Employer Branding

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E.S.T.E. srl - Via Vassallo, 31 - 20125 Milano Poste Italiane Spa - Spedizione in abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1, comma 1, DCB Milano 224 Novembre/Dicembre 2007 SVILUPPO & ORGANIZZAZIONE Giuseppe Scifo Cambiamento organizzativo Arturo Bellucci Riccardo Colombo Risk management negli enti locali Discussioni Employer branding Chiara Ghislieri Claudio G. Cortese Simona Ricotta Welfare organizzativo Frits K. Pil Susan K. Cohen Modularità e vantaggio competitivo Stefano Denicolai Gabriele Cioccarelli Domenico Bodega Fondazioni di origine bancaria

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Una panoramica sintetica sulla strategi di employer branding

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E.S.T.E. srl - Via Vassallo, 31 - 20125 Milano Poste Italiane Spa - Spedizione in abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1, comma 1, DCB Milano

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Giuseppe ScifoCambiamento organizzativo

Arturo BellucciRiccardo Colombo

Risk management negli enti locali

DiscussioniEmployer branding

Chiara Ghislieri Claudio G. CorteseSimona RicottaWelfare organizzativo

Frits K. PilSusan K. CohenModularità e vantaggio competitivo

Stefano Denicolai Gabriele CioccarelliDomenico BodegaFondazioni di origine bancaria

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L’employer branding è diventato uno dei più importanti processi all’interno della funzione risorse umane delle grandi aziende. Il perché è riportabile a una serie di eventi che hanno coinvolto le organizzazioni negli ultimi anni: fusioni, acquisizioni, fallimenti, downsizing e outsourcing sono tutti fenomeni di revisione dei confini organizzativi chehanno richiesto una ridefinizione delle identità organizzative. L’esplodere dell’employerbranding va senz’altro ricollegato alla necessità di trasferire attraverso un brand un senso di sicurezza ai potenziali nuovi assunti, ma anche alle persone che già lavorano all’interno dell’azienda da un lato (in tal caso si parla di corporate branding).Sotto la definizione di employer branding rientrano una serie di attività attribuibili a processi Hr e a processi di comunicazione interna, che si sviluppano per posizionare il brand aziendale all’interno del mercato del reclutamento e delle risorse umane. Il brand aziendale, in questo contesto, diventa l’insieme delle aspettative e dei valori aziendali: in sintesi, esprime l’esperienza che si vive all’interno dell’organizzazione. L’employer branding quindi si presta a essere il miglior modo per reimpostare e migliorare il rapporto di comunicazione tra le persone e l’organizzazione e comporta l’utilizzo delle principali strategie tipiche del marketing: rilevazione del gap possibile tra come l’azienda è vista ed è vissuta all’interno e quello che è possibile percepire dall’esternoda parte di candidati o persone che potrebbero decidere di unirsi.L’employer branding serve quindi a migliorare il processo di reclutamento ma anche, attraverso il riconoscimento e la valorizzazione dell’identità, diventa uno strumento utile per incoraggiare nei collaboratori la produttività, la lealtà e la retention.Costruire una strategia coerente di employer branding implica sia l’impegno del marketing sia delle risorse umane. Questa partnership può risultare molto vantaggiosa sia in termini di “fertilizzazione incrociata” delle competenze sia per il miglioramento nell’uso delle risorse e dei budget, nelle efficienze di processo, nel processo decisionale, in termini di coerenza d’immagine e di comunicazione.Di tutto questo ci parlano gli autori delle Discussioni: Eugenio Amendola ci offre un ampio scenario di riferimento entro il quale comprendere in modo approfondito il processo;Valeria Pardossi e Laura Viada raccontano il percorso compiuto all’interno di Fiat Group in concomitanza con il grande rilancio dell’azienda. Infine Andrea Fontana ci offre un’analisi dal punto di vista individuale, che parte dalla prospettiva dell’“employer”.

Discussioni

a cura di Barbara Quacquarelli e Francesco Paoletti

Employer brandingLe risorse umane hanno potenziato strumenti di comunicazione per attrarre e trattenere

le persone in azienda. Qual è l’impatto a livello organizzativo e individuale?Sugli Autori:

Eugenio Amendola([email protected]) è consulente eSenior Associate dell’EmployerBrand Institute. Ha gestito diversi progetti di employer branding per importanti aziendemultinazionali. È docente delMaster in Marketing e HrManagement diretto da EnzoSpaltro e promosso da Aidp.

Andrea Fontana ([email protected])è esperto di sistemi di formazione manageriale, sviluppo organizzativo comunicazioned’impresa e storytelling management. Insegnaall’Università degli Studi diMilano-Bicocca: “Metodologiadella formazione nelle organizzazioni” e all’Universitàdi Pavia: “Storytelling e narrazione d’impresa. È autore di testi sulle nuove modalità ditraining evoluto e comunicazioneintergrata con approccio narrativo. È business partner di Corus, società di consulenzaHr del Gruppo Assist.

Valeria Pardossi ([email protected]) è Talent Acquisition Manager in Fiat Group. In precedenza ha ricoperto i ruoli di RecruitingManager e People DevelopmentManager in Vodafone.

Laura Viada ([email protected])è consulente per il Gruppo Fiatper l’area di Talent Acquisition. È dottoranda in Psicodinamicadell’Organizzazione e dellaFormazione presso l’Università degli Studi di Torino.

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Da alcuni anni si sente, sempre di più, parlare di em-ployer branding. Nonostante la sua diffusione a livellomondiale, ancora oggi esiste molta confusione su co-sa sia realmente questa nuova strategia di matrice an-glosassone.Ed è proprio dai fattori o ragioni del suo sviluppo chebisogna partire per comprenderne meglio la sua na-tura e, in questo modo, avvicinarsi il più possibile alsuo significato.Sicuramente le principali motivazioni del suo svilup-po sono da attribuirsi al crescente calo demografico,che ha caratterizzato soprattutto il periodo che va dal1966 al 1977, ma che si è protratto nel corso degli an-ni successivi e che si prevede manterrà livelli bassi an-che in futuro.Si aggiungono poi i cambiamenti avvenuti nella nostraeconomia sempre più globale e sempre più economiadella conoscenza e/o dell’informazione. Conseguenza di questo fattore è stata da una parte lanascita di nuove figure professionali mai esistite pri-ma e, dall’altra, la necessaria riorganizzazione internaavvenuta in molte aziende per rispondere meglio ainuovi cambiamenti.Ciò ha, inevitabilmente, portato a nuove fusioni, ac-quisizioni, ridimensionamento dei livelli gerarchici pro-vocando, in molti casi, una crescente mobilità sul mer-cato del lavoro.Da queste criticità è emerso un mercato del lavoro estre-mamente chiuso, e soprattutto caratterizzato da unamaggiore competitività, che ha portato molte aziendea porsi il problema di migliorare la propria attrattivi-tà e costruirsi un posizionamento più efficace sul mer-cato del lavoro.L’employer branding rappresenta quindi un approccioinnovativo che aiuta l’azienda a raggiungere questiobiettivi. Si può affermare che, attraverso una strategia di employerbranding, l’azienda è in grado di individuare/scoprire/co-struire la propria employer identity, valutarne la sua attratti-vità in termini di maggiore differenziazione rispetto ai con-correnti e comunicarla sia all’interno dell’azienda, quin-di verso i propri dipendenti, sia all’esterno e cioè verso ipotenziali candidati di cui ha bisogno. In realtà non tutte le aziende hanno una visione così“speciale” della strategia.Pertanto sono molti i casi in cui si preferisce sviluppare unasemplice campagna pubblicitaria mediante l’uso degli stru-

menti tradizionali dell’advertising senza però dare un im-pulso strategico ed incisivo all’azione. Oppure ci si limitaa mutuare quanto si è sviluppato, in termini di comunica-zione istituzionale e di prodotto, sul mercato del consumo. Questo è uno degli errori che, più frequentemente, vie-ne commesso e che può creare enormi danni di immagi-ne a livello employer riducendone la sua attrattività.Data l’importanza di questo aspetto vale la pena approfon-dirne le sue criticità partendo dalla individuazione di ciòche dovrebbe essere meglio compreso perché una strate-gia di employer branding possa risultare efficace. In particolare, si può dire che una buona strategia diemployer branding dovrebbe rispettare almeno due ma-cro principi.Il primo è che non tutto può essere mutuato dalla corporatebranding ossia dalle azioni tradizionali di comunicazioneistituzionale e/o di prodotto.Questo principio è utile a comprendere che molte voltel’identità corporate è ben distinta dall’identità employer.Ciò significa che se si vuole raggiungere un buon po-sizionamento su un determinato segmento del merca-to del lavoro (laureati, professional, ecc.) devo capire sel’immagine istituzionale dell’azienda (come operato-re del mercato di riferimento) è spendibile o meno an-che sul mercato del lavoro. Un esempio. Alcune aziende quali Coca Cola, Vodafone,Tim godono di un particolare apprezzamento della pro-pria immagine sia a livello corporate sia a livello di prodot-to. Tuttavia questo non significa che le persone che ne ap-prezzano l’immagine istituzionale siano poi anche dispo-ste ad andarci a lavorare.In questi casi, infatti, la strategia di employer branding devenecessariamente essere più mirata e sganciarsi dalle for-me più tradizionali di comunicazione. In altri casi, come quello di Barilla, il prodotto dell’azien-da e la sua comunicazione istituzionale giocano un ruolodecisivo, quindi non “inquinante”, anche nell’attrattivitàdell’azienda quale luogo di lavoro/employer.A questo principio si collega il secondo e cioè l’importanzadel mercato di riferimento dell’azienda.Questo aspetto è interessante soprattutto per quelle azien-de che si rivolgono a un mercato del consumo, dove spes-so il potenziale e/o attuale cliente corrisponde al poten-ziale e/o attuale employee. Di nuovo aziende come Vodafone, Tim e anche Fiatsono validi esempi di realtà che rientrano nel caso so-pra menzionato.

Employer brandingdi Eugenio Amendola

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È molto probabile, infatti, che l’acquirente di un serviziodi telefonia mobile, offerto da Vodafone o da Tim, sia an-che un potenziale candidato a lavorare presso quelleaziende. Allo stesso modo può capitare che l’acquiren-te di un’auto Fiat possa anche essere interessato a la-vorare per l’azienda stessa.Esistono, comunque, situazioni nelle quali la sinergiatra le due forme di comunicazione è, invece, molto piùlieve e meno interrelata. È il caso di aziende come, ad esempio, Abb, Bosch, Ac-centure, il cui mercato del consumo è costituito, pre-valentemente, da imprese ed è ben distinto dal mer-cato del lavoro target. Questa maggiore differenziazione dei target permette, quin-di, all’azienda di definire la propria strategia di employer bran-ding muovendosi su un terreno più “vergine” e cioè nonparticolarmente intaccato dalle attività di comunicazionecorporate e/o di prodotto. Questi due semplici principi possono quindi aiutare l’azien-da ad individuare le condizioni preliminari per lo svilup-po efficace di una strategia di empoyer branding.Al fine di comprendere meglio gli aspetti sinora men-zionati ci avvarremo di un indicatore semplice ma, al-lo stesso tempo, molto efficace denominato Bci Index.(Brand Communication Interactive Index).L’indice consente di capire in che modo le due forme dicomunicazione (corporate e employer branding) interagisco-no tra di loro e, soprattutto, quali sono gli effetti in termi-

ni di posizionamento del brand sul mercato target e rispet-to alle aziende concorrenti.Esso è il risultato di due principali analisi: la Corporate BrandAnalysis e l’Employer Brand Analysis.Con la prima si ottengono informazioni sul grado di ap-prezzamento dell’immagine istituzionale dell’azienda. Essasi fonda essenzialmente sulla domanda: “quale tra le azien-de del settore ha l’immagine più accattivante?”.Mentre con la seconda si hanno informazioni sul gradodi apprezzamento dell’azienda come employer of choice e cioècome datore di lavoro ideale in cui andare a lavorare. Essascaturisce dalla formulazione della seguente domanda: “inquale azienda del settore vorresti andare a lavorare?”.Il risultato dell’incrocio di queste due analisi è un grafico(esempio riportato sotto) nel quale i valori evidenziati sul-l’asse delle ordinate si riferiscono al numero dei candida-ti che hanno espresso il proprio apprezzamento nei con-fronti dell’immagine istituzionale. Mentre i valori eviden-ziati sull’asse delle ascisse del grafico si riferiscono, invece,al numero dei candidati che hanno manifestato interessead andare a lavorare nelle aziende di riferimento. La posizione delle aziende nei diversi quadranti assume,quindi, un significato ben preciso. Nel quadrante A, ad esempio, sono collocate le cosiddet-te “Best corporate” e cioè aziende con un basso livello di ap-

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Grafico 1 - Bci Index - settore agroalimentare-beverage-

largo consumo (Indagine 2006)

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peal come employer e un alto livello di gradimento per lapropria immagine istituzionale.In questo quadrante troviamo, solitamente, aziende la cuipolitica di corporate branding risulta molto incisiva, mentremeno efficace risulta la strategia di employer branding. Talerisultato può essere dovuto a un’azione di corporate brandingpiù invasiva nei confronti di forme di comunicazione piùmirate (es. employer branding) oppure, può essere, sempli-cemente, il risultato di una meno incisiva azione di emplo-yer branding.Nel quadrante B sono collocate le cosiddette “Strongcompany” e cioè aziende con un alto livello di gradimen-to della propria immagine e un alto livello di appealcome employer. In questo quadrante troviamo aziende nelle quali le stra-tegie corporate branding ed employer branding sono molto ef-ficaci, tendenzialmente più integrate e in grado di produr-re un effetto di rafforzamento reciproco.Nel quadrante C sono collocate le “Best employer” e cioèaziende con un alto livello di appeal come employer edun basso livello di gradimento della propria immagi-ne corporate.Si tratta, soprattutto, di aziende con una efficace stra-tegia di employer branding e una politica di corporate bran-ding poco invasiva. Infine nel quadrante D sono collocate le cosiddette“Weak company”. In questo caso si tratta di aziende conun basso livello di appeal come employer e un altrettan-to basso livello di gradimento della propria immagi-ne istituzionale.È un risultato solitamente legato a quelle aziende per lequali le strategie di corporate branding ed employer branding,se esistenti, sono poco efficaci o semplicemente perché sitratta di aziende poco conosciute.A titolo di esempio su quanto detto sopra si riporta ungrafico riferito al Bci Index scaturito da una indaginesvolta nel 2006, in collaborazione con Monster Italia,sui top graduate(1). Il grafico 1 mostra il posizionamento di alcune aziende(2)

operanti nel settore agroalimentare-beverage-largo con-sumo. Dal grafico 1 si può notare come sul quadranteB siano facilmente identificabili le cosiddette “Strongcompany”. Esse sono Barilla, Procter&Gamble, L’Oreal,Coca Cola Hbc e Heineken. Queste aziende hanno qualcosa di importante in comu-

ne. Sono realtà molto apprezzate sia sul piano istituziona-le (corporate) e sia come luogo di lavoro (employer). Il gradodi apprezzamento è, più o meno, marcato a seconda, ov-viamente, della posizione dell’azienda all’interno del me-desimo quadrante. La posizione di Barilla, ad esempio, è la migliore. Lo scar-to tra quanti l’apprezzano come corporate e quanti la desi-derano come employer è decisamente più ridotto rispettoalle altra aziende. Questo può dimostrare che le due forme di comunicazio-ne interagiscono bene supportandosi reciprocamente. Le forti connotazioni che caratterizzano il brand Barillae, in particolare, il suo prodotto sono, probabilmente, leprincipali ragioni di questa efficace interazione. Barilla è un brand italiano che ha, da sempre, evocato va-lori importanti quali la famiglia, il rispetto per la natura,la tradizione. Ecco perché il prodotto Barilla non solo è presente nell’a-limentazione della maggior parte degli italiani, ma ha sem-pre rappresentato, anche, un efficace volano promoziona-le di una forte identità aziendale la cui spendibilità si è di-mostrata efficace anche sul mercato del lavoro, diventan-do perciò un valido strumento di attracting nello sviluppodelle politiche di recruiting aziendale.Questo tipo di valutazioni fatte per Barilla possono, ovvia-mente, essere fatte, con le opportune differenziazioni, pertutte le altre aziende collocate sia sul quadrante B sia su-gli altri quadranti. Va da sé che le aziende raggruppate nel quadrante C mo-strano una posizione più delicata e svantaggiata rispetto al-le altre del settore di riferimento. Un chiaro segnale di al-larme per queste aziende, che devono necessariamente im-pegnarsi di più nello sviluppo di azioni di comunicazione,più o meno integrate, capaci di provocare spostamenti delproprio brand verso posizioni più positive rispetto ai con-correnti diretti del settore. Il Bci Index, come si è visto, costituisce quindi uno deglistrumenti di valutazione preliminare del posizionamentodel proprio employer brand in grado di fornire alcune im-portanti informazioni che consentono di tracciare le pri-me linee guida per lo sviluppo della strategia.Nonostante l’efficacia di questi strumenti di analisi in Italiasolo alcune aziende hanno iniziato a usarli prevalentemen-te allo scopo di supportare le attività di recruiting e per at-trarre soprattutto particolari segmenti del mercato del la-voro ritenuti particolarmente critici quali i neolaureati inmaterie tecnico-scientifiche ed economico-statistiche e se-nior manager in possesso di specifiche skill. Si tratta prevalentemente di aziende multinazionali che,per cultura e dimensioni, hanno avuto la possibilità di mu-tuare prima di altre questo tipo di innovazioni rendendopiù efficaci le proprie politiche di campus recruiting e di em-ployer branding.

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(1)Si tratta di un segmento particolarmente critico del mercato del lavorodefinito in base ai seguenti requisiti: aver conseguito la laurea nei tempi pre-visti (età max 26 anni); aver conseguito la laurea con il massimo dei voti (da105 a 110 e lode); buona/ottima conoscenza della lingua inglese; aver avu-to un’esperienza di lavoro/formativa all’estero; provenienza da facoltà tec-nico-scientifiche e/o economico-statistiche.(2) L’indagine ha coinvolto 650 top graduate ai quali sono state mostrate120 aziende suddivise in 7 macro settori merceologici.

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Negli ultimi anni, ad esempio, c’è stato un radicale cam-biamento, in particolare, nella gestione dei rapporticon le università. Si è passati da un da un approccio campus oriented a un ap-proccio più student oriented.Per anni, infatti, le imprese medio-grandi o multinaziona-li si sono rivolte solo ad alcune università che, per il loroprestigio acquisito, erano in grado di garantire le risorsemigliori. Oggi le aziende hanno dovuto allargare il propriobacino di riferimento anche ad altre università minori alfine di aumentare la disponibilità di risorse necessarie al-le mutate esigenze di recruitment. In questa direzione sono andate alcune importantiaziende quali Unilever il cui brand, pur non goden-do di una forte notorietà, si è con il tempo affermatosoprattutto nei campus grazie a una strategia di emplo-yer branding che prevedeva lo sviluppo di un’attività dicomunicazione differenziata a seconda del prestigioe della dimensione dei singoli atenei. Ad esempio, suuniversità dove la presenza di altre aziende era mag-giore, venivano preferiti interventi più mirati su tar-get selezionati mediante workshop o seminari. Questopermetteva di ottenere una maggiore attenzione da par-te dei candidati target e garantiva una più efficace co-municazione del proprio employer brand. Differente èil caso di una partecipazione ad una job fair dove la pre-senza confusa di un gran numero di potenziali candi-dati e di aziende in diretta concorrenza tra di loro pro-duce un risultato comunicazionale sicuramente menoefficace e, in certi casi, anche controproducente.Sono stati, poi, individuati nuovi strumenti sicuramente piùefficaci ed in grado non solo di aprire il dialogo con le uni-versità ma anche di mantenerlo nel tempo.Gli uffici interni alle università stanno rafforzando i loroservizi di orientamento all’uscita, sia per la maggiore au-tonomia di cui godono attualmente e sia perché le attivi-tà cosiddette di placement sono diventate importanti e stra-tegiche per la sopravvivenza stessa delle università. In particolare, sono sempre più frequenti i momenti di in-contro con le aziende che prendono la forma di cocktaile/o pranzi di lavoro con tanto di brand aziendale. Oppureveri e propri interventi da parte di manager all’interno del-la didattica che, oltre a fornire un’applicazione pratica diquanto teoricamente studiato, costituiscono per l’aziendauna valida occasione per comunicare e promuovere il pro-prio employer brand. Quest’ultima strategia, che nei paesi anglosassoni viene chia-mata Class Guest Speaking, viene adottata, in Italia, soprat-tutto da aziende che operano nel settore della consulen-za quali McKinsey, Sas, Boston Consulting Group. Ma anche lo sviluppo di politiche di recruitment a livello in-ternazionale sta sempre più facendo emergere il bisognodi allargare l’ambito geografico di riferimento per trova-

re quelle figure professionali che non sono presenti sul mer-cato del lavoro interno. In alcuni paesi, infatti, non solo è significativa la pre-senza di risorse qualificate, ma si registra anche unaforte disponibilità a cercare lavoro fuori dai propri con-fini nazionali. È evidente che tali cambiamenti, soprattutto nel mo-do di fare recruiting, sono stati possibili in Italia anchegrazie a un processo di “educazione” alla cultura del-l’employer branding sviluppato grazie alla sensibilità diconsulenti e/o docenti che, attraverso l’organizzazio-ne di conferenze sul tema, hanno iniziato a promuo-vere i primi modelli di sviluppo dell’employer brandingsottolineando l’importanza delle analisi di posiziona-mento sul mercato interno ed esterno del lavoro e ilvalore strategico delle attività di collegamento con leuniversità. Concetti quali positioning, differenziazione, employer valueproposition o, ancora, class guest speaking, employer web cast, ecc.stanno oggi diventando, sempre più, presenti nelle docu-mentazioni interne delle aziende fornendo le basi per lacostruzione di nuove best practice.Ma si tratta ancora, in alcuni casi, di semplici azioni di“facciata”che, molto spesso, non producono seguito onon hanno molta efficacia.L’esigenza di adottare una strategia di employer brandingtrova in Italia ancora forti resistenze, per motivi lega-ti alle scarse risorse finanziarie disponibili, allo scarsocoinvolgimento delle altre funzioni aziendali sia nel-la fase di definizione degli obiettivi sia nella fase di im-plementazione della strategia medesima.Nonostante queste limitazioni esistono tuttavia buoneprospettive per il suo futuro sviluppo, soprattutto gra-zie a una serie di fattori. Innanzitutto il desiderio delle aziende di capirne di piùed il fatto che questo desiderio si stia spostando dagli uf-fici del Personale ai “piani alti” delle aziende, il che do-vrebbe portare ad una maggior sensibilità diffusa versoquesta nuova strategia, aumentando così le possibilità dieffettiva realizzazione, il riconoscimento che la “risorsauomo” sia ormai diventata un asset “intangibile” assolu-tamente critico per la competitività dell’azienda ed, in ul-timo, l’esistenza di un collegamento sempre più forte trala reputazione dell’azienda, la sua immagine istituziona-le e la capacità di attrarre i talenti.E sarà proprio questa la grande sfida per il futuro e cioèla capacità dell’azienda di gestire ed integrare al me-glio i suoi diversi ruoli: come realizzatore di profittomediante la produzione di beni e servizi, come real-tà “socialmente” responsabile grazie ad un comporta-mento sempre più etico ed, infine, come “luogo di la-voro” dove i propri dipendenti attuali e potenziali pos-sano trovare il piacere di lavorare.

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Non si può fare di una esperienza una storia, né di un even-to un caso se non si è disposti a far luce sugli elementi co-stitutivi della trama. Il che non significa dare avvio a unaoperazione retorica che sappia evidenziare le direttrici dellavoro sin qui compiuto, ma vorrebbe piuttosto risultareun’espressione di riconoscimento (e di riconoscenza) ditutti i costituenti, le voci, le difficoltà e i successi di un “per-corso in-corso” che vede il Gruppo Fiat al centro di un’in-teressante scommessa di immagine (e sostanza).Per fare questo vorremmo simbolicamente invitare chi leg-ge ad abbandonare probabili attese cui anni di letteratu-ra sul management e di breviari di comportamento orga-nizzativo ci hanno abituati. Quanto segue, infatti, non in-tende essere una semplice ricostruzione di pratiche cui l’e-sperienza e i risultati hanno dato ragione. Vorremmo sfi-dare il lettore proponendogli di accogliere la stessa sfidache quotidianamente vale per chi lavora per il Gruppo Fiat:per farlo prendiamo in prestito le parole del nostro Ceo,Sergio Marchionne che invita costantemente il suo teamdi lavoro a “non seguire linee prevedibili, perché al traguardo del-la prevedibilità arriveranno prevedibilmente anche i concorrenti.”(1)

Questo scritto, infatti, racconta un’esperienza che deve ilsuo carattere sperimentale al coraggio e all’energia che mol-ti di noi hanno messo a servizio di idee e immagini nuo-ve. La trattazione sarà pertanto un esperimento di impre-vedibilità, come a dire che non potremmo raccontare al-cun cambiamento senza variare di tanto in tanto la strut-tura stessa della narrazione. Per questo motivo invitiamoil lettore a guardare al crocevia tra ciò che il Gruppo è sta-to e ciò che intende essere, con una proiezione al futuroquale imprescindibile direzione del lavoro di ogni giorno. La letteratura ci conforta con etichette e definizioni. La ri-cerca matura e consolida per noi le verità dei fatti. Per em-ployer branding si intende la sommatoria degli investimen-ti e degli sforzi messi in campo da una azienda con lo sco-po di comunicare alle risorse attuali e future la propriaattrattività come luogo ideale di lavoro (Lloyd, 2002). I fat-ti dimostrano che attraverso una strategia di employer bran-ding l’azienda è in grado di focalizzare la propria employeridentity, valutarne il grado di attrattività in termini di mag-giore differenziazione rispetto ai concorrenti e comunicar-la sia all’interno, che all’esterno.La domanda, dunque, necessariamente recita: “che cosa si-gnifica employer branding per il Gruppo Fiat?”, nonché più am-piamente “che cosa significa intraprendere azioni di questa na-tura in un settore produttivo quale quello dell’automotive?”Vorremo celebrare - con sintesi e un po’ di necessaria ri-

dondanza - la risposta per noi più convincente a entram-bi i quesiti posti: innovazione, innovazione, innovazione. Che il mercato automotoristico goda della “cattiva fama”di essere statico e destinato a un trend piuttosto stabile è,purtroppo, una percezione ancora ampiamente condivi-sa. Con soddisfazione ci consentiamo l’azzardo di afferma-re che la rivoluzione copernicana made in Fiat di ultimo pe-riodo è valida prova per confutare l’ipotesi di un merca-to dalle logiche ormai ampiamente svelate e dai trend pres-soché confermati. L’innovazione, quale leva di sopravvivenza prima e del cam-biamento poi, ha investito le aziende, le funzioni, i livelliorganizzativi del Gruppo chiamando tutti a farsi interpre-ti del non semplice compito di ricostruire e dare voce al-l’identità del Gruppo. Non solo cambiamento dunque, ma addirittura, come di-mostrano le prime pagine di importanti riviste del setto-re(2), una radicale inversione di rotta. Confortati da risul-tati economici in costante crescita, abbiamo cominciato agiocare la partita sul fronte della nuova immagine in lineacon l’intenzione di ritornare a essere primo attore (fun-zionale, tecnologico ed emotivo) del mercato. Non è ca-suale che lo spot pubblicitario andato in onda in conco-mitanza con il lancio del nuovo modello della 500 chiu-desse con l’emblematica affermazione “La nuova Fiat ap-partiene a tutti noi.”Il lancio sul mercato della 500, riuscitissima sintesi di pas-sato e futuro, da tutti riconosciuta come il Manifesto dellanuova Fiat, è stata una sfida tra le altre. È ripercorrendole principali di queste sfide che vorremo raccontare il per-corso di un grande gruppo industriale impegnato a comu-nicare a interlocutori presenti e futuri le ragioni della suaattrattività rispetto ad altri attori sul mercato. La cornice che andiamo ricostruendo si basa, è chia-ro, su elementi (li abbiamo citati) quali l’innovazione,il cambiamento, le sfide di un mercato in evoluzione:vale la pena di circoscrivere ulteriormente il perime-tro della riflessione, precisando che il target di popo-lazione cui ci siamo rivolti è stato quello dei laurean-di e dei neolaureati. Partner del percorso sono state,in modo particolare, alcune università che, per ubica-zione e area geografica servita, per tipologie di profi-li e percorsi formativi garantiti, hanno rappresentato

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Fiat Group Employer brand r-evolutiondi Valeria Pardossi e Laura Viada

(1) Intervista rilasciata a Dario Cresto Dina, La Stampa, 15 ottobre 2007.(2) Fortune, AutoBild, TopGear.

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il bacino di riferimento per le azioni di recruitment eselezione degli ultimi 6 mesi di lavoro. L’Eb per Fiat ha dunque significato definire modelli di azio-ne innovativi mediante i quali coinvolgere e raggiungerequel segmento di popolazione che rappresenta oggi il dnaaziendale di domani. Il compito è risultato sin da subito tanto urgente quantodi difficile conseguimento. A monte dell’operatività di azio-ni mediante cui una azienda incontra e comunica con l’u-niverso dei neolaureati, ci siamo confrontati con elemen-ti di complessità legati alla numerosità degli stakeholderinterni, alla funzionalità dei processi, alle crescenti esigen-ze di un business dai tempi accelerati, nonché al radica-mento di vissuti e percezioni che portano in direzione op-posta e contraria a quella che queste pagine delineano. Sciogliere questi nodi ci ha aiutato a definire, strada facen-do, il senso stesso dell’Eb per il Gruppo Fiat.Procediamo con ordine, dunque dal Capitolo 1 che recitae celebra necessariamente Le diverse voci del coro, o megliodel Gruppo. Qualche numero ce ne dà prova: il GruppoFiat conta ben cinque settori operativi (Automobili,Macchine per l’agricoltura e la costruzioni, Veicoli com-merciali, Componenti e Sistemi di produzione), 15 com-mercial brand e location distribuite in 190 paesi al mon-do. Sono, questi numeri, sufficienti di per sé a fare del ca-so Fiat un elogio alla complessità. Face complexity e Make itsimple sono, nel gergo aziendale, statement “di largo con-sumo”. Per Fiat sono state e sono, volendo approfittare an-cora di una metafora, “pane quotidiano”. Il Capitolo 1 dell’Ebsecondo Fiat ha dunque contemplato l’interessante sfidadi ricondurre identità tra loro diverse ad un unico branddi Gruppo. Il rischio di operazioni premature o indelica-te è stato alto sin da subito: il tempo e la fiducia reciprocatra partner di uno stesso business hanno consentito di tro-vare le giuste risposte a ineludibili quesiti. Quale ricettaavrebbe garantito la giusta dose di visibilità a ogni singo-lo brand? Come mantenere in vita le specificità di ciascu-na realtà mettendole nel contempo a servizio della logicadi Gruppo? Questa sfida, non va dimenticato, è stata accolta ed elabo-rata dapprima internamente per poi divenire oggetto diun progetto comunicativo che, nel raggiungere i suoi de-stinatari (i neolaureati), ha dovuto confrontarsi (ancorauna volta) con l’esistere e il persistere di pregiudizi, dub-bi e scetticismi da parte di molti. Incontrando i neolaurea-ti ci siamo resi conto, infatti, di quanto questa popolazio-ne non solo sia lontana dal mercato del lavoro, ma ne co-nosca gli elementi per via di canali non sempre struttura-ti o aggiornati. Così, non di rado, abbiamo dato rispostaallo stupore di quanti non avevano recepito il disegno dicomplessità che risiede nel Gruppo Fiat, disegno celato alungo dall’immagine (oggi più che mai sorpassata) di unafabbrica di sole automobili con base a Torino.

Nella sezione Learning Lessons ci sentiamo dunque di re-gistrare che l’Eb è di valore se riesce ad essere espressio-ne rappresentativa seppur sintetica delle diverse identitàdel Gruppo. Attenzione dunque al rischio di stemperare(e liquid-are) troppo entusiasticamente diverse iden-tità in una sola. Fa scuola a questo proposito il moni-to di quanti citano l’eterogeneità interna come uno de-gli elementi a garanzia del successo della propria stra-tegia di Eb (Minchington, 2006). Riuscire a dare visi-bilità in termini di Eb a 15 company brand facendo ri-corso a un solo corporate brand significa non solo esse-re riusciti a stabilire un’identità comune, ma anche averconseguito un obiettivo di sintesi senza danneggiarela ricchezza e l’articolazione della Employee value pro-position. Dal punto di vista operativo questo lavoro dicoordinamento e governo dell’immagine ci ha orien-tati in direzione di una scelta che definiamo di mass-exclusive presence nelle università. Abbiamo partecipa-to ad eventi con allestimenti grafici group-speaking an-ziché company-specific, e abbiamo a lungo concertato econsolidato le informazioni che sarebbero confluite inun unico sito internet dedicato al recruitment per l’in-tero Gruppo Fiat. Inoltre abbiamo scelto di avviare part-nership con le università di nostro interesse nell’otticadi organizzare occasioni di incontro con gli studentiche non fossero una banale ripetizione delle formu-le già note (career day e job fair).La seconda voce dell’indice di questo manuale d’esperien-za andrebbe invece dedicata al tema dei processi, ossia alpunto di snodo (e talvolta di detonazione) delle difficol-tà di cui al tema precedente. Se concordiamo circa il fat-to che nel breve periodo l’obiettivo dell’Eb consiste di unritorno di immagine, conveniamo anche rispetto all’evi-dente tensione, nel lungo periodo, a conseguire risultatiin termini di acquisition e retention dei migliori talenti pre-senti sul mercato.A questo proposito possiamo aggiungere un dettaglio ul-teriore alla nostra definizione di Eb: l’esperienza di ultimoperiodo ha significato dare avvio alla costruzione di un cam-pus recruitment entro il quale ciascuna azienda del Gruppo(a nome del Gruppo) avrebbe potuto intraprendere azio-ni coordinate di sourcing, recruitment e selection. Raccontarecome abbiamo dato forma a questo progetto equivale a ri-costruire un piccolo (ma importante) dettaglio del cam-biamento che più ampiamente ci ha interessati. Una vol-ta chiarita la natura di ‘rappresentante e portavoce’ del mar-chio Fiat Group rispetto ai marchi delle diverse aziende delGruppo, l’impegno è andato in direzione della strutturafunzionale che avrebbe fatto da service alle esigenze di re-cruitment dei diversi stakeholder interni. Tre gli elementiche abbiamo tenuto in considerazione: 1 - la definizione dell’organizzazione del recruiting;2 - la creazione di una strategia di Gruppo;

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3 - la definizione di una piattaforma tecnologica.Dinnanzi alle alternative della centralizzazione e della de-centralizzazione, la scelta è ricaduta su di un modello ibri-do che fa perno su uno staff dedicato di persone, risorsee strumenti che compongono il Recruiting Center (1).Questa la struttura owner delle azioni di recruitment e selec-tion di neolaureati per l’intero Gruppo Fiat e garante del-l’omogeneità della selezione e dei principi a questa appli-cati. Sul fronte strategico la risposta risiede nuovamentenel nostro Recruiting Center: è a partire da qui che inten-diamo mantenere i contatti con le università partner, è que-sta la prima interfaccia attraverso cui gli studenti conosco-no le aziende del Gruppo, è questo lo staff di persone de-dicate a presenziare eventi e garantire il flusso continuodella selezione.Anche la costruzione di una piattaforma tecnologicaè parte del processo di razionalizzazione e ristruttura-zione della struttura che governa le azioni volte ai neo-laureati: il front-end costituito da un sito web(3) che va-le quale unica interfaccia per tutte le società delGruppo e il sistema di back-end che consente la gestio-ne condivisa delle candidature. Questi, molto in sin-tesi, gli elementi di un sistema sinergico, proattivo enon ridondante di gestione delle candidature a garan-zia sia della visibilità del profilo del candidato sia del-l’accesso da parte di questo a tutte le proposte al mo-mento attive in tutte le aziende del Gruppo.Le scelte operate (1, 2, 3) costituiscono la prova tan-gibile di una filosofia di gestione che potremo defini-re sempre più network-oriented. Crediamo infatti che unorgano centrale quale quello del Recruiting Center pos-sa essere non solo interlocutore ideale dei diversi needdelle aziende del Gruppo, ma anche riferimento uni-co per la rete di rapporti che abbiamo avviato con leuniversità italiane ed estere. Ambiziosamente e corag-giosamente guardiamo e pensiamo il network come al-ternativa al workforce planning. Solo coltivando una part-nership nel tempo potremo infatti predisporre azio-ni e iniziative innovative targettizzate in funzione siadel business sia dell’offerta del mercato del lavoro. Questo ultimo dato ci consente di proseguire e scrive-re di un ipotetico Capitolo 3 dell’Eb. La letteratura nonmanca di riferimenti in tema di modalità di attrazio-ne, selezione e fidelizzazione dei giovani talenti (Ryan,Horvath, Kirska, 2005; Reeve, Schultz, 2004): meno as-siduamente però si interroga sulle modalità (se ce nesono) di pensare ai processi di recruitment e selection aven-do come elemento di partenza e di arrivo le esigenzedel business. Ciò che idealmente ci siamo impegnatia realizzare è una sorta di business loop closure. Il tem-

po, vincolo e opportunità del vivere in organizzazio-ne, è oggi più che mai dettato dall’economia del mer-cato. Non si tratta banalmente di accelerare i proces-si, ma di pensare ai processi in funzione della massi-ma fruibilità del risultato. Che cosa si aspetta il GruppoFiat dal suo Recruiting Center? Che le attività di sour-cing e selection siano sempre attive, pronte cioè a ri-spondere all’insorgere di una nuova esigenza del bu-siness. Altrettanto vale per quelle azioni di Eb che do-vrebbero riportare alla mente e nelle quotidiane espe-rienze di tutti il suono, la materialità e l’eco emotivodei brand del Gruppo. Altra Learning Lessons: l’Eb per Fiat si profila come in-sieme di riflessioni e azioni che nascono intorno allaconiugazione di esigenze di Return On Image e di piùefficace processo di attrazione e recruitment dei giova-ni talenti. Un segmento giovane impone modalità gio-vani: è per questo che la nuova 500 è pensata come ilManifesto di un Gruppo che ha saputo cambiare. Il Quarto capitolo di questa saga si scrive da sé: in essoincontriamo i pregiudizi e la disinformazione (o nonbuona comunicazione) che hanno costruito e conso-lidato nella memoria collettiva un’immagine statica estereotipata delle nostre aziende. Ci avevano abituati(i media, la storia e i passaparola) ad una Fiat Torino-centrica, in un’opera di riduzionismo estremo a voltehanno indebitamente sintetizzato (e ridotto per l’ap-punto) una grande realtà a molto meno, a molto po-co. Confrontarsi con il pregiudizio, sfatare il mito e da-re visibilità al vero e all’attuale ha significato raccon-tare in prima persona il nostro lavoro e quello dei col-leghi. Ci siamo convinti dell’esigenza di raccontare lenostre aziende attraverso le Persone e le Storie che nel-le aziende del Gruppo ogni giorno si compiono. Tuttoquesto è stato possibile grazie a tre ulteriori ingredien-ti che vorremo aggiungere a quanto sin qui detto, qua-li vero e proprio carburante dell’Eb innovativo. Primotra questi citiamo la percezione a livello collettivo delcambiamento in corso: molti studenti (e non solo lo-ro) ci hanno avvicinato incuriositi quasi a voler riceve-re conferma e prove dirette della rivoluzione in atto.All’attenzione rinnovata del pubblico si è aggiunta la pro-va del risultato economico: un secondo elemento di for-za che ci ha sostenuti e ha reso possibile (oltre che age-volato) il nostro re-ingresso nei contesti universitari. Lastbut not least, il lancio della 500: un prodotto giovane ca-pace di raccontare una azienda matura e al tempo stes-so giovane. Avvantaggiati da questa positiva congiuntu-ra, abbiamo potuto giocare la sfida di incontrare i gio-vani universitari per raccontare loro non solo di open po-sition, on-boarding program e training activity, ma per con-dividere e costruire uno spazio simbolico, mentale edemotivo di vicinanza ai nostri brand.

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(3) www.fiat-careers.com.

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Se l’intenzione di queste pagine fosse quella di rassicura-re il lettore in cerca di formule, il tenace implementatoredi processi o lo studioso formalizzatore di modelli, potrem-mo dire che la sfida del Gruppo si è compiuta grazie a unastrategia di marketing innovativa, a un processo struttura-to e all’osservanza delle scadenze. Ma non è questo che ave-vamo in mente quando abbiamo accolto con entusiasmola proposta di raccontarci in queste pagine. Siamo convin-ti del fatto che il riscatto di immagine del Gruppo sia sta-to possibile per il fatto stesso di aver creduto alla formuladell’Eb come ad una occasione per una promessa da rivol-gere ai neolaureati più che non come a una tecnica perconvincerli a riconoscere nelle nostre aziende dei cosid-detti best employer. Concepire l’Eb come espressione di unapromessa significa anche impegnarsi a garantirlo nel tem-po. È nell’esperienza di molte aziende (anche di Fiat, nelpassato) l’aver gestito l’Eb secondo un modello del tipoon-off sintomatico di un esistere funzionale alle esigenzedella selezione. La sfida di domani sarà garantire ai nostribrand identica eco e visibilità a prescindere dai trend delmercato e dalle esigenze di nuovi ingressi in azienda.Rinunciare a mantenere in vita tutto questo, aderire in al-tre parole al modello on-off, significherebbe scoprire in fu-turo di essere già in ritardo. Non una ‘promessa con sca-denza’ dunque, ma una promessa che intende avere vitalunga nei pensieri e nei cuori di quanti sapremo raggiun-gere. Il nostro mercato, e i prodotti delle nostre aziende,ci offrono infatti un vantaggio non da poco che risiede nel-la emozionalità delle cose cui ci dedichiamo. Le personericonoscono elementi di sé nei nostri prodotti: questo ciimpone di proseguire nella direzione di un Eb che sia sem-pre più capace di toccare le leve emotive. La direzione cheabbiamo intrapreso è quella dell’Eb come promessa di emo-zionalità da vivere come consumatore, come parte dellasquadra di lavoro, come futuro aspirante membro dell’or-ganizzazione. Tra gli obiettivi del Gruppo potremmo quin-di aggiungere la sfida di creare un marchio che sappia re-sistere non solo al tempo, ma anche ai trend del business;che sia, in altre parole, così radicato nelle menti e nei cuo-ri delle persone da non necessitare del conforto dei risul-tati economici. Questa crediamo potrebbe essere in un fu-turo non lontano la formula per un vero Default EmployerBranding: motori sempre accesi, nessuna sosta consentita,perché a guidarci è l’emozione di far parte della squadra.L’emozione infatti sa diffondersi senza bisogno di reitera-zione, il dato razionale necessita invece di continue con-ferme. È ormai chiaro come sia la leva emozionale il dri-ver della nostra argomentazione intorno alla promessadell’Eb. I nostri brand oggi, possiamo raccontarlo con sod-disfazione, raccontano di un assetto valoriale prima che nondi una economia di scala. Alcuni mesi fa tutto questo era un progetto. Non abbiamo perso tempo.

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1 - Employer branding post-galileianoChe volto assume l’employer branding se osservato congli occhi dell’employer o, ancora meglio, del professio-nista e persona che ne subisce o fruisce le attività/ini-ziative?La domanda nasce dalla vita reale di chi scrive. Moltospesso infatti, in questi ultimi nostri anni di lavoro ericerca, ci siamo sentiti rivolgere, dal personale inter-no di diverse aziende, domande sul senso di alcune ini-ziative di coinvolgimento e marketing dedicato al so-ciale d’impresa.In effetti gran parte della letteratura di riferimento sul-l’employer branding assume il punto di vista “galileiano”per cui basta cercare di costruire un certo tipo di im-magine aziendale o organizzativa, attivare alcune ini-ziative coerenti con l’immagine definita su pubbliciesterni (di solito giovani) e su quelli interni (decisa-mente più maturi e quindi meno motivati) per raggiun-gere la quadratura del cerchio. Questo approccio, che non intendiamo per nulla cri-ticare perché è l’unico che ad oggi davvero possedia-mo, mette però in luce alcune lacune che non tengo-no conto dell’identità storica degli individui che vivo-no e lavorano nelle organizzazioni e del contesto so-cioculturale in cui l’organizzazione stessa opera.Gli individui entrano a far parte di una organizzazio-ne perché quell’organizzazione organizza career day ac-cattivanti? Forse.Vi rimangono perché l’organizzazione in questione or-ganizza un corporate portal utile alla comunicazione in-terna? Può darsi.Si sentono umanamente coinvolti perché l’organizza-zione mette in piedi dei family day? Ammettiamolo pu-re. Ma tutto questo è intrattenimento sofisticato che -sebbene utile - non credo ci permetta di capire - congli occhi dell’employer - l’employer branding. Per questovogliamo provare a ipotizzare un employer branding post-galileiano.

2 - Employer branding e turbolenze criticheChi lavora oggi in una organizzazione e cerca di prende-re in mano il suo ciclo di vita aziendale (con tutti i suoidiversi recruiting, le tante nuove induction, le diverse car-riere sviluppate, interrotte e riprese, i diversi sistemi direwarding e performance management) in realtà si trova sot-toposto a una turbolenza esistenziale molto critica.La vita organizzativa è oggi costituita - nel tempo del-l’incertezza rischiosa e della complessità compiuta - dagravi difficoltà. Essere “employer” e professionisti inquesto periodo storico è molto più difficile, preoccu-pante, affaticante di un tempo. Non a caso le ultimericerche internazionali (Harvard Business Review Italia,gennaio/febbraio 2007) parlano di dimensioni orga-nizzative sempre più workaholiche, caratterizzate da:� Flussi di lavoro imprevedibili,� Ritmi di lavoro intensi (oltre le 12 ore);� Reperibilità totale (24 ore su 24);� Viaggi di lavoro continui;� Elevato stress fisico e psichico. In questo scenario estremamente turbolento del la-

voro, che supera di solito le 70 ore settimanali, le re-sponsabilità discrezionali - che un professionista deveassumersi - sono enormi non solo per le diverse varia-bili della cultura del nuovo capitalismo (Sennet, 2006)ma anche e soprattutto per l’intensificarsi del potereimperante del principio di prestazione(1). Le carrierelineari, “stadiali” o “scalari”, lasciano spazio a percor-si di carriera “reticolari”, “spiraliformi” e “sincopati”,su cui ci si muove in orizzontale e in diagonale. Chi re-sta in azienda non è per forza chi è più “fedele” allapropria organizzazione. Non esiste più la regola del “la-vora sodo e sarai ricompensato”. Non vi sono garanzie percoloro che lavorano sodo e svolgono bene il loro la-voro. Talora si viene ricompensati, altre volte si perdeil lavoro in seguito a un ridimensionamento azienda-le. Certamente vale il criterio della performance: “Qualevalore porti a questa azienda? Quali i risultati immediata-mente osservabili?”All’interno di una dimensione sempre più ossimorica,in cui piacere e prestazione si rincorrono a vicenda. Il“dover essere” dell’employer, infatti, si configura come:� dominio sottomesso: bisogno di amministrare ma nonsopraffare;

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Post galilean employer brandingIl sociale d’impresa visto dall’individuo (oltre il “mal di scrivania”)

di Andrea Fontana

(1) In Eros e Civiltà, Marcuse spiega che il principio di prestazione è laforma storica prevalente del principio di realtà, che è a sua volta la tra-sformazione del principio del piacere. Il principio di realtà si configuraquindi come il modo di rinunciare a un piacere momentaneo in favoredi un piacere costretto, controllato e differito.

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� morbida rigidità: l’essere flessibili ma non cedevoli;� piacere doloroso: consumare lo spreco del proprio la-voro, lavorando così tanto da finire in un paradossoin cui lo stress della propria attività professionale di-venta fonte di piacere e felice identità;� umiliazione nobilitante: sottomettersi a situazioni de-primenti che vengono proposte e raccontate (vendu-te, si dice) come opportunità di crescita e auto-svilup-po;� scottante freddezza: sottoporsi a pressioni psicobiogra-fiche fortissime, ma dimostrando sempre concreta im-passibilità di fronte agli eventi critici dell’organizzazio-ne;� distanza avvicinante: le relazioni nella vita organizza-tiva sono fondamentali, a volte sono addirittura deter-minati rispetto ai compiti che si svolgono, ma ogni re-lazione richiede al management la capacità di dosarepresenza e lontananza per evitare sia la fusionalità delgruppo sia il solipsismo dell’individuo.Lavorare e svilupparsi, professionalmente e personal-mente, in un’organizzazione significa oggi impararea includere l’angoscia del proprio contrario. Questa affer-mazione, che potrebbe sembrare da terapeuta da set-timanale rosa, in realtà è una delle più importanti com-petenze da sviluppare in ambienti organizzativi dovetutta una serie di eventi, tematiche, dinamiche porta-no a vivere mutamenti molto marcati lontani dalla pro-pria personalità di base e dalla propria storia di vita.Mettendoci continuamente in difficoltà.

3 - Employer branding e “apicalità” individualiIn questa “nuova” etica del lavoro contemporaneo, incui si richiede una esitenzialità ossimorica per impre-se che vivono sotto costante turbolenza critica(Bauman, 2004), ognuno si confronta più che mai conle proprie apicalità esistenziali, i momenti dell’età adul-ta in cui si produce il più intenso e critico apprendi-mento sia in termini quantitativi sia qualitativi. In par-ticolare, il dibattito adragogico sottolinea che le api-calità esistenziali sono quelle esperienze riconducibi-li quattro dinamiche fondamentali: � amore, inteso come legame professionale di effica-cia (networking), passione progettuale, affettività re-lazionale;

� gioco, inteso come relax, divertimento, diversione dal-la fatica e dall’affare affaccendato (che altrimenti nonsa più guardare altrove);� lavoro, inteso come impegno, sforzo per il raggiun-gimento di una meta/obiettivo;�morte, intesa come “termine” e “fine” (di attività, pro-getti, lavori, carriere, business) e come tale interpre-tabile anche come elaborazione di questo luttuoso ve-nir meno.Tali apicalità permangono in ogni storia di vita e a se-conda dei modi e dei tempi in cui si manifestano dan-no vita a situazioni ed eventi più o meno apprenditi-vi.(2)

Oggi tutti sono chiamati a gestire e governare nel pro-prio progetto personale/professionale queste apica-lità - in un non semplice processo di governance in-terna.È come se biografie individuali, storie d’impresa, ciclidi vita dei prodotti e dei mercati si fossero fusi in ununico sistema(figura 1).In questo senso si ha un duplice capovolgimento del-le responsabilità strategiche individuali e organizza-tive:� da una parte, l’immagine e l’identità di una azien-da non è solo affare aziendale, ma diventa una costru-zione identitaria condivisa con le persone che opera-no in essa, perché altrimenti l’organizzazione non puòesprimersi in tutto il suo potenziale (si ha qui la fate-sharing organization, dove l’employer branding diventa con-divisione di destini;� dall’altra, il progetto individuale (personale e pro-fessionale) si può compiere solo là dove i singoli pro-

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Figura 1

(2) Per un approfondimento rimando a: D. Demetrio, Manuale di educa-zione degli adulti, Laterza, Bari, 1997.

Set socialiin divenire

Biografie individuali

Storied’impresa

Biografieprodotti

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APICALITÀ LEVE(cartacee, relazionali, digitali)

Amore Attività-strumenti che esaltino i legami personali e professionali, i diversi modi di stare insieme(inteso come legame di efficacia e passione vitale) e lavorare in azienda, i diversi tipi di efficacia relazionale interna

Ovvero: In questo senso alcuni strumenti interni dai booklet ai corporate portal, dalle Convention alle Famiglie Relationiship management professionali, al social networking possono diventare occasioni per allargare le dinamiche di utilità

sociale e socializzazione affettiva

Lavoro Attività di ingaggio che possano aiutare e supportare i diversi professionisti nelle loro differenti(inteso come impegno ordinario e straordinario) e molteplici esigenze professionali

Ovvero: In questo senso, diventa importante creare servizi/strumenti/gadget utili e preziosi ai professionistiOrganizational development interni: dal servizio di lavanderia per i dipendenti che non possono uscire per troppo lavoro alle

esperienze di “maggiordomo in azienda” (per combattere il “mal di scrivania”) fino ad arrivare alla corretta progettazione delle intranet interne dove inserire le “pagine gialle” virtuali (attraverso cui trovare i colleghi e le maggiori esperienze aziendali)

Gioco Attività di relax e divertimento, che diventano vere e proprie forme di divergenza professionale/(inteso come divertimento, relax e diversione) personale per non rimanere chiusi nelle anguste pareti d’ufficio e quindi schiacciati da un lavoro solo

e unicamente teso alla performance

Ovvero: In questo senso, oggi ci sarebbe da fare molto, non perché i vari “bimbo day”, i tanti “Family day”,Edutainment le molte iniziative aziendali, non siano occasioni di di-vergenza e divertimento ma per il fatto che tutte

rientrano in azienda, mentre bisognerebbe iniziare a pensare che la vita è anche “fuori” dal recinto aziendale. Così le stesse iniziative e molte altre potrebbero essere progettate e vissute al di là delle quattro mura organizzative senza per questo dover investire in viaggi esotici o pagare kilometraggi esorbitanti. Un esempio che ritengo interessante: alcune esperienze di outdoor urbano dove gruppi di persone interne escono per visitare e osservare città/ambienti ad alto valore simbolico (learning city)per “catturare” e “tesaurizzare” esperienze, pensare nuovi prodotti-servizi, guardare i diversi comportamenti di consumo.

Morte Attività che possano preparare a gestire meglio le diverse e ricorrenti crisi che caratterizzano la vita (intesa come fine e compimento) organizzativa contemporanea. La fine è sempre stata un tabù per le organizzazioni. Una sorta di

demone da esorcizzare, ma in una fase come quella che stiamo attraversando - caratterizzata daturbolenza critica e alta aggressività dei mercati - credo che “svegliare” il sociale d’impresa dal sogno di una vita comoda ormai passata sia un dovere organizzativo

Ovvero: In questo senso vedo una importante assunzione di responsabilità strategica da parte dell’impresa extreme management nei confronti dell’individuo (ormai smagato e consapevole delle criticità) nel dichiarare i modi in cui

l’azienda stessa assumerà le governance delle diverse exit strategy (i famosi Piani B e Piani C).Operativamente si potrebbe pensare a un “extreme management” che si occupi nei diversi bookletaziendali, nelle diverse convention che declamano gli strategic statement, nei portali interni, nella formazione, nella comunicazione interna, di creare appositi “spazi” (cartacei, relazionali, digitali) dove dare voce e motivazione di come verranno gestite per es. eventuali acquisizioni, vendite, cessioni aziendali, crisi del mercato ricorrenti, problemi finanziari, esuberi)

Tabella 1

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fessionisti decidono più o meno consapevolmente diaderire a questa dimensione problematica delle orga-nizzazioni, ne sono “addestrati” a sopportare i “trau-mi” e anzi ne ricevono adrenalinico stimolo.In altre parole, individui e organizzazioni devono di-ventare capaci di dare governance alle diverse apica-lità espresse tutte contemporaneamente nel lavoro.

4 - Employer branding e adultità organizzativaSe employer può essere letto come individuo e osserva-to dal suo angolo visuale visto come soggetto che vivetutte le esperienze di apicalità sottolineate preceden-temente, forse le attività e le iniziative di employer bran-ding potrebbero essere ampliate. In questo senso, lato individuo, è possibile dire che l’em-ployer branding non si configuri più come un semplicesistema di marketing per attrarre talenti o mezzo per“ben intrattenere” i professionisti interni, ma un dispo-sitivo di governance culturale complessa e ingaggio ope-rativo dell’impresa che, sfruttando le classiche leve stru-mentali (cartacee, relazionali, ditigiali???) possaespandere la sensibilità interna del sociale d’impresa,andando ben oltre il dominio del principio di presta-zione; che sappiamo non può essere l’unico senso delfare organizzativo. L’employer branding come dispositivo di questo tipo, po-trebbe far vivere strumenti che abbiano una logica difondo descritta in modo sintetico dalla tabella 1.Considerare l’employer branding come dispositivo post-galileiano per fare governance culturale e contempo-raneamente: � gestione relazionale � organizational development� edutainment� extreme management; è un modo per generare trasparenza etica e gestire unnuovo patto tra individuo e azienda basato su quelloche potremmo definire adultità organizzativa.Non più individuo immaturo (bambino) che ha biso-

gno della istituzione aziendale (adulta) per crescere;ma individuo maturo adulto (con le sue crisi, i suoi di-fetti, le sue speranze) che si confronta con l’organiz-zazione altrettanto matura e adulta (densamente cri-tica soprattutto se operante nei mercati occidentali or-mai saturi) inserita in dinamiche finanziarie, proget-tuali e di business ricorrentemente distorte.

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