Enciclica L’economia del dono Perdonare i Democratici luglio e agosto... · 2016. 5. 8. · Quasi...

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// 5 // taccuino //// mondoperaio 5/2009 >>>> taccuino Enciclica L’economia del dono >>>> Gennaro Acquaviva L a terza enciclica di Papa Benedetto è un testo complesso, in linea con le caratteristiche proprie dell’argomento che affronta ma anche in ragione della caratura culturale, ed anche pastorale, del suo autore. Merita quindi di essere letta e meditata con attenzione: un impegno che intendiamo assolvere, nel tempo, su queste colonne, ma che è auspicabile sia fatto proprio da molti che intendono continuare a riferirsi ai valori del socialismo democratico qua- le ispirazione centrale del loro impegno sociale e politico. Qui cercherò di indi- viduare solo alcuni primi spunti di riflessione, in particolare quello del tema centrale presente nel testo del Pontefice, che egli non ha avuto timore a presentare al tavolo dei potenti della terra riuniti all’Aquila con tutta la sua forza disarmante e paradossale: quello dell’economia del dono. La prima considerazione è che non si tratta di un testo pensato per andare contro qualcuno o per opporsi a questo o a quel sistema di pensiero o di potere. Non ci troviamo, come è naturale, dinanzi ad un’enciclica anticapitalisti- ca; ma non è neppure un testo banal- mente “socialdemocratico”. Il desiderio del Papa è infatti esplicito, dichiarato fin dall’inizio: occorre “una nuova ed approfondita riflessione sul senso del- l’economia e i suoi fini”; e per raggiun- gere questo obiettivo egli avanza osser- vazioni, propone valutazioni e sostiene diverse soluzioni giacché ritiene ( e con molta ragione ) che le società capitali- stiche siano giunte ormai strutturalmen- te ad un limite assai grave di crisi. Va poi sottolineata l’idea di sviluppo che attraversa tutto il ragionamento papale. Ratzinger la considera interdi- pendente con l’etica della vita, con il bene-valore della fraternità e quindi con i diritti ed i doveri propri della con- vivenza umana. Nella Caritas in verita- te, insomma, la cosiddetta “questione antropologica” diventa a pieno titolo “questione sociale”. Nel cap. 34 questo collegamento è netto: “ La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione, ha indotto l’uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione socia- le”; e subito dopo: “ la convinzione poi della esigenza di autonomia dell’econo- mia, che non deve accettare ‘influenze’ di carattere morale, ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo”. La terza sottolineatura che propongo va ricercata nell’alternativa (o meglio nel- l’orizzonte alternativo) che il Papa indi- ca per quanto attiene al mercato, in par- ticolare rispetto ai meccanismi dello scambio mercantile ed al valore tradi- zionale della moneta: e cioè quello che egli chiama “la stupefacente esperienza del dono”. Utilizzando un linguaggio suggestivo, intriso di profetismo, Rat- zinger vuole farci ragionare sul fatto che anche nelle nostre società ultraevo- lute e ricche il denaro possa non essere l’unica forma di scambio, che ci possa essere qualcos’altro che vada al di là di esso, anche nell’organizzazione del mondo, ben sapendo che “la logica del dono non esclude la giustizia e non si giustappone ad essa”, ma soprattutto affermando che “lo sviluppo economi- co, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità”. Questo nucleo di “solidarietà” e di “fraternità” viene indicato dal Papa come lo stru- mento fondamentale per poterci avvici- nare alla pienezza di una comunità di uomini liberi, in cui possano essere rea- lizzate compiutamente pace e giustizia nella carità e nella verità. PD Perdonare i Democratici >>>> Gianfranco Pasquino N on so se debbono essere perdonati dal Padre i dirigenti del Partito Democratico. Comunque, non tocche- rebbe a me rivolgermi al Padre poiché, rispettando le sfere di influenza, i teo- dem sono certamente più adatti. Però, so che personalmente non posso perdo- narli poiché non è la prima volta che argomento, spiego e scrivo che non sanno quel che fanno. Non sanno nep- pure che le primarie sono strumenti che servono a scegliere candidati alle cari- che elettive ( sindaci, presidenti di pro- vincia e di regione, eventualmente Pre- sidente del Consiglio), mentre a otto- bre, mese apparentemente fatidico, dovranno eleggere il Segretario del PD. Non sembra esserci accordo neanche sul metodo. Il D’Alema che sostiene di essere sempre allineato con le decisioni del gruppo dirigente afferma che ”per il segretario devono votare solo gli iscrit- ti, questa regola delle primarie allargate è assurda” (La Repubblica, 6 luglio). Eppure qualcuno potrebbe spiegare a D’Alema e alla sua Fondazione cultura- le che l’intento di una elezione allarga- ta è quella di fare entrare un po’ d’aria fresca, non soltanto “correnti”, nelle

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taccuino / / / / mondoperaio 5/2009

>>>> taccuino

Enciclica

L’economia del dono>>>> Gennaro Acquaviva

La terza enciclica di Papa Benedettoè un testo complesso, in linea con le

caratteristiche proprie dell’argomentoche affronta ma anche in ragione dellacaratura culturale, ed anche pastorale,del suo autore. Merita quindi di essereletta e meditata con attenzione: unimpegno che intendiamo assolvere, neltempo, su queste colonne, ma che èauspicabile sia fatto proprio da moltiche intendono continuare a riferirsi aivalori del socialismo democratico qua-le ispirazione centrale del loro impegnosociale e politico. Qui cercherò di indi-viduare solo alcuni primi spunti diriflessione, in particolare quello deltema centrale presente nel testo delPontefice, che egli non ha avuto timorea presentare al tavolo dei potenti dellaterra riuniti all’Aquila con tutta la suaforza disarmante e paradossale: quellodell’economia del dono.La prima considerazione è che non sitratta di un testo pensato per andarecontro qualcuno o per opporsi a questoo a quel sistema di pensiero o di potere.Non ci troviamo, come è naturale,dinanzi ad un’enciclica anticapitalisti-ca; ma non è neppure un testo banal-mente “socialdemocratico”. Il desideriodel Papa è infatti esplicito, dichiaratofin dall’inizio: occorre “una nuova edapprofondita riflessione sul senso del-l’economia e i suoi fini”; e per raggiun-gere questo obiettivo egli avanza osser-vazioni, propone valutazioni e sostienediverse soluzioni giacché ritiene ( e conmolta ragione ) che le società capitali-stiche siano giunte ormai strutturalmen-te ad un limite assai grave di crisi.Va poi sottolineata l’idea di sviluppo

che attraversa tutto il ragionamentopapale. Ratzinger la considera interdi-pendente con l’etica della vita, con ilbene-valore della fraternità e quindicon i diritti ed i doveri propri della con-vivenza umana. Nella Caritas in verita-te, insomma, la cosiddetta “questioneantropologica” diventa a pieno titolo“questione sociale”. Nel cap. 34 questocollegamento è netto: “ La convinzionedi essere autosufficiente e di riuscire aeliminare il male presente nella storiasolo con la propria azione, ha indottol’uomo a far coincidere la felicità e lasalvezza con forme immanenti dibenessere materiale e di azione socia-le”; e subito dopo: “ la convinzione poidella esigenza di autonomia dell’econo-mia, che non deve accettare ‘influenze’di carattere morale, ha spinto l’uomo adabusare dello strumento economico inmodo persino distruttivo”.La terza sottolineatura che propongo varicercata nell’alternativa (o meglio nel-l’orizzonte alternativo) che il Papa indi-ca per quanto attiene al mercato, in par-ticolare rispetto ai meccanismi delloscambio mercantile ed al valore tradi-zionale della moneta: e cioè quello cheegli chiama “la stupefacente esperienzadel dono”. Utilizzando un linguaggiosuggestivo, intriso di profetismo, Rat-zinger vuole farci ragionare sul fattoche anche nelle nostre società ultraevo-lute e ricche il denaro possa non esserel’unica forma di scambio, che ci possaessere qualcos’altro che vada al di là diesso, anche nell’organizzazione delmondo, ben sapendo che “la logica deldono non esclude la giustizia e non sigiustappone ad essa”, ma soprattuttoaffermando che “lo sviluppo economi-co, sociale e politico ha bisogno, sevuole essere autenticamente umano, difare spazio al principio di gratuità comeespressione di fraternità”. Questo

nucleo di “solidarietà” e di “fraternità”viene indicato dal Papa come lo stru-mento fondamentale per poterci avvici-nare alla pienezza di una comunità diuomini liberi, in cui possano essere rea-lizzate compiutamente pace e giustizianella carità e nella verità.

PDPerdonarei Democratici>>>> Gianfranco Pasquino

Non so se debbono essere perdonatidal Padre i dirigenti del Partito

Democratico. Comunque, non tocche-rebbe a me rivolgermi al Padre poiché,rispettando le sfere di influenza, i teo-dem sono certamente più adatti. Però,so che personalmente non posso perdo-narli poiché non è la prima volta cheargomento, spiego e scrivo che nonsanno quel che fanno. Non sanno nep-pure che le primarie sono strumenti cheservono a scegliere candidati alle cari-che elettive ( sindaci, presidenti di pro-vincia e di regione, eventualmente Pre-sidente del Consiglio), mentre a otto-bre, mese apparentemente fatidico,dovranno eleggere il Segretario del PD.Non sembra esserci accordo neanchesul metodo. Il D’Alema che sostiene diessere sempre allineato con le decisionidel gruppo dirigente afferma che ”per ilsegretario devono votare solo gli iscrit-ti, questa regola delle primarie allargateè assurda” (La Repubblica, 6 luglio).Eppure qualcuno potrebbe spiegare aD’Alema e alla sua Fondazione cultura-le che l’intento di una elezione allarga-ta è quella di fare entrare un po’ d’ariafresca, non soltanto “correnti”, nelle

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chiuse stanze dei notabili del PD (vec-chi e nuovi, consolidati e aspiranti).D’altronde D’Alema non ha nulla datemere. Infatti nella stessa intervista,dichiara: “Noi dell’apparato siamo qua-si indistruttibili”. Usando il suo gergo,aggiungerei che le “scosse”, se volesseimprimerle, potrebbero fare cadere igazebo, ma non i dirigenti del PD lega-ti da un patto politico generazionaleferreo quant’altri mai: conservazione,in tempi difficili, del posto di lavoro.Quasi nessuno ha notato che il PD haperso e di molto (perdoniamo Veltroniche continua a dire, contro l’evidenza,che, invece, ha vinto) le elezioni del2008, ma nessuno dei dirigenti già inParlamento, compresi Veltroni e Fran-ceschini, hanno perso il seggio. E’quanto basta, a loro, ma è un po’ trop-po poco per quegli elettori che vorreb-bero rappresentanza parlamentare ereale delle loro preferenze, e difesa deiloro interessi da parte di un’opposizio-ne decente. Adesso, si tratterebbe discegliere un nuovo segretario di Partitoper salvare il cui progetto Veltronidichiarò di dimettersi. Possibile chenon ci sia nessuno “coraggioso” o “for-midabile” a mettere in dubbio che, for-se, è proprio quel progetto che è sba-gliato? Cosicché nessuno proponealternative radicali. Peggio, nessuno haancora capito che, quand’anche il pro-getto sia salvabile e recuperabile, addi-rittura rilanciabile, bisogna farlo cam-minare non sulle gambe di dirigentilogori, privi di idee, interessati soltantoalla loro personale durata (comunque,per quasi tutti la carriera è finita in Par-lamento, può soltanto essere prolunga-ta, ma senza elettrizzanti scosse digoverno) e alla cooptazione di parla-mentari fedeli e di segretari locali ope-rosi, ma su una struttura organizzativatotalmente ripensata e rinnovata. A checosa serve che gli uomini dell’apparatosiano indistruttibili se le organizzazionidi partito a livello locale franano un po’dappertutto, scolorando quel poco dirosso che è rimasto nelle famigerateregioni del centro dell’Italia? Macché.Seguendo il pessimo esempio di Veltro-

ni prima Bersani, poi, inevitabilmente,Franceschini, e adesso anche IgnazioMarino, hanno deciso che le menti e icuori di coloro che praticheranno l’e-sercizio del voto per il segretario siconquistano parlando loro di altisonan-ti programmi quasi come se il PD stes-se per ritornare al governo da unmomento all’altro. Un buon program-ma può sempre servire, magari anchead un’opposizione parlamentare che,reclutata con criteri a metà fra GrandeFratello e Isola dei Famosi, fa fatica,per incapacità e incompetenza, a con-trollare, controproporre, criticare, ed araggiungere in maniera convincentel’opinione pubblica. Comunque, unbuon programma lo si scrive (o lo si fascrivere a qualcuno) in pochi giorni.Bisogna ricordarsi di segnalare l’im-portanza della pace e dell’ambiente,dire che si è pronti a combattere la famenel mondo e le ingiustizie sociali, espri-mersi a favore della competizione e delmerito. Et voilà: FATTO! Suggeriscoche si trovino anche slogan più mobili-tanti del “correre da soli”. Per fortunaMarino ha ricordato che ci sarebbeanche, in questo paese, hic et nunc, datenere conto della laicità, sia comemodo d’essere sia come metodo peraffrontare i problemi, tutti, e non soltan-to la ricerca scientifica, senza sottostarealle fatwe del Vaticano. Neppure questobasterà. Infatti, l’obiettivo da persegui-re, eluso da Veltroni e soltanto sfioratoda Franceschini è quello individuato,ma finora senza nessuna indicazioneconcreta, da Bersani: costruire un parti-to (“da combattimento” e, persino, “disinistra” nella retorica bersaniana).Nel suo tempo migliore, la secondametà degli anni settanta, Mondoperaioospitò molti intelligenti, stimolanti, ori-ginali interventi che, prendendo le mos-se dal Parti Socialiste costruito da Mit-terrand nel 1971, miravano a rinnovarela fatiscente “forma-partito” del PCI edello stesso PSI. Abbiamo ancora biso-gno, probabilmente oggi più di ieri l’al-tro, di un partito a struttura federale chevuole dire che i dirigenti vengono elet-ti in sede locale senza interferenze dal

vertice e che i candidati alle caricheelettive sono residenti e non paracadu-tati. Abbiamo bisogno di un partito convivace democrazia interna che non con-ferisca nessun vantaggio di posizione aifunzionari, oggi tutti annidati nelle cari-che locali, e che faccia leva su una chia-rissima etica della politica: incompati-bilità rigorose, nessun cumulo di cari-che, niente conflitti d’interessi. Abbia-mo bisogno di regole chiare, valide pertutti, compresi quelli dall’apparatoromano, per la selezione delle candida-ture e per i pensionamenti, nessuno deiquali sarebbe, oggi, in nessun modoanticipato (a cominciare da quelli diD’Alema, Fassino, Veltroni et moltialtre e altri.) Abbiamo bisogno di unasinistra davvero plurale, non per rici-clare i vecchi dirigenti di Rifondazione,Comunisti Italiani, Verdi, che non se lomeritano, ma per rappresentare gli inte-ressi, le preferenze, i valori, non moltodissimili dai nostri, della maggioranzadi quegli elettori senza i quali la sinistranon vincerà più. Abbiamo, in definiti-va, bisogno di qualcuno che parli avoce alta e a ragione veduta, con un po’di competenza e di lungimiranza, di-sposto a confrontarsi con opzioni alter-native, di quale organizzazione partiticavorrebbe diventare segretario.Qualcuno che parlasse di politica, delmodo con il quale fare partecipare inmaniera aperta e incisiva quegli elettoriche sono accorsi alle urne delle cosid-dette primarie e che sono anche dispo-nibili a versare soldi a fondo molto per-duto. Qualcuno che volesse costruire ledecisioni su chi scegliere per qualicompiti, di rappresentanza e di gover-no, coinvolgendo, con regole oneste edignitose, tutti coloro che hanno, perragioni di luogo e di competenza, qual-cosa da dire. Vorremmo, infine, qualcu-no che sia disposto a ricevere le criticheal suo operato con lo stesso sorriso conil quale gradisce approvazione e com-plimenti. Sì, vorremmo davvero un’al-tra organizzazione di partito per unapolitica molto diversa dall’attuale. Poi-ché su ambiente e fame, giustizia socia-le e parità di genere sono sicuro di esse-

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re d’accordo, ma sono anche disposto arimanere in minoranza, anche se non insilenzio, cambiare organizzazione percambiare la politica è il minimo che,da osservatore potenzialmente parteci-pante, sono disposto a chiedere ai can-didati alla carica di segretario del Parti-to Democratico.

Sinistra e Libertà

Gauche plurielleall’italiana>>>> Danilo Di Matteo

Dove va Sinistra e Libertà? Essa, si leg-ge nelle tesi per il seminario del 3 luglioscorso (alle quali per comodità faròriferimento), “non è un partito, ma nonè neppure una federazione di partiti”. Esi tratta solo di un esempio di ricerca diuna sorta di terza via. Come quando sievoca un soggetto politico che superi ilimiti, considerati angusti, del riformi-smo, peraltro oggi attraversato da ideeliberali e liberiste, senza con ciò identi-ficarsi tout-court con la cosiddetta sini-stra di trasformazione (quella estrema).Di certo vi sono poi le suggestioni del-la gauche plurielle e nel contempo iltentativo di approdare efficacemente auna sintesi, sempre con il proposito di

non ridursi a un’operazione volta a sal-vaguardare segmenti di ceto politico.Scorgo un primo errore, però, nella let-tura che viene data della crisi. Essa èinsieme finanziaria ed economica, eproprio nell’economia reale affonda leproprie radici: in particolare negli squi-libri fra il Nord America, che si è sem-pre più indebitato e sul debito ha basa-to la sua crescita degli anni scorsi, e laCina, che ha accumulato immensi pro-fitti grazie alla formidabile capacità diesportare. Nel concepire la crisi in duetempi – imputando alla “finanza” tutti imali – si intravede forse, oltre che unluogo comune, una profonda diffidenzanei confronti di ciò che al denaro èlegato.Occorre discernimento anche riguardoal possente fenomeno, iniziato da seco-li e impostosi negli ultimi lustri, defini-to globalizzazione. Essa di certo pre-senta un pericoloso deficit democrati-co: le principali decisioni sulle sorti deipopoli e sul loro tenore di vita vengonoassunte al di fuori dei circuiti della rap-presentanza e del controllo democrati-co, in centri opachi e ai più ignoti. Diqui l’esigenza di una ri-regulation:occorrono regole efficaci, senza le qua-li non saremo in grado di prevenire egovernare le crisi. In fondo si apre iltema di una nuova, vera governancemondiale. Senza dimenticare, però, chesovente non è la libera circolazione di

merci e capitali a immiserire i paesipoveri, quanto, al contrario, il protezio-nismo: quando le regioni ricche del pia-neta provano a chiudersi in fortezzevolte a difendere i propri livelli dibenessere, milioni di essere umani chegià vivono nell’indigenza finiscono perprecipitare nell’abisso della fame e del-la disperazione.E se di regole ci sarebbe bisogno, nonmi pare sensato ridurre, come fanno le“tesi”, il governo del fenomeno immi-gratorio al problema dell’accoglienza.Qui si intravede un equivoco di fondo.Porsi la questione dei flussi migratori odella sicurezza non equivale a insegui-re le destre. Capovolgerei, anzi, la pro-spettiva: se le destre vincono è ancheperché hanno colto meglio dei progres-sisti alcuni aspetti della vita degli uomi-ni e delle donne di oggi, pur fornendorisposte sbagliate e per noi non condi-visibili. Il problema diviene allora:come far fronte a fenomeni del genereispirandosi ai nostri principi?Più in generale, poi, bisogna afferrareuna tendenza che permane da anni: lenostre società tardo-moderne si confi-gurano come il luogo dell’individualiz-zazione, anche se accompagnata daspinte neocomunitarie. Non sarebbeperò corretto liquidare uno scenariotanto complesso parlando semplice-mente di estreme pulsioni neoliberiste.La promozione dei diritti civili e dellalibertà della persona – una delle ban-diere di Sinistra e Libertà – rappresen-ta a tal proposito un aspetto fondamen-tale. Libertà, scelta e responsabilità for-mano un trinomio inscindibile ed espri-mono un modo di porsi adulto del sin-golo nella collettività; o, se vogliamo,un punto di equilibrio avanzato fra“me” e “gli altri”, fra l’io e il mondo.Un approccio che dona senso all’esi-stenza individuale e ne evidenzia ilcontributo al tessuto sociale. Anche unapolitica dei diritti presenta però le sueinsidie, rischiando in particolare dinascondere un vuoto nella definizionedi una strategia più generale e una cer-ta impotenza dinanzi ai dilemmi dell’e-conomia, della società e degli scenari

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internazionali. C’è il pericolo, insom-ma, di far leva, magari inconsapevol-mente, sulla libertà della persona e del-la coppia come se si trattasse di unastampella, affidandole una funzione disupplenza rispetto ad altre questioni ead altre scelte. E forse, a proposito delgiusto mix fra il singolo e la comunitàdi appartenenza, fra le istanze di cia-scuno e la tradizione, occorrerebbericercare con pazienza e tenacia i puntidi contatto e la sintonia possibile fra iprincipi astratti e il contesto italiano.Per esempio affiancando la difesa dellascuola pubblica e la salvaguardia delsuo carattere laico con un approcciodiverso al tema del pluralismo formati-vo, che non può ridursi alla questionedelle scuole confessionali cattoliche.Lucida è l’analisi compiuta da Sinistrae Libertà riguardo al territorio, intesospesso da altri come spazio da control-lare. Esso, invece, andrebbe concepitocome luogo di raccordo con i cittadini ecome dimensione (regionale) in basealla quale articolare l’organizzazione. Equi ci sarebbe da ricordare il propositodell’ultimo PSI di presentarsi con ilnome di Unità Socialista seguito daquello delle varie regioni.Le “tesi” si concludono con un cenno alprogramma. Solo che a Sinistra eLibertà sembra mancare quello cheFranco Debenedetti definirebbe unmetaprogramma: una visione entro la

quale collocare i singoli temi. Si avver-tono una tensione verso il futuro, il ten-tativo di aprirsi a nuovi orizzonti; ma laricerca risulterebbe assai più agevole sevenisse accolta appieno la lezione libe-rale. Se, in definitiva, si comprendesseche le contraddizioni della sinistra e iproblemi europei e mondiali sono lega-ti a un deficit (e non a un eccesso) diliberalismo.

Quirinale

La giacca del Presidente>>>> Marco Sassano

In un’Italia divenuta ormai “un paesetriste”, come scrive con amarezza loscrittore spagnolo Juan Arias, e dovenon sembra più esistere una classe diri-gente politica, è chiaro a tutti il ruolosempre più centrale del presidente dellaRepubblica. Benché eletto tre anni fa dauna maggioranza molto limitata checomprendeva solamente le forze delcentrosinistra, Giorgio Napolitano si èconquistato il rispetto di tutti. I cittadi-ni lo sentono come l’unica, autenticaautorità morale e politica del Paese, aldi sopra delle parti.Ecco così che il Capo dello Stato, sen-za permettere a nessuno di tirargli lagiacca, è l’unico politico di lungo corso

che appare in grado di sbrogliare l’or-mai intricata matassa dei rapporti tra ivari poteri e che, senza provocare scan-dalo, ha potuto chiedere ai politici e aigiornali una “tregua”, alla vigilia dellariunione del G8, nelle polemiche sulleboccaccesche vicende di Silvio Berlu-sconi per non compromettere ulterior-mente l’immagine del paese.“Solo un politico come lui ci potevasalvare”, ha notato Giuliano Ferrara, unfedelissimo della prima ora del Cava-liere, che ha aggiunto: “Solo un uomodi parte, conoscitore della politica, unapersona capace di valutare i rapporti diforza parlamentari, le varianti decisiveche formano l’oggetto delle scelte del-l’opinione pubblica ed elettorale, pote-va darci quel momento di resipiscen-za”. E la stessa cosa fece, vale la penaricordarlo, nel confronto-scontro conbuona parte del governo sul dramma diEluana Englaro.Anche sul “lodo Alfano” e sul proble-ma dell’autonomia della Consulta chesi pronuncerà su quella legge nel pros-simo ottobre, Giorgio Napolitano èintervenuto con delicata pesantezzatutelando “l’equilibrio tra i poteri”. Itentativi di coinvolgere il Presidente,forzandolo a schierarsi, sono venuti dapiù parti. Prima è stato Beppe Grilloche sulla ratifica del lodo Alfano haintimato: “Il presidente si spieghi o sidimetta”; poi è toccato al leader dell’I-talia dei Valori, Antonio Di Pietro, cheha reagito alla notizia di una cena tradue giudici costituzionali e il premierBerlusconi con un “il presidente deveripristinare la credibilità e la sacralitàdel giudice”. A tutti Napolitano havoluto ricordare alcune delle regolebase fissate dalla Costituzione, sottoli-neando come la sua scelta di non-inter-ferenza abbia tutelato non solo “l’auto-nomia della Consulta”, ma anche le sueproprie prerogative, assicurando “l’e-quilibrio tra i poteri dello Stato”.Per comprendere chi veramente sia ilPresidente e che ruolo potrà avere nellariscoperta della politica che prima o poiavverrà anche nel Belpaese non bastaripercorrere la sua lunga storia persona-

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le. E’ necessario rileggere alcuni deisuoi più recenti interventi. In particola-re quello pronunciato a Torino il 22aprile 2009, al Teatro Regio, in occa-sione dell’apertura della “BiennaleDemocrazia”. Un testo chiave.In quella occasione il Capo dello Statonel suo ragionare partiva da un puntofermo sul quale, in questi anni, ha piùvolte insistito: “Sono convinto che nonsia superfluo ricordare di quale storiasia figlia la nostra democrazia e quellaCostituzione che ne rappresenta insie-me lo spirito, l’impalcatura e la garan-zia”. Il richiamo al valore della Cartadel 1948 è, per Napolitano, una neces-sità, “vista la leggerezza con cui siassumono oggi atteggiamenti dissa-cranti e si tende a mettere in causa unpatrimonio di principi che ha costituitoper l’Italia un’acquisizione sofferta”.Invece “la Costituzione repubblicananon è una specie di residuato bellico,come da qualche parte si vorrebbe tal-volta far intendere”, perchè “la Cartache scaturì dall’Assemblea Costituentenacque guardando avanti, guardandolontano: essa seppe dare fondamentasolide e prospettive di lunga durata alnuovo edificio dell’Italia democratica”.Poi, riferendosi alle tante violente evolgari polemiche che hanno caratteriz-zato gli ultimi anni della vita politica,precisava: “Rispettare la Costituzionesignifica anche riconoscere il ruolo fon-damentale del controllo di costituziona-lità e dunque l’autorità delle istituzionidi garanzia. Queste non dovrebbero maiformare oggetto di attacchi politici egiudizi sprezzanti, al di là della espres-sione di responsabili riserve su lorospecifiche decisioni. Tutte le istituzionidi controllo e di garanzia non possonoessere viste come elementi frenanti delprocesso decisionale, ma come presidiolegittimo di quella dialettica istituzio-nale che in definitiva assicura traspa-renza, correttezza, tutela dei diritti deicittadini”.In questo intervento torinese, che costi-tuisce la summa del suo pensiero ametà del mandato presidenziale e che èfondamentale per comprendere i suoi

comportamenti presenti e futuri, Napo-litano ha voluto richiamare “il dibattitogenerale sulla governabilità delle socie-tà democratiche”, citando proprio untorinese illustre, Norberto Bobbio, e isuoi ragionamenti sulla pretesa incapa-cità delle istituzioni di fornire “adegua-te risposte, attraverso decisioni tempe-stive ed efficaci”, alla crescente com-plessità dei problemi della società con-temporanea. Il richiamo al grande filo-sofo della politica serviva a Napolitanoper sottolineare che, mentre all’iniziodella contesa sul rapporto tra liberali-smo e democrazia, “il bersaglio princi-pale era stato la tirannia della maggio-ranza”, questo stava finendo per avereun segno opposto: “non l’eccesso, ma ildifetto di potere”. “Bobbio aggiunse -volle sottolineare Napolitano - pur sen-za eludere il problema: La denunciadella ingovernabilità tende a suggeriresoluzioni autoritarie. Un monito, que-st’ultimo, che non si dovrebbe dimenti-care mai. E dal quale va ricavata l’esi-genza di tenere sempre ben ferma lavalidità e irrinunciabilità delle princi-pali istituzioni del liberalismo, conce-pite in antitesi ad ogni dispotismo, tra lequali, nella classica definizione dellostesso Bobbio, la garanzia di diritti dilibertà (in primis libertà di pensiero edi stampa), la divisione dei poteri, lapluralità dei partiti, la tutela delleminoranze politiche”.Giunto al cuore di questo suo interven-to di analisi e di programma, il Capodello Stato severamente precisava:“Tutto ciò non costituisce un bagaglioobsoleto, sacrificabile, esplicitamente odi fatto, sull’altare della governabilità,in funzione, per usare le parole di Bob-bio, di decisioni rapide, perentorie edefinitive da parte dei poteri pubblici”.La conclusione di Napolitano, che tieneal riconoscimento del Capo dello Statocome “potere neutro”, è che “non si puòricorrere a semplificazioni di sistema ea restrizioni di diritti in nome del dove-re di governare. Grande è certamente ladifficoltà del governare in condizioni dipluralismo sociale, politico e istituzio-nale, e ancor più in presenza, oggi, del-

la profonda crisi che ha investito lenostre economie. Ma non c’è, sul pianodemocratico, alternativa al confrontar-si, al combinare ascolto, mediazione edecisioni, al giungere alla sintesi con lanecessaria tempestività, ma senza sacri-ficare i diritti e l’apporto della rappre-sentanza”.Chi in Italia governa o vuole fare poli-tica deve sapere che l’inquilino delQuirinale non intende deflettere da que-sti chiarissimi concetti neppure di unmillimetro. Come ai difficili tempi del-la ricostruzione del paese tutti sapevanoche sul Colle c’era un Einaudi, o neglianni terribili del terrorismo c’era unPertini, ora tutti sanno che c’è un Napo-litano che crede fermamente a quelleragioni e a quei principi. Su queste basi,forse potrà essere possibile ciò che ilPresidente ha chiesto al Paese, ancorauna volta da Torino: “Uno scatto cultu-rale e morale e una mobilitazione col-lettiva. Gli stessi di cui l’Italia, inmomenti critici molto duri, si è mostra-ta capace”.

Gelmini

Le forbici e la colla>>>> Luciano Benadusi

Dopo i discussi provvedimenti sullascuola elementare il ministro Gel-

mini ha emanato ora i regolamentiattuativi della riforma dei cicli scolasti-ci che porta il nome del ministro Morat-ti (legge 28 marzo 2003, n.53), in parti-colare quelli riguardanti la scuolasecondaria superiore (il cosiddetto“secondo ciclo”), cioè i licei e gli istitu-ti tecnici e professionali. Va subitoosservato che il disegno ordinamentaledefinito dai regolamenti si discosta pertaluni aspetti tutt’altro che marginali daquello delineato dalla legge del 2003, inparte conformandosi alle correzioniapportate nella scorsa legislatura dalgoverno di centro-sinistra e in parteintroducendone di nuove. Le correzioniche la Gelmini conferma consistono nel

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ripristino degli istituti tecnici e nel rien-tro degli istituti professionali nell’alveodel sistema scolastico. Ricordiamo chedalla legge di riforma della Moratti iprimi erano stati trasformati in licei tec-nologici e i secondi trasferiti nel siste-ma regionale dell’istruzione e della for-mazione professionale, così da traccia-re una sorta di doppio binario: due per-corsi nettamente distinti di cui si pro-clamava, non so quanto ingenuamenteo farisaicamente, la “pari dignità”. LaConfindustria, che pure in una primafase si era pronunciata a favore dei liceitecnologici, ha poi cambiato ideatemendo che il mutamento del nomeanziché restituire valore all’esperienzastorica dell’istruzione tecnica, conside-rata un patrimonio di grande pregio edoriginalità del sistema educativo italia-no, avrebbe finito piuttosto per favorirela tendenza al suo depotenziamento,causa o concausa della disaffezionedell’utenza testimoniata dal progressi-vo calo degli iscritti. D’altro canto, ilcentro-sinistra, sollecitato per anticoconvincimento dal Presidente Prodi,aveva effettuato il medesimo ripensa-mento (si rammenti che il primo a legi-ferare sulla trasformazione degli istitutitecnici in licei tecnologici fu il ministroBerlinguer nel 2000) e sul punto si eraformato un consenso bipartisan che laGelmini, come prevedibile, si è benguardata dal rimettere in discussione.Se fin qui le correzioni apparivanoscontate non altrettanto è da dirsi per lastruttura dei licei. La legge della Morat-ti aveva dato ad essi un’articolazione a6: il classico, lo scientifico, il linguisti-co, l’artistico e dei beni culturali, ilmusicale e coreutico nonché quello del-le scienze umane. Sul piano ordinamen-tale gli ultimi due rappresentavano del-le interessanti novità, ma a guardarbene il liceo delle scienze umane eratale solo di nome essendo di fatto unariedizione dei vecchi e superati istitutimagistrali, un drastico dietrofrontrispetto alle sperimentazioni dei liceipsico-socio-pedagogici e dei licei dellescienze sociali. Il regolamento dellaGelmini rettifica in parte una scelta così

anacronistica introducendo opportuna-mente una opzione “economico-socia-le”, senza il latino, nel liceo delle scien-ze umane; lo fa però solo in parte inquanto l’altro curricolo, non si capisceperché con il latino, rimane inalterato econtinua così a non offrire quella solidabase psico-pedagogica che oggi non sipuò non richiedere ad un indirizzo distudi di questo tipo. Una seconda novi-tà è l’opzione “tecnologica” introdottanei licei scientifici in alternativa al cur-ricolo originario che non si discosta daquello attuale (mantiene ad esempio illatino obbligatorio) se non per una piùrobusta iniezione di matematica e discienze naturali.Il curricolo ‘tecnologico’ invece rivelauna coraggiosa novità nell’eliminazio-ne del latino e in una connotazione piùfortemente tecnico-scientifica, grazieall’introduzione, oltre alla matematica,di “Informatica e sistemi automatici” eal potenziamento di chimica, fisica,biologia e scienze della terra. Vi è dadire, tuttavia, che l’opzione tecnologicanei licei, modifica di per sé positiva,rischia di sminuire il prestigio e l’attrat-tività degli istituti tecnici che invece sivorrebbero fortemente rilanciare.

In generale, il nuovo quadro normativopresenta luci ed ombre. Eccone degliesempi. Vi è giustamente un orienta-mento back to basics, cioè a concen-trarsi su alcune competenze-chiave (l’i-taliano, la matematica, le scienze, lastoria, assai meno purtroppo le linguestraniere) che costituiscono il noccioloculturale trasversale di tutti gli indiriz-zi; ma nello stesso tempo si avvertel’assenza nel curricolo comune di qual-cosa di nuovo, quel qualcosa che inve-ce è, felicemente e a sorpresa, compar-so in più d’uno dei temi scelti que-st’anno dal ministero per la maturità.Colpisce poi l’esiguità di ore destinatain tutti gli indirizzi, a parte evidente-mente il linguistico, allo studio dellelingue straniere, anche alla prima lin-gua, quel famoso inglese così esaltatoinvece nei programmi elettorali di que-sta maggioranza. Sulla carta l’autono-mia delle scuole viene significativa-mente ampliata essendo esse autorizza-te a cambiare discrezionalmente fino al30% del curricolo obbligatorio, ma inrealtà gli esangui fondi di istituto nonpermetteranno di utilizzare in modoinnovativo tale possibilità. Un puntoall’attivo è sicuramente l’aver posto

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fine, con una necessaria razionalizza-zione e semplificazione, alla fase della“sperimentazione”: una sperimentazio-ne all’italiana senza limiti di tempo everifica dei risultati, che aveva vistofiorire non cento bensì più di seicento“fiori”, cioè indirizzi, un certo numerodei quali più atti ad abbellire sepolcriche a dar vita a nuove e vitali armoniedi colori. Se si considera poi che giàsolo sul terreno ordinamentale la strut-tura degli istituti tecnici e professionalipresentava un profluvio di indirizzidagli ingenti costi e dalla dubbia utilitàrispetto al mercato del lavoro, non sipuò non apprezzare il disboscamentooperato.Un’altra potatura riguarda il numerodegli insegnamenti e degli insegnanti,gli uni e gli altri tagliati decisamente,particolarmente nei tecnici e nei profes-sionali dove le materie erano più nume-rose e gli orari più lunghi. Il punto natu-ralmente è quello che più fa discutere esu cui si sono erette opposte barricate,come già era accaduto sui complessivitagli di 87000 docenti e 43000 nondocenti preannunciati per il successivotriennio dalla legge 133 del 2008. LaGelmini ha ragione e ha dalla sua l’Oc-se quando dichiara che il sistema scola-stico italiano, al cospetto degli altri,costa troppo e produce troppo poco intermini di apprendimenti. Ed anchequando aggiunge che la dilatazione deltempo-scuola e del personale non sonoautomaticamente, come spesso civogliono far credere i sindacati, garan-zia di migliore qualità. Dimentica peròche l’Ocse consiglia di correggereanche altre anomalie italiane, ad esem-pio le retribuzioni degli insegnantimediamente più basse che nella mag-gior parte degli altri paesi e l’assolutaassenza di incentivi economici di car-riera. Sempre l’Ocse nella sua recenteanalisi del caso italiano (Economic Sur-vey of Italy, 2009) raccomanda poi chei tagli non riguardino né gli insegnantitecnici né quelli adibiti a funzioni dirinforzo e di recupero nei confrontidegli studenti a rischio di dispersione.A quanto pare invece, sono proprio

questi i settori dove si sforbicerà di più.Prendiamo gli insegnanti tecnici e pro-fessionali. Se si vogliono davverorilanciare gli istituti tecnici facendonedi nuovo una risorsa preziosa per ilsistema di istruzione del nostro paese eper lo sviluppo economico locale,come lo sono stati nella stagione d’orodurata fino alla metà degli anni ‘70,occorre investire su di essi e rinnovar-ne le forme di governance, i curricoli,la didattica, le attrezzature e la profes-sionalità dei docenti che vi insegnano.Si tratta di mettere in campo un pro-getto ambizioso – tale è quello recen-temente proposto dall’associazioneTreelle – orientato a migliorare la qua-lità degli insegnamenti, innanzitutto diquelli tecnici, e a conferire ampio spa-zio ad attività di laboratorio e di pro-blem-solving, oltre che a stage e tiroci-ni adeguatamente guidati e monitorati.E’ impensabile che il rilancio dell’i-struzione tecnica, così importante inun sistema scolastico italiano su cuirimane ancora l’impronta della tradi-zionale dominanza della cultura retori-co-letteraria, si possa realizzare in pre-senza di una riduzione della spesa checomporterà una restrizione piuttostoche un’estensione dello spazio curri-colare per tali attività. Come è impen-sabile che si possa elevare il livellodegli apprendimenti e perseguire l’e-quità diminuendo - come chiedono ibenchmark europei di Lisbona - la pro-porzione, grandemente fuori misura,dei low performer, se non si potenzia-no gli interventi di recupero e di soste-gno soprattutto nel primo biennio del-l’istruzione tecnica e professionale,dove oggi si addensano abbandoni,ritardi e sottorendimenti. Infine vi è dadomandarsi perché per ridurre la spesae porre fine ad un’altra clamorosa ano-malia italiana non si rimetta in discus-sione – i socialisti lo avevano fatto conVisalberghi più di 30 anni fa – la dura-ta della scuola secondaria superiore (di5 anni in Italia anziché di 4 o di 3come altrove), il che tra l’altro permet-terebbe di liberare spazio e risorse perl’istruzione tecnica post-diploma, tan-

to universalmente reclamata quantooggi ancora inconsistente.In conclusione, la politica scolastica del-l’attuale governo – da Tremonti alla Gel-mini – sollecita una volta di più un chia-rimento di fondo fra due coppie di acce-zioni assai diverse dell’oramai inflazio-nato termine “riformismo”: riformarerisparmiando (ma anche investendo ereinvestendo) e riformare (solo) perrisparmiare; riformare per migliorare e(quando utile) innovare e riformare sem-plicemente per restaurare, nel nome del-la meritocrazia, la tradizione di una scuo-la selettiva ma al tempo stesso arcaica ediniqua perché funzionale alla riproduzio-ne delle diseguaglianze sociali.

Elezioni

C’è un sindacoad Aprilia>>>> Domenico D’Alessio

Una buona notizia non è notizia. Melo dicono sempre i miei amici gior-

nalisti. Ma a volte lo diventa. È succes-so nella mia città all’indomani dell’ele-zione di ballottaggio che ha portato unsocialista sulla prima poltrona cittadi-na, quella di sindaco. Ne hanno parlatole cronache del dopo voto di giugno deipiù diffusi quotidiani nazionali. «AdAprilia centrodestra e democratici sonobattuti dal candidato socialista» ha tito-lato infatti il Corriere della sera.«Dopo un recupero clamoroso, appog-giato solo da liste civiche e fuori daitradizionali schieramenti politici,Domenico D’Alessio, 61 anni, sociali-sta - scrive la testata di via Solferino - èil neosindaco della città pontina, quartoComune del Lazio, una quarantina dichilometri a sud della Capitale».La mia elezione, dunque, ha fatto cla-more. Stupisce il fatto che un socialistaabbia potuto scardinare una tenagliapolitica poderosa come quella rappre-sentata dal PDL e dal PD. I due grandipartiti che si contendono la leadership

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nazionale sono stati battuti da quellache in campagna elettorale è stata apo-strofata dai miei avversari come un’ac-cozzaglia di liste civiche, senza appog-gi nella politica che conta e priva dellacosiddetta “filiera di governo” in gradodi assicurare finanziamenti e sponsoriz-zazioni. E la vittoria al ballottaggio sul-la candidata del centrodestra non è sta-ta di misura, ma netta: 19.920 voti parial 67,41 per cento, contro 9.630 votipari al 32,59 per cento. Con un recupe-ro sensazionale rispetto al primo turnodove eravamo riusciti a ottenere il 25per cento dei voti rispetto al 40 per cen-to della candidata del centrodestra.Una vittoria di queste proporzioni meri-ta una riflessione soprattutto non detta-ta dagli entusiasmi del momento. Sonotanti gli aspetti che hanno portato aquesto risultato elettorale. E sono soloin parte riconducibili a categorie classi-che della politica, come per esempioquella della crisi del bipolarismo, che èstata evocata all’indomani delle elezio-ni amministrative ed europee. In realtàil risultato apriliano esprime un chiarobipolarismo, ma non tra PDL e PD,come in genere si tende a fare. I cittadi-ni si sono trovati a dover scegliere tra lavecchia politica, quella degli affari edel clientelismo che ha portato a undegrado cittadino senza precedenti, eun gruppo di liste civiche coagulateintorno a persone che negli anni prece-denti si sono battute senza cedimentiverso il vecchio sistema di potere.Meglio onesti e liberi da qualsivogliacondizionamento, piuttosto che targatipoliticamente Berlusconi o Franceschi-ni, ma compromessi in tante vicendeche hanno sprofondato la nostra cittànell’abisso finanziario, ambientale, giu-diziario.Ancora oggi quando giro per la cittàsento un grande affetto da parte deimiei concittadini. Questo sentimento vaoltre il fatto politico; è un attestato distima verso la mia persona e il gruppoche ho cercato di costruire per dareun’alternativa di governo alla nostracittà. La mia elezione è la rivincita deicittadini. Non è la vittoria di un partito

su un altro partito; rappresenta il riscat-to di una città dopo quattro anni di cat-tiva amministrazione, continui cambi dicasacca, scandali giudiziari, cassecomunali dissestate e strade altrettantodissestate.Per anni Aprilia è stata martellata dallecattive notizie. Lo scandalo dei tributiceduti a un privato con l’aggio del 30per cento è stato denunciato su tutti iquotidiani nazionali: ne ha parlato per-fino Ballarò. Le strade dissestate sonofinite su Striscia la notizia. Le infiltra-zioni mafiose e gli intrecci tra politica ecriminalità sono state oggetto di un’in-chiesta del Corriere della sera. Reportha denunciato gli effetti distorsivi dellaprivatizzazione dell’acqua. La costru-zione di una centrale elettrica a due chi-lometri dalla città e nelle vicinanze diun’industria ad alto rischio di incidenteè stato oggetto di ripetute inchiestegiornalistiche. Ecco perché la città si èribellata ai grandi partiti nazionali. Imiei concittadini hanno capito che queipartiti rispondevano a logiche di inte-ressi che non coincidono con quelli del-la città, ma con quelli dei poteri forti.I cittadini vogliono indietro i loro tribu-ti, non vogliono che i loro sudati rispar-mi vadano nelle tasche dei privati.Vogliono pagare il giusto per l’acquache è un bene comune. Vogliono che iloro soldi siano spesi bene per ripararele strade, costruire le scuole, fare lefogne. Vogliono respirare aria pulita,perché la salute è un bene di tutti.Il nostro Comune negli ultimi anni havissuto alterne vicende. Per due volte ilconsiglio comunale ha sfiduciato il sin-daco. È successo nel 2002 quando c’e-ra una giunta di centrosinistra, con noisocialisti all’opposizione. Ed è risuc-cesso nel 2009 con un sindaco elettodal centrodestra e rispetto al quale noidell’Unità socialista abbiamo condottoun’opposizione dura e intransigente.Nel 2004 l’unico sindaco che potevacambiare le cose, Luigi Meddi, sociali-sta pure lui, e di cui mi onoro di esserestato un collaboratore, è morto dopoappena due anni dal suo insediamento.L’instabilità amministrativa non poteva

portare nulla di buono. I risultati sonosotto gli occhi di tutti.L’eredità che oggi ci carichiamo sullespalle è grave. Dobbiamo far rientrarenelle casse comunali i tributi riscossidalla società cui è stato appaltato il ser-vizio, dobbiamo convincere il presiden-te Marrazzo che Aprilia non può avereuna centrale elettrica perché l’ambienteè già compromesso, dobbiamo rimette-re a posto la vicenda della privatizza-zione dell’acqua. Dobbiamo otteneredalla Regione l’approvazione dellavariante di recupero delle borgate per-ché permetterà di rimettere in moto lapiccola edilizia che dà lavoro e rimettea posto la periferia.Non ho mai promesso la luna, ma i cit-tadini possono contare sulla mia lealtà esulla trasparenza del mio operato. Imiei primi pensieri andranno ai cittadi-ni deboli. Oggi purtroppo la crisi stamettendo tutti a dura prova. I giovanitrovano solo lavori precari, gli anzianihanno pensioni risibili, le donne sonocostrette a fare le casalinghe. Questecose il Comune non può risolverle,dovrebbe farlo il governo regionale.Aprilia però non lascerà indietro nessu-no. Questo un sindaco socialista lo puòpromettere, basta amministrare conumanità e responsabilità.

ElezioniIl verde mangia il rosso>>>> Massimiliano Panarari

C’era una volta la regione rossa e,al suo interno, tra le isole dell’ar-cipelago che fu del PCI (e del PSI, nel-l’alleanza riformista che ha governatoqueste terre praticamente per tutta lacosiddetta prima Repubblica), spiccavacertamente per la sua “fedeltà allalinea” Reggio Emilia. Una federazione,quella del Partito comunista reggiano,che ha visto furibondi scontri all’armabianca e al fulmicotone tra una sinistraingraiana (la quale ha, in seguito, note-volmente alimentato le ali più radicali

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della CGIL) e un “centro-destra gover-nativo” (con la componente miglioristadi volta in volta intenta a puntellare lasegreteria provinciale allineata su quel-la nazionale o ad avanzare qualchedistinguo) e saldamente al potere nel-l’amministrazione locale.C’era una volta, giustappunto, e ogginon c’è più (come tante altre espressio-ni dell’egemonia culturale e politicadella sinistra italiana). E il ritratto dellacittà che il corpo elettorale reggiano ciha consegnato dopo le consultazioniamministrative del 6-7 giugno 2009può indurre tranquillamente a parlare ditrasfigurazione. Le locandine dei (quat-tro) quotidiani locali – a dire il vero,talvolta, anche sull’onda di una rincor-sa sensazionalistica determinata dallanaturale esigenza di mercato – strillanoogni giorno una realtà da stato d’asse-dio e sprofondante nel degrado, conl’innalzarsi del diapason della crimina-lità, in parte da addebitare a cittadinistranieri (tra i quali svariati clandesti-ni). Esattamente qui, per tanti versi, stail nodo della questione, il fattore che inmodo più marcato, anche visivamente,racconta di una nuova (e perturbante)realtà ben diversa dalla solida omoge-neità (politica, culturale, sociale ed…etnica) che aveva contraddistinto la cit-tà dell’Emilia occidentale che fu diCamillo Prampolini e del socialismoriformista e, poi, nel secondo dopo-guerra dei sindaci del buongovernocomunista e della sinistra cattolica didon Giuseppe Dossetti (giù giù, fino aRomano Prodi e Pierluigi Castagnetti,nei cui dintorni politici si colloca ancheinconfondibilmente l’attuale sindacoPD, riconfermato, il medico e professo-re universitario Graziano Delrio).Verso la fine degli anni Novanta la cit-tà ha subito una pesante espansioneurbanistica, in gran parte imputabilealla precedente giunta di AntonellaSpaggiari (ex PCI-PDS-DS, non entra-ta nel PD), candidatasi nell’ultima tor-nata con una propria lista civica appog-giata dall’UDC e da altre formazioniminori (sempre ispirate al “civismo”),che, dopo le percentuali bulgare che

riceveva come sindaco (tra i “più amatidagli elettori”), ha portato a casa unbottino non certo entusiasmante(6,8%). Espansione edilizia gestita nonpiù, come tradizione, dalle coop chefurono rosse, ma, sempre più frequente-mente, da imprese provenienti da fuoriregione e, in particolare, dalla Calabria,che ha completamente spiazzato e resospesso irriconoscibile alle generazioniche hanno vissuto e contribuito a edifi-care il (confuso e oggi assai affaticato)“modello emiliano” il volto della città(con il suo sistema di relazioni sociali,associative e solidali), senza dire deinodi giudiziari che emergono dalla let-ture delle relazioni della Direzioneinvestigativa antimafia. Una realtà rac-contata, a pochi giorni dalle elezioni,con durezza e precisione chirurgica suRepubblica da un reportage di AlbertoStatera, il quale evocava un blocco tra-sversale di interessi oscuri che scom-metteva sulla precedente sindaca, dopola sua scelta di presentarsi autonoma-mente e di spaccare il centrosinistra.La crescita dei bisogni di una popola-zione locale che invecchia (cartina altornasole: la diffusione delle badanti),

le esigenze di manodopera da parte diun tessuto produttivo manifatturierofinora molto forte (e che, tutto somma-to, sta resistendo abbastanza alla crisieconomica), l’edilizia (con le “zone gri-gie” che, malauguratamente, circonda-no il settore quando non correttamentesorvegliato) hanno fatto aumentare inmodo rilevante la quota di stranieri aReggio Emilia, generando un tutt’altroche trascurabile allarme sociale, a volteingigantito, a volte, però, sottovalutatoo liquidato in modo troppo sbrigativodagli eredi del PCI e della DC, anche innome di un’ideologia solidaristica chequalcuno considererebbe eccessiva-mente “buonista”. I dati parlano chiaro:in quella che rimane una provincia adaltissimo tasso di integrazione (laseconda, per la rilevazione CNEL rife-rita al 2008), Reggio città si colloca alterzo posto in Italia per numero diimmigrati regolari (13% sul totale diresidenti) e si stima (fonte UniversitàBicocca, 2008) al quarto posto per clan-destini. Ecco (per buona parte) spiegatol’enorme exploit del 16% della LegaNord, arrivata a quella percentuale dal3,6% di cinque anni or sono (e con il

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18% ottenuto dal suo candidato sinda-co, il deputato Angelo Alessandri, pro-veniente dalla Bassa reggiana, dove piùconsistenti sono gli insediamenti leghi-sti). Insomma, la paura e la sua promo-zione quali fattori decisivi della postpo-litica odierna – come tanti osservatorihanno mostrato, da Ilvo Diamanti aRoberto Escobar – che si è insinuatapesantemente in un territorio il cuiparadigma sociopolitico è da tempoentrato in crisi per mancanza di manu-tenzione adeguata e, soprattutto, permancanza di innovazione. Una storialontana dai fasti del passato, rispetto acui ha giocato anche, non da ultimo, lalitigiosità interna al gruppo dirigenteerede della sinistra (che ha consentitoanche di rompere agevolmente il “tabù”dell’arrivo nel palazzo municipale di unsindaco di estrazione cattolica), fruttoanche della fine degli efficienti proces-si di selezione delle classi dirigentiinterne che avevano contraddistinto ilPCI. Certo è che, stando così le cose (ilsindaco è stato rieletto al primo turnocon il 52% dei consensi rispetto al 62%del mandato precedente), anche ReggioEmilia pare giunta davvero all’ultimachiamata per il centrosinistra, prima delcapolinea.

Elezioni

Se il candidatoè giovane>>>> Andrea Usai

Scrivo trepidando, perché mi sentoun po’ come un missionario in una

terra sconosciuta, inesplorata, ancoravergine e immacolata che a nessuno,finora, è stato concesso di sviscerarefino in fondo. Vi scrivo da uno degliultimi fortini rossi, dalla Romagna,dove queste elezioni amministrative del6 e del 7 giugno sono passate con lastessa violenza di un uragano, hannodivelto case e roccaforti, spazzato viavecchi amministratori, portato un ventonuovo, anche se ancora non si sa se

questo vento nuovo porti qualcosa dibuono o meno.La politica, si sa, è qualcosa di com-plesso, di strano, e non puoi mai dire diaverci capito qualcosa, perché allora èla volta buona che gli stessi fatti tismentiscono una volta per tutte. “Carodirettore - scrivo qualche settimana fa-c’è qualche tema che può interessarealla rivista, qualche cosa che io, giova-ne lupo solitario in questa terra di fron-tiera, possa affrontare a mani nude?”.“Sì, parlami delle elezioni amministra-tive, di come le hai vissute”, mi rispon-de il direttore. “Ma perché- scrivo io,lo sa già? Come ha fatto a sapere che iomi sono candidato al Comune?”. Mitorna indietro la risposta, potente comeun Salmo della Bibbia: “Infatti, non losapevo. Partirei proprio da questo, per-ché pensi che la politica interessi soloai candidati?”.Be’, in fondo in fondo è vero. La poli-tica oramai interessa solo ai candidati,a chi vi è direttamente coinvolto e, seproprio va grassa, anche agli intellet-tuali. Comunque sia, solo agli addettiai lavori. La stessa parola, “politica”, èoramai un contenitore vuoto, la crisali-de vuota di una farfalla scomparsa datempo. Cosa è rimasto infatti del verosignificato, di quel concetto anticocome il mondo, secondo cui politica

significa ta politikà, ossia “le cose del-la città”? E’ chiaro che c’è qualcosache non va, che la politica ha perso lasua stessa essenza, che si è svincolatadalla realtà, dalla città e dalle persone.Basti pensare a livello nazionale, doveabbiamo una legge elettorale che ha eli-minato il voto di preferenza, e graziealla quale abbiamo un parlamento com-posto di soli nominati, scelti a tavolinodalle segreterie dei partiti. E questa nonè democrazia, mi spiace, è il suo stadiodegenerato, è pura oligarchia. Standocosì le cose, non ha nemmeno più sen-so che ci sia il Parlamento, talmentesvuotato del suo compito primario efondamentale, ossia quello di “rappre-sentare” il popolo.Ecco cosa è accaduto. Si è volutotagliare le gambe alla politica, si è volu-to ridurre il tutto ad un gioco di pedine,si è voluto recidere ogni legame cheCamera e Senato potessero avere con ilterritorio, con gli elettori.A livello locale, parliamo delle comu-nali per esempio, c’è ancora il voto dipreferenza, per fortuna. Chissà perquanto tempo durerà questa cuccagna.Ma il vero punctum dolens è che man-ca comunque partecipazione, perché ipartiti sono tenuti in scacco dai paraca-dutati, dai nominati, o da coloro che,vedendo il partito come strumento di

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potere, mirano a fare esclusivamente ipropri interessi. Ed ecco che scarseggiapartecipazione, che i ragazzi e le ragaz-ze si allontanano, se ne fregano. Eccoperché la politica, purtroppo, interessasolo ai candidati. Perché tanto, non c’ènessuno di diverso, che si distingua dal-la massa informe dei vari politicanti,nessuno più che veda la politica comeuna vera e propria missione laica, doveportare la propria testimonianza, la pro-pria diversità e la propria voce. A sini-stra come a destra. Per non parlare delfatto che se sei giovane spesso sei pocopreso in considerazione, sei visto comeil pivellino che scombina i giochi, cheva subito avvicinato e sedotto, perchése sei libero, se hai intenzione di realiz-zare il bene comune, se non rispondi anessun capo o padrone, sei pericoloso,fai paura, aiuto, allarme rosso. Per nonparlare delle cricche, dei cattolici cheodiano i socialisti, dei comunisti cheodiano i socialisti, degli aennini cheodiano altri aennini, o sei con noi ocontro di noi. Ma, dico io, se sono uncattolico, perché devo disprezzare isocialisti? O viceversa? I partiti sonostrumenti. Prima vengono le idee e lepersone. Le etichette non contano. Con-ta far politica, e far politica vuol direportare in alto le istanze che vengonodal basso. Sennò tanto vale tornare allanobiltà. Almeno loro, i nobili, non vole-vano darci ad intendere che facevanogli interessi del popolo.

Terremoto

La terra vivente>>>> Giuseppe Simonetta

Quale occasione migliore di appren-dere ed agire con rinnovato vigore

per il bene dell’uomo, quando la terrasi scuote, per ricordare ulteriormenteche è un organismo vivente, contem-plante anche la nostra stessa esistenza!Di fronte alla portata dell’evento scattal’emergenza, priva spesso di idee, contutti i disastri che comporta, ma che

sottopone a collaudo il perverso siste-ma di leggi che regolamentano la vitacivile e ne mette in luce la contraddit-torietà.Le idee, le emozioni, l’operare di quan-ti riescono a rendersi migliori in qual-siasi campo della vita vengono cosìvanificate, l’uomo viene consideratonon come cittadino ma suddito incapa-ce di apprendere e di evolvere, castiga-to com’è dai sempiterni mediatori dibenessere di qualsiasi natura.La sagace valutazione di FrancescoKarrer guida con perizia tra le volutedella legislazione, vigente e non; portaalle fonti dell’approvvigionamento deifinanziamenti necessari; indica le palu-di dove ristagnano le questioni sociali,economiche e politiche non risolte;segnala le sabbie mobili delle sceltetecniche e burocratiche; avanza novità.Questa posizione manifesta un cautoottimismo, a condizione che le forzedel male non prevalgano, ma in realtàadombra un intrigante invito alla rifles-sione responsabile, allo scatto dell’o-perare, al riscatto dei valori, soprattut-to sociali, contemporanei. Tale invitova raccolto per ricordare che il territo-rio non è solamente un corpo da usareed abusare, ma è il risultato di un lun-go processo di strutturazione dello spa-zio da parte delle società ivi insediate eche si sono succedute. Queste societànon sempre si sono comportate coeren-temente con i valori di sacralità espres-si dallo spazio in modo permanentegrazie ad una discontinuità sulla qualee per la quale si struttura l’interventoumano, che non è fatto, per fortuna, disole case, ma anche di templi, palazzi,fortificazioni, da costruire anche neldeserto, che diventa luogo aggregante.In prima istanza la casa serve a difen-dersi dall’ostilità provocata dalla forzadisgregatrice della natura; poi deveevolversi in abitazione, fatta a misuradell’uomo, con le debite proporzioni,per il suo benessere materiale; infinedeve diventare edificio, inteso a soddi-sfare i bisogni spirituali e quindi, perquanto gli compete, riallacciarsi allasacralità dello spazio. Ivi coesistono

altre forme del fare umano che sono irivelatori particolari delle qualità pre-senti nel luogo: le opere per il sapere, lareligione, il potere, lo scambio, la pro-duzione, la ricreazione amalgamatedall’idea che definisce la città comeluogo deputato per gli uomini che vivo-no nella luce. Al di fuori di essa posso-no esistere gli animali e gli dei.Occorre riavvicinarsi a tutto ciò che viè di più antico perché tutto il nuovo stalì. Il nuovo permette la conservazionedi quanto abbiamo ereditato in terminidi storia, architettura, archeologia, arte,paesaggio, non più mummificati dallacomune incapacità o, ancor peggio, daistituzioni non più rispondenti alle realinecessità del patrimonio da trasmettereconsapevolmente come valore vivente,incarnato dalla città. Perché non riflet-tere sul significato della parola metro-poli, vale a dire la città madre che gene-ra benessere materiale e spirituale eopportunità sociali? Oggi l’area metro-politana di Roma, che origina nel Pala-tino, si sviluppa nelle mura Soratte, aMonte Cavo, Palestrina e Pyrgi, va ridi-segnata traguardando ancora una voltal’archetipo ideale che l’ha posta inessere e riproponendo in termini con-temporanei il medesimo modello uni-versale di riferimento che l’ha svilup-pata nelle vicissitudini della storia.L’edificio in tale contesto diventa il tes-suto connettivo, l’abitazione il mezzodella mobilità, la casa il soddisfacimen-to dei nuovi bisogni emergenti e pur-troppo non risolti di giovani, pensiona-ti, immigrati. La città madre non invadeil sistema agricolo di pertinenza né tan-to meno le potenzialità e i valori sedi-mentati nelle città vicine, che possonodialogare con essa a pari dignità e conuno scambio sempre maggiore di risor-se di qualsiasi natura, che puntano allaconservazione della qualità di ogni vitaesistente e trasferisce valori, non soloservizi fini a se stessi, in contrasto coni bisogni autentici dell’uomo. E la poli-tica non è più sistema di pensiero sepa-rato dall’economia, dalla produzione,dai servizi, ma deve concatenarsi adessi mantenendone il primato.

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taccuino / / / / mondoperaio 5/2009

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