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167 VOLUME V / STRUMENTI 3.2.1 Problemi di scienza dei colloidi e delle superfici nell’industria petrolifera La scienza dei colloidi convenzionalmente studia piccole entità di materia (allo stato gassoso, liquido o solido), la cui caratte- ristica è quella di avere almeno una dimensione di lunghezza compresa tra 0,001 e 1 mm. In particolare, tale disciplina è inte- ressata al comportamento di questi oggetti colloidali quando essi sono dispersi in un secondo mezzo; in genere, pertanto, si occupa di sistemi multifase. Tipici sistemi colloidali sono rap- presentati da solidi dispersi in liquidi (sospensioni), liquidi dispersi in liquidi (emulsioni), liquidi o solidi dispersi in gas (aerosol) e gas dispersi in liquidi (schiume). Questa defini- zione appare particolarmente significativa a causa dell’im- portanza assunta dagli effetti superficiali sul comportamento del singolo oggetto colloidale e, in molti casi, del sistema nel suo complesso, quando la fase dispersa ha dimensioni molto piccole (Evans e Wennerström, 1994). Infatti, il rapporto tra l’area superficiale e il volume aumenta rapidamente al dimi- nuire delle dimensioni della particella dispersa o della goccia; per una sfera di raggio r, tale rapporto varia come 3/r, e quin- di per una sfera di diametro pari a 1 mm, esso è 1.000 volte maggiore di quello di una sfera di diametro pari a 1 mm. Per fasi disperse di dimensioni nell’ordine di pochi mm o meno, le forze elettrostatiche e di van der Waals e il moto brow- niano giocano un ruolo fondamentale nel determinare il com- portamento fisico macroscopico, che include processi quali aggregazione (o flocculazione), coalescenza, gelificazione, ecc. Questi processi sono illustrati nella fig. 1 per alcuni tipici sistemi colloidali, insieme ad alcuni classici processi superfi- ciali come l’adsorbimento, che è importante nei meccanismi di stabilizzazione di dispersioni di solidi colloidali e nella ridu- zione della tensione interfacciale in sistemi liquido-liquido e liquido-gas. In senso generale, il limite inferiore del dominio colloida- le può essere associato con il passaggio di scala da sistemi dota- ti di interfacce definibili alle singole molecole. Come già sug- gerito, il limite superiore è definito dalla scala dimensionale in corrispondenza della quale i fenomeni interfacciali influenzano in maniera significativa il comportamento della fase dispersa. Ciononostante, c’è una certa indeterminatezza in entrambi i limi- ti del dominio. Così, gli studiosi dei colloidi spesso includono 3.2 Sistemi colloidali A C D B aria acqua micelle monomeri film adsorbito fig. 1. Alcuni tipici sistemi colloidali e loro comportamento: A, autoassociazione di molecole di tensioattivo (micellizzazione) e loro migrazione all’interfaccia aria-acqua; B, formazione di emulsioni (gocce di un liquido disperse in un secondo liquido) favorita da agenti tensioattivi che abbassano l’energia dell’interfaccia; C, stabilizzazione di particelle colloidali da parte di cariche elettriche repulsive; D, stabilizzazione di particelle colloidali mediante l’adsorbimento di disperdenti, che inibiscono l’avvicinamento delle due particelle mediante effetti repulsivi di natura sterica o elettrica.

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167VOLUME V / STRUMENTI

3.2.1 Problemi di scienza dei colloidi e delle superfici nell’industria petrolifera

La scienza dei colloidi convenzionalmente studia piccole entitàdi materia (allo stato gassoso, liquido o solido), la cui caratte-ristica è quella di avere almeno una dimensione di lunghezzacompresa tra 0,001 e 1 mm. In particolare, tale disciplina è inte-ressata al comportamento di questi oggetti colloidali quandoessi sono dispersi in un secondo mezzo; in genere, pertanto, sioccupa di sistemi multifase. Tipici sistemi colloidali sono rap-presentati da solidi dispersi in liquidi (sospensioni), liquididispersi in liquidi (emulsioni), liquidi o solidi dispersi in gas(aerosol) e gas dispersi in liquidi (schiume). Questa defini-zione appare particolarmente significativa a causa dell’im-portanza assunta dagli effetti superficiali sul comportamentodel singolo oggetto colloidale e, in molti casi, del sistema nelsuo complesso, quando la fase dispersa ha dimensioni moltopiccole (Evans e Wennerström, 1994). Infatti, il rapporto tral’area superficiale e il volume aumenta rapidamente al dimi-nuire delle dimensioni della particella dispersa o della goccia;per una sfera di raggio r, tale rapporto varia come 3/r, e quin-di per una sfera di diametro pari a 1 mm, esso è 1.000 voltemaggiore di quello di una sfera di diametro pari a 1 mm.

Per fasi disperse di dimensioni nell’ordine di pochi mm omeno, le forze elettrostatiche e di van der Waals e il moto brow-niano giocano un ruolo fondamentale nel determinare il com-portamento fisico macroscopico, che include processi qualiaggregazione (o flocculazione), coalescenza, gelificazione,ecc. Questi processi sono illustrati nella fig. 1 per alcuni tipicisistemi colloidali, insieme ad alcuni classici processi superfi-ciali come l’adsorbimento, che è importante nei meccanismidi stabilizzazione di dispersioni di solidi colloidali e nella ridu-zione della tensione interfacciale in sistemi liquido-liquido eliquido-gas.

In senso generale, il limite inferiore del dominio colloida-le può essere associato con il passaggio di scala da sistemi dota-ti di interfacce definibili alle singole molecole. Come già sug-gerito, il limite superiore è definito dalla scala dimensionale incorrispondenza della quale i fenomeni interfacciali influenzanoin maniera significativa il comportamento della fase dispersa.Ciononostante, c’è una certa indeterminatezza in entrambi i limi-ti del dominio. Così, gli studiosi dei colloidi spesso includono

3.2

Sistemi colloidali

A

C

D

B

aria

acqua

micellemonomeri

film adsorbito

fig. 1. Alcuni tipici sistemi colloidali e loro comportamento: A, autoassociazione di molecole di tensioattivo (micellizzazione)e loro migrazione all’interfaccia aria-acqua; B, formazione di emulsioni (gocce di un liquido disperse in un secondo liquido)favorita da agenti tensioattivi che abbassano l’energiadell’interfaccia; C, stabilizzazione di particelle colloidali da parte di cariche elettriche repulsive; D, stabilizzazione di particelle colloidali mediante l’adsorbimento di disperdenti,che inibiscono l’avvicinamento delle due particelle medianteeffetti repulsivi di natura sterica o elettrica.

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tra le loro competenze le soluzioni di molecole polimeriche;tuttavia, sebbene queste molecole possano essere dotate didimensioni fino a 1 mm o addirittura più grandi, esse non pos-siedono alcuna interfaccia realmente riconoscibile. Per affron-tare il caso delle macromolecole e di altre specie disciolte, lascienza dei colloidi ha trovato utile introdurre una distinzionetra colloidi liofili (dotati di affinità per il solvente, e quindi talida risultare disciolti) e colloidi liofobi (privi di affinità per ilsolvente, e quindi presenti in forma dispersa). Un polimero cheprecipita da una soluzione passa dallo stato liofilo a quelloliofobo. All’estremo superiore della scala delle dimensioni lascienza dei colloidi include all’interno del proprio campo distudio i fenomeni superficiali in senso generale. Ovviamentei processi che determinano la carica e le proprietà superficia-li (per esempio, l’adsorbimento) coincidono con quelli chedeterminano i meccanismi del comportamento colloidale, epertanto strumenti, metodi e risultati della scienza dei colloi-di trovano diverse applicazioni in tutti i sistemi in cui le pro-prietà superficiali risultino di una qualche rilevanza.

I problemi colloidali e i fenomeni superficiali ricoprono unruolo pervasivo nella produzione, nel trasporto e nel trattamen-to del greggio e del gas naturale. Essi infatti sono all’origine dimolti problemi operativi e, nel contempo, ricoprono un ruolofondamentale nel determinare il grado finale di recupero delgreggio dal giacimento. Inoltre, essi sono basilari nello svilup-po delle tecnologie utilizzate per la perforazione dei pozzi, perstabilire le condizioni atte a ottimizzarne la produttività e pergarantire il flusso di greggio e di gas attraverso oleodotti e gasdot-ti. La dimensione colloidale, infatti, è caratteristica della rocciaporosa del giacimento, costituita da fasi minerali che possonoavere un’estensione di decine di mm o meno, e i cui pori micro-scopici sono occupati da due o più fasi immiscibili (acqua e olioe/o gas). Inoltre la bagnabilità della roccia, che determina la velo-cità e il recupero finale del greggio, è una funzione complessadel tipo e della distribuzione delle fasi minerali, della natura del-l’acqua salmastra di giacimento e del greggio, delle condizionifisiche e geologiche e della storia di produzione del giacimen-to. Gli stessi greggi e le acque di giacimento possono avere unacomposizione tale che le variazioni delle condizioni termodi-namiche subite durante la produzione possono provocare lanucleazione e la separazione di solidi organici colloidali o di fasiminerali all’interno del pozzo o degli impianti di superficie,oppure durante il trasporto in oleodotti sul fondo marino.

L’importanza di questi problemi per la redditività a corto,medio e lungo termine dell’industria petrolifera genera unadomanda continua di ricerca e sviluppo tecnologico da partedelle compagnie petrolifere e di servizi, delle università e degliistituti di ricerca.

La tab. 1 riporta, nell’ambito degli stadi identificabili insenso molto generale all’interno della produzione, del trasportoe del trattamento di greggio e gas naturale, alcune delle areein cui i fenomeni colloidali e superficiali e le tecnologie basa-te su sistemi colloidali sono importanti. Questa tabella sarà unutile riferimento nel seguito di questo testo, in cui verrannodiscusse svariate aree tecnologiche ricche di problemi attinen-ti la scienza dei colloidi.

Fenomeni di separazione di una fase solida organica nella produzione e nel trattamento del greggio

Il greggio è una miscela termodinamicamente comples-sa di svariate migliaia di composti organici e, quando viene

prodotto e utilizzato, subisce una serie di trasformazioni di faseche dipendono dalle variazioni di temperatura, pressione e com-posizione. Queste trasformazioni, che possono includere la per-dita di frazioni volatili e la formazione di frazioni organichesolide (cere e asfalteni), possono avvenire in qualsiasi puntodal giacimento alla raffineria, in funzione della natura del greg-gio e delle condizioni a cui esso è esposto durante il traspor-to, l’immagazzinamento e il trattamento. In particolare, la sepa-razione di fase e la deposizione di solidi organici pongono seriproblemi per il trasporto offshore del greggio, a causa delledifficoltà d’accesso e degli elevati costi di intervento sugli oleo-dotti sottomarini.

In termini generali, i greggi petroliferi sono esposti a pres-sioni (P) elevate e a temperature (T ) da medie a elevate nelgiacimento, a T e P che possono andare da valori bassi a valo-ri medi nel trasporto e nello stoccaggio, e a T elevate e P bassein raffineria. Le variazioni di T e P, la perdita di frazioni leg-gere e le trasformazioni chimiche a T elevata all’interno dellaraffineria possono favorire o sfavorire la formazione di fasiorganiche solide. Nel seguito saranno esaminate le caratteri-stiche e alcuni dei problemi associati con due delle frazionipetrolifere più pesanti, asfalteni e cere, la cui separazione difase nelle apparecchiature di trattamento del greggio e neglioleodotti rappresenta un problema di fondamentale impor-tanza per gli operatori del settore petrolifero. Questi compo-nenti del greggio esibiscono un’ampia tipologia di comporta-menti colloidali e superficiali, tra cui la nucleazione e la cre-scita della fase solida e la formazione di depositi sulle paretidell’oleodotto. Per entrambi sono importanti i processi diaggregazione, che nel caso delle cere possono portare alla geli-ficazione della massa di greggio. Inoltre, gli asfalteni sonosostanze dotate di attività superficiale (tensioattivi) e, infine,sia le cere sia gli asfalteni in fase solida tendono a stabilizza-re le emulsioni, come verrà discusso nel paragrafo dedicatoalle emulsioni di Pickering.

AsfalteniGli asfalteni sono la frazione più pesante e più polare del

greggio. Essi sono definiti da un criterio di solubilità piutto-sto che dalla loro struttura molecolare e sono costituiti da ungran numero di componenti che possono variare da greggio agreggio. Per definizione, gli asfalteni rappresentano la fra-zione di greggio insolubile nelle n-paraffine (in genere, n-C5o n-C7) ma solubile in benzene (o toluene; ASTM, 2000,2001a,b). Come prevedibile, la quantità e la qualità (cioè lacomposizione) della frazione asfaltenica dipendono dalla n-paraffina utilizzata e dalla procedura adottata per separare gliasfalteni dalla miscela di solventi (Cimino et al., 1995). Ingenerale, gli asfalteni sono composti da strati poliaromaticidotati di catene laterali alchiliche; sono anche presenti ete-roatomi tipo O, N, S e metalli (V, Ni, Fe). Negli asfalteni èpossibile riscontrare il seguente spettro di proprietà moleco-lari (Yen e Chilingarian, 1994): a) rapporto atomico H/C da0,8 a 1,4; b) peso molecolare monomerico medio da 500 a3.000 u; c) contenuto in zolfo da 0,5 a 10% in peso; d ) con-tenuto in azoto da 0,6 a 2,6% in peso; e) contenuto in ossige-no da 0,3 a 4,8% in peso. Si sottolinea che, in termini chimi-ci, la frazione asfaltenica di un greggio è composta da unamiscela di molecole complesse.

Una proprietà significativa degli asfalteni è la loro ten-denza ad aggregarsi reversibilmente in mezzi idrocarburici onel greggio, anche a concentrazioni molto basse. Questo com-portamento ha come effetto il fatto che l’osmometria e molti

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altri metodi misurino dei pesi molecolari medi erroneamenteelevati (1.500-100.000 u); attualmente le migliori stime attri-buiscono ai monomeri asfaltenici un peso molecolare mediominore o uguale a 1.200 u.

La separazione della fase asfaltenica è un problema impor-tante nella produzione petrolifera. Essa porta alla formazio-ne di depositi organici pesanti nel trasferimento dal giaci-mento al centro di trattamento dell’olio, che riduce o bloccacompletamente il flusso nel pozzo (ostruendo i pori della roc-cia del giacimento), il flusso attraverso l’oleodotto, ecc. Perquesta ragione, particolare impegno è stato dedicato al con-seguimento di una migliore comprensione dei fattori che go-vernano la stabilità degli asfalteni e allo sviluppo di modelli

predittivi. Un primo modello degli asfalteni nel greggio, pro-posto nel 1938 da Frederik Nellensteyn, descriveva gli asfal-teni come dei solidi insolubili nel greggio, ma dispersi (o pep-tizzati) da un’altra frazione petrolifera, le resine (compostiintermedi, dal punto di vista chimico, tra greggio e asfalte-ni), adsorbita sulla loro superficie. Questa descrizione costi-tuisce il cosiddetto modello di ‘colloide liofobo’, in cui laformazione del solido è interpretata come l’effetto del desor-bimento delle molecole della resina dalla superficie degliaggregati asfaltenici.

Una teoria contrapposta ipotizza che asfalteni e greggiocostituiscano una soluzione vera e, in analogia con la teoriadelle soluzioni polimeriche, attribuisce il comportamento

SISTEMI COLLOIDALI

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tab. 1. Alcuni aspetti della produzione e del trasporto del petrolio e del gas naturale coinvolgenti sistemi colloidali

Settore tecnologico Aspetti riguardanti sistemi colloidali

Esplorazione e valutazione

Valutazione petrofisica di carote dei giacimenti Bagnabilità della roccia; pressione capillare; permeabilità relativa

Comportamento del greggio e della fase acquosa nelle linee di produzione

Stato fisico dei componenti pesanti del greggio; termodinamica,cinetica della nucleazione, crescita di fasi solide o gassose

Modellizzazione del bacino Fenomeni diagenetici, inclusi eventi di nucleazione

Produzione

Fluidi di perforazioneDispersioni di argilla in acqua e in greggio; meccanismidi destabilizzazione di shale da parte dei fluidi di perforazione acquosi;proprietà di invasione/filtrazione di fluidi in mezzi porosi

Cementi Permeabilità ai gas e additivi gas-bloccanti

Produttività del pozzo• acidificazione Dissoluzione, nucleazione/precipitazione di fasi minerali

• inibizione di corrosione Inibitore dell’adsorbimento sulle pareti delle tubature; vaiolatura (pitting)

• fratturazione idraulicaReologia di soluzioni polimeriche concentrate e di gel,e loro comportamento quando vengono filtrati in mezzi porosi

• controllo della sabbiaForze capillari che mantengono al loro posto delle sabbie non consolidate;consolidamento chimico delle sabbie

• inibizione dell’incrostazione inorganicaTermodinamica e cinetica di nucleazione; meccanismi di inibizione soglia;ritenzione/rilascio dell’inibitore nelle roccia di giacimento

Gestione dei fluidi prodotti• separazioni olio-acqua

Coalescenza, processi tramite membrana; emulsioni stabilizzate da solidi;additivi per la rottura delle emulsioni

• reiniezione di acquaEffetto dei solidi e del petrolio dispersi sul comportamento in iniettività/filtrazione

• riduzione dell’ingresso di acqua in pozzoReologia delle soluzioni polimeriche e dei gel, reticolazione; propagazione, iniettività e stabilità dei gel in mezzi porosi

Trasporto

Mantenimento del flussoTermodinamica e cinetica di nucleazione/precipitazione degli asfalteni,della cera, degli idrati; tecnologie di inibizione/rimedio

Trasporto dei greggi pesanti sotto forma di emulsioni acquose

Formazione e reologia dell’emulsione; stabilizzazione e destabilizzazione

Flusso multifase Formazione di emulsioni, reologia non newtoniana

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colloidale (associazione e deposizione) alla grande differen-za di dimensioni tra gli asfalteni e la matrice petrolifera (Hir-schberg et al., 1984). In questo modello di ‘colloide liofilo’,la destabilizzazione è il risultato di una riduzione del poteresolvatante della matrice idrocarburica, provocata da una varia-zione di pressione o dall’aggiunta di alcuni composti. Secon-do questa visione, quindi, nel greggio gli asfalteni sono ini-zialmente dei colloidi liofili, che presentano alcune analogiecon le soluzioni macromolecolari, e solo successivamentediventano solidi colloidali liofobi, a seguito di una separa-zione di fase.

Le differenze tra questi modelli non sono solo semantiche,ma portano a previsioni diverse del comportamento degli asfal-teni in diverse condizioni. Questo significa che essi possonoessere sottoposti a test sperimentali diretti, che sono stati effet-tivamente eseguiti negli ultimi dieci anni circa (Cimino et al.,1995). L’evidenza a sostegno di questo punto di vista includele seguenti osservazioni:• il modello colloide liofobo è basato sull’ipotesi che gli

asfalteni siano intrinsecamente insolubili in greggio, men-tre comuni esperienze di laboratorio dimostrano che que-sta ipotesi è falsa (Porte et al., 2003);

• test sperimentali diretti hanno mostrato che l’ipotesi chele resine si adsorbano sulla superficie degli aggregati asfal-tenici è falsa (Espinat e Ravey, 1993; Cimino et al., 1995);

• le frazioni asfalteniche formano nel toluene, in assenza diresine, aggregati che hanno le medesime dimensioni diquelli che formano nel greggio, come rivelato da studi ese-guiti tramite SAXS (Small Angle X-ray Scattering) e SANS(Small Angle Neutron Scattering). Pertanto, non è la fra-zione resinosa che governa la dissoluzione degli asfalteni;

• il medesimo tipo di flocculazione è stato osservato per gliasfalteni in greggio e in soluzioni modello (composte daasfalteni preventivamente ‘purificati’ e quindi ridiscioltiin solventi); ciò vuol dire che i meccanismi di stabilizza-zione e destabilizzazione sono determinati dagli asfalte-ni stessi.Nonostante esistano forti evidenze contro il modello liofo-

bo, e sebbene il modello colloide liofilo sia implicito in moltidei modelli predittivi e negli strumenti utilizzati dall’industria,i tecnici che lavorano in questo settore si sono dimostrati pocopropensi ad abbandonare la vecchia impostazione.

La deposizione degli asfalteni nella produzione e nel trattamento del greggio

Come osservato precedentemente, i problemi principalicausati dagli asfalteni nella produzione petrolifera sono lega-ti alla formazione di depositi solidi. È interessante notare comeil rischio e la gravità della deposizione degli asfalteni sianoinversamente correlati al contenuto in asfalteni: greggi rela-tivamente leggeri con un basso contenuto asfaltenico (�4%in peso) sono quelli che generano più problemi. Un’altra carat-teristica è rappresentata dal fatto che la deposizione è moltopiù sensibile alla depressurizzazione del greggio di quantonon lo sia all’abbassamento della temperatura. In molti casi,la deposizione degli asfalteni viene osservata all’interno dellastringa di produzione, come effetto della caduta di pressionesubita dai fluidi che entrano dal giacimento; d’altro canto, lamassima deposizione è in genere riscontrata in prossimitàdella pressione di bolla. Questo comportamento può esserespiegato in base alla diminuzione di densità del greggio chesi verifica quando la pressione diminuisce fino a un valorevicino a quello del punto di bolla, che riduce il suo potere

solvente nei confronti degli asfalteni (Correra et al., 2005).A seconda delle condizioni fluidodinamiche, gli asfalteni pre-cipitati possono accumularsi localmente, riducendo il flussodel fluido, oppure possono essere trasportati dal fluido pro-vocando più avanti la formazione di emulsioni stabili olio/acquao di fanghi nel flusso. Gli asfalteni possono provocare pro-blemi anche in raffineria. La loro precipitazione può esserecausata per esempio dalla miscelazione di diverse correnti,una delle quali abbia un elevato contenuto di paraffine. Inquesto caso gli asfalteni si depositano generalmente all’in-terno dei serbatoi di stoccaggio, e quindi sono necessarie fre-quenti operazioni di lavaggio. Essi sono però anche in gradodi stabilizzare emulsioni e schiume, e possono provocare spor-camenti negli impianti di raffinazione. Infine, e non ultimo,depositi di asfalteni destabilizzati nei punti caldi degli impian-ti di raffinazione possono subire reazioni chimiche, che pro-vocano la formazione di coke con conseguenti fenomeni disporcamento.

Modellizzazione del comportamento di fase degli asfalteniA causa del forte impatto potenziale degli asfalteni sulla

produzione petrolifera, gli operatori devono essere in grado diprevedere se un certo greggio sia in grado di generare deposi-ti asfaltenici, a quale profondità nel pozzo e a quale velocità.Sebbene siano stati sviluppati svariati approcci pratici e semiem-pirici, un modello fisico del fenomeno è comunque necessa-rio per poter formulare una previsione accurata del rischio dideposizione. Un modello di questo tipo è stato sviluppato sullabase della teoria di Flory-Huggins, che descrive il comporta-mento delle soluzioni polimeriche. Questo modello utilizzacome dati in ingresso i risultati di esperimenti di titolazionesu olio morto. In questi test, un reagente precipitante (unaparaffina) viene aggiunto al greggio (eventualmente premi-scelato con toluene) con piccoli incrementi successivi, e il cam-pione viene monitorato al procedere dell’aggiunta di precipi-tante. Quando si verifica la precipitazione degli asfalteni, lavariabile misurata (per es., la trasmittanza della luce) cambiaimprovvisamente valore, consentendo di rilevare la concen-trazione corrispondente all’inizio della precipitazione. In que-sto modo è possibile definire le caratteristiche di solubilitàdella frazione asfaltenica; d’altro canto, informazioni sullecaratteristiche del greggio sono disponibili dai dati standarddi tipo PVT (pressione, volume, temperatura). Il modello uti-lizza queste informazioni per generare un inviluppo di fase,cioè per definire la zona di instabilità degli asfalteni nel pianoT,P (Correra, 2004a).

Cere Le cere sono paraffine a catena lineare o ramificata che

si trovano in quantità variabile nel greggio, e presentano unnumero di atomi di carbonio fino a C70. La solubilità di unacera dipende dalla sua composizione, dalla composizione delgreggio, dalla pressione e, soprattutto, dalla temperatura. Auna data composizione e pressione, i solidi cerosi si separa-no quando la temperatura scende sotto un certo limite, dettopunto di nebbia (cloud point) o WAT (Wax Appearance Tem-perature; Létoffé et al., 1995). Per questa ragione, al diminuiredella temperatura la viscosità può aumentare di svariati ordi-ni di grandezza. Inoltre, mentre i greggi hanno generalmentecomportamenti newtoniani al di sopra del punto di nebbia, lacomparsa e la crescita dei cristalli di cera in essi provocanoun comportamento sempre più non newtoniano. Per molti greg-gi, al di sotto di una certa temperatura caratteristica, detta pour

SUPERFICI E SISTEMI DISPERSI

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point (punto di scorrimento), avviene una gelificazione com-pleta. Tipicamente in corrispondenza del pour point è presenteuna percentuale di solidi cerosi non superiore all’1-5% (Visin-tin et al., 2005).

Problemi collegati alla produzione di ceraLa deposizione di cera è forse il problema più serio rispet-

to alla necessità di dover garantire il flusso nelle produzio-ni offshore: il Minerals Management Service americano(Alvarado, 2003) ha riportato nel 2002 che tutti i 51 più serifenomeni di intasamento nella parte statunitense del Golfodel Messico tra il 1992 e il 2002 erano dovuti a fenomeni diprecipitazione di materiale ceroso. Questi fenomeni gene-ralmente si verificano nelle condotte e negli oleodotti mari-ni quando la temperatura della parete interna scende al disotto della WAT; se non è adeguatamente contrastato da addi-tivi o operazioni meccaniche di pulizia, il deposito di cerapuò crescere fino a provocare serie diminuzioni di produtti-vità. Molto spesso i depositi di cera sono la causa per cui gliattrezzi utilizzati nella pulizia degli oleodotti (i cosiddettipig) si incastrano.

Nel caso delle cere, stabilire le condizioni che provocanola precipitazione di solidi è relativamente più facile di quantonon lo sia per gli asfalteni: il fenomeno dipende soprattuttodalla temperatura. La calorimetria differenziale a scansione(DSC, Differential Scanning Calorimetry) è uno strumento diparticolare utilità per identificare la WAT e per determinare laquantità di cera che solidifica a ogni temperatura. Cionono-stante, per prevedere la velocità e la gravità dei fenomeni diprecipitazione di solidi cerosi in un oleodotto è necessario unmodello fluidodinamico.

Precipitazione di materiali cerosiSecondo il punto di vista tradizionale, la deposizione di

materiali cerosi è governata dal flusso radiale di massa (cera)verso la parete fredda della tubatura. In letteratura vengonodescritti svariati meccanismi di trasporto radiale, quali la dif-fusione molecolare, la dispersione provocata da una solleci-tazione di taglio, la diffusione browniana, la deposizione pergravità e altri (Borghi et al., 2005). In genere, i modelli usatinei software di simulazione commerciali danno un forte pre-dominio alla diffusione molecolare verso la parete fredda, sullaquale i componenti della cera cambiano fase e aderiscono.Questo cambiamento di fase provoca un gradiente di concen-trazione radiale delle molecole di cera, che diffondono versola parete in accordo con la legge di diffusione di Fick, gene-rando così un aumento delle dimensioni del deposito (Fasanoet al., 2004).

Le valutazioni ottenute con i software esistenti sembra-no sottostimare la crescita del deposito, e di conseguenza allostato attuale non esistono strumenti che consentano una stimaaffidabile. Questa considerazione ha indotto diversi gruppidi ricerca a cercare di identificare dei modelli alternativi chedescrivano la formazione e la crescita dei depositi cerosi. Lescoperte più importanti possono essere sintetizzate comesegue:• i solidi cerosi si aggregano per formare una struttura per-

colativa tipo gel, anche in presenza di concentrazioni dicere molto basse, e a tutte le temperature al di sotto dellaWAT (Vignati et al., 2005); pertanto, il ruolo del traspor-to radiale è forse sovrastimato, dato che il trasporto di massaassiale è già in grado di fornire una quantità di cera suffi-ciente a formare depositi (Correra, 2004b);

• per la stessa ragione, la cinetica di crescita del precipitatosarà dominata dal trasferimento di calore; quando la tem-peratura della parete dell’oleodotto scende al di sotto dellaWAT, un fronte di gelificazione cresce a partire dalla pare-te; questo processo è estremamente rapido (Merino-Gar-cia e Correra, 2006);

• due meccanismi possono limitare la crescita del deposito:in primo luogo, il fronte di gelificazione cessa di crescerese le condizioni di trasferimento di calore sono tali che incorrispondenza del fronte si stabilisce una temperatura parialla WAT (Bidmus e Mehrotra, 2004); in secondo luogo,una sforzo di taglio sufficientemente elevato in corrispon-denza della parete impedisce l’adesione della cera, facen-do sì che i solidi cerosi non precipitino, ma vengano tra-scinati dalla massa del liquido sotto forma di particelle;

• la formazione di un deposito tipo gel è seguita dal cosid-detto processo di invecchiamento in cui lo strato di depo-sito mantiene uno spessore costante, mentre la sua com-posizione cambia nel tempo, diventando più concentratain cere pesanti. In questa fase, il trasporto radiale dellemolecole di cera nel gel diventa dominante (Venkatesan etal., 2005).Tenendo conto di queste osservazioni, non appare strano

che le simulazioni attuali siano inaffidabili: esse prevedono lospessore del deposito sulla base di un meccanismo (trasportoradiale) diverso da quello corretto (gelificazione, trasportoassiale). Lo sviluppo di metodi di previsione della crescita deldeposito più affidabili è anche ostacolato dalla mancanza didati di campo attendibili.

Intasamenti di oleodotti provocati da solidi cerosiCome visto in precedenza, la gelificazione della massa di

greggio avviene quando la temperatura scende al di sotto delpour point, una situazione che può avere luogo durante unfermo impianto non programmato di un oleodotto, in parti-colare di quelli offshore. Riavviare il flusso in presenza di untappo di materiale ceroso è possibile solo se vi sono le con-dizioni per imporre all’oleodotto una pressione sufficiente.All’attuale livello di comprensione del fenomeno, la gelifi-cazione del greggio al di sotto del pour point viene descrittacome il risultato della formazione di un network frattale e per-colativo di cristalli di cera tenuti insieme da forze attrattivedeboli. I processi coinvolti nella cristallizzazione delle cere enella gelificazione del greggio sono illustrati nella fig. 2, chemostra anche una microfotografia di cristalli di cera formatiin un greggio. I gel di greggio, pertanto, sono considerati appar-tenenti alla famiglia di gel composti da particelle colloidalidisperse con interazioni attrattive deboli, tipo quelle formatedalla silice (Visintin et al., 2005). Il comportamento reologi-co dei greggi fornisce evidenza a sostegno di questo mecca-nismo. Un’agitazione vigorosa dei gel di greggio riduce laviscosità a valori simili a quelli di una dispersione di parti-celle solide. Come mostrato nella fig. 3, una volta tornato inuna situazione di quiete, il greggio precedentemente agitatorecupera le sue proprietà a un livello significativo. Questocomportamento è indicativo della presenza di interazioni rever-sibili, attrattive tra le particelle di cera solida, ed è conformea quello che ci si attenderebbe da un modello di gel costitui-to da particelle colloidali.

Per comprendere meglio il comportamento dei gel di greg-gio e per rendere più facile il loro confronto con altri gel for-mati da particelle colloidali disperse, si è utilizzata la geo-metria frattale per descrivere la loro struttura interna. Le

SISTEMI COLLOIDALI

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dispersioni di particelle che interagiscono mediante attrazio-ni deboli mostrano proprietà reologiche che dipendono inmaniera significativa dalle modalità di aggregazione tra leparticelle. L’uso della geometria frattale può semplificare ladescrizione delle strutture che si formano durante l’aggrega-zione perché è sufficiente un piccolo numero di parametri perfornire una rappresentazione soddisfacente di questi oggettialtamente irregolari. La dimensione frattale Df , per esempio,fornisce una misura della compattezza dell’aggregato. I valo-ri di Df ottenuti per aggregati di particelle in regime diluitovanno da 1,8 a 2,1, rispettivamente, passando dalla cosid-detta aggregazione cluster-cluster cineticamente limitatadalla diffusione, alla cosiddetta aggregazione cluster-clu-ster cineticamente limitata dalla reazione, che delineano duediversi modi in cui le strutture possono crescere a partire da

particelle colloidali. L’aggregazione di cluster limitata dalladiffusione corrisponde al caso in cui tutte le collisioni tra par-ticelle che diffondono nello spazio portano alla formazionedi cluster; questa è una buona rappresentazione di una geli-ficazione in un sistema di particelle colloidali nel quale l’in-terazione è forte e ha un breve raggio d’azione. Nell’aggre-gazione di cluster in cui la reazione è lo stadio cineticamen-te limitante, la maggior parte delle collisioni tra le particellenon produce un legame; questa è una buona rappresentazio-ne della gelificazione a partire da particelle colloidali nel casoin cui vi sia una barriera repulsiva che si opponga all’aggre-gazione. Il valore di Df è più elevato in quest’ultimo caso per-ché non tutte le collisioni portano alla formazione delle con-nessioni, e quindi varie strutture vengono esplorate prima chesi possa formare una struttura stabile.

SUPERFICI E SISTEMI DISPERSI

172 ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI

aggregazione

lamelle, ognuna di1-2 nm di spessore

gelificazione

particelletipo lamina

fasci di cristalli

0,1-5 mm

2-10 mm

fig. 2. Processi coinvolti nella gelificazione di un greggio ceroso; la fotomicrografia mostra gli aggregati cerosi colloidali nel greggio.

sforzo di taglio (0,01 s�1) applicato per 60 s

stor

age

mod

ulus

(Pa

)

10.000

100

1.000

tempo (min)0 10 20 30 40 50

fig. 3. Grafico dello storagemodulus di un gel di greggioceroso che dimostra il parziale recupero della forza del gel in seguitoall’applicazione per 60 s di un’azione di taglio che provoca un gradiente di velocità pari a 0,01 s�1.

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La dimensione frattale misurata mediante diffusione dellaluce per aggregati cerosi in un greggio modello appena al disotto della WAT è pari a 1,8, in accordo con un’aggregazio-ne cluster-cluster limitata dalla diffusione, mentre quella deter-minata da proprietà reologiche al di sotto del pour point vada 2,1 fino addirittura a 2,7 per il greggio modello e per varigreggi. Questi risultati possono essere spiegati con il fattoche nei greggi cerosi lo sviluppo della frazione solida è gover-nato dalla temperatura: la frazione di solidi cerosi cresce quan-do la temperatura scende al di sotto della WAT. Pertanto lacristallizzazione della cera procede in presenza di un debolenetwork percolativo, che causa la sovrapposizione di aggre-gati e la formazione di cluster interpenetranti. Questo mec-canismo suggerisce la possibilità di impiegare delle forzemeccaniche o degli additivi chimici per modificare l’intera-zione tra cristalli di cera, al fine di ridurre in questo modo latendenza dei depositi cerosi a crescere o di ridurre l’energianecessaria a riavviare il flusso in un oleodotto in cui si è for-mato un gel.

Emulsioni olio-acqua Salvo rare eccezioni, e con grande frustrazione delle com-

pagnie petrolifere, da un giacimento viene prodotta, insieme agreggio e gas, anche dell’acqua di giacimento (reservoir brine).Sebbene la quantità d’acqua prodotta possa essere inizialmentemolto bassa (meno di pochi punti percentuali della quantitàtotale di fluidi prodotti), essa cresce via via che il campo invec-chia e di solito domina la produzione nell’ultima fase di vitadel campo. Il passaggio del greggio e dell’acqua prodotti attra-verso pompe e valvole, o altre situazioni in cui si realizzanoelevate sollecitazioni, favoriscono la formazione di emulsionimolto fini che possono essere stabilizzate da alcuni compo-nenti del greggio dotati di attività superficiale, da additivi chi-mici utilizzati con altri obiettivi (per esempio inibitori di cor-rosione) e da solidi organici e inorganici.

La separazione olio-acqua è ottenuta con appositi separa-tori a gravità. Per ottenere proprietà accettabili commercial-mente, il greggio necessita in genere di un’ulteriore dissala-zione e disidratazione. È anche necessaria la rimozione delgreggio dall’acqua prima che quest’ultima possa essere smal-tita in corpi idrici superficiali oppure iniettata nuovamente nelgiacimento. Oggi ciò viene spesso effettuato utilizzando degliidrocicloni che riducono il livello di greggio disperso residuoa 10-30 mg/l.

Le separazioni olio-acqua presentano spesso problemi estre-mamente difficili da risolvere. Un esempio è rappresentato daigreggi pesanti, che hanno densità vicine a quella dell’acqua ediventano estremamente viscosi quando vengono raffreddatialle temperature superficiali; come previsto dall’equazione diStokes, questi fattori rendono i processi di separazione per gra-vità relativamente meno efficaci e ostacolano la coalescenza.Inoltre, la presenza nel greggio di componenti dotati di attivitàsuperficiale, insieme alla tendenza di questo a depositare soli-di organici, favorisce la formazione di emulsioni (stabilizzateda questi solidi) che possono diventare estremamente persi-stenti. Tali emulsioni possono accumularsi all’interfaccia olio-acqua nelle unità di separazione, riducendo la loro efficienzae rendendo difficile ottenere la purezza del greggio necessariaper la commercializzazione o quella dell’acqua necessaria per-ché essa possa essere smaltita. Additivi chimici vengono ampia-mente utilizzati per controllare la formazione e la stabilitàdelle emulsioni. Dal momento che ogni greggio possiede carat-teristiche uniche, sono stati sviluppati deemulsionanti con

caratteristiche chimiche ampiamente differenziate; la loro appli-cazione può essere considerata un’arte.

Di seguito, si prende in esame la stabilizzazione delle emul-sioni in presenza di solidi colloidali, un’area in cui la ricercaaccademica è oggi molto attiva. La formazione di emulsioninon è sempre un fenomeno indesiderato nell’industria estrat-tiva. Infatti, emulsioni olio-acqua ultrapesanti vengono gene-rate intenzionalmente in alcuni casi per facilitare il trasporto emigliorare il valore commerciale del greggio, come discussopiù avanti. Infine, viene descritta una nanotecnologia emer-gente, basata sulla formulazione delle nanoemulsioni, che infuturo potrebbe essere di aiuto nelle operazioni di aggiunta diadditivi chimici.

Emulsioni di Pickering stabilizzate da solidiLe emulsioni stabilizzate da solidi colloidali furono descrit-

te per la prima volta da Walter Ramsden (1903) e SpencerPickering (1907) e sono conosciute sotto il nome di quest’ul-timo. Sebbene il loro ruolo in molti processi industriali e petro-liferi sia noto da tempo, lo studio scientifico di queste emul-sioni è stato sporadico fino all’inizio del 21° secolo, quandol’interesse scientifico per i sistemi capaci di organizzarsi spon-taneamente ha provocato un’esplosione di pubblicazioni in que-st’area (Binks, 2002).

Le emulsioni di Pickering si generano quando le gocce ven-gono formate in presenza di particelle colloidali con una capa-cità bagnante adeguata. Come regola generale, le emulsioni diPickering sono stabilizzate da particelle con una capacità bagnan-te intermedia, e la fase interna (cioè quella dispersa) è solita-mente quella che bagna di meno la fase solida (in altre paro-le, i solidi che sono bagnati preferibilmente dall’acqua favori-scono la formazione di emulsioni di olio in acqua). La forzache provoca l’intrappolamento di solido all’interfaccia è la ridu-zione dell’area superficiale totale. Quando una particella diraggio a si porta all’interfaccia olio-acqua (fig. 4), rimuove l’a-rea interfacciale A1 tra le due fasi liquide (ow, oil-water) crean-do nel contempo le aree interfacciali solido-acqua A2 (sw, solid-water) e solido-olio A3 (so, solid-oil). La variazione di energialibera del sistema è data da:

A aow ow− ≈ − −( )γ π γ12 2

1 cosÿ

∆G A Asw so= + −γ γ2 3

SISTEMI COLLOIDALI

173VOLUME V / STRUMENTI

olio

acqua

A2

A3

A1

fig. 4. Riduzione dell’area superficiale totale che si verifica quando una particella solida migra a una interfaccia liquido-liquido. A1 indica l’area interfaccialeolio-acqua eliminata dalla particella all’interfaccia, A2 e A3 indicano rispettivamente le superfici della particellaesposte alla fase acqua e alla fase olio.

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dove g indica le tensioni interfacciali e ÿ è l’angolo di contat-to. Poiché l’energia libera diminuisce per effetto dell’adsorbi-mento della particella, questo processo è spontaneo. Una voltache si trovano alla superficie, le particelle risultano legate inmodo molto forte; l’energia di intrappolamento è funzione dellabagnabilità, ed è di molte volte superiore all’energia di agita-zione termica kT (dove k è la costante di Boltzmann e T la tem-peratura termodinamica). L’intrappolamento è pertanto essen-zialmente irreversibile.

Un’altra caratteristica generale è che al crescere della quan-tità di solidi presenti durante la formazione dell’emulsioneviene favorita la formazione di un maggior numero di goccedi emulsione, e pertanto le gocce risultano più piccole. Varistudi microscopici hanno mostrato come i colloidi diano vitaa ricoprimenti superficiali densi e talvolta a impaccamentocompatto. Queste e ulteriori osservazioni hanno portato allaformulazione dell’ipotesi generale secondo cui la stabilizza-zione di un’emulsione da parte di solidi deriva dalla rigiditàdegli strati di particelle alla superficie e dall’energia che sareb-be richiesta per riorganizzare la superficie prima che possaavvenire la coalescenza delle gocce.

Questa e altre ipotesi sono state esaminate sperimental-mente da EniTecnologie usando delle particelle submicroni-che fluorescenti di silice colloidale, preparate e utilizzate perstudiare il ricoprimento superficiale e la mobilità delle parti-celle sulla superficie (Vignati et al., 2003). Inoltre, utilizzan-do una micropipetta per misurare la tensione superficiale dellesingole gocce stabilizzate dalle particelle, è stato dimostratodirettamente che il ricoprimento superficiale non ha alcunainfluenza sulla tensione interfacciale. Questi studi hanno per-messo di scoprire un campo di comportamenti assai più riccodi quello noto in precedenza. In particolare:• non esiste alcuna relazione diretta tra il grado di ricopri-

mento superficiale delle gocce e la stabilità macroscopicadell’emulsione: è stata osservata una stabilità prolungataper emulsioni dotate di pochissime particelle adsorbite esi è per converso riscontrato che alcune emulsioni compo-ste da gocce densamente ricoperte subivano una rapida coa-lescenza;

• la ridistribuzione delle particelle sulla superficie delle goccepotrebbe giocare un ruolo nello stabilizzare gocce con rico-primento scarso o disomogeneo;

• la ruvidità superficiale abbassa significativamente il pote-re emulsionante delle particelle. L’organizzazione inter-facciale di particelle ruvide intrappolate mostra una riccamorfologia, talvolta contrassegnata da ‘grumi’ colloidali,che suggeriscono la presenza di forze attrattive superficialidi origine capillare;

• le particelle intrappolate esibiscono un moto brownianovigoroso, con un coefficiente di diffusione superficiale che,su gocce scarsamente ricoperte, ha sostanzialmente lo stes-so valore che ha nella fase continua che le circonda. Studi in fase di sviluppo in molti laboratori stanno esplo-

rando questi e altri comportamenti precedentemente nonnoti. Contemporaneamente, sono stati intrapresi degli sfor-zi finalizzati a sviluppare nuove applicazioni delle emul-sioni di Pickering. Queste includono l’uso di solidi comeagenti emulsionanti non tensioattivi (Binks, 2002), l’uso diemulsioni stabilizzate da solidi per il rilascio di farmaci oreagenti (Dinsmore et al., 2002) e l’uso di particelle colloi-dali magnetiche per generare delle gocce che possano esse-re manipolate mediante un campo magnetico esterno (Melleet al., 2005).

Ritornando ai sistemi petroliferi, i solidi che stabilizzanole emulsioni petrolifere possono essere inorganici (argille,ossidi, silice) od organici (cere, asfalteni). Questi ultimi pos-sono generare film elastici molto resistenti alla rottura, comemostrato nella fig. 5 per le gocce di greggio in acqua di giaci-mento. È noto che il greggio mostrato in figura deposita ceree asfalteni in condizioni ambientali, e molte gocce dispersehanno delle superfici irregolari che indicano la presenza di unfilm meccanicamente resistente. Studi in corso potrebberosuggerire nuove strategie chimiche per desorbire i solidi col-loidali, per ridurre la loro tendenza a migrare in superficie oper impedire la formazione di film organici sulla superficiedelle gocce.

Emulsioni di olio in acqua per il trasporto di greggi ultrapesanti

La formazione di emulsioni di olio in acqua è stata sfrut-tata industrialmente per il trasporto di greggi viscosi e pesan-ti. Questa applicazione è basata sul fatto che la reologia di un’e-mulsione formata da due liquidi con viscosità radicalmentediverse è, in prima approssimazione, determinata da quella dellafase esterna o continua. Pertanto, laddove un greggio ultrape-sante può avere una viscosità di 10.000 cP od oltre, quandoemulsionato in acqua, la miscela assume una viscosità più bassadi alcuni ordini di grandezza. La fig. 6 mostra come la visco-sità di un’emulsione di greggio in acqua vari in funzione dellafrazione di greggio pesante emulsionato per un greggio italia-no di viscosità pari a 13.000 cP; si osservi che anche con unafrazione del 70% di olio pesante nell’emulsione, se l’acquacostituisce la fase esterna la viscosità è approssimativamentedi due ordini di grandezza più bassa di quella del greggio.

L’uso di emulsioni acquose per il trasporto di greggio pesan-te diventa economicamente più interessante al crescere dellafrazione di olio trasportata. Al di sopra di una certa frazione diolio, tuttavia, insorge una forte tendenza dell’emulsione a inver-tirsi in un’emulsione di acqua in olio, con conseguenze disa-strose per la viscosità. Dal punto di vista tecnologico i proble-mi che è necessario affrontare per poter sviluppare processi ditrasporto mediante emulsione sono i seguenti:• bisogna assicurarsi che l’acqua rimanga la fase esterna in

emulsioni che contengono almeno il 70% in volume di olio,

SUPERFICI E SISTEMI DISPERSI

174 ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI

fig. 5. Gocce di greggio disperse nell’acqua di giacimento; le superfici irregolari indicano la presenza di un film solidoall’interfaccia olio-acqua.

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sull’intero campo delle possibili escursioni di temperatu-ra e sollecitazioni a cui il sistema può essere soggetto;

• è necessario controllare le tendenze dell’emulsione a sedi-mentare e a subire una strutturazione quando venga stoc-cata per lunghi periodi di tempo, o nel caso in cui il flus-so nell’oleodotto debba essere interrotto per un periodoprolungato;

• bisogna garantire una de-emulsificazione efficace in raf-fineria con recupero del greggio privo d’acqua.A partire dell’inizio degli anni Ottanta del 20° secolo, la

Petróleos De Venezuela Sociedad Anónima (PDVSA) affrontòquesta serie di problemi sviluppando un processo integrato perfluidificare i greggi ultrapesanti della cintura dell’Orinoco sottoforma di emulsione acquosa. Questo processo, detto Orimul-sion, genera un’emulsione con una frazione del 70% di greg-gio in acqua che viene trasportata via nave in tutto il mondo,

per essere poi bruciata in impianti di potenza termoelettrici.Attualmente la produzione è nell’ordine di 4 milioni di ton-nellate annue di emulsione (Marruffo et al., 1998).

La fig. 7 illustra gli elementi fondamentali del processoOrimulsion (Salager et al., 2001). Il greggio viene diluito conidrocarburi leggeri all’interno del pozzo per rendere più sem-plice il suo trasporto verso la superficie, dove viene deidrata-to e desalinizzato in separatori gravitazionali ed elettrostaticiper rimuovere l’acqua di giacimento. Il solvente viene recu-perato tramite distillazione flash e viene quindi riciclato nelpozzo. Il prodotto (Orimulsion) viene preparato per emulsifi-cazione del greggio pesante in soluzione acquosa di nonilfe-noletossilato che genera un’emulsione di olio in acqua all’85%.La miscelazione viene effettuata in condizioni blande per evi-tare la formazione delle cosiddette emulsioni multiple, in cuila fase olio interna contiene, a sua volta, delle gocce d’acqua

SISTEMI COLLOIDALI

175VOLUME V / STRUMENTI

viscosità del greggio anidro

visc

osit

à (c

P)

100.000

1

10.000

1.000

100

10

frazione volumetrica di greggio0,20 0,40 0,60 0,80 1,00

fig. 6. Viscosità di un greggiopesante in emulsioni acquose,misurata per un gradiente divelocità pari a 100 s�1,in funzione della frazionevolumetrica di greggiodisperso (Bertero et al.,1994); la linea tratteggiataindica la viscosità del greggio anidro.

riscaldamento separatore deidratazione

tensioattivoacqua

additivi

iniezionedi vapore

iniezionedi diluente

gas

acqua

diluente riciclato

oleodotto

imbarco

deposito del bitume

impianto di emulsificazionedeposito perOrimulsion

foro diperforazione

estrazionedel bitumediluito

separatoreflash

fig. 7. Schema del processo Orimulsion (Salager et al., 2001).

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disperse. Successivamente questa emulsione concentrata vienediluita al 70% di contenuto d’olio, aggiungendo ancora del-l’acqua. La dimensione media delle gocce di greggio disperseè di circa 8-15 mm e la viscosità apparente è di 350-750 mPa�s(misurata a 30 °C e 100 s�1).

Eni ha sviluppato un processo simile basato sull’utilizzodi agenti disperdenti invece che di tensioattivi (Bertero et al.,1994). I due processi differiscono dal momento che i tensioattiviabbassano la tensione interfacciale, rendendo più facile la for-mazione di nuove interfacce olio-acqua o la deformazione diquelle esistenti. Gli agenti disperdenti, invece, stabilizzano lafase dispersa adsorbendosi all’interfaccia e creando una bar-riera elettrostatica o sterica che impedisce il contatto goccia-goccia, mentre hanno effetti minori sulla tensione interfaccia-le. Gli esperimenti hanno mostrato che l’uso di agenti disper-denti genera emulsioni di olio in acqua particolarmente resistentiall’inversione, eliminando in questo modo un rischio partico-larmente serio nelle applicazioni industriali. L’additivo è statosperimentato su scala pilota nel campo petrolifero di Gela, inSicilia, dove l’emulsione è stata generata direttamente nel pozzo,utilizzando l’energia di miscelazione di una pompa a ingra-naggi o di una pompa a getto di fondo foro. La forte riduzio-ne di viscosità rispetto a quella ottenuta con l’impiego di undiluente convenzionale ha permesso di quadruplicare la pro-duttività del pozzo.

NanoemulsioniLe cosiddette nanoemulsioni (o miniemulsioni) sono un

tipo di emulsioni che sta guadagnando un crescente interessescientifico e industriale e per le quali è possibile prevederemolte potenziali applicazioni nell’industria petrolifera. Que-ste emulsioni sono caratterizzate da una dimensione delle goccedella fase interna, o dispersa, inferiore a 1 mm. Una caratteri-stica di queste emulsioni è rappresentata dal fatto che, quandole dimensioni delle gocce scendono al di sotto della lunghez-za d’onda della luce visibile (cioè diventano inferiori a 0,2 mm),diventano otticamente traslucide o trasparenti.

Su scale di dimensioni submicroniche, le forze di galleg-giamento diventano meno significative rispetto alle forze brow-niane, e quindi qualunque tendenza di sedimentazione o scre-matura della fase interna viene eliminata. D’altro canto, le pic-cole dimensioni delle particelle e l’elevato valore dell’areasuperficiale rendono queste emulsioni estremamente instabilidal punto di vista termodinamico. La cosiddetta maturazionedi Ostwald (Taylor e Ottewill, 1994) descrive il processo median-te il quale le gocce più piccole in una miscela diminuiscono didimensione accrescendo le gocce più grandi, processo che ridu-ce l’area superficiale totale e, quindi, l’energia totale del siste-ma. La velocità di trasferimento della fase interna tra goccia egoccia dipende dalla sua solubilità nella fase esterna. Svariatifattori possono ridurre o eliminare questo meccanismo di desta-bilizzazione: • una solubilità estremamente bassa della fase interna nella

fase continua;• la presenza di un soluto (insolubile nella fase continua)

nella fase interna, nel qual caso la tendenza della fase inter-na a trasferirsi verso le gocce più grandi è contrastata dal-l’aumento della pressione osmotica delle gocce più picco-le al crescere della concentrazione del soluto;

• una distribuzione molto stretta (monodispersa) delle dimen-sioni delle gocce. Assunto che il meccanismo di maturazione di Ostwald

possa essere controllato, la mancanza di sedimentazione e di

scrematura e le dimensioni estremamente piccole delle parti-celle disperse rendono le nanoemulsioni di considerevole inte-resse per un campo particolarmente ampio di applicazioni nel-l’industria farmaceutica, cosmetica, alimentare e in altri set-tori. EniTecnologie sta assumendo un ruolo pionieristico nellosviluppo di applicazioni delle nanoemulsioni nell’industriapetrolifera (Del Gaudio et al., 2006).

Esistono due strade generali che permettono la formazio-ne delle nanoemulsioni. La prima si basa su una agitazionemeccanica a energia molto elevata (per es., ultrasonicazione;Landfester et al., 1999) che, in presenza dei tensioattivi adat-ti, è in grado di produrre emulsioni con una dimensione mediadelle gocce di poco inferiore a 1 mm, sebbene la distribuzionedelle dimensioni delle particelle possa essere molto lontanadalla monodispersità. Queste nanoemulsioni, pertanto, sonoraramente dotate di stabilità prolungata, il che limita il campodelle loro possibili applicazioni. La seconda strada sfrutta tec-niche che permettono di ottenere nanoemulsioni immettendocontenuti energetici modesti, basate su autoemulsificazioni oinversioni di fase. Queste tecniche permettono di ottenerenanoemulsioni invertendo un’adatta emulsione, portandolacioè da emulsione di olio in acqua a emulsione di acqua inolio, o viceversa. Per esempio, è possibile ottenere un’inver-sione di fase diluendo un’emulsione concentrata (Forgiariniet al., 2001) o variando la temperatura (metodo PIT, PhaseInversion Temperature; Shinoda e Saito, 1968). Vari autoriattribuiscono la formazione di una nanoemulsione alla pre-senza di una fase liquida cristallina durante l’inversione difase (Izquierdo et al., 2005), sebbene siano state preparatenanoemulsioni da sistemi che evitano del tutto le fasi liquidecristalline (Pons et al., 2003).

A oggi mancano approcci generali per la formazione dinanoemulsioni. L’approccio PIT, per esempio, può essere uti-lizzato solo per una classe limitata di tensioattivi e la stabilitàdelle nanoemulsioni prodotte è estremamente sensibile allatemperatura. In anni recenti è stata dedicata un’attenzione cre-scente alla comprensione dei meccanismi dei processi coin-volti nei diversi metodi di preparazione delle nanoemulsioni,allo scopo di sviluppare tecniche generali più semplici e piùaffidabili.

Il processo a basso contenuto di energia sviluppato pres-so EniTecnologie si basa sul fatto che l’inversione di faseviene prodotta in un sistema caratterizzato da un valore ditensione interfacciale molto basso, e genera nanoemulsionimonodisperse sotto un’agitazione molto blanda. La riprodu-cibilità di questo processo permette di ottenere nanoemul-sioni caratterizzate da gocce molto piccole estremamente sta-bili allo stoccaggio (più di sei mesi a temperatura ambiente),alla centrifugazione (stabili a 5.000 g per 15 minuti) e allatemperatura (le formulazioni resistono per un’ora o più finoa 100 °C).

Questo metodo permette di preparare nanoemulsioni confrazioni di fase dispersa fino al 35% che contengono il 10%o più di additivi dispersi. Per esempio, sono state preparatenanoemulsioni di acqua in olio con il 20% di fase acquosa,contenenti il 15% in peso di un tipico inibitore di incrosta-zioni inorganiche usato in campo petrolifero (acido fosfino-policarbossilico). A causa delle piccole dimensioni della fasedispersa, queste composizioni passano prontamente attraver-so la roccia di giacimento senza filtrazione, e pertanto rap-presentano un veicolo per introdurre nel giacimento additivichimici solubili in acqua, senza dover introdurre grandi volu-mi d’acqua. Questo è importante perché riduce, per un pozzo

SUPERFICI E SISTEMI DISPERSI

176 ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI

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trattato, il tempo necessario per recuperare il tasso originariodi produzione petrolifera a seguito del trattamento. Inoltrequesta applicazione risulta interessante per il trattamento deigiacimenti che contengono fasi minerali sensibili all’acqua,perché la nanoemulsione di acqua in olio è in grado di distri-buire l’additivo solubile in acqua in una fase continua idro-carburica.

Un’altra applicazione potenzialmente importante riguar-da l’introduzione di un additivo chimico all’interno dei con-dotti, per esempio per il controllo della precipitazione di soli-di, della corrosione, ecc. In molte situazioni è necessarioaggiungere ai fluidi di produzione più di un additivo. Quan-do questi additivi risultano tra loro incompatibili, sia per leloro solubilità in olio e in acqua, sia perché possono esserecoinvolti in reazioni chimiche (per esempio, reazioniacido/base), sorgono considerevoli problemi operativi ed eco-nomici. In molti casi, per esempio in situazioni offshore, lestrutture per lo stoccaggio di composti chimici possono esse-re limitate, oppure può esistere un’unica linea disponibileper portare gli additivi all’oleodotto. Le nanoemulsioni sem-brano offrire una soluzione ideale a questo problema. Infat-ti, il fatto che fase dispersa e fase continua interagiscanomolto poco permette di caricare nelle due fasi anche additi-vi chimicamente incompatibili senza compromettere l’ec-cellente stabilità e resistenza delle nanoemulsioni alla scre-matura, alla sedimentazione e all’azione meccanica. Le nanoe-mulsioni sono quindi in buona posizione per diventare unadelle prime nanotecnologie a trovare applicazione nell’indu-stria petrolifera.

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Thomas Lockart

Eni - Divisione E&PSan Donato Milanese, Milano, Italia

Sebastiano Correra

Eni - Divisione E&PSan Donato Milanese, Milano, Italia

SUPERFICI E SISTEMI DISPERSI

178 ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI

Page 13: Encclopedia Degli Idrocarburi - SISTEMI COLLOIDALI

179VOLUME V / STRUMENTI

3.2.2 Colloidi polimerici e loro interfacce

Dispersioni colloidali di materiali polimerici

I colloidi e la loro importanza La fase dispersa di un sistema colloidale è costituita da par-

ticelle così piccole che il loro moto principale è di tipo diffu-sivo, il cosiddetto moto browniano, che è il risultato delle col-lisioni tra le particelle e le molecole che formano la fase con-tinua. Il limite superiore delle dimensioni delle particellecolloidali è, tipicamente, circa 1 mm e può essere definito inmodo da escludere qualsiasi influenza delle forze gravitazio-nali e inerziali sul moto delle particelle. A parte il moto brow-niano, forze di varia origine, quali la forza elettrostatica, quel-la dispersiva e quella viscosa, contribuiscono a determinare ilcomportamento delle dispersioni colloidali e le loro caratteri-stiche uniche. Le complesse interazioni tra queste forze deter-minano l’evoluzione di una specifica dispersione colloidale,che può avere luogo su scale temporali che vanno dai secondifino agli anni. Per questo motivo trattare le dispersioni colloi-dali è, al tempo stesso, tanto difficile e tanto interessante.

Come discusso nel paragrafo 3.2.1, i colloidi occupano unruolo fondamentale nell’industria petrolifera, a partire dai pro-cessi estrattivi per arrivare fino ai vari processi dell’industriapetrolchimica. I colloidi coinvolti possono essere di naturadiversa, per esempio asfalteni, acqua o cere disperse in petro-lio, oppure dispersioni di petrolio in acqua. Più in generale,però, i colloidi sono presenti in molti altri sistemi: essi posso-no essere preparati da una grande varietà di materiali organi-ci e inorganici come l’oro, la silice, il nero di carbonio, goccein emulsione, polimeri, e possono anche esistere in natura sottoforma di argille o proteine. Le particelle colloidali, inoltre, pos-sono avere varie forme, come quella di un’asticella o quella diuna lastrina, anche se in questa sede ci occuperemo in parti-colare di particelle sferiche.

L’intento di questo paragrafo è quello di offrire una pano-ramica generale del comportamento delle dispersioni colloi-dali per quanto riguarda la stabilità, la morfologia e la cineti-ca di aggregazione e di rottura. La maggior parte delle nozio-ni che verranno discusse hanno validità generale per tutti icolloidi ma, a causa della grande varietà di questi sistemi, con-viene, a scopo illustrativo, focalizzarsi sul caso dei colloidipolimerici. Le loro proprietà sono infatti le più vicine a quel-le delle dispersioni di particelle solide in fase liquida che siincontrano tipicamente nell’industria petrolifera. Inoltre, i col-loidi polimerici sono stati oggetto di approfondite ricerche pub-blicate nella letteratura scientifica, che hanno permesso di otte-nere un gran numero di risultati teorici e sperimentali, alcunidei quali discuteremo nel seguito.

I polimeri possono essere sintetizzati direttamente dagliidrocarburi e offrono una grande quantità di proprietà che li ren-dono adatti per varie applicazioni di uso quotidiano. Questa è

stata la ragione che ha motivato il desiderio di produrre poli-meri con proprietà molto specifiche, e che ha avuto come effet-to lo sviluppo di numerosi processi di polimerizzazione chesono stati ampiamente applicati nell’industria per produrremateriali destinati ai più vari settori di mercato. In alcuni deiprocessi più efficienti il materiale polimerico si trova a un certostadio in uno stato colloidale. Controllare le proprietà colloi-dali di questi sistemi è fondamentale per determinare le pro-prietà finali del materiale prodotto. In alcune applicazioni lostato colloidale deve essere mantenuto, perché il materiale vieneutilizzato direttamente in questa forma, mentre in altre appli-cazioni il colloide rappresenta uno stato intermedio che suc-cessivamente deve essere trasformato in una polvere polime-rica. In tutti i casi, è utile anzitutto descrivere brevemente ilmodo in cui vengono prodotti i colloidi polimerici e, succes-sivamente, identificare i fattori che influenzano il loro com-portamento colloidale e quindi i loro trattamenti successivi.

Processi per produrre colloidi polimerici Le dispersioni di particelle polimeriche, solitamente deno-

minate lattici, possono essere prodotte mediante vari processidi polimerizzazione eterogenea. Tra i vantaggi di questi pro-cessi, confrontati con i corrispondenti processi omogenei, vi èla possibilità di controllare meglio la temperatura, ottenere unprodotto molto uniforme e raggiungere conversioni finali estre-mamente elevate. In molti casi non è necessario alcun solven-te organico, né alcuna operazione di stripping per rimuovere ilmonomero residuo.

Inizialmente il monomero è disperso sotto forma di goccenel liquido, tipicamente una fase acquosa sotto agitazione, e vienestabilizzato da opportune molecole tensioattive o emulsionanti.

Qui di seguito vengono discusse brevemente le proprietàfondamentali dei quattro principali processi eterogenei di poli-merizzazione (in dispersione, per precipitazione, in sospen-sione e in emulsione).

Polimerizzazione in dispersione In questo processo, sia il monomero che l’iniziatore sono

solubili in fase liquida e pertanto la polimerizzazione ha ini-zio in condizioni omogenee. Il polimero che si forma, tuttavia,non è solubile in fase acquosa e nuclea in una fase separata,provocando in questo modo la formazione di particelle poli-meriche. L’iniziatore e i monomeri sono solubili nel polimeroe rigonfiano le particelle, che diventano la principale sede dipolimerizzazione, la quale produce una dispersione di parti-celle con diametro di circa 0,1-10 mm. Le particelle devonoessere stabilizzate rispetto alla coagulazione e ciò viene tipi-camente ottenuto utilizzando dei tensioattivi non-ionici, cioèmediante un meccanismo di stabilizzazione sterica.

Polimerizzazione precipitativaLa polimerizzazione precipitativa ha inizio per via omo-

genea, esattamente come la polimerizzazione in dispersione,

Page 14: Encclopedia Degli Idrocarburi - SISTEMI COLLOIDALI

poiché sia il monomero che l’iniziatore sono solubili in faseliquida; essi non sono però solubili in fase polimerica. Que-st’ultima a sua volta è insolubile nella fase liquida, e quindiprecipita da questa, nucleando e coagulando in modo solita-mente incontrollato, provocando la formazione di particelleirregolari e polidisperse.

Polimerizzazione in sospensione In questo caso il monomero è disperso in acqua in forma

di particelle di dimensioni microniche stabilizzate da un emul-sionante. La dimensione delle gocce è fondamentalmente deter-minata dalla velocità di agitazione, e velocità di taglio unifor-mi nel reattore permettono la produzione di popolazioni di par-ticelle stabili e monodisperse, di dimensioni solitamentemaggiori di 1 mm. L’aggiunta di un iniziatore solubile nel mono-mero fa sì che la polimerizzazione avvenga all’interno dellegoccioline di monomero, e queste pertanto agiscono come deipiccoli reattori in massa. La reazione viene completata nelmomento in cui le gocce di monomero sono completamenteconvertite in polimero. La solubilità del polimero nel suo mono-mero determina la morfologia finale e le caratteristiche super-ficiali delle particelle. Se la solubilità è scarsa, come nel casodel polivinilcloruro, il polimero precipita all’interno delle goccedi monomero, e in questo modo si formano delle particelle irre-golari e porose. Al contrario, se la solubilità è buona, come nelcaso del polistirene, il polimero viene rigonfiato dal suo mono-mero e in questo modo si ottiene una morfologia omogeneadella particella finale, con una superficie esterna liscia.

Polimerizzazione in emulsioneQuesto è il processo di polimerizzazione attualmente più

utilizzato nelle applicazioni industriali. Il monomero vienedisperso in fase liquida (acquosa) in forma di gocce (1-10 mm)stabilizzate da emulsionanti, mentre l’iniziatore è solubile infase acquosa. La polimerizzazione di conseguenza ha inizionella fase acquosa, dove gli oligomeri in crescita diventanorapidamente troppo idrofobi, e tendono a nucleare come faseseparata. Ciò può avvenire attraverso un classico processo dinucleazione omogenea, oppure, in presenza di micelle di ten-sioattivo, attraverso una nucleazione micellare, che porta allaformazione di particelle primarie stabilizzate dal tensioattivo,di dimensione dell’ordine di pochi nanometri. Queste cresco-no per effetto della polimerizzazione dei monomeri trasporta-ti attraverso la fase acquosa dalle grosse gocce di monomero,che agiscono quindi da serbatoi di monomero, fino a che essevengono completamente consumate. Le dimensioni delle par-ticelle prodotte mediante polimerizzazione in emulsione sononell’ordine di 50-500 nm. La polimerizzazione in emulsionepuò essere effettuata anche in completa assenza di emulsio-nanti o tensioattivi. In questo caso gli oligomeri nucleano infase acquosa e si aggregano per formare delle particelle piùgrandi (nucleazione omogenea). Il frammento di iniziatoresolubile in acqua, che costituisce il gruppo terminale di unacatena oligomerica, tende a rimanere sulla superficie esternadelle particelle offrendo in questo modo una stabilizzazionenei confronti di ulteriori coagulazioni. In questo caso le dimen-sioni finali delle particelle sono nell’ordine di 100-500 nm.Uno svantaggio della polimerizzazione in emulsione condot-ta in assenza di tensioattivo è rappresentato dal fatto che il pro-cesso deve essere condotto a una frazione volumetrica di mono-mero inferiore. Un’altra possibilità interessante è rappresen-tata dalla cosiddetta polimerizzazione in miniemulsione, in cuile gocce di monomero hanno una dimensione iniziale di 100

nm e sono stabilizzate termodinamicamente attraverso l’ag-giunta, oltre che dei tensioattivi, di piccole quantità di mole-cole insolubili in acqua. La polimerizzazione ha inizio diret-tamente nelle gocce di monomero grazie all’aggiunta di un ini-ziatore solubile nel monomero e sotto questo aspetto è similealla polimerizzazione in sospensione. Tuttavia i tempi di rea-zione sono qui più rapidi e la polimerizzazione in miniemul-sione consente di polimerizzare anche monomeri estremamenteidrofobi, che non subiscono la normale polimerizzazione inemulsione.

Lavorazione dei colloidi polimerici Un aspetto fondamentale nel determinare il comportamento

di un colloide polimerico sia durante la sua preparazione, comediscusso sopra, sia durante le operazioni di lavorazione cheprecedono le applicazioni finali, risiede nella sua stabilità neiconfronti dei fenomeni di aggregazione. Uno dei fattori piùimportanti per la stabilità colloidale è rappresentato dalla com-posizione chimica della superficie della particella. Tra i meto-di specifici adottati per impedire alle particelle di aggregarsi,vi sono l’aggiunta di tensioattivi ionici e non-ionici, l’autoas-semblaggio delle code di catene polimeriche cariche origina-te dall’iniziatore, o anche l’aggraffaggio di stabilizzanti sullasuperficie. Inoltre, la solubilità in fase acquosa dei vari mono-meri, oligomeri e catene polimeriche che possono adsorbirsisulla superficie delle particelle, influenza in maniera notevo-le la composizione superficiale e quindi anche la stabilità diqueste. A seconda dell’applicazione specifica per cui vieneprogettato il colloide polimerico, vengono richiesti diversi livel-li di stabilità nei confronti dell’aggregazione, come viene discus-so di seguito utilizzando due esempi in cui le esigenze speci-fiche di stabilità suggeriscono diversi meccanismi di stabiliz-zazione. Questi meccanismi sono trattati in dettaglio più avantinella discussione sulla stabilità dei colloidi. Di seguito vengo-no riportati due esempi di lavorazione di colloidi polimerici.

Formazione di film: coating della cartaI lattici polimerici o copolimerici preparati per applica-

zioni di coating (ricopertura superficiale) della carta fanno usodi monomeri stirenici, butadienici e acrilici, con vari modifi-canti aggiunti per migliorarne il comportamento e la stabilità.Per capire perché la stabilità sia così importante per il coating,bisogna prendere in considerazione le condizioni in cui si svol-ge il processo. La carta che deve essere ricoperta viene prepa-rata in lunghi veli che durante l’operazione di coating passa-no ad alta velocità attraverso varie aperture strette e lame chesottopongono il materiale a sforzi di taglio molto elevati. Il lat-tice viene spalmato in modo da ricoprire la carta grazie all’a-zione di queste lame. Per impedire l’aggregazione e l’accu-mulo di materiale polimerico in prossimità delle lame, il latti-ce deve essere stabile a sforzi di taglio corrispondenti a gradientidi velocità fino a 104-106 s�1. Per poter impartire al lattice sta-bilità in condizioni tanto estreme, si applicano delle combina-zioni accuratamente calibrate di meccanismi di stabilizzazio-ne basati su tensioattivi elettrostatici e sterici.

Aggregazione di lattici per estrusione Un’area di applicazione di materiali polimerici preparati

mediante polimerizzazione in emulsione è rappresentata daiprocessi di estrusione e stampaggio; tuttavia, per poter ali-mentare il polimero a un estrusore, le piccole particelle col-loidali devono dapprima essere separate dalla fase liquida. Ilmodo più semplice per farlo consiste nell’aggregarle in cluster

SUPERFICI E SISTEMI DISPERSI

180 ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI

Page 15: Encclopedia Degli Idrocarburi - SISTEMI COLLOIDALI

più grandi di dimensioni nell’ordine di 50 mm-1 mm, che pos-sono essere raccolti per sedimentazione, filtrazione o centri-fugazione. Questi processi di aggregazione sono condotti ingrossi recipienti sottoposti ad agitazione meccanica in cui illattice è miscelato con un adatto agente coagulante. Di conse-guenza il lattice deve essere sufficientemente stabile da noncoagulare nel reattore di polimerizzazione, ma non può esse-re troppo stabile perché altrimenti la sua aggregazione nel coa-gulatore successivo non sarebbe possibile. Questi vincoli sonotali da richiedere l’impiego di un meccanismo di stabilizza-zione elettrostatica, che impartisce una stabilità sufficiente nelprocesso di polimerizzazione, ma tale da poter poi essere dimi-nuita significativamente nel coagulatore variando opportuna-mente la concentrazione elettrolitica

Stabilità dei colloidi: effetti cinetici e termodinamici

Colloidi liofili e liofobi I colloidi liofili e liofobi (i quali, se il solvente è acqua,

vengono detti rispettivamente idrofili e idrofobi) mostrano unastabilità colloidale differente, che è di natura termodinamicanel primo caso e di natura cinetica nel secondo. Un sempliceesperimento illustra questo punto: dopo aver aggregato un lat-tice liofobo e aver separato la massa di polimero è quasi impos-sibile ridisperdere il materiale nel solvente. Ciò è invece pos-sibile, in condizioni adatte, con un materiale liofilo, come lagelatina o i cristalli di una proteina. La superficie dei colloidiliofili è solvatata, cioè circondata da molecole di solvente(acqua), e ciò impartisce al sistema una variazione di energialibera totale negativa (ovvero una tensione superficiale inter-facciale negativa) a seguito della sua dispersione, che ha comeeffetto la produzione di uno stato termodinamicamente stabi-le. I colloidi liofili possono essere considerati come delle macro-molecole complesse, tutte le parti delle quali interagiscono conil solvente, e l’idratazione spesso consiste nell’adsorbimentodiretto di molecole d’acqua in corrispondenza dei gruppi pola-ri di tutta la macromolecola. Tuttavia, è possibile modificarela capacità solvente dei siti liofili in modo da costringere il col-loide ad abbandonare le condizioni di equilibrio e a subire per-ciò una separazione di fase.

Nel caso dei colloidi liofobi invece, la variazione di ener-gia libera totale nel sistema a seguito della dispersione è posi-tiva (tensione superficiale interfacciale positiva) e perfino nelcaso di particelle molto piccole la maggior parte del materia-le rimane in uno stato di bulk che non interagisce con le mole-cole di solvente. Poiché i colloidi liofobi preferiscono termo-dinamicamente lo stato di bulk, essi sono intrinsecamente insta-bili e cercano sempre di evolvere verso tale stato. L’unicapossibilità per renderli stabili è, in questo caso, quella di ritar-dare tale processo, introducendo una barriera che impediscal’aggregazione delle particelle.

Stabilità cinetica Come detto in precedenza, l’energia termica (kBT, dove kB

è la costante di Boltzmann), sotto forma di moto browniano,induce delle collisioni tra le particelle, che provocano aggre-gazione. La stabilizzazione cinetica può essere ottenuta crean-do una barriera energetica che sia sufficientemente granderispetto all’energia termica, come mostrato schematicamentenella fig. 1.

Due meccanismi di stabilizzazione sono utilizzati in pre-valenza. Nel primo la superficie della particella viene caricata

elettricamente, creando in questo modo delle forze elettrosta-tiche repulsive. Il secondo meccanismo coinvolge l’aggiuntasulla superficie della particella di strati di polimero non-ioni-co che siano dotati di una qualche affinità per il liquido e perla fase colloidale e che impediscano alle particelle di avvici-narsi troppo tra loro, ingenerando in questo modo un mecca-nismo di stabilizzazione sterica. La combinazione di intera-zioni repulsive elettrostatiche e steriche impartisce una stabi-lità notevolmente superiore a quella che si può ottenereutilizzando un solo meccanismo.

Forze e potenziali interparticellari

Forze dispersive Le forze dispersive hanno carattere fortemente attrattivo.

Le molecole che costituiscono le particelle di polimero tipica-mente non possiedono dipoli permanenti. Tuttavia, in esse sonopresenti dei dipoli fluttuanti dovuti alla radiazione elettroma-gnetica di fondo, la cui entità dipende dalla polarizzabilitàmolecolare. Questi dipoli interagiscono con i dipoli indottinelle molecole circostanti, provocando l’insorgere di forzeattrattive a corto raggio, comunemente dette forze di van derWaals, mentre la sovrapposizione molecolare è impedita dallaforte repulsione che si sviluppa sulle scale di lunghezza dellenuvole elettroniche degli atomi. Il potenziale di dispersione(Vdispersione) che governa le attrazioni tra due particelle colloi-dali può essere calcolato considerando l’interazione esistentetra tutte le molecole presenti nella prima particella e tutte quel-le della seconda particella, e trascurando l’effetto delle mole-cole circostanti, mediante le seguenti espressioni:

dove A è la costante di Hamaker, che tiene conto dell’effettodelle proprietà del materiale, mentre i vettori posizione x ela distanza interparticellare r definiscono la geometria delsistema. L’espressione fornita sopra per la costante di Hamakersi applica a particelle immerse in un fluido di polarizzabi-lità differente, dove N rappresenta il numero di molecole che

V A d dr

r

dispersione VV= −

= −( ) ⋅∫∫π 2

1 2

6

2

1 2

21

x x

x x x11 2

2

0

3

8

−( )= ( ) − ( )

=

x

A k T N i N iB n nn

α ξ α ξ

SISTEMI COLLOIDALI

181VOLUME V / STRUMENTI

G

stato di aggregazione

colloide

aggregato

cineticamentestabile

instabile

fig. 1. L’aggiunta di una barriera energetica (G è l’energia libera di Gibbs) ritarda l’aggregazione del colloide a formare lo stato di bulk, termodinamicamentepreferito. La barriera può essere ottenuta sfruttando interazioni elettrostatiche o steriche.

Page 16: Encclopedia Degli Idrocarburi - SISTEMI COLLOIDALI

contribuiscono al potenziale e a(ixn) è la loro polarizzabilità,mentre N� e a�(ixn) sono le stesse quantità, ma riferite al fluidocircostante.

Le due geometrie più comuni per le quali sono state otte-nute espressioni analitiche esatte del potenziale di dispersionesono quella dei piatti paralleli semiinfiniti, per cui il potenzialeprende la forma:

e quella di due particelle sferiche identiche di raggio a, per laquale si ha:

Sebbene queste semplici equazioni riescano a mettere inevidenza il carattere relativamente a lungo raggio dell’attra-zione tra le particelle, l’accuratezza di questo approccio è limi-tata dall’ipotesi che tra le molecole agiscano delle sempliciinterazioni additive, ipotesi che non tiene conto della repul-sione a cortissimo raggio. Risultati migliori si ottengono impie-gando la teoria del continuo, che include interazioni a molticorpi tra le molecole polarizzate. Questa teoria poggia sul con-cetto di permettività dielettrica dipendente dalla frequenzacome proprietà centrale del materiale, ed è basata sulle equa-zioni di Maxwell. Soluzioni per le geometrie e le situazioni diinteresse nella scienza dei collodi, sebbene piuttosto compli-cate, sono comunque disponibili. Qui di seguito ci si riferiràspesso alle espressioni analitiche riportate sopra poiché, inragione della loro estrema semplicità, permettono di esseretrattate analiticamente, pur mantenendo le caratteristiche qua-litative delle espressioni più accurate.

Forze elettrostatiche Le forze elettrostatiche tra due particelle sferiche sono tipi-

camente repulsive e, in condizioni adatte, sono in grado dibilanciare le forze dispersive di attrazione, così da produrreuna dispersione colloidale stabile. L’origine delle cariche sulleparticelle colloidali responsabili delle forze elettrostatiche puòessere di vario tipo. Esse possono essere dovute al fatto che ilmateriale stesso possiede dei gruppi superficiali in grado diassumere una carica, come avviene per esempio nel caso dellasilice, oppure alla presenza di gruppi terminali del polimerointrodotti durante la polimerizzazione, che possono dare ori-gine a una carica, oppure ancora possono essere causate dal-l’adsorbimento di tensioattivi ionici in superficie.

Quando si prende in considerazione la soluzione elettroli-tica che circonda una superficie carica, è possibile distingue-re due regioni, in funzione della mobilità dei controioni in pros-simità della superficie. Nello strato compatto interno, profon-do pochi nanometri, i controioni sono legati alle carichesuperficiali e non si possono muovere. A distanze maggiori ilmoto termico diffusivo dei controioni prevale fino al punto incui l’effetto della presenza della superficie carica svanisce e siottiene un’elettroneutralità locale. Questo strato più esterno,solitamente chiamato strato diffuso, costituisce, insieme conlo strato interno, il doppio strato elettrico che caratterizza ilcomportamento delle superfici cariche nelle soluzioni elettro-litiche. La concentrazione dei controioni e, pertanto, il poten-ziale elettrico nel doppio strato possono essere descritti median-te opportuni bilanci di massa e carica.

Prendendo come esempio le superfici carbossilate, la cari-ca superficiale s è correlata al potenziale superficiale ψs tra-mite la seguente relazione, che contiene la costante di disso-ciazione, K, del gruppo carbossilico:

dove Gtot è la densità totale di siti che possono assumere unacarica, cioè in questo caso i gruppi carbossilici, e la carica ele-mentare e aH la concentrazione del controione nella soluzio-ne. Questa equazione descrive la relazione che lega la carica eil potenziale dello strato interno.

Gli ioni, di concentrazione n, nella porzione diffusiva deldoppio strato sono soggetti a moto termico e seguono la distri-buzione di Boltzmann:

dove nb è la concentrazione ionica nella massa del fluido e z èla valenza ionica. Sostituendo questa relazione nell’equazio-ne di Poisson per lo strato diffusivo, si ottiene la seguente equa-zione nonlineare di Poisson-Boltzmann:

(dove ere0 è la permettività) utilizzata come approssimazionedell’intero strato elettrico nella teoria di Gouy-Chapman, incui l’esistenza dello strato interno è ignorata. Poiché non esi-stono soluzioni analitiche per questa equazione, sono state svi-luppate varie soluzioni approssimate; una soluzione ragione-vole, accurata entro un errore del 5% se il termine ka (v. pocooltre) è maggiore di 0,5, è data da:

Il parametro adimensionale che determina la carica super-ficiale nella porzione diffusiva del doppio strato è rappresen-tato da k, il cui inverso, indicato in genere come lunghezza diDebye, rappresenta la distanza a cui la concentrazione dell’e-lettrolita è significativamente influenzata dalla presenza dellasuperficie carica, e che solitamente viene identificato con lospessore dello strato diffusivo. Esso è dato da:

dove I��k zk2nk�2 rappresenta la forza ionica della soluzione e

NA il numero di Avogadro. Quando due corpi carichi si avvicinano, i rispettivi doppi stra-

ti si sovrappongono, generando un potenziale interattivo repulsi-vo. Tale potenziale può essere calcolato dalla soluzione del model-lo del doppio strato descritto sopra. Per esempio, nel caso di duesfere uguali di raggio a, il potenziale repulsivo in funzione delladistanza tra le due sfere, r, può essere calcolato dalla seguenteespressione approssimata valida per potenziali superficiali bassi:

Questa equazione sottolinea la forte dipendenza del po-tenziale di interazione elettrostatica dalla forza ionica della

V r a relettrostatico r s( ) ln exp= + −( ) 2 10

π ε ε ψ k

k =2 2

0

N e Ik T

A

r Bε ε

σε ε

ψ

= − ⋅

( ) +

2

senh 22

0r B

s B

k Tez

e k Ta

k

k / taanh /e k Ts Bψ 4( )

1 2senh2

0r r

rr

eznez k Tb

rB

∂∂

∂∂

= ( ) ψ

ε εψ /

n n ez k Tb s B= − ( ) exp /ψ

σψ

= −+ −

e

aek T

K

tot

Hs

B

Γ

1 exp

A ar a

ar

rln= −

−+ +

−6

2

4

2 42

2 2

2

2

2

aar

2

2

V rdispersione( ) =

V r = Ardispersione( )

12 2−

π

SUPERFICI E SISTEMI DISPERSI

182 ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI

Page 17: Encclopedia Degli Idrocarburi - SISTEMI COLLOIDALI

soluzione, mediante la lunghezza di Debye k�1. Se le concen-trazioni ioniche sono molto basse nel bulk del fluido, a secon-da anche dell’entità del potenziale (carica) superficiale, disper-sioni di particelle cariche possono essere stabili cineticamenteper diversi anni. Tuttavia, al crescere della forza ionica dellasoluzione, la lunghezza di Debye diminuisce, e ciò significache la presenza della superficie carica viene avvertita a distan-ze inferiori. Questo fenomeno viene spesso indicato come com-pressione del doppio strato ed è tipicamente responsabile del-l’aggregazione di colloidi stabilizzati elettrostaticamente.

Forze dovute a macromolecole solubili (tensioattivi) Nelle dispersioni colloidali polimeriche sono spesso pre-

senti delle macromolecole solubili. Durante la polimerizza-zione, in funzione della solubilità del monomero, viene pro-dotta una piccola quantità di oligomeri che si adsorbono sullasuperficie delle particelle polimeriche. Spesso vengono aggiun-ti al lattice dei tensioattivi per migliorarne la stabilità. L’effet-to che tali polimeri solubili hanno sulla stabilità della disper-sione dipende dalle loro caratteristiche chimico-fisiche e dallaloro ripartizione tra fase liquida e superficie del polimero.

I tensioattivi ionici rappresentano un’ampia classe di oli-gomeri e polimeri solubili che si adsorbono sulla superficiedel lattice con le loro code idrofobe e ne migliorano la stabi-lità grazie alle interazioni elettrostatiche provocate dalle loroteste cariche protese verso la soluzione. Questo meccanismoè generalmente di tipo repulsivo, come si è discusso prece-dentemente nel contesto delle forze elettrostatiche.

Dall’altro lato, i tensioattivi non-ionici possono mostrareinterazioni repulsive o attrattive. Alcune macromolecole nonsi adsorbono sulla superficie del lattice ma rimangono in faseliquida, provocando generalmente l’insorgere di interazioniattrattive deboli o moderate tra le particelle. Altre invece siadsorbono sulla superficie del lattice irreversibilmente oppu-re in maniera almeno parzialmente reversibile. L’adsorbimen-to irreversibile può essere ottenuto tramite aggraffaggio sullasuperficie mediante legami covalenti, oppure utilizzando, peresempio, un copolimero la cui coda liofoba si attacchi ferma-mente sulla superficie, mentre la coda liofila rimane in solu-zione. Se la coda liofoba viene scelta in maniera appropriata,questo adsorbimento può essere considerato permanente. Nellamaggior parte dei casi i tensioattivi non-ionici si adsorbonosulla superficie in corrispondenza di punti casuali lungo la lorocatena, laddove altre sezioni rimangono ancora in soluzioneper ragioni entropiche. In tutti questi sistemi, il ricoprimentodella superficie e l’interazione delle macromolecole con il sol-vente determinano se le forze interparticellari sono attrattiveo repulsive. Qui di seguito verranno discussi in dettaglio duecasi specifici.

Forze di deplezione. Le macromolecole che non sono ingrado di adsorbirsi e le particelle colloidali in dispersione ten-dono a realizzare una distribuzione spaziale omogenea al finedi minimizzare i gradienti di concentrazione. Le dimensioni ela configurazione spaziale di una catena macromolecolare sonodate dal suo raggio di girazione Rg, mentre la dimensione diuna particella colloidale sferica è data semplicemente dal suoraggio R. Nella maggior parte dei casi la particella colloidaleè significativamente più grande della macromolecola. Pertan-to, attorno a ciascuna particella colloidale possiamo identifi-care una guscio di spessore approssimativamente uguale a Rg,entro cui il centro di massa della macromolecola non è in gradodi entrare. Se due particelle colloidali si avvicinano a una distan-za minore di 2Rg, come spesso accade per effetto del loro moto

browniano, le macromolecole sono escluse da questa regione.Ciò provoca un aumento della pressione osmotica delle macro-molecole, che si trovano confinate in un volume inferiore. Ilvolume escluso può tuttavia essere minimizzato portando tuttele particelle colloidali in condizioni di contatto più ravvicina-to. Il risultato netto è che le macromolecole escluse creanoun’attrazione effettiva tra le particelle, denominata forza dideplezione (depletion), la cui intensità dipende dal rapporto trale dimensioni (Rg �R) corrispondente al volume escluso. Inprima approssimazione, è possibile correlare il potenziale cor-rispondente a queste forze di deplezione alla densità numeri-ca delle macromolecole per volume libero di dispersione, cm

F

in questo modo:

I valori di questo potenziale attrattivo sono tipicamente del-l’ordine di 1-5 kBT. Si tratta pertanto di un’interazione relati-vamente debole che, quando sono presenti forze dispersive edelettrostatiche, generalmente non gioca un ruolo significativo.La preparazione di colloidi aventi come uniche forze di inte-razione le forze di deplezione, ha permesso di mettere in evi-denza alcuni fenomeni, come le separazioni di fase, che ver-ranno discussi più avanti.

Stabilizzazione sterica. L’interazione tra due superfici chesi avvicinano ricoperte da catene macromolecolari è regolatadalla concentrazione crescente delle catene nello spazio chesepara le due superfici, che provoca un aumento della pres-sione osmotica. Questa esercita una forza normale alla super-ficie, il cui risultato è una repulsione netta tra le particelle. Sva-riati fattori influenzano queste interazioni.

La struttura spaziale di una macromolecola flessibile èdeterminata dalle sue interazioni con il solvente e può esserecaratterizzata in modo molto semplice attraverso il cosiddettovolume escluso di interazione di coppia, v, il quale sta a signi-ficare, semplicemente, che esse non possono sovrapporsi. Nelcosiddetto stato theta v�0, le attrazioni dispersive tra i diver-si segmenti della catena sono bilanciate dal volume escluso eil polimero si comporta quasi idealmente. In buoni solventi,per i quali v�0, le configurazioni disponibili alla catena sonoridotte dal volume escluso e il polimero si rigonfia per ridur-re la sua accresciuta energia libera. Il rigonfiamento è peròlimitato dalla elasticità delle catene, da cui consegue il rag-giungimento di uno stato rigonfiato di equilibrio. In cattivi sol-venti, ovvero nel caso in cui v�0, le catene collassano e occu-pano un volume inferiore, raggiungendo al limite la densità delpolimero in massa.

La stabilità colloidale prodotta da macromolecole aggraf-fate sulla superficie del polimero o da copolimeri dotati di unaramificazione fortemente liofoba dipende soprattutto dallospessore, �, dello strato polimerico, dal volume escluso, v, edal grado di ricoprimento superficiale, Fp. Le ramificazionipolimeriche libere si estendono entro la soluzione, e in solventitheta e buoni solventi esse tendono ad accrescere il loro volu-me disponibile allungandosi verso la soluzione. A bassi gradidi ricoprimento, Fp�1, gli strati polimerici possono interpe-netrarsi finché le superfici cominciano a comprimere le cate-ne polimeriche in corrispondenza di separazioni nell’ordine diuno strato polimerico, �. A gradi di ricoprimento maggiori,1�Fp�3, questa repulsione già comincia a verificarsi a sepa-razioni maggiori, intorno a 2�. In cattivi solventi a bassi gradidi ricoprimento, Fp�1, le catene possono mostrare un mini-mo attrattivo che, tuttavia, può scomparire quando il ricopri-mento cresce a causa dei contributi elastici repulsivi. Le forze

V k Tcdeplezione B mF�

SISTEMI COLLOIDALI

183VOLUME V / STRUMENTI

Page 18: Encclopedia Degli Idrocarburi - SISTEMI COLLOIDALI

dispersive comunemente presenti possono essere vinte per assi-curare la stabilità colloidale variando opportunamente lo spes-sore dello strato polimerico. Questo deve semplicemente esten-dersi oltre il campo d’azione delle forze dispersive, il che signi-fica che attaccando delle macromolecole abbastanza lunghealla superficie della particella è possibile ottenere una stabi-lizzazione molto robusta. Se un sistema di questo tipo vieneoriginariamente preparato in un buon solvente, l’aggregazio-ne può, comunque, essere ottenuta rendendo il solvente catti-vo per aggiunta di un adatto co-solvente, oppure variando latemperatura.

Le macromolecole adsorbite non irreversibilmente pre-sentano proprietà sostanzialmente simili, in funzione del rico-primento, dello spessore dello strato (che è proporzionale alpeso molecolare) e della qualità del solvente, sebbene alcunedelle loro caratteristiche siano abbastanza complesse. Prima ditutto, esse possono desorbire dalla zona che separa le particellein avvicinamento, per evitare l’aumento della pressione osmo-tica che deriva dalla loro compressione. In secondo luogo, laparte terminale della macromolecola che non è adsorbita sullasuperficie della particella di riferimento ed è protesa verso lasoluzione, può adsorbirsi con la sua parte terminale libera suun’altra particella che abbia delle zone superficiali libere, purmantenendosi attaccata alla particella di riferimento. Ciò deter-mina la formazione di un legame tra le particelle, che vienechiamato aggregazione a ponte. Questi fattori addizionali sonoparticolarmente importanti in condizioni di basso ricoprimen-to, in cui vi sono zone di superficie che rimangono prive dipolimero. Ciononostante, con dei buoni solventi o dei solven-ti theta, uno spessore sufficiente dello strato e un ricoprimen-to elevato, anche queste macromolecole adsorbite reversibil-mente sono in grado di fornire una stabilità sufficiente alle par-ticelle colloidali. In caso di cattivi solventi e a gradi diricoprimento più bassi, tuttavia, le attrazioni dominano le inte-razioni, e quindi si osserva un’aggregazione. Il potenziale diinterazione per le macromolecole attaccate è convenientementedescritto sotto forma di somma di un contributo osmotico e uncontributo elastico.

Combinazione di forze di interazione e additività dei potenziali

Nella maggior parte delle applicazioni è presente una com-binazione di forze di interazione tra le particelle polimeriche,non soltanto un tipo. Tutte queste forze devono essere oppor-tunamente sommate per poter stimare il potenziale di intera-zione totale. Il metodo più semplice e più comunemente uti-lizzato è basato sulla cosiddetta teoria DLVO (Derjaguin, Lan-dau, Verwey, Overbeek), che ipotizza una semplice additivitàdei potenziali interattivi, data da:

La versione originale di questa teoria è stata sviluppataper colloidi liofobi e incorpora il contributo di forze disper-sive ed elettrostatiche. Le estensioni successive hanno presoin considerazione anche i contributi sterici espressi nei ter-mini elastici e osmotici. Mentre l’ipotesi di additività sembraessere un’approssimazione adeguata quando si consideranole interazioni steriche e dispersive, la situazione è meno chia-ra quando si trattano le forze dispersive ed elettrostatiche, chesono entrambe di natura elettromagnetica; in questo caso ènecessario sviluppare una descrizione più dettagliata del campo

elettromagnetico. Ciononostante, espressioni dei potenzialiinterparticellari basate sulle argomentazioni semplificate descrit-te sopra sono in grado di fornire un utile strumento per com-prendere il comportamento in termini di stabilità delle disper-sioni colloidali.

Cinetica di aggregazione e rapporto di stabilità La forma della curva del potenziale di interazione inter-

particellare controlla l’aggregazione di una dispersione col-loidale. Nel caso in cui il potenziale abbia soprattutto un carat-tere repulsivo, l’aggregazione delle particelle è impedita, lad-dove invece un forte potenziale attrattivo a corto raggio provocaaggregazione. I legami tra le particelle nel contesto del pro-cesso di aggregazione qui considerato sono permanenti e irre-versibili sulla scala di energie del moto browniano, cioè quel-la dell’energia termica, kBT. Un potenziale attrattivo, pertan-to, consente a due particelle qualsiasi che collidano a causa delloro moto browniano di formare un aggregato. Di conseguen-za, la cinetica di aggregazione corrispondente tra due parti-celle primarie è la più rapida.

Nel caso in cui, oltre a quello attrattivo, sia presente uncontributo repulsivo del potenziale interparticellare, la costan-te di velocità massima è ridotta di un fattore chiamato rappor-to di stabilità di Fuchs, definito come il rapporto tra la costan-te di velocità di aggregazione più rapida e quella effettivamenteosservata. I modi utilizzati per calcolare questo importanteparametro verranno discussi in maggior dettaglio più avanti.Qui è sufficiente notare che il calcolo può essere eseguito sullabase dell’espressione del potenziale di interazione totale, deltipo di quella discussa nel paragrafo precedente. Il valore delrapporto di stabilità determina la scala temporale di aggrega-zione per una certa dimensione delle particelle e per una dataconcentrazione numerica di particelle primarie. In particolare,l’aumento del valore del rapporto di stabilità corrisponde a col-loidi via via più stabili cineticamente.

Equilibrio, transizione di fase e separazione di fase Il potenziale di interazione determina anche processi quali

le transizioni di fase. Le condizioni che determinano se una disper-sione colloidale possa o no raggiungere l’equilibrio termodina-mico dipendono in maniera sostanziale dalla scala temporale deiprocessi fondamentali. L’aggregazione descritta nel paragrafoprecedente è un esempio di processo distante dalle condizioni diequilibrio, poiché i legami tra un numero qualunque di particel-le primarie sono sostanzialmente permanenti. La configurazio-ne spaziale assunta dalle particelle a seguito dell’aggregazionenon è in grado di risistemarsi in un’altra più favorevole dal puntodi vista termodinamico. È una struttura ‘congelata’.

D’altro canto, nel caso in cui le attrazioni sono più debolie confrontabili all’energia termica, è possibile rompere i lega-mi e riarrangiare la struttura in modo da raggiungere l’equili-brio termodinamico. Un modo semplice di quantificare ciò èquello di stimare la scala temporale per la rottura dei legamida parte dell’energia termica in funzione della profondità delpotenziale di interazione attrattiva. Ciò può essere fatto consi-derando la rottura dei legami come un problema di diffusioneper uscire da una buca di potenziale superando una barrieraenergetica, che in questo caso è fornita dal minimo del poten-ziale attrattivo. In questo modo si ottiene la seguente espres-sione del tempo caratteristico corrispondente:

τ µ�

6 3π Rk T

Vk TB B

exp −

max

Vela+ sstico osmotico deplezioneV V+ +

V V Vtotale dispersione elettrostatico= + +

SUPERFICI E SISTEMI DISPERSI

184 ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI

Page 19: Encclopedia Degli Idrocarburi - SISTEMI COLLOIDALI

dove m rappresenta la viscosità del liquido. Semplici stimemostrano che per minimi attrattivi intorno a 1-5 kBT, la rottu-ra dei legami è abbastanza rapida da permettere al sistema col-loidale di raggiungere l’equilibrio, laddove minimi nell’ordi-ne di 10-30 kBT di solito garantiscono la formazione di lega-mi permanenti sulle scale temporali sperimentali.

I colloidi possono mostrare una gran varietà di comporta-menti relativi alle transizioni di fase, a cui accenniamo breve-mente. Un comportamento tipico è quello innescato dalle inte-razioni attrattive deboli discusse sopra. In condizioni speri-mentali adatte, tra le quali giocano un ruolo fondamentale ladensità relativa colloide-liquido e la frazione volumetrica delsolido, la dispersione può mostrare una separazione di fase inuna fase ricca di colloide, più densa, e una fase acquosa conuna frazione volumetrica di solido molto più bassa di quellamedia. Inoltre, la fase ricca di colloide può formare una strut-tura cristallina, le cui particelle sono sistemate in allineamen-ti periodici. Questo si contrappone con il comportamento dicolloidi stabili più diluiti, dove non è presente, tipicamente,alcun ordine strutturale su scale di lunghezza maggiori di quel-la delle dimensioni delle particelle primarie.

Un’altra tipica transizione, che si verifica nel caso in cuidominano le forze repulsive a corto raggio e non è presentealcuna attrazione (sfere rigide), è la transizione vetrosa colloi-dale. Aumentando la frazione volumetrica solida delle sfererepulsive, il sistema diventa sempre più affollato e le particel-le si ostacolano le une con le altre nei loro processi diffusivi edi rilassamento. Poiché le particelle si bloccano reciprocamente,pur non mostrando alcun ordine spaziale significativo, subi-scono una transizione di fase, trovandosi ora in uno stato dinon-equilibrio. In questo stadio, il sistema si comporta, dalpunto di vista macroscopico, come un solido, e quindi è ingrado di resistere all’applicazione di forze di scorrimento enon fluisce. Le particelle non sono in grado di cambiare la loroposizione, né di riarrangiarsi per assorbire le tensioni. La rispo-sta meccanica del sistema colloidale è parzialmente elastica.

Le transizioni a due fasi descritte sopra, che certamente nonsono le uniche possibili, giocano un ruolo di una certa impor-tanza nelle applicazioni dei lattici polimerici. La separazionedi fase può infatti limitare il periodo di utilizzabilità delle pit-ture, mentre i cosiddetti fenomeni di ‘intasamento’, dove le con-figurazioni dense delle particelle si oppongono al flusso, comeavviene nella transizione vetrosa colloidale, possono aumenta-re la viscosità apparente dei lattici a frazioni volumetriche disolidi molto elevate e rendere difficoltosa la loro lavorazione.

Cinetica di aggregazione e struttura degli aggregati

Aggregazione rapida

Cinetica del processo di aggregazioneNel caso in cui non esista alcuna barriera repulsiva tra le

particelle, cioè quando Vtotale(r) è una funzione monotonamentecrescente, la velocità di aggregazione tra le particelle è intera-mente controllata dal moto browniano. Questa situazione vienedetta aggregazione rapida o aggregazione di cluster in regimediffusivo (DLCA, Diffusion Limited Cluster Aggregation). Cal-coliamo la velocità di flusso, F, delle particelle che si aggre-gano su un’unica particella di riferimento. Per fare ciò, notia-mo che la velocità di flusso F di particelle identiche che diffon-dono attraverso una sfera il cui centro sia rappresentato da unaparticella di riferimento è data da:

con N�N0 per r�� (nel bulk del fluido), dove N è la concen-trazione delle particelle, r la coordinata radiale la cui originecorrisponde al centro della particella e D11 il coefficiente dimutua diffusione che, essendo entrambe le particelle in colli-sione soggette a moto browniano, è pari a due volte il coeffi-ciente di autodiffusione, cioè D11�2D. In condizioni di statostazionario, cioè F�cost, il profilo di concentrazione delle par-ticelle è dato da:

Assumendo che al contatto la seconda particella spariscaa causa della coagulazione (il che corrisponde alla condizioneal contorno N�0 a r�R11, dove R11�2R è il raggio di colli-sione e rappresenta la condizione di gradiente massimo possi-bile), si ottiene la seguente espressione per la velocità di aggre-gazione delle particelle sulla singola particella considerata:

Si può ora calcolare la velocità (R0agg) con cui diminuisce

la concentrazione delle particelle nel cuore del fluido a causadel processo di aggregazione:

dove il fattore 1/2 è necessario per contare ciascun evento solouna volta. Nell’espressione sopra riportata è stata introdotta lacostante di velocità di aggregazione b11�4pD11R11, che giocalo stesso ruolo di una costante di velocità di reazione in unacinetica del secondo ordine. Se le particelle hanno le stessedimensioni, questa si riduce a:

Utilizzando l’equazione di Stokes-Einstein per calcolareD�kBT/(6phR), dove h è la viscosità dinamica del mezzo, siottiene la seguente costante di velocità indipendente dalle dimen-sioni, valida per condizioni di aggregazione veloce:

Nel caso di due particelle di diverso raggio, Ri e Rj, si rica-va invece:

Un esame attento di questa equazione rivela che la costan-te di velocità di aggregazione è indipendente dalla dimensio-ne delle particelle, se queste hanno le stesse dimensioni, mapuò crescere di diversi ordini di grandezza quando si conside-rano due particelle di dimensioni molto diverse tra loro. Per-tanto, possiamo concludere che in queste condizioni l’aggre-gazione tra particelle piccole e grandi è molto più efficace del-l’aggregazione tra particelle delle stesse dimensioni.

Distribuzione di massa dei cluster Durante l’aggregazione si formano cluster di varie dimen-

sioni e masse. Per descrivere questa distribuzione, spesso larga,di masse aggregate, si scrive un bilancio di massa per ciascu-

ηB

i j i j

k TR R R R= + +−2

3

1( )( −−1)

βij i j i jD D R R= + + =4π( )( )

βη11

8

3=

k TB

β11

16= π DR

R N F DR N Nagg0

0 11 0

2

11 0

21

24

1

2= − = − = −π β

F D R N= 411 11 0

π

N N FD r

= −0

114

1

π

F r D dNdr

= 4 2

11π

SISTEMI COLLOIDALI

185VOLUME V / STRUMENTI

Page 20: Encclopedia Degli Idrocarburi - SISTEMI COLLOIDALI

na singola massa aggregata presente nel sistema. Ogni aggre-gato di massa k può essere formato da varie combinazioni diaggregati più piccoli, ma può a sua volta aggregarsi con qual-siasi altro aggregato per formarne di più grandi. L’equazioneottenuta considerando la formazione dell’aggregato e l’ulte-riore aggregazione di aggregati di massa k è nota con il nomedi equazione di bilancio di popolazione (PBE, Population Bala-nce Equation), detta anche equazione di aggregazione di Smo-luchowski:

dove Nk è la concentrazione numerica degli aggregati di massa ke il primo termine a secondo membro rappresenta tutte le possi-bili collisioni che portano alla formazione di un aggregato dimassa k, mentre il secondo è la velocità di scomparsa degli aggre-gati di massa k dovuta all’aggregazione con aggregati di qual-siasi massa. La soluzione dell’equazione di bilancio di popola-zione permette di ottenere la distribuzione di massa dei clusterper diversi regimi di aggregazione, che si riassumono nella formaparticolare assunta dalla costante di velocità di aggregazione bij,determinata dal meccanismo di aggregazione prevalente.

Una soluzione analitica dell’equazione di bilancio di popo-lazione sopra riportata può essere derivata nel caso in cui la costan-te di velocità di aggregazione è costante al variare delle dimen-sioni, cioè bij�b11. In particolare, sommando a entrambi i mem-bri dell’equazione la concentrazione degli aggregati, cioè:

si ottiene l’equazione:

che, per integrazione, avendo posto la condizione inizialeN(t�0)�N1

i, dà:

È utile definire un tempo caratteristico di coagulazione, inquesto caso di coagulazione rapida, tRC, che è il tempo neces-sario a dimezzare il numero iniziale di particelle:

Per particelle di dimensioni uguali l’equazione preceden-te si riduce a:

che, per una sospensione acquosa a temperatura ambiente eper una tipica concentrazione numerica di particelle pari aN1

i�2�1014 cm�3, fornisce un valore di tRC dell’ordine dei mil-lisecondi.

L’espressione corrispondente della distribuzione di massadei cluster è data da:

dove il tempo è stato reso adimensionale utilizzando il tempodi coagulazione rapida, cioè t�tRC. Vale la pena notare chequesta espressione è in grado di fornire un’approssimazione

abbastanza ragionevole dell’effettiva distribuzione di massadei cluster ottenuta in condizioni di aggregazione veloce.

Struttura degli aggregati Per risolvere l’equazione di Smoluchowski nel caso gene-

rale in cui la costante di velocità di aggregazione dipenda dalledimensioni dei cluster, cioè sia data dalla succitata espressione:

è necessario collegare bij direttamente alle masse i e j dei duecluster in collisione. Di conseguenza, è necessario trovare unarelazione tra la dimensione Ri di un aggregato e la sua massai, che permetta di descrivere quanto grande sia un aggregatodotato di una certa massa i. In altre parole, abbiamo bisognodi una descrizione quantitativa della struttura dell’aggregato.

Se assumiamo che gli aggregati siano costituiti da sferesolide prive di vuoti, la relazione è semplice:

dove ρ rappresenta la densità delle particelle e m0 la massadelle particelle primarie. Questa relazione, se riportata in ungrafico log-log di Ri in funzione di i, corrisponde a una linearetta con pendenza pari a 1/3. Essa viene utilizzata nel caso difenomeni di coalescenza, quando particelle più piccole (peresempio di un liquido) si aggregano per formare un’unica par-ticella. In questo caso, sostituendo nell’equazione di bij ripor-tata sopra, è possibile ottenere la seguente espressione per lacostante di velocità di coalescenza:

Utilizzando simulazioni tipo Monte Carlo e misure di scat-tering della luce si è mostrato che una linea retta simile vieneottenuta anche per aggregati non coalescenti in un ambientenon sottoposto a sollecitazione, definendo come dimensionedegli aggregati, Ri, il raggio della sfera più piccola che circon-da l’intero cluster. Questa è la dimensione che è stata tacita-mente utilizzata in precedenza per calcolare il coefficiente diautodiffusione dell’aggregato non coalescente mediante l’e-quazione di Stokes-Einstein.

Si è osservato che la struttura di questi aggregati si man-tiene simile a sé stessa per svariate scale di lunghezza, e ciòsignifica che le caratteristiche strutturali si ripetono su scalepiù grandi, e anche più piccole. Questo comportamento corri-sponde alla definizione di autosomiglianza, cioè di frattalitào struttura frattale, in questo caso degli aggregati colloidali.

La differenza rispetto alla coalescenza risiede nel fatto chein questo caso la pendenza della linea retta è molto più gran-de a causa dei molti vuoti che sono presenti nella struttura degliaggregati, ed è definita come 1/df , dove df rappresenta la dimen-sione frattale. In molte applicazioni df va da 1,5 a 3,0. Se accet-tiamo che gli aggregati abbiano una struttura frattale, è possi-bile scalare le loro dimensioni con la loro massa:

e ottenere da qui la seguente espressione per la costante di velo-cità di aggregazione:

βηijB

d d

d dk T

i ji j

f f

f f= +

+( )2

3

1 11 1

1 1

/ /

/ /

R iid f≈ 1

βηijBk T

i ji j= +

+( )2

3

1 11 3 1 3

1 3 1 3

/ /

/ /

iR

mi

=

4

3

0

r p 3

βηijBk T

=2

3( + )( + )1 1R R R Ri j i j

− −

N Nt

tk

i

k

k=( )+( ) +1

1

1

1

τ

τ

-

tk TN NRC

Bi i= ≈ ⋅3

4

2 10

1

11

1

η

t N D R NRCi i= =2 1

211

1 11 11 1βπ

1 1 1

21

11N Nti= + β

dNdt

N N N= − = −1

2

1

211

2

11

2

11

2β β β

N Nkk

==

∑1

dNdt

N N N Nkij i j

i j kk ik i

i= −

+ =∑ ∑1

2β β

SUPERFICI E SISTEMI DISPERSI

186 ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI

Page 21: Encclopedia Degli Idrocarburi - SISTEMI COLLOIDALI

che può essere utilizzata per risolvere numericamente l’equa-zione di aggregazione di Smoluchowski in condizioni di regi-me diffusivo. In condizioni di aggregazione limitata dalla dif-fusione il valore della dimensione frattale tipicamente va da1,6 a 1,9. Ciò significa che i cluster in regime diffusivo pre-sentano strutture piuttosto aperte.

Aggregazione lenta

Cinetica del processo di aggregazioneSe è presente una barriera energetica repulsiva, cioè se il

potenziale interparticellare, Vtotale(r), mostra un massimo, ilprocesso di aggregazione diventa più lento che nel regime dif-fusivo descritto sopra, e quindi la sua cinetica è controllata dalvalore della barriera di energia che deve essere oltrepassataaffinché l’aggregazione possa avvenire. Questo processo vienespesso detto di aggregazione lenta, o aggregazione di clusterin regime chimico (RLCA, Reaction Limited Cluster Aggre-gation). In questo caso, per calcolare la velocità di flusso Fdelle particelle che entrano in una sfera di raggio r avente ilcentro su una particella data, bisogna considerare non solo ilgradiente di concentrazione delle particelle, cioè la diffusionebrowniana, ma anche il gradiente del potenziale interparticel-lare.

In particolare, il gradiente di potenziale produce sulla par-ticella una forza ‘fantasma’:

contrastata dalla forza d’attrito che può essere calcolata dallalegge di Stokes, fF�Bu, dove B�6phRp rappresenta il coeffi-ciente d’attrito per una sfera di raggio Rp in un mezzo con visco-sità dinamica h. Le due forze si equilibrano una volta che laparticella raggiunge la velocità terminale relativa, ud. Ciò impli-ca un flusso convettivo di particelle dato da:

che si sovrappone al flusso diffusivo:

dove 2D è il coefficiente di mutua diffusione delle particelle.Di conseguenza il flusso F di particelle che si aggregano suuna particella singola, che in condizioni stazionarie è costan-te al variare di r, è dato da:

dove, utilizzando l’equazione di Stokes-Einstein, il fattore diattrito può essere rappresentato in termini del coefficiente diautodiffusione come B�kBT/D. Utilizzando la condizione alcontorno Vtotale�0, N�N0 per r���, questa equazione puòessere integrata con il seguente risultato:

da cui, dato che N�0 per r�2Rp, è possibile ottenere:

Si noti che per Vtotale�0 si ottiene F�8pDN0(2Rp), che èil medesimo valore calcolato precedentemente per l’aggrega-zione in regime diffusivo. Se si ricorda la definizione di costan-te di velocità di aggregazione, b�FN, è possibile concludereche FDLCA/F�bDLCA/b. Questo parametro, introdotto prece-dentemente trattando della stabilità dei lattici, è estremamen-te importante nella scienza dei colloidi, e solitamente vienechiamato rapporto di Fuchs o di stabilità, W.

Considerando attentamente il comportamento della fun-zione (Rp /r)2exp[Vtotale/(kBT )] nell’equazione per il calcolo delrapporto di stabilità si osserva che il valore del suo integralepuò essere correlato al massimo del potenziale interparticel-lare, Vtotale,max, ed è possibile derivare la seguente espressioneapprossimata per W:

dove 1�k è lo spessore dello strato diffusivo definito in prece-denza nel paragrafo sulla stabilità colloidale. Utilizzando que-sta relazione è possibile calcolare i valori di W che corrispon-dono ai valori di Vtotale,max tipici nelle applicazioni e, di qui,seguendo la medesima procedura utilizzata nel paragrafo pre-cedente per l’aggregazione in regime diffusivo, possiamo sti-mare il corrispondente semitempo di coagulazione che è, t1�2��2N1

t�b11. Considerando di nuovo il valore tipico della con-centrazione particellare numerica N1

t�2�1014 cm�3, si otten-gono i risultati riportati in tab. 1.

I valori in tabella indicano chiaramente il significato dellastabilizzazione cinetica, dato che con una modesta barriera ener-getica è possibile ritardare il processo di coagulazione da mil-lisecondi a giorni o mesi. Si noti che il valore di W tende a esse-re molto sensibile a piccole variazioni di carica o potenzialesuperficiale. In particolare, in condizioni tipiche di interessepratico, una variazione di W di dieci volte viene ottenuta conuna variazione di circa il 15% di Vtotale,max e con una variazio-ne del 7% del potenziale superficiale, ψs. Ciò rende non prati-cabile il calcolo di W a partire da misure di ψs; è perciò racco-mandabile stimare il rapporto di stabilità direttamente dallacinetica di aggregazione delle particelle primarie, cioè da b11.

Poiché la forza ionica della soluzione influenza in manie-ra notevole il potenziale di interazione interparticellare attra-verso il parametro di Debye k�1, ci si aspetta un effetto simi-le sul rapporto di stabilità. La fig. 2 mostra i valori del rappor-to di stabilità W di un colloide dotato di carica negativa infunzione della concentrazione dell’elettrolita, cE, per elettro-liti caratterizzati da valori diversi della valenza. Nel grafico èpossibile identificare due regioni. Nella prima, dove W�1, sivede che il rapporto di stabilità diminuisce in modo notevolecon la concentrazione dell’elettrolita e che il suo valore è anche

WR

Vk Tp

totale

B

1

2kexp

,max

FDNVk T

drr

totale

BRp

=

80

22

π

exp

FVk

totale

+⋅ −exp

BB

r

totale

B

TD

Vk T

drr

8 2π��

exp

N NVk T

totale

B

= −

+

0exp

F r D dNdr

NB

dVdr

totale= +

4 22π

J D dNdr

= −2

J u N NB

dVdrd

totale= = −

fdV

drdtotale= −

SISTEMI COLLOIDALI

187VOLUME V / STRUMENTI

tab. 1. Parametri coinvolti nel processo di aggregazione

Vtotale,max � 0 kBT 15 kBT 25 kBT

W 1 105 109

t1/2 (s) tRC�10�3 102 106

Page 22: Encclopedia Degli Idrocarburi - SISTEMI COLLOIDALI

influenzato fortemente dalla valenza dei controioni che, in que-sto caso, essendo il lattice dotato di carica negativa, sono deicationi. Questa perdita di stabilità è dovuta all’effetto di com-pressione del doppio strato menzionato sopra, per il quale al cre-scere della forza ionica della soluzione lo spessore del doppiostrato, cioè il parametro di Debye k�1, diminuisce. La secondaregione, dove W�1, corrisponde a condizioni in cui l’aggrega-zione avviene in regime diffusivo, e non è influenzata dalla pre-senza di un elettrolita. L’intersezione delle due rette indica lacosiddetta concentrazione critica di coagulazione (ccc), che è laminima concentrazione di elettrolita in corrispondenza della qualela barriera energetica che contrasta l’aggregazione svanisce.

Struttura degli aggregati Abbiamo visto che nel caso di particelle primarie in regi-

me chimico la costante di velocità di aggregazione è data da:

È ora necessario estendere questa costante all’aggregazio-ne di due cluster di masse i e j, rispettivamente. Un modo di con-siderare il problema consiste nell’ipotizzare che l’aggregazionedi due cluster avvenga attraverso l’interazione delle due parti-celle primarie che per prime vengono in contatto su ciascunaggregato. Ciò ha due conseguenze rilevanti. Anzitutto, l’inte-razione aggregato-aggregato può essere approssimata dall’inte-razione tra due particelle primarie che collidono, descritta dalrapporto di stabilità W. Si può ipotizzare che le interazioni conle altre particelle siano troppo a corto raggio per poter essererilevanti. In secondo luogo, la velocità di aggregazione dipendedalla probabilità di collisione tra le particelle primarie sulla super-ficie del cluster, che è proporzionale alla probabilità di avereuna particella primaria sulla superficie esterna di un cluster.

Utilizzando le leggi di scala frattali che descrivono la strut-tura degli aggregati è possibile, sebbene in maniera molto sem-plificata, calcolare per un generico cluster di massa k la varia-zione del numero di particelle primarie in funzione della suadimensione, Rk, nel modo seguente:

Moltiplicando questa equazione per il raggio delle parti-celle primarie, Rp, si ottiene il numero di particelle primarieche si aggiungono sull’ultimo strato di aggregato:

Ciò significa che la costante di velocità di aggregazionedovrebbe essere accresciuta di un fattore k(df �1)�df se si consi-dera la probabilità di collisione delle particelle primarie inve-ce della probabilità di collisione dei cluster. Con questo risul-tato è possibile dedurre un’espressione finale per la costantedi velocità di aggregazione in regime chimico:

dove l�(df�1)�df , che per un tipico valore di df�2 dà l�0,5,valore che ha effettivamente ottenuto validazioni sperimenta-li che verranno discusse in seguito.

A causa della presenza della barriera energetica, in condi-zioni di controllo chimico gli aggregati non rimangono attacca-ti gli uni agli altri in seguito alla prima collisione, ma devonosondare diverse possibili configurazioni di collisione prima chel’aggregazione possa effettivamente avvenire. Per questo moti-vo gli aggregati che ne risultano sono più densi di quelli che siformano in regime diffusivo, dal momento che essi possonopenetrare più profondamente gli uni entro gli altri senza aggre-garsi immediatamente. Di conseguenza gli aggregati frattali assu-mono una dimensione frattale più bassa, circa uguale a 2,1.

Distribuzione di massa dei cluster Dalla soluzione numerica dell’equazione di Smoluchow-

ski, utilizzando la costante di velocità di aggregazione bij, deri-vata sopra in condizioni di controllo chimico, è possibile otte-nere la corrispondente distribuzione delle masse dei cluster. Siè scoperto che queste distribuzioni mostrano alcune caratteri-stiche generali che sono proprie dell’aggregazione in regimechimico in condizioni stagnanti e sono significativamente diver-se da quelle discusse in precedenza per il caso dell’aggrega-zione in regime diffusivo. Una forma generale della distribu-zione di massa dei cluster è data da:

dove A è una costante di normalizzazione determinata dallaconservazione della massa totale nel sistema ed è data da:

in cui G(x) è la funzione gamma e kc è la massa a cui vienetagliata la distribuzione che cresce esponenzialmente con il

A N kc= −( )−0

2 2τ τΓ

N t Ak k kk c( ) exp /= −( )−τ

ββ λ

ijij

Wij= ( )

DLCA

R dkdR

d kpk

fd df f= −( ) /1

dkdR

dR

RR

dR

kk

f

p

k

p

d

f

p

d df

f f=

=

−−( )

1

1 /

ββ

11

11 =

DLCA

W

SUPERFICI E SISTEMI DISPERSI

188 ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI

log

W

4

�1

0

1

2

3

log cE

�1�2 3210

Ba(NO2)2 KNO3La(NO3)3fig. 2. Andamenti tipici del rapporto di stabilità Wdi un colloide cariconegativamente in funzionedella concentrazione di elettrolita, cE, per elettroliti con valenzediverse.

Page 23: Encclopedia Degli Idrocarburi - SISTEMI COLLOIDALI

tempo, cioè kc(t)�p�exp(t/t0), dove t0 è una costante tempora-le specifica del sistema e p è un parametro di fitting specificodel sistema. Il parametro t per il quale un valore ragionevoleè 1,5, è un esponente di una legge di potenza empirica chedescrive la forma della distribuzione delle masse dei cluster.

Confronto tra aggregazione lenta e aggregazione veloceRiassumendo la discussione riportata sopra riguardo ai pro-

cessi di aggregazione in regime diffusivo e regime chimico, èpossibile esprimere la costante di velocità di aggregazione nellaseguente forma generale:

Estremamente importante per determinare la cinetica diaggregazione è l’entità della velocità di aggregazione per gliaggregati di uguali dimensioni, bii, e il modo in cui essa cam-bia in funzione della massa degli aggregati, i. Questa fun-zione è dominata dal parametro l, come si può vedere nellafig. 3, dove è riportata la costante di velocità di aggregazionedi cluster di uguale dimensione in funzione della massa delcluster. Si può osservare che nel caso dell’aggregazione in regi-me diffusivo, come discusso precedentemente, W�1, l�0 ebii è indipendente dalle dimensioni del cluster. D’altra parte,nell’aggregazione in regime chimico W è molto grande e l�0,5,il che conferisce una forte dipendenza della massa da bii. Ciòsignifica che, sebbene in condizioni di aggregazione in regi-me chimico il valore di bii per le particelle primarie sia in gene-rale molto più basso che in condizioni diffusive, a mano a manoche l’aggregazione procede e gli aggregati crescono, bii cre-sce rapidamente e può alla fine raggiungere il limite superio-re che corrisponde alle condizioni di controllo diffusivo.

Un’altra caratteristica della costante di velocità di aggre-gazione è che, mentre in regime diffusivo le aggregazioni

piccolo-grande sono favorite nei confronti di quelle picco-lo-piccolo e grande-grande, in regime chimico la velocità diaggregazione cresce sempre al crescere delle dimensioni deicluster coinvolti. Ciò ha importanti conseguenze sulla formadella distribuzione delle masse dei cluster ottenute nei dueregimi di aggregazione.

Come discusso in precedenza, le distribuzioni di massa deicluster ottenute per le aggregazioni in regime diffusivo e chi-mico possono essere rappresentate, rispettivamente, dalle dueespressioni seguenti:

Tipiche distribuzioni della massa dei cluster ottenute dallasoluzione numerica dell’equazione di Smoluchowski, utiliz-zando l’espressione delle appropriate costanti di velocità diaggregazione derivate sopra, vengono confrontate nella fig. 4con quelle calcolate da queste espressioni approssimate. Si puòvedere che la distribuzione per l’aggregazione in regime dif-fusivo è piatta quando viene calcolata con l’espressione appros-simata, mentre la distribuzione corretta ha una forma a cam-pana. Tuttavia l’espressione approssimata fornisce una buona

NN k

k k k tkc

c=−

− −

− 0

2

2

ττ

τΓ ( )exp / ( )

N tN t

tk

i k

k( ) =( )+( )

+1

1

1

1

τ

τβ β

β η

ij ij ij

B

W B P

k T

=

=

con

11

1

118 3

DLCA

DLCA /

WW

B i j i jijd d df f f

=

= +( ) +− −

β β11 11

1 1 11 4

DLCA /

/ / /

11

0 0 5

/

,

d

ij

f

P ij

( )= ( ) = =

λλ λ ( in DLCA e in RLLCA)

SISTEMI COLLOIDALI

189VOLUME V / STRUMENTI

log biiDLCA, l�0

RLCA, l�0,5

log i

W

fig. 3. Costante di velocità di aggregazione bii, per cluster di uguali dimensioni, in funzione della massa del cluster i.

B

A

105

100

102 104 106 108100

1010

1015

105

100

102 104 106 108100

1010

1015

dens

ità

num

eric

a (1

/m3 )

dens

ità

num

eric

a (1

/m3 )

massa degli aggregati adimensionale

massa degli aggregati adimensionale

fig. 4. Distribuzione delle masse dei cluster calcolate con l’equazione di Smoluchowski (linea continua) e con le espressioni approssimate date nel testo, in regimediffusivo (A) e chimico (B). In B il calcolo approssimato è eseguito ponendo t�1,5.

Page 24: Encclopedia Degli Idrocarburi - SISTEMI COLLOIDALI

rappresentazione del fronte crescente della distribuzione. D’al-tro canto si può notare che l’espressione approssimata per l’ag-gregazione in condizioni di regime chimico è piuttosto accu-rata. Ciononostante, è importante mettere in evidenza che nontutti i problemi di aggregazione possono essere risolti conespressioni approssimate, che in ogni caso devono essere trat-tate con cautela. Dalle distribuzioni di massa dei cluster è evi-dente un’altra importante caratteristica: nell’aggregazione inregime diffusivo la distribuzione a campana non include par-ticelle molto piccole, che invece sono presenti anche per tempimolto lunghi nell’aggregazione in regime chimico. Questa èuna conseguenza del fatto che le aggregazioni grande-piccolosono favorite in regime diffusivo ma non in regime chimico.Questo risultato ha conseguenze nelle applicazioni, dove lapresenza di frazioni significative di fini è indesiderabile.

Come menzionato sopra, anche la struttura degli aggrega-ti è diversa nei due regimi. Infatti, in entrambi i casi si produ-cono degli aggregati frattali, ma quelli ottenuti in regime chi-mico sono caratterizzati da valori più grandi delle dimensionifrattali df (2,0-2,2 contro 1,6-1,9 del regime diffusivo).

Esistono vari metodi per misurare la dimensione frattale,quali esperimenti di sedimentazione, scattering della luce e ana-lisi di immagine. Immagini dirette possono essere ottenute peresempio da misure di microscopia elettronica in trasmissione(TEM, Transmission Electron Microscopy). Vale la pena nota-re che l’accordo tra le immagini di microscopia in trasmissio-ne e quelle generate da simulazioni di tipo Monte Carlo è estre-mamente soddisfacente ed è una significativa dimostrazionedel fatto che gli aggregati abbiano una struttura frattale.

Confronto con i dati sperimentaliIl confronto diretto tra la distribuzione delle masse dei clu-

ster calcolata attraverso l’equazione di Smoluchowski e le misu-re sperimentali non è immediato, dato che misure sperimenta-li dirette della distribuzione di massa non sono possibili, ocomunque sono accessibili solo con grande difficoltà. Pertan-to, si utilizzano spesso tecniche di scattering della luce, graziealle quali è effettivamente possibile misurare certe specifichemedie (o momenti) della distribuzione. Modelizzando in modoadeguato il processo di scattering, questi stessi momenti pos-sono essere calcolati dalla distribuzione delle masse dei cluster

teorica e i risultati ottenuti possono essere confrontati con quel-li sperimentali. Ciò consente la validazione dei modelli di aggre-gazione qui presentati. Nella fig. 5 sono mostrati due esempi diuna validazione di questo tipo, presentata in termini di evolu-zione nel tempo del raggio idrodinamico dei cluster: uno in con-dizioni di regime diffusivo e l’altro in condizioni di regime chi-mico. I punti rappresentano i dati sperimentali ottenuti da misu-re di scattering della luce, mentre le curve sono state calcolateutilizzando l’equazione di Smoluchowski relativa al regime inquestione, in corrispondenza di diversi angoli di scattering.

Regimi di aggregazione diversi dai classici regimidiffusivo e chimico

Le emulsioni polimeriche importanti dal punto di vista indu-striale sono spesso molto più complesse dei sistemi modellocolloidali discussi nelle sezioni precedenti. I loro comportamentiaggregativi spesso oltrepassano la semplice classificazione inregime diffusivo e regime chimico, con le loro rispettive carat-teristiche. Tale complessità deriva dal fatto che spesso vengonoimpiegati contemporaneamente vari tensioattivi per ottenere lecaratteristiche di stabilità desiderate, e dal fatto che vengonoutilizzati svariati monomeri, comonomeri e additivi per ottene-re polimeri dotati di definite proprietà, quali la temperatura ditransizione vetrosa, il grado di reticolazione o il grado di idrofo-bicità. Tutto ciò influenza grandemente le caratteristiche reolo-giche e colloidali del lattice finale, oltre che il suo comporta-mento aggregativo. Sia l’aggregazione in regime diffusivo chequella in regime chimico possono essere variate in modo tale,per esempio, che l’aggregazione veloce possa mostrare una cre-scita secondo una legge di potenza con una dimensione fratta-le significativamente più elevata del valore atteso di 1,8, oppu-re che, analogamente, l’aggregazione lenta possa mostrare dimen-sioni frattali inferiori rispetto al valore atteso di 2,1, con unavarietà di comportamenti tipo legge di potenza diversi da quel-lo atteso di tipo esponenziale. Il grado attuale di comprensionedella ricchezza dei possibili comportamenti aggregativi è anco-ra limitato e non è possibile effettuare una classificazione com-pleta. In ogni caso, è necessario esaminare e valutare accurata-mente il comportamento aggregativo dei lattici prima di ipotiz-zare che un certo regime di tipo classico possa essere consideratodominante per un certo lattice.

SUPERFICI E SISTEMI DISPERSI

190 ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI

�Rh,

eff�

(nm

)

101

102

103

tempo (min)10�1 100 102101

�Rh,

eff�

(nm

)

101

102

103

tempo (h)

A B

0 2 864

fig. 5. Raggio idrodinamico medio in funzione del tempo, calcolato mediante l’equazione di Smoluchowski (curve) e misurato mediante scattering della luce dinamico (simboli) a vari angoli di scattering. A, regime diffusivo. B, regime chimico.

Page 25: Encclopedia Degli Idrocarburi - SISTEMI COLLOIDALI

Gelazione colloidale I processi aggregativi che avvengono a frazioni volume-

triche di solido superiori all’1%, che è poi il caso della mag-gior parte delle applicazioni pratiche, quasi sempre hanno comerisultato la formazione di una fase solida, che abitualmenteviene chiamata gel colloidale. Essa è costituita da una rete(network) di aggregati frattali cresciuti al punto tale da occu-pare l’intero volume della dispersione. Per formare il network,gli aggregati devono potersi interconnettere gli uni con gli altri.Il processo attraverso cui avviene questa interconnessione èpiuttosto diverso dal processo aggregativo precedente, nel sensoche gli aggregati non diffondono in modo casuale ma intera-giscono direttamente con gli aggregati a loro più vicini. Per-tanto essi si devono muovere in modo cooperativo per poterriarrangiare in modo sostanziale la loro configurazione spa-ziale, il che diventa sempre più improbabile a mano a manoche ci si avvicina al punto di gel.

Il processo aggregativo, sia in regime diffusivo che in regi-me chimico, è ben descritto dal modello di bilancio di popo-lazione. Per identificare la condizione in cui gli aggregati diven-tano ingabbiati, cosicché l’aggregazione diventa interconnes-sione, si definisce una frazione volumetrica occupata in formacumulativa:

dove Ri è il raggio della sfera più piccola che racchiude l’ag-gregato. Questa frazione di volume occupato quantifica lospazio occupato dai cluster in crescita che, a causa della lorostruttura estremamente aperta, aumenta in maniera continuacon il tempo. Una volta che /(t) raggiunge il valore di circa0,5, il volume è completamente pieno di aggregati che nonsono quindi più in grado di muoversi liberamente. Il tempocorrispondente, ta, è definito come il tempo di arresto dellostadio aggregativo. Questo è il punto in cui l’aggregazionediventa interconnessione, e il sistema passa dallo stato diliquido viscoso (la dispersione colloidale) a quello di un soli-do (visco)elastico in grado di sostenere sforzi applicati dal-l’esterno.

La cinetica di gelazione e le proprietà del gel finale sonograndemente influenzate dalle caratteristiche del processo ini-ziale di aggregazione che porta all’arresto dell’aggregazionestessa, e cioè dal fatto che questo si sviluppi in condizioni diregime diffusivo piuttosto che chimico.

In condizioni di regime diffusivo ogni collisione tra par-ticelle e cluster provoca la formazione di un nuovo aggrega-to. Durante il processo di aggregazione, una volta che si rag-giunge la condizione per cui /(ta)�0,5, gli aggregati sonomolto vicini gli uni agli altri e cominciano a interconnettersi.Tale processo di interconnessione è molto rapido per due moti-vi. Prima di tutto, la distribuzione dei cluster prodotta in regi-me diffusivo è abbastanza monodispersa e pertanto tutti gliaggregati sono circondati dal medesimo ambiente e quindimediamente sono separati gli uni dagli altri dalla stessa pic-cola distanza. In secondo luogo, a causa dell’assenza di bar-riere energetiche repulsive, quasi ogni movimento diffusivoper distanze anche piccole di un aggregato o di una delle suasottounità provoca la connessione dell’aggregato con i suoivicini. Questa visione è confermata da esperimenti eseguiti sucolloidi di polistirene, nei quali il tempo di formazione del gele i tempi di arresto misurati in funzione della frazione volu-metrica del solido sono molto simili. I due tempi si sovrap-pongono nell’ambito dell’errore sperimentale e ciò conferma

che lo stadio di interconnessione è estremamente breve se con-frontato con lo stadio aggregativo.

Lo scenario è diverso nel caso dell’aggregazione in regi-me chimico, per il quale il processo di interconnessione non èistantaneo, e conseguentemente il tempo di interconnessioneè significativamente più lungo di quello di arresto. Ciò è vero-similmente dovuto alla bassa reattività degli aggregati in regi-me chimico e alla loro bassa diffusività, che è ostacolata dagliaggregati circostanti di varie dimensioni.

Caratterizzazione delle dispersioni colloidali aggregate

Scattering della luceLe tecniche di scattering (o di diffusione), per le quali pos-

sono essere utilizzate fonti di radiazione tipo neutroni, raggiX e luce, sono ampiamente utilizzate per caratterizzare i siste-mi colloidali e la materia soffice condensata in generale. Traqueste, lo scattering della luce è sicuramente la più conveniente,a causa della disponibilità di laser a basso costo, e di rivelato-ri e correlatori rapidi controllati da computer.

In un tipico esperimento di scattering della luce si dirigeun fascio laser monocromatico verso il centro di un campionedi dispersione, e si raccoglie la luce diffusa nel piano orizzon-tale in funzione dell’angolo formato con la direzione del rag-gio primario. Con questo tipo di configurazione è possibileeseguire due diversi tipi di esperimenti. In un esperimento discattering statico l’intensità della luce diffusa è misurata in fun-zione dell’angolo di diffusione, ottenendo informazioni parti-colarmente utili sulla struttura spaziale del campione in esame.Nel caso di aggregati di particelle colloidali primarie lo scat-tering statico permette di ricavare il modo in cui queste parti-celle sono distribuite all’interno dei cluster e spesso anche diacquisire informazioni relative alle dimensioni frattali prece-dentemente menzionate.

Lo stesso vale per la seconda tecnica, lo scattering dina-mico, in cui la fluttuazione temporale dell’intensità diffusaviene analizzata con adatti schemi di correlazione. In questaanalisi le fluttuazioni in corrispondenza di un certo istante ditempo t vengono correlate con un istante che differisce per untempo di ritardo costante t*, cioè a t�t*. Se i segnali a questidue tempi sono correlati, il che significa che le configurazio-ni spaziali delle particelle nel campione sono simili, si ottieneun valore di correlazione diverso da zero in corrispondenza diquesto tempo di ritardo t*. Se le particelle non si sono mosseaffatto durante questo intervallo di tempo, il valore di correla-zione è pari a uno. Se le particelle si sono mosse in manierasignificativa e hanno cancellato tutte le correlazioni esistentitra le loro posizioni al tempo iniziale t e al tempo ritardato t�t*,si ottiene un valore pari a zero. Di conseguenza, le misure discattering dinamico permettono di osservare quanto rapida-mente una particella (o qualunque altro oggetto di interesse)diffonda lontano dalla propria posizione originale. Questa misu-ra può essere correlata a un coefficiente di diffusione effica-ce, da cui, utilizzando l’equazione di Stokes-Einstein, è possi-bile stimare un raggio idrodinamico efficace.

L’interpretazione dei dati di scattering della luce non è bana-le ed è tipicamente basata su opportune semplificazioni dellateoria generale dello scattering luminoso. Per esempio la teo-ria di Rayleigh-Debye-Gans (RDG) è limitata a un singolo scat-tering e ipotizza che la luce incidente non sia sostanzialmentealterata dalle particelle che provocano lo scattering. La condi-zione che stabilisce se la teoria RDG sia effettivamente appli-cabile è la seguente:

φ( )t R Ni ii

= ∑ 4

3

SISTEMI COLLOIDALI

191VOLUME V / STRUMENTI

Page 26: Encclopedia Degli Idrocarburi - SISTEMI COLLOIDALI

dove Rp indica il raggio della particella, l la lunghezza d’on-da della luce incidente e np e ns, rispettivamente, gli indici dirifrazione della particella e del solvente. Se queste condizio-ni non sono valide, si può utilizzare la più complessa teoriadi Mie.

È importante notare che, quando applicati a una popola-zione di cluster dispersi in un liquido, sia lo scattering staticoche quello dinamico forniscono informazioni medie; il segna-le ottenuto è cioè una media di tutte le diverse forme e dimen-sioni delle particelle che sono presenti nel campione. Questaè la ragione per cui l’interpretazione dei dati di scattering sta-tico richiede un’attenzione notevole. In particolare, sarebbenecessario conoscere la distribuzione delle masse dei cluster ele loro proprietà di scattering individuali in modo da poter rico-struire il segnale medio misurato per via sperimentale median-te un adatto modello matematico.

ReologiaLa seconda tecnica molto spesso utilizzata per studiare

le dispersioni colloidali concentrate è costituita dalla reolo-gia in regime di sollecitazioni di taglio oscillatorie a piccolaampiezza. Essa è particolarmente utile per studiare la cineti-ca di formazione del gel. Questa tecnica ha vasti campi diapplicazione e sono possibili svariate configurazioni speri-mentali. Quando essa è volta all’osservazione della forma-zione dei gel nelle dispersioni colloidali (che costituisce unatransizione solido-liquido), si misura l’evoluzione della viscoe-lasticità della dispersione. Essa può essere quantificata misu-rando per esempio il modulo elastico, G’, e il modulo visco-so, G”. Alternativamente, si può misurare la coppia complessaconiugata dei moduli, ovvero le viscosità complesse. In ognicaso, un tipico lattice è caratterizzato inizialmente da un com-portamento sostanzialmente viscoso, ma una volta che si èprodotto un grado di aggregazione sufficiente, la dispersio-ne sviluppa una elasticità misurabile, che ingenera un com-portamento viscoelastico complesso, tipico dei gel colloida-li, più simile a quello dei solidi.

Aggregazione sotto sforzo di scorrimento e in regime turbolento

Le operazioni industriali di aggregazione o coagulazioneche vengono utilizzate per separare il polimero dalla fase acquo-sa sono molto più complesse dei processi aggregativi che avven-gono in dispersioni non agitate o stagnanti, discussi nei para-grafi precedenti. Ciò è dovuto al fatto che, per aumentare l’ef-ficienza del processo alle grandi scale tipiche dei processiindustriali, si applica una miscelazione vigorosa in presenzadi un opportuno coagulante (tipicamente un elettrolita), cheintroduce nel sistema delle significative azioni di scorrimen-to. La configurazione più diffusa consiste nell’utilizzo di unsemplice recipiente agitato riempito con la soluzione di coa-gulante, all’interno del quale si alimenta una dispersione di lat-tice utilizzando un’adatta tubazione. In queste condizioni, illattice che entra nella soluzione agitata origina una plume (pen-nacchio) la cui formazione dipende dalla competizione tra iprocessi di miscelazione e quelli di aggregazione/coagulazio-ne, come discusso più avanti.

La presenza di flussi laminari o più spesso turbolentiinduce nuovi processi nelle dispersioni colloidali rispetto

all’aggregazione descritta precedentemente, che avviene incondizioni stagnanti. Un flusso turbolento può essere descrit-to come una cascata di vortici. In un recipiente agitato i vorti-ci sono causati dall’agitatore e quindi hanno le dimensioni deldiametro del recipiente, troppo grandi perché le forze dissipa-tive possano essere effettivamente significative; pertanto, i vor-tici accumulano energia cinetica, diventano instabili e si rom-pono per formare vortici più piccoli a cui trasferiscono la loroenergia. Questo processo si ripete nella cosiddetta cascata divortici turbolenti, finché l’energia si trasferisce a vortici suf-ficientemente piccoli e viene dissipata attraverso le forze visco-se. La scala dimensionale di questi vortici viene detta scala dilunghezza di Kolmogorov ed è data da:

dove v è la viscosità cinematica del liquido e e la velocità didissipazione dell’energia.

Al di sopra di questa scala dimensionale, il moto fluidoturbolento determina la miscelazione e i processi di traspor-to, mentre al di sotto di questa scala, i moti molecolari diffu-sivi e di scorrimento dominano il trasporto all’interno dei vor-tici più piccoli. Nelle applicazioni più tipiche, come nel casodi recipienti agitati, questa scala di lunghezza cade in un camponell’ordine di 1-10 mm.

Cinetica di aggregazione in condizioni turbolente Tipicamente, i processi di aggregazione avvengono a

concentrazioni saline alle quali le particelle colloidali sonocompletamente destabilizzate o, in altre parole, in condizionidi aggregazione in regime diffusivo. Le particelle primariegenerate nei processi di polimerizzazione hanno spesso dia-metri inferiori a 200 nm e pertanto sono scarsamente influen-zate dal moto fluido turbolento. All’inizio esse entrano incollisione e si aggregano per effetto del moto diffusivo all’in-terno dei vortici di Kolmogorov, finché gli aggregati che nerisultano crescono tanto da raggiungere dimensioni a cuicominciano a sentire l’effetto degli sforzi di scorrimento.Nel periodo iniziale le collisioni tra le particelle sono dovu-te ai moti browniani oppure alla presenza di gradienti spa-ziali della velocità del fluido che inducono velocità diffe-renti nelle particelle localizzate in punti diversi all’internodel vortice. Quando la miscelazione è sufficientemente vigo-rosa l’aggregazione dovuta alla sedimentazione può essereignorata. Dal momento che stiamo prendendo in considera-zione un’aggregazione in condizioni di regime diffusivo,ogni collisione porta a un evento aggregativo. La costante divelocità di aggregazione globale può essere calcolata comesomma di due termini: il primo, bij

DLCA, dovuto al moto brow-niano, coincide con quello derivato precedentemente in con-dizioni stagnanti e produce un’aggregazione pericinetica. Ilsecondo, bij

scorr, è dovuto al moto di scorrimento e produceun’aggregazione ortocinetica. Questo secondo contributo èproporzionale al gradiente di velocità o velocità di scorri-mento, G, che prevale nei vortici turbolenti di Kolmogorov,la cui configurazione di flusso può essere descritta tramiteun modello di flusso estensionale laminare con l’espressio-ne G�(e�v)1/2. I due meccanismi di aggregazione prevalgo-no per dimensioni di particelle diverse. Quando le particel-le sono piccole (submicroniche), il meccanismo dominanteè il moto browniano. A mano a mano che le particelle cre-scono per diventare più grandi, il moto di scorrimento tende

λ νεk =

3

1

4

41 1

π R nn

p p

sλ− <

SUPERFICI E SISTEMI DISPERSI

192 ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI

Page 27: Encclopedia Degli Idrocarburi - SISTEMI COLLOIDALI

a dominare. L’espressione completa per la costante di velo-cità di aggregazione è data da:

in cui si vede che la componente di scorrimento della costan-te di velocità di aggregazione è proporzionale alla velocità ditaglio, al cubo della sezione di collisione e ad aij, parametroche sarà discusso più avanti.

Vale la pena notare che questa espressione è valida quan-do gli effetti inerziali possono essere trascurati (cioè quandole particelle non sono molto grandi, oppure quando la loro den-sità non è molto diversa da quella del mezzo sospendente),cosicché le particelle possono seguire in maniera molto preci-sa il flusso del fluido.

Aggregazione a parte, ci sono almeno altri due meccani-smi che influenzano l’evoluzione della popolazione degli aggre-gati. Innanzitutto, quando gli aggregati diventano dimensio-nalmente confrontabili con la scala dei vortici e quindi subi-scono le sollecitazioni del fluido, tendono a rompersi in unitàpiù piccole. Questo processo può essere immaginato come un’a-zione durante la quale l’aggregato viene tirato e strappato, fin-ché non viene rotto in corrispondenza del suo punto più debo-le. In secondo luogo, le sollecitazioni fluide sono anche in gradodi ristrutturare gli aggregati e in virtù di un meccanismo di que-sto tipo gli aggregati tipicamente tendono a diventare più densi.Strutture aperte, più deboli, subiscono insieme un processo didestrutturazione o addirittura si ricombinano, producendoaggregati di densità maggiore. È veramente discutibile se siapossibile applicare il concetto di frattalità, introdotto nel casodi sistemi stagnanti, anche in queste condizioni.

L’equazione di Smoluchowski, o di bilancio di popolazio-ne, che descrive l’evoluzione della distribuzione delle massedei cluster nei sistemi turbolenti, deve essere modificata pertenere conto di questi eventi di frattura. Assumendo un certogrado di omogeneità nel coagulatore, è possibile scrivere laseguente equazione:

dove i primi due termini del membro di destra rappresentanoi soliti processi di aggregazione, nei quali le costanti sono statemodificate per tenere conto dei contributi dell’aggregazionedovuta allo sforzo di scorrimento, come discusso in preceden-za. Gli ultimi due termini rappresentano gli effetti della frat-tura (dove la possibile ristrutturazione non è stata inclusa) e bi

B

è la costante di velocità di frattura degli aggregati di massa i,mentre Lkj è la funzione di distribuzione della frattura che defi-nisce il numero di frammenti aventi massa k prodotti dalla frat-tura di un cluster di massa j. In sintesi ciò significa che, nelbilancio di popolazione riportato sopra, il primo termine è dovu-to alla formazione di aggregati per effetto della collisione diuna coppia di aggregati di piccole dimensioni, il secondo e ilterzo termine descrivono la scomparsa di aggregati di massa iper aggregazione e frattura, rispettivamente, e infine l’ultimotermine è dovuto alla formazione di aggregati di massa i perfrattura di cluster più grandi.

Il ruolo della stabilità colloidale Quando la concentrazione elettrolitica nel coagulatore è più

bassa della concentrazione di coagulazione critica, il sistemaopera in condizioni di regime chimico e l’aggregazione delleparticelle primarie diventa più complessa e influenzata da duefattori. Da un lato, il moto fluido turbolento e la diffusione brow-niana provocano svariate collisioni tra le particelle; dall’altro,la componente repulsiva del potenziale di interazione interpar-ticellare impedisce che molte di queste collisioni possano pro-durre con successo un evento aggregativo. Pertanto l’efficien-za dell’aggregazione e la velocità di aggregazione totale pos-sono essere significativamente più basse di quanto avviene incondizioni di controllo diffusivo, sebbene sia attualmente impos-sibile quantificarle con delle correlazioni semplici.

Efficienza di collisione Come menzionato in precedenza, la costante di velocità di

aggregazione dovuta a sforzi di scorrimento bijscorr include l’ef-

ficienza di collisione aij. Questo parametro tiene conto del-l’interazione idrodinamica tra due aggregati in avvicinamen-to, che con la loro presenza modificano il flusso del fluido cir-costante, modificando pertanto anche il loro percorso dicollisione rispetto al caso di flusso di un fluido non disturba-to. Un tipico modello per l’efficienza di collisione utilizza un’a-nalisi delle traiettorie che segue il percorso spaziale di aggre-gati porosi considerando i loro relativi campi di flusso e le rela-tive forze nel fluido. A questo scopo, è necessaria una descrizionequantitativa della struttura dell’aggregato poroso, come quellaproposta dal cosiddetto modello a guscio e nucleo, che consi-dera gli aggregati come costituiti da nuclei impermeabili cir-condati da gusci completamente permeabili. Con questi model-li si calcolano valori dell’efficienza collisionale che diminui-scono per aggregati più grandi e/o meno permeabili, comemostrato in fig. 6. Si noti che si ottengono efficienze più eleva-te per aggregati di dimensioni comparabili, mentre per aggre-gati di dimensioni non uguali si ottengono valori inferiori.

Ruolo della frattura La frattura dei cluster in flusso turbolento è provocata dalle

sollecitazioni idrodinamiche. Quanto più un aggregato cresce,

NjB

j≤

βkjj

+ Λkk

k kN+1

∑ − β B

dNdt

N N N Nki j

i j kk i

i= −

+ =∑ ∑1

2β βij ik +

ij+ ( )1 2941

, α ε ν22 1 1

3

i jd df f+( )ηB

d

k T

i=

2

3

11/ ff f

f f

ji jd

d d+

+( ) +1

1

1 1

/

/ /

β β βijturbulento

ij ij= + =DLCA scorr

SISTEMI COLLOIDALI

193VOLUME V / STRUMENTI

224

24

29

214

219

i24 29 224214 219

j

0,01

0,01

0,2

0,2

0,4

0,4

0,6

0,60,7

0,7

0,8

fig. 6. Valori dell’efficienza di collisione, aij, in funzione della massa (numero di particelle primarie) dei due aggregatiin collisione.

Page 28: Encclopedia Degli Idrocarburi - SISTEMI COLLOIDALI

tanto più esso diventa suscettibile di frattura. Inoltre, gli aggre-gati con struttura più aperta possono rompersi più facilmente.Una tipica espressione della costante cinetica relativa alla velo-cità di frattura è la seguente:

dove e la velocità di dissipazione dell’energia e eb,i è la mini-ma velocità di dissipazione energetica capace di rompere gliaggregati di massa i. Poiché più grande è l’aggregato, inferio-re ci si aspetta che diventi questo valore di energia critica, perstimarlo si usa la seguente correlazione:

dove B è un parametro empirico che, come si è notato spesso,può variare al variare della velocità di scorrimento G secondouna legge di potenza. Nella relazione riportata più sopra, lacostante di velocità di frattura è data dal prodotto dei primi duefattori che rappresentano la massima velocità di frattura, perun terzo fattore che rappresenta la probabilità che un aggre-gato di una certa massa si rompa in corrispondenza di un certovalore di e.

La funzione di distribuzione della frattura Il numero di frammenti in cui gli aggregati si rompono è

molto difficile da determinare e attualmente costituisce unagrossa incognita nella comprensione dell’evoluzione della distri-buzione di massa dei cluster in condizioni turbolente. La fun-zione di distribuzione della frattura Lkj fornisce il numero diframmenti di massa k che vengono prodotti per frattura di unaggregato di massa j. Un’ipotesi che viene spesso assunta percalcolare questa funzione è che ogni frattura produca due fram-menti. Questi possono avere le stesse dimensioni nel caso diframmentazione simmetrica, oppure è possibile che uno siamolto piccolo e l’altro molto grande nel caso di erosione. Èchiaro che l’uso di uno piuttosto che dell’altro di questi model-li ha una grossa influenza sulla forma finale della distribuzio-ne di massa dei cluster.

Ruolo della ristrutturazione e del mescolamentoCome menzionato in precedenza, aggregati più grandi,

con dimensioni confrontabili con quelle dei vortici turbo-lenti più piccoli, tendono non solo a rompersi ma anche aristrutturarsi. Strutture flessibili e aperte come i frattali discus-se nei paragrafi relativi ai processi aggregativi in regime dif-fusivo e chimico, con tutta probabilità non sono abbastanzaforti da sopportare le forze di scorrimento e pertanto subi-scono in modo significativo processi in cui si ristrutturano

e cambiano forma. Quello che ci si aspetta è che la struttu-ra finale degli aggregati sia più densa, ma è difficile forni-re a priori delle stime quantitative, poiché essa dipende inmodo complesso dalle forze di interazione tra le particellecolloidali e da quanto densa sia la struttura a ‘network’ all’in-terno dell’aggregato in un certo momento nel corso del pro-cesso.

Un altro aspetto che influenza notevolmente il processodi aggregazione nei sistemi turbolenti è rappresentato dal-l’interazione tra il mescolamento e i processi di aggregazio-ne menzionati in precedenza. Questa è particolarmente impor-tante nelle grandi unità di aggregazione utilizzate nelle appli-cazioni industriali, che solitamente trattano lattici concentrati,dove i dettagli che riguardano il processo di mescolamento trail lattice e la soluzione di coagulante giocano un ruolo chia-ve. Dal momento in cui il lattice concentrato entra nella solu-zione del coagulante, è necessario che trascorra un certo tempoaffinché le particelle siano completamente miscelate e dilui-te nell’intero serbatoio. A causa dell’elevata concentrazionedel lattice, l’aggregazione è spesso più veloce del processo dimiscelazione, e quindi gran parte del processo di aggrega-zione ha luogo nel lattice concentrato non appena questo entranel serbatoio. Ciò provoca la formazione di una plume costi-tuita dal lattice all’interno del quale è in corso il processo diaggregazione.

Se la concentrazione nella plume è sufficientemente ele-vata, gli aggregati possono gelificare in questo elemento divolume, formando una struttura a network tridimensionale, cheha la medesima forma dell’elemento fluido in cui essi sonosituati. Poiché il modulo elastico di questi gel alle frazioni divolume spesso riscontrate in questi tipi di applicazione è piut-tosto elevato, le unità del gel sono in grado di sopportare anchegli sforzi di scorrimento di tipo turbolento e quindi manten-gono la loro forma. Poiché questa è prevalentemente determi-nata dal mescolamento e dal flusso nel fluido, questo proces-so può creare delle forme molto irregolari tipo strati sbricio-lati oppure gusci vuoti. Nella fig. 7 sono mostrati alcuni diquesti aggregati per valori crescenti della velocità di mescola-mento. A velocità di mescolamento basse, la miscelazione èpiù lenta dell’aggregazione e gli aggregati hanno una formalamellare; questa osservazione è in accordo con la discussio-ne precedente sul fatto che il volume del lattice, dopo esserestato stirato e piegato, è poi congelato in forma lamellare pereffetto della gelazione. Al crescere della velocità di aggrega-zione, la miscelazione diventa più rapida e questa strutturalamellare viene gradualmente distrutta.

Queste forme degli aggregati possono avere degli effettiindesiderati sulle proprietà del prodotto finale e pertanto devonoessere controllate. L’esempio riportato dimostra l’importanza

εb idB i f

,= 1

β εν

εεi

B b i=

4

15

1 2 1 2

π

/ /

,exp

SUPERFICI E SISTEMI DISPERSI

194 ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI

200 mm 70 mm40 mm

fig. 7. Immagini di microscopia elettronica a scansione di aggregati polimerici prodotti a velocità di mescolamento (S) crescenti.S

Page 29: Encclopedia Degli Idrocarburi - SISTEMI COLLOIDALI

dei processi di mescolamento tra il lattice e il coagulante alfine di ottenere materiali di buona qualità. Nella fig. 8 sonomostrate quantitativamente, per condizioni di mescolamen-to fisse, le condizioni operative in termini della frazionevolumetrica, /, e del diametro delle particelle primarie, dP0,che portano a processi di aggregazione controllati o no dalmescolamento. Questa informazione è ovviamente crucialeper ottenere aggregati finali con caratteristiche strutturalidesiderate.

Unità industriali per la coagulazione Industrialmente, i coagulatori a recipiente agitato sono i

più utilizzati per realizzare dei processi di aggregazione, poi-ché possono essere facilmente operati in continuo, semi-batcho batch. Nella fig. 9 A è mostrato un reattore agitato e il cor-rispondente campo di moto del fluido calcolato mediante unsoftware di fluidodinamica computazionale. È chiaro che lavelocità di dissipazione dell’energia è distribuita in modo

abbastanza disomogeneo nell’unità, raggiungendo valorimolto elevati in prossimità della pala dell’agitatore e valorimolto più bassi in cima al reattore. Ciò provoca evidente-mente una distribuzione non uniforme degli aggregati pro-dotti. Probabilmente si possono ottenere risultati miglioriseparando lo stadio di aggregazione/gelazione da quello diristrutturazione/granulazione. Ciò può essere ottenuto uti-lizzando un dispositivo capillare a elevata caduta di pressio-ne per produrre il gel e, successivamente, alimentare questoin un recipiente agitato per realizzare il secondo stadio del-l’operazione.

Nel caso di operazione continua i recipienti agitati singo-li non sono adatti a causa dell’ampia distribuzione dei tempidi residenza che provocherebbe la presenza di una consisten-te frazione di particelle fini nel prodotto finale. Per questomotivo nelle applicazioni si usa una serie di recipienti agitatiin continuo. Un dispositivo alternativo, in grado di combinareuna distribuzione stretta dei tempi di residenza con una distri-buzione uniforme della velocità di dissipazione dell’energia èl’unità di Couette-Taylor. Questo dispositivo è costituito da duecilindri, di cui soltanto quello interno ruota. Il movimento pro-duce una serie di vortici che permettono di ottenere le parti-colari caratteristiche di mescolamento sopra menzionate. Undiagramma schematico di questa unità è mostrato nella fig. 9 B,con la corrispondente distribuzione della velocità di dissipa-zione dell’energia ottenuta attraverso simulazioni di fluidodi-namica computazionale. Questo e altri dispositivi sono in fasedi continuo sviluppo mediante ricerche sperimentali e di simu-lazione di fluidodinamica computazionale. Sulla base delleattuali conoscenze sui complessi effetti incrociati tra intera-zioni colloidali, cinetica di aggregazione e di frattura e mec-canica dei fluidi, è possibile sviluppare unità adatte, in gradodi produrre materiali provvisti delle caratteristiche strutturalidesiderate.

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SISTEMI COLLOIDALI

195VOLUME V / STRUMENTI

assenza di controllodel mescolamento

controllo delmescolamento

10�6

10�4

10�2

100

dP0 (nm)10 100 1.000

/

fig. 8. Regimi di mescolamento in condizioni turbolente in funzione della frazione volumetrica solida, /, e del diametro delle particelle primarie, dP0, per date condizioni di mescolamento.

cilindrointernorotante

cilindroesternofisso

velocità didissipazionedell’energia

(m2/s3)

velocità didissipazionedell’energia

(m2/s3)

A B

2,43·10�51,00·10�22,00·10�23,00·10�24,00·10�25,00·10�26,00·10�27,00·10�28,00·10�29,00·10�21,00·10�1

1,00·10�2

5,09·10�1

1,01·100

1,51·100

2,01·100

2,51·100

3,00·100

3,50·100

4,00·100

4,50·100

5,00·100

fig. 9. Due diverse unità dicoagulazione: A, il recipienteagitato e B, l’unità diCouette-Taylor. Nella figuraè riportato un confronto intermini di distribuzione dellavelocità di dissipazionedell’energia (riferita all’unitàdi massa del fluido).

Page 30: Encclopedia Degli Idrocarburi - SISTEMI COLLOIDALI

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Peter Sandküler

Institut für Chemie- und BioingenieurwissenschaftenEidenössische Technische Hochschule-Hönggerberg

Zurigo, Svizzera

Massimo Morbidelli

Institut für Chemie- und BioingenieurwissenschaftenEidenössische Technische Hochschule-Hönggerberg

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SUPERFICI E SISTEMI DISPERSI

196 ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI