono-scerci meglio tra di noi, ad essere più uniti. I muri che ci dividono possono essere superati solamente se siamo pronti ad ascoltarci e ad imparare gli uni dagli altri. Abbiamo bisogno di comporre le diffe-renze attraverso forme di dialogo che ci permettano di crescere nella comprensione e nel rispetto. La cultura dell’incontro richiede che siamo disposti non soltanto a dare, ma anche a ricevere dagli altri. I media possono aiutarci in questo, particolarmente oggi, quando le reti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi. In particolare internet può offrire maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti, e questa è una cosa buona, è un dono di Dio»57.

    Nel nostro territorio ho sperimentato come sia tenuta in grande considerazione la comunicazione sociale: varie testate giornalistiche

     57 FRANCESCO, Messaggio per la 48ª Giornata Mondiale per le Comunicazioni

    Sociali, 24 gennaio 2014.

  • 32 

    e televisive mettono al servizio della collettività il loro impegno e la loro professionalità. Anche la nostra Diocesi ha cercato di sviluppare una fitta rete di comunicazione attraverso il sito internet diocesano, le newsletters dei progetti e degli incontri organizzati, l’agenda dio-cesana e il nuovo annuario. Perciò, sento il dovere di ringraziare tutti coloro che si impegnano in questo campo, con precisione e dili-genza. Credo, però, che bisogna fare ancora di più, perché la nostra informazione e quella dei mezzi della comunicazione sociale ottem-perino sempre meglio al loro altissimo compito. È bene puntare la nostra attenzione sull’etica dell’informazione, avendo presente il da-to che tantissime persone entrano in contatto tra di loro proprio attra-verso le comunicazioni sociali; del resto, spesso l’annunzio stesso del Vangelo si serve di questo prezioso strumento. Accanto al bene che può scaturire dai mass media, si deve registrare anche l’uso impro-prio che spesso si fa dei mezzi di comunicazione sociale: non di rado, si assiste a una vera e propria violazione del rispetto e della serietà che, al contrario, merita di perseguire la ricerca della verità non di-sgiunta dalla carità.

    6. È vivo desiderio che il tema pastorale scelto venga costante-

    mente ricordato alle nostre comunità parrocchiale. Incontrerò gli or-ganismi di partecipazione e di comunione delle singoli foranie (con-sigli pastorali parrocchiali, consigli affari economici, referenti degli ambiti di Verona) per condividere la tematica dell’anno pastorale.

    Dagli Orientamenti si attingano le suggestioni necessarie per pre-parare tridui e novene, e in special modo ad ogni festa patronale sia offerto un indirizzo tematico in sintonia con gli Orientamenti Pasto-rali.

    Anche le indicazioni che si offrono ai catechisti, i messaggi che si rivolgono alle famiglie, le richieste ai predicatori, abbiamo costante-mente il riferimento al tema della vita cristiana come sequela Christi, per fare in modo che “tutte le attività terrene dei fedeli siano pervase dalla luce del Vangelo” (Gaudium et spes 31).

    La Parola di Dio, che ha determinato la scelta degli Orientamenti

    Pastorali, ci aiuti a trarre le tematiche giornaliere per la catechesi co-me occasione per creare un comune impegno evangelizzatore e, ben-ché con accentuazioni differenti e modalità personali, ciascuno con-

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    tribuisca a quella necessaria sinfonia di comunione e di partecipazio-ne alla quale siamo chiamati.

    Nell’affidare a tutti e a ciascuno questi nostri Orientamenti pa-

    storali diocesani, insieme a tutta la comunità diocesana, ringrazio gli operatori e animatori del popolo cristiano, per l’impegno e la dedi-zione finora profusi, e per quanto sarà fatto nel prossimo anno pasto-rale 2014-2015. Insieme testimonieremo, nel servizio umile e genero-so, la gioia del Vangelo!

    Vi benedico di cuore e, insieme nella preghiera invochiamo:

    O Vergine Maria, discepola del Signore,

    illuminata dalla Spirito la Parola ti abita,

    ti custodisce

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    e ti ispira. Tu generi l’Eterno

    donandoci la luce del mondo. Il peccato c’insidia

    e la debolezza ci avvolge, l’umano rende opaco il Divino che abita in noi.

    Donaci di scoprire la nostra vocazione: portare frutti nella carità

    per la vita del mondo. La comunione ci protegga dalla competizione.

    Il dialogo ricomponga le differenze e ci renda liberi e fedeli in Cristo!

    Amen.

    (Preghiera per l'anno pastorale 2014/2015)

    Teggiano, 31 agosto 2014 XXII Domenica del Tempo ordinario

      

                                                                                  Antonio De Luca Vescovo di Teggiano-Policastro

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