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ESODO Jahvé libera il suo popolo T r a c c i a di l e t t u r a «Esodo» è il titolo dato dalla traduzione greca dei Settanta al libro ebraico Shemot «Nomi» (prima parola del testo). In esso la Bibbia racconta i fatti e le peripezie che accompagnarono l'uscita degli Ebrei dall'Egitto. È l’epopea del passaggio dalla schiavitù alla libertà, dall’oppressione alla condizione di popolo eletto, dal servizio forzato al faraone a quello libero di Dio. Da un punto di vista generale simboleggia il cammino d’ogni uomo per sottrarsi ai condizionamenti ambientali e raggiungere il traguardo della libertà, o anche il cammino della storia verso un progressivo sviluppo scientifico e tecnico in cui l’uomo, che ne è l’artefice, assume maggiore consapevolezza di sé e della natura. Per gli Ebrei l’esodo dall'Egitto fu l'evento costitutivo del popolo d’Israele. Il Dio “dei padri” intervenne prodigiosamente in suo favore per liberarlo dall'oppressione. Il girovagare per quarant’anni nel deserto creò la coscienza di una nuova identità. Con il «patto di alleanza» stipulato da Mose alle falde del monte Sinai, Israele comprese di essere il popolo eletto da Jahvé: doveva portare alle genti un messaggio di salvezza.. Lo scopo del libro è “far memoria” del passato di liberazione, soprattutto nell'annuale celebrazione della Pasqua, per rivivere nell' oggi la presenza vittoriosa del Signore su «ogni faraone» della storia collettiva o personale che schiavizza. Jahvé salva sempre da qualsiasi nemico. Storia Non è facile ricostruire l'Esodo dall’Egitto sotto l'aspetto storico. Molti studiosi sono convinti che «questo libro biblico conservi l'eco di due distinti esodi, avvenuti in momenti diversi e unificati in un unico racconto» (Ravasi). Certamente l'esodo-fuga rivestì un’importanza capitale e avvenne sotto la guida di Mosè, che evitò le postazioni egiziane lungo la via del mare e condusse il popolo sulle piste del deserto fino a raggiungere la penisola sinaitica. Il ricordo di un precedente esodo-cacciata” è più sfumato. Forse di dovette ad una reazione dei faraoni egiziani dopo l’espulsione degli Hyksos (1567 a.C.), sovrani stranieri che avevano dominato parte della nazione per un paio di secoli. Infatti, gruppi semiti stanziati in Egitto furono allontanati e costretti a tornare in Canaan, seguendo il litorale mediterraneo.

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ESODOJahvé libera il suo popolo

T r a c c i a di l e t t u r a

«Esodo» è il titolo dato dalla traduzione greca dei Settanta al libro ebraico Shemot «Nomi» (prima parola del testo). In esso la Bibbia racconta i fatti e le peripezie che accompagnarono l'uscita degli Ebrei dall'Egitto. È l’epopea del passaggio dalla schiavitù alla libertà, dall’oppressione alla condizione di popolo eletto, dal servizio forzato al faraone a quello libero di Dio. Da un punto di vista generale simboleggia il cammino d’ogni uomo per sottrarsi ai condizionamenti ambientali e raggiungere il traguardo della libertà, o anche il cammino della storia verso un progressivo sviluppo scientifico e tecnico in cui l’uomo, che ne è l’artefice, assume maggiore consapevolezza di sé e della natura.

Per gli Ebrei l’esodo dall'Egitto fu l'evento costitutivo del popolo d’Israele. Il Dio “dei padri” intervenne prodigiosamente in suo favore per liberarlo dall'oppressione. Il girovagare per quarant’anni nel deserto creò la coscienza di una nuova identità. Con il «patto di alleanza» stipulato da Mose alle falde del monte Sinai, Israele comprese di essere il popolo eletto da Jahvé: doveva portare alle genti un messaggio di salvezza..

Lo scopo del libro è “far memoria” del passato di liberazione, soprattutto nell'annuale celebrazione della Pasqua, per rivivere nell'oggi la presenza vittoriosa del Signore su «ogni faraone» della storia collettiva o personale che schiavizza. Jahvé salva sempre da qualsiasi nemico.

Storia Non è facile ricostruire l'Esodo dall’Egitto sotto l'aspetto storico. Molti

studiosi sono convinti che «questo libro biblico conservi l'eco di due distinti esodi, avvenuti in momenti diversi e unificati in un unico racconto» (Ravasi). Certamente l'esodo-fuga rivestì un’importanza capitale e avvenne sotto la guida di Mosè, che evitò le postazioni egiziane lungo la via del mare e condusse il popolo sulle piste del deserto fino a raggiungere la penisola sinaitica. Il ricordo di un precedente “esodo-cacciata” è più sfumato. Forse di dovette ad una reazione dei faraoni egiziani dopo l’espulsione degli Hyksos (1567 a.C.), sovrani stranieri che avevano dominato parte della nazione per un paio di secoli. Infatti, gruppi semiti stanziati in Egitto furono allontanati e costretti a tornare in Canaan, seguendo il litorale mediterraneo.

Non bisogna dimenticare che l’autore biblico non scrive un manuale di storia, ma interpreta in senso religioso eventi e memorie antiche. Il Libro dell’Esodo è pertanto dominato dall’istanza dell’«alleanza con Dio» stretta da Mosè sul monte Sinai ed espressa nel Decalogo o “Dieci Parole”; esse saranno alla base della risposta d’Israele a Jahvé e ne orienteranno il modo di vivere. Oltre alle Dieci Parole, il Pentateuco contiene altresì l’altra legislazione etico-religiosa

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aggiunta in seguito, con l’intento di ricondurla all’esperienza del Sinai, la culla spirituale dell’Israele biblico.

La terra d’Egitto fertile e accogliente, in cui si era sviluppata un’elevata civiltà, era centro di convergenza non soltanto delle carovane d’Oriente, ma anche preda agognata dei vari popoli guerrieri (Hittiti, Cassiti, Hurriti) che dall’Asia premevano verso di essa. Una di queste campagne svoltasi con successo fu condotta dagli Hyksos, intorno al 1750 a.C., al comando di semiti stranieri. Con l’ausilio di cavalli e carri da guerra sconfissero gli Egiziani, che allora ne erano privi. Solo nella XVIII dinastia, il faraone Ahmose riuscì a cacciarli definitivamente dall’Egitto, cioè nel 1567 a.C. circa e spostò la capitale a Tanis sul delta del Nilo. Nella regione furono costruite città fortificate, per una più efficace difesa.

Passiamo ora alla XIX dinastia quando al faraone Seti I (1309-1290 a.C.) successe Ramses II (1290-1224 a.C.) e dopo di lui il figlio Merneptah (1224-1214 a.C.). Ramses II intraprese una lunga guerra contro l’Assiria, impero allora emergente. La più importante battaglia avvenne nel 1284 a.C. presso Qadesh, sul fiume Oronte (Siria). Nessuno dei due eserciti prevalse. Un trattato firmato dalle due parti sancì la spartizione dei territori contesi, ma ciò non impedì le successive rivolte e azioni di guerra. Dopo lo scontro titanico di Qadesh la terra dei faraoni traboccava di prigionieri di guerra. Parte di loro passò all’esercito; gli altri furono impiegati nei lavori pubblici. Gli Ebrei insediati in Egitto da oltre 400 anni appartenevano al gruppo di forestieri non integrati, numerosi e turbolenti.

Il testo sacro racconta che gli Ebrei «costruirono per il faraone le città-deposito, cioè Pitom e Ramses». Tali opere richiesero una numerosa

manovalanza di schiavi e prigionieri di guerra. A loro furono associati anche gli Ebrei che, mal tolleravano il sopruso e il peso dell'oppressione. Le fortificazioni della XIX dinastia furono eseguite soprattutto durante il regno di Ramses II e di Merneptah.

Alcuni dati rendono plausibile il periodo dell’esodo al tempo di

Ramses II, ossia verso la metà del XIII secolo. Gli Egiziani temevano                     Ramses II in guerra  gli Ebrei sia per la mancata integrazione sia per la prolificità, che li rendeva potenzialmente nemici. Non si parla degli Ebrei nei papiri egiziani contemporanei. Fa eccezione soltanto una stele di basalto nero risalente al 1220 a.C., scoperta a Tebe nel 1895 e conservata al Museo del Cairo. In essa, per la prima volta, il faraone Merneptah, cita il popolo ebraico dichiarandolo vinto: «Israele è distrutto, è ormai senza seme».

Un elemento di primaria importanza per interpretare l'Esodo è la figura di Mosè. Fu lui a dare un'identità ad Israele. Egli guidò il popolo nel deserto e fu il mediatore dell'Alleanza con Jahvé. «Con ogni verosimiglianza, egli assunse questo ruolo centrale solo gradatamente. Non è però più possibile sganciarlo da questa o da quella tradizione. Se si nega la realtà storica di questi fatti e della persona di Mosè, si rendono inspiegabili il seguito della storia d’Israele, la sua fedeltà allo jahvismo, il suo attaccamento alla Legge. Si deve però riconoscere che l'importanza di questi ricordi per la vita del popolo e l'eco che

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trovavano nei riti, hanno dato al racconto il colore di imprese eroiche» (BJ), quasi da poema epico.

Il testo dell’Esodo Il testo ebraico è ben conservato per quanto concerne i

capitoli 1-24 e 32-34. Vi sono problemi, invece, per i capitoli 25-31 e 35-40. Solitamente il Libro dell'Esodo si attribuisce a Mosè, ma quasi tutti gli studiosi contemporanei ritengono che lo scritto appartenga, nella redazione attuale, ai membri della casta sacerdotale attorno al 550 a.C. Tuttavia alcune parti di esso (ad esempio i capitoli 25-31) risalgono a un periodo antico. La sezione contenente il codice dei precetti religiosi e civili (20,23-23,33) è ancora più arcaica e potrebbe appartenere ad epoca pre-mosaica.

I fatti che vi si raccontano sono veramente accaduti e costituiscono la base della fede d’Israele; non mancano però abbellimenti di tipo epico. Tale modo di scrivere aveva un duplice fine: esaltare la grandezza del Dio d’Israele e dare particolare rilievo al popolo eletto. Il Decalogo o le "dieci parole", fu inciso su due lastre di pietra da Mosè o da qualche suo aiutante. Senza dubbio, erano il tesoro più prezioso degli Ebrei e lo custodivano nell'arca dell'alleanza. Forse scomparvero con la distruzione del tempio nel 586 a.C. I Dieci Comandamenti contengono un'etica naturale che avvicina Israele agli altri popoli dell’Oriente; ma sono altresì un testo religioso, perché la loro promulgazione avviene nell’ambito dell’alleanza.

Nella composizione dell’Esodo sono ben evidenti le «tradizioni» Jahvista, Elohista e Sacerdotale con qualche venatura della tradizione Deuteronomista. La redazione finale del testo o la sua forma attuale, risale probabilmente al V secolo a.C.

Contenuto L'Esodo consta di quaranta capitoli: celebra la liberazione degli Ebrei dalla schiavitù egiziana e li accompagna nel cammino del deserto verso la libertà.

Entrato in Egitto da oltre 400 anni, il popolo ebraico si era molto accresciuto. Verso il XIII secolo a.C. fu sottoposto ai lavori forzati e correva il pericolo d'estinzione. Partendo da questa situazione, l'Esodo sviluppa due temi la liberazione degli Ebrei (capitoli 1-15) e la conclusione di un «patto di alleanza con Jahvé» (capitoli 19-40). Fa da cerniera a questi due blocchi principali, il tema del cammino nel deserto narrato nei capitoli 15-18.

I primi quindici capitoli raccontano la nascita e la giovinezza di Mosè, scelto da Dio per condurre i figli d’Israele fuori dell’Egitto e rievocano i dieci castighi o piaghe inflitte al faraone. Durante la fuga il popolo attraversò a piedi asciutti il “Mare dei giunchi”.

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Nei capitoli di raccordo (15,22-18), il popolo d'Israele, proveniente da Gosen alle foci orientali del Nilo, si mise in cammino verso il deserto sostando nell’oasi di Mara e di Elim; oltrepassato il deserto di Sin avanzò fino al monte Sinai. Su questa “santa montagna” e con impressionanti teofanie o manifestazioni, Jahvé strinse un patto d’alleanza con Israele e gli dettò le leggi da osservare (capitoli 19-40). Nei cc 32-34 si parla di una violazione e di un rinnovo dell’alleanza con Dio; la storicità del fatto è molto discussa. È più probabile un riferimento all’introduzione del vitello d’oro nei luoghi di culto (vedi 1Re 12,16-33). All'interno di quest’evento s’inserisce, nei capitoli 25-31 e 35-40, la costruzione della Tenda e dell'Arca nel deserto, oltre ad una serie di norme liturgiche riguardanti il successivo cerimoniale israelitico.

Attualità L'esodo è metafora dell'uomo. L'intera esistenza umana è un uscire

e un entrare "uscire” dal grembo materno per "entrare" nel mondo, uscire da se stessi per entrare in comunione con Dio (fede) e con gli altri, uscire dalla vita per entrare nella dimensione ultraterrena. In tal senso, l'esodo interpreta il percorso aspro e difficile della condizione umana.

Dall'Esodo dipende il successivo sviluppo della storia sacra e del progetto di Dio sull’umanità che avrà il suo compimento nel Nuovo Testamento. Non è possibile comprendere la Bibbia se non si conosce il libro dell'Esodo. L'Alleanza del Sinai è una tappa verso la perfetta e definitiva alleanza realizzata da Cristo, mediante lo spargimento del proprio sangue (Lc 22,20). Tutto questo spiega l’ampia presenza dei temi dell'Esodo nella liturgia cristiana.

1. LIBERAZIONE DALL'EGITTO (1,1-15,21)Entrati in Egitto per opera di Giuseppe, gli Israeliti erano notevolmente

aumentati. Questo moltiplicarsi di un popolo straniero preoccupava gli Egiziani che misero in atto crudeli meccanismi d’autodifesa. Li sottoposero ai lavori forzati e al controllo demografico, mediante la soppressione alla nascita dei figli maschi. Nella loro angoscia gli Ebrei fecero ricorso al «Dio dei padri» che inviò Mosè, il liberatore. Le così chiamate “piaghe d'Egitto” sono interventi prodigiosi operati da Jahvé per liberare il suo popolo dall'asservimento.

Riepilogo di Genesi (1,1-5) La tradizione sacerdotale riepiloga in pochi versetti gli oltre

quattrocento anni trascorsi dagli Ebrei in Egitto (At 7,6 13,20 Gal 3,17), partendo dagli avvenimenti successivi alla morte di Giuseppe. Nel frattempo, gli Israeliti insediatisi nel Delta egiziano erano diventati «numerosi e molto forti».

Oppressione degli Ebrei (1,6-22) Entrando in argomento ci imbattiamo nel

racconto dell'autore jahvista, che ci tramanda la prima «tradizione orale» della Bibbia sviluppatasi nel regno di Giuda e trascritta al tempo di Salomone verso il 950 a.C. È detta jahvista in quanto Dio è chiamato Jahvé. Descrive la situazione di sofferenza degli Israeliti che erano sottoposti ai lavori

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forzati. Dal canto loro gli Egiziani avevano bisogno di rendere più sicure le loro frontiere    Mattoni per la costruzione fortificandole. A ciò provvedeva la massa di prigionieri e di persone sospette, come gli Ebrei. L’Egitto era un paese povero di pietra; per l’edilizia si ricorreva ai mattoni, impasto di argilla e di paglia mescolata insieme e consolidata a forza di piedi. Gli Ebrei furono costretti con la violenza a tali lavori e, feriti nel loro orgoglio d’uomini liberi, si opponevano caparbiamente a una simile condizione.

A dispetto di ciò crescevano di numero e gli Egiziani «furono presi di spavento di fronte agli Israeliti». Non avevano dimenticato le frequenti invasioni da parte dei popoli vicini e la calata e la dominazione degli Hyksos, venuti dall'Asia al tempo di Giuseppe. Ricorsero a tutti i mezzi per evitare il pericolo della loro presenza e della loro influenza. Richiesero perfino la collaborazione di levatrici per sopprimere i neonati maschi durante il parto. Le ostetriche, però, non si prestarono a questa forma di genocidio e il Signore le benedisse. Allora, il faraone dovette uscire allo scoperto e ordinò agli Ebrei «Gettate nel Nilo ogni figlio maschio che nascerà».

1,1. Storia di Mosè 2,1-7,7Nascita di Mosè (2,1-10) Su questo bambino, deposto in una cesta di papiro nelle acque

del Nilo e trovato dalla “figlia del faraone”, convergono tradizioni antiche e pennellate celebrative. Sicuramente vi è l'intento di esaltare la figura di Mosè, personaggio chiave nella storia d'Israele ed essenziale alla sua sopravvivenza come popolo. Mosè è nome egiziano e significa «figlio»; (la derivazione dall’ebraico «msh» [salvato dalle acque], non è originale). Allattato dalla madre naturale aveva piena coscienza della sua identità razziale. I tratti leggendari, che riempiono letteratura e spettacolo, traggono origine dagli scritti di Giuseppe Flavio e da Filone d’Alessandria.

Fuga di Mosè in Madian (2,11-22) «Mosè, cresciuto in età», si rese

conto dell'oppressione a cui erano sottoposti i suoi fratelli e arrivò ad uccidere un sorvegliante egiziano che maltrattava un Ebreo. La cosa non rimase nascosta e Mosè, temendo l'ira del faraone, si allontanò dall'Egitto.

Mosè «si fermò nel territorio di Madiam». Secondo la tradizione, i Madianiti abitavano ad oriente del golfo di Aqaba-Elat sul Mar Rosso, nella regione dell'Araba (oggi Arabia Saudita). Qui, invece, vivono nei pressi del monte Sinai. Accolto dal sacerdote Reuel (o Ietro oppure Olab), di cui aveva difeso le figlie al pozzo, ne sposò la primogenita, Sipporà. Al bambino che gli nacque diede il nome di Gherson, «perché diceva "Vivo come forestiero in terra straniera!». Il racconto non esaltante del matrimonio di Mosè tra gente nemica, garantisce la storicità del fatto.

Il roveto ardente e rivelazione del nome (2,23-3,15) La tradizione sacerdotale (fatta da un gruppo di sacerdoti per dare

l’ultimo ritocco ai libri sacri, dopo l’esilio babilonese nel secolo VI/V a.C.) riepiloga la situazione degli Ebrei in quel momento storico e prepara l'entrata

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in scena di Mosè. Il racconto nel capitolo terzo è fondamentale per la missione del liberatore e il futuro del popolo di Dio.

Il pastore Mosè «condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l'Oreb». Dal IV secolo d.C. si ritiene che l'Oreb sia l'attuale monte Sinai ai cui piedi si trova il monastero di santa Caterina d’Alessandria. Là è colpito dalla vista di un cespuglio che bruciava senza consumarsi. La curiosità lo spinse ad avvicinarsi per controllare il fenomeno. Ma l'Eterno che aveva scelto quella forma per rivelarsi ne bloccò l'incedere, dicendo «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo nel quale tu stai è suolo santo!». La zona sacra è stata sempre considerata carica d’energia divina ad essa l'uomo doveva avvicinarsi con rispetto. Ancor oggi i Musulmani, prima di entrare nelle moschee, si tolgono e fanno togliere i calzari.

La voce giunta dal roveto proveniva dal “Dio dei padri”. Istintivamente Mosè si copri il volto, per il timore di morire. Dalla voce seppe che Dio voleva la

liberazione del popolo ebreo. Il grido di sofferenza sotto l'oppressione egiziana saliva sino a lui. «Perciò va' Io ti mando dal faraone. Fa' uscire dall'Egitto il mio popolo, gli Israeliti».

Mosè rimase sbalordito. L'incombenza che gli si chiedeva era, a dir poco, umanamente impossibile. Innanzitutto, qual era il nome di questo Dio che gli proponeva un'impresa del genere Ed ecco la risposta: «Io sono colui che sono», in ebraico JHWH, quattro consonanti che corrispondono all'italiano Jahvé(h). La tradizione elohista (raccolta delle fonti orali provenienti dal regno d’Israele e trascritto nella Bibbia verso il 750 a.C., che chiamava Dio Elohìm) pone qui, per la prima volta, il nome di Jahvé, mentre quella jahvista lo utilizzava già correntemente (Gen 4,26).

Nel mondo semitico, il nome esprime la realtà stessa di una persona o di una cosa e chi se ne impossessa acquista potere su di essa. Il Signore presentandosi come “Jahvé” «Io sono» (esisto e proteggo il popolo d'Israele), non rivela la sua identità divina, ma si manifesta come Essere benefico, potente e operante nella storia. Per gli Ebrei Jahvé è rimasto un nome impronunciabile. A lui si sostituisce "Adonai" (Signore) o semplicemente "Shem" (il nome).

Jahvé, dopo aver rassicurato Mosè, aggiunse «Tu e gli anziani d'Israele andrete dal re di Egitto e gli direte "Il Signore. Dio degli Ebrei si è presentato a noi. Ci sia permesso di andare nel deserto. a tre giorni di cammino, per fare un sacrificio al Signore, nostro Dio». La missione affidatagli sarebbe stata accompagnata da prodigi e dal favore divino.

Poteri e aiuto concesso a Mosè (4,1-31) Jahvé con alcuni segni portentosi cercò di convincere Mosè a fidarsi di lui e gli accordò anche il potere di fare miracoli. Nonostante ciò egli rimaneva esitante e supplicò «Io non sono un buon parlatore non lo sono stato né ieri né ieri l’altro», perciò manda un altro. Ma Jahvé non era dello stesso parere «e gli disse "Non vi è forse tuo fratello Aronne, il levita Io so che lui sa parlare bene. Tu gli parlerai e porrai le parole sulla sua bocca e io sarò con la tua e la sua bocca e vi insegnerò quello che dovrete fare».

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Ogni via d’uscita gli era preclusa. Mosè «prese la moglie e i figli, li fece salire sull'asino e tornò nella terra d'Egitto. E Mosè prese in mano il bastone di Dio». A proposito di figli, il testo sacro finora ha parlato di uno solo (2,22 4,25). Il bastone consegnatogli dal Signore, detto “bastone di Dio”, sarà strumento di fatti strepitosi.

Del faraone, Dio dice «Io indurirò il suo cuore ed egli non lascerà partire il popolo». La Bibbia, per affermare la totale supremazia dell'Onnipotente, attribuisce a lui ogni cosa anche il male, che invece va addossato alla libera volontà dell'uomo. Non mancano, però, espressioni in cui si evidenzia la responsabilità dell'uomo (vedi Dt 7,10; Ger 31,29s ed Ez 18,20). L’atteggiamento di Jahvé verso Israele è quello di un padre per il «figlio primogenito»; se ne proclama go'el, ossia difensore, vendicatore di sangue (Gen 4,23s). Chi ne insidia la vita subirà lo stesso castigo nel primogenito.

È difficile decifrare i versetti 24-26, anche perché mancanti di un adeguato contesto. Si racconta che Sipporà, fungendo da sacerdotessa, circoncide il figlio e depone la parte asportata sul membro del marito pronunciando una misteriosa formula. «Si può congetturare che la non circoncisione di Mosè gli attiri la collera divina questa è calmata quando Sipporà ha circonciso realmente suo figlio e simulato una circoncisione di Mosè» (BJ).

A Mosè fuggiasco, che dal deserto tornava in Egitto, andò incontro il fratello Aronne; «lo incontrò al monte di Dio e lo baciò». Insieme s’incamminarono verso l'Egitto e riferirono quanto «il Signore aveva detto a Mosè. Allora il popolo credette».

 Il faraone inasprisce la condizione degli oppressi (5,1-6,1) Mosè e Aronne nel primo incontro con il faraone gli riferirono la volontà del

Dio degli Ebrei, che gli comandava di lasciare andare il suo popolo a sacrificare nel deserto. «Chi è il Signore, perché io debba ascoltare la sua voce e lasciare partire Israele». Nella risposta vi è tutta l'arroganza di chi si credeva manifestazione vivente delle divinità egizie e loro tutore. In più, la proposta avanzata in un periodo frenetico di costruzioni, aveva tutta l'aria di un sabotaggio e faceva crescere i sospetti di ribellione.

La replica del faraone fu dura. Ingiunse non solamente di produrre lo stesso numero di mattoni, ma di procurarsi anche la paglia necessaria per impastarli. Ai sorveglianti ebrei che se ne dolsero, il faraone rispose «Fannulloni siete, fannulloni Per questo dite “Vogliamo partire, dobbiamo sacrificare al Signore. Ora andate, lavorate!». E furono cacciati fuori. All’uscire, incontrarono Mosè ed Aronne e si scagliarono contro di loro, ritenendoli responsabili di quel che accadeva. Preso da sconforto, Mosè gridò al Signore «Perché dunque mi hai inviato». Jahvé lo rincuorò e gli promise che il faraone non solo avrebbe lasciato partire gli Israeliti, ma addirittura sarebbe stato costretto a cacciarli.

Nuovo racconto della vocazione di Mosè (6,2-7,7) La tradizione sacerdotale dà una nuova versione sulla

vocazione di Mosè. Mentre egli si trovava in Egitto, gli fu rivelato il nome di Jahvé «Dì agli Israeliti "Io sono il Signore! Vi sottrarrò ai lavori forzati degli Egiziani». Il Signore qui sta per Jahvé, nome che doveva sostituire quello di El Shaddaj (Dio onnipotente: Gen 17,1) in uso presso i patriarchi. Gli confermò

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l'incarico di ricondurre Israele nella terra dei padri e promise «Vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio, che vi sottrae ai lavori forzati degli Egiziani», e metterò in atto la mia potenza per farvi entrare nel paese di Canaan.

Gli Israeliti, conosciuto il vaticinio, «non l'ascoltarono, perché erano stremati dalla dura schiavitù». Dio impose a Mosè di presentarsi al faraone, ma l'ordine lo atterrì e lo riempì d’ansia. Aveva paura di affrontare una missione così rischiosa. Dio gli disse che sarebbe stato suo delegato nei riguardi del faraone, mentre al fratello Aronne spettava il compito di "profeta" o portavoce.

Il testo, poi, ricostruisce la genealogia della tribù di Levi, cui apparteneva Mosè e il fratello Aronne. Dio n’avrebbe fatto la tribù sacerdotale per diritto ereditario e Aronne ne sarebbe stato il capostipite. Da allora, i Leviti avrebbero esercitato l'ufficio sacerdotale di generazione in generazione (vedi 29,7-9).

Da un'ultima annotazione veniamo a sapere che «Mosè aveva ottant'anni e Aronne ottantatré, quando parlarono al faraone».

1,2. Le piaghe d'Egitto (7,8-13,16)Siamo soliti parlare delle «dieci piaghe d'Egitto». Nella Bibbia solo la decima,

ossia la morte dei primogeniti, ha il nome di piaga. Gli altri avvenimenti chiamati segni o prodigi, possono riferirsi a fenomeni naturali e atmosferici, che per il modo e la frequenza in cui si verificarono avevano lo scopo di eliminare l'opposizione del faraone. Sotto questo profilo hanno il significato d’avvenimenti punitivi (vedi Sal 78,43-51 105,27-36). Le «piaghe» nella tradizione jahvista sono sette e nella tradizione elohista e sacerdotale sono cinque.

Il bastone cambiato in serpente (7,8-13) L'arte magica era molto sviluppata in Egitto.

Quando il bastone di Mosè si trasformò in serpente, anche i maghi del faraone fecero altrettanto con i loro bastoni. Il serpente di Mosè mangiò gli altri, ma la cosa non impressionò granché il faraone.

Dopo quell’episodio, accaddero avvenimenti straordinari denominati "piaghe d'Egitto". Non è necessario spiegare questi fenomeni come strappo alle leggi fisiche molti sono connessi ad eventi naturali nella valle del Nilo. L'autore sacro non si pone questo problema. Gli preme solo evidenziare che Dio è intervenuto manifestando in maniera tangibile la sua potenza e il suo         Ramses II

amore. Per cui, prodigio o segno o miracolo in senso biblico è ogni fatto che manifesta la potenza divina e va inteso come richiamo a prestare attenzione alla sua presenza nascosta, a rendergli il tributo della lode e a guardarsi dall'ostacolarne la volontà.

Prima piaga l'acqua cambiata in sangue (7,14-25) Ci troviamo di fronte al primo fenomeno naturale ricorrente

in Egitto, chiamato “Nilo rosso” e interpretato come intervento di Dio a difesa del suo popolo. «Esso è causato in luglio-agosto dal fango della grande piena ormai in riflusso. Alcuni microrganismi rossastri presenti nell'acqua la rendono di un colore simile al sangue. Inoltre essi causano forti morie di pesci in seguito all'ossigeno che sottraggono alle acque» (Ravasi).

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«I maghi del faraone operarono la stessa cosa. Il cuore del faraone si ostinò e non diede loro ascolto». Riteneva che si trattasse d’espedienti magici; l'esperienza aveva insegnato a scavare pozzi per rifornirsi d’acqua potabile.

Seconda piaga le rane (7,26-8,11) Nella tradizione jahvista e sacerdotale le rane sono il flagello

che avveniva al ritirarsi della piena del Nilo. Gli acquitrini e le pozzanghere proliferavano di rane e rospi e ciò non sgomentava gli Egiziani. Stavolta le creature viscide erano così tante da riempire le case, entrando nei letti e in ogni utensile domestico. Il faraone disse a Mosè ed Aronne «Pregate il Signore che allontani le rane da me e dal mio popolo io lascerò partire il popolo, perché possa sacrificare al Signore». Il giorno dopo le rane delle case, dei cortili e dei campi erano tutte morte. Passato il pericolo, il faraone dimenticò quel Dio che lo aveva liberato e non lasciò partire gli Ebrei.

Terza piaga le zanzare (8,12-15) Nei mesi d’ottobre-novembre, l'Egitto poteva pullulare di sciami di

zanzare non molto pericolose, ma certamente moleste. Secondo l'interpretazione di Giuseppe Flavio, forse si trattava di pidocchi e parassiti che prosperavano nelle zone paludose, lasciate dal riflusso del Nilo. I maghi, ora, non sono in grado di riprodurre il fenomeno. Si rivolsero al faraone per dirgli «È il dito di Dio», ossia ci troviamo di fronte a una potenza che supera la nostra magia. Egli non se ne dette per inteso.

Quarta piaga i tafani (8,16-28) Alla tradizione jahvista si deve la descrizione della

quarta piaga l'invasione di mosche tropicali. Esse comparivano in Egitto in dicembre-gennaio, quando il Nilo decresceva e poi sparivano. A prova che un tale intervento era un castigo di Dio, questi insetti risparmiarono la terra di Gosen dov'erano stanziati gli Israeliti.

L'esposizione di questi flagelli segue uno schema fisso: minaccia di Dio, esecuzione del castigo, finto ravvedimento del faraone, intercessione di Mosè, cessazione della punizione e nuova ostinazione del faraone. Nel caso presente, il faraone aveva consentito l'uscita degli Ebrei dall'Egitto, a patto che non si allontanassero troppo. Passato il pericolo ci ripensò «e non lasciò partire il popolo».

Quinta piaga la morte del bestiame (9,1-7) Dio intervenne ancora attraverso i suoi servi e mandò una

peste che provocò una grand’epidemia di bestiame nell'Egitto, esclusa la terra di Gosen. Con enfasi il testo dice che «morì tutto il bestiame degli Egiziani». In seguito sapremo che ne fu colpito solo una parte (vv 19-21).

Sesta piaga le ulcere (9,8-12) Un po’ di fuliggine gettata in aria da Mosè produsse sulla pelle degli

uomini e delle bestie d’Egitto ulcere e pustole. «Probabilmente si tratta della cosiddetta "scabbia del Nilo" causata dal gran caldo, che infierisce soprattutto nel periodo di inondazione del fiume. È una malattia della pelle, fastidiosa, ma non mortale» (Ravasi). Coperti da ulcerazioni, i maghi non si presentarono al faraone perché si consideravano impuri.

Settima piaga la grandine (9,13-35) Le antiche tradizioni jahvista ed elohista raccontano il

settimo flagello si tratta di una violenta grandinata mai vista in Egitto. Il

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fenomeno, rarissimo nel periodo invernale, era deleterio per lo sviluppo dei cereali. Il faraone, sorpreso, ebbe un attimo di resipiscenza. Mandò a chiamare Mosè ed Aronne e disse «Questa volta ho peccato il Signore è il giusto io e il mio popolo siamo colpevoli». Reiterò le promesse di liberazione che si rimangiò subito, al cessare della grandine. Non voleva arrendersi a quell'oscuro Dio d'Israele.

Il ripetersi di fenomeni nefasti evidenzia l’attacco sferrato da Jahvé alle divinità egizie, di cui il faraone era incarnazione e pontefice. Come loro campione, si opponeva tenacemente a un Dio possente e sconosciuto che combatteva a fianco di un popolo di schiavi.

Ottava piaga le cavallette (10,1-20) Ancor prima che un tale flagello, annunciato da Mosè ed

Aronne si scatenasse, «i ministri del faraone gli dissero "Lascia partire questa gente perché serva il Signore suo Dio Non ti accorgi ancora che l'Egitto va in rovina?». Ma i sospetti del re egiziano circa la volontà degli Ebrei di voler abbandonare il paese non si placavano perciò intendeva farne partire solo una parte e senza il bestiame.

Allora Mosè, stendendo il bastone, attirò sul paese un numero sterminato di cavallette, tanto che il cielo ne fu oscurato e divorarono ogni erba e pianta. Davanti allo spettacolo desolante, il faraone convocò Mosè e, mostrando rincrescimento, ottenne l’allontanamento del castigo. Poi fu ripreso dalla sua ostinazione e continuò a ribellarsi al Dio d'Israele, che reclamava la liberazione del suo popolo.

Nona piaga le tenebre (10,21-29) La penultima piaga, «pur evocando un fenomeno naturale,

detto popolarmente "lo scirocco nero", che causa tempeste di sabbia capaci di oscurare il cielo, ha un valore di "segno" lo svanire della luce e l'irrompere delle tenebre preparano la notte della pasqua, notte di catastrofe per gli Egiziani, notte di festa per Israele» (Ravasi).

Il vento tenebroso e fastidioso oscurava l'Egitto, ma non il territorio degli Ebrei. Di fronte all'ennesima calamità, il faraone promise a Mosè che avrebbe consentito la partenza di tutto il popolo. «Solo rimangano le vostre greggi e i vostri armenti». Mosè ripeté che Dio non soltanto chiedeva l'uscita degli Ebrei, ma anche di tutti i loro averi. Al colmo dell'irritazione il faraone, rispose «Vattene da me Guardati dal ricomparire davanti a me, perché il giorno in cui rivedrai il mio volto, morirai. Mosè disse "Hai parlato bene non vedrò più il tuo volto».

L'annunzio della morte dei primogeniti (11,1-10) La lotta ingaggiata dal Dio d’Israele con le divinità egiziane è

giunta ormai all’epilogo. «Ancora una piaga manderò contro il faraone e l'Egitto dopo di che egli vi lascerà partire di qui, anzi vi caccerà via di qui». Così è annunziato il terribile castigo che segnerà la fine dell'oppressione e l'aurora della libertà. Verso la mezzanotte «Io uscirò attraverso l'Egitto morirà ogni primogenito nella terra d'Egitto, dal primogenito del faraone che siede sul trono fino al primogenito della schiava che sta dietro la mola». Jahvé, come un vendicatore di sangue (4,23), con la morte dei primogeniti (bestiame compreso), fece piombare una coltre di dolore e di pianto su tutto l’Egitto.

Istituzione della Pasqua (12,1-28)

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La "pasqua" (in ebraico pesàh) è interpretata dai cristiani come “passaggio”. «Il rito descritto dal testo rivela la sua origine nomadica e pastorale trasmigrazione verso nuovi pascoli al plenilunio di primavera, abbigliamento da viaggio (vesti cinte e bastone), cibi di fortuna (erbe amare e pani senza lievito cotti su lastre di pietra), sacrificio di auspicio per la fecondità del gregge (l'agnello non era spezzato perché idealmente era destinato a rinascere nei futuri parti del gregge), sangue propiziatorio contro le insidie del viaggio, versato sugli stipiti e sull'architrave delle case e delle tende» (Ravasi: Nuova…).

«Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, il primo mese dell’anno». Si riferisce al mese di Abib o della spiga, che ricorreva nel periodo primaverile di marzo-aprile. Dopo l'esilio babilonese sarà chiamato Nisan. Le diverse tradizioni si fondono in questo capitolo e trasformano l'avvenimento migratorio pastorale di primavera in un evento di salvezza. Jahvé libera il suo popolo e colpisce l'Egitto nei primogeniti. Vengono, inoltre, fissate le coordinate liturgiche della “pasqua” per tramandarne la memoria «Questo giorno sarà per voi un memoriale lo celebrerete come festa del Signore di generazione in generazione». La «Pasqua cristiana» s’inserisce in quest’ottica in essa Cristo, Agnello di Dio, arrecherà la liberazione e la salvezza definitiva all'umanità intera.

Il termine memoriale (in ebraico ziqqaròn) realizza e rivive nel presente un evento del passato. Tanto che la Pasqua s’inserisce nell'oggi d’ogni generazione come fatto attuale e reca la salvezza operata da Dio nel passato.

La festa degli Azzimi, ossia dei "pani senza lievito", era distinta dalla Pasqua. L'Esodo, invece, le unisce in un'unica solennità e le colloca in un ambiente agricolo-sedentario, dove per sette giorni si mangiava pane azzimo, fatto con le primizie dell'orzo (si credeva che il vecchio pane fermentato nuocesse al buon raccolto). In tale fusione, si può scorgere il proposito di collegare i due doni di Jahvé la liberazione dalla schiavitù e l'elargizione della terra.

Dopo la parentesi sulla Pasqua e la festa degli Azzimi, Mosè ordinò di preparare e immolare un agnello il giorno quattordici sera di quel mese (Abib). Indicò come utilizzarne le parti e tramandarne la memoria. Quando i vostri figli ve ne chiederanno il significato, risponderete «È il sacrificio della Pasqua per il Signore, il quale è passato oltre le case degli Israeliti in Egitto», mentre colpiva i primogeniti del paese.

10ª piaga la morte dei primogeniti (12,29-36) «A mezzanotte un grande grido scoppiò in Egitto, perché non

c'era casa dove non ci fosse un morto». Di fronte all'eccidio, il faraone intimò a Mosè di abbandonare il paese con il suo popolo e gli armenti. Perfino i sudditi incalzavano gli Ebrei, offrendo oggetti d'oro e d'argento, per allontanarne la maledizione.

La partenza degli Israeliti (12,37-51) «Gli Israeliti partirono da

Ramses alla volta di Succot, in numero di seicentomila uomini adulti, senza contare i bambini». Cifra sicuramente iperbolica con

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l'aggiunta delle donne, dei bambini ed altri profughi si arriverebbe a più di due milioni. «Probabilmente si tratta di interpretare correttamente il termine ebraico elef che, oltre a significare "migliaia", può anche indicare i "capi di famiglia". In questo senso si può parlare di circa 5.000/6.000 persone. Esodo 23,29-30 e Deuteronomio 7,7 alludono a un piccolo popolo in marcia verso la terra promessa» (Ravasi). Secondo quanto si afferma subito dopo, la loro permanenza in Egitto si era protratta per «quattrocento trent'anni». La cifra non va presa in senso assoluto, ma con una certa libertà (Gen 15,13 At 7,6 13,20 1Re 6,1).

Si ritorna alla Pasqua precisandone le condizioni per parteciparvi. La celebrazione spetta di diritto ad ogni ebreo. «Se un forestiero soggiorna presso di te e vuol celebrare la Pasqua del Signore, sia circonciso ogni suo maschio della sua famiglia». Quest’insieme di prescrizioni e di "aggiornamenti" si sono accumulati nel testo lungo i secoli, come segno di fedeltà alle origini.

I primogeniti consacrati al Signore (13,1-16) «Il Signore disse a Mosè "Ogni primogenito di uomini o di

animali appartiene a me». Per ricordare l'esodo, quando Dio intervenne con mano potente per liberare Israele dalla schiavitù egiziana, i primogeniti dovevano essere consacrati al Signore. «Riscatterai ogni primogenito dell'uomo tra i tuoi discendenti». Il prezzo del riscatto per il primo figlio era «di cinque sicli d'argento» (Nm 18,16). I primogeniti di sesso maschile degli animali, invece, dovevano essere sacrificati, fatta eccezione dell'asino che, essendo animale impuro e non atto al sacrificio, si sostituiva con un altro oppure si abbatteva. I ministri del culto al servizio della liturgia del tempio e di quella sinagogale era demandata la tribù di Levi (Nm 3,12).

1,3. Uscita dall'Egitto e inseguimento (13,17-14,31)Partenza degli Israeliti (13,17-22) Abbandonato l'Egitto e muovendosi verso la libertà, Israele

aveva davanti a sé due itinerari percorribili: la via del lungo mare Mediterraneo e la via del deserto. Dio fece evitare la via del mare certamente più diretta ma sottoposta a severi controlli e lo condusse «per la strada del deserto verso il Mar Rosso». Questa pista carovaniera era più difficile e lunga, però meno sorvegliata dalle pattuglie egiziane e più sicura. Il Mar Rosso sta qui per “yam suf”, ossia "Mare dei giunchi o delle canne". «Il “Mar Rosso”, dicitura derivata dalla versione greca e latina, in realtà è nel testo ebraico il “mare delle canne“ o “dei giunchi” o “il mare di Suf» (Bibbia via), ossia una zona paludosa presso i Laghi Amari, situati nella laguna a sud est del delta del Nilo. Jahvé stesso accompagnava questo popolo in cammino con una colonna di nubi che, di giorno, lo proteggeva dal sole e di notte illuminavano l'accampamento.

L'inseguimento del faraone e passaggio del Mare (14,1-31) L'esodo degli Ebrei non fu certo una piacevole passeggiata. Alle

difficoltà del percorso si aggiunse la risorta volontà del faraone di riconquistare quel gruppo di schiavi fuggiaschi, che inseguì con i suoi carri da guerra. Uno sgomento mortale invase gli Ebrei sentendo i cavalli alle loro spalle. Cominciarono ad inveire contro Mosè. Il quale disse «Non abbiate paura Siate forti e vedrete la salvezza del Signore, il quale oggi agirà per voi perché gli Egiziani che voi oggi vedete, non li rivedrete mai più».

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Il passaggio del così chiamato “Mar Rosso” ci è pervenuto in due versioni. La più recente e spettacolare (tradizione sacerdotale del VI/V secolo a.C.), ci mostra Mosè nell'atto di stendere il bastone sul mare e dividere le acque che formarono una muraglia a destra e a sinistra. Sul fondo prosciugato passavano gli Ebrei a piede asciutto. In quella jahvista (del secolo X a.C.), Mosè «stese la mano» e Jahvé fece soffiare un forte vento che disseccò il mare. Dopo il passaggio degli Israeliti le acque, nel rifluire, sommersero gli Egiziani che vi si erano avventurati. Davanti al prodigio Israele «temette il Signore e credette in lui e in Mosè suo servo».

Canto di vittoria (15,1-21) La scena dell'attraversamento delle acque e dello scampato

pericolo fu così sorprendente e inaudita che, dopo l'ansia e il silenzio, il popolo esplose in un canto di vittoria e in un inno di gloria a Jahvé liberatore. È il cosiddetto "Cantico di Mosè", usato anche nella liturgia cristiana. Prendendo l’avvio dalla liberazione dall'esercito egiziano, esalta la salvezza operata da Dio in quella circostanza e nel resto della storia. Il nucleo primordiale ed originario è messo in bocca a Maria, sorella di Mosè ed è accompagnato dalla danza. Invita a lodare Jahvé «Voglio cantare al Signore, perché ha mirabilmente trionfato cavallo e cavaliere ha gettato nel mare».

Dopo il versetto 12, la lode si amplifica fino a racchiudere gli altri fatti gloriosi compiuti da Israele con il sostegno di Jahvé, spaziando dalla conquista della terra di Canaan all'edificazione del tempio di Gerusalemme. 

La liberazione dal mare e dagli Egiziani è l’avvenimento fondante del popolo d’Israele; le posteriori revisioni bibliche ne hanno sempre conservato il valore profetico e il profondo spessore religioso. Il ritornarvi di continuo è testimonianza sicura della storicità del fatto e, in più, professione di fede in Jahvé, tutore della sua libertà.

2. IL CAMMINO nel DESERTO (15,22-18,27)La faticosa attraversata del deserto crea problemi e continue mormorazioni

da parte degli Ebrei, fino a rimpiangere la schiavitù. Dio non tralasciò di sostenerli nell’aspro cammino verso la libertà.

La sosta nell'oasi di Mara (15,22-27) Quando, a distanza i fuggiaschi

sfiniti videro lo specchio d'acqua dell'oasi di Mara (ebraico "amara"), si sentirono rivivere. L'acqua, però, era salmastra. Protestarono contro Mosè che invocò il Signore, gettò un legno sulla superficie dell'acqua e la rese potabile. Ammonì il popolo ad evitare la mormorazione contro Dio, perché avrebbe scatenato su di loro castighi pari a quelli degli Egiziani. Poi, si spostarono verso Elim (ebraico "alberi") e là trovarono «dodici sorgenti di acqua e settanta palme».

La manna e le quaglie (16,1-36)

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L'acqua c'era e abbondante: mancava il cibo. Di nuovo gli Israeliti si scagliarono contro Mosè. Gli rinfacciarono la mancanza di carne, mentre in Egitto ce n’era in abbondanza. «Ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine». Le contestazioni degli Ebrei qui e altrove sono espresse dal verbo lwn, "mormorare" col senso di «un'opposizione aspra e insistente nella pretesa di suggerire a Dio come dovrebbe guidare la storia e gli avvenimenti» (Ravasi).

La simultaneità in questo capitolo della manna e delle quaglie, «pongono un problema» (BJ). I prodigi avvennero a molta distanza l’uno dall’altro. La "manna", interpretata in modo naturalistico, proveniva dalla secrezione d’insetti che vivevano su certe specie di tamerici situate nella regione centrale della penisola del Sinai. Le quaglie, invece, migravano dall'Europa all'Africa sorvolando il Mediterraneo e, a causa del forte vento, cadevano sfinite sulla costa nord della penisola. Si tratta di due luoghi lontani e forse alludono a due gruppi ebraici probabilmente diversi, l’uno cacciato dal faraone e l’altro in fuga con Mosè nel deserto.

«Al tramonto mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane saprete che io sono il Signore vostro Dio». Della manna è detto che quando lo strato di rugiada svanì dai dintorni dell'accampamento, «ecco, sulla superficie del deserto c’era una cosa fine e granulosa». Gli Ebrei si chiesero cosa fosse, da ciò il nome di "manna". «È il pane che il Signore vi ha dato in cibo». Poi è spiegato come raccogliere questo cibo e conservarlo per il sabato.

Occorreva, altresì, tramandarne la memoria ai posteri. Un'anfora di manna doveva essere custodita «davanti alla Testimonianza», ossia presso le tavole della legge contenute nell'arca dell'alleanza. La manna, nel Nuovo Testamento, è diventata il simbolo dell'eucaristia (Gv 6,26-58).

L'acqua scaturita dalla roccia (17,1-7) Procedendo oltre, gli Ebrei entrarono nel deserto vero e proprio,

quello di Sin al sud della penisola sinaitica, brullo e disseminato di rare oasi. In una di esse, Refidim, «pianure», «non c'era acqua da bere per il popolo». Mosè si rese conto dell'esasperazione per una tale mancanza e chiese aiuto al Signore, che gli intimò di prendere il bastone e di colpire la roccia. Obbedendo alla sua parola, percosse la roccia con il bastone e ne fece scaturire un'abbondante sorgente d'acqua. «Io starò davanti a te sulla roccia, sull'Oreb» sembra che l'Oreb o “monte Sinai” sia un'interpolazione.

«Chiamò quel luogo Massa ("prova") e Merìba ("contestazione"), a causa della protesta degli Israeliti». La tradizione biblica dà un significato negativo a queste due località ed esorta ad evitare atteggiamenti di denuncia nei confronti di Dio (vedi Salmo 95,8). Numeri 20,2-13 afferma che fu quello il luogo in cui Mosè commise una colpa non spiegata, che gli impedì di entrare nella terra promessa.

Combattimento contro Amalèch (17,8-16) Gli Amaleciti, nemici d’Israele come i Madianiti e i Keniti,

abitavano il Negheb e le montagne di Seir a nord est della penisola sinaitica, che percorrevano in lungo e in largo. Non è improbabile che la battaglia sia scoppiata per il possesso delle sorgenti d'acqua presso le oasi è certo che fu vinta per intercessione di Mosè. Dalla collina, dove seguiva la battaglia, pregava il Signore a braccia alzate e faceva prevalere gli Ebrei quando preso dalla stanchezza le lasciava cadere, Israele perdeva. Aronne e Cur lo fecero

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sedere su una pietra e gli sostennero le mani fino al tramonto. «Giosuè sconfisse Amalech e il suo popolo passandoli poi a fil di spada».

Su Amalèch, secolare rivale d'Israele, cade un'oscura maledizione di sterminio e, per la prima volta, «il Signore disse a Mosè "Scrivi questo per ricordo nel libro e mettilo negli orecchi di Giosuè». Queste parole accreditano la tradizione che attribuisce al “liberatore” i primi libri della Bibbia e il dovere di trasmetterne la memoria o “tradizione”. Giosuè sarà il successore di Mosè e introdurrà Israele nella terra di Canaan.

Mosè incontra Ietro (18,1-11) «Ietro dunque, suocero di Mosè, con i figli e la moglie di lui venne

da Mosè nel deserto, dove era accampato, presso la montagna di Dio». Ietro era un sacerdote di Madian (Arabia) Mosè, fuggito dall'Egitto, n’aveva sposato la figlia Sipporà dalla quale gli erano nati due bambini. Lei era stata rimandata presso il padre nel periodo più pericoloso dell'esodo-fuga degli Ebrei.

L'incontro fu accompagnato da effusioni cordiali e dal racconto delle vicissitudini superate, a lode di Jahvé. Ietro riconobbe la grandezza del Dio d'Israele ed esclamò «Benedetto il Signore, che vi ha liberato dalla mano degli Egiziani... Io so che il Signore è più grande di tutti gli dei». Anzi, nei pressi della “santa montagna” gli offrì un sacrificio rituale, terminato con un sontuoso banchetto.

Istituzione dei giudici (18,13-27) Ietro, vedendo che il lavoro del genero nel giudicare le

vertenze del popolo era troppo gravoso, gli suggerì di creare una struttura politico-amministrativa, ordinata gerarchicamente e messa in mano ad «uomini validi che temono Dio, uomini retti che odiano la venalità». La proposta fu accettata di buon grado. Un’istituzione del genere, suppone un popolo già numeroso e sedentario; l'origine è certamente più tardiva, ma l’averla attribuita a Mosè le conferisce prestigio.

3. L'ALLEANZA DEL SINAI (19,1-24,18)L'alleanza stipulata al monte Sinai impegnava tutto il popolo all'osservanza

del Decalogo e del codice dell'alleanza e costituiva la carta d'identità d'Israele. In caso di violazione di queste norme, l’alleanza si ritorceva contro di esso. Con l’andar del tempo, le leggi fatte derivare da questo «patto» diventeranno la carta magna del giudaismo e il codice della sua sapienza (Sir 24,9,27).

L'arrivo al Sinai e la manifestazione di Dio (19,1-25)

Sinai, la montagna fumante

Mosè ritornò al Sinai, la montagna della sua chiamata, non però da solo ma alla guida dei fuggiaschi dall'Egitto e dopo tre mesi di peregrinazione. Gli Israeliti, lasciato Refidim, «giunsero al deserto del Sinai, dove si accamparono, davanti al monte». Le scarse notizie geografiche del

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testo non consentono l'identificazione esatta di questa e d’altre località. «Dal secolo IV d.C., la tradizione cristiana pone il Sinai a sud della penisola che da esso trae nome, esattamente sul jebel Mousa di 2.245 metri» (BJ). Opinioni diverse, anche recenti, non riscuotono molto credito.

Il Dio che si era mostrato benevolo verso gli Ebrei, voleva ora farli sua «proprietà particolare fra tutti i popoli», ossia stringere con loro un rapporto privilegiato li voleva «un regno di sacerdoti e una nazione santa», cioè una comunità consacrata come i sacerdoti a proclamare le meraviglie di Dio ed annunziare e portare a tutte le genti la salvezza. La missione fu accettata con entusiasmo. «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo».

Prima di mostrarsi sul Sinai, Dio ordinò a Mosè di purificare il popolo e di impedirgli di «salire sul monte e dal toccarne le falde», pena la morte. A questo punto la narrazione diventa piuttosto confusa, perché mescola insieme tradizioni diverse che sovrappongono i vari fenomeni delle manifestazioni divine, quali la tempesta, il terremoto e l'eruzione vulcanica. Unico elemento emergente e preciso in questo quadro è la voce di Jahvé, affascinante e misteriosa.Raggiunta la santa montagna, mentre all'intorno si scatenava la natura, «Mosè parlava e Dio gli rispondeva con una voce». I versetti 21-24 sono un'aggiunta da collegare ai versetti 12-13. Tra l'altro, i sacerdoti non erano ancora stati istituiti. Infine, «Mosè scese verso il popolo e parlò loro».

Contenuto dell’alleanza (20,1-26) L'alleanza che stava per essere

stipulata tra Dio e Israele comprendeva un prologo con la presentazione dei contraenti esponeva le clausole, ossia l'osservanza del Decalogo e del Codice dell'alleanza; prometteva benedizioni a chi osservava il patto e minacciava maledizioni a chi lo infrangeva.

Il Decalogo o "dieci parole" erano il cuore della legge mosaica. I primi comandamenti regolavano i rapporti tra l'uomo e Dio gli altri, le relazioni sociali.

Jahvé, dopo aver ricordato «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla condizione servile», detta il primo Comandamento «Non avrai altri dei di fronte a me». Egli deve essere adorato come l'unico vero Dio, servito fedelmente e con un culto di totale sottomissione. Israele è sua “proprietà” ed egli n’è "geloso" lo ricolma di benedizioni, ma è anche pronto a punirne l'infedeltà «fino alla terza e alla quarta generazione».

«Non ti farai idolo né immagine alcuna». Insieme all'idolatria, o all'adorazione delle varie forze della natura, è proibita anche la rappresentazione figurativa della divinità, come avveniva negli altri popoli orientali. Per gli Ebrei questo diventa il 2° Comandamento, mentre il 9° e il 10° (desiderare la roba e la donna d’altri) fa parte di un solo Comandamento.

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ESODO

Il Nuovo Testamento ritiene superata questa norma perché Dio da invisibile spirito è diventato visibile nel Figlio. Gesù Cristo ha assunto carne umana come noi. Era ed è rimasto Dio, pur diventando uomo: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). La nuova condizione di «Dio incarnato» lo rende visibile e palpabile e quindi anche rappresentabile. Il concilio Costantinopolitano III del 681 consentì sia la riproduzione di icone di Cristo sia la venerazione di quei servi di Dio, trasfigurati dall’insegnamento divino.

La seconda parola «Non pronuncerai invano il nome del Signore», non si riferisce alla bestemmia, cosa impensabile in Oriente, quanto all'inutile religiosità magica, che usa ed abusa il nome di Dio. Il giudaismo arriverà a rendere impronunciabile il nome di Jahvé.

«Ricordati del giorno del sabato per santificarlo» così suona la "terza parola". Il sabato, che significa "cessare, riposare", è un giorno di riposo settimanale connesso alla creazione (Gen 1-2) un “riposo” che permette al fedele, mediante la liturgia, di entrare in comunione con il suo Dio. L'osservanza dell'istituzione del sabato è molto antica in Israele, ma dall'esilio di Babilonia acquistò una tale importanza da diventare la caratteristica dell'Ebreo.

Il quarto comandamento passa dai rapporti con Dio a quelli dell’ambito familiare e sociale. «Onora tuo padre e tua madre», significa avere atteggiamenti e comportamenti d’amore verso i genitori e verso i membri del clan familiare, da estendere poi agli altri componenti della società.

Alla “quinta parola”: «Non ucciderai» è affidata la difesa della vita. Si tratta, però, di un diritto che non esclude la “guerra santa” con le sue atrocità e la “legge del taglione”. Il cammino per arrivare al discorso della montagna di Gesù, ossia all'amore per i nemici, è ancora lungo.

Il sesto Comandamento: «Non commetterai adulterio» è un precetto che concerne la fedeltà coniugale e non la morale sessuale in genere, che è regolata da altre leggi.

«Nel suo significato originale la settima "parola" Non ruberai riguardava la libertà personale, estesa poi alla proprietà familiare» (Ravasi). Si riferiva ai sequestri di persone per ridurle in schiavitù o spogliarle dei loro beni.

L'ottava parola suona «Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo». Ha di mira la verità nelle deposizioni processuali e, più in genere, nell’insieme dei rapporti umani. Le stesse parole si ritrovano nel primo comma del Codice babilonese di Hammurabi.

«Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo...». Abbiamo detto che per gli Ebrei il nono e il decimo comandamento formano un tutt'uno e si riferiscono al diritto di proprietà d’ogni famiglia che, allora, comprendeva anche la moglie, considerata patrimonio del clan. Non dobbiamo dimenticare che Dio parla in tempi e culture diverse dalla nostra.

3,1. CODICE DELL'ALLEANZA (20,22-23,33)Dopo aver enunciato il contenuto del patto dell’alleanza, ossia delle Dieci

parole o Comandamenti, senza che ne segua una stipula, si introduce una raccolta di leggi posteriori al Decalogo che presuppongono l'insediamento degli Ebrei nella terra di Canaan. Attribuendole a Mosè, acquistano una forza speciale. «I contatti con il codice di Hammurabi, il codice hittita e il decreto di

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Horembeb non testimoniano una dipendenza diretta, ma una fonte comune» (BJ). Non siamo però ancora all’alleanza.

Regole per il culto (20,22-26) Ripetutamente Dio ammonisce il suo popolo a non fabbricarsi idoli

d'argento o d'oro. L'altare per le offerte a Jahvé doveva essere costruito con pietra "vergine", ossia non lavorata con lama metallica. In seguito si daranno altre istruzioni.

Legislazione sociale d'Israele (21,1-37) Prescrizioni di valore sociale:La schiavitù. Nell'Antico Oriente non aveva limiti di tempo qui si stabilisce

che lo schiavo ebreo doveva essere rimesso in libertà dopo sei anni di lavoro. Tuttavia se a causa della moglie e dei figli, proprietà del padrone, voleva rimanere con lui, gli si forava un orecchio, segno di schiavitù a vita. «Un paragrafo particolare è riservato alle giovani donne vendute come schiave e destinate a essere concubine le norme sono molto precise e riguardano una società antica con marcato sentimento "maschilista" (Ravasi).

L'omicidio. È punito severamente: «Colui che colpisce un uomo causandone la morte, sarà messo a morte». Nell’ipotesi di un omicidio colposo, vale a dire commesso involontariamente, il reo poteva trovare scampo dal “vendicatore di sangue” presso le cosiddette "città di rifugio". Neppure si va per il sottile con reati che sembrano minori e, invece, erano puniti con la morte.

La legge del taglione (dal latino talis tale il danno, tanta la pena). Prescrive per ogni crimine la pena proporzionata e non superiore al male ricevuto. Intendeva evitare eccessi di vendetta. Circa i danni causati dal bue, o meglio dal toro, erano previsti arbitrati, per noi obsoleti.

Leggi sulla proprietà (22,1-23,9) Il diritto di proprietà prevede che se un ladro ruba di notte e

«viene colpito e muore, non vi è vendetta di sangue», né si istruisce alcun processo, trattandosi di un delitto colposo. Ma, se l'omicidio capita di giorno, scatta il procedimento e si dovrà pagare l'indennizzo.

La stessa cosa vale per chi pascola su un campo altrui o vi appicca il fuoco. In una civiltà rurale è naturale che i furti di bestiame siano contemplati e risolti secondo i casi. Se non c’è accordo sul valore d’animali e oggetti affidati in custodia ad altri, fra le due parti si ricorrerà a «un giuramento per il Signore» dal significato sacro e risolutivo.

«Quando un uomo seduce una vergine non ancora fidanzata e si corica con lei, ne pagherà il prezzo nuziale e lei diverrà sua moglie». Essendo la verginità condizione tassativa per il matrimonio, il reo doveva sposarla. Qualora il padre della ragazza non fosse stato d’accordo sul matrimonio, bastava un risarcimento equivalente alla dote nuziale.

Sia messo a morte chi esercita la magia e anche chi ha rapporti con una bestia. «Colui che offre un sacrificio agli dèi, anziché al solo Signore, sarà votato allo sterminio». Lo sterminio era la distruzione totale degli abitanti di una città compresi gli animali, secondo la prassi della «guerra santa».

Segni di pietà e attenzione ai deboli chiudono l’elenco delle severe norme finora esaminate. Riguardano i forestieri e soprattutto le vedove e gli orfani. Non avendo più un difensore naturale nel marito o nel padre, Dio diventa loro

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tutore e vindice (go'el). Anche i poveri vanno trattati con rispetto. Non si può praticare l'usura nei loro confronti e neppure esigere gli interessi. Bisogna restituire il mantello preso in pegno, perché al tramonto è la coperta degli indigenti per ripararsi di notte.

«Non bestemmierai Dio e non maledirai il capo del tuo popolo». Si tratta di un’asserzione generale contro la maldicenza. Altrove, la bestemmia contro Dio, è punita con la lapidazione (Lv 24,10-16).

«Voi sarete per me uomini santi». La disposizione non va intesa in senso morale, ma come osservanza delle regole che danno accesso al culto, quali l'astenersi dai cibi impuri o evitare i luoghi che possono contaminare.

«Non spargerai false dicerie». Le parole devono rispecchiare la verità sia in tribunale col respingere ogni corruzione giudiziaria, sia fuori di esso. Persino nei confronti dei nemici bisogna mostrarsi generosi, riportandone gli animali smarriti e aiutandoli. Seguono altre norme di benevolenza.

Calendario delle feste (23,10-33) Per quanto riguarda l'ambito religioso, in primo luogo si affronta la

questione del settimo anno dei terreni agricoli. Per sei anni si coltiveranno, il settimo anno riposeranno per rinnovarsi, ma soprattutto per lasciare ai poveri quanto producono spontaneamente. Si potrebbe pensare ad un "sabato della terra".

Oltre al riposo settimanale, l'anno ebraico era scandito da tre grandi feste la Pasqua che cadeva in primavera, nel mese di Abib (poi di Nisan) e ricordava l'esodo la festa della mietitura all'inizio dell'estate e la festa autunnale del raccolto. Queste tre celebrazioni corrispondenti a Pasqua, Pentecoste e festa delle Capanne avrebbero avuto una datazione e rito definitivo in seguito, con l'entrata nella terra di Canaan. Nel testo non possiedono ancora una data fissa.

«Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre» è una curiosa costumanza cananea, segnalata ad Ugarit. In forza di essa, ancor oggi gli Ebrei non mangiano carne insieme ai latticini.

A conclusione del «Codice dell'Alleanza», ossia del blocco di leggi aggiunte posteriormente ai Dieci Comandamenti, risuona un appello solenne ad Israele in cammino verso la “terra promessa”: «Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato». In questi versetti di sapore deuteronomistico, l'angelo di Dio li avrebbe guidati alla conquista progressiva della terra di Canaan. Ad Israele era proibito di allearsi con i popoli che l'occupavano e a prostrarsi «davanti ai loro dèi».

La vasta estensione dei confini d'Israele (versetto 31), che andava dal golfo d’Aqaba sul Mar Rosso, al Mediterraneo e dal Sinai all'Eufrate, è piuttosto eccessiva anche per il tempo di Davide e di Salomone.

3,2. RITO dell'ALLEANZA (24,1-18)Questo brano contiene due redazioni sulla stipula dell'Alleanza conclusa

al monte Sinai. Nella prima, attribuita alla tradizione jahvista (vv. 1-2.9-11), «Mosè salì verso il Signore con Aronne, Nadab e Abiu e settanta anziani». Essi furono spettatori di una grandiosa manifestazione di Jahvé e non morirono. «Contro i privilegiati degli Israeliti non stese la mano; essi videro Dio e poi mangiarono e bevvero». L'alleanza è quindi sancita nella cornice di una

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maestosa teofania di Dio, seguita da un sacrificio e un banchetto sacro, con le carni della vittima.

Nella seconda, appartenente al documento elohista (vv. 3-8), è scritto che Mosè riferì al popolo le clausole del patto, accettate da tutti con entusiasmo. Poi «eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele». Fece offrire olocausti e sacrifici di comunione. Metà del sangue delle vittime fu versato sull'altare (simbolo di Dio) e metà su Israele. Mosè aspergendo il popolo diceva: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole». A questo rito si riferirà Gesù istituendo l'eucaristia (1Cor 11,25).

4. COSTRUZIONE del SANTUARIO, arredi e ministri (cc 25-31)Ancora una pausa prima di riprendere il discorso sull’alleanza. La tradizione

sacerdotale amalgama ad elementi antichi, come l'arca e la tenda d’origine mosaica, i successivi sviluppi del culto divino. È un espediente per riportare al momento dell'alleanza le solenni cerimonie rituali in uso a Gerusalemme, rimpiante con nostalgia dagli esuli di Babilonia.

Contributo per il santuario (25,1-22) «Il Signore parlò a Mosè dicendo "Ordina agli Israeliti che

raccolgano per me un contributo». Si tratta di tributi volontari per la costruzione del santuario mobile del deserto, cuore del culto e anticipazione del tempio di Gerusalemme. Ognuno vi concorreva con parte di ciò che possedeva, dai metalli preziosi al legname. «Essi mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro».

L'ARCA, segno della presenza di Jahvé, fu la prima ad essere costruita. Era una piccola cassa di legno d’acacia, di metri 1,25 di lunghezza ed alta e larga 75 centimetri. Degli anelli ai lati ne consentivano il trasporto mediante stanghe. Il coperchio d'oro massiccio o "propiziatorio", si usava durante il rito del Kippur o "espiazione" per il popolo (Lv 16,14). Abbellivano il coperchio «due cherubini d'oro» e avevano aspetto mezzo umano e mezzo animale; era l’unica raffigurazione permessa nel santuario. È presumibile che nel postesilio, il «propiziatorio» abbia

sostituito l’arca scomparsa. I PANI dell'offerta e il CANDELABRO (25,23-40) La "tavola dei pani della presentazione", era un arredo del tempio di

Gerusalemme. «Sulla tavola collocherai i pani dell'offerta saranno sempre alla mia presenza». I pani erano disposti su due file e cambiati ogni giorno; rappresentavano le dodici tribù d'Israele. Costruita in legno d’acacia, la tavola aveva un metro di lunghezza, mezzo di larghezza e 75 centimetri d’altezza. Era rivestita d'oro con anelli all’esterno per il trasporto e altri accessori.

«Farai anche un candelabro d'oro puro lavorato a martello, il suo fusto e i suoi bracci». Il candelabro era composto di un'asta centrale a cui erano attaccati sei rami con calici all'estremità per sistemarvi le lucerne. Pesava un talento, ossia 34 chilogrammi d’oro puro. Una copia di quello sottratto al tempio di Gerusalemme è scolpita nell'arco di Tito a Roma. Candelabri

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sostanzialmente identici e di minor valore sono in uso anche al presente. Il numero sette significa totalità e perfezione.

La DIMORA e le suppellettili (26,1-37) La Dimora o mishkan: così è chiamato dalla tradizione sacerdotale il

santuario del deserto, detto anche "Tenda del convegno". «Nel suo insieme la "dimora" si presenta come una struttura mobile in legno, ricoperta di teli di lino pregiato (il bisso) e la porpora. Le misure generali sono quantificabili in 15

metri di lunghezza e 5 metri di altezza e larghezza» (Ravasi: Nuova…). Il tempio di Salomone costruito a Gerusalemme ricalcherà lo schema di questa antica dimora.

I teli di lino e di porpora che ricoprivano la “dimora” erano fissati da cordoni e da fibbie e completati da tessuti in peli di capra, impermeabili e

idonei alla traspirazione. Per salvaguardare il tutto da intemperie e calore, s’impiegavano pelli di montone colorate in rosso, oppure soltanto conciate.

Altrettanto minuziosa è la descrizione dell'armatura della tenda costruita con legname d'acacia rivestita d'oro. Una tale meticolosità dimostra tutto l'amore per il culto del Signore e quanto era "sacra" la zona riservata a lui. L'interno della tenda era diviso in due parti per mezzo di un velo preziosissimo. «Il velo costituirà per voi la separazione tra il Santo e il Santo dei Santi». In una parte della tenda si trovava la “tavola dei pani”, il candelabro, l'altare dell’incenso (detta il Santo) nell'altra, invece, c'era l'arca dell'alleanza, segno della presenza di Dio (detta il Santo dei Santi), dove Il sommo sacerdote accedeva in rare occasioni.

L'altare degli olocausti e il recinto (27,1-21) «Farai l'altare di legno di acacia», quadrato, di due metri e

mezzo per lato e un metro e mezzo di altezza. Anziché d'oro, bisognava rivestirlo di rame; era destinato agli olocausti, i sacrifici più eccellenti che richiedevano l'intera cremazione della vittima. All'interno conteneva una graticola di rame per ardere l'animale del sacrificio. Su ognuno degli angoli vi erano protuberanze a forma di corno, simbolo della potenza divina. Il reo che vi si aggrappava aveva diritto all’immunità. Essendo piuttosto leggero, era trasportato con l'ausilio di stanghe d'acacia infilate agli anelli laterali.

Il Recinto della Dimora era uno spiazzo protetto da uno steccato di legno ricoperto di stoffe fissate a colonne con basi di rame, per delimitare la zona sacra e separarla dall'accampamento. Aveva un perimetro di 50 metri di lunghezza per 25 di larghezza e 2,50 d’altezza. I sacerdoti dovevano mantenere sempre accese le lampade del candelabro, posto davanti al velo che separava il Santo dei Santi dal resto della Dimora; l'olio era offerto dagli Israeliti.

Le vesti dei sacerdoti (28,1-43) «Fa avvicinare Aronne tuo fratello e i suoi figli con lui, perché

siano miei sacerdoti». Stabilito che Aronne e discendenti eserciteranno il sacerdozio, si passa a descriverne i paramenti sacri per il culto. Anche qui ci troviamo di fronte ad una puntuale trasmissione delle successive norme liturgiche che regolavano il culto gerosolimitano.

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L'EFOD  è una specie di grembiule sostenuto da una cintura e da bretelle, indossato dal sommo sacerdote. Su ciascuna delle due spalline c'era una pietra d’onice incastonata in oro con incisi i nomi di sei tribù d'Israele. Così, quand'egli si presentava davanti a Jahvé, lo faceva in nome di tutta la comunità.

Il pettorale del giudizio era appeso all'efod con catenelle e cordoni e consisteva in una borsa quadrata intessuta d'oro e di fili pregiati di 25 centimetri circa. Sul davanti era ricoperto di quattro file di tre pietre preziose, su ciascuna delle quali era inciso il nome di una tribù. «Unirai al pettorale del giudizio gli urìm e i tummìm. Saranno così sopra il cuore d’Aronne quando entrerà alla presenza del Signore».

C'è incertezza sull'origine e l'uso di questi urìm e tummìm. Forse erano due pietruzze di colore diverso o due bastoncini che servivano per “tirare la sorte”. La risposta della divinità invocata si palesava in modo affermativo o negativo nell'oggetto selezionato. Vi si potrebbe anche scorgere il residuo di una pratica magica d'Oriente sopravvissuta in Israele.

Il mantello serviva per coprire l'efod era intessuto «tutto di porpora viola con in mezzo una scollatura per la testa». All'estremità, si decorava con ricami finissimi di melograni, inframmezzati a campanelli segnalavano la presenza della persona sacra e la proteggevano da influssi malefici, secondo una tradizione primitiva.

Il turbante del sommo sacerdote recava, nella parte anteriore, una lamina d'oro con la scritta «Sacro al Signore»; n’attestava l'autorizzazione a rappresentare il popolo per implorare la clemenza di Jahvé circa le trasgressioni morali e cultuali. Prosegue la descrizione d’altri capi d'abbigliamento, dalla tunica di lino fine stretta ai fianchi con una cintura, fino ai calzoni per coprire la nudità.

La consacrazione di Aronne e dei suoi figli (29,1-46) Per la consacrazione dei primi sacerdoti si offrì un solenne

sacrificio; esso comprendeva l’immolazione di un giovane toro e due arieti, unita all’oblazione di pani e focacce senza lievito (azzimi). Aronne e i suoi figli, dopo un bagno completo, indossarono gli indumenti del loro rango e furono consacrati con l'olio dell'unzione versato sul capo, in segno della loro dignità. «Il sacerdozio apparterrà loro per decreto perenne». È bene ricordare che l’unzione sacerdotale, prerogativa dei re, passò ai Leviti presumibilmente dopo l’esilio di Babilonia.

L'investitura li abilitava a officiare i tre sacrifici fondamentali del culto

1. Il sacrificio d’espiazione per i peccati. Spettava ai neo consacrati immolare «il giovenco davanti al Signore». Con il sangue della vittima dovevano spalmare i quattro corni dell'altare, simbolo della potenza divina «il resto lo verserai alla base dell'altare». Tutto il grasso, «segno d’abbondanza, viene offerto a Dio, mentre il resto della vittima è arso fuori dell'accampamento d'Israele, come segno dell'impurità del popolo» (Ravasi).

2. Il sacrificio totale o "olocausto". Si procedeva, poi, a sacrificare uno dei due arieti e se ne spargeva il sangue intorno all'altare. Fatto a pezzi e ripulito era totalmente bruciato sull'altare «in onore del Signore come profumo a lui gradito».

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3. Il sacrificio pacifico o di comunione. Si uccideva poi il secondo ariete, dopo aver posato le mani sulla sua testa, con il significato di unirsi alla vittima. Parte del suo sangue era spalmata sul lobo dell'orecchio, del pollice e dell'alluce destro dei sacerdoti, emblema della totalità della persona. Perfino le vesti e gli stessi ministri dovevano essere aspersi col sangue misto ad olio. Successivamente i sacerdoti prendevano le parti grasse della vittima, la coda e la coscia destra insieme ai pani e alle focacce e le “sollevavano” o elevavano verso il Signore, con significato di rendergli omaggio e quindi le bruciavano sull'altare, perché diventassero «un'offerta consumata dal fuoco in onore del Signore». Invece il petto e l'altra coscia, dopo essere stati presentati a Jahvé, si cuocevano in un luogo santo ed erano mangiati come pasto sacro dal collegio sacerdotale, insieme al «pane contenuto nel canestro all'ingresso della tenda del convegno». Partecipando alla stessa vittima, si stabiliva un vincolo di comunione tra Dio e il suo popolo, mediante il sacerdozio.

La festa della consacrazione durava sette giorni con la probabile ripetizione degli stessi sacrifici. Il rituale qui descritto è riportato anche nel libro del Levitico (cc 8-10).

Circa la consacrazione dell'altare, è detto «Per sette giorni compirai il rito espiatorio per l'altare e lo consacrerai». La prassi era quella del sacrificio d’espiazione, cui si aggiungeva l'unzione per renderlo idoneo al culto.

Si accenna poi al culto quotidiano, così come si svolgeva nel tempio di Gerusalemme. Al mattino e al tramonto d’ogni giorno erano bruciati in “olocausto” due agnelli di un anno insieme a focacce e a una libagione di vino. In tal modo gli Israeliti ricordavano che Jahvé abitava in mezzo a loro. «Sapranno che io sono il Signore, loro Dio, che li ho fatti uscire dalla terra d'Egitto». Nella liturgia quotidiana si rinnovava l'alleanza.

L'altare dei profumi e altri elementi (30,1-38) In tutto l'Oriente, è nota la consuetudine di bruciare incenso

alla divinità. L'altare dell'incenso, qui descritto, era in realtà un grande incensiere rivestito d'oro. Gli aromi che vi si bruciavano simboleggiavano l'offerta che Israele faceva di se stesso a Dio. Fabbricato con legno d'acacia rivestito d'oro, era un quadrato di mezzo metro e dell'altezza di un metro. Era bordato d’oro puro, con corni ai quattro lati e anelli per il trasporto.  Nella Tenda era collocato davanti al velo che nascondeva il Santo dei Santi e serviva per bruciarvi l'incenso. Un sacerdote passava la mattina e al tramonto a controllare ed alimentare le lampade del candelabro e ad offrire l’incenso.

Si parla poi di un censimento indetto da Mosè al fine di imporre una tassa per il Santuario a tutti gli Israeliti superiori ai venti anni, del valore di mezzo siclo. Perfino Gesù si sottoporrà a questa norma esodica, come è scritto nel Vangelo di Matteo (17,24-27).

Fu comandato a Mosè «Farai per le abluzioni un bacino di bronzo con il piedistallo di bronzo lo collocherai tra la tenda del convegno e l'altare e vi metterai acqua». Infatti, i sacerdoti, per ogni tipo di servizio nel Santuario, erano tenuti a lavare mani e piedi per non morire. «È una prescrizione rituale perenne». L'uso di fontane o vasche è tuttora presente vicino ai templi di molte religioni.

L'olio, dai molti usi in Israele, aveva anche una funzione sacra, come la purificazione dei vari elementi del Santuario qui ricordati. Inoltre, l'olio dell'unzione serviva per la consacrazione regale e del sommo sacerdote più

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tardi s’impiegherà anche per gli altri sacerdoti. Era una miscela aromatica di vari ingredienti determinati dal rituale liturgico.

Gli operai del Santuario (31,1-18) Bisognava esprimere gratitudine agli operai e artigiani del santuario.

Al pari degli annunciatori della parola, erano stati illuminati da Jahvé nello svolgimento delle mansioni artistiche. Pieni di «saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro» che richiedeva abilità tecnica, avevano progettato il Santuario, i suoi componenti e gli arredi liturgici.

Il sabato non era soltanto il vertice del tempo cosmico (Gen 2,1-4), ma anche il segno dell'identità ebraica e della fedeltà all'alleanza. «Chiunque farà un lavoro di sabato sarà messo a morte». I due precetti che hanno maggiormente caratterizzato Israele sono la circoncisione (Gen c 17) e l'osservanza del sabato. Col tempo il rispetto del sabato era diventato tanto asfissiante da prevedere la pena di morte per ogni trasgressore. Gesù rimproverò le chiusure ingiustificate e la sacralizzazione del sabato (Mc 2,27).

Al termine di queste istruzioni, date a Mosè nei quaranta giorni di permanenza sul monte Sinai, egli scese con «le due Tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio» e proposte all'osservanza del popolo.

5. Il vitello d'oro e l'ALLEANZA RINNOVATA (cc 32-34) Dopo aver narrato diffusamente, nei capitoli 19-24, l'alleanza secondo

la tradizione elohista, l'autore sacro intende ricuperare e riportare anche il documento jahvista. Ovviamente il contenuto fondamentale è identico. Qui, però, si introduce una situazione di rottura da parte del popolo per l'avvenuta adorazione del vitello d'oro. La Nuova Cei commenta: «Si è molto discusso sulla storicità dell’episodio del vitello d’oro, che alcuni studiosi considerano una retroproiezione del fatto descritto in 1Re 12,16-33. Posto qui, esso costituisce il “peccato originale d’Israele», vale a dire la propensione al culto idolatrico.

Il vitello d'oro (32,1-14) Mosè tardava a scendere dal Sinai; il

popolo chiese ad Aronne «Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa». Egli, con l'oro raccolto tra la gente, fece fondere un torello. Allora esclamarono «Ecco il tuo dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d'Egitto». Questo "toro", spregiativamente detto vitello, di per sé non era Jahvé, ma solo il piedistallo della divinità invisibile. Il Signore ne fu molto irritato. Sollecitò Mosè a scendere dal monte e gli disse «Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori». Il “liberatore” sconvolto dalla minaccia di Jahvé, come aveva già fatto in altre occasioni, interpose la sua intercessione. Chiese umilmente perdono in nome del popolo, appellandosi alla fedeltà divina, che s’era impegnata a far crescere «come le stelle del cielo» la discendenza d’Abramo e a donarle la terra di Canaan, verso la quale erano incamminati. Si aggrappò altresì all'argomento della derisione degli Egiziani, i quali avrebbero interpretato la punizione e lo sterminio d'Israele come una prova della debolezza e, quindi, della non esistenza di Jahvé. «Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo».

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L'ira di Mosè e nuova preghiera (32,15-35) Mosè, avvicinatosi all'accampamento e visto il

vitello d'oro e le danze in suo onore, si accese d'ira. «Egli scagliò dalle mani le tavole, spezzandole ai piedi della montagna». Con tale gesto intendeva dimostrare che l'alleanza tra Jahvé e il suo popolo era stata rotta. Entrato nell'attendamento frantumò il "toro", lo ridusse in polvere, lo mescolò con acqua e la fece trangugiare agli Ebrei, perché diventassero un tutt'uno con il loro peccato. Affrontò Aronne per chiedergli spiegazioni del fatto. Il fratello si scusò dicendo di aver rappresentato il Signore secondo il costume degli altri popoli.

Purtroppo, il culto idolatrico aveva ormai conquistato parte della popolazione. Mosè chiamò a raccolta i Leviti e ingiunse loro di sterminare gli

oppositori. «In quel giorno perirono circa tremila uomini del popolo». La cifra di tremila può essere enfatizzata per esaltare e mettere in luce il dovere di difendere la fede biblica da ogni contaminazione e, allo stesso tempo, far capire quanto siano importanti le esigenze della giustizia divina.

Compiuta la strage, l'ira si placò e si aprì il lungo cammino verso la riconciliazione. Ancora una volta, Mosè rammentò al popolo il peccato commesso poi, salì di nuovo sul Sinai a perorarne la causa presso Jahvé. La supplica che gli rivolse assume gli accenti di un dilemma "Dio, abbi pietà d'Israele o cancella me «dal tuo libro che hai scritto!», ossia dalla tua amicizia. Chi ha peccato, rispose Jahvé, sarà cancellato dal libro.

Mosè intercede per il popolo (33,1-23) Mosè stava conducendo Israele, liberato dalla schiavitù egiziana,

verso la terra di Canaan. Qui Jahvé mette un angelo alla sua guida, dato che egli non voleva più camminare accanto a un popolo caparbio, di "dura cervice", che gli si opponeva. È detto anche che gli Ebrei, presa coscienza del peccato, si rattristarono e «nessuno più indossò i suoi ornamenti», ossia i profumi e le acconciature usate per la festa idolatra.

La «Tenda del convegno» o Santuario mobile d'Israele, ora è piantato fuori dell'accampamento. Quando Mosè vi si recava, era seguito dagli sguardi di tutti e sulla Dimora «scendeva la colonna di nube (segno della presenza di Dio) e restava all'ingresso della tenda... Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico». Con lui usava la stessa familiarità che aveva avuto con Abramo. Mosè n’approfittò per chiedergli se aveva perdonato il suo popolo e volesse ancora guidarlo. "Certo", rispose il Signore «Il mio volto camminerà con voi e ti darò riposo» nella terra promessa. Non è facile dipanare il “collage” di testi antichi qui ricuciti.

Oggetto di tanta benevolenza da parte di Jahvé, Mosè si spinse fino ad esprimergli il desiderio che gli urgeva dentro vedere il volto di Dio. «Mostrami la tua gloria», ossia la tua realtà divina senza restarne accecato o doverne morire. Jahvé gli ricordò che c'era un abisso invalicabile tra il Creatore e la creatura ma, come segno della sua benevolenza ed intimità, non gli avrebbe mostrato il volto o il bagliore del suo Essere, ma le spalle, ossia un lontano riflesso della sua identità.

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5,1. L'Alleanza rinnovata e le nuove Tavole della Legge (34,1-28)

In questo capitolo è narrata l'alleanza secondo la tradizione jahvista. Mosè tagliò due tavole di pietra, in base al comando del Signore, «si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai». Nella nube che avvolgeva la santa montagna, Mosè sentì passare il Signore che diceva «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di amore e di fedeltà». Con queste parole, Jahvé si rivelava come il Dio della tenerezza e della misericordia, giusto sì, ma illimitato nell'amore e nella lealtà.

Mosè si prostrò davanti a lui e perorò la causa d'Israele «Sì, disse, è un popolo di dura cervice, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato fa di noi la tua eredità». Jahvé accondiscese alla supplica e si accinse a stringere di nuovo l'alleanza, dettando le sue leggi «Osserva dunque ciò che io oggi ti comando». Nei versetti 14-26 è descritto il «codice jahvista» dell’ alleanza, che si differenzia da quello narrato nei capitoli 20-23. «Gli studiosi sono convinti che la pagina che ora leggiamo sia il testo più antico del patto tra Israele e il suo Dio» (Ravasi). Oltre alle proibizioni già note e al culto sabbatico, vi appaiono prescrizioni di taglio cultuale e norme di tipo morale; in più si affrontano i temi delle feste liturgiche, delle primizie e dei sacrifici.

Sintetizzando in dieci articoli questo «codice dell’alleanza», si avrebbe

1. Divieto dell'idolatria e d’alleanze con indigeni, "mangeresti del loro sacrificio".

2. Proibizione di matrimoni misti 3. «Osserverai la festa degli Azzimi» (vedi 12,15ss) 4. Consacrazione a Dio dei primogeniti (vedi 13,1ss) 5. Offerte rituali da fare al Signore 6. Rispetto del sabato (vedi 20,8-11) 7. Celebrazione d’alcune feste e solennità 8. Prescrizioni per la festa di Pasqua (vedi 12,21) 9. Offerta delle primizie al Signore (vedi 23,19)

10. Non "cuocere un capretto nel latte di sua madre"  (vedi 23,19b).Il volto luminoso di Mosè 34,29-35)

Mosè, nello scendere dal Sinai con le tavole della legge, «non sapeva che la pelle del suo volto era diventata raggiante». L'episodio appartiene ad una tradizione d’origine incerta. Indubbiamente, l'intimità con la divinità trasfigura l'uomo e lo rende partecipe della gloria luminosa del suo Dio. Mosè, conscio del timore che incuteva agli Israeliti, dopo aver riferito le parole udite dal Signore, si velava il volto.  Il termine ebraico

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qeren, oltreché "raggio o raggiante" significa anche "corno". Nella versione latina, san Girolamo tradusse il passo così «Il suo viso aveva corna». Diversi artisti s’ispirarono a queste parole. Celeberrima è la scultura michelangiolesca di Mosè con le corna, in san Pietro in Vincoli a Roma.

6. Costruzione ed erezione del SANTUARIO (cc 35-40)Questa sezione è una ripetizione quasi letterale degli ordini dati ed eseguiti

nei capitoli 25-31. Di fronte a doppioni o ripetizioni inutili, il nostro disagio è notevole, laddove la cultura semitica si serviva di questa tecnica per dare maggior valore all'argomento. Non si esclude l'ipotesi che si tratti di due redazioni diverse, quasi identiche. Essendo l’alleanza del Sinai il cuore della religione ebraica, Israele voleva far derivare da essa l'intero apparato cultuale del tempio di Gerusalemme. Ognuna di queste prescrizioni è quindi permeata dell’alone di santità e di mistero che avvolge l’antico evento.

Il contributo per il Santuario (35,1-35) La legislazione riproposta, appartiene alla tradizione

sacerdotale del secolo VI/V a.C. Le poche varianti introdotte, non modificano la sostanza del testo precedente.

Vi è la conferma che la violazione del sabato sia punita con la pena di morte. Poi lo scritto si sofferma a lungo sulla richiesta d’offerte da parte di Mosè per costruire la «Tenda del convegno» e della risposta puntuale e generosa degli Israeliti. Donne zelanti si offrirono per tessere l'ornato sacro e l'abbigliamento dei sacerdoti. Forse un tale comportamento munifico voleva essere un rimprovero per la generazione dei rientrati dall'esilio di Babilonia. Non sembra che siano stati molto solleciti per la ricostruzione del tempio distrutto nel 586 a.C. Un profeta dell'epoca, Aggeo, levò la sua voce di protesta «La mia casa è in rovina, mentre ognuno di voi si dà premura per la propria casa» (1,9).

Verso la fine del capitolo si parla ancora della "saggezza" degli operai nella costruzione del Santuario (31,1-11).

La costruzione del Santuario (36,1-38) Si ripete quasi integralmente quanto già detto nel capitolo 26.

Mosè ordinò l'interruzione delle molte oblazioni «Nessuno, uomo o donna, offra più alcuna cosa come contributo per il santuario» ciò, però, non escludeva la manovalanza gratuita. Ad ogni modo, la chiosa intendeva rievocare l'amore e la generosità degli Ebrei per il tempio.

Per la produzione e posizione del velo, si ritorna allo stesso capitolo (vv 31-32. 36-37).

Lavorazione degli arredi del Santuario (37,1-29) Della fabbricazione dell'arca, che scomparve alla

distruzione del tempio di Salomone nel 586 a.C., si era già parlato al capitolo 25,10-21. Stando a indicazioni bibliche non omogenee, al suo interno si trovavano le tavole della legge, un vaso della manna del deserto e il bastone di Mosè. Il coperchio dell'arca (kippùr: chiusura) protetto dai cherubini, detto propiziatorio, era «anche la sede della presenza divina. È per questo che nella solennità del Kippùr il sommo sacerdote incensava il propiziatorio e lo aspergeva col

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sangue delle vittime così da ottenere la copertura (la stessa radice ebraica) delle colpe del popolo, cioè il perdono dei peccati» (Ravasi). Il «jom Kippùr» è una celebrazione annuale degli Ebrei tra settembre e ottobre. È il giorno del sacrificio per i peccati del popolo a conclusione del periodo di penitenza iniziata il giorno di capodanno ed è caratterizzato dalla preghiera, dal digiuno e dalla confessione dei peccati.

Circa la costruzione della tavola dei «pani dell'offerta», si conferma quanto detto nel capitolo 25 (vv 23-29). La stessa cosa vale per il «candelabro», descritto minutamente in 25, 31-40. Le sette lampade di cui era adorno restavano sempre accese, per simboleggiare la fede d'Israele.

Si replica altresì la fabbricazione dell'«altare dell'incenso» (vedi 30,1-5).La preparazione degli altri arredi (38,1-31) La descrizione dell'«altare degli olocausti» ricalca il testo di

Esodo 27,1-8. Accanto ad esso, vi era il bacino (vedi 30,17-21) per le abluzioni rituali era una vasca bronzea di metallo lucido, fatto con l’impiego degli specchi delle donne al servizio della Tenda. Un «recinto» (vedi 27,9-19) di metri 50x25 separava l'area sacra dal resto dell'accampamento. Le stesse misure, ampliate, saranno utilizzate per la costruzione del tempio di Gerusalemme.

Di nuovo, in questa rielaborazione, vi è soltanto un lungo rendiconto delle spese sostenute per il completamento dell'opera. «Il totale dell'oro impiegato nella lavorazione fu di 29 talenti e 730 sicli» (il talento pesava circa 34,300 chilogrammi e un talento equivaleva a 3.000 sicli). L'argento raccolto pesava 100 talenti e 1.775 sicli, in sicli del santuario».

Gli Ebrei censiti per il pagamento del contributo erano 603.550 unità, per un versamento di mezzo siclo a testa. Le cifre, sia per il denaro impiegato sia per le persone soggette alla tassazione, sono enormi. Tutto fa pensare che si riferiscano al periodo della costruzione del tempio di Salomone. Ad ogni modo, si tratta di un'aggiunta redazionale che suppone l'istituzione dei leviti (vedi Nm c 3) e il censimento del popolo (vedi Nm c 1).

Le vesti del sommo sacerdote (39,1-32)Per l'«efod», il grembiule o corpetto del sommo sacerdote,

si ripresenta la lettura del capitolo 28,6-8. La sola novità si ha nel tessuto della porpora che include sottili fili d'oro. Per quanto riguarda il «pettorale», ossia la borsa quadrata che adornava l'efod, si torna a dire quanto già scritto con dovizia di particolari nel capitolo 28,15-30 lo stesso avviene per il «manto» che copriva l'efod (vedi 28,31-35).

«Le tuniche di lino, il turbante del sommo sacerdote, i copricapo degli altri sacerdoti, i calzoni anch'essi di lino, le cinture ricamate, la lamina d'oro del turbante "pontificale" con la scritta «Consacrato al Signore» concludono questa lunga descrizione dell'abbigliamento sacerdotale confezionato dagli artigiani d'Israele per la celebrazione del culto nel santuario del deserto, ma anche e soprattutto nel futuro Tempio gerosolimitano» (Ravasi).

Tutto il materiale sacro, fatto ad opera d'arte, fu consegnato a Mosè dagli artefici ed egli, compiaciuto, «li benedisse».

Erezione e consacrazione del Santuario (40,1-38)

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Trascorsi nove mesi dall'arrivo al monte Sinai, tutto era pronto per cominciare a costruire la Dimora, ossia la Tenda mobile del convegno. Si enumerano di nuovo i vari oggetti di cui era fornita. Mosè stesso prende parte alla direzione dei lavori e alla costruzione. Tutto è compiuto secondo le prescrizioni precedenti.

«Così Mosè terminò l'opera. Allora la nube coprì la tenda del convegno e la Gloria del Signore riempì la Dimora». La Gloria del Signore, cioè Dio stesso prese possesso della Dimora nel segno della nube. Rassicurato dalla sua presenza, Israele riprese il cammino verso la meta agognata.

Il Libro dell'Esodo termina con il popolo in marcia nel deserto, protetto dalla nube che ne rischiarava la notte e lo riparava dalla calura del giorno. Nel corso dei capitoli, abbiamo partecipato ad un viaggio drammatico e portentoso, narrato come un poema, dall’Egitto al deserto del Sinai. Israele avanzava per lasciarsi alle spalle la schiavitù e per dedicarsi al servizio del Signore nella libertà. Il suo incedere è immagine e figura d’ogni sforzo umano per affrancarsi dall’oppressione e dalla violenza.

Tradizioni bibliche all’interno dell’Esodo:Jahvista (J); Elohista (E); Sacerdotale (P); Deuteronomista (D)

c 1 vv 1-5 (P) 6-14 (J) 15ss (E)c 2 vv 1-10 (J-E) 11-22 (J) 23-25 (P)c 3 vv 1-5.16-20 (J teofania e missione) 6.9-15 (E rivelazione del nome)c 4 (J+E) c 5 (J)c 6 (P)c 7 1ª piaga d’Egitto (J+E+P) 2ª piaga (J+P) c 8 3ª piaga (P) 4ª piaga (J)c 9 5ª piaga (J) 6ª piaga (P) 7ª piaga (J+E)c 10 8ª piaga (J+E) 9ª piaga (E)c 11 collegamento (P ?)c 12 10ª piaga (J=21-23.27b.29-39)+ (P=1-20.28.40-51)+ (Dt=24-

27a)c 13 (Dt=1-16) + (J= 20-22) + (P= resto)c 14 (J=5-7.10-14.21.24.27-31) + (E=19-20) + (P= resto) c 15 (J+ tradizioni successive)c 16 (combinazione J+P)c 17 (sostanzialmente J)c 18 (E)c 19 (sostanzialmente P)

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c 20 (sostanzialmente E)cc 20,22-23 Codice dell'Alleanza norme aggiunte posteriormente (P)c 24 (J=1-2.9-11) + (E=3-8 e 12-15a.18b)+ (P=15b-18a)cc 25-31 Tradizione P elementi antichi [arca e tenda] risalenti a

Mosè         cc 32-34 (combinazione di tradizione J ed E)c 34 Racconto jahvista dell'Alleanza del Sinai (J)cc 35-40 (P) (ripetizione dei cc 25-31)

BIBLIOGRAFIA

BIBBIA-CEI –Nuova edizione riveduta, 2008BJ (Bible de Jérusalem) – Rivista nel 1998, ParisRAVASI G.: Nuova guida alla Bibbia. Ed. san Paolo, Milano 2008RAVASI G. - La Bibbia per la famiglia. Ed. San Paolo, 1998BARBAGLIA S. -La Bibbia: ESODO vol 1, Mondadori (MI) 2000 RAVASI G. - II racconto del cielo. Le storie, le idee e i              

personaggi dell Antico Testamento. Mondad. (MI) 1995SCHREINER J. – Introduzione all’Antico Testamento EP (MI) 1987 RAVASI G. -Antico Testamento. Piemme (AL), 1991RENDTORFF. Introduzione all'Antico Testamento. Claudiana, 1990

SCHENA A. -Il libro dell'Esodo (pc)Studi, dizionari e commentari biblici

INDICEStoria, testo, contenuto, attualità 1

1. Liberazione dall'Egitto (1,1-15,21) Oppressione degli Ebrei 4

1,1. Mosè: nascita, fuga e roveto ardente (2,1-7,7) Poteri accordati a Mosè 6Il faraone inasprisce la condizione degli Ebrei 7

1.2. Le piaghe d'Egitto (7,8-13,16)Dalla prima piaga alla nona 8 Istituzione della Pasqua 10Morte dei primogeniti 11Partenza degli Ebrei 11

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1.3. Uscita dall'Egitto e inseguimento (13,17-15,21)Passaggio del «Mar Rosso» e canto di vittoria 12

2. Il cammino nel deserto (15,22-18,27)Sosta nell'oasi di Mara. La manna e le quaglie 13 Guerra contro Amalech. Mosè incontra Ietro 14

3. Alleanza del Sinai (19,1-24,19)Arrivo al Monte Sinai e teofania di Dio 15I «Dieci Comandamenti» 15

3,1. Codice dell'alleanza (20,22-23,33) Prescrizioni sociali e leggi sulla proprietà 17Calendario delle feste 18

3.2. Rito dell'alleanza (24,1-18)

4. Costruzione del Santuario. Arredi e ministri (cc 25-31)Contributi, arca e pani dell'offerta 19La Dimora e il recinto; l'altare degli olocausti 20Vesti dei sacerdoti e l'efod 21

La consacrazione di Aronne e i sacrifici L'altare dei profumi e altro. I costruttori del Santuario 22

5. II vitello d'oro e l'alleanza rinnovata (cc 32-34)Il vitello d'oro e l'ira di Mosè 23Mosè intercede per il popolo e rinnova l'alleanza 24II volto luminoso di Mosè 25

6. Ripetizione sull’erezione del Santuario (cc 35-40)La costruzione del Santuario e lavorazione degli arredi 26Le vesti del sommo sacerdote 27

Consacrazione del Santuario 28

Tradizioni bibliche 28 Bibliografia 29

INDICE 30

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