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CONSIGLI UTILICONSIGLI UTILICONSIGLI UTILICONSIGLI UTILI

Questa escursione si estende per una parte in territorio Umbro e una parte in territorio Marchigiano. La zona è molto bella, specie per chi è amante del trekking e della speleologia. Si raccomanda abbigliamento sportivo e scarpe adatte a camminare in percorsi sterrati e scivolosi. Nelle grotte la temperatura è molto bassa, quindi portate con voi una felpa o un giacchino che vi terrà al caldo mentre attraversate le grotte. La zona, prettamente montuosa, offre come prodotti tipici, formaggi e prodotti del bosco e del sottobosco. Potete raggiungere il percorso passando per Nocera (uscita SS75 direzione Foligno) e percorrere la flaminia direzione Gualdo Tadino. Oppure percorrendo la SS 444 Assisi - Gualdo Tadino (più tortuosa) Dove mangiare: MARIELLA: Loc. Boschetto - 06025 - Nocera Umbra (PG) 0742 810197 CANTINA DELLA VILLA: Loc. Colle 141 - 06025 - Nocera Umbra (PG) 0742 810666 EXEDRA ET CENATIO: Nocera Umbra - 06025 - Nocera Umbra (PG)) 0742 – 81774 LA CORTE DELL'OCA: Loc. Case Fabrizi 3 - 06023 - Gualdo Tadino (PG) 075 9142474 LA TAVERNA: V. Borgovalle 10 - 06023 - Gualdo Tadino (PG) 075 916500 CAMINO VECCHIO: V. Eugubina 3 - 06022 - Fossato di Vico (PG) 075 9149458 C'ERA UNA VOLTA Frazione S.Elia, 16/B - FABRIANO - 0732.74009 DA LUCIGNOLO Via Corridoni, 22 - FABRIANO - 0732.21387 FAGIANO D'ORO Via G.B. Miliani, 20 - FABRIANO - 0732.3606 LE COPERTELLE Via Leopardi 3/A - SERRA SAN QUIRICO Tel. 0731.86691

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FABRIANOFABRIANOFABRIANOFABRIANO La città (325 metri s.l.m.) è collocata in un ampia conca, sul versante est dell'Appennino umbro-marchigiano, distesa in larga parte sulla riva destra del Giano, affluente del bacino montano del fiume Esino. E' sede della Comunità montana Esino-Frasassi e conta nell'insieme una popolazione che si aggira intorno ai trentamila abitanti. Il territorio comunale abbraccia una estesa area, tra le più vaste d'Italia e comprende numerose frazioni, inserite spesso in un ambiente paesaggisticamente attraente, alcune delle quali con tracce e segni storici e monumentali degni di attenzione.

L'originario impianto urbanistico medievale, pur notevolmente alterato nel corso dei secoli, risulta tuttora riconoscibile: il Centro storico nella sua singolarità architettonica presenta tratti che lo rendono particolarmente interessante. Universalmente noto è il museo della carta e della Filigrana sito nel complesso di San Domenico; numerosi sono i Palazzi, i Monumenti e le Chiese di rilievo, nonostante i rifacimenti a causa dei ricorrenti fenomeni sismici. Significativa la raccolta della civica Pinacoteca, attualmente ricoverata in parte presso il Museo della Carta e in parte presso il Deposito Attrezzato che la Regione Marche e il Ministero

dei Beni Culturali hanno istituito in antichi ambienti delle Cartiere Miliani. A cavallo tra la fine dell'ottocento e gli inizi del novecento la città vede progressivamente modificarsi il suo assetto; l'impetuoso e straordinario decollo industriale del secondo dopoguerra finisce poi per caratterizzarla in modo definitivo secondo le strutture attuali. Fabriano, al centro di una amplissima zona produttiva che si estende lungo la fascia valliva tra Albacina e Marischio, costituisce un distretto economico tra i più attivi e dinamici delle Marche e rappresenta uno dei riferimenti primi di un modello adriatico divenuto esemplare. Accanto all'antica attività cartaria, alle più tradizionali attività alimentari, si è sviluppata in maniera ramificata e consistente l'industria metalmeccanica (elettrodomestici in particolare e cappe per la cucina), con un indotto vivace e diffuso.

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GENGAGENGAGENGAGENGA La storia

Genga è un piccolo castello sorto nel Medioevo, insieme a tanti altri che costellano le alture delle valli interne dell'anconetano. Il castello si adagia su una rocciosa e ristretta piattaforma di una ripida ondulazione del monte Giunguno che si alza quasi improvvisamente dai tortuosi percorsi del fiume Sentino che nasce a Sassoferrato, a 9 km di distanza. Il luogo viene a configurarsi come un vasto catino, chiuso dai monti Ginguno, Ercole e Gallo. Il Castello conserva gran parte delle mura di difesa edificate via via che l'abitato si ampliava e le minacce di occupazione rendevano necessario il potenziamento del sistema difensivo. Genga appartenne sempre alla Marca. Comprende ventiquattro frazioni; confina con i comuni di Sassoferrato, Fabriano, Serra S.Quirico e Arcevia. Lo stemma del comune è quello antichissimo dei suoi conti; l'aquila nera coronata di oro in campo azzurro. Si accede al Borgo per l'unica porta ad arco, fortificata, dove ancora sono visibili gli alloggiamenti delle guardie, nel passato preposte alla tutela e difesa dell'abitato insediato tra l'antico e il moderno palazzo dei conti. Dalla sommità è possibile avere una immediata veduta dell'intera vallata, che seppure non grandemente estesa, è piacevole per le convulse variazioni del territorio e per le alterne immagini di corrusche stese cromatiche delle nude rocce e di cangianti vibrazioni dei verdi boschivi. Il reticolo e la struttura interna del paese tra chiese, strade ed edifici armonizzano in perfetta concordanza con le qualità dell'ambiente e le funzionalità del progetto costruttivo. La porta ad arco immette d'un sol fiato nel cuore stesso dell'abitato presentandoci, con immediata schiettezza, i simboli istituzionali su cui è incentrata e ancora s'impernia, in certo qualmodo, la vita pubblica degli abitanti, la chiesa nuova dell'Assunta, acui fa riscontro frontale la maestosa facciata dell'antico palazzo signorile dei Conti del Genga con il suo andamento concavo, tale da sembrare quasi un nobile uccello rapace nell'atto di dispiegare le ale per voltegiare e sorvolare la profonda valle che si svela carica di mistero e di colori in un ampio e articolato abbraccio tra cielo e terra. In questo luogo irto e, sotto alcuni aspetti, contraddittorio per la dolcezza del clima che lo pervade e corrobora, contraddittorio proprio per quell'impalpabile presenza dell'antico che si sente come realtà presente pur se non moderna. Genga si offre con le sue case a più piani, disposte a gruppi, nell'area delimitata dal tracciato delle mura medievali e da barriere naturali. L'architettura castellana quindi si modella sui prototipi delle più generali tipologie difensive dell'entroterra narchigiano, dove l'artificio militare si avvale delle predisposizioni del paesaggio, risultando dimessa e vernacolare ma allo stesso tempo possente e misteriosamente spaventosa. E' un'architettura che si conclude negli ornamenti, nelle decorazioni che ingentiliscono la sua maschia durezza; le case, disposte a schiera, s'aggruppano sugli speroni della roccia che viva s'avvinghia e innesta nelle mura maestre secondo una icastica unione, che altra non potrebbe essere, per definire la natura forte e dolce della gente che le abita; un po' asprigna e riservata forse, ma sensibile e naturalmente generosa. Il borgo distribuisce i suoi agglomerati, con armoniosa semplicità, l'architettura e la linearità dell'articolazione viaria costituita da una unica arteria, che come decumano ellittico segue l'andamento del perimetro difensivo: la cinta muraria. Ed è seguendo quella che, dopo aver girato attorno alla fabbrica seicentesca della chiesa dell'Assunta, si giunge alla piazza del borgo, da cui partono piccole strette viuzze trasversali; lì trovi anche la fabbrica della vetusta chiesa di San Clemente, di cui si dice già nella concessione in enfiteusi del castello della

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Pag. 5 Genga, nel 1090, si conti Alberto, Ugo e Suppo figli di Alberico, ora non più adibita al culto; questa, nella piazza, fa angolo con la canonica. Le origini del Castello di Genga si perdono nell'oscurità dei tempi lontani. Poetiche leggende riporterebbero le origini ai tempi del re Pirro, allorché un certo Lucio Sentinate, dopo aver militato inizialmente con quel re e di poi coi romani, acquistò il monte Giunguno e vi edificò il Castello di Genga. Altra leggenda ricorda che una fanciulla di nome Genga si innamorò di un tedesco di nome

Gallo, con il quale unitasi in matrimonio diede origine alla famiglia dei Conti della Genga. Di certo possiamo ritenere che popolazioni provenienti dalla valle del Sentino, forse gente picena, si stabilirono nel territorio; poi sopraggiunsero gli Umbri che uniti ai Piceni occuparono tutto il Piceno Annonario. Nel 386 a.C. gran parte di questo territorio fu invaso dai Galli Senoni, che cacciati nel 283 a.C. dai Romani, stabilirono varie colonie, tra le quali più consistente quella di Senigallia. In epoca romana, il territorio di Genga dovrebbe aver fatto parte del Municipio di Sentinum.

L’ABBAZIA DI SAN VITTORE E' il monastero benedettino più importante del nostro territorio, quello che ebbe maggior estensione di possessi fondiari e più ampia giurisdizione ecclesiastica e anche civile. Alcuni eruditi (Benedettoni, Bellenghi) accolsero la tradizione che fosse in origine un tempio romano, trasformato poi in chiesa cristiana; ma l'ipotesi non ha fondamento, sebbene l'esistenza di un abitato romano, dipendente dal vicinp municipio di Tufico, possa considerarsi accertata, ed è dimostrata dal primitivo titolo del monastero (S.Maria e S.Benedetto in fundo Victoriano), toponimo che potrebbe anche riferirsi al tempio di Jupiter Victor eretto dai vincitori dopo la battaglia di Sentino del 295 a.C. Chiesa e monastero sorsero nell'ultimo decennio del sec. X per iniziativa di un consorzio di feudatari laici, i quali nei primi decenni del secolo seguente lo resero autonomo ed in parte ad esso si sottomisero. Raggiunse la maggiore floridezza e potenza nel sec. XIII, quando ne dipendevano oltre quaranta chiese, castelli feudali, beni fondiari, nei territori di Fabriano, Genga, Sassoferrato, Roccacontrada. Decadde bel sec. XIV, soprattutto durante il governo simoniaco e mondano dell'abbate Crescenzio figlio di Alberghetto I Chiavelli (1308-1348). Negli ultimi decenni del secolo fu quasi abbandonato dai monaci, i quali preferirono dimorare nel monastero dipendente di S.Biagio di Fabriano. Nel 1406 Chiavello Chiavelli, dopo aver avuto in affitto l'abazia e i beni, ne ottenne dal Pontefice la soppressione e l'aggregazione al monastero olivetano di S.Caterina di Fabriano; parte dei beni immobili fu assegnata a S.Biagio col titolo di abazia autonoma. Ridotta a "grangia" rurale, divenne poi chiesa comparrocchiale di S.Sebastiano di Pierosara, con annesso cimitero, che fu tolto dalla Soprintendenza ai monumenti delle Marche.

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Pag. 6 Niente fa pensare che la chiesa sia una ristrutturazione del tempio romano, ha tutti i caratteri di un edificio sacro medioevale. La Chiesa appare dopo i vari restauri effettuati in questo secolo un esemplare e genuino edificio romanico, che ha riferimenti chiari e linee architettoniche basilicali-paleocristiane, lombarde e bizantine. E' forse il monumento romanico più importante delle Marche (Sassi). La massa murario costruita con blocchi di travertino e materiale misto poggia solidamente sul suolo, la pianta è ideata nella più ammirabile semplicità, i corpi di fabbrica si allineano e reggono in un geometrismo di delicata armonia, la cupola si eleva con disinvolta eleganza e vivo slancio: tutti questi caratteri, uniti ad altri quali gli elementi decorativi, le lesene, le nicchiette, i capitelli, la copertura a volte e cupola anche se edificio a pianta quadrangolare, come questo di S.Vittore, rimandano direttamente all'architettura romanica. Le presenze di particolari connotazioni come l'evidenziarsi delle absidi, il risalto del tiburio con marcati riferimenti orientaleggianti possono proporre, a prima vista, una collocazione stilistica ibrida. Proprio in considerazione di questo intreccio il Serra afferma che "la significazione essenziale del monumento sta nella leggiadria e nella singolarità della pianta, improntata di grazia ritmica nel succedersi delle esedre che ne costituiscono il lineamento espressivo; nella snella eleganza della cupola, nella purità non contaminata della salda e ben costrutta compagine muraria. In sostanza all'interno essa s'avvale della cadenza lenta e suasiva della musicalità bizantina e l'arte nella massa esterna, delicata e vaga". All'interno così si presenta: "Quattro grandi colonne di travertino, sormontate da capitelli cubici, formano il quadrato centrale e ripartiscono il vano. Si determinano nove campate di cui otto a crociera, leggermente accentuate, disadorne; la mediana con cupola emisferica internamente, ottagona all'esterno. Il presbiterio è sopraelevato di due gradini nella parete prospicente all'ingresso, ivi sono tre esedre con semicatino poggiati su una cornice sorretta da mensole: la centrale con sedile, le laterali di analoga struttura come quella che si apre in ciascuna delle due fiancate. A sinistra, nello spigolo anteriore, si erge una torre cilindrica con gradini a chiocciola innestati in una massiccia colonna centrale, essi conducono al piano di copertura. IL PONTE ROMANO San Vittore delle Chiuse, che il fiume Sentino separe in due parti, è collegata insieme da un ponte romano, dell'età augustea, sul quale sorge una torre, edificata con conci litici e descritta come classica torre, edificata con conci litici e descritta come classica torre - testa di ponte. Non è da escludere che questa torre integrasse, quale difesa periferica, il sistema fortificato di Pierosara. E' provvista di un passaggio che, verso il monastero, presenta un arco a sesto acuto, mentre dall'altro lato è a tutto sesto. La torre è verosimilmente cimata di un terzo rispetto alla attuale altezza ed è provvista di ingresso dislocato al di sopra dell'arco a tutto sesto. L'accesso alla torre era a dislivello di alcuni metri rispetto al piano di campagna. A probabile delimitazione del piano di ingresso, rispetto al piano superiore, sta un cordone anch'esso in pietra.

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Pag. 7 La pusterola è sormontata da un architrave, anziché essere ad arco come nella torre di Castelpetroso. La datazione di questo fortilizio può essere fatta risalire al XIII sec. Queste costruzioni monumentali, riassunte tutte sul luogo insieme al vicin o tempio romanico, sono davvero tante sino al punto da ridurre "l'arte in panorama". INFRASAXA

"Circa la metà della gola troviamo un santuario: Madonna di Frasassi. Il santuario si trova nell'ampia bocca di una galleria naturale, il cui ramo principale è lungo m 410. Questa è la celebre Grotta di Frasassi, che si presenta come un cratere vulcanico, che nell'esplodere avrebbe spaccato la montagna in due. Sull'ampia bocca esistono due chiese". (Pagnani) "Veramente erano in origine due chiese separate, quella del monastero benedettino femminile, o "carcer" di S.Maria "Boccasaxorum", che lo storico Bradimarte asserisce fondato in lato, nella località Pian del Carmine: e l'oratorio, di proprietà delle stesse monache, di S.Maria "intra" o "infrasaxa", nell'interno della grotta omonima".(Sassi) "Vi è una piccola statua in legno di epoca incerta e di mano inesperta".(Pagnani).

La venerata, seppur "rozza" immagine finì bruciata accidentalmente da una candela votiva, nei primi anni del dopoguerra (1947 c.). Fu rimpiazzata dell'attuale in pietra bianca di Vicenza, riproducente la Vergine seduta con il Bambino in braccio. "Il monastero esisteva già nel 1029, quando ne fu donata una parte a S.Vittore da due feudatari. Nel 1420 monastero e oratorio furono assegnati a S.Biagio; due anni dopo Giovanni, vescovo di Camerino, soppresse il monastero, ridotto ad una sola monaca, obbligando l'abbazia a officiare l'una e l'altra chiesa. Ma, demolito il monastero, rimase il solo oratorio che passò alla parrocchia di Rosenga nel sec. XVIII". (Sassi) Varrebbe la pena anche approfondire la "tradizione" secondo la quale durante le prime crociate - i Crociati stessi - oppure i monaci fuggiaschi, scappando davanti ai Turchi, avrebbero portato con loro, il corpo, o almeno il cranio di S.Marone (sec. IV-V), il fondatore della Chiesa (cattolica) dei Maroniti, esistenti fino a oggi nel Libano e nella dispersione. Si sarebbero fermati nelle vicinanze di Foligno, dove, secondo la fama, si trova anche il sepolcro. In tal caso, "l'eremo di Frasassi" poteva essere coinvolto nella loro attività pastorale ed eremitica. Infatti, del sepolcro di S.Marone in Libano non esiste alcuna traccia. Come è facile notare nella struttura muraria esterna, l'attuale piccolo tempio addossato allo scoglio che gli fa da tetto, è il risultato di costruzioni eseguite in epoche diverse: il primitivo oratorio e due ampliamenti posteriori. All'interno, sulla viva roccia del pavimento venuta alla luce nei recenti restauri, si possono notare due piccole cavità, probabili "mortai" per macinare cereali e farne farina.

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Pag. 8 L’ITTOSAURO DI GENGA E IL MUSEO

Gli ittiosauri sono rettili di ambiente marino che vissero durante l'Era Mesozoica, tra 250 e 66 milioni di anni fa. Parenti alla lontana dei più famosi dinosauri o degli attuali coccodrilli, sono oggi completamente estinti. Probabilmente gli ittiosauri furono i più grandi animali vissuti nell'ambiente marino che dominava l'attuale area umbro-marchigiana durante il Giurassico finale, circa 150 milioni di anni fa. L'area di ritrovamento Il cosiddetto "Ittiosauro di Genga" fu ritrovato nei pressi di Camponocecchio da un ricercatore locale il 20 luglio 1976, durante i lavori per la realizzazione di una galleria lungo la S.S. 76. Riconosciuta subito la sua valenza scientifica il fossile fu

oggetto di uno studio preliminare in situ, quindi fu recuperato isolando con mezzi meccanici una lastra di roccia di notevoli dimensioni. Dopo alcune operazioni di consolidamento preventivo, il reperto fu collocato nell'Abbazia di S.Vittore, dove ancora oggi si trova, nel Museo Speleontologico-Archeologico sito nel vecchio cenobio del sec. XI, dei monaci benedettini che avevano la custodia e l'officiatura della chiesa dell'Abbazia di San Vittore. Lo studio Dal punto di vista scientifico l'esposizione dell'"Ittiosauro di Genga" alla "Mostra dei vertebrati fossili italiani", tenutasi a Verona nel 1980, è stata seguita da un lungo periodo di dimenticanza. Soltanto oggi, grazie al fattivo interessamento della Soprintendenza Archeologica per le Marche, inizia il definitivo lavoro di restauro e pulizia del fossile con una serie di delicate operazioni che consentiranno di porre in risalto tutte le ossa dalla roccia incassante. L'Ittiosauro di Genga: dopo i primi interventi di restauro esplorativo sono emerse le due grandi sclerotiche che supportavano gli enormi occhi da predatore del rettile marino.

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TARIFFE DI INGRESSO CATEGORIA – TARIFFA - AGEVOLAZIONI

INTERI € 4,00 RIDOTTI € 2,00 visitatori in possesso del biglietto di ingresso grotte-stessa data, militari, invalidi di guerra e del lavoro, speleologi, tesserati CAI, universitari e over 65 anni SCOLARESCHE E RAGAZZI € 1,00 6/14 anni, insegnanti ingresso gratuito COMITIVE € 1,50 Minimo 20 persone; una gratuita ogni 20 persone GRATUITO R agazzi sotto i 6 anni, portatori di handicap e cittadini residenti del Comune di Genga ORARIO DI APERTURA MUSEO SPELEO PALEONTOLOGICO ED ARCHEOLOGICO PERIODO NOVEMBRE-FEBBRAIO Dal Lunedì al Venerdì dalle ore 12:00 alle ore 15:00 Sabato e festivi dalle ore 10:30 alle ore 12:30 e dalle ore 13:30 alle ore 17:30 PERIODO NATALIZIO dalle ore 10:30 alle ore 12:30 e dalle ore 13:30 alle ore 17:30 PERIODO MARZO - LUGLIO e SETTEMBRE - OTTOBRE (tutti i giorni) dalle ore 10:30 alle ore 12:30 e dalle ore 13:30 alle ore 17:30 AGOSTO (tutti i giorni) orario continuato dalle ore 8:00 alle ore 20:00 GIORNI DI CHIUSURA 4 Dicembre, Natale, Capodanno e dal 10 al 30 Gennaio inclusi Informazioni e prenotazioni Grotte: Tel. 0732 90 090 op. 90 080 Biglietteria Grotte: 0732 90 50 20 Informazioni e prenotazioni Museo: 0732 90241 Uffici Amministrativi: Tel. 0732 97211 Fax 0732 97200 Email: [email protected] Internet: www.frasassi.com

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LE GROTTE DI FRASASSILE GROTTE DI FRASASSILE GROTTE DI FRASASSILE GROTTE DI FRASASSI LA STORIA Possiamo affermare con certezza che una sistematica ricerca di speleologi e geologi nella zona di Frasassi ha avuto inizio nel 1948, grazie all'attività del Gruppo Speleologico marchigiano di Ancona. Si deve ricordare tuttavia che anche nel periodo tra le due guerre vi furono alcune esplorazioni e ricerche di studiosi di preistoria e di scienze naturali, ma furono episodi sporadici. Proprio nel 1948, e precisamente il 28 giugno, Mario Marchetti, Paolo Beer e Carlo Pegorari del suddetto Gruppo Speleologico scoprirono l'ingresso della Grotta del Fiume. Numerose altre esplorazioni e scoperte si avranno nella zona, grazie ai Gruppi Grotte del Club Alpino Italiano (C.A.I.) di Jesi e di Fabriano. Nel 1966 un componente del Gruppo Speleologico fabrianese, Maurizio Borioni, troverà all'interno della Grotta del Fiume un'ulteriore diramazione, della lunghezza di oltre un chilometro. Da questo momento le esplorazioni e le ricerche divennero più assidue ed entusiastiche. Cinque anni dopo, nel luglio 1971, una nuova scoperta. Stavolta sono alcuni giovani jesini a trovarsi di fronte ad una stretta apertura da cui fuoriesce una notevole corrente d'aria. Essi sono Armando Antonucci, Mauro Brecciaroli, Mauro Coltorti, Mario Cotichelli, Massimo Mancinelli, Giampiero Rocchetti e Roberto Toccaceli. Lavorano per circa un mese ad ampliare lo stretto passaggio, e il primo agosto successivo oltrepassarono quella che sarà definita la "Strettoria del tarlo". Si apriranno così alla meraviglia dei giovani circa cinque chilometri di nuove cavità, con un insieme di cunicoli, pozzi e imponenti gallerie, all'interno delle quali troveranno tracce animali conservate attraverso i millenni. Le scoperte di questo anno fortunato non finiscono quì. La prima traccia della scoperta più rilevante, quella della Grotta Grande del Vento, si avrà il 25 settembre dello stesso 1971, quando Rolando Silvestri del Gruppo Speleologico Marchigiano Club Alpino Italiano di Ancona, attraversando le pendici nord del monte Vallemontagnana, scoprì un piccolo imbocco. Con l'aiuto di alcuni amici riuscì ad aprire un varco in una piccola sala. Alla delusione per la piccola scoperta si accompagnò quasi subito la speranza che ci fosse in vista qualcosa di ben più grande.

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Pag. 11 Nella piccola sala, infatti, vi erano numerose aperture da cui fuoriuscivano correnti d'aria. Dopo una faticosa opera di scavatura, che durerà alcuni giorni, s'inoltrarono in una strettoia e di qui scivolarono in direzione del ciglio di un vuoto. Gettarono un sasso nel vuoto e si resero conto dell'ampiezza e della profondità della grotta. Il loro calcolo, non lontano dal vero, fu di oltre cento metri. Una scoperta incredibile, che creò grande entusiasmo tra i membri del gruppo. La meravigliosa Grotta Grande del Vento fu consegnata così all'ammirazione dell'uomo. Il problema diventò a quel punto per loro cercare di penetrare nella cavità e raggiungere il fondo. In tempi rapidi si munirono della necessaria attrezzatura e, con una nuova spedizione, si calarono nell'enorme grotta sottostante cui sarà dato il nome di "Abisso Ancona". Le luci degli speleologi anconetani misero subito in evidenza lo splendore e la singolare bellezza di questo nuovo ambiente. La scoperta fu diffusa e fatta conoscere anche attraverso la stampa. Proseguirono poi e si intensificarono le attività del Gruppo Speleologico di Jesi e del Gruppo anconetano, il primo nella Grotta del Fiume e il secondo nella Grotta Grande del Vento. Loro obiettivo era quello di trovare la congiunzione, la via di comunicazione tra le due cavità che essi ritenevano dovesse necessariamente esserci. La loro convinzione e la loro faticosa ricerca sarà realizzata circa due mesi dopo, l'8 dicembre, ma saranno alcuni speleologi del C.A.I. di Fabriano a portarsi sulle tracce degli speleologi anconetani nella Grotta Grande del Vento. Essi diedero anche un nome a quel passaggio: "Condotta dei fabrianesi". Le due enormi grotte diventarono così, d'ora in poi, un enorme labirinto di ambienti sotterranei che si susseguono incessantemente per oltre tredici chilometri. Soltanto gli speleologi, con attrezzature particolari e non senza talune difficoltà, sono in grado di esplorare nella sua interezza questo stupendo mondo sotterraneo; agli altri non restano che le foto, pur bellissime. Sul finire del 1972 venne costituito il "Consorzio Frasassi", con l'obiettivo di salvaguardare e valorizzare le grotte di Frasassi e il territorio comunale entro cui si trovano. Il Consorzio venne costituito tra il Comune di Genga e la Provincia di Ancona. Fu costruita una galleria artificiale di oltre 200 metri, che conduceva all'ingresso della Grotta Grande del Vento, e poi all'interno fu tracciato un comodo percorso di circa 600 metri. Si diede incarico a Cesarini di Senigallia di curare l'illuminazione ed egli lo fece magistralmente. Si erano così realizzate le condizioni minime per rendere accessibile ai turisti una delle parti più belle della Grotta Grande del Vento. L'apertura risale al 1° settembre 1974; da allora numerosi turisti continuano a visitare questi luoghi incantevoli in cui possono apprezzare la bellezza, lo splendore e la maestosità della natura.

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Pag. 12 GENESI DELLE GROTTE DI FRASASSI

Risalita attraverso lo sciame di diaclasi e faglie, l'acqua mineralizzata (individuata attualmente dove scorre il fiume Sentino) si è incontrata con l'acqua più fredda proveniente dalla percolazione superficiale e soprattutto dalla falda di subalveo del fiume Sentino. In questi piani di faglia e nelle disgiunzioni del Calcare massiccio ha avuto origine il complesso carsico Grotta grande del vento. Difficile è stabilire la data certa della sua formazione. Considerato, comunque, che l'elemento base è l'acqua sulfurea e che questa ha potuto risalire unicamente quando il Calcare massiccio è stato spezzato e tagliato dalle faglie, nella valutazione dell'età di questi eventi post-orogenici, avvenuti nel Pliocene Superiore, è possibile affermare che l'origine delle prime sale possa essere datata ad un milione quattrocentomila anni fa. In quel periodo il Sentino aveva il suo alveo molto più alto rispetto all'attuale posizione e tutta l'idrografia era più alta di due-trecento metri: è a questa quota che si incontravano, all'interno della montagna, lungo i piani di faglia, l'acqua artesiana mineralizzata e l'acqua più fredda del torrente Sentino: dal loro connubio avvenivano la dissoluzione del calcare ed il deposito del gesso. Possiamo osservare che quando il fiume Sentino era ad una quota di 250 metri più alta (testimoniata dall'incisione sulle pareti della Gola di Frasassi a varie quote) il suo regime era saltuario e, in periodi autunnali e primaverili, le piene avevano una notevole forza erosiva data l'elevata pendenza dell'alveo, così le acque incidevano rapidamente la roccia e il suo letto si abbassava molto velocemente; di conseguenza, abche l'idrografia sotterranea, che si raccordava con il Sentino, subiva un abbassamento altrettanto veloce originando, all'interno, un carsismo con condotte verticali e piccole sale, non riuscendo in questi casi a lasciare depositi di gesso per il breve stazionamento della zona di reazione. Tutto questo è stato riscontrato nella realtà, infatti le cavità carsiche a quota 250 metri sono di modeste dimensioni, isolate e poco appariscenti. Man mano che il torrente Sentino seguitava a scendere di quota per l'intensa erosione, l'acqua del fiume tendeva ad essere meno impetuosa e meno veloce: conseguentemente l'idrografia sotterranea si abbassava più lentamente rispecchiando esattamente la situazione d'equilibrio del fiume. La zona di reazione tra acqua sulfurea e le acque fredde del torrente stazionavano sempre più a lungo alla stessa quota permettendo la formazione di quel complesso di sale grandiose che oggi ritroviamo. Dove il livello di risalita dell'acqua sulfurea era superiore all'alveo del Sentino si formavano, convergenti verso il torrente, condotte sub-orizzontali di raccordo idrografico. La struttura base del complesso ipogeo di Frasassi è costituito da 6-8 livelli sovrapposti che rappresentano cicli erosivi del Sentino in lunghi periodi geologici.

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Pag. 13 L’ORIGINE DELLA “GOLA DI FRASASSI Dai rilievi geomorfologici risulta che la paleo-geografia dell'area era costituita da corsi d'acqua principali con direzione SW-NE che dalle pieghe appenniniche, con alvei rettilinei, si immettevano nel mare Adriatico. Contemporaneamente i loro affluenti, inseriti nelle sinclinali e lungo le linee di vecchie faglie, avevano un andamento idrografico perpendicolare ai primi.

La regressione della linea di costa e il perdurare delle spinte orogeniche, che sollevavano gli Appennini, incrementarono l'azione erosiva dei corsi d'acqua principali, i quali ampliarono il loro bacino imbrifero attraverso catture fluviali lasciando negli alvei abbandonati valli relitte parallele. L'attuale reticolo idrografico, che può

sembrare complicato da un'apparente indipendenza dei corsi d'acqua, è invece riconducibile ad uno schema evolutivo caratterizzato da catture fluviali successive. E' in questo meccanismo particolare che possono rientrare l'origine e la formazione della Gola di Frasassi e della Gola della Rossa. Dunque l'apertura e l'evoluzione della Gola di Frasassi sono state realizzate dal taglio progressivo del rilievo calcareo spartiacque costituito da Monte Valmontagnana - Monte Frasassi, lungo i versanti del quale scorrevano corsi d'acqua diametralmente opposti che, integrati sia dalle fratture della roccia sia da un particolare e grandioso carsismo, hanno reso possibile la cattura delle acque del bacino imbrifero dell'entroterra appenninico, originando l'attuale assetto idrografico. MORFOLOGIA DELLA GROTTA DEL GRANDE VENTO Le paleosale, così chiamate perchè rappresentano una posizione statica delle Grotte di Frasassi attraverso il tempo, rappresentano la fase primordiale di reazione dell'acqua sulfurea sul Calcare massiccio. Nel punto di risalita, dove si incontravano l'acqua sulfurea e l'acqua fredda del fiume, avveniva la reazione per miscela di acque carbonatiche che provocava lo scioglimento delle pareti calcaree e il deposito di gesso per saturazione della soluzione. Queste paleosale hanno una sezione trasversale sempre a forma di campana, che dovrebbe corrispondere ad un ciclo intero di erosione del fiume Sentino e di tutta l'idrografia ad esso collegata. Le paleosale, se non interessate da percolazioni idriche o stillicidi, si presentano spoglie da concrezioni calcaree ma ricche di depositi di gesso bainco (sala Manhattan).

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Pag. 14 Le sale evolute o sprofondate, rappresentano, invece, una fase successiva alla formazione del complesso carsico. Dopo ripetuti cicli di erosione del fiume, riflessi all'interno della Grotta con formazione di vari piani rappresentati da paleosale, si è giunti ad un periodo di stasi della posizione dell'alveo del fiume Sentino. In tale circostanza la zona di reazione ha potuto agire sempre alla medesima quota allargando le paleosale nel senso orizzontale. Al proseguire del fenomeno, è venuto a mancare il sostegno alla volta calcarea che così è crollata. Questo crollo ha portato all'unione in un'unica grande sala di due o più piani sovrapposti. IL TORRENTE SENTINO E LE ACQUE SULFUREE Il complesso montuoso Monte Valmontagnana - Monte Frasassi è caratterizzato da un motivo geologico a pieghe, con un'ampia anticlinale calcarea corrispondente al rilievo orografico, e da strette sinclinali che corrispondono a valli e pianure (area di Pianello di Genga - area di S. Vittore Terme). Su queste strutture geologiche, dopo gli eventi orogenici e agevolata da faglie e diaclasi, si è inserita la circolazione idrica superficiale costituita dal torrente Sentino e dal ruscellamento e dilavamento ad esso collegato. Questi corsi d'acqua, ostacolati dal complesso montuoso di Frasassi, hanno formato, all'inizio del Pleistocene, un grande lago all'altezza di Pianello di Genga e filtrando in profondità attraverso le fratture della roccia calcarea, hanno raggiunto i sottostanti depositi Evaporitici Riabliani costituiti da salgemma, gessi e livelli bituminosi (Agip pozzo Burano). Attraverso millenni le acque ristagnanti nell'area di Pianello - Genga, agendo in profondità e sottoposte a notevoli pressioni idrostatiche, hanno provocato la soluzione degli Evaporiti Riabliani, sciogliendo salgemma e gesso, scomponendo quest'ultimo in bicarbonato di calcio e acido solfidrico (acque sulfuree). Con questi meccanismi le acque, arricchitesi in profondità di sali minerali, sbarrate da terreni impermeabili, sono risalite lungo i piani di faglia, in obbligo alla legge dei vasi comunicanti, manifestandosi con sorgenti e ruscellamenti, in località S. Vittore Terme, dove la superficie topografica è più bassa del bacino che le alimenta.

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Pag. 15 LE CONCREZIONI Le stalattiti, le stalagmiti, le colate calcetiche ed i laghetti cristallizati, che rappresentano la componente più bella delle grotte, sono l'espressione finale del lungo lavoro svolto dall'acqua piovana sulla roccia. Infatti, se i calcari sono fessurati, l'acqua di precipitaizone meteorica che penetra attraverso la superficie del terreno circola all'interno delle rocce seguendone le fessure, poiché nell'acqua è sempre presente una certa quantità di CO2 il calcare viene parzialmente sciolto e le fessure vengono allargate là dove la circolazione dell'acqua è maggiore. Il Calcare massiccio, nella zona di Frasassi, è ampiamente ricoperto da terreni impermeabili e semipermeabili (Monte Valmontagnana); l'acqua piovana non si infiltra uniformemente nella zona ma lungo gli strati e lungo le fratture: qui trasforma il carbonato di calcio della roccia in bicarbonato di calcio, il quale è solubile. All'interno della grotta, il processo chimico tende ad invertirsi: il continuo stillicidio causa la cessione dell'anidride carbonica dall'acqua all'aria, il bicarbonato, ceduta la CO2, diviene insolubile e si deposita producendo splendide concrezioni; sulla volta delle sale si formano splendidi depositi calcitici chiamati "stalattiti", nate da un piccolo cilindro di calcite cavo all'interno del quale inizialmente, passava la goccia, poi sono cresciute enormemente con il dilavamento esterno. Le concrezioni alla base delle sale si chiamano "stalagmiti", che sono il risultato dell'impatto delle gocce sul terreno. Queste presentano varie forme non sempre compatte. Nella Grotta grande del vento, data la vastità degli ambienti, per il notevole percorso fatto dallo stillicidio che cade dalla volta, l'acqua diviene molto satura e oltre a depositare carbonato di calcio nel punto d'impatto, incrosta a raggera l'area circostante. Questo meccanismo ha permesso la formazione di stalagmiti giganti (il gruppo dei giganti, il castello, l'obelisco) che tendono a crescere e ad allargarsi a raggera perchè via via catturano lo stillicidio più esterno. Quando le concrezioni con il passare del tempo, si accrescono enormemente possono unirsi per formare colonne di forme e colore diversissimi. L'acqua può dilavare la roccia (allora si potranno formare colate calcitiche) o può ristagnare e formare laghetti che tendono a saturarsi e ricoprirsi don druse. Nella Grotta grande del vento estesi depositi di gesso vengono sciolti dal continuo stillicidio nei piani superiori. Di conseguenza, l'acqua di percolazione, persa la CO2 e carica di sale di carbonato di calcio, sciogliendo il gesso presente nelle sale superiori, si trova eccezionalmente soprasatura e cola cristallizzando con calcite purissima su laghetti quasi orizzontali. Questa particolarità si riscontra nelle concrezioni dei Giganti e nel laghetto cristallizzato (Abisso Ancona), nel Canyon e nella sala della Candeline. Infine, nella parte più remota del complesso carsico, le pareti sono ricoperte da una fitta rete di vermiculazioni argillose, denominate "pelli di leopardo" per la loro particolare morfologia.

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URBINO

Le Origini

La città di Urbino ha origini lontane e il Poggio, il colle dove sorse "Urvinum Mataurense" divenuto municipio romano probabilmente dopo la "Lex Julia Municipalis" che Giulio Cesare fece varare nel 48 a. C., fu abitato fin dalla preistoria. In epoca romana Urbino ebbe il carattere di città fortificata, per la sua importante posizione strategica, e fu dotata di solide mura. Ciò non impedì a Belisario, generale bizantino, di conquistarla, seppure prendendola per sete a causa del prosciugarsi di una fonte, strappandola così ai Goti nel dicembre del 538. Sotto i bizantini, Urbino fu inserita, insieme a Fossombrone, Iesi, Cagli e Gubbio, nella Pentapoli Annonaria; nel 568 subì una prima invasione longobarda che si protrasse fin verso la fine del secolo, per poi ripetersi con Lituprando all'inizio dell'VIII secolo.

Federico Maria, nipote di Guidobaldo e da questi adottato ed indicato per la successione, diede inizio alla Signoria dei Della Rovere che durerà fino al 1631 allorchè, con la morte di Francesco Maria II, il ducato fu devoluto alla Santa Sede. Con la fine della Signoria roveresca, innumerevoli opere d'arte presero la via di Firenze e di Roma dove, tra l'altro, venne trasferita la celeberrima biblioteca di Federico. Nel 1155 fanno la loro comparsa sulla scena urbinate i Montefeltro, di origine germanica, con la nomina a vicario imperiale della città del Conte Antonio da parte dell'imperatore Federico Barbarossa. Nel 1213 Buonconte e Taddeo di Montefeltro ebbero in feudo Urbino dall'imperatore Federico II ma, a causa delle dure reazioni degli urbinati, solo nel 1234 riuscirono ad imporre la loro signoria sulla città. A Buonconte succedettero Montefeltrano e Guido il Vecchio che lo storico Luodovico Muratori ha definito il più accorto e vigoroso condottiero d'armi di quella età. A risollevare le sorti della famiglia fu un altro Conte Antonio che riuscì a riprendere Urbino dopo la morte dell'Albornoz, ad allargare i possedimenti e ad ottenere nel 1390 l'investitura papale. A sua volta il figlio Guidantonio accrebbe e consolidò lo stato e lo portò ad un livello di soddisfacente prosperità. Egli ebbe un figlio naturale, Federico nato nel 1422 da una donna nubile di Gubbio, ed uno legittimo, Guidantonio,

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che la seconda moglie, Caterina Colonna, gli diede nel 1426. Fu quest'ultimo ad succedere a al padre ed ottenere il titolo ducale dal pontefice Eugenio IV, nel 1443. La sua tragica fine ad appena 17 anni, a seguito di una congiura di urbinati, che gli rimproveravano la vita dissipata e il dissanguamento delle finanze pubbliche, portò alla ribalta Federico con il quale ebbe inizio il periodo più splendido di Urbino. La città tutta parla della magnificenza di quell'epoca che ha nel palazzo ducale la testimonianza irripetibile dell'estremo livello di perfezione e grandezza raggiunte. Dopo Federico la Signoria fu assunta dal figlio Guidobaldo che pur provvisto di eccellenti qualità umane, non aveva le doti poltiche e militari per destreggiarsi con successo nell'aggrovigliata situazione italiana e sorattutto non aveva buona salute, tanto che morì nel 1508 ad appena 36 anni e senza figli. Per gli urbinati Guidobaldo fu il modello del principe garbato e del perfetto gentiluomo, egli lasciò alla città due importanti istituzioni che sono ancora oggi il suo orgoglio: nel 1506 creò infatti il Consiglio dei Dottori, primo embrione dell'Università feltresca, e un anno dopo fondò la Cappella Musicale del SS. Sacramento.

Nel 733 discese in Italia Carlo Magno che, dopo aver distrutto il regno longobardo, fece la celebre donazione con la quale anche Urbino fu assegnata alla Chiesa. A quell'epoca la città ara una importante sede vescovile: la costituzione della diocesi infatti risale al 313 ed ebbe in Evandro il suo primo Vescovo; le notizie sulla Chiesa locale sono tuttavia, per alcuni secoli, alquanto frammentarie, Dal 1056 al 1088 alla guida della diocesi troviamo il Beato Mainardo che fu amico di San Pier Damiani con il quale collaborò per la riforma della Chiesa e del Clero.

Sul piazzale del Mercatale si erge un grande baluardo dove l'architetto senese Francesco di Giorgio Martini (1439-1501) costruì la Rampa, quella che è comunemente chiamata "scala a lumaca", recentemente riscoperta e restaurata. La rampa è inserita in un ampio Torrione circolare a sua volta collegato in un unico concetto funzionale con il Palazzo di Federico, che poteva essere raggiunto direttamente a cavallo, sia con la grande scuderia ducale conosciuta come La Data. Il significato di tale denominazione è tuttora sconosciuto, mentre è lo stesso costruttore a descrivere "una stalla la quale io ho ordinata dal mio illustrissimo Duca di Urbino". Parte integrante, insieme al torrione con la rampa, di un unico complesso costruttivo, il locale scuderia si estendeva fino al successivo baluardo occupando tutto il lato orientale del Mercatale; lungo 127 metri e largo 10, poteva contenere 300 cavalli sui due lati.

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Pag. 18 La rocca non è dovuta, nonostante il nome, al cardinale Egidio Alvarez Carillo de Albornoz, come vuole la tradizione, ma fu fatta costruire dal suo successore, il Cardinale Angelico Grimoard tra il 1367 e il 1371. Si trova sul punto più alto (m 485) di Urbino e consente di osservare la città che appare incastonata nel verde delle colline che la circondano e nel grigio dei monti appenninici. Nel 1673 la rocca fu ceduta, insieme al campo attiguo, ai padri Carmelitani Scalzi del vicino convento, oggi sede dell'Accademia di Belle Arti, finchè, nel 1799 la fortezza fu riedificata, per esigenze militari, a cura di Vincenzo Nini, un altro architetto urbinate. Il monumento è stato recentemente sottoposto a restauro, e fra l'altro, è stata scoperta la porticina che immetteva nel camminamento tramite il quale era possibile raggiungere Porta Valbona ed il Palazzo Ducale.

IL DUOMO La costruzione della cattedrale fu voluta da Federico da Montefeltro vicino al Palazzo. Il progetto venne affidato a Francesco di Giorgio Martini e la consacrazione avvenne nel 1534. La cattedrale venne restaurata nel 1789 e la facciata è stata disegnata dall'architetto Carlo Morigia. La gradinata e la balaustra furono aggiunte nel 1859. Le sette statue che ornano la facciata sono opere di GianBattista Monti. L'interno è a tre navate con volte a botte scandite da archi, pilastri e colonne possenti. Il Duomo è ricco di pregevoli dipinti, statue, stucchi, decorazioni: ospita dipinti di Federico Barocci, Claudio Ridolfie altri.

SAN DOMENICO La chiesa di San Domenico venne consacrata nel 1365, ma la sua costruzion, almeno per alcune parti, deve essere anteriore di qualche decennio, come si ricava dalla datazione di alcuni affreschi absidali. La costruzione della chiesa è dovuta alla comunitá domenicana. L'interno del tempio è stato completamente rifatto nel Settecento e ha perso gran parte della decorazione che rivestiva le pareti. Nella facciata esterna sono rimasti il fregio in cotto e il grande oculo centrale, ornato da un fregio con motivi vegetali. La parte anteriore è stata alterata dall'apertura di due finestre. Il protiro in travertino che domina la facciata è stato realizzato tra il 1449 e il 1454 dal fiorentino Maso di Bartolomeo. La lunetta è di Luca della Robbia (1451): il gruppo di terracotta invetriata, su sfondo azzurro rappresenta la Madonna con il Bambino e Santi . Si tratta di una copia. L'originale è conservato al Palazzo Ducale.

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Piazza del Rinascimento si trova sul lato orientale del Palazzo ducale. Nel mezzo della piazza (anticamente campo di gioco della pallacorda) si erge l'obelisco egizano: risale al 580 circa a.C. e fu portato da Sais a Roma nel 90 d.C. da dove fu trasferito nel 1737 ad Urbino, dono del cardinale Alberti. Venne collocato proprio all'inizio di piazza Rinascimento, di cui accresce l'effetto scenografico

La Chiesa di San Bernardino sorge sul colle di San Donato, a due chilometri dal centro storico. La tradizione ha sempre attribuito la costruzione a Donato Bramante, e non mancano all'interno delle soluzioni tipicamente bramantesche. La critica oggi appare orientata ad attibuirne la paternità a Francesco di Giorgio Martini. Vista dall'esterno la chiesa rivela

la mano dell'architetto senese, sia nelle linee generali che nei particolari.� La costruzione della chiesa fu voluta da Federico da Montefeltro per essere destinata a mausoleo ducale, ma i lavori si sarebbero protratti fin dopo il 1491 e alla sua morte (1482) il Duca sarebbe stato sepolto, in attesa di traslazione, nella attigua e più antica Chiesa di S. Donato. L'interno di S. Bernardino è a navata unica e si prolunga nel profondo coro rettangolare. Le pareti sono divise da una cornicetta su cui, nel coro, si imposta una

volta a botte che invece, nella navata della chiesa, si imposta sul cornicione recante un'iscrizione dedicata al Santo.