ESCHILO ORESTEA - Altervista

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ESCHILO ORESTEA Un recente allestimento scenico dell'Orestea al teatro di Siracusa Data e luogo della prima rappresentazione: 458 a.C., Grandi Dionisie, Teatro di Dioniso ad Atene. Premio: Primo (trilogia vincitrice). La trilogia “legata”: L’Orestea è una trilogia formata dalle tragedie Agamennone, Le Coefore, Le Eumenidi e seguita dal dramma satiresco Proteo, andato perduto, con cui Eschilo vinse trionfalmente nel 458 a.C. alle Grandi Dionisie. Delle trilogie di tutto il teatro greco classico, è l'unica che sia sopravvissuta per intero. Essa costituisce il momento di massima maturità di Eschilo, nonché la sua ultima rappresentazione ad Atene prima di trasferirsi a Gela, dove morirà due anni dopo: un'uscita di scena da vero dominatore, ma soprattutto, per noi, la summa del suo pensiero. Le tre tragedie costituiscono una trilogia “legata”, in cui viene rappresentata un’unica lunga vicenda relativa alla stirpe maledetta dei Pelopidi. I drammi che la compongono ne raccontano il finale: l’assassinio di Agamennone da parte della moglie Clitennestra (Agamennone), la vendetta del loro figlio Oreste che a sua volta uccide la madre, seguita dalla sua follia (Coefore), la persecuzione del matricida da parte delle Erinni e la sua assoluzione finale ad opera di Atena e del tribunale dell’Areopago (Eumenidi). Non è sicuro che si possa parlare in questo caso di una tetralogia legata, ma pare di sì: infatti si ritiene che il dramma satiresco Proteo (di cui sopravvivono solo due versi) s'ispirasse alla storia raccontata nel Libro IV dell’Odissea, che vede Menelao, fratello di Agamennone, bloccato nell’isola di Faro dalla calma di vento, recarsi da Proteo, il Vecchio del mare che vive sull’isola, per sapere se la calma di venti sia causata dalla collera di un dio e per conoscere il proprio futuro. Per parlargli è però necessario catturarlo in un agguato, cosa quasi impossibile, perché Proteo, per sfuggire alla cattura, si trasforma in tutta una serie di animali e perfino vegetali.

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ESCHILO ORESTEA

Un recente allestimento scenico dell'Orestea al teatro di Siracusa Data e luogo della prima rappresentazione: 458 a.C., Grandi Dionisie, Teatro di Dioniso ad Atene. Premio: Primo (trilogia vincitrice). La trilogia “legata”: L’Orestea è una trilogia formata dalle tragedie Agamennone, Le Coefore, Le Eumenidi e seguita dal dramma satiresco Proteo, andato perduto, con cui Eschilo vinse trionfalmente nel 458 a.C. alle Grandi Dionisie. Delle trilogie di tutto il teatro greco classico, è l'unica che sia sopravvissuta per intero. Essa costituisce il momento di massima maturità di Eschilo, nonché la sua ultima rappresentazione ad Atene prima di trasferirsi a Gela, dove morirà due anni dopo: un'uscita di scena da vero dominatore, ma soprattutto, per noi, la summa del suo pensiero. Le tre tragedie costituiscono una trilogia “legata”, in cui viene rappresentata un’unica lunga vicenda relativa alla stirpe maledetta dei Pelopidi. I drammi che la compongono ne raccontano il finale: l’assassinio di Agamennone da parte della moglie Clitennestra (Agamennone), la vendetta del loro figlio Oreste che a sua volta uccide la madre, seguita dalla sua follia (Coefore), la persecuzione del matricida da parte delle Erinni e la sua assoluzione finale ad opera di Atena e del tribunale dell’Areopago (Eumenidi). Non è sicuro che si possa parlare in questo caso di una tetralogia legata, ma pare di sì: infatti si ritiene che il dramma satiresco Proteo (di cui sopravvivono solo due versi) s'ispirasse alla storia raccontata nel Libro IV dell’Odissea, che vede Menelao, fratello di Agamennone, bloccato nell’isola di Faro dalla calma di vento, recarsi da Proteo, il Vecchio del mare che vive sull’isola, per sapere se la calma di venti sia causata dalla collera di un dio e per conoscere il proprio futuro. Per parlargli è però necessario catturarlo in un agguato, cosa quasi impossibile, perché Proteo, per sfuggire alla cattura, si trasforma in tutta una serie di animali e perfino vegetali.

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Alla fine però, esausto, accetta di parlare con lui e gli rivela che, per poter tornare a casa, dovrà andare in Egitto e lì offrire agli dei ecatombi perfette. Infine Proteo racconta quale destino hanno avuto gli altri eroi di ritorno dalla guerra di Troia: un lungo passo è dedicato ad Agamennone ed alle vicende trattate nell’Orestea. Il legame fra il Proteo e la trilogia tragica sarebbe quindi stato costituito dal rovesciamento parodistico dell’elemento della calma di vento, che nel mito tragico impedisce la partenza di Agamennone e della flotta in Aulide, e dalla profezia di Proteo stesso, che fa riferimento alle vicende dell’Orestea. Antefatto: Tantalo, figlio di Zeus, re della Frigia e della Lidia, per provare l'onniscienza degli dei li

invitò ad un banchetto in cui offrì loro le carni del giovane figlio Pèlope. Accortisi dell’inganno, gli dei, sdegnati, uccisero Tantalo e resuscitarono Pèlope. Tantalo fu punito con il supplizio che da lui prende il nome: fu legato ad un albero carico di ogni qualità di frutti ed immerso in un lago d'acqua dolce, ma appena provava a bere il lago si abbassava e non appena provava a prendere un frutto i rami si allontanavano. Inoltre un grosso macigno incombeva su di lui, facendolo vivere in uno stato di terrore perenne.

Pèlope, divenuto re, fu costretto da un'invasione di barbari ad intraprendere un viaggio in Grecia alla ricerca di un nuovo regno. Giunse quindi alla corte del re Enomào, re di Pisa in Elide e padre di Ippodamìa, che il re non voleva concedere in sposa a nessuno perché un oracolo gli aveva predetto che sarebbe stato ucciso dal genero. Enomào possedeva dei cavalli divini, Psilla (Pulce) e Arpinna (Razziatrice), e perciò, sapendo di non poter essere mai battuto, proponeva ai pretendenti della figlia di gareggiare con lui in una corsa di carri: se avessero vinto, avrebbero sposato Ippodamia, in caso contrario sarebbero stati uccisi. Già tredici giovani avevano perso la vita, sicché, quando Pelope arrivò a Pisa e s'innamorò d'Ippodamia, come il Calaf della Turandot fu terrorizzato dalla vista delle teste degli sfortunati pretendenti inchiodate alle porte del palazzo. Decise quindi di vincere la gara slealmente: corruppe l'auriga Mirtilo, promettendogli che, non appena avesse vinto la corsa, gli avrebbe permesso di passare una notte con la principessa Ippodamia. Mirtilo tolse i perni degli assali del carro di Enomao e li sostituì con dei pezzi di cera. Durante la corsa le ruote si staccarono, il carro si rovesciò ed Enomao morì. Pelope inoltre non mantenne la promessa, ma annegò l'auriga suo complice, che, in punto di morte, invocò la punizione di Ermes contro di lui e tutta la sua discendenza. Inizia così la maledizione di Pelope e della sua stirpe, che egli inutilmente cercò di stornare istituendo le Olimpiadi.

Àtreo e Tieste, figli di Pelope e Ippodamìa, erano due fratelli gemelli, ma, come prima conseguenza della maledizione, anziché amarsi si odiavano a morte, poiché il secondo aveva ottenuto il trono di Micene (in questo caso di Argo, poiché Eschilo ambienta la vicenda ad Argo) con l’inganno, togliendolo al primo, cui spettava di diritto. Infatti, alla morte di Euristeo, sovrano di Micene, la popolazione era stata chiamata a scegliere tra i due fratelli il successore; Tieste, divenuto l’amate di Èrope, moglie di Atreo, era riuscito a farsi eleggere con l'inganno, ma siccome Zeus gli preferiva Atreo, aveva mandato Ermes a farsi promettere da Tieste che avrebbe ceduto il regno qualora il sole avesse mutato il proprio corso. Il sovrano aveva acconsentito ed era caduto in trappola, perché il padre degli dèi aveva invertito il tragitto del sole. Tieste aveva quindi dovuto lasciare la città, mentre Atreo aveva preso il suo posto. Venuto a conoscenza dell'adulterio della moglie, il nuovo re mise in atto un'atroce vendetta: invitò Tieste ad un banchetto, poi di nascosto uccise i tre figli di lui, li cucinò e li diede in pasto al fratello. Alla fine del convito gli mostrò la testa, i piedi e le mani dei bambini, cosicché il padre dei piccoli, sconvolto dal dolore e dall’orrore, fu a sua volta accecato dalla brama di vendetta. Consultò quindi l'oracolo di Delfi, che gli suggerì di commettere incesto con la propria figlia. A Sicione viveva una sua figlia, di nome Pelopia, sacerdotessa di Atena. Una notte, siccome la sua tunica si era macchiata, la ragazza si recò

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ad uno stagno vicino per lavarsi: qui Tieste le balzò addosso mascherato e la violentò, secondo il volere dell'oracolo. Pelopia rimase incinta.

Nel frattempo anche Atreo si rivolse all'oracolo delfico, che gli consigliò di far tornare Tieste a Micene. Giunse a Sicione, ma il fratello non c'era già più; conobbe invece Pelopia, se ne innamorò e la sposò, conducendola nella propria città assieme al piccolo Egisto, frutto dell'unione incestuosa tra Tieste e sua figlia. Quando Egisto ebbe sette anni, lo incaricò di uccidere Tieste nel sonno, ma questi se ne accorse mentre la spada stava per colpirlo e fermò la mano del figlio; poi intimò ad Egisto di chiamare la madre, alla quale confessò tutto. Pelopia, sconvolta, si trafisse con la spada. Il padre rivelò poi ad Egisto la sua vera identità e gli assegnò l'ultimo compito: uccidere Atreo. Egisto obbedì e Tieste si riprese il trono.

Intanto Clitennestra, sorella di Elena, era andata in sposa ad Agamennone, uno dei due figli di Atreo, mentre Elena aveva sposato suo fratello Menelao. Egisto trasferì l’odio paterno sui figli dell’odiato zio.

Dopo il rapimento di Elena da parte del troiano Paride, il comando della spedizione achea contro Troia fu assegnato a lui. Agamennone però era bloccato con la flotta in Aulide dalla calma di vento. Per propiziarsi gli dei (in particolare Artemide, che gli era ostile), su consiglio dell’indovino Calcante, accettò di sacrificare alla dea la prima creatura che gli fosse corsa incontro al suo ritorno al palazzo. Toccò alla figlia primogenita Ifigenia (chiamata anche Ifianassa), di bellezza eccezionale, che lo snaturato padre non esitò a sacrificare attirandola in un agguato (le aveva fatto credere di essere stata chiesta in moglie da Achille). I venti allora tornarono propizi, sicché la flotta poté salpare.

Clitennestra, ferita a morte nel suo amore materno, aveva concepito un odio implacabile verso il marito e giurato di vendicare la figlia, il cui assassinio era rimasto impunito, convincendo Egisto, divenuto suo amante, ad aiutarla in tale impresa.

Qui inizia la prima tragedia della trilogia, Agamennone.

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AGAMENNONE

Ambientazione: Argo (da notare la variazione intenzionale rispetto al mito, che collocava i fatti a Micene). Personaggi: Agamennone, re di Argo Clitennestra, regina di Argo Egisto, amante di Clitennestra Cassandra, schiava troiana Araldo Vedetta Coro di anziani notabili di Argo. Trama: Prologo (vv. 1-39): Monologo della vedetta appostata sul tetto della casa degli Atridi, che veglia nella notte aspettando di vedere all’orizzonte il segnale luminoso che annunci la caduta di Troia e quindi il ritorno di Agamennone. Mentre si lamenta delle fatiche che sopporta ormai da molto tempo, all’improvviso avvista il segnale e, raggiante, esce per avvisare la regina. Parodo (vv. 40-257): Entra il coro, formato da anziani notabili di Argo, che si chiede se Agamennone stia davvero tornando e rievoca gli antefatti della spedizione. Viene narrato il presagio favorevole di due

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aquile (gli Atridi) che avevano ucciso una lepre pregna (Troia). L’indovino Calcante aveva però ammonito i Greci dell’odio di Artemide contro Agamennone, capo della spedizione. La flotta achea era dunque rimasta bloccata in Aulide, e solo dopo il sacrificio di Ifigenia era potuta ripartire. Primo episodio (vv. 258-354): Clitennestra informa il coro che Troia è caduta quella notte stessa, ma non viene creduta, poiché non pare possibile che la notizia possa essere giunta in città così in fretta. Clitennestra spiega che ha potuto avere la notizia in brevissimo tempo grazie ad una staffetta di segnali luminosi tra Troia ed Argo. Primo stasimo (vv. 355-488): Inno a Zeus, lodato come colui che punisce chi infrange la giustizia. Vengono rievocati il ratto di Elena ed i morti nella guerra di Troia. Tuttavia il coro dubita ancora che la notizia dell’imminente ritorno della spedizione vittoriosa sia vera. Secondo episodio (vv. 503-680): Entra in scena l'araldo, che annuncia che Troia è caduta e che Agamennone sta tornando. È interrogato dal coro e racconta i disagi e le sofferenze della guerra, conclusasi però con la vittoria achea. Clitennestra afferma, con sinistra ironia, di aspettare con ansia il marito. Il coro chiede infine notizie di Menelao, di cui si sono perse le tracce. Secondo stasimo (vv. 681-782): Il coro fa una riflessione su Elena, paragonandola ad un leoncino allevato in casa, che, una volta cresciuto, è causa di rovina per coloro che l’hanno ospitato. Il coro ragiona infine a proposito di Dike, la giustizia, che non onora i potenti ma i puri. Terzo episodio (vv. 783-974): Arrivano su un carro Agamennone e Cassandra, principessa troiana portata in Grecia come schiava. Il primo ringrazia gli dei per l’impresa riuscita ed il ritorno a casa. Clitennestra si produce in un lungo ed elaborato discorso pieno di ambigui doppi sensi (pièce teatrali fra le più celebri, nonché cavallo di battaglia di Eschilo come attore) fingendosi sposa fedele che ha duramente sofferto per l’assenza del marito, ed insiste perché Agamennone entri in casa calpestando un lungo tappeto di porpora che si stende dalla porta del palazzo fino al carro (simbolo del fiume di sangue che fra poco scorrerà). Cassandra intanto rimane completamente muta ed immobile sul carro, come impietrita. Terzo stasimo (vv. 975-1034): Nonostante la conclusione vittoriosa della guerra ed il ritorno del sovrano, il coro ha un terribile sentore di morte imminente. Quarto episodio – quarto stasimo (vv. 1035-1330): Clitennestra apostrofa con disprezzo Cassandra, che non si decide a scendere dal carro. Non ottenendo risposta, rientra a palazzo. Subito Apollo assale la fanciulla, rendendola invasata. In un accesso di furore profetico, la poveretta rievoca le sventure passate della casa reale di Argo e prevede che tanto Agamennone quanto lei stessa saranno uccisi fra poco. Sapendo però che questo è inevitabile, non tenta di fuggire né di ribellarsi e si avvia verso la morte, entrando nel palazzo. N.B.: l’episodio è continuamente contrappuntato dal canto del coro che risponde a Cassandra, per cui non esiste un vero e proprio stasimo separato dal recitativo. Quinto episodio (vv. 1331-1576): Il coro sente provenire delle grida da dentro la casa: Cassandra viene uccisa per prima, poi viene colpito a morte Agamennone. Sconvolti, i vecchi s'interrogano su cosa fare. Esce dal palazzo Clitennestra, mostrando i cadaveri del marito e di Cassandra. Appare come svuotata di ogni energia, non più sostenuta dalla feroce ansia della vendetta che era il suo scopo da anni e che, una volta compiuta, non dà gioia, ma lascia il posto ad una stanchezza mortale. Giustifica di fronte ai coreuti il suo gesto dichiarando di aver portato giustizia era doveroso vendicare la morte di Ifigenia e l’oltraggio che Agamennone aveva compiuto portando in casa Cassandra come amante. Il coro maledice Elena e Clitennestra e lamenta la sorte toccata al re.

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Esodo (vv. 1577-1664): Entra Egisto, personaggio isterico e femmineo, che minaccia i vecchi del coro ed esulta per il piano perfettamente riuscito e per aver finalmente vendicato gli oltraggi subiti da suo padre Tieste. Clitennestra lo frena, inducendolo a non eccedere ora che giustizia è fatta ed a rientrare nel palazzo con lei. Il coro lo maledice e si allontana invocando il ritorno di Oreste.

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LE COEFORE

W.A. Bouguereau, Il rimorso di Oreste, 1862

Ambientazione: Argo. Personaggi: Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra Clitennestra Egisto Elettra, sorella di Oreste Nutrice di Oreste Pilade, cugino di Oreste Servo Coro di coefore (= portatrici di libagioni). N.B.: La seconda tragedia prende il nome dalle coefore, le portatrici di libagioni per i morti, che si recano sulla tomba di Agamennone, ma, a differenza di quanto accade nelle Supplici, il protagonista non è il coro, bensì Oreste, tant'è vero che Aristofane, nelle Rane, chiama disinvoltamente questa tragedia Orestea. Oreste, messo in salvo fuori da Argo quando era solo un bambino di otto anni, dieci anni dopo l’omicidio del padre Agamennone torna in città e, su ordine di Apollo, porta a compimento la vendetta impostagli, uccidendo la propria madre ed il suo amante Egisto. Trama: Prologo (vv. 1-21): Oreste, tornato ad Argo, giunge presso la tomba di Agamennone, accompagnato dall’inseparabile Pilade (“personaggio muto” al quale viene affidata una sola battuta), e lì si taglia una ciocca di capelli, deponendola sulla tomba in omaggio al padre. Vedendo arrivare Elettra e le donne del coro, i due si nascondono.

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Parodo (vv. 22-83): Entrano in scena Elettra e le coefore. Queste ultime cantano dell’orrore che attanaglia Argo da quando Agamennone è stato ucciso. Della venerazione che il popolo aveva per la casa reale rimane solo il ricordo. Primo episodio (vv. 84-584): Elettra spiega alle coefore che la madre ha ordinato di offrire libagioni al marito ucciso per tentare di placarne lo spirito. Clitennestra è infatti rimasta sconvolta da un orribile incubo: partoriva un serpente e gli offriva il proprio seno, ma da esso il serpente succhiava latte e sangue. Elettra non vorrebbe fare al padre offerte che provengono dalla sua assassina, ma le coefore la invitano invece a compiere il rito, pregando che venga un dio o un uomo capace di vendicare Agamennone. La ragazza accetta, ma mentre si appresta a compiere il rito nota, davanti alla tomba, un’impronta di piedi e la ciocca di capelli che Oreste aveva lasciato, e ne rimane stupefatta: nessuno, a parte lei stessa o suo fratello, avrebbe mai offerto un simile dono ad Agamennone. Ella comprende quindi per intuito che il fratello è arrivato ad Argo (la scena verrà ampiamente parodiata da Euripide nella sua Elettra). A quel punto Oreste esce dal nascondiglio ed i due fratelli, dopo una breve esitazione, si riconoscono e si abbracciano commossi. Oreste informa la sorella di essere tornato non di sua volontò, ma su ordine di Apollo, che a Delfi gli ha ordinato di vendicare il padre uccidendo i suoi assassini, minacciando in caso contrario pene terribili. Il coro allora racconta il sogno di Clitennestra, ed Oreste riconosce in se stesso il serpente che morderà la madre. I due fratelli intonano un amebeo sulla tomba del padre, che ha lo scopo di evocarne lo spirito per far sì che animi il figlio esitante; poi mettono rapidamente a punto un piano: Oreste s'introdurrà sotto mentite spoglie nella reggia con Pilade e compirà la vendetta. Primo stasimo (vv. 585-651): Il coro addita in Clitennestra la vera responsabile dell’uxoricidio, ma la giustizia è ormai prossima ad abbattersi sui colpevoli. Secondo episodio (vv. 652-782): Oreste bussa alla porta del palazzo e si presenta alla madre, che non lo riconosce, portando la notizia della propria morte e mostrando l’urna che contiene le sue ceneri. Clitennestra appare turbata ma non si lascia andare ad alcuna manifestazione emotiva, ed anzi manda l'anziana nutrice di Oreste a chiamare Egisto, raccomandando che venga scortato da gente armata. La nutrice, di fronte all’urna con le ceneri del ragazzo, scoppia in un pianto irrefrenabile e rievoca i momenti in cui lo aveva allattato ed accudito con amore. Le ancelle della casa (ossia le coefore che accompagnavano Elettra) fermano la nutrice e la convincono a dire ad Egisto di venire solo e senz'armi. Secondo stasimo (vv.783-837): Il momento della vendetta si avvicina, ed è ora di pregare Zeus perché tutto vada nel modo sperato. Se così sarà, ne beneficerà la città di Argo, ed anche i parenti di Oreste, i morti ed i vivi. Terzo episodio (vv. 838-934): Quando Egisto sopraggiunge, Oreste lo trascina subito in casa e lo uccide, rivolgendosi subito dopo alla madre. Questa, dopo aver invano tentato di difendersi, tenta di muovere Oreste a pietà mostrandogli il seno, per ricordargli di quando ella si prendeva cura di lui da bambino. Pur avendo avuto la prova dell’indifferenza della madre e pur sapendo che sta mentendo (lo ha allattato la nutrice), il ragazzo esita e la spada quasi gli cade di mano. A questo punto Pilade (che qui parla per la prima e ultima volta) gli ricorda l’ordine tassativo del dio Apollo. Oreste vince le esitazioni e trascina la madre fuori scena, dove la uccide. Il parallelismo rispetto alle uccisioni dell’Agamennone è perfetto: prima viene ucciso il personaggio meno importante, poi quello di maggior rilievo. In entrambi i casi si tratta di un uomo e una donna, in entrambi i casi i due sono amanti (seppure Cassandra lo fosse involontariamente). Terzo stasimo (vv. 935-971): Il coro esulta, affermando che la giustizia ha trionfato e che è ormai tempo che ogni traccia delle atrocità avvenute venga cancellata e la pace ritorni.

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Esodo (vv. 972-1076): Oreste, in apparente parallelismo rispetto alla tragedia precedente, si presenta in scena accanto ai cadaveri di Clitennestra ed Egisto ed inizia a giustificare le proprie azioni di fronte al coro, come aveva fatto Clitennestra nel finale dell’Agamennone, con la differenza che il coro non gli richiede alcuna giustificazione e gli è profondamente benevolo. Ma mentre sta mostrando alle coreute il mantello in cui era stato avvolto il padre prima di essere ucciso, ridotto ad uno straccio sporco di sangue e pieno di buchi, la sua mente si smarrisce di colpo ed egli perde il filo. Sul tetto del palazzo gli appaiono le Erinni, le mostruose dèe del sangue invendicato, e con orrore Oreste si accorge che le vede solo lui. Incoraggiato dal coro, che vede solo il “lieto fine” e non comprende il suo turbamento, tenta di ricominciare a parlare, ma la sua mente si sconvolge di nuovo ed egli non riesce a portare a termine il discorso: urlando atterrito, in uno dei più memorabili finali della storia del teatro, Oreste fugge inseguito dalle Erinni, sotto lo sguardo stupito del coro che non vede le terribili dee.

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LE EUMENIDI

Ambientazione: Tempio di Apollo a Delfi, poi tempio di Atena e Areopago ad Atene. Personaggi: Oreste Apollo Atena Fantasma di Clitennestra La Pizia (sacerdotessa di Apollo) Coro delle Erinni. N.B.: La terza tragedia della trilogia prende il nome dalle Erinni, dee della vendetta, che ne sono per così dire co-protagoniste insieme con Oreste: esse infatti perseguitano il ragazzo rendendolo folle, e la guarigione non sarà possibile finché non verrà celebrato un regolare processo, in cui le stesse Erinni rappresenteranno l’accusa. Trama: Prologo (vv. 1-142): È l’alba. Oreste, circondato dalle Erinni, che dormono accucciate accanto a lui come cagne fedeli, è nel tempio di Apollo a Delfi, dove si è recato per chiedere aiuto al dio. Quest’ultimo, pur promettendogli la sua protezione e pur essendo il mandante del matricidio, afferma di non essere in grado di liberarlo dalla persecuzione: la questione, in un certo senso, esula dalle sue competenze. Lo invia quindi ad Atene, presso il tempio della dea Atena, dove forse troverà la soluzione ai suoi problemi. Appare a questo punto il fantasma di Clitennestra, che aizza le Erinni contro il figlio, sdegnata del fatto che nessun dio si levi in sua difesa.

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Parodo (vv. 143-178): Le Erinni si risvegliano con orrendi guaiti e si mettono sulle tracce di Oreste fuggiasco, come cagne da caccia. Primo episodio (vv. 179-306): Apollo caccia con sdegno le orribili dee dal proprio tempio, ed esse vanno in cerca di Oreste, raggiungendolo quando è ormai nel tempio di Atena e ne sta invocando l’intervento. Lì le dee infernali lo minacciano di infliggergli la meritata punizione. Primo stasimo (vv. 307-396): Le Erinni cominciano un terribile canto di morte danzando selvaggiamente attorno ad Oreste. Secondo episodio (vv. 397-489): Appare Atena, la dea dell’intelletto, la quale mostra subito di voler prendere in pugno la situazione per risolverla razionalmente, come le si addice. Anzitutto s’informa da Oreste e dalle Erinni su ciò che è accaduto; quindi si offre di fare da giudice in un regolare processo, ruolo che tuttavia non intende svolgere da sola, data la delicatezza del caso, che investe le regole del vivere sociale. Il caso verrà quindi sottoposto ad una giuria ateniese di dodici membri presieduta dalla stessa Atena: abbiamo qui l’istituzione dell’Areopago. Le Erinni saranno l’accusa, Apollo la difesa. Secondo stasimo (vv. 490-565): Le Erinni riflettono preoccupate sulle conseguenze di una possibile assoluzione di Oreste: questo fatto potrebbe far sentire gli uomini autorizzati a compiere qualsiasi delitto di sangue. Terzo episodio (vv. 566-777): Inizia il processo. L’accusa (Erinni) interroga Oreste sul modo in cui ha ucciso sua madre. Oreste spiega di aver agito su ordine di Apollo, che aveva definito legittima e doverosa la vendetta. La difesa (Apollo) interviene facendo presente che Clitennestra per prima aveva compiuto un’atrocità, uccidendo il marito. Le Erinni (che esprimono il punto di vista matriarcale) ribattono che questo è un delitto meno grave, in quanto marito e moglie non sono consanguinei. Apollo (esponente del mondo patriarcale) la pensa in modo opposto: l’omicidio del marito è un crimine peggiore, poiché quando si genera un figlio è il marito a dare il seme, che la moglie si limita a nutrire dentro di sé; il figlio quindi è frutto del padre e ha il diritto di vendicarlo. Alla fine la giuria vota. L’ultima a votare è Atena, la quale dichiara candidamente che, non avendo mai avuto una madre (è nata infatti dal cervello di Zeus per partenogenesi), considera più importante la figura paterna. Il conteggio dei voti è pari: sei per la condanna e sei per l’assoluzione. Oreste viene quindi assolto, grazie al voto di Atena. Esodo (vv. 778-1045): Le Erinni reagiscono con rabbia alla sentenza, che considerano tremendamente ingiusta, e minacciano di ricominciare la catena di morte e distruzione che da Tantalo ha portato fino ad Oreste. Atena tuttavia, forte della sua superiore razionalità, riesce a calmarle mostrando piena comprensione e rispetto per le loro ragioni, del resto considerate valide anche dall’Areopago, metà del quale ha votato a loro favore. A tal punto le motivazioni delle Erinni sono considerate importanti, che ad esse verrà concesso un singolare risarcimento: sarà loro tributata venerazione eterna in Atene; la dea se ne fa personalmente garante. Placate, vedendo che le esigenze da loro rappresentate trovano credito presso Atena e presso il popolo, le Erinni si trasformano in Eumenidi, ovvero divinità della giustizia anziché della vendetta. Inizia così un canto di benedizione in cui le dee invocano ricchezza, fecondità e concordia per Atene, mentre Atena prefigura un lungo periodo di giustizia, che nella città sarà assicurata dal timore per le dee ora venerande. La tragedia, e con essa la trilogia, termina con il corteo delle sacerdotesse, guidato da Atena, che accompagnano le Eumenidi verso la loro nuova sede.

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COMMENTO:

Il mito di Oreste Per quanto ne sappiamo, Eschilo fu il primo a scrivere un’opera teatrale sul mito di Oreste, e per farlo si ispirò ad alcune opere non teatrali. La prima di esse è l’Odissea, che accenna alla vicenda in numerosi brevi passi, senza però nominare Pilade, Elettra e le Erinni. Fanno brevi riferimenti alla vicenda anche Esiodo e Pindaro, e sappiamo che un poema ciclico perduto, i Nòstoi ("Ritorni"), raccontava la storia narrata nelle prime due tragedie eschilee, introducendo per la prima volta il personaggio di Pilade. Tuttavia l’opera che sicuramente influenzò maggiormente Eschilo fu l’Orestea di Stesicoro, un lungo poema lirico-narrativo oggi perduto, in cui già venivano introdotti la nutrice di Oreste, il sogno di Clitennestra, il riconoscimento di Oreste tramite una ciocca di capelli, le Erinni. La terza tragedia, Le Eumenidi, fu invece interamente ideata da Eschilo. Elementi innovativi È evidente dal numero dei personaggi che Eschilo nell'Orestea fa propria l'innovazione introdotta da Sofocle, che aveva aumentato il numero degli attori da due a tre. Inoltre la trama è di gran lunga più movimentata rispetto alle tragedie precedenti e lo stile appare semplificato, anche questo in omaggio alle caratteristiche più "moderne" dello stile sofocleo, pur senza rinunciare alla caratteristica arditezza metaforica, al ricorso a simboli onirici (cfr. il tappeto rosso su cui Clitennestra costringe Agamennone a scendere) ed alla densità semantica tipici della scrittura eschilea. Nelle Eumenidi poi Eschilo stesso introdusse alcune innovazioni: le tragedie sono generalmente ambientate in luoghi all’aperto, mentre le Eumenidi sono quasi interamente ambientate in spazi chiusi (il tempio di Apollo a Delfi e quello di Atena ad Atene). Soprattutto, l'Orestea vìola in modo piuttosto clamoroso le convenzioni spazio-temporali delle tragedie, che generalmente si attenevano a quelle che in seguito verranno chiamate unità aristoteliche di tempo, luogo e azione: Eschilo nelle Eumenidi rompe due delle tre unità, in quanto la vicenda si svolge in un arco di tempo assai più lungo delle 24 ore ed in ben tre luoghi diversi. Nell’Agamennone si ha invece una brutale violazione dell’unità di tempo, poiché, sebbene la vicenda avvenga formalmente in un solo giorno, Eschilo comprime in quel giorno tutta una serie di avvenimenti che nella realtà richiederebbero settimane, se non mesi: la caduta di Troia, la partenza della flotta greca verso casa, l'arrivo ad Argo (oltre tutto reso difficoltoso da una tempesta), l'uccisione di Agamennone. La ragione per cui queste clamorose violazioni non risultano urtanti per lo spettatore risiede nel fatto che la verità di cui sono vere le tragedie eschilee non è nulla di simile al cosiddetto realismo: esse vivono immerse in un clima onirico che potremmo definire surrealista, in cui gli scostamenti spazio-temporali sono perfettamente plausibili, come in certi esperimenti cinematografici basati sulla teoria del "multiverso" in cui il continuum spazio-temporale viene bucato e si riemerge in una dimensione parallela (si pensi a Donnie Darko). Il significato politico: l'Areopago Il richiamo fin troppo didascalico all'istituzione dell'Areopago nelle Eumenidi ha ovviamente un significato ben particolare nel contesto dell'Atene del 458 a.C., ancora scossa dalle torbide vicende politiche legate proprio con questa istituzione, e soprattutto dall'assassinio di Efialte, i cui responsabili sono tuttora da chiarire (la colpa venne fatta ricadere su un tal Aristodico di Tanagra, che ha tutta l'aria di essere una classica "testa di paglia", ma una testimonianza riportata da Plutarco attribuisce l'assassinio addirittura a Pericle, geloso del successo del compagno di partito). Nel 461 a.C. infatti, come si ricorderà, Efialte era caduto vittima dei tumulti che avevano sconvolto Atene in seguito all’approvazione della legge relativa alla riduzione dei poteri dell’Areopago, proposta dallo stesso Efialte con l'appoggio di Pericle e con l'opposizione del "moderato" Cimone, che proprio per questo era stato ostracizzato: la riforma consisteva nella

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riduzione delle prerogative politiche dell’Aeropago, che vennero distribuite fra l’Ecclesia, la Boulè e i tribunali popolari. Tale istituzione perse, inoltre, l'importantissima nomophylakìa (la sorveglianza sulla costituzione contro i delitti di "lesa maestà" e di alto tradimento) e forse anche la custodia dei testi delle leggi. L’Areopago mantenne solamente la funzione originaria di giudicare nelle cause di sacrilegio e di omicidio volontario, ed è proprio questa - non a caso - la funzione che gli assegna Atena nelle Eumenidi, incaricando il tribunale appena costituito di giudicare nella "causa di sangue" del matricida Oreste. È chiaro dunque che, con l'apparenza di omaggiare l'antico tribunale ateniese, qui istituito addirittura da Atena in persona, Eschilo in realtà ne ribadisce le competenze ristrette, rivelandosi ancora una volta pienamente in linea con il proprio orientamento democratico radicale e dichiarandosi implicitamente a favore di Efialte e Pericle, ma soprattutto, ancora una volta, di Temistocle appena morto. Sugli ultimi anni di vita del grande condottiero le notizie sono tanto abbondanti quanto vaghe e contraddittorie: pare che proprio dall'Areopago egli fosse stato condannato in contumacia per alto tradimento dopo essersi rifugiato ad Argo; costretto nuovamente alla fuga dagli Ateniesi che ne richiesero l'estradizione, si trasferì proprio presso i Persiani che aveva combattuto e sconfitto e fu tenuto da loro in grande considerazione, il che non fece che alimentare le dicerie di medismòs che già gravavano sul suo conto. Tuttavia il re Artaserse gli impose di marciare contro i Greci, ed egli, pur di sottrarsi a questa odiosa incombenza, secondo Plutarco si sarebbe suicidato nel 459 a.C. bevendo del sangue di toro a Magnesia, dove risiedeva: un gesto di estrema fedeltà nei confronti della sua patria. In clamorosa controtendenza la testimonianza di Aristotele, che nell'Athenàion Politèia vuole Temistocle attivamente coinvolto nell'abbattimento dell'Areopago al fianco di Efialte e Pericle negli anni 462/1, dunque ancora presente ad Atene. In definitiva la situazione è oscura, ma chiara è la presa di posizione di Eschilo, che in questa tragedia definisce inequivocabilmente il ruolo dell'Areopago: istituzione certamente illustre, ma che ha travalicato di gran lunga i limiti stabiliti per le sue competenze, le quali, da sempre e per sempre, hanno da essere ristrette ai soli casi di sangue. La vendetta Si suol dire, sulla base di un'interpretazione molto banalizzante, che il motivo fondamentale della trilogia è la vendetta o legge del taglione, contrapposta nella terza tragedia alla giustizia, in cui la punizione del colpevole è affidata non già all'arbitrio del singolo, ma alla capacità della collettività di risolvere le controversie mediante processi: il che significa sollevare il caso individuale ad una sfera di universalità, in cui l'ingiustizia patita diventa caso esemplare, cioè riguarda potenzialmente chiunque, e come tale viene punita. Solo così la serie hybris-nèmesis può avere termine: infatti un omicidio non può che portare ad un nuovo omicidio, il quale a sua volta dovrà essere vendicato tramite un omicidio, in una catena potenzialmente infinita di crimini, lutti e sofferenze. L'intervento della collettività, invece, sanziona il crimine senza generare una nuova vendetta. In questo consisterebbe la Dike, la giustizia. La giustizia Ma riflettiamo meglio: cos’è la giustizia nell'Orestea? Nella prima tragedia Clitennestra è costretta a farsi giustizia da sola per l'orribile torto subìto dalla figlia: è colpevole? Certamente sì, da un punto di vista oggettivo: ella sa bene cosa fa; e tuttavia l'alternativa, lasciare impunito l'assassino della figlia, sarebbe peggiore. Nella seconda tragedia ad Oreste si pongono due alternative, entrambe sbagliate: uccidere la propria madre oppure non farlo, macchiandosi così di grave mancanza verso il padre e verso il dio Apollo che gli ha dato l’ordine. Oreste qui non riesce ad individuare cosa sia giusto, e infatti la vendetta lo porta immediatamente alla pazzia, che simboleggia in modo paradossale la comprensione: comprensione, in realtà, della follia implicita nella situazione in cui si è venuto a trovare, costretto ad essere colpevole oppure colpevole, senza nessuna alternativa. Non ha dunque

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alcun senso parlare di giustizia in questo caso, dal momento che l'autore stesso della vendetta sconfessa l'atto che ha appena compiuto. Infine, nella terza tragedia, l'azione congiunta degli dei e degli uomini (l'Areopago) dà luogo ad un processo, che dovrebbe rappresentare il modo "corretto" di affrontare le controversie; e tuttavia è da notare come la votazione finale della giuria sia di parità, e solo grazie al voto favorevole di Atena Oreste venga assolto. Ascoltiamo poi dalla voce di Apollo, difensore di Oreste, affermazioni francamente risibili, tali da rendere assai difficile, anche in questo caso, parlare di una vera giustizia: sarebbe grave che Oreste venisse assolto per queste ragioni, che esprimono un punto di vista squisitamente maschilista. Insomma, si ha l'impressione che Oreste venga sì sottoposto a processo, ma non veramente assolto, perché la sua azione è comunque colpevole; ma, poiché lo sarebbe stata in ogni caso anche se avesse compiuto la scelta opposta, e poiché è il primo a rendersene conto, proprio per questo va assolto: perché non è altro che una vittima. Il vero responsabile è Colui che ha dato un ordine consapevolmente sbagliato, Colui che trucca le carte e mette gli uomini in condizione di sbagliare per forza: Dio. Gli dèi Sappiamo già che in Eschilo gli dèi non decidono le sorti umane: mostrano agli uomini le possibili conseguenze delle loro azioni, ma senza togliere loro il libero arbitrio: Oreste potrebbe decidere di non uccidere la madre e di subire il castigo minacciato da Apollo, così come Agamennone potrebbe non uccidere Ifigenia e di impedire la partenza della flotta in Aulide. Il fatto è che le alternative che si presentano agli uomini sono sempre sbagliate, così come sbagliato sarebbe pure non agire: l'uomo infatti è spinto dagli dèi ad agire, pur essendo chiaro che in questo modo sbaglierà senza dubbio e quindi soffrirà. La domanda che si impone a questo punto è: perché? Cercheremo di dare risposta a questa domanda attraverso una scheda di sintesi che tenga conto di tutti gli elementi ideologici fin qui emersi attraverso le tragedie eschilee.

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ESCHILO UNO SCHEMA DI LETTURA

Si parte dal postulato, già esiodeo e biblico, che in origine esistesse un ordine precostituito stabilito da un Dio, violato in qualche momento dall'essere umano, il quale ha rotto il ciclo naturale ed è uscito dallo stato di natura (ciò che la Bibbia conosce come "peccato originale"). Rispetto a questa violazione originaria, le risposte possibili sono sostanzialmente due:

ORDINE PRECOSTITUITO = fuésiv

(ciclo eternamente identico - stasi)

(Occidente) linea retta

dinamismo

violazione dell’ordine

precostituito, storia, progresso, noémov

azione = u$briv = colpa

oggettiva

reazione = neémesiv

dolore (reazione a catena, fino a

giungere alla)

conoscenza razionale

draésanta paje_n

paéjei maéjov

2° (Oriente)

ciclo

immobilismo, inerzia

conoscenza intuitiva, rivelazione

Si tratta di due percorsi diversi per giungere ad una conclusione identica: cioè che in Natura esiste una legge e che violarla è u$briv. Mentre però il secondo è un processo statico, che porta all'immobilismo ed attende passivamente la rivelazione divina, il primo è un percorso dinamico che porta all'azione ed ha una finalità conoscitiva che passa attraverso l'esercizio della ragione. L'uomo è dotato di un insopprimibile istinto all'azione ed alla trasgressione: ciò significa, nella prospettiva di un credente come Eschilo, che Dio ha voluto che la sua natura fosse diversa da quella degli altri esseri viventi. Rifiutare l'azione significa quindi rifiutare la propria natura di esseri umani. Tuttavia l'azione è sempre sbagliata, provoca uno squilibrio che è in sé un errore e dovrà essere necessariamente compensato attraverso quella che soggettivamente appare come una punizione (neémesiv), ma che in realtà non è altro una inevitabile reazione. Dunque Dio vuole che l'uomo agisca, ma sa che inevitabilmente sbaglierà e quindi soffrirà: per quale scopo? La posizione di Eschilo di fronte a questo enigma esistenziale è diametralmente opposta a quella di chi suggerisce il salto nel buio della fede: infatti, a suo parere, lo scopo è la conoscenza. Non si spiegherebbe, in caso contrario, la presenza della razionalità nell'essere umano.

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Come il serpente dell'Eden, così anche il Dio di Eschilo vuole che conosciamo: una volta uscito dallo stato di natura (fuésiv), l'uomo non può più permettersi di vivere allo stato ferino come gli altri animali (lo aveva affermato chiaramente già Esiodo): deve necessariamente uscire dal ciclo naturale, darsi delle regole, delle leggi, cioè entrare nel mondo della convenzione (noémov), è condannato a percorrere un cammino lineare diverso da quello degli altri animali, un cammino che porta verso il progresso e la conoscenza. Tuttavia questo cammino è irto di insidie e non può portare ad un effettivo progresso se prescinde dalla crescita interiore: crescita che l'uomo non può realizzare se non attraverso il dolore. Sarebbe terribile affidare a chi non ha mai sofferto gli strumenti di distruzione e di morte che il "progresso" produce (si pensi all'infantile arroganza di Serse nei Persiani), perché chi non ha mai sofferto resta di fatto bambino, e come tale irresponsabile. Dunque il dolore è il necessario complemento del progresso, inevitabile e provvidenziale corollario del dono di Prometeo (che è poi il dono di Lucifero) all'uomo, un dono grandioso ma estremamente pericoloso. Per questo Dio ci induce a sbagliare ed a soffrire, addirittura collabora con l’uomo nel determinare la colpa (si veda il caso dell'ordine impartito da Apollo ad Oreste). Il libero arbitrio dunque esiste, ma è, per così dire, condizionato: consiste nello scegliere fra alcune alternative predeterminate, tutte sbagliate. Infatti lo scopo dell'azione è proprio il dolore che scaturisce dall'inevitabile errore (draésanta paje_n, Coefore 313), ma a sua volta il dolore è il mezzo attraverso il quale si arriva alla conoscenza (paéjei

maéjov, Agamennone 177). Tuttavia la legge (noémov), a differenza di quanto affermeranno i Sofisti, per Eschilo non è affatto pura convenzione: è Dio, infatti, che ha previsto per l'uomo questo cammino, che non è affatto antitetico a quello della fuésiv, perché, come affermerà lo stesso Protagora, è nella natura dell'uomo darsi delle regole (leggi). Per dirla con Aristotele, egli è un politikoèn z§%on, non è fatto per vivere da solo, ma per associarsi con altri uomini, e non può farlo senza rispettare delle regole. Di tali leggi è impressa una traccia profonda nella stessa Natura in quanto emanazione di Dio, per cui l'uomo non fa altro che replicare nella sua realtà l'azione legislatrice di Dio:

DIO

LEGGE DIVINA

NATURA

UOMO

LEGGE UMANA

Non esiste dunque antinomia tra fuésiv e noémov, né fra piano umano e piano divino: si tratta di realtà solo apparentemente in contraddizione. Questa conclusione sembra inserirsi a pieno titolo, sia pure con un certo anticipo, all'interno del dibattito fuésiv-noémov inaugurato proprio in quegli anni dai Sofisti e destinato a diventare un leit-motiv della riflessione filosofica ateniese per tutto il resto del V secolo, come dimostra anche la grande attenzione riservata al problema dagli altri due tragici, Sofocle ed Euripide. La tendenza della sofistica estrema sarà quella di contrapporre la fuésiv, come sola realtà fornita di leggi immanenti sovraumane, al noémov, considerato come il prodotto arbitrario e convenzionale del patto sociale stipulato dalla maggioranza dei mediocri per tutelarsi dal

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predominio dei più forti (il discorso verrà portato alle estreme conseguenze da Antifonte e da Crizia, quest'ultimo probabilmente adombrato nel Callicle del Gorgia platonico). Eschilo assume una posizione opposta: le due realtà non sono di natura diversa, ma derivano entrambe da un medesimo progetto divino e ne portano l'impronta indelebile, purché si sappia riconoscerla. Emblematico in questo senso il caso delle Danaidi: le ragazze, infatti, opponendosi alla convenzione (noémov) del matrimonio, di fatto violano le leggi della fuésiv rifiutando la procreazione, e per questo verranno punite. Resta salvo l'esercizio del libero arbitrio, tant'è vero che le Danaidi uccidono i loro consorti pur di conservare la verginità. A chiunque, infatti, è consentito l'esercizio di una libera scelta, purché non si sottragga alle conseguenze che ne derivano: se lo fa, infatti, rifiuta l'occasione di crescita che Dio gli offre e la catena di colpe e punizioni dovrà continuare finché qualcuno non si fermerà a capirne il senso; di qui la tendenza eschilea a proporre la vicenda di un'intera stirpe anziché il caso di un singolo individuo: la scelta della "trilogia legata" va appunto in questa direzione. Tutto questo risulta evidente in modo addirittura didascalico dal finale dell’Orestea (Eumenidi): A differenza di chi lo ha preceduto, Oreste ha capito di avere sbagliato: a tal punto lo

ha capito, che la sua mente non regge all'orrore e precipita nella follia. Tuttavia non gli è chiaro in che cosa sia consistito il suo errore, per di più non scelto ma

imposto da Apollo: è consistito proprio nell'imporre il noémov (= Agamennone, il padre, l'elemento maschile, l'ordine costituito) a danno della fuésiv (= Clitennestra, la madre, l'elemento femminile, le leggi non scritte della natura), quasi fossero due realtà opposte ed inconciliabili: ma così non è, come pacatamente spiegherà alle Erinni la dea della ragione, Atena, quando proporrà loro di entrare in una logica di ordine sociale in cui a ciascuna parte siano riconosciuti i suoi diritti.

Avere agito secondo una logica sbagliata ha condotto Oreste prima al dubbio (egli è il prototipo di Amleto), poi alla pazzia. Questo lo rende del tutto diverso dai suoi predecessori, tutti convinti di avere agito giustamente e pronti a sottrarsi alle conseguenze. Per questo è l'unico a meritare l'assoluzione.

Solo a questo punto la reazione a catena u$briv-neémesiv può definitivamente interrompersi, perché non ha più ragion d’essere: lo scopo è raggiunto, finalmente qualcuno ha capito, finalmente qualcuno non si è sottratto al dolore e all'orrore.

Il processo contro Oreste coinvolge nel contempo i piani divino (Atena), umano (Areopago) e naturale (Erinni), perché le leggi che Oreste ha violato sono nel contempo divine, umane e naturali: non c'è opposizione tra i diversi piani.

Le Erinni (fuésiv) ed Apollo (noémov) trovano una finale conciliazione nell'istituzione del culto delle Erinni che si trasformano in Eumenidi, cioè nel riconoscimento ufficiale da parte di una dea dell’esistenza e della validità delle leggi naturali, che vengono rispettate e rispecchiate dalle leggi umane.

È dunque evidente che la prospettiva tragica in cui si pone Eschilo non solo non ci presenta il conflitto come inconciliabile (secondo la nota definizione del tragico di Goethe), ma è anzi nettamente conciliante.

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BRANI

AGAMENNONE Pàrodos CORO "La bella dea, per quanto piena d'affetto per l'umida, ruzzolante nidiata di rapaci leoni, tenera coi piccoli, golosi di latte, d'ogni bestia selvaggia vuole compiuto il senso celato nel prodigio: fausto, anche se per lei è visione d'orrore. Peana io invoco, che salva: perché la dea non crei intralci sul mare. Brezze ostili, sprechi di tempo, navi inchiodate. O prema per un'altra offerta da immolare, strana, senza carni spartite, autrice di risse radicate alla stirpe senza rispetto allo sposo. Tiene duro - agghiacciante ripullulare d'agguati, memoria sempre viva dei figli da vendicare - il Rancore: ormai governa le case." Cose di morte, mischiate ai successi, che Calcante scandì alla casa regale, dai magici voli promotori del viaggio. E ad esse in accordo modula, modula nenie: ma il bene prevalga. str. II Zeus, chi sa chi sia... forse così ama sentirsi invocare e io questo nome gli do, supplicando. Non trovo confronti con Zeus - eppure tutto ho pesato - se è necessario alleviare la mente da questa cieca zavorra, con pieno effetto. ant. II Uno ci fu, un tempo, possente: rigoglio di slancio guerriero. Silenzio su lui: come mai esistito. Chi in seguito sorse, s'imbatte in uno tre volte più forte: sparisce. Zeus vittorioso si celebri: così potremo toccare il culmine dell'equilibrio; str. III Zeus, che segnala ai terreni strade d'equilibrio, che pose a cardine

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"col patire, capire" [τῷ πάθει μάθος]. Perfino nel sonno, sul cuore - goccia su goccia - cade la fitta, rimorso di buona memoria. Così a chiunque tocca equilibrare i pensieri; anche a chi non vorrebbe. E questa la grazia brutale - diresti - dei Potenti, dai troni celesti. Terzo episodio Agamennone e Cassandra arrivano in città su un carro. AGAMENNONE Ad Argo e agli dèi della terra va il mio primo saluto. Giustizia lo esige. Sono essi autori del mio ritorno e del giusto colpo che inflissi alla rocca di Priamo. Giustizia: a lei diedero udienza gli dèi, non a umani discorsi. E caddero i voti - strage d'armati, schianto di Troia - nell'urna rigata di sangue. Ferma sentenza. Via via una mano - illusione! - s'accostava all'urna rivale che mai si sarebbe colmata! Il fumo, ora, segnala al mondo la città caduta. Folate di sciagura sono gli esseri viventi, laggiù. Anche la brace si consuma, langue e sfoga spessi fiati d'abbondanza. Tributo perenne di grazie agli dèi, per questa vittoria: castigammo il rapimento, con superbo rancore, e per colpa di donna cadde in polvere la città sotto i morsi della bestia di Argo, nidiata deposta da un cavallo, squadra coperta di scudi: calavano in cielo le Pleiadi e varcate le torri - leone carnivoro - si placò leccando sangue di re. Ho protratto il mio inno agli dèi. Ai tuoi propositi ora. Li ho uditi attento, li fisso nel cuore. Anch'io concordo, mi puoi dire alleato. Scarsi gli uomini che hanno nel sangue l'istinto d'inchinarsi all'amico toccato dalla fortuna, senza invidiarlo. È così: un tossico perverso, cingendogli il cuore, raddoppia il tormento di chi è già posseduto dal male. Le sue angosce gli pesano dentro e intanto si rode... negli occhi la scena di chi gli sta accanto felice. Sono esperto - so leggere a fondo lo specchio che riflette il vivere insieme - immagine d'ombra io dichiaro coloro che sentivo più stretti, più fidi. Odisseo, l'unico: proprio quello che senza entusiasmo salpava, una volta sotto le stanghe, fu svelto ad affiancarmi correndo. Tanto posso dire di lui: sia vivo o già morto. Del resto, cose terrene e divine, tratteremo chiamando i cittadini a discutere. Che il presente benessere resista saldo negli anni. A questo dovremo pensare. E se servono rimedi di salvezza - arroventando, amputando con intenti di bene - cercheremo di strappare di là il tormento del male. Ora mi dirigo alla reggia, nelle stanze, presso il fuoco. Voglio subito tendere la destra agli dèi che mi hanno sospinto laggiù, e poi scortato al ritorno. Il trionfo, che mi fu compagno, si pianti fermo al mio fianco. Agamennone fa l'atto di scendere dal cocchio. Prima che ponga piede a terra, si fa avanti Clitennestra, con un corteo di schiave. Nelle loro mani scintillano drappi scarlatti. CLITENNESTRA Uomini che siete qui, degna nobiltà di Argo, a voi svelo la passione d'amore per questo mio sposo. Non avrò pudori. Corre il tempo, e la ritrosia si consuma negli esseri umani. Non è esperienza d'altri, questa. È proprio mia, questa miseria di vita sofferta negli anni che lui fu sotto le mura di Ilio. Dirò subito, per la donna sedere nelle stanze sola, via dal marito, è sconforto che abbatte, sempre a sentire notizie di disgrazia. Ecco, si presenta un messo, poi un secondo che reca notizie peggiori del primo, già funesto. E sono grida di disgrazia, alte nelle stanze. Se questo mio marito avesse preso così fitti squarci quanti i rivoli di voci in arrivo alla reggia, tutto fori sarebbe, peggio d'una rete. Se fosse morto le volte che si moltiplicavano le voci, nuovo Gerione con tre corpi, tripla coltre di terra avrebbe indosso. E sarebbe il suo

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vanto, morto via via in ciascuna figura. Ritornello brutale di voci! Quante volte mi spinse ad appendere un laccio! Altri, a viva forza, mi snodavano il collo già avvinto. Per questo, anche, non è qui presente il figlio: lui che ratifica il mio, il tuo patto d'amore. Pure, doveva, Oreste. Non ti sorprenda: lo cresce un tuo fratello d'armi, cortese, Strofio di Focide. Fu lui a darmi l'avviso di minacce a due tagli: il pericolo tuo, laggiù sotto Ilio, e un fragore sfrenato di popolo, pronto a sbalzare il consiglio reale. Si sa, è un istinto dell'uomo tempestare di calci chi crolla. In questo mio chiarire, sta' certo, non c'è frode. Dentro me, almeno, s'è spenta la vena precipitosa del pianto, non gocciola più. Vedi lo strazio degli occhi - lentissimi a prendere sonno - dell'attesa dolente di te, dei tuoi impulsi di fiamma, eternamente in abbandono. Sognavo, e bastava a farmi balzare un sottile brivido d'ali, un sibilo d'insetto. Negli occhi, patimenti che ti serravano più folti degli attimi passati a sognare. È qui tutto il mio patire: finalmente non ho più spasimi dentro. Così nomino - ora io posso - questo mio uomo: cane custode del recinto, sartia sicura di nave, trave possente di un tetto slanciato, maschio unico nato ad un padre, sgorgo di fonte al viaggiatore che ha sete, e terra, che i marinai avvistano già disperando, mattino che brilla agli occhi più terso, passata la tempesta. Dà gioia evadere dai limiti angusti del fato. Ecco, questi gli elogi che per saluto gli dedico: egli li merita. Si scosti l'invidia. Già tante le disgrazie patite. Ti prego, anima mia, scendi dal carro. No, non sulla terra, principe, devi mettere il piede che seppe spianare Troia. Tardate? Schiave, tocca a voi l'ordine di selciargli quel tratto di via con stuoie distese. Appaia, presto, un passaggio dal fondo scarlatto. Giustizia, sia la sua guida, verso una casa che mai più s'aspettava. Una mente mai piegata dal sonno, confortata dal dio, attuerà ciò che manca: l'ha deciso il destino. AGAMENNONE Ceppo di Leda, scolta del mio palazzo. Il tuo parlare equilibra il tempo della mia lontananza. Tanto, infatti l'hai protratto. Certo, celebrarmi è fatale: ma quest'ossequio deve arrivare da fuori. Anche per il resto, non voglio languori da te, come si usa tra donne. O come a un tipo barbaro, sgangherato clamore, in ginocchio, per terra. Non devi. Non selciarmi il passaggio di coltri: si attira l'invidia. È tributo d'onore limitato agli dèi. Io sono terreno. Non posso avviarmi su questo iridescente sfarzo, senz'ombra di spavento. Celebrami, ma da uomo, non da dio, ti dico. Anche senza passatoie e iridescenti drappi il grido della stima rimbalza. Intelletto che abbia equilibrio: è questo il più alto dono di dio. Si deve dire felice colui che chiuse la vita nella diletta prosperità. Se tutto io potessi così ottenere, sarei ricolmo di fiducia. CLITENNESTRA Rispondimi, ora, senza alterare il tuo pensiero... AGAMENNONE Pensiero, sappilo, che io non soffoco mai. CLITENNESTRA Fu condotta giurata agli dèi in un attimo di smarrimento? AGAMENNONE Espressi il proposito ben consapevole, come forse nessuno. CLITENNESTRA Priamo, se avesse avuto il tuo successo? Giudica tu. AGAMENNONE Son sicuro. Marciava sui drappi screziati.

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CLITENNESTRA Non lasciarti frenare dalle critiche umane. AGAMENNONE La parola che si leva dal popolo ha forza possente. CLITENNESTRA Chi non suscita invidia, non merita stima. AGAMENNONE Non è da donna la passione del contrasto. CLITENNESTRA Eppure non stona che nel trionfo uno si arrenda. AGAMENNONE Tanto apprezzi ch'io ceda in questa contesa? CLITENNESTRA Ascoltami e lascia che vinca, con animo lieto. AGAMENNONE Se questo è il tuo pensiero, sia. Snodatemi, presto, i calzari, che fanno da schiavi e reggono il piede che avanza. Nell'attimo che passo su queste porpore marine, degne degli dèi, non mi scocchi qualcuno, dall'alto, un'occhiata d'invidia. È forte il mio freno verso questo domestico sperpero, sciupare col passo lo sfarzo dei panni, che vale argento sonante. Ecco, ho finito. Qui c'è la straniera: col cuore ricevila. Il dio segue con sguardo d'affetto chi è mansueto nella sua potenza. Nessuno s'adatta volentieri alle stanghe da schiavo. Eccola! Eletta primizia di preda grandiosa, dono a me dell'armata, fin qui ha viaggiato al mio fianco. Eseguo il tuo ordine, vedi, mi prostro. Mi avvio a palazzo, premo il piede sul suolo scarlatto. Agamennone entra nella reggia. CLITENNESTRA L'oceano resta: chi potrà inaridirlo? Nutre perenne stille di porpora, tesoro che vale l'argento, e sempre fresche le offre a tingere drappi. La tua casa, principe, possiede queste fortune. Dio la scorta, e non conosce miseria. Logorio d'infiniti drappi avrei dedicato agli dèi, se dalle profetiche sedi fosse uscito il responso che questo era il mezzo, per me, di riaverti qui, vivo. Se la radice è salva, svettano le fronde sulla casa, e stendono un velo d'ombra contro la calura di Sirio, d'estate. I tuoi passi verso il focolare, nella sala, sono come un sentore d'estate che viene nel cuore d'inverno, o nel tempo in cui Zeus porta a buon termine il vino negli acini aspri e allora è un rinfrescarsi dell'aria nelle sale: l'uomo ripassa dalla sua casa al giusto termine del viaggio! Zeus, che tutto porti a termine, compi la mia preghiera. Cura ciò che ti accingi a terminare. ------------------- Quarto episodio Clitennestra esce dalla reggia e, con voce dura, si rivolge a Cassandra. CLITENNESTRA

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Dentro anche tu, insieme. Te sto chiamando, Cassandra. Zeus ha disposto con indulgenza: tu interverrai al rito lustrale dell'acqua. Là, ritta tra la folla dei servi, di fianco all'altare dei possessi domestici. Giù da questo cocchio, e non fare l'altera. Raccontano che anche il figlio di Alcmena fu messo in vendita, e si piegò a vivere con pane nero da schiavo. Vedi bene, si può sbilanciare su tutti il peso di tale destino: grande sollievo è toccare a signori d'antica casata. Chi - con sua stessa sorpresa - falcia un ricco improvviso raccolto fa rigare gli schiavi, inesorabile, sempre... Hai compreso come s'usa trattare tra noi. CORO Ha finito. Sono per te queste chiare parole. Sei preda di una rete fatale. Cedi, se sei disposta... ma non vorrai cedere, forse. CLITENNESTRA Se non è proprio sconosciuto, barbaro - di rondine vorrei dire - il linguaggio che sa, dovrei cogliere la sua capacità di comprendere, e piegarla, parlando. CORO Consenti: per come ti trovi, non può dirti parole più miti. Cedi. Scendi da questo tuo seggio alto sul carro. CLITENNESTRA Basta! Non è tempo per me di oziare qui sulla strada. Ecco son già al loro posto, presso il focolare nel seno della reggia le vittime per l'offerta cruenta. Ormai non speravamo più in questa gioia. Tu - ti decidessi a partecipare - non perdere altro tempo. Sei attonita? Non comprendi la lingua? Non usare parole. Fatti capire alla barbara, con cenni di mano. Teso silenzio. CORO Un interprete serve alla straniera, direi, e acuto. Ha sembianza di bestia selvatica, da poco alla catena. CLITENNESTRA Ah! Delira! Segue i suoi folli pensieri. Una che lasciato il paese appena messo in catene - eccola - non impara ad adattarsi al morso: prima lo schizza di sangue, furiosa. Basta gettarle in faccia parole, non mi lascerò offendere oltre. Clitennestra rientra a palazzo. Cassandra, rimasta sola sul cocchio, è assalita dal delirio profetico. CASSANDRA Ahi, ahi, la fiamma, eccola! Mi assale! Apollo Liceo, a me, a me! Leonessa a due gambe, a letto col lupo, mentre il leone gagliardo è lontano. Lei mi abbatterà: ah, mio tormento. Come preparando filtro di morte, mischierà alla vendetta la mia parte di paga. Affila la lama per lui,

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il suo uomo. La morte - di questo si vanta - sarà giusto compenso per avermi condotta sin qui. Perché vi ho ancora indosso, scettro, fasce profetiche sulle spalle? Perché si rida di me? Vi spezzo, io stessa prima dell'ora fatale. Distrutte vi voglio. Nella polvere, ecco come io vi ripago. Un'altra al mio posto fate ricca di strazio. Guardate, la mano stessa di Apollo mi strappa il velo oracolare. Prima posava l'occhio superbo su me che così abbigliata ero esposta alle beffe di tutti: amici, nemici, perfetto equilibrio di scherno... "E mi adattavo al nome ormai consueto: Ciarlatana!" rifiuto umano, in giro ad accattare, miserabile morta di fame. Per finire, il mago che m'ha fatta maga, lui m'ha trascinata a questa vicenda di morte. Non l'altare - nella casa paterna - ma il tronco del boia mi aspetta, scarlatto di tiepido sangue dal mio capo reciso. Cadremo, ma non senza castigo di mano divina. Sarà qui uno a vendicare, germoglio matricida, esigerà il saldo per l'assassinio del padre. Lui, fuggitivo, cacciato lontano in esilio, è ormai di ritorno: pronto a incorniciare con l'ultimo fregio l'avito edificio di colpe. Saldo patto hanno giurato gli dèi. Lo spingerà il gesto implorante del padre steso al suolo. Perché questo abisso di pianto? Ho forse pietà di me stessa? Ho visto, all'inizio, compiersi il fato di Troia. Ho visto i suoi vincitori uscire in questo stato dal divino giudizio. Perciò mi avvio, voglio il mio destino: patire la morte! Cassandra volge lo sguardo al portale del palazzo. E ora a te, mia porta dell'Ade: ti saluto. Mi tocchi un colpo preciso, lo supplico. Senza scarti d'agonia - fiotti, torrenti di sangue per una morte soave. Così possa chiudere gli occhi. ------------------------ Quinto episodio Si spalanca il portale della reggia. Dentro, tre figure. Riverso in una conca lucente, avvolto in un largo drappo chiazzato di sangue, il corpo di Agamennone. Accanto, abbattuta, Cassandra. Li sovrasta - l'arma è ancora in mano - Clitennestra, superba. CLITENNESTRA In passato molte parole ho detto sfruttando un'occasione: ora, non avrò scupoli a smentirle. Come può, uno, tramando ostili colpi a gente ostile che si presenta con la faccia amica, gettare rete di sventura, altezza che nessun balzo varca? Da troppo tempo non mi usciva dalla mente questa gara di morte. Ora il premio della lotta, la vittoria: tardi, ma alla fine è giunta! Qui mi ergo, dove vibrai l'arma, dove ho saldato il mio impegno. Ho agito, ho avuto successo, non voglio celarlo: né scampo per lui, né riparo al colpo fatale. Un volo di rete, inestricabile - come a una mattanza - e lo ingabbio, sfarzo doloroso di stoffe. Io due squarci. Due rantoli, lui, fascio di membra snervate, lì al suolo. È steso. Un terzo colpo gli assesto. Grato ossequio a Zeus dell'abisso, patrono dei morti. Sfoga l'anima crollando - una boccata precipitosa di sangue e spira. Mi schizza di fosche stille - velo di rugiada scarlatta che mi fa lieta, come la semente del grano, quando nel pieno sbocciare dei chicchi s'ingemma del rorido dono del cielo. Questi gli eventi, degna nobiltà di Argo. Esultate se vi piace. Io me ne glorio. Se mai fosse buon momento per libare su un ucciso, ora sarebbe giusto, legittimo, anzi. Quest'uomo ha colmato il calice di troppi crimini, qui nella reggia: al suo ritorno gli è toccato svuotarlo. CORO Ci scuote la tua lingua sfacciata, questa voce superba contro lo sposo. CLITENNESTRA Mi state saggiando: quella donna insensata, pensate. Io però con cuore immoto mi rivolgo a gente che intende. Tu mi assecondi, sei disposto? Mi critichi? È lo stesso. Ecco Agamennone, sì mio marito. Morto. Colpo di questa abile mano, autrice di vendetta. Questi i fatti.

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CORO str. I Regina, che tossico frutto della zolla inghiottisti, che filtro stillato dall'onda salmastra per commettere l'assassinio? Per spezzare, troncare l'imprecazione che sale dal paese? Sarai fuorilegge, sotto un carico d'astio ti schiaccerà la tua gente. CLITENNESTRA Adesso tocca a me fuggire il paese, affrontare l'astio, la pubblica esecrazione: così tu ora sentenzi. Non facesti contrasto in passato a quest'uomo. Lui, senza scrupolo - non conta la morte di un'agnella, quando il pascolo trabocca di mandrie ricciute - immolò la sua figlia, frutto doloroso e adorato del mio parto. Doveva affascinare, in Tracia, il calo di vento. A lui no, non toccava l'espulsione da questo paese, a fargli scontare il crimine osceno. Alle mie azioni, invece, tendi le orecchie, e ti fai giudice senza pietà. Ora ascolta. Limita le minacce, potrai darmi ordini, ma solo piegandomi con le tue mani: io, per me, sono pronta, da pari a pari. Régolati. Certo, se dio decide l'opposto, apprenderai la dura lezione di un tardivo equilibrio di mente. CORO ant. I Sei spavalda di cuore e alzi la voce arrogante. Delira il tuo spirito per il cruento colpo di fortuna. Ombra fosca di sangue - la vedo - ti scintilla negli occhi. Hai vuoto d'amore, intorno: devi espiare il colpo con colpo di risarcimento. CLITENNESTRA E tu considera la santa base dei miei giuramenti: su Equità che rese giustizia a mia figlia, su Perdizione punitrice divina, su Erinni, cui dedico quest'uomo scannato, mai varcherà la mia soglia il brivido della paura, finché attizzi il fuoco nel mio braciere Egisto, pieno d'affetto, come sempre in passato, per me. È lui scudo non piccolo del mio franco ardire. Eccolo, steso, colui che schizzò fango su questa donna, l'incanto delle Criseidi, laggiù sotto Troia. E guarda, ecco la preda di guerra, la veggente, la profetessa d'oracoli che spartì il letto con lui. Che amica fedele di letto, ora, guardali! Come quando si stendevano insieme sul ponte delle navi! Non è salato il conto, di quei due. Lui, giace così come vedi. Lei, modulò la nenia estrema dell'agonia - un cigno, pareva. Eccola stesa con lui, a fare l'amore. Me la porse lui, il mio uomo, ghiotto contorno al mio godere!

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CORO str. II Ah, perché non è qui la mia ultima ora, di volo - senza lunga agonia e mi dona la quiete perenne, infinita. È caduto! Abbattuto chi mi curava con vigile cuore, dopo tanto soffrire per una donna. E per pugno di donna ha perso la vita. Ah, che follia Elena! Sola, troppe, troppe vite abbattesti laggiù sotto Troia. Ora... questo sangue tenace, che nessuno dimentica, sgruma. Davvero c'era nella casa la Rissa, roccioso dolore d'uomo. CLITENNESTRA Non supplicare l'ora fatale di morte, per il peso di quest'angoscia tua: non su Elena devi scaricare il tuo astio, e dirla assassina di molti, distruttrice, lei sola, di Danai armati: squarcio senza rimedio. CORO ant. II Spirito, che piombi sulla reggia e sui due eredi di Tantalo, t'impossessi di me, mi rodi nel cuore, potenza d'animo comune a due donne. Ti aggrappi, ti ergi sul morto, corvo sinistro e godi gridando festoso il tuo inno... CLITENNESTRA Ora raddrizzi il corso dei tuoi pensieri: nomini il demone di vendetta che con la polpa di questa stirpe s'è saziato tre volte. Essa ha fonda nel sangue la passione di lambire ferite, e il demone le porge alimento: linfa fresca che erompe prima che lo squarcio passato si saldi.

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CORO str. III Demone forte, stretta di rancore sulle case tu chiami. Ah, richiamo implacabile di sorte rovinosa! Ahimè, tutto passa per Zeus, ideatore, autore di tutto. Che mai giunge a termine in terra, senza la mano di Zeus? Cosa si compie senza il marchio del dio? Oh sovrano, mio sovrano come posso piangerti? Ma come, con quali parole dall'anima piena d'affetto? Sei lì, steso in quella tela di ragno, spirato con morte schifosa. Soffro! Che covile meschino ti tocca stroncato da frode fatale: pugno di donna che stringe la scure affilata. CLITENNESTRA Reclami, convinto: mio sarebbe il delitto. Smetti di pensare a me, come alla sposa di Agamennone. Le mie forme - della moglie di questo ucciso - velano l'antico accanito spirito punitore di Atreo, che offrì quella mensa agghiacciante. Lui ha punito quest'uomo, sacrificio di matura vittima a compenso dei piccoli. CORO ant. III Dunque non hai colpa in questo omicidio. Su chi conterai come teste? Come, come può essere? T'avrà tenuto mano il genio punitore, sorto dalla stirpe. Scuro, Ares tempesta tra sbocchi furiosi di sangue spiccati da comune sorgente: ovunque dilaga, pronto a vibrare vendetta sulle croste di sangue - quel pasto di figli. O sovrano, mio sovrano come posso piangerti? Ma come, con quali parole dall'anima piena d'affetto? Sei lì, steso in quella tela di ragno, spirato con morte schifosa.

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Soffro! Che covile meschino ti tocca, stroncato da frode fatale: pugno di donna che stringe la scure affilata. CLITENNESTRA Non credo meschina, indegna di lui la sua morte. Fu lui a imporre alla casa la trama di colpa. O no? Mio bocciolo, mia gemma Ifigenia - lui me la fece crescere dentro - quante lagrime su te! Degno castigo subì, lo meritava quel che ti ha fatto. Non si glori, ora, sotterra: ha scontato - morte di lama omicida - il suo crimine. CORO str. IV Inchiodato. La mente vuota Non riesco a riflettere. Idee per uscirne. Quali? Non so dove volgermi. E la casa che crolla. Orrore questo rombo di pioggia che sfalda la reggia. È sangue che piove: prima, almeno, gocciava. Destino arrota giustizia su fresca mola: filo per un nuovo strazio funesto. Ah suolo, mio suolo perché non m'hai preso? M'hai lasciato vedere quest'uomo sdraiarsi in un basso giaciglio - il fondo d'una conca lucente! Chi lo sotterra? Chi gli intona la nenia? L'hai tu, il coraggio? Assassinare lo sposo e poi cantargli il lamento? All'anima rendere sgraziato grazie, tributo ingiusto d'alte imprese? No! È empio. Chi saprà trarre l'elogio, sul sepolcro, per quest'uomo grande e avrà pianto, dolore leali? CLITENNESTRA Nulla hai tu a che fare con questo rito. Noi l'abbiamo stroncato, ucciso. E siamo pronti a sotterrarlo, senza il compianto dei suoi. Basterà Ifigenia, la figlia. Andrà incontro lei al padre - la festa negli occhi - al celere, tormentoso guado. Un abbraccio, un bacio.

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CORO ant. IV Ingiuria si sussegue ad ingiuria. Distinguere è lotta aspra. È preso chi prende, chi ammazza sconta. Chi infligge patisce: questo resiste finché resiste Zeus sul suo trono. È la base di tutto. Chi può svellere dalla casa questa maledetta radice? Catena di colpa e vendetta: ecco la vita. CLITENNESTRA In questo, finalmente, sei indovino sincero. Per me, sono ora disposta a trattare col demone dei Plistenidi. Un patto giurato. Questo: accetto la pena attuale, per quanto crudele. In avvenire, esca da questa casa. Altra stirpe voglia stroncare con omicidi incrociati. Una fetta, una briciola, anche, di averi mi basta. Se riesco a strappare dalla casa questo delirio - colpo su colpo - di assassinii fraterni. Esodo Entra in scena Egisto, scortato da un pugno di guardie. EGISTO Luce ridente, mattino che rechi giustizia! Finalmente posso esclamare: gli dèi castigano i mortali, scorgono dal cielo i crimini terreni. Gioia per i miei occhi! Quest'uomo disteso nei drappi, filati dalle Erinni, a pagare intero il prezzo per gli intrighi maligni del padre! Fu Atreo, quel padre. Regnava sul paese - dico la storia, ben chiara - e per discordia di potere espulse il padre mio Tieste, suo fratello, dallo stato e dal palazzo. Soffrì Tieste! Tornato, si chinò pietoso verso il focolare e una sorte innocua, sì, l'ottenne: di non cadere ucciso, lì subito - chiazza cruenta sul suolo avito. Ma il padre di costui, Atreo senza dio, finse d'offrire - eccitata premura, non affetto - un giorno di festa al padre mio, con fronte spianata. Sarebbe stato il dono del ritorno. Gli mise davanti le carni dei figli, spartite! Atreo sedette appartato, in alto: e spezzettava lui stesso, dito per dito, le mani ed i piedi. Carne sformata che l'altro accettava, via via. Inghiottiva, senza saperlo, bocconi di sfacelo - guarda tu stesso - per la famiglia. Poi riconobbe l'azione maledetta. Ululò, si ritrasse, cadde vomitando boccate di carni e di sangue. Impreca ai Pelopidi un fato di morte. A suggello di maledizione scaglia con un calcio la mensa. «Così si stermini la razza di Plistene», grida. Catena di vicende: guarda quell'uomo abbattuto. Avevo io diritto d'imbastire l'assassinio. Io ero il terzo figlio..., e Atreo mi espulse ancora in fasce col mio povero padre. Adulto, giustizia mi ha ricondotto qui. Ho manovrato l'assalto contro di lui, dietro le quinte. Ho montato io, pezzo per pezzo, il meccanismo di questo delitto. Anche morire, adesso, è bello per me: con lui negli occhi, in questa gabbia di Giustizia!

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CORO Egisto, è empia, ti dico, questa superbia del crimine. Assassinio premeditato, dunque. E ti vanti? Sicché proprio da solo hai concepito il delitto? Non c'è scampo, ti avverto, per la tua testa: la sconterai a colpi d'imprecazioni e di pietra. EGISTO Tu siedi al remo più basso, e alzi la voce? Dal banco alto della nave si governa! A quest'età, da vecchio, saprai come pesa imparare, quando uno t'impone giusto freno alla mente. Catene, fame, fanno miracoli. Guariscono, insegnano a ragionare: anche ad un vecchio. Non t'accorgi, non vedi? Non scalciare contro lo sperone. Ci batti e ti fai male. CORO Donna, una donna sei, domestica, che aspetta il ritorno dei guerrieri. Infanghi il letto di un valoroso. Hai pensato per il principe questa trama mortale. EGISTO Altre parole che ti saranno radice di pianto. Con la lingua, fai proprio l'opposto di Orfeo: quello sapeva trascinare, con l'incanto della sua voce. Tu mi esasperi col tuo balbettante ringhiare. Finirai legato. Schiacciato. Vediamo se diventi più docile. CORO Tu sarai desposta d'Argo? E come? Hai saputo ardire un fato mortale a quest'uomo, ma non trovasti la decisione per finirlo di tuo pugno. EGISTO Si capisce, tramare era il compito della donna. Io sono nato nemico a lui. Troppo sospetto. Ora reggerò io lo stato: ho i beni del re. Se uno recalcitra, lo inchiodo col giogo. Altro che purosangue da corsa, tenuto a orzo. Sotto lo sguardo della fame, amara coinquilina della tenebra, diverrà più trattabile. CORO Spirito codardo! Perché non fosti tu a spogliare della vita quest'uomo? Una donna ci volle, sconcio contagio del paese e dei nostri numi di Argo. Oreste! Lui vede la luce, ovunque sia. Se mai potesse tornare, spinto da sorte benigna, e si facesse vittorioso, capitale esecutore di questa coppia! EGISTO Sei certo di poter agire e parlare come vuoi? La vedrai, subito. CORO Compagni d'arme, è l'ora d'agire! EGISTO Avanti! Snudate la spada, tutti, e puntatela. CORO Anch'io. Pronto, con la spada. Non sdegno la morte. EGISTO Una profferta di morte, da te? L'accettiamo, la scegliamo come nostra fortuna. CLITENNESTRA Basta, o mio amato uomo, basta decisioni di sangue. Se solo falciassimo i mali di adesso, sarebbe già messe di pena. Basta sventure. Basta sangue addosso. Ritiratevi, anziani, a casa:

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meglio esser prudenti, prima che, colpendo, si subisca un colpo. Dobbiamo ratificare il passato. Se può bastare questo carico di dolore, accettiamolo pure. Ci ha colpito duro l'artiglio del destino. È la nostra miseria. Parole di donna, se c'è chi si degna d'udirle. EGISTO Possono scegliere gemme d'una lingua in delirio? E gettarmi in faccia frasi che sfidano il destino? E smarrire la mente e offendere chi comanda? CORO Non è da uomini argivi fare l'inchino ai vigliacchi. EGISTO Domani, e dopo, ti posso sempre raggiungere. CORO Ah, no! Se una Potenza mette Oreste sulla giusta strada, fin qui. EGISTO So anch'io che la speranza è il cibo degli esuli. CORO Muoviti. Prospera. Infanga Giustizia. Puoi, per ora. EGISTO Sconterai cara questa pazzia. Sappilo. CORO Gonfiati, fa' l'impavido. Un gallo, sei, davanti alla femmina. CLITENNESTRA Non far caso a questo cieco ringhiare. Siamo noi due i potenti del regno. Noi detteremo legge. A fianco dell'amante, la regina entra nei palazzo. Il coro esce.

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LE COEFORE Secondo episodio Oreste e Pilade, in abito di viaggiatori. Alcuni servi, con sacche e mercanzie. ORESTE Servo! Ehi! Servo! Attento! Picchio alla porta di strada! Chi è là? Servo! Ehi, servo! Riprovo a picchiare. Chi c'è, in casa? Tre volte, grido: vediamo se s'affaccia qualcuno, del palazzo. Se ancora accoglie i forestieri: tutto passa per Egisto, adesso. SERVO Va bene, ho sentito. Forestiero: di che paese? Da dove vieni? ORESTE Riferisci ai proprietari della casa che proprio loro cerco, ho con me notizie fresche. Spicciati, però: il carro cupo della sera ormai precipita. Per chi è in viaggio, è il momento di calare l'ancora nelle case ospitali ai forestieri. Si affacci qualcuno, che ha in pugno là casa. La donna, se ha lei il comando: oppure meglio sarebbe il padrone. Certo, così, si discorre senza imbarazzo, non serve parlare appannato: uno si scopre, viso a viso con l'uomo e riporta trasparenti parole. CLITENNESTRA (uscendo dalla reggia) Stranieri, parlate: se qualcosa vi serve. Qui si trova tutto quanto un palazzo simile a questo è tenuto ad offrire: tiepidi bagni, coltri che sciolgono la stanchezza, premura di visi leali. Ma se altro dovete concludere, e bisogna discutere, questo è un affare da uomini: e lui, allora, io avverto. ORESTE Sono straniero. Vengo da Daulide, in Focide. Camminavo sulla strada di Argo, carico di questa mia roba - ecco, come adesso mi vedi far tappa - quando mi incrocia un uomo. Mai visto. Né lui mi conosce. Mi racconta del viaggio, s'informa qual è la mia strada. È Strofio, un focese - glielo sento dire, parlando - e a un tratto mi prega: «Amico, poiché ad Argo arrivi, riferisci ai genitori - fissatelo giusto in mente - che Oreste è morto, ormai; non dimenticarlo! Poi, sia che vinca nei suoi l'idea di riaverlo tra loro, o di dargli un sepolcro lontano, ospite nostro perenne tu mi consegni, passando, i loro voleri. Per ora, la sua polvere s'annida nel cavo di un'urna di bronzo: il lamento dei morti, su lui, s'è levato.» Come ho udito, io ti ripeto. Non so se mi trovo di fronte a qualcuno dei suoi, che mi assicuri la risposta da dare: mi aspetto che chi lo mise alla luce lo sappia. CLITENNESTRA Ahi, dolore! Tu parli, e noi fino alle radici ci sfasciamo. Maledetto Castigo della casa: devastante è lo scontro con te! Troppo acuto lo sguardo tuo che fruga: colpi secchi di freccia, da dovunque, e prostri ogni bene, anche quelli al coperto, fuori dal tiro. Ah, disgrazia: tu mi lasci nuda dei miei, dei più cari. E ora Oreste... prudente, teneva il passo lontano da questo stagno letale. Se c'era un'attesa, un antidoto alla frenetica festa maligna che nelle sale s'annida, tutto questo era lui. Esisteva: cancellato d'un tratto. ORESTE Era mio desiderio, con ospiti così ben provvisti, di presentarmi e farmi amico di casa in più lieta occasione. Chi apre il suo cuore, se non un amico di casa ai propri amici? È un sacrilegio - ripetevo fra me - non sciogliere quest'obbligo a chi mi è caro, dopo le promesse e le attenzioni ospitali. CLITENNESTRA Non ti toccheranno cure indegne dei meriti, né sarai meno grato a noi del palazzo. Altri, ugualmente, ci avrebbero fatto sapere. Ormai è tempo che gli ospiti in viaggio da tutta una lunga giornata di marcia, ricevano doveroso sollievo. (A un servo) Scorta quest'uomo al suo alloggio, nell'ala degli ospiti: con lui chi lo segue, e il compagno di strada. Là siano serviti, secondo il bisogno e all'altezza di noi della casa. T'avviso: esegui conscio che devi risponderne.

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Noi pensiamo a far partecipe chi comanda in questo palazzo. Non mancano d'amici: con loro discuteremo di questo nuovo evento. Clitennestra rientra. Il servo precede Oreste e i suoi nella casa. Sulla scena rimangono le donne del coro. […] Dal palazzo esce la nutrice di Oreste. Singhiozza. CORO L'uomo venuto da fuori trama il suo assalto, diresti. Ecco, appare la nutrice di Oreste, rigata di pianto. Dove varchi, Cilissa, le porte del palazzo? Senza che l'assoldi, uno strazio ti scorta. NUTRICE "Egisto reclamano gli ospiti, più presto che puoi," intimò la sovrana; "si presenti, e viso a viso con loro, apprenda più chiara la fresca notizia." Velo di lutto aveva negli occhi, in faccia a noi della casa, ma in fondo allo sguardo covava una voglia di ridere. Per lei è una questione felicemente conclusa. Per questa reggia, invece, è uno schianto fatale, sotto il peso del messaggio che i forestieri hanno recato, senza mezze parole. Anche a lui - sta' sicura - ritorna il sereno nel cuore, quando sente il racconto. Per me, quanto soffrire! Quante miserie spietate negli anni colarono - crosta compatta - sulla reggia di Atreo, a lacerarmi l'anima, dentro: mai, finora, ho sofferto il peso di una simile angoscia! Sciagure, le altre, che pur patendo riuscii ad affrontare. Ma Oreste mio caro, premura di tutta me stessa, che io ho cresciuto, che io ho raccolto dal parto... Gli strilli pungenti, imperiosi - avanti indietro le notti - quante ansie, che affanni: fatiche sfumate nel nulla! Cosa comprende, un bambino? E allora, pazienza, accudirlo - un cucciolo, in tutto e per tutto. Cos'altro? Indovinare come gli piace. Non ha la parola il piccolo in culla, per dire la fame, la sete, quando deve bagnare. Ha regole sue il giovane grembo dei nati. Io lo capivo a volo. Eppure ti dico, spesso restavo sorpresa: sotto, allora, a sciacquare i panni del bimbo. Due mestieri: lavandaia e nutrice, tutto per lui solo! Doppio carico per le mie mani: lo ebbi da suo padre quando, proprio da lui, ricevetti Oreste bambino. Ora la notizia, per me sciagurata: è morto! Ora mi avvio, avverto quel'uomo, contagio maligno alla rocca, che sentirà lieto il messaggio. Terzo episodio Irrompe un servo di Egisto. SERVO Sciagura! Sciagura grande! Trafitto il mio sovrano. Sciagura, per la terza volta io urlo. Egisto non vive più. Subito, aprite, fate presto, sfilate i catenacci dall'ala delle donne. Uno ci vuole, nel fiore delle forze. No, non per soccorrerlo. Che serve? Per lui è finita. Ehi, voi! Sordi, in sonno profondo! E io mi sgolo, grido richiami nel vuoto. Clitennestra dov'è? Cosa fa? Anche il collo di lei, pare, s'abbatterà sul ceppo del boia, sotto mannaia di giustizia. CLITENNESTRA Che accade? Che grida scagli per casa? SERVO Chi è morto ammazza chi è vivo, dico. CLITENNESTRA (sbigottita) Disgrazia! Ambiguo parli, ma il senso mi è chiaro! Per noi c'è agguato di morte: proprio come noi uccidemmo. (Riprendendosi improvvisamente) Datemi, presto, un'ascia omicida! È da vedere se battiamo, o siamo battuti. A questo passo di dolore mi sono spinta, ormai!

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Scompare il servo. Oreste - Pilade alle spalle - si staglia nella porta di mezzo. Impugna il ferro che gocciola sangue. ORESTE Te, te voglio: lui ne ha abbastanza. CLITENNESTRA Aaah! A terra, morto, tesoro mio Egisto! ORESTE Lo senti tuo, l'uomo! Bene, perché ti sdraierai con lui nella fossa. Non potrai più separarti, da lui morto. CLITENNESTRA Frénati ragazzo! (si apre il peplo, mostra le mammelle) Pudore, figlio, per questo seno. Crollavi di sonno - quante volte! - e poggiato, a piccoli morsi succhiavi latte. La vita, per te... ORESTE (smarrito) Pilade, cosa decido?… Mia madre! Devo avere ritegno, a finirla? PILADE E le magiche voci di Delfi, i richiami di lui, dell'Obliquo, lealtà di patti giurati... Dove, dove finiscono? Pensaci: l'umanità contro piuttosto, ma non gli dèi. ORESTE Mi convinci: ho deciso. Giusto è il tuo avviso. (a Clitennestra) Stammi dietro. A fianco di lui voglio immolarti. Tu l'hai stimato più di mio padre, da vivo. Allacciati a lui anche nel sonno di morte. Quest'uomo, tu ami. Ti ripugna, invece, chi avevi il dovere di amare. CLITENNESTRA Io ti ho cresciuto: lasciami invecchiare qui con te! ORESTE Assassina del padre! E vorresti dividere il tetto con me? CLITENNESTRA C'era la Moira fatale di mezzo, allora, figlio. ORESTE Ora anche: la Moira ha fissato la tua ora fatale. CLITENNESTRA Nessun rispetto, figlio, per le imprecazioni di chi ti fece nascere? ORESTE M'hai dato la vita, certo, per cacciarmi nella miseria. CLITENNESTRA Non fu scacciarti, quello, in una casa di compagni d'arme. ORESTE Vergogna! Io, figlio di un uomo libero, smerciato come schiavo! CLITENNESTRA Dov'è, allora, il compenso che ricavai da te? ORESTE Ho ritegno: che schiaffo, dirti senza veli l'infamia! CLITENNESTRA Anzi, aggiungi piuttosto i deliri di tuo padre! ORESTE Basta insolenze contro chi penava: e tu, al coperto, poltrivi. CLITENNESTRA Tormento per la donna lo sposo strappato lontano, figlio! ORESTE Già, il sacrificio dell'uomo vi sfama: inerti, al coperto. CLITENNESTRA Tu uccidi la madre, lo sento, figlio.

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ORESTE Tu, ammazzi te stessa: non io. CLITENNESTRA Attento, guarda le cagne rabbiose della madre. ORESTE E come schivo quelle del padre, se mi arresto? CLITENNESTRA Da viva, io canto il mio lamento funebre. Invano, lo sento! ORESTE Il destino di mio padre ti serra in questo cerchio di morte. CLITENNESTRA Rettile! Ahimè, io t'ho creato, io t'ho sfamato! Indovino perfetto, lo sgomento nato dai sogni! ORESTE Chi non dovevi uccidere uccidesti: e quello che non dovevi soffrire soffri! Oreste trascina la madre all'interno. Esodo In luce la porta in mezzo alla facciata. A terra Egisto e Clitennestra, in un lago di sangue, affiancati. Accanto, Oreste. Servi della casa reggono il drappo in cui fa avvolto Agamennone il popolo di Argo si raccoglie davanti al palazzo. ORESTE Ecco quei due, la coppia despota di questa terra, assassini di mio padre, razziatori della mia reggia. Superbi, assisi sui troni in quei giorni: ed ancor oggi legati, come lascia capire la fine loro toccata. Il patto d'amore è devoto ai pegni di fede. Giuramento a una voce: di morte al mio padre dolente, di stringersi, loro, nella morte. Ed ora onorano il patto. Ecco, contemplate, voi cui arriva l'eco di queste sventure, l'ordigno che avvinse mio padre - polsi inchiodati, piedi fermi in catene. (Ai servi che reggono il drappo) Voi, svolgetela - affiancatevi, fate cerchio - la cappa che cinse quest'uomo, mostratela, che il padre scorga - non il mio, ma quello che irraggia lo sguardo sul mondo, Elios - il sacrilego colpo di mia madre: voglio che mi assista, quel giorno, testimone a difesa nel processo. Dica che io, Oreste, ero nel giusto battendo la pista di una morte, quella di mia madre. Egisto? La sua morte? Meglio tacere. Il suo castigo è quello della legge contro gli amanti infami. Di lei che diresti, che al suo uomo tramò delitto orrendo - e ne accolse nel seno i figli, carico d'affetto, allora, oggi di rancore sinistro - che dire di lei? Tempra di murena? Di rettile velenoso, che al solo sfiorare, senza squarcio di morsi fa marcire le carni, tanto è crudo e maligno il suo slancio? (Afferra il drappo e lo mostra) E per questo, come posso trovare il nome più adatto? Scelgo parole clementi, badate: tagliola da preda selvaggia? Manto, da avvolgere il corpo fino ai piedi, nella conca mortale? O rete, piuttosto? Gabbia, anzi, drappo che inceppa le caviglie: così puoi chiamarlo. Un bandito dovrebbe procurarselo, uno che froda chi incontra e vive di borse strappate: con questa trappola ammazzerebbe di più e ribollirebbe, dentro, di gioia. Mai mi affianchi nella casa una consorte simile! Meglio che il dio mi abbatta e resti privo di figli. CORO Ahimé, ah, gesto doloroso! Finita da morte brutale! Ahimé, ah!

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Per chi resta vivo germoglia pena. ORESTE (improvvisamente perplesso) Agì o non agì?… Ma ecco la stoffa! Essa mi afferma - capo d'accusa - che la lama di Egisto la tinse. Il fiotto mortale cospira col passare del tempo a sbiadire i fitti colori del drappo brillante. Ora sono presente: alzo sul padre il canto di lode, il canto di pena. Parole che vanno al suo drappo assassino: voce di spasimo per l'agire e il patire, per tutto il mio sangue… (S’interrompe, guardando con orrore il drappo insanguinato) Che mi resta della vittoria? Ripugnante contagio. CORO Degli uomini, nessuno varca la vita sereno, senza prezzo d'angoscia. Ahimè, ah! Oggi è già strazio; e un altro verrà. ORESTE (sempre più esitante e smarrito) Se voi sapeste... - non ne vedo la fine. Sono uno che impugna le briglie a cavalli usciti di corsa… Pensieri ribelli mi strappano: non so reagire. Angoscia sul cuore pronta a cantare, a danzare sul tema dell'astio. Voglio gridarvelo, amici, finché sono ancora padrone di me: ho ucciso mia madre - lo affermo! - ma non ho infranto giustizia: era impestata dal padre ucciso, faceva ribrezzo agli dèi. Una droga mi spinse ad osare, iniettata dal pitico vate, l'Obliquo: è la mia difesa solenne! Compiendo la vendetta - lui stesso lo intimava - sfuggivo l'infamia di colpa: se distoglievo la mano... taccio il castigo: tendi pure la mente, non cogli il bersaglio di quelle pene tremende. Guardatemi, ora: fronda e ghirlanda, mi accingo a partire pellegrino per il sacro tempio radicato nel grembo del mondo, alla zolla d'Apollo, alla fiamma che scintilla perenne - si dice - fuggitivo dal sangue che corre le stesse mie vene: a quel fuoco m'inginocchio, non ad altri. Così l'Ambiguo intimò. A voi, gente di Argo, in quest'arco di tempo io dico... (Interrompendosi) Io sono solo… Esco randagio dalla mia terra. Alle spalle, vivente o quando morrò, questo grideranno di me. CORO Fu giusta, anzi, la tua vendetta! Non legare le tue labbra alle stanghe di queste cupe voci. Non vibrare la lingua a maledire. Tu hai riscattato il paese d'Argo, troncando con buon colpo la gola a una coppia di serpi. ORESTE (atterrito, indicando il tetto della reggia) Aaaaaaaaaaah! Che figure sono? Sembrano Gòrgoni! Buie vesti, intreccio denso di vipere. Non posso più starmene qua fermo, io! CORO (guarda il tetto ma non vede nulla) Che vortice di visioni ti assale, figlio a tuo padre diletto? Fermo, rincuorati: la vittoria è tua, solo tua.

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ORESTE Non sono visioni! È strazio per me… Eccole, certo: sono le cagne ringhiose del rancore materno! CORO È il sangue caldo che ti bagna le mani: e ne nasce un turbine folle, che ti piomba sul cuore. ORESTE Apollo, aiuto! Pullulano! Stille scarlatte dagli occhi: che orrore! CORO Una sola purezza ti resta: se l'Obliquo ti sfiora e ti scioglie per sempre dal male. ORESTE Voi non le vedete… Ma io le vedo! Eccole! Mi assaltano! Non posso più starmene fermo, io! Oreste fugge via urlando dalla scena. CORO Possa toccarti il bene! Un dio ti guardi sereno, ti faccia da scudo per giorni migliori! Così sulla rocca regale terzo tempestoso vortice fulminante si scarica. Pasto di figli - miseria dolorosa - fu preludio d'angosce, la prima. Secondo fu il colpo inflitto al principe: cadde stroncato nel bagno il sovrano guerriero d'Achei. Ora è giunta la terza. Mistero da dove? Salvezza o fine fatale la chiamo? Condurrà ad una fine? Potrà mai maturare, potrà mai declinare - e dove? - quieto di sonno rancore di Perdizione?

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LE EUMENIDI Prologo FANTASMA DI CLITENNESTRA (in collera, al Coro assopito) Buona dormita a voi! Già, sprofondate nel sonno! A che mi servite? A voi, a voi sole devo questo stato umiliante giù tra i fantasmi. Non tramonta neanche sotterra la mia infamia, per chi uccisi. Disonore! Randagia laggiù! Io vi rinfaccio che proprio da quelli sotterra subisco più spietato processo. Io, così crudamente colpita da chi era più mio. E nessuna potenza divina sorge a farmi da scudo. Eppure io fui immolata da mani assassine di figlio! Ecco lo squarcio: ti si staglia nel cuore l'immagine. Dormendo, la mente è fiammata di terse visioni: alla luce del giorno, invece, i viventi non scorgono quello che accade. Quante volte sorbiste le bevande che io vi offrivo, senza goccia di vino, chiaro miele che v'addolciva! E le mense - la mia devozione notturna - fumanti per voi sul braciere che ardeva, nell'ora che a nessun altro celeste appartiene. Tutto ora voi schiacciate sotto il calcagno, lo vedo. E lui fuggitivo, lontano: un daino, direste. Gli bastò snello uno scatto dal folto dei lacci; e aggiunge per voi - un'occhiata - durissimo scherno. Uditemi: tutto ciò che conta per me io vi ho detto. Riprendete coscienza, dèe dell'abisso! Sono un sogno che viene, io, Clitennestra. E vi chiamo. CORO (cupo uggiolio) CLITENNESTRA Uggiolate quanto vi pare: e lui corre fuggitivo davanti. Hanno custodi gli altri della mia famiglia: io no! CORO (uggiola) CLITENNESTRA Sei proprio assopita, non compiangi il mio strazio. Oreste, che uccise sua madre - eccola, io! - è ormai fuggitivo. CORO (ulula) CLITENNESTRA Tu guaisci, ma resti assopita! In piedi, che aspetti? Che altro hai da fare, se non ordire tormenti? CORO (ulula) CLITENNESTRA Sopore e fatica: ferrea congiura che spossa il tuo slancio di serpe rabbiosa. CORO (ulula in modo due volte più acuto) (nel sonno) Tienilo, tienilo, tienilo, tienilo! Attenta! CLITENNESTRA Nei sogni tu scovi la bestia. Il tuo è ululare di cane che non allenta lo spasimo di caccia mortale. Che decidi? Rialzati, non ti pieghi lo sforzo. Tu, non scordare il torto patito,

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invischiata nel sonno. Torméntati, dentro, con meritati rimproveri: fanno da sprone a chi sa ragionare. Tu sbàvagli addosso un fiato cruento, struggilo, col soffio rovente che ti trai dal seno, braccalo, raddoppia l'assalto, appassiscilo! Il Fantasma di Clitennestra sprofonda. CORO (alla compagna accanto) Sveglia! Sveglia la tua vicina, come io con te. Continui a dormire? Rialzati, scaccia il sopore a pedate! Vediamo se le note d'inizio suonano a vuoto. Le dormienti si svegliano ad una ad una. Abbandonando i seggi si rovesciano, rabbiose, nell'orchestra. Terzo episodio ATENA (alle parti) Tocca a voi parlare. Io procedo: il giudizio comincia. Il primo intervento a chi accusa: esponga in termini chiari, sin dall'inizio, come avvennero i fatti. CORO In tante qui siamo, ma taglieremo corto ai discorsi. (a Oreste) Bada, quando ti tocca, a replicare punto per punto. Cominciamo: hai ucciso tua madre? Parla! ORESTE L'ho uccisa. Non esiste smentita, per questo. CORO Ecco il primo colpo vincente: uno su tre! ORESTE Sono ancora in piedi, non esaltarti. CORO Ora confessa come l'abbattesti. ORESTE Nuda lama in pugno, uno squarcio alla gola, ti dico. CORO Ti convinse qualcuno? Chi t'ispirava? ORESTE Il dio, coi responsi. Può testimoniarlo. CORO Il veggente ti segnava la strada all'assassinio della madre? ORESTE Per questo tempo, non posso maledire il mio destino. CORO Se il verdetto t'agguanta, cambi subito tono. ORESTE

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Io credo in un aiuto che sorge dalla fossa: mio padre! CORO Credi, credi ora negli spettri, assassino di tua madre! ORESTE Doppio accesso di colpevole chiazza, aveva. CORO Che dici? Spiegale alla corte, queste cose. ORESTE Uccidendo lo sposo, mio padre uccise. CORO Tu però sei vivo. Lei ha espiato, a prezzo di morte. ORESTE Perché non braccavi lei, quand'era in vita? CORO Non aveva il sangue di colui che uccise. ORESTE E io? Faccio parte, io, del sangue di mia madre? CORO Mostro! Come ti crebbe, nel cavo del ventre? Ripudi il sangue della madre, che più t'appartiene? ORESTE Apollo, ora a te deporre. Dimostra se ero nel giusto, quando colpii. Fallo per me! L'azione compiuta non si può smentire. E così! Ma tu, scrùtati dentro, se ti pare giusto o no questo sangue versato. Così io replico a loro. APOLLO (ai giudici) Dirò a voi, che incarnate la legge potente fondata da Atena: «è giusto». Io sono profeta: non dirò mai falsità. E dal mio seggio fatidico non ho mai proferito parola - su uomo, su donna, su intera città - che non mi fosse dettata da Zeus, olimpico padre. Io vi proclamo: riflettete su questo diritto di giustizia, chinatevi ai decreti del Padre. Nessun giuramento compete in potenza con Zeus. CORO Quindi, a sentire te, Zeus ti consegnò l'oracolo da dire a Oreste: far scontare l'assassinio del padre, senza alcun rispetto per le ragioni di lei, della madre? APOLLO Non ha lo stesso valore la morte di un prode, di un nobile, che la divina insegna del potere fregiava. Tanto più se caduto per pugno di donna, non per colpo sfrecciante lontano, di un arco d'Amazzone; ma nel modo che udrai, Pallade, e anche voi, qui assisi a giudicare col voto su questa vicenda. Ecco, lui tornava dal campo, con una messe di belle vittorie. Lei sorrideva.

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L'accolse... Poi, mentre quello usciva dalla conca del bagno - sull'orlo - lo fascia d'un drappo - ombra stesa su lui - e trafigge lo sposo, inchiodato nel ferreo groviglio del manto ingegnoso. Ecco, sapete l'ora fatale del grande onorato da tutti, condottiero di navi. Di che razza fosse lei, l'ho narrato. Deve sentirsi bruciare di sdegno la gente che qui ha l'ufficio di dare un verdetto. CORO Zeus privilegia la parte del padre, se è come dici. Ma lui, con le sue mani, incatenò Crono, il padre già vecchio: non stridono le due circostanze? Come lo spieghi? (Ai giudici) Voi mi siete testimoni di quel che state udendo. APOLLO Sanguinarie! Vi odiano tutti, fate schifo agli dèi! I ceppi c'è chi li slaccia, c'è sempre mezzo di porre rimedio, di sciogliere. Lascia che la polvere asciughi il sangue di un uomo, una volta crollato: e più non esiste risveglio. Per questo non creò fascini il padre mio: eppure, ruota e regola il resto del cosmo - l'abisso e la volta celeste - e non pulsa per l'enorme fatica. CORO Rifletti se è il caso di difenderlo, di farlo assolvere. Ha fatto colare per terra il sangue materno, che è tutt'uno col suo. Vivrà in futuro nelle mura domestiche, ad Argo, che appartennero al padre? Quali altari avrà per il rito, nel suo paese? Quale cerchia di famiglie gli porgerà l'acqua che monda? APOLLO Ho la risposta, eccola: rifletti tu se è esatta. Non la madre, non lei produce il suo frutto: «figlio» è il suo nome. Solo, nutre il gonfio maturo del seme. L’uomo procrea, che d'impeto prende. Lei è come ospite all'ospite: veglia sul giovane boccio, se un dio non lo schianti. Ti offro la prova di questo argomento: padre senza madre è possibile. Una testimonianza è qui vicina, presente: Atena, la figlia di Zeus, che non crebbe nel cavo ombroso di un seno. Ed è tale germoglio che nessuna dea può farlo fiorire. Io per il resto, Pallade, per quanto so e posso... farò poderosa la tua rocca e il tuo Stato. Per ora, ho mandato quest'uomo al riparo del tuo santo fuoco: ti resti devoto in eterno! E tu possa disporre di lui, o dea, e dei suoi in futuro come saldi alleati. Negli eredi del ceppo resista perpetuo l'amore del patto. ATENA Dunque do segno ai giurati di riflettere, e deporre il voto della sentenza. Poiché basta ciò che fu dichiarato. APOLLO Per noi, ogni colpo è scoccato. Aspetto il verdetto finale. ATENA (a Oreste e Apollo) Bene. Nessun reclamo da parte vostra? CORO (ai giudici) È tutto. Ciò che sapete, sapete. Rispettate dentro di voi la fede data, ospiti, scegliendo il voto. ATENA Popolo di Atene, accogliete il mio decreto, voi che per primi decidete di un processo di sangue. Per tutto il tempo venturo, anno per anno, la gente di Egeo godrà di questo tribunale e dei suoi giudici. Questo poggio, sullo spiazzo dove piantarono il campo le Amazzoni in armi - al tempo che, ostili a Teseo, calarono qui e contro l'acropoli alzarono, irta di torri, un'acropoli nuova, e immolarono ad Ares, per cui questo masso si chiama «di Ares», Areòpago, - su questo poggio, dunque, sacro Rispetto e Paura - rami di un unico ceppo - saranno, di giorno e di notte, freno

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del popolo contro un'iniqua condotta, purché la città non rivolti le leggi. Tu chiazza una tersa corrente con impuri sgorghi terrosi: non potrai dissetarti. Né senza una guida, né sotto un tiranno: questo, o cittadini rispettosi, lo Stato che vi consiglio. Non abolite del tutto la paura dalla vostra cerchia. Chi al mondo si mantiene onesto, se non l'invade la paura? Siate onesti, venerando la maestà del tribunale: vi farà da scudo, custodia vostra e dello Stato, quale nessuno al mondo possiede, dalla Scizia giù alla terra di Pelope. È un tribunale che la corruzione non sfiora, venerando, ferreo dentro, vedetta sempre all'erta su una città quieta: così io lo fondo. A lungo ho parlato, cittadini, per darvi questi avvisi validi per sempre. (Ai giudici) È l'ora: levatevi, scegliete il voto e giudicate il processo, onorando il giuramento. Ciò che dovevo ho detto. I giudici si recano alle urne e depongono il voto. […] ATENA È mio compito la scelta del giudizio conclusivo. Il mio voto: ecco, l'aggiungo alla parte di Oreste. Non c'è madre che m'abbia dato la vita. Il mio favore va sempre alla parte maschile - purché non si tratti di nozze - dal fondo del cuore. Io sono figlia soltanto del padre. Perciò non calcolo troppo la fine di una che ha ucciso lo sposo, scolta delle mura domestiche. Vince Oreste anche se il verdetto dà equilibrio di voti. Ora svelti, estraete i suffragi dai cesti: dico a voi, giurati, che quest'incarico avete. ORESTE O Febo Apollo, che verdetto avrà la causa? CORO O cupa madre, Notte, vedi che cose! ORESTE Sono sul filo: o il cappio al collo, o rivedo la luce. CORO Per noi sprofondare, o rinnovare il prestigio. APOLLO Fate onesto computo dei voti, ospiti, via via che li togliete. Attenti alle frodi durante lo spoglio! Sottrarre un suffragio può essere enorme rovina. Una sola scheda, caduta, può rialzare una casa. Lo scrutinio è finito. Dalle tavole con i voti Atena legge il verdetto. ATENA Quest'uomo è sciolto dalla colpa di sangue: il conto delle schede è pari! ORESTE Pallade, salvezza della mia casa! Mi strapparono al suolo dei padri e ora tu ne rifai la mia dimora. In Grecia la gente dirà: «Ritoma uno di Argo, padrone dei beni paterni, per mano di Atena e d'Obliquo - e di Lui, che tutto effettua, Salvatore Perfetto. Considerando la fine paterna, egli mi salva, anche di fronte a costoro, patrone di lei, della madre. Ora torno alle mura domestiche: prima, giuro a questa terra e ai suoi che in futuro, fino al colmarsi dei secoli,

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nessuno che regga la barra del mio paese scaglierà contro Atene un'armata decisa a colpire. Sarò io - nella fossa, allora - a castigare con disastri senza scampo chi vorrà infranti gli attuali giuramenti: strade da spezzare il cuore, voli sinistri d'uccelli sui passi porrò ad ostacolo, finché nasca rimorso dell'attacco. Ma se starà saldo il patto e loro - gli eredi - onoreranno sempre d'alleanza armata questa rocca di Pallade, allora godranno la mia benevolenza. Ora addio, a te e alla gente di questa città. Vibra sempre al nemico un assalto senza respiro, salvezza dei tuoi, fregio di gloria guerriera. (Oreste esce) Esodo CORO str. I Ah, dèi del nuovo tempo le norme secolari scavalcaste, mi lasciaste le mani vuote. Io offesa - groppo dentro plumbeo di rabbia - vibrando su questa terra dal cuore - a saldo del mio tormento - tossico, sgocciolio contro la zolla... cancrena sterminio di fronde, di figli - Giusta Vendetta! - che azzanna il paese e scaglia dovunque pozze di morte. Singhiozzo! Agire, ma come? Sono decisa. Troppo dolore fra questa gente ho patito. Noi sventurate vergini figlie della Notte, dolenti dell'offesa patita! ATENA Sentite me: basta con questo groppo di lacrime. Non siete disfatte. Uscì verdetto in equilibrio: per onorare il vero, non per umiliarvi. Già esistevano lucide tracce emanate da Zeus: l'attestava, qui presente, il dio. Egli indovinò che Oreste non avrebbe scontato la pena del suo agire. Voi schizzate su questo suolo plumbea rabbia. Non accendetevi: attente, non architettate strage di frutti col vostro sudare di creature sovrumane, lame golose, spietate a colpire i germogli. Io vi faccio solenne promessa: di avere sedi in questo paese e un sacro cavo - come voi meritate. Assise presso gli altari, su lucidi troni, godrete tributo d'onore dagli uomini di questa terra. […] CORO str. II Ahimè, in che stato! Io, che ho il senno dei secoli, vivere su questo suolo - vile chiazza schifosa! - Ansimo furia,

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rabbia pura! Aaah, Terra, ahimè! Che spasimo mi trafigge, fondo, nell'anima? Odimi Notte: inganno travolgente di dèi ha sperso nel nulla un prestigio di secoli. ATENA Faccio mio il tuo sfogo: sei d'altri tempi. Sei molto più esperta, saggia di me. Ma anche a me Zeus ha donato equilibrio di mente. Passate pure in un paese d'altra gente: sentirete il richiamo d'amore per questa terra. Io ora predìco: il fluire dei tempi sarà un crescendo di gloria per la mia città. Anche tu, se accetti venerata sede, presso il tempio di Eretteo, otterrai da uomini e donne in processione quanto mai avresti in dono da cittadini forestieri. Tu non vibrare contro i miei domini le cruente coti, squarcio di giovani petti nel ribollire di una sobria frenesia. Non attizzare - come fossero galli - non piantare nel cuore dei miei uno spirito d'astio, sangue che lotta col sangue fraterno. Guerra esterna sia pure - presenza non penosa - per chi avrà in sé amore smanioso di gloria: ma escludo una rissa d'uccelli stretti nello stesso pollaio. Questa è la scelta che ti posso offrire: il bene da fare, il bene da ricevere, coperta d'onori, parte viva di questa terra benedetta dal cielo. […] Non mi stanco di dirti il tuo bene. Non potrai sostenere che tu, divinità secolare, da me che appartengo al nuovo tempo e da questa gente della città sia stata malamente respinta, espulsa dai nostri confini. Se hai integro il culto della Dea che Convince - lei dà fascino e miele al mio parlare - ebbene dovresti fermarti. Forse il tuo volere è un altro e non resti; pecchi allora, se fai dilagare rabbia e rancore su questo paese, disastro alla mia gente. Puoi stabilirti qui, da possidente, su questa terra: è tuo diritto. Avrai culto perenne. CORO Atena sovrana, che sede avrei, puoi dirmelo? ATENA Al riparo da noie: tu accettala. CORO Bene accettata. Che privilegio m'aspetta? ATENA Nessuna casa può godere fortuna, senza di te. CORO Tu lo farai? Mi darai tanta forza? ATENA A gonfie vele spingeremo i tuoi fedeli! CORO Questa promessa me la fai per sempre? ATENA Mi riservo il silenzio, su quanto non potrei attuare.

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CORO M'affascini, direi. Lascio la rabbia. ATENA Certo, e in questa terra otterrai nuovi fedeli. CORO Che augurio intonare per questa terra? Ispirami tu. ATENA Quello che scorta vittorie senz'ombra. E che ogni carezza di vento, soffi tersi nel sole, alitando da terra, dal cielo, dal liquido mare, s'incammini a queste campagne; che stagione dopo stagione il rigoglio fecondo di zolle e di mandrie non cessi di rendere ricco il paese; che resti viva la forza di nascite umane, che tu faccia sarchiatura degli empi! Assomiglio a un giardiniere, io, mi piace che il ceppo dei giusti non patisca per colpa degli empi. Ecco i tuoi compiti. Io m'incarico dei fulgidi scontri di guerra. Voglio che Atene spicchi nel mondo con questo fregio: "città che trionfa". […] Il corteo di fedeli scorta Atena, i giudici, le Eumenidi al chiarore di sacre fiaccole, cantando. FEDELI IN PROCESSIONE str. I Incamminatevi alla vostra sede, o superbe figlie non madri della madre Notte sull'orma del sacro corteo. Cantate in festa, voi gente di qui! ant. I Laggiù, nei venerandi antri della terra: otterrete il culto secolare di voti e d'offerte. Cantate in festa, o gente riunita! str. II Pacifiche, liete con questa terra là recatevi, o Sante. Sia festa al vostro cammino la vampa che sperde le torce. Ora al mio canto inneggiate! ant. II Patto di pace per eterna fortuna a favore della gente d'Atene: lo strinsero Zeus che l'universo scruta e la Moira fatale. Ora al mio canto inneggiate! Il corteo scompare.

FINE