Emotions gennaio2012

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In nostro numero di gennaio2012

Transcript of Emotions gennaio2012

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3Sommario

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TUNISIA CULTURALEalla riscoperta della comune eredità classicatesto di Roberto Lippifoto di Alessandro Neri

Carnevale in SLOVENIAi Kurent di Ptujtesto di e foto di Romeo Bolognesi

48 ore a YANGONtesto di Pamela McCourt Francescone

EgoDhevi SPAda antico regno a rifugio benessere di lussotesto e foto di Pamela McCourt Francescone

PETRIOLOle calde acque dei signori di Toscanatesto di Giuseppe Garbarino

TIVOLIviaggio a ritroso nel tempotesto di Raffaella Ansuinifoto di Marco Aschi

San Daniele del Friulila -Città slow- del celebre prosciuttotesto di Luisa Chiumenti

Il radicchio di Treviso e il variegato di Castelfrancotesto di Mariella Morosi

Mille lire al mesetesto di Giuseppe Garbarino

Capodanno? Grazie a Quinto Fulvio Nobilioretesto di Luigi Bernardi

L’anno del Signorelliun tributo al suo Giudizio Universaletesto di Valerio De Amicisfoto di Sandro Vannini

FascinoDagli alambicchi europei l’alchimia misteriosadella PORCELLANAtesto di Annamaria Arnesano

FascinoAlston Stephanusi virtuosismi di un giovane stilistatesti di Alessandra Amati

Kaleidoscope

Melegatti dolci e impegno socialea cura di Teresa Carrubba

Musica per viaggiaretesti di Marco De Rossi

Libri

Sultanato di Oman il deserto ai margini dell’Oceano Indiano

testo e foto di Teresa Carrubba

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Nuova Zelandala terra benedetta da Dio

Gli allegri colori della

GIAMAICA

L’EGITTO NEL CUORE...della storia e della cultura

testo di Anna Maria Arnesano

testo e foto di Pamela McCourt Francescone

testo di Mirella Sborgiafoto di Marcello Peci e Teresa Carrubba

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55Tempo di buoni propositi, gennaio. E di speranza. Ma anche di nuovi entusiasmi, nel lavoro, nella vita pri-vata e nelle passioni. La passione per il collezionismo, per esempio, che spinge l’amatore all’approfon-dimento attraverso la storia delle cose. O la passione per il fitness, nutrita dalla consapevolezza del “mens sana in corpore sano”, e dal desiderio di coccolare il proprio Ego per neutralizzare il frenetismo della vita. Ecco allora la ricerca di

Spa lontane, in Thailandia, con trattamenti che risalgono al Regno Lanna come la tecnica che fa uso di bastoncini di corteccia dell’albero di tamarindo, oppure le più tranquille Terme di Petriolo, in Toscana, un tempo frequentate dai Medici di Firenze e i Gonzaga di Mantova.. Entusiasmo nuovo anche nella passione per i viaggi, siano essi esotici o di casa nostra. Il ci-vilissimo Oman, con i suoi immensi deserti e le dune a strapiombo sull’Oceano Indiano, la Nuova Zelanda dai paesaggi naturali immensi e straordinari, la Giamaica, rutilante di colori e di allegria, la spettacolare archeologia di Egit-to e Tunisia, riaffiorate dalla crisi. L’Italia delle eccellenze, poi. Il San Daniele con il rinomato prosciutto e Treviso con il suo fiore d’inverno, il radicchio.•

Editoriale

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6Muscat- la Grande Moschea, dono del Sultano Qaboos al popolo

Dura meno di un respiro, quel momento. Quan-do con il fuoristrada saliamo in accelerata sul fianco della duna per non insabbiarci e ar-rivati in cima, in bilico con le ruote sospese, non c’è tempo per capire cosa ci sia al di là.

Il sussulto di paura dura meno di un respiro, poi diventa adrenalina, eccitazione. Un salto e di nuovo l’impatto con la sabbia per la discesa, a volte quasi perpendicolare. E si è pronti per scalare un’altra duna. Le immense dune delle Wahiba Sands, il deserto dell’Oman che dalla zona orien-tale del Paese si estende fino alla costa dell’Oceano India-

The moment lasts a mere fragment of a se-cond. As the jeep races up the side of a dune to prevent us getting covered with sand and, once at the top, finds itself askew, its whe-els spinning wildly in the air with no time to

discover what is on the other side. The shock lasts a

THE SULTANATE OF OMANThe desert bordering on the Indian Ocean

Testo e foto di - Words and photos by Teresa Carrubba

Il deserto ai margini dell’Oceano Indiano

SULTANATO DI OMAN

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Volto di donna della popolazione nomade Wahiba

Una duna modulata dal vento nel deserto Wahiba Sands

Omanita del villaggio di Al Hamra

imbattersi in gruppi di pescatori che tornano con il loro bottino e lo espongono alla vendita proprio sulla spiag-gia, ancora imbrigliato nella rete. Mentre altri trainano la barca in secca con una jeep. L’avventura lungomare termina ai margini del promonto-rio Ras El Hadd, il tempio delle tartarughe verdi, le gigan-tesche creature marine che nella spiaggia del vicino Parco Nazionale depongono le uova. E’ un’esperienza da non perdere. Il sacrificio di dormire poco la notte per essere alla spiaggia non più tardi delle 4 del mattino, non ha

water’s edge. The excitement growing as huge flocks of seagulls take to the air, circling overhead in a ma-gnificent dance of nature. And then there is the human contact. Along the shore you come across groups of fishermen returning from the sea to lay out their catch for sale along the beach, painstakingly extracting the fish from their nets while others use jeeps to hoist their boats up on dry land.This seaside adventure ends at the Ras El Hadd pro-montory where the green turtles, giant sea creatures,

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SULTANATO DI OMAN - Il deserto ai margini dell’Oceano Indiano

no. Nel Nulla più assoluto si volteggia a 360 gradi senza riferimenti stabili che durino più di una tempesta di vento. Perché è proprio il vento, qui, a disegnare tutto. Solleva la sabbia in dune altissime di cui delinea ogni volta nuo-vi profili eleganti e bizzarri creando un magnifico gioco di vuoti e di pieni, di pareti lisce e striate che si offrono al percorso del sole spostando ad ogni fase del giorno i coni di luce e d’ombra. E la sabbia vira da un tenue terra di Siena naturale ad un caldissimo ocra, al rosso argilla del tramonto. Vere e proprie sculture d’autore. E’ quasi un sacrilegio passarci sopra con i fuoristrada, ma procura un piacere assoluto. I più esperti, e i tuareg lo sono in modo incredibile, si cimentano in manovre al limite del pericolo per uscire da profondi catini di sabbia senza rimanerne bloccati. Tuttavia capita spesso di arenarsi e a quel punto scatta lo spirito di cordata per il salvataggio. Perché sì, nel deserto ci si va in carovana, mai da soli. Questo de-serto prende il nome dalla popolazione nomade, i Wahi-ba appunto, che vivono negli sporadici accampamenti ai margini delle dune, rudimentali capanne di cannucce. Qui l’intenso sguardo delle donne trapela attraverso le tipiche maschere di pelle nera, ma il sorriso è aperto e cordia-le, senza veli. Tutto diverso lo spettacolo che offrono le candide dune che digradano fino all’Oceano nella baia di Al Khaluf, a buon diritto considerata l’insenatura più bel-la di tutta la costa dell’Oman, con la sabbia impreziosita da minuscoli frammenti di conchiglie. Ed è proprio lungo la spiaggia dell’Oceano Indiano che dalla baia conduce verso Nord che si consuma una delle esperienze più forti del viaggio in Oman. Una corsa in fuoristrada per decine di chilometri lungo la battigia, a fior d’acqua. E l’ebbrez-za aumenta quando, nella corsa, si solleva una miriade di gabbiani che rimangono a lungo a bassa quota in una magnifica coreografia di danza della natura. Poi, il con-tatto umano. Lungo il tragitto in riva all’Oceano è facile

mere heartbeat and then the adrenalin starts pumping. A thud and you are back on the sandy surface again ready for the descent which is practically perpendicu-lar. And once at the bottom, ready to face yet another dune - the vast dunes of the Wahiba Sands, Oman’s desert which stretches from the east of the country to the Indian Ocean. An immense area of Nothingness as far as the eye can see, without any stable references that last longer than a sand storm. Because it is the wind that designs everything. The wind which hones the sand into high dunes, sculpting them into new and bizarre shapes, creating magnificent protuberances and valleys and flat and streaked surfaces across which the sun moves cones of light and shadow throughout the daylight hours; the sands turning from pale burnt Siena to rich ochre and to deep red at sunset. Sculptu-res honed by grand masters. It is almost a sacrilege, yet a true delight, to cross them with the jeeps. The more expert, and the tuaregs are incredibly expert, know how to manoeuver the vehicles, taking breathtaking risks to escape from deep sandy hollows. But it is easy to get stuck, and then the other jeeps help pull you out. Because the only way to cross the desert is in a convey of jeeps, never alone. This desert is called after the nomadic tribes, the Wahiba, who live in small straw huts in camps set up on the edges of the dunes. The intense eyes of the women peek through the typical black leather masks they wear, their open, happy smi-les needing no veils. The pale dunes that slope down to the ocean in Al Khaluf Bay, considered one of the most beautiful in Oman, are quite different and their sands sparkle with tiny fragments of shells. Along this Indian Ocean beach the bay leads north to one of the most exciting moments of any journey through Oman. A wild race for miles and miles along the shore, on the

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11niente a che vedere con l’emozione che si prova nell’assi-stere all’uscita della tartaruga dal “nido” dalla stessa sca-vato nella sabbia in cui ha deposto le uova ricoprendole per salvaguardarle. E al suo lentissimo quanto commo-vente percorso verso l’Oceano alle prime luci dell’alba, lasciando una traccia nella sabbia che la prima ondata cancellerà insieme alla sua enorme fatica. Altro giro altra natura. Dalla sabbia infinita si passa ad un paesaggio im-pervio, nelle spaccature delle alte montagne, gole e orridi percorsi da brevi ruscelli e rovi conducono in risalita ad una spettacolare cittadina, Sur, capoluogo della Regione Ash Sharqiyah sulla costa del Golfo di Oman, un tempo ponte commerciale e culturale tra Penisola arabica, Sud Est asiatico e Africa. Il suo porto, tra i più antichi del Paese, oggi è popolato di belle barche a vela e di dhow, tipiche imbarcazioni in legno ancora oggi utilizzate dai pescatori e per scambi di mercanzie con Iran e Pakistan. Ed è pro-prio a Sur che si fabbricano i dhow, in un cantiere dentro la città dove, dalle abili mani dei maestri d’ascia, nascono anche esemplari di lusso commissionati da omaniti facol-tosi. Sur è unica ed elegante nella sua architettura candi-da in perfetto stile arabo, con porte di legno borchiate. In viaggio verso la capitale altre cittadine omanite si offrono con le loro diversissime peculiarità. La vivace Nizwa, per esempio, sovrastata dalla Fortezza, un tempo palazzo del Sultano Bin Said. Fulcro cittadino di Nizwa è il mercato del pesce, interessante quanto essenziale e sbrigativo. A metà mattina tutto si svuota così come è stato riempito: les jeux sont faits. Gli abitanti del luogo lo sanno e si orga-

lay their eggs on the beach close to the National Park. An experience not to be missed. And an almost slee-pless night in order to be up at 4 o’clock to see the lit-tle turtles emerging from the nest the mother has dug in the sand and in which she drops her eggs before covering them to keep them safe. And her lumbering and moving return to the sea before dawn rises, lea-ving tracks in the sand which the first wave will erase, cancelling forever her strenuous efforts. Then off for another nature adventure. Leaving the endless sands behind we come to an impervious landscape in a cleft in high mountains where gorges and ravines, streams and brambles lead uphill to the spectacular Sur, the chief town in the Ash Sharqiyah region on the coast of the Gulf of Oman which, in ancient days was an impor-tant cultural and commercial bridge between the Ara-bian Peninsula, South-east Asia and Africa. Sur’s port is one of the oldest in the country and today is full of colourful boats called dhows, the typical wooden craft still used by fishermen and traders plying their way between the area, Iran and Pakistan. These dhows are made in Sur, in a factory in the town where the skilful hands of the master boat-builders create luxury mo-dels for wealthy Omanis. Travelling towards the capital means passing through other interesting Omani cities like the bustling Nizwa with its striking fortress, which was once the residence of Sultan Sin Said. Nizwa’s hub is the interesting and busy fish market which, by mid-morning empties as quickly as it had filled up: les jeux

SULTANATO DI OMAN - Il deserto ai margini dell’Oceano Indiano

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In corsa con il fuoristrada lungo l’Oceano oltre la baia di Al Khaluf

Una bella veduta del porto di Sur

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nizzano. Peccato che questi orari singolari vengano osser-vati anche dal souk, in genere frequentato dai turisti. Una galleria di minuscole botteghe artigiane dove è possibile scovare vecchi monili di tipica fattura, in realtà chiudono i battenti intorno alle 10,30. Ancora diverso il villaggio di Al Hamra. Una sorta di città fantasma dalle case un tem-po costruite in argilla impastata con paglia, oggi in gran parte ruderi e tutte abbandonate, conserva il fascino e l’interesse dell’originaria architettura difensiva. Il termine del viaggio ci riconduce al punto di partenza, a Muscat, dove si palesa l’altra faccia dell’Oman. Quella fatta di po-tere, di storia e di spiritualità. E’ qui quella che a buon motivo si ritiene una delle più grandi moschee costruite in epoca contemporanea, la grande moschea, dono del Sul-tano Qaboos al popolo. Una maestosa struttura in mar-mo chiaro con archi e minareti, quasi una cittadella dello spirito, ma anche della cultura visto che al suo interno c’è una fornita biblioteca moderna e informatizzata. E’ qui, così sembra, il tappeto di preghiera più grande del mon-do arabo. Di tutt’altro stile ma ugualmente imponente il palazzo del Sultano, dall’architettura stilizzata a smalti oro e turchese immerso in rigogliosi giardini che si affacciano sul porticciolo. Immancabile a Muscat, come in tutte le principali città arabe, il souk, da dove è possibile portarsi a casa un frammento di un Paese ricco di bellezza e di fascino come l’Oman.•

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sont faits. The locals know this and work around the market times. It is a pity the souk, which is popular with visitors, also keeps these same strange hours. The souk is a gallery of tiny artisan shops where you can find typical old jewellery and closes around 10.30. The little village of Al Hamra is quite different, a kind of ghost town with houses that were built with straw and clay and today are, for the most part, abandoned ruins, although they still appeal for their original defensive architecture.Our journey ends where we started, in Muscat, whe-re you encounter the other face of Oman. This is the country’s seat of power, history and spirituality. And has what is considered one of the greatest mosques ever built in modern times, the Great Mosque, donated by Sultan Qaboos to the people. A majestic structure in pale marble with arches and minarets, a kind of citadel of the spirit but also of culture as inside it has a well-stocked modern and IT library. And also, it is said the largest prayer rug in the Arab world. Quite different but equally imposing is the Sultan’s palace, a stylized building decorated with gold and turquoise enamels and set in lush gardens overlooking the little port. And Muscat too, as all Arab cities, has its souk from which you can take home fragments of this beautiful and al-luring land.•

Cina

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Il palazzo del Sultano a Muscat

Il commovente ritorno nell’Oceano di una tartaruga gigante dopo aver deposto le uova

Le acacie del deserto con le chiome pareggiate dai cammelli

gruppo di cammelli all’ora del pasto

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NUOVA ZELANDAla terra benedetta da Dio

Testo di Anna Maria Arnesano Foto di Archivio

Sarà perché ubicata agli antipodi nell’altro emi-sfero e dall’altra parte del pianeta, ma l’Oceania costituisce per noi il continente meno conosciu-to. Se sappiamo poco dell’Australia e delle altre

migliaia di isole e isolette sparse nel Pacifico a formare Melanesia, Polinesia e Micronesia, ancor meno cono-sciamo della Nuova Zelanda. Qualcuno la conosce qua-si soltanto grazie alle prodezze veliche degli equipaggi neozelandesi in Coppa America, avversari di grande ta-lento per il Moro di Venezia, Luna Rossa e Alinghi, ma

pochi saprebbero ubicarla con precisione su una carta geografica muta. Invece si tratta di un paese prospero, progredito e di grande civismo, con paesaggi assai vari di straordinaria bellezza, e con un livello sociale e di qualità della vita da fare invidia. Grande poco meno dell’Italia ma con appena 4 milioni di abitanti, e una delle densità più basse al mondo, risulta composto da due isole mag-giori, circondate da una corona di isolette minori, che quasi si sfiorano nello stretto di Cook (ma unite in epo-ca glaciale), di analoghe dimensioni poste in verticale su

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Uno scorcio delle Alpi settentrionali della nuova Zelanda

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una lunghezza di 1.500 km duemila km a sud-est dell’Australia. Anche se quella australiana appare la terra più vicina, la differenza tra le due risulta davvero rilevante e da tutti i punti di vista, tanto da non avere quasi nulla in comune. Queste isole costituisco-no la sommità emersa di imponenti rilievi marini che affondano nell’oce-ano per parecchie migliaia di metri,

frutto di notevoli movimenti tettoni-ci ed orogenetici recenti e di inten-sa attività vulcanica, in parte ancora in atto. L’isola settentrionale, North Island, concentra la maggior parte della popolazione e offre un clima temperato e mediamente piovoso. Presenta baie protette lungo la co-sta, adatte a porti, con belle spiagge e un altopiano centrale punteggiato

da coni vulcanici inattivi superiore ai 2.500 m, con frequenti manifesta-zioni vulcaniche secondarie come geyser, fumarole, fanghi e sorgen-ti termali; al centro presenta il lago Taupo, grande quasi due volte il Gar-da. L’isola meridionale, South Island, poco popolata, piovosa e fredda, è interamente percorsa da una catena montuosa di tipo alpino, capace di

Nuova Zelanda, la terra benedetta da Dio

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Una tranquilla chiesetta di mattoni ai margini di un lago glaciale

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superare ben 27 volte i 3.000 m, cir-condata da imponenti nevai e ghiac-ciai che scendono fino a 300 m di quota, e un paesaggio alpestre con valli e laghi glaciali, fiumi e cascate. Sul lato occidentale le montagne scendono a picco, solcate da immani fiordi capaci di penetrare in profon-dità, generando ambienti selvaggi di grande suggestione, mentre ad oriente declinano su pianure coltiva-te. Ovunque un paesaggio splendido e riposante, con mille tonalità di ver-de, grandi spazi e ottima ricettività turistica, tanto da giustificare l’ap-pellativo di Paese benedetto da Dio.

La storia della Nuova Zelanda ri-sulta piuttosto breve. Attorno al 900 vi approdarono i primi maori poli-nesiani provenienti da Tonga e Sa-moa, che la chiamarono Aotearoa, la terra della lunga nuvola bianca, ma occorre attendere la metà del 1300 per registrare una consistente immigrazione maori, arrivati con le loro esili canoe da 2.000 miglia di distanza orientandosi solo con le stelle. Era un popolo primitivo che non conosceva i metalli e viveva di agricoltura elementare, caccia e pesca in piccoli villaggi fortificati di legno, in perenne lotta con gli altri

clan per procurarsi il cibo e cattura-re schiavi, con le terre di proprietà comune. Uomini e donne, tatuati su tutto il corpo, si coprivano con mantelli e gonnellini di fibre ve-getali, formavano coppie di fatto e avevano rapporti sessuali liberi fin dall’adolescenza. Fino al 1800 praticavano il cannibalismo rituale. Per l’Occidente venne scoperta, ma non esplorata per l’ostilità dei loca-li, dal navigatore olandese Tasman nel 1642, poi esplorata dall’inglese Cook nel 1769, ma l’afflusso mas-siccio di coloni europei, soprattut-to britannici, cominciò soltanto nel 1840, provocando scontri sangui-nosi con i maori fino al 1870, quan-do iniziò una lenta integrazione tuttora in atto. Gli indigeni, che nel 1840 erano 250 mila, scesero a 40 mila a fine secolo, per risalire oggi a 550 mila, il 15% della popolazio-ne. Da sempre ha mantenuto uno stretto legame economico, politico e culturale con l’Inghilterra, anche dopo l’indipendenza conseguita nel 1947, ma ancora oggi ricono-sce come capo dello stato la regina Elisabetta II d’Inghilterra. Anche se privo di una propria costituzione,

si presenta come una nazione assai progredita social-mente, non razzista e ecologista: è stata una delle pri-me a concedere il voto alle donne nel 1893, vanta una delle più basse mortalità e uno dei maggiori livelli di istruzione e di previdenza sociale. I neozelandesi ama-no parecchio praticare sport, anche estremi, di terra e di mare, e contano la maggior densità di barche al mondo. L’economia si basa principalmente sull’alleva-mento di ovini (56 milioni di pecore, 16 per abitante, usate anche per rasare gratuitamente l’erba nei 400 campi da golf) e bovini, l’agricoltura, la lavorazione del legname e i servizi; è il maggior esportatore al mondo di carni ovine e di prodotti caseari, secondo per la lana.

In Nuova Zelanda, dove ogni punto non dista mai più di 110 km dal mare, la natura regna quasi ovunque so-vrana, grazie ad una attenta gestione del territorio per tentare di preservare i resti di una ricca biodiversità, frutto di milioni di anni di isolamento e di incontami-nazione. Fino all’arrivo degli occidentali mancavano del tutto mammiferi e serpenti ed era interamente ricoper-ta da foreste con palme, felci arboree e conifere, tra cui il maestoso pino kauri millenario e il pohutukawa, l’al-bero che esplode in una fioritura rosso brillante a Nata-le. Per fare spazio a campi e pascoli i coloni hanno ab-battuto gran parte delle foreste primarie di conifere e latifoglie autoctone, che ora sopravvivono in aree pro-tette (il 25% del territorio), introducendo nuove specie vegetali e animali capaci di portare all’estinzione oltre 150 piante e animali endemici, il 10 % del totale. Tra questi è scomparso il moa, un enorme uccello corrido-

re considerato il maggiore al mondo (3 m di altezza e 240 kg di peso), estinto per l’eccessiva caccia esercitata dai maori, e il kakapo, il maggior pappagallo al mondo, notturno e incapace di volare. Resta invece ancora, ed è divenuto simbolo nazionale, il kiwi, un curioso uccel-lo silvano notturno grande come un pollo, con gambe corte e becco lungo e aguzzo, privo di coda e di ali e coperto di peli, capace di dormire 20 ore al giorno e di sfornare uova enormi, poi covate dal maschio che si occupa anche dello svezzamento; le femmine sono poliedriche e si accoppiano con più maschi, sfornando tante uova quanti sono i compagni disponibili alla cova. Tra gli altri uccelli si incontrano curiosi pappagalli e ci-gni neri, in mare albatros, cormorani, procellarie, sule e pinguini; in acqua si trovano balene, delfini, squali e foche. Tuttavia l’esponente più singolare della fauna neozelandese è il raro tuatara, un lucertolone lungo 60 cm che discende direttamente dai dinosauri senza aver subito alcuna modifica negli ultimi 250 milioni di anni; curiosamente questo fossile vivente retaggio di lonta-ne epoche ha un carattere mite e socievole, tanto da condividere i nidi scavati nella terra dalle procellarie, un uccello marino, con i quali dormono affiancati in buona armonia. Grazie al clima, i grandi pini che altrove matu-rano in 80 anni, qui ne impiegano soltanto 30.

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Nuova Zelanda, la terra benedetta da Dio

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Un bell’esemplare di lorichetto arcobaleno

19 Le luci dell’alba riflesse sul Lago Matheson

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Giamaica “La Giamaica”, favoleggiava Cristoforo Colombo nel 1495 alla Regina Isabella di Spagna, “è l’isola più incantevo-le che mai occhio abbia mirato“. Un vero intenditore il grande navigatore genovese, che di belle isole carai-biche ne aveva conosciute tante. Ma nessuna come la

Giamaica, con il suo clima invidiabile - temperature tra i 20° e i 32° - natura rigogliosa, e spiagge e mare da capogiro. Poi ci sono le tradizioni gastronomiche multietniche ed eccellenti, una musica tra le più apprezzate, e un popolo esuberante, ca-loroso, colorito, gioioso, ospitale, fiero e a volte anche bizzoso, ma sempre con un generoso pizzico di autoironia. Per capire le tante contraddizioni di quest’isola basti pensare che in Gia-maica, dove il tempo scorre con ritmi notevolmente comodi

“Jamaica is the fairest island that eyes have beheld,” Christopher Columbus told Queen Isabella of Spain in 1495. And the great Italian navigator was something of a connoisseur, having seen many a fair Caribbean isle on his journey towards the New World. But none like

Jamaica with its enviable climate – temperatures between 20° and 32° - luxuriant nature, stunning seas and beautiful beaches. Then there are its multi-ethnic and excellent gastro-nomic traditions, its famous music, and its people who are

Gli allegri colori dellaGiamaica

Testo e foto di - Words and photos by Pamela McCourt FrancesconeGli allegri colori della

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e rilassati, è nato l’uomo più veloce del mondo, Usain Bolt. Un vanto per i giamaicani, come lo è Bob Marley, il mitico musicista e cantante Reggae, e i giovani che hanno gareggia-to nel bob alle Olimpiadi invernali di Calgary nel 1988. Una prodezza inverosimile per un popolo che la neve la vede solo sui bigliettini di Natale. Nei secoli la Giamaica ha visto un via-vai impressionante di bucanieri, navigatori, pirati e invasori. I primi sono stati gli spagnoli nel 1600, portando con loro sull’isola i primi schiavi neri dall’Africa, seguiti dagli inglesi e dagli olandesi, e per tutti la Giamaica è diventata un’impor-tante base di commercio. Nel 1800 sull’isola fiorivano ricche piantagioni di canna da zucchero, e ancora oggi è possibi-le visitare qualche plantation house. Come Rose Hall Great House, una splendida magione in stile georgiano nei pressi di Montego Bay, la dimora di Annie Palmer, conosciuta come la Strega Bianca per aver ucciso i suoi tre mariti usando le arti vudù che aveva imparato ad Haiti, la sua terra natale. E’ la costa settentrionale, da Negril a Porto Antonio passando per Montego Bay e Ochos Rios, l’itinerario più frequentato dai visitatori. Montego Bay è la località turistica più sofisticata dell’isola con alberghi di gran classe come l’ Half Moon dove le lussuose ville in stile coloniale ospitano spesso VIP e la fa-miglia reale inglese. Mobay, come lo chiamano i locali, deve la sua fama alla grotta di Doctor’s Cove dove, si dice, sgor-gasse acqua minerale terapeutica. Oggi la Cove è la spiag-gia più famosa della vivace città, la seconda dopo la capitale Kingston, e un punto di partenza per fare snorkeling e attività acquatiche nel mare caldo e lungo la barriera corallina. Ne-gril, scoperto dagli hippies negli anni ‘60 e centro principale dei Rastafariani, il movimento spirituale e culturale nato negli anni ’30, e considerata la località più “libertina” dell’isola, in-canta per le sue spiagge. Prima fra tutte la Seven Mile Beach, la più lunga -e per molti la più bella-della Giamaica, per la

exuberant, warm-hearted, colourful, hospitable, proud and betimes temperamental, but always with a generous dash of self-irony. To understand the many contradictions of this island just think that the fastest man of earth, Usain Bolt, was born in a country where time moves at an über-relaxed pace. Bolt is the pride of the island as is Bob Marley, the iconic Reg-gae musician, and the team of young athletes who compe-ted in the bobsleigh events at the 1988 Calgary Olympics. A mind-blowing feat as the only snow Jamaicans ever see is on Christmas cards. Down the centuries Jamaica was visited by a steady stream of buccaneers, navigators, pirates and inva-ders. The first were the Spanish who in 1600 brought the first African slaves, followed by the English and the Dutch, for all of whom Jamaica became an important trading hub. The 1800s were the heady years of thriving sugar cane plantations and today it is possible to visit some of the old plantation houses. Like Rose Hall Great House, a splendid Georgian mansion close to Montego Bay, once the home of Annie Palmer, also known as the White Witch as she is said to have killed her three husbands using the voodoo art she learned in her native Haiti. The northern coast from Negril to Porto Antonio throu-gh Montego Bay and Ochos Rios is the most popular with visitors. Montego Bay, the island’s most sophisticated resort, can boast elegant and luxury hotels like the Half Moon whe-re celebrities and the British royal family stay in handsome colonial-style villas. Mobay, as the locals call it, shot to fame when therapeutic mineral waters were discovered in a cave on Doctor’s Cove. Today the Cove is the most famous beach in Jamaica’s second city; a popular spot for sunbathing, snorkel-ling and water activities along the barrier reef. Negril, which was discovered by the hippies in the ‘60s and is the main cen-tre of the spiritual and cultural Rastafarian movement - which dates back to the ‘30s - is considered the most freewheeling

Gli allegri colori della Giamaica

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sua sabbia bianca e per la limpidezza delle sue acque. Poi c’è l’altro Negril, il punto più occidentale dell’isola con una ma-gnifica costa frastagliata. Di rigore la sera un aperitivo a Rick’s Café per ammirare i famosi tramonti, che si possono gode-re anche dalla riservatezza delle romantiche ville della Rock House, un albergo boutique inerpicato sulla scogliera sopra Pristine Cove e acque dalle mille sfumature di blu. A Ochos Rios i crocieristi scendono per divertirsi facendo shopping nel mercato dell’artigianato, rinfrescarsi salendo le Dunn’s River Falls, le splendide cascate a terrazza che si gettano in mare da 183 metri di altezza, e per scoprire le Green Grotto Caves, un labirinto sotterraneo abitato, in tempi antichi, dai Taino, gli indiani Arawak che furono i primi ad arrivare sull’isola. E poi c’è chi va a passare alcune ore nuotando con i delfini e le mante a Dolphin Cove, un’esperienza che non manca mai di emozionare grandi e piccoli. La costa che si estende più ad est verso Port Antonio è stata quella scelta sia da Ian Fleming -che ha scritto quasi tutti i capitoli della serie di James Bond a Goldeneye dove ospitava spesso Truman Capote e Graham Greene – sia dal drammaturgo inglese Noel Coward. Firefly, la casa di Coward, si trova non lontano da Port Antonio che dagli anni ‘60 era una delle località di maggior richiamo del jetset internazionale. Ancora oggi è un angolo di tranquillità dominata dalla foresta tropicale dove sorgono hotel di gran lusso ed eleganti ville. Nell’immaginario collettivo la musica giamaicana si immedesima in Bob Marley e nella musica Reg-gae. E, anche se l’isola può vantare molti generi musicali e altri grandi protagonisti, Marley rimane l’icona, non solo della musica ma della Giamaica stessa. Morto giovane, a soli 36 anni (lasciando nove figli) fu inconfutabilmente uno dei più grandi musicisti del XX secolo, e una visita al Bob Marley Mu-seum a Kingston, nella casa dove visse gli ultimi anni della sua vita, è un pellegrinaggio al quale nessun amante della musica

town on the island and has Jamaica’s most stunning beaches. Seven Mile Beach tops the list for its long swathe of white sand and sparkling turquoise waters. It is Jamaica’s longest and, for many, its most beautiful beach. And then there is the other Negril, towards the westernmost point, which has a rocky co-astline. The best place to catch Jamaica’s famous sunsets is Rick’s Café. But they can also be enjoyed from the intimacy of one’s private terrace in one of the romantic villas in the Rock House, a charming boutique hotel perched high on the cliffs overlooking Pristine Cove and unbelievably blue seas. Cruise passengers flood into Ochos Rios to shop at the local artisan market or to cool off climbing Dunn’s River Falls, splendid terraced waterfalls which drop from 183 meters down to the sea. They also visit the Green Grotto Caves, an underground maze which was once home to the Taino Arawak Indians who were the first inhabitants of the island. And then there are those who prefer to spend time swimming with dolphins and sting rays in Dolphin Cove, an experience which is guaranteed to be a highlight of any holiday. The coast eastwards towards Port Antonio was chosen by both Ian Fleming - who wrote most of his James Bond books at his home Goldeneye where Truman Capote and Graham Greene were regular guests – and Noel Coward, whose hou-se Firefly is not far away. In the ‘60s Port Antonio became a jetset hideaway, as it still is today: an oasis of peace with luxury hotels and elegant villas dominated by the tropical forest. Jamaican music is synonymous with Bob Marley and Reggae. And although the island has many different types of music and has, and has had, many other great musicians, Marley is the symbol, not just of Jamaican music but of the island itself. He died young, at 36 (leaving 9 children) and was unquestionably one of the greatest musicians of the 20th cen-tury. A visit to the Bob Marley Museum in Kingston, which was

AI giamaicani piacciono I colori forti Rose Hall Great House a Montego Bay

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Gli allegri colori della Giamaica

vorrà mancare. Scoprire la gastronomia giamaicana vuol dire imbarcarsi in un viaggio tra sapori accesi e piccanti, speziati e aromatizzati, intriganti e accattivanti. Ispirata a usanze e tra-dizioni tipiche delle cucine precolombiana, francese, inglese, spagnola e africana, le specialità giamaicane sono da gustare -quasi tutte- con le mani. A contendersi i posti d’onore il jerk, il patty, l’ackee con pesce salato, e il gelato con rum e uvet-ta. Il jerk è il modo tipico di cucinare pollo, maiale o pesce, facendoli marinare in una salamoia con cannella, noce mo-scata e pimento, il pepe tipico della Giamaica, prima di essere cotti lentamente sulla brace. Il patty è lo spuntino più diffuso, una gustosa foccacina di pasta morbida con un ripieno di car-ne, pesce e verdure. L’ackee -un frutto rosso che viene colto dall’albero solo quando si apre perdendo così la sua naturale tossicità- viene cotto con stoccafisso, peperoni, pomodori, pepe e cipolle: un piatto sostanzioso che viene servito anche come prima colazione. Quanto al rum, un distillato di zucche-ro di canna o melassa stagionato in barrique di quercia, quello giamaicano viene considerato il Re dei Rum, e la distilleria Appleton Jamaica, fondata nel 1749, è la seconda più vecchia al mondo. La Giamaica è tutto questo. Ma anche molto di più, perché sa suscitare forti emozioni che assumano, anche a distanza di tempo, nuove e inaspettate profondità. E perché, come testimoniava Cristoforo Colombo alla Regina di Spagna, è un’isola di impareggiabile bellezza.•

his home for the last years of his life, is something no music lover will want to miss. Discovering Jamaican cuisine means taking a journey into spicy and spirited, fiery and aromatic, intriguing and addictive flavours. It finds inspiration in pre-Columbian, French, English, Spanish and African usages and traditions and most of the delectable specialties need no knife or fork. This is finger food at its most zesty! The most famous being jerk, patties, akee with salt fish, and rum and raison ice cream. Jerk is the Jamaican way of marinating chicken, pork and fish with nutmeg, pimento pepper, cinnamon and other spices before cooking them slowly over hot coals. Pat-ties are the most popular snack and are a pastry crust made with coconut oil and stuffed with meat, vegetables or fish. The akee, a fruit which is picked only after it as opened on the tree thus losing its natural toxicity, is cooked with salt fish, peppers, tomatoes and onions: a hearty dish that is also served at bre-akfast. Jamaican rum, which is distilled from sugar cane juice or molasses and then matured in oak barrels, is considered the King of Rums, and the Appleton Jamaica Distillery, founded in 1749, is the second oldest in the world. Jamaica is all of this. And much more besides, because it binds you emotionally and, even from a distance, continues to weave its unique and enthralling spell. And then, as Christopher Columbus avowed to the Queen of Spain, it is indeed an island of more than passing beauty.•

Jamaica Tourist Board www.visitjamaica.comEnte del turismo giamaicano in Italia:Brian Hammond, Sergat, Via Nazionale 243, Roma Tel 06.48901256

Hotel Half Moon Montego Bay www.hotelhalfmoon.com

Hotel Rock House Negrilwww.rockhousehotel.com

Sale VIPwww.vipattractions.com Mobay Lounge, Sangster Intenaotional Airpot, Mon-tego BayKingston Lounge, Norman Manley International Airport, KIngston

La musica di Bob Marley pervade l’isola

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“Carthago delenda est”, le celebri pa-role di Catone segnarono il destino di Cartagine, la poderosa città di ori-

gine fenicia che per oltre due secoli con-tese a Roma il potere sul Mediterraneo, fino alla sua distruzione nel 146 a.C. Una città imponente per l’antichità, abitata da oltre 700.000 persone di culture ed etnie diverse, affacciata su una sinuosa striscia di sabbia chiara, con il suo porto fortificato, orgoglio del mondo antico. Tre lunghe e sanguinose guerre per pie-garne l’orgoglio, radere al suolo templi e palazzi, condurre a Roma in schiavitù i pochi sopravvissuti. E spargere sale sulle sue rovine, come luogo maledetto. Oggi, agli occhi del visitatore appaiono

soltanto le vestigia della Nuova Carta-gine, quella risorta dalle sue ceneri per volere di Giulio Cesare nel 46 a.C. e che presto diverrà la seconda città dell’im-pero d’Occidente, al centro dell’impor-tante Provincia d’Africa, anch’essa de-finitivamente distrutta dagli arabi nel 689, durante l’inarrestabile avanzata alla conquista delle coste del nord Africa e dell’Iberia. Comincia qui il nostro viaggio nella co-mune storia mediterranea, che in questo pezzo d’Africa ha lasciato vestigia di grande bellezza ed importanza storico-culturale. Lungo il viale ai margini dei resti del porto militare punico, con il suo inconsueto bacino circolare, ove oggi af-facciano le lussuose ville dei ricchi tunisi-ni. Attraversando la necropoli cartagine-se, che neppure i romani vollero violare, ed i resti delle grandiose terme. Un viag-gio nel tempo che ci porterà a scoprire la

Tunisia fenicia e romana e poi quella bi-zantina ed araba, lontano dall’archetipo delle affollate spiagge e dai mostruosi hotel all inclusive cui ci ha abituato il tu-rismo in Tunisia. Il clima di fine novem-bre si presta particolarmente per questo itinerario di scoperte e suggestioni, con la sua luce calda, i cambiamenti repenti-ni di temperatura tra la notte e il dì, qualche timida pioggia che rende ancor più brillanti le pietre, i marmi ed i mosai-ci che troveremo lungo il cammino. Cammino che si rivelerà peraltro com-pletamente privo di turisti e visitatori, vuoi per la stagione inoltrata, lontana dai periodi balneari anche dei più coria-cei cultori della vacanza fuori stagione, vuoi perché la Tunisia culturale è ancora una meta relativamente poco frequenta-ta. Ma soprattutto perché le recenti vi-cende della cosidetta “primavera araba”, che qui ha avuto il suo battesimo di san-

Tunisia culturale

Testo di Roberto Lippi Foto di Alessandro Neri

alla riscoperta della comune eredità classica

gue e di speranze, hanno avuto un effet-to disastroso sul turismo in Tunisia, che in anni recenti aveva raggiunto il secondo posto dopo l’agricoltura nella composi-zione del reddito nazionale. Farid Fetni, direttore dell’Ente Turismo¬, racconta che il calo dei turisti internazionali nel corso del 2011, dall’inizio delle proteste che hanno portato alla fuga del premier Ben Ali alle recenti elezioni per la Costi-tuente, è stato del 33%. Il numero degli italiani che hanno scelto al Tunisia come meta di vacanza è sceso dai 500.000 visi-tatori del periodo precedente la crisi del 2008 (300.00 nel 2010) ai circa 100.000 di quest’anno. Eppure, a differenza delle tensioni che occorrono in Egitto o del tra-gico conflitto in Libia, la Tunisia rivendica con orgoglio che il suo processo di tran-sizione è stato relativamente pacifico e che in nessun momento si sono verificati episodi di violenza o di minaccia nei con-fronti degli stranieri. Anche oggi che è il partito islamista Ennahdha ad avere la maggioranza nell’assemblea costituente, tanto le autorità locali di settore che i tour operators italiani presenti in Tunisi concordano sul fatto che non muterà la propensione a considerare il rilancio del turismo come prioritario per le politiche di sviluppo del Paese. Perfino la nostra guida, Mohammed, giovane e preparato ingegnere elettronico riconvertito all’arte e alla storia dalla crisi economica e dal modello di sviluppo, ci invita a non avere dubbi sulla tenuta del paradigma di laici-tà che ha contraddistinto fin qui la Tuni-sia. Dai resti della nuova Cartagine, l’iti-nerario prosegue in direzione di Bizerta. Non prima di aver però effettuato una sosta d’obbligo nel piccolo villaggio di Sidi Bou Said, per assaporare le raffinate atmosfere di quello che un tempo era un quieto villaggio di pescatori e che oggi è divenuto un luogo esclusivo di villeggia-tura, meta di passeggiate romantiche

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Bizerta, il porto dal ricco passato storico

Gli emblematici resti dell’antica Cartagine

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delle giovani coppie, che si inoltrano nelle caratteristiche stra-dine piene di negozi e bar tipici e si fanno fotografare dinnan-zi agli splendidi portoni lavorati in ferro battuto, il cui azzurro cobalto spicca nel bianco abbagliante delle facciate. Colori e forme che ricordano l’eredità andalusa, qui portata dai profu-ghi della riconquista spagnola del XV secolo, cui seguì la dram-matica cacciata dei mori e degli ebrei, in gran parte approdati su queste terre. Bizerta si presenta con la sua imponente citta-della fortificata, edificata dagli ottomani per controllare il pun-to più vicino all’Europa di questa sponda del Mediterraneo, nonché l’imboccatura di un canale che porta ad vastissimo lago, alle sue spalle, che è un gigantesco porto naturale. Per queste caratteristiche strategiche, l’area dove sorge la città è stata meta ambita, attraverso conquiste successive, di tutti co-loro che aspiravano a controllare la regione: dai fenici ai roma-ni, dai bizantini agli arabi e poi i turchi, i genovesi, fino ai fran-cesi nell’Ottocento. Tanta storia di guerre e corsari – dai suoi porti per secoli partirono le scorrerie barbaresche sulle coste europee – non sembra aver lasciato traccia nel carattere paci-fico e allegro dei suoi abitanti. Lungo il canale-porto si affac-ciano affollati e chiassosi locali, caffetterie e ristoranti. Più in là, sulla piazza, il mercato brulica di gente, spezie, verdure e frutta di stagione, in particolare le olive di cui si sta ultimando la raccolta. Nel dedalo di viuzze della cittadella, qua e là qualche

donna, quasi sempre con il velo posto, rassetta il cortile di casa. E’ domenica e gli uomini sono tutti nei bar a conversare, giocare o fumare la shisha. Solo nelle campagne circostanti gli uomini, ma soprattutto le donne, sono al lavoro sulle migliaia di olivi. A terra, lenzuola e teli per raccogliere il prezioso frutto, che fa della Tunisia uno dei maggiori esportatori di olio di oliva della regione. La sera ci coglie nel piccolo villaggio di Tabarka, al confine con l’Algeria. Un tempo era questa una località adi-bita alla pesca del corallo, data in concessione ai genovesi. Oggi, complice la quasi totale estinzione di tale preziosa fauna, è una delle mete in espansione del turismo balneare. Nell’hotel

(catena Sonanta) ci mostrano con orgoglio il centro benessere, con tutte le attrezzature per la talassoterapia. Manca, ahimè, il tempo per provare le decantate meraviglie di questo tipo di trattamento, che si basa sul potere curativo dell’acqua di mare, di cui la Tunisia è ormai divenuta leader dopo la Francia. Di buon mattino, dopo una sosta per ammirare i faraglioni di pie-tra giallastra su cui si riverbera il primo sole, prendiamo una strada di montagna che attraversa sughereti e pinete e che, con le sue rare case dai tetti in spioventi in laterizio e i camini accesi, stride con l’immagine presahariana che spesso abbia-mo della Tunisia. Qui nevica durante l’inverno, anche se siamo ad appena 800 metri s.l.m. Il clima e i paesaggi sono eminen-temente montani, così come le troppe curve della strada che si inerpica lentamente, prima di ridiscendere verso la vasta pia-nura dove ci attende lo splendido complesso archeologico di Bulla Regia. Città numida poi occupata dai romani, Bulla Ragia offre al visitatore uno splendido colpo d’occhio sulle verdi col-line circostanti. Le rovine di questa città che ospitava i re numi-di, sebbene solo in minima parte scavate, sono davvero impo-nenti. Oltre ai resti delle terme, degli edifici di culto e dell’anfiteatro, che ha la caratteristica di essere completamente sopraelevato, sono le famose residenze sotterranee. Caratteri-stica di Bulla Regia, infatti, è che le dimore patrizie, oltre al tradizionale piano terra con il peristilio e le sale banchetti, han-

no anche un piano completamente scavato nel sottosuolo. Le ragioni di questa singolare scelta non sono ancora chiare: for-se è dovuta a ragioni climatiche o soltanto per sfruttare al me-glio i volumi a disposizione, una volta cresciuta la città. Il risul-tato è comunque suggestivo e scendendo si scoprono una quantità di sale colonnate rimaste miracolosamente integre nel tempo. I mosaici sono qui di rara bellezza ed eleganza. A testimoniare l’importanza economica e politica di questa città lontana dalle coste, ma al centro di un’opulenta pianura che riforniva di grano l’impero romano, punto di contatto le spon-de del Mediterraneo e l’Africa subsahariana, grande fornitrice

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di schiavi e mercanzie. Puntando ora verso Sud-Est, ancora nel paese che fu dei fieri cavalieri numidi - e oggi dei loro discendenti berberi - il paesaggio divie-ne via via più piatto e brullo. Monotone distese di olivi grigioverdi fanno da cor-nice alla strada che conduce verso Dougga, una delle città romane meglio conservate del Nord Africa, patrimonio UNESCO. La sabbia che ha ricoperto la fiorente città durante il suo declino e poi abbandono, ha infatti permesso di recu-perare una parte imponente della strut-

tura urbana di Dousse. Era questa la ca-pitale del regno numida, che subì nel tempo un processo di romanizzazione che ne trasformò l’impianto urbano, arri-vando a costruire parte del Foro sulla necropoli precedente. I templi e l’anfite-atro romani si sovrapposero alle edifica-zioni numide mano a mano che i legio-nari colonizzavano la città. A colpire in questo luogo è l’attenzione che già i numidi e soprattutto i romani misero nella gestione delle acque, bene scarso anche allora in queste zone semiaride.

Tutti gli edifici pubblici erano anche grandi collettori di acqua piovana, che veniva conservata in enormi cisterne. Un sistema di fognature ed i celebri bagni pubblici già allora dotati d’acqua corren-te testimoniano anche in questa angolo d’Africa il culto dell’igiene e le capacità ingegneristiche dei nostri progenitori. Più in basso, il mausoleo dedicato al grande re dei Numidi, Massinissa, allea-to cruciale dei romani nell’ultima guerra punica. Il monumento è molto interes-sante perché al suo interno contiene

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Tunisia culturale alla riscoperta della comune eredità classica

Il Colosseo di El Djem con un anfiteatro in grado di ospitare 35.000 spettatori seduti

Il fascino della Grande Moschea di Kairuan

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Tunisia culturale alla riscoperta della comune eredità classica

un’iscrizione bilingue, in punico e numidico, che fu fondamen-tale per decifrare l’antico alfabeto libico e capire l’assetto orga-nizzativo-politico dei Numidi. Dall’anfiteatro, posto più in alto, si gode una vista notevole sull’area circostante. Oggi, dopo aver ospitato per secoli tanti spettacoli, vive un’estemporanea esplosione di musica, canti e balli popolari messa in piedi da un gruppo di studenti in visita. Per un attimo rende vivo e pal-pitante questo luogo della memoria, fa immaginare quante esistenze sono trascorse tra le imponenti colonne dei templi e delle basiliche. L’ultima tappa ci porta a Kairuan: la città santa del Nord Africa. E’ il completamento naturale del percorso sto-rico ed archeologico effettuato, poiché ci racconta del tramon-to dell’impero romano e poi del tracollo bizantino per mano delle armate arabe. Kairuan venne edificata come avanposto per la conquista araba del Nord Africa, al limite dell’area semi-desertica e carovaniera nella quale le popolazioni arabe si tro-vavano più a loro agio. La moschea di Kairuan, ancora oggi meta religiosa di grande importanza per la regione, venne edi-ficata insieme alla cittadella fortificata. Si tratta di un comples-so di rara bellezza, il cui enorme cortile in marmo chiaro che risplende alla luce del sole, viene calpestato ogni anno da mi-gliaia di fedeli. Colonne di varie fattezze e materiali, bottino degli insediamenti circostanti, impreziosiscono la moschea, insieme ai bei tappeti berberi che ricoprono il suolo. Ancora oggi, è tradizione che le donne portino qui in dono il loro pri-mo tappeto tessuto. La tomba del “barbiere”, uno dei compa-gni di Maometto così chiamato perché si dice conservasse come reliquia alcuni dei peli della barba del profeta, è davvero magnifica. Le pareti sono ricoperte di piastrelle di ceramica co-lorata di origine andalusa, decorata con motivi floreali e geo-metrici. In una piccola stanza di questo complesso, ancora oggi molti bambini vengono circoncisi, magari perché un tem-po i barbieri erano anche cerusici. La medina, con le sue alte mura di mattoni cotti al sole e pietra, è piena di gente, ban-chetti, negozi, cibi e odori di spezie. Un mondo fuori e dentro al tempo, in cui venditori di qualunque cosa e donne velate

coesistono con rumorose motorette e con le bellezze locali che, a capo scoperto e jeans di moda, chattano sul telefonino e sperano un futuro di maggiori prospettive. Ovunque, nei bel-lissimi caffè, al mercato o al ristorante, tutti manifestano il pro-prio orgoglio che la spinta che ha messo fine al regime corrot-to e semidittatoriale di Ben Ali abbia dato l’avvio a processi di trasformazione di un’intera regione, i cui esiti sono ancora tutt’altro che certi. Anche in Tunisia nessuno può pronosticare con chiarezza che cosa accadrà. Certamente la transizione non sarà breve e priva di scosse. Ma è perfettamente comprensibi-le la voglia di milioni di tunisini di dare, con il voto delle ultime elezioni, un forte segnale di discontinuità nei confronti di un modello economico, politico e sociale che ha disatteso le aspettative dei più. Il turismo ha certamente un ruolo impor-tante nel processo di transizione. Soprattutto se anche capace di portare visitatori attenti al di fuori delle rotte del turismo balneare di massa e dei giganteschi hotel della costa. Va detto, però, che l’offerta tunisina rivolta al turismo culturale necessità ancora di messa a punto e investimenti. I siti archeologici sono magnifici ma la loro fruibilità rimane limitata. Senza guida, è praticamente impossibile seguire percorsi strutturati. Le tecno-logie di fruizione –anche attraverso ausili ICT – sono pratica-mente assenti. Il collegamento tra i siti ed il territorio circo-stante, specie in termini di fruizione di prodotti tipici e artigianato locale, è ancora incipiente. Anche per questo è encomiabile lo sforzo di chi, come -Ed è subito viaggi- mette a disposizione la propria esperienza di turismo culturale e di charme in Italia per proporre in maniera rinnovata una destina-zione piuttosto inflazionata come la Tunisia, con chiavi di lettu-ra di grande suggestione.•

Ed è subito viaggi T.O. Via di Tor Fiorenza, 35 - 00199 Roma, www.subitoviaggi.it tel. +390686398970Ente Nazionale Tunisino per il Turismo Via F. Baracchini, 10 20123 Milano , www.tunisiaturismo.it tel. +390286453044

Dougga, considerata la città romana meglio conservata di tutto il nord Africa

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L’EGITTO nel cuore...

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E’ dal “cuore” dell’Egitto, il Nilo, che parte il nostro viaggio nella storia e nella cultura. Un’immensa via d’acqua, che attraversa l’Africa nera e quella medi-terranea, le cui inondazioni periodiche hanno ga-

rantito per millenni la vita degli esseri viventi a dispetto delle aride regioni circostanti, ed il sorgere di una tra le civiltà più importanti della storia. Il punto di partenza del nostro tour è Assuan, a bordo della lussuosa motonave MS May Fair, inaugurata 2 anni fa, prima della crisi di que-sta tipologia di turismo a seguito delle vicende politiche egiziane. Oggi, secondo gli operatori del turismo egizia-no, gli italiani sono ricomparsi sulla costa del Mar Rosso, ma non si sentono ancora sicuri di tornare a percorrere le mete archeologiche e dell’interno. Assuan è la città più meridionale dell’Egitto e frontiera tra due mondi: quello “civilizzato” e conosciuto l’uno, lontano e impenetrabile

The start of our journey into the history and culture of Egypt began at its heart: the Nile. The majestic river that flows through black and Mediterranean Africa, and whose periodic floods guaranteed not

only man’s survival despite the arid region around it, but was also the backdrop to one of the world’ most impor-tant civilizations. We left Aswan on the luxurious May Fair which was launched a couple of years ago, before the crisis which hit tourism in Egypt after the political unrest earlier this year. Today tourism professionals say that while Italian visitors have returned to the Red Sea they are still not confi-

EGYPT’S HEART OF HISTORY AND CULTURE

Testo di - Words by Mirella SborgiaFoto di - Photos by Marcello Peci, Teresa Carrubba

32 Il viale delle Sfingi, che un tempo collegava il Tempio di Luxor al tempio di Karnak.

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L’EGITTO nel cuore... della storia e della cultura - Egypt’s heart of history and culture

l’altro. L’Egitto è infatti un Paese arabo e mediterraneo, che conserva altresì viva la cultura e le tradizioni della Nu-bia, la regione i cui fieri abitanti dalla pelle nera e dal fisico atletico, resistettero per secoli ad ogni forma di domina-zione. Fino a rischiare di scomparire per sempre insieme alla loro terra negli anni Sessanta, inondati dalle acque del lago artificiale Nasser, creato dalla diga di Assuan. Per salvare dalle acque molti dei siti archeologici della Nubia, l’UNESCO attivò un’imponente operazione per smontare e trasportare quel patrimonio storico in luoghi sicuri. Uno di essi è il sacro tempio di Philae, ora ricostruito sull’isola di Agilkia a pochi chilometri da Assuan, tra le due dighe. Per raggiungerlo ci imbarchiamo su una delle lance a mo-tore che fanno la spola con Shella. Il Tempio è dedicato ad Iside, dea della maternità e della fertilità. Il complesso templare fu un celebre luogo di pellegrinaggio e raggiun-se il massimo dello sviluppo in epoca greco-romana. Proseguiamo la nostra navigazione sul fiume e nella sto-ria. Il sole al mattino illumina d’oro le acque del Nilo su cui stiamo navigando e le sponde rigogliose che da millenni i contadini egiziani coltivano con pazienza e dedizione. La-sciata Assuan, la nave ha iniziato lentamente la risalita del Grande Fiume, in questa autostrada fluida in cui navigano da tempo immemorabile imbarcazioni cariche di genti e di merci. Luxor, la prossima meta, è situata a duecento chilometri più a nord, verso la costa. Durante il viaggio raggiungiamo il tempio di Kom Ombo, situato su una piccola collina da cui, nell’antichità, si poteva controllare il commercio fluviale e terrestre con la Nubia. E’ l’unico tempio in Egitto dedicato a due divinità: il dio Sobek, dalla

testa di coccodrillo, e il dio Haroeri, dalla testa di falco. La cittadina di Edfu ci appare in un’ampia ansa del fiume sacro di notevole bellezza. Qui, ad attendere i turisti che sbarcano dalle navi, ci sono decine di piccole carrozze a cavallo. Ne approfittiamo anche noi per attraversare velo-cemente la città che, oltre ad attirare un gran numero di visitatori per il suo tempio, è altresì un importante centro commerciale per la produzione di zucchero e per le sue antiche fabbriche di ceramica. Edfu è da sempre famosa per lo splendido Tempio dedicato al Dio falco Horus. Tem-pli imponenti e città nascoste per millenni lungo il Nilo; le città dei vivi si trovano sempre sulla sponda orienta-le mentre la terra dei morti occupa normalmente quella occidentale. La navigazione ci conduce fino ad Esna, in passato una delle località più importanti dell’alto Egitto

(Tasenet) e successivamente uno dei maggiori centri di fede copta. La città è collegata alla sponda del Nilo da un’importante diga che sbarra il corso del fiume costrin-gendo tutte le imbarcazioni a lunghe soste per accedere alle chiusa e superare il dislivello. Qui lo spettacolo, oltre che dal paesaggio, è arricchito dalle tante barchette degli abitanti locali che, approfittando della sosta forzata, ten-

dent enough to visit the archaeological sites along the Nile. Aswan, which is Egypt’s southern-most city, is a frontier between two worlds: the “civilized” and known world and the other, impenetrable and distant world. Because being an Arab and a Mediterranean country Egypt can also boast the culture and traditions of Nubia, the region where its proud, dark-skinned and athletic inhabitants resisted any form of domination for centuries. To the point of almost disappea-ring, together with their homeland, in the Sixties when the region was flooded by the waters of the man-made Lake Nasser after the construction of the Aswan Dam. And in order to save Nubia’s archaeological sites and temples from the advancing waters UNESCO mounted a major operation to dismantle and transport Nubia’s immense historical and artistic heritage to higher ground. One of the temples that were saved is the Temple of Philae which was moved to the island of Akilkia, a few kilometres from Aswan, between the two dams. We take one of the small motorboats that ply their way to and from Shella to the island. The temple is consecrated to Isis, the goddess of maternity and fertility, and in ancient times the temple was a popular place of pil-grimage, reaching the height of its glory during the Greek-Roman period. We continue our river journey into history and the morning sun turns the waters of the Nile into gold like the river banks where, for centuries, Egyptian farmers cultivated their crops. Having left Aswan the boat begins its slow ascent of the great river along which, since time immemorial, boats la-den with people and goods have passed. Luxor, our next stop, is two hundred miles further north, towards the coast.

Our boat ascends the Nile, stopping where history has left traces of its passage, like the Temple of Kom Ombo which is on a small hill overlooking the river and from which, in ancient times, it was possible to control both the river and land traffic going to and from Nubia. It is the only temple in Egypt consecrated to two gods: the God Sobek who has a crocodile’s head, and the God Haroeri who has the face of a falcon. Edfu, which appears on a wide bend of the sa-cred river, is strikingly beautiful. Scores of little horse-drawn carts await the tourists who descend from the boats. We take one to across Edfu which, as well as attracting visitors to its temple, is also a bustling city that produces sugar and has a famous factory, known since ancient days for its ce-ramics. Edfu’s temple is consecrated to the falcon God Ho-rus. Hidden and majestic temples and cities have existed for

centuries along the river, with the cities of the living on the eastern side of the Nile and the cities of the dead usually on the western bank. The cruise continues to Esna, which was once one of the most important cities in Upper Egypt (Tasenet) and also one of the most important centres of the Copt religion. The city is linked to the river bank by an important dam which blocks the river, the result being that

Le agili colon-ne istoriate del tempio di Philae, ora ricostruito sull’isoladi Agilkia a pochi chilometri da Assuan

Un altro particolare del tempio di Philae con apertura sulle acque del Nilo

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Guanajuato - Teatro Juàrez e Iglesia de San Diego de Alcalà

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tano qualche guadagno gettando letteralmente sui turisti una pioggia di vestiti, tappeti e tovaglie multicolori. In se-rata, si raggiunge finalmente la splendida Luxor, l’antica Tebe. Qui si trovano circa 60 splendide tombe reali delle dinastie dal 1570 al 1200 a.C. Tra le più importanti, quelle dei grandi faraoni Ramsete IV, Seti I e Tutankhamon. Sulla sponda orientale dell’antica Tebe, ovvero nella “città dei vivi”, a colpire sono i due monumentali templi dedicati al Dio Amon, primo fra tutti quello di Karnak. Vi si accede at-traverso un suggestivo viale fiancheggiato da una doppia fila di sfingi a testa di ariete, che un tempo conduceva al porto. Ci fa immaginare le lunghe processioni rituali che si snodavano lungo i circa tre chilometri e mezzo del Viale delle Sfingi fino al tempio di Luxor per la festa annuale delle inondazioni. Ad attendere il popolo egizio di allora, così come i visitatori di oggi, le statue colossali che carat-terizzano l’imponente complesso templare dell’Egitto dei Faraoni. Accanto, svetta con i suoi 25 metri il bellissimo obelisco in granito rosa di Assuan, orfano del gemello che fu donato alla Francia nel 1831. Il nostro viaggio in nave è giunto a termine, lasciamo con nostalgia la bella e confortevole May Fair, poiché da Lu-xor il nostro viaggio prosegue in pullman, alla volta della New Valley. Questa regione, nuova frontiera del turismo in Egitto, si contraddistingue per il suo paesaggio lunare, caratterizzato dalle dune dorate e dalle pianure pietrose, che contrastano con la vegetazione lussureggiante vista fin qui lungo il Nilo. Si tratta di un’area ancora poco cono-sciuta e poco battuta dal turismo internazionale, ma che conserva intatte bellezze naturali e tradizioni. Lungo il tra-gitto, le suggestive oasi di Farafra, Dakhla e Kharga, vere e proprie isole verdi nel mare di sabbia della New Valley. L’unica da noi visitata in questo viaggio è quella di Kharga. Si tratta senz’altro dell’oasi più grande e sviluppata, che è anche capitale del governatorato della New Valley. Per secoli è stata una tappa obbligatoria per i carovanieri egizi e romani provenienti dal Sudan e le fortezze romane e le antiche rovine dei templi che vi si possono ammirare ne

sono la tangibile testimonianza storica. Da Kharga parto-no due escursioni imperdibili: il tempio di Hibis, dedicato al Dio Tebe Amon (unica grande testimonianza dei persia-ni in Egitto) e la necropoli copta di Al Bagawat, dell’epo-ca di Nestorio, composta da 263 tombe in mattoni crudi, realizzata nella peculiare forma imposta dalla religione cristiana. A Dush si trova invece il Tabuna Camp, un “cam-po tendato” di alto livello per chi ama provare l’ebbrezza di una notte in tenda nel deserto, che nasce dall’idea di “Desert in Style”. Il Tabuna Camp, circondato dal deserto, è situato in prossimità di due importanti siti archeologici, un po’ fuori dai classici circuiti: le rovine della fortezza ro-mana di Qasr El Dush, del I sec d.C. e l’antico tempio de-dicato a Iside e a Serapide, eretto da Domiziano. Il nostro viaggio si conclude con il rientro al Cairo e con la visita del Museo Egizio e alle famose piramidi di Giza. Dalla caotica metropoli, il silenzio del deserto e il dolce cullare delle ac-que del Nilo appaiono lontane, quasi immagini sfumate di

all craft having to queue to get into the lock and overcome the difference in the water level. Apart from enjoying the landscape it is interesting to watch the little boats carrying locals who, during the wait to get into the lock, take advan-tage of the situation by literally flinging clothing, carpets and brightly coloured tablecloths at the tourists. Later that evening we come to some sixty splendid royal tombs da-ting back to dynasties from 1570 to 1200 B.C. Among the most important the tombs of the great pharaohs Ramses IV, Seti and Tutankhamun. On the eastern bank of ancient Thebes, that is to say the “city of the living,” stand two mo-numental temples consecrated to the God Amon, the most important being the temples of Karnak. These are reached along a long avenue flanked by a double row of sphinxes with ram’s heads which once lead to the port. And it is not difficult to imagine the long ritual processions that wound their way along the three and a half kilometres of this ave-nue of sphinxes up to the Temple of Luxor in celebration of the annual floods. Waiting for the Egyptian revellers then, as for us today, are the colossal statues of this majestic and striking complex of temples. Next to them, the soaring 25-metre pink granite obelisk of Aswan, the twin of which was given to France in 1831. Our journey along the Nile on the comfortable May Fair ends as, from Luxor, we will continue by coach towards the New Valley. This region, a new frontier of tourism in Egypt, has a lunar landscape with golden dunes and rocky planes which contrast with the lush vegetation we have seen up to now along the Nile. This is an area which not many in-ternational tourists are lucky enough to discover, although it is very beautiful and has well-preserved landscapes and traditions. Along the way we come to the oases of Farafra, Dakhla and Kharga, green islands in the New Valley’s sea of sand. We visited Kharga which is undoubtedly the largest and most developed of these oases, and is also the capital of the Valley which is ruled by a governor. For centuries Kharga was an obligatory stop for the Egyptian and Roman caravans coming from Sudan and the Roman fortresses and

ancient temples we can see today are tangible proof of its history. There are two exceptional excursions to take from Kharga: the Temple of Ibis, consecrated to the Theban God Amun (the only major evidence the Persians left in Egypt) and the Copt necropolis of Al Bagawat, dating back to the time of Nestorius, and consisting of 263 brick tombs in the peculiar shape imposed by this Christian religion. In Dush we stayed at the Tabuna Camp, a luxury tented camp and enjoyed our night in a desert tent. The camp, which is a “Desert in Style” idea, is surrounded by the desert and located close to two important archaeological sites which are a little off the beaten tourist track: the ruins of the Roman Qasr El Dush fortress dating back to the 1st century A.D. and the ancient temple consecrated to Isis and to Serapis, which was erected by Domitian. Our journey ends in Cairo with a visit to the Egyptian Museum and the famous pyramids of Giza. In the chaotic metropolis the silence of the desert and the journey

L’EGITTO nel cuore... della storia e della cultura - Egypt’s heart of history and culture

La celeberrima Sfinge alle Piramidi di Giza

Colossale statua di Ramses II nel Tempio di Karnak a Luxor

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un altro tempo. Quello attuale, è fatto di grandi sfide per un grande Paese come l’Egitto. Per i viaggiatori ed i turisti, rimane la possibilità reale di poter visitare facilmente e con serenità le tante meraviglie dell’Egitto. Egitto nel cuore”, è l’indovinato slogan coniato dai tre enti statali di promozione turistica presenti in Italia – Turismo Egitto, Egyptair e MISR Travel - per riportare i turisti ita-liani sulle incomparabili rotte culturali del paese dei Fa-raoni.•

Ente del Turismo EgizianoVia Barberini 47www.egypt.travelTel +39064874216 EgyptairVia Bissolati 76www.egyptair.it+39064744093 MISR TravelVia XX Settembre 44+39064747373www.newvalleyecotourism.orgwww.desertinstyle.com

along the placid waters of the Nile are a distant memory - blurred images of another era. This era being one of new challenges for Egypt. And for travellers and tourists there is the real possibility of safely visiting the many wonders of an-cient Egypt. Egitto nel cuore (Egypt in your heart) is the clever slogan of the three tourist promotional organizations in Italy -– Turismo Egitto, Egyptair and MISR Travel – to bring Italian tourists back to discover the cultural wonders of the Land of the Pharaohs.•

EGITTO IN RIPRESAAl Dr. Mohamed El Gabbar Direttore dell’ENTE del TURISMO EGIZIANO in Italia abbiamo chiesto:

EGYPT’S RCOVERYWe spoke with Dr Mohamed El Gabbar Egyptian Tourism’s director in Italy.

L’INTERVISTA

Qual è attualmente la situazione in Egitto?

Il nostro Paese è ormai del tutto tranquillo e non c’è nessun ostacolo alla ripresa di un turismo con-sistente come è sempre stato. Soprattutto da parte dell’Italia, legata all’Egitto da una storia millenaria, che ha sempre costituito il mercato più importan-te per noi. La sinergia tra il nostro Governo e il Ministero del Turismo Egiziano ha già prodotto

What is the current situation in Egypt?

Our country is absolutely peaceful and there is no obstacle to the recovery of the excellent arrivals numbers we have always enjoyed. Especially from Italy, which has age-old historical links to Egypt, and has always been our most important market. The synergy between our government and the Mi-nistry for Tourism has already had positive effects. And Egyptian Tourism, of which I am the director, has collaborated both with the media, organising press tours so that the media can see the situation for themselves, and with Italian tour operators with grants, advertising, events and charter flights. This dual approach has had a positive, albeit gradual, in-fluence on the recovery of arrivals, especially on the classical itineraries, because all the Red Sea desti-nations, from Sharm El Sheikh on, have always ben peaceful and safe, and therefore did not have a drop in numbers.

Egypt is not just sea and archaeology, you also have your wonderful deserts, which are not par-ticularly popular with visitors. How do you in-tend changing this perception?

The problem is the lack of infrastructure, roads and hotels. We are talking about a vast area, and to make it a valid alternative to the Red Sea or a Nile cruise, or our archaeological sites, calls for serious investments. Our government offers incentives and tax relief to foreign investors with the aim providing our deserts and oases with better facilities. In the meantime the western New Valley desert has been included in the Italo-Egyptian development plan of the CISS-Cooperazione Internazionale Sud eco-toui

Testo di - Words by Teresa Carrubba

L’EGITTO nel cuore... della storia e della cultura - Egypt’s heart of history and culture

38Mohamed El GabbarDirettore dell’ENTE del TURISMOEGIZIANO in Italia

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suoi effetti positivi. Dal canto suo, l’Ente che io presiedo persegue la strategia di collaborazione sia con i rappresentanti della stampa attraverso press-tour per verificare personalmente lo stato delle cose, sia con gli operatori italiani del turismo con contributi, pubblicità, eventi e voli charter. Questo duplice percorso ha influenzato positiva-mente il ripristino, anche se graduale, del flusso dei turisti soprattutto nell’Egitto classico, perché tutte le località balneari del Mar Rosso, da Sharm El Sheikh in poi, sono sempre state tranquille e sicure e quindi frequentate normalmente.

L’Egitto non è solo mare e archeologia, voi avete un immenso patrimonio di deserti, non molto frequentati dal turismo. Come intendete valorizzarli?

Il problema è la carenza di infrastrutture, stradali e ricettive. Quel vasto territorio desertico, affinché possa diventare una valida alternativa alle località sul Mar Rosso, alla navigazione sul Nilo o ai siti archeologici, ha bisogno di investimenti consistenti. Il nostro Governo offre incentivi e agevolazioni agli investitori stranieri che vogliano rendere conforte-vole anche il turismo nel deserto e nelle oasi. Nel frattempo, il deserto occidentale della New Valley, è stato inserito nel piano di sviluppo Italo-Egiziano del progetto di ecoturismo che il CISS-Cooperazio-ne Internazionale Sud sta portando avanti con la consulenza di Mario Michelini, Project Manager CISS-Egypt, nell’ambito dello scambio economico tra i due Paesi.

Per ristabilire i flussi turistici anche la compagnia di bandiera Egyptair ha fatto la sua parte

“I voli non si sono mai fermati, non abbiamo avu-to cancellazioni” ci ha dichiarato Wael Kadry, Direttore Egyptair per l’Italia “Anzi, abbiamo aumentato gli operativi e abbiamo otto frequen-ze in più rispetto alla scorsa estate, con un’offerta di 700 posti”. L’operativo invernale dall’Italia per Il Cairo mantiene 22 voli (11 su Roma e 11 su Mi-lano) e, per l’estate 2012 è previsto un aumento dei voli. Per quanto riguarda la modernizzazione della flotta, Egyptair annuncia l’acquisizione di nuovi aeromobili come Boeing 737 e Airbus 330-300. Questi nuovi aerei permettono ai viaggiatori di beneficiare di servizi innovativi: i clienti di prima classe avranno, tra gli altri comfort, delle poltro-ne che diventano quasi un letto. Egyptair e l’Ente del Turismo” conclude Wael Kadry “lavorano in sinergia, tutti e due hanno lo scopo di promuove-re l’Egitto, ma con strumenti diversi. Egyptair, per esempio, ha avviato investimenti e firmato con-tratti con i tour operator.•

rism project, thanks also to Mario Michelini, Project Manager CISS-Egypt, in the framework of the econo-mic collaboration between our two countries.

The Egyptian flag-carrier EgyptAir has also played a major role in maintaining tourist arrivals

“Flights were never suspended, and there were no cancellations,” Wael Kadry, EgyptAir’s country ma-nager for Italy ,told Emotions. “Actually we increa-sed flights with eight more than last summer, a total of 700 seats.” This winter EgyptAir is operating 22 weekly flights on Cairo (11 on Rome and 11 on Milan) and for next summer has plans to further increase flights. The Egyptian flag-carrier has also announced the purchase of new Boeing 737s and Airbus 330-300s. These new aircraft will allow travellers to enjoy innovative services: first class passengers will have the highest levels of comfort including seats that are almost flat. “EgyptAir and the tourist board are wor-king together, with a common aim but different to-ols. For example EgyptAir has launched investments and signed contracts with tour operators.” •

40Wael Kadry, Direttore Egyptair per l’Italia

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centrata sulla singolare figura dei Kurent, o Korant, maschere tenebrose dai tratti anima-leschi. I Kurent sono complessi e pesantissimi costumi in pelle di pecora a cui sono appesi campanacci da mucca, che fanno suonare sal-tellando aritmicamente, con calze colorate e stivaloni, grandi copricapo di pelliccia decorati con piume, rametti, corna e striscioline colora-te di carta. La maschera di cuoio che copre il viso ha le aperture per occhi e bocca orlate di rosso, un naso da lupo, fagioli bianchi per den-ti e una lingua di cuoio rossa lunga fino al pet-to. Essi si muovono in gruppo di casa in casa, di villaggio in villaggio, accompagnati da altre figure carnevalesche guidate da un diavolo, per scacciare gli spiriti maligni e l’inverno con il rumore dei campanacci e con bastoni che por-

tano sulla cima aculei di riccio; e le fanciulle da marito ricambiano con il dono di un fazzoletto, che verrà annodato alla cintura come trofeo. Si tratta di figure assai antiche, risalenti alla not-te dei tempi e ad un mondo pagano, quindi più antiche della metà dell’ VIII sec. quando il cristianesimo arrivò in Slovenia, emblema del piacere e dell’edonismo, una sorta di Dioniso sloveno che si scatena prima dei rigori peni-tenziali della Quaresima. A testimoniare la loro antichità ci sono alcune figure in bassorilievo su due edifici medievali del centro storico, ai numeri 4 e 6 di Jadranska ulica. Curiosamente trovano riscontro in altre maschere carnevale-sche similari presso popolazioni agricole e pa-storali in Ungheria, Bulgaria, Serbia e Croazia, nonché nei mamuthones della lontana Barba-

I Kurent di Ptuj

Carnevale in Slovenia

Il Carnevale rappresen-ta una delle festività più sentite e vissute in Slo-venia, giovane nazione aperta e moderna ma al

tempo stesso ancora piuttosto legata alle sue antiche tradi-zioni, molte delle quali con-nesse al mondo contadino e ai cicli stagionali della terra. Tra le numerose manifestazioni organizzate per festeggiare il Carnevale, qui chiamato Pust, la più famosa e importante è costituita dalla Kurentovanje di Ptuj, una delle più belle e antiche cittadine slovene, in-

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Testo e foto di Romeo Bolognesi

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Carnevale in Slovenia: i Kurent di Ptuj

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gia sarda. Da maschera locale i Kurent sono ormai assunti ad emblema nazionale: figurano sui francobolli, partecipano a parecchie manifestazioni fol-cloristiche anche all’estero e possono essere ammirati per tutto l’anno nell’apposita se-zione del museo etnografico ospitato nel castello cittadi-no. L’ultima sfilata domenica-le della kurentovanje, giunta alla 51° edizione e seguita in diretta televisiva nazionale, ha coinvolto 3 mila maschere – anche con gruppi provenienti da dieci altre nazioni – e un pubblico di 70 mila spettatori, consacrandosi come maggio-re manifestazione popolare del paese. Il clou dell’edizione 2012, della durata complessi-va di 11 giorni, si svolgerà il 19 febbraio.Ptuj, situata nella regione della Starjeska sulle rive della Drava

nell’est del Paese, è un’elegan-te cittadina medievale ricca di pregevoli edifici storici, una città museo dominata dalla possente mole di un castello rinascimentale e può vantare il titolo di più antica città del-la Slovenia. Dopo un insedia-mento neolitico e celtico, in epoca romana divenne infatti un importante porto fluviale e con il nome di Poetovio il maggior municipio illirico sul-la strada per la Pannonia e il Norico, con un numero di abi-tanti doppio rispetto a quello attuale. Sede stanziale delle legioni romane, nel 69 d.C. queste vi elessero imperatore il loro comandante Vespasia-no e la città divenne uno dei maggiori centri per il culto del dio orientale Mitra, ancora oggi documentato dai resti di diversi mitrei. Le vicine colline vitifere delle Slovenske Gorice

e di Haloze ne fanno uno dei maggiori produttori di vino del paese. Base ideale per assistere al Carnevale di Ptuj lontani dalla calca possono essere le vicine terme di Radenci a mezz’o-ra di strada panoramica non trafficata, famose per l’acqua minerale ricca naturalmente di salutare anidride carbonica e per il fatto di essere uno dei complessi più antichi, che ol-tre ad un’ottima sistemazione alberghiera possono regalare il rilassante piacere delle pi-scine, delle saune e dei tratta-menti termali per la salute, la bellezza e il benessere a prezzi decisamente competitivi.•

www.kurentovanje.netwww.ptuj-tourism.si(www.zdravilisce-radenci.si, tel. 00386.2.520 27 20 in italiano)

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48 ORE A YANGON

in fase di ristrutturazione, e il colorato tempio indiano Sri Sri Siva Krishna. Poco lontano il Pa-lazzo di Giustizia e, nel Botahtaung township, la St. Mary’s Cathedral che a dicembre ha fe-steggiato il centenario della fondazione. Il vi-cino Botataung Paya è unico essendo vuoto dentro. Pagando $1 si può entrare per ammi-rare le stanze ricoperte di specchi ed elaborate decorazioni buddiste.

Fermatevi in uno dei tanti teashop lungo la Bank Street per sorseggiare una tazza di tè Burmese-style, fortissimo, saporitissimo e dol-cissimo con latte condensato, e accompagnato da una gustosa samosa, un tipico pasto con ripieno di verdure, da gustare con una for-te salsa di pesce fermentato e peperoncino. All’ombra degli alberi lungo il Sule Paya Road all’altezza dei giardini Maha Bandoola siedono dei chiromanti che per un paio di dollari vi leg-geranno la mano. All’angolo della Aung San Street e di fronte al Trader’s Hotel sorge la Sakura Tower. Nel Genky Physiotherapy Clinic al 5° piano i terapisti sono non-vedenti, e un massaggio di 45 minuti, che costa $ 12, è il modo ideale per riprendersi dopo la passeggiata mattutina.

Il PranzoSalendo con l’ascensore si arriva al 20° piano della Sakura Tower e al Thiripyitsaya Bistrot dove il menu offre una ricca gamma di sfi-zi locali, asiatici e internazionali, mentre dalla finestre ci sono viste mozzafiato sulla città, sul fiume e sull’imponente mole dorata dello Schwedagon Paya, il monumento più impor-tante della città e del Paese. Il PomeriggioMolto suggestivo una visita allo Schwedagon di pomeriggio quando le temperature roven-ti della giornata cominciano ad attenuarsi, e i colori del tramonto si riflettono sullo svettante tempio. La leggenda vuole che sia vecchio più di 2.500 anni e che custodisca otto capelli di Buddha. Di forte simbolismo le statue, gli altari e le rappresentazioni del Buddha nei padiglioni che si sviluppano intorno al grande manufatto dorato.

La SeraI nostalgici non vorranno mancare un aperitivo al bar di The Strand, il grande hotel storico del-la città, che si trova di fronte a fiume Yangon e dove si respira ancora tutta l’atmosfera dell’e-poca britannica.

Affascinante ed enigmatica, Yangon l’ex capitale del Myanmar, è l’uni-ca tra le grandi città asiatiche ad aver mantenuto pressoché intatto il suo patrimonio coloniale, che risale

alla dominazione inglese nel XIII secolo. Divisa in township o distretti, i suoi storici viali alberati, edifici storici, grandi templi buddhisti, animati mercati e splendidi parchi cittadini sono testi-moni di quell’ epoca in cui era la città più ricca e fiorente dell’Oriente. Non più capitale dal 2005 quando Naypidaw è stata proclamata la nuo-va capitale birmana, Yangon rimane il cuore

palpitante del Myanmar - il nome ufficiale della Birmania - il più grande dei paesi Sud-est asia-tici, che conta oltre 57 milioni abitanti.

GIORNO 1La MattinaIl modo migliore per assaporare l’atmosfera di Yangon è girare il centro storico a piedi par-tendo dal Sule Paya, il tempio ottagonale che è il centro fisico e simbolico della città. Accanto sorgono la City Hall, riportata al suo splendore originale, i grandi magazzini Rowe & Company all’angolo della Pansodan Road e attualmente

Testo di Pamela McCourt Francescone

La Schwedagon Pagoda, monumento simbolo e centro spirituale del Myanmar

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48 ORE A YANGON

La CenaLe Planteur, il ristorante più sofisti-cato ed elegante dell’ex capitale, è un’oasi gastronomica raffinata sotto lo chef Michelin Felix Eppisser e sua moglie Lucia. Suggestiva l’illumina-zione nel grande giardino e nelle sale all’interno della vecchia casa. I grandi vini nella cantina ne fanno una delle più pregiate in Asia, men-tre le creazioni culinarie di Felix sfi-dano l’apice dell’eccellenza. Al mo-mento della prenotazione chiedere il transfer con una della macchine d’epoca riservate alla clientela.

GIORNO 2La Mattina Dal Pansodan Jetty, il molo di fron-te al vecchio edificio della dogana, ogni mezz’ora partono traghetti ($1 il biglietto per turisti) che, in dieci minuti, portano passeggeri e mez-zi di trasporto sull’altra sponda del fiume Yangon. Prendete un triciclo e, per pochi dollari, il conducente vi porterà al piccolo villaggio rura-le di Dala dove il tempo scorre con ritmi antichi e sembra di aver fatto un passo indietro nei secoli. Prima di riprendere il traghetto fermatevi per una bibita sulla terrazza del piccolo ristorante al molo per ammirare lo skyline della città che, con l’eccezio-ne di qualche palazzo moderno (vie-

tato costruire più in alto della cima dello Schwedagon) è rimasto immu-tato nei secoli. Il PranzoPer chi vuole assaggiare il meglio della cucina birmana c’è il ristorante Feel sulla Ryi Daung Su Teiktha Road (a destra al semaforo sulla Pyay Road dopo il National Museum). Le pietanze scelte al grande buffet di piatti birmani (ottimi gli stufati di carne e verdure), thai e cinesi ven-gono portati a tavola dai camerieri insieme a minestre, piatti di verdure e salse. Si mangia nella sala princi-pale, fuori nel giardino ombreggiato o ai piccoli tavoli con sgabelli lungo il marciapiede, che sono preferiti dai molti locali che frequentano il risto-rante. Il servizio è veloce e un pasto costa intorno ai $3-4.

Il PomeriggioAll’incrocio del Sule Paya Road con l’Aung San Road sorge il Boygoke Aung San Market (aperto dalle 9 alle 17.00 e chiuso il lunedì), un immen-so emporio coperto con oltre 1.500 negozietti e bancarelle che prende il nome dall’eroe nazionale dell’in-dipendenza birmana. Dentro l’edi-ficio, conosciuto anche come Scott Market, si trova di tutto, da lacche e souvenir a stoffe e dipinti di artisti

locali, da rubini e perle ai cheerot, i tipici sigari birmani, a oggetti d’epo-ca.

La CenaIl Padonmar Restaurant, nel quartie-re residenziale di Dagon Township è un edificio in tipico stile birmano. Sul menu gustose zuppe, insalate e secondi birmani e ispirati alle seco-lari tradizioni della cucina thailan-dese. C’è anche un menu Halal, e a disposizione dei clienti, eleganti sale per cene riservate.

E per finire…….Si torna allo Schwedagon, aperto fino alle 22 e ancora più suggesti-vo di notte senza le moltitudini di persone che l’affollano durante ore diurne. Nelle ore serali i fedeli ven-gono per pregare, passeggiare e fare offerte agli altari. E il brillan-te di 72 carati, la più grande delle 4.531 pietre preziose che incrostano la cima della stupa, sembra voler sfi-dare il cielo stellato con i suoi raggi luccicanti. Come arrivareThai Aiwways opera voli giornalieri dall’Italia sull’aeroporto internazio-nale Suvarnabhumi di Bangkok con buone coincidenze che, in poco più di un’ora, raggiungono Yangon. An-

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che MIA e Bangkok Airways opera-no frequenze tra le due città.

Dove AlloggiareThe Strand e The Governor’s Resi-dence sono i due alberghi più lus-suosi della citta. Di ottimo livello anche i centralissimi Trader’s e Park Royal, mentre l’Inya Lake, che sorge sul lago omonimo, il più grande del-la città a circa 20 minuti dal centro, ha una grande piscina e splendidi giardini

Consigli I taxi sono il modo più veloce e con-veniente per spostarsi in città. Per 2 o 3 dollari vi porteranno ovunque, ma è meglio concordare il prezzo prima di salire.

Non cambiare i soldi in strada. I cambiavalute offrono cambi molto favorevoli ma sono abilissimi presti-giatori, e prima di finire nelle vostre tasche le banconote che avrete ap-pena contato vengono miracolosa-mente decurtate di molti bigliettoni.

Solo pochi alberghi accettano le car-te di credito, e nei negozi e ristoranti si paga in Kyat, la valuta nazionale, anche se alcuni negozi e locali più turistici accettano i dollari

Munitivi di dollari di piccolo taglio, serviranno per entrare nei musei e nelle pagode.

Portate sempre un ombrello. Nella stagione delle piogge (aprile-otto-bre) vi servirà senz’altro. E durante la stagione secca (novembre-marzo) vi proteggerà dal sole durante le ore più roventi della giornata.

Con temperature che oscillano tra 18 a 35 gradi tutto l’anno si con-siglia un abbigliamento leggero. Ma è saggio portare anche una giacca o scialle per le serate più fresche e per l’aria condizionata nei grandi al-berghi.

LINKVettoriThai Airways www.thaiairways.co.itMAI www.maiair.comBangkok Airways www.bangkokair.com

MonumentiSchwedagon Paya www.shwedagonpagoda.com

AlberghiThe Strand www.ghmhotels.com/en/strand-myanmar/home/#home

The Governor’s Residence www.governorsresidence.comTrader’s Hotel www.shangri-la.com/en/property/yangon/tradersPark Royal Hotel www.parkroyalhotels.com/en/ho-tels/myanmar/yangon/parkroyal/index.htmlInya Lake Hotel www.inyalakehotel.com

MassaggiGenky Physiotherapy Clinic Tel 09-8615036

RistorantiLe Planteur www.leplanteur.netThiripyitsaya Bistrot www.sakura-tower-yangon.com/sky.htmFeel Restaurant Tel 95 1 725 736 Ristorante Padonmar www.myanmar-restaurantpa-donmar.com

Tour OperatorAsian Trails www.asiantrails.info/index.cfm?menuid=17Orchestra Travel www.orchestra-myanmar.com

Yangon, una metropoli tentacolare con oltre 6 milioni di abitanti

L’elegante facciata di The Strand, un boutique hotel di lusso nel cuore della citta’

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Gli ambienti della Dhevi Spa nel Mandarin Orien-tal Dhara Dhevi fanno rivivere i fasti dell’antico Regno Lanna fondato a Chiang Mai, in Thailan-dia, da Re Mangrai nel XII secolo. L’edificio che ospita la Spa è ispirato allo sfarzoso Palazzo

Reale a Mandalay in Birmania, mentre il complesso Dhara Dhevi è la splendida ricostruzione di una città del periodo Lanna. Il tetto della Spa, alla quale si accede lungo una rampa di scale in marmo bianco, è a sette livelli e rappre-senta i setti passi che conducono al Nirvana, il raggiungi-mento della perfezione spirituale e fisica. Una promessa per chi entra in questa oasi di armonia sensoriale, estesa su 3,100 mq, per sperimentare le millenarie arti thailan-desi del benessere fisico e spirituale. La Spa, immersa in un paesaggio pittoresco di 24 ettari di giardini e risaie in una cornice bucolica, è dotata di 18 sale e suite per te-rapie olistiche, trattamenti di medicina cinese, programmi

benessere personalizzati e rituali di rilassamento, alcuni dei quali risalgono al Regno Lanna come la tecnica che fa uso di bastoncini di corteccia dell’albero di tamarindo per picchiettare i muscoli prima di passare a un rilassan-te massaggio con olii alle erbe e compresse calde. Il ricco programma di trattamenti comprende inoltre terapie di drenaggio linfatico, riflessologia, massaggi thai, svedesi e Lanna, consultazioni ayurvediche e trattamenti per il viso, i piedi e le mani. La struttura è dotata anche di aeree per Pilates, Tai Chi e Yoga sia all’interno che all’aperto nei giar-dini e accanto alle due piscine. Particolarmente eleganti e invitanti le zone relax dove sostare dopo i trattamenti per sorseggiare un tè allo zenzero o al bergamotto e godersi lo spettacolo delle risaie che al tramonto si tingono di sfu-mature dorate, e dove il silenzio viene rotto solo dal dolce fruscio della brezza serale che gioca con le giovani spighe che s’inchinano e ondeggiano sulle acque.•

da antico regno a rifugio benessere di lusso

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Ego

Testo e foto di Pamela McCourt Francescone

Dhevi Spa

La spa e una replica dell’antico palazzo reale di Mandalay Una grande piscina nel Mandarin Oriental Dhara Dhevi

Un trattamento ayurvedico

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PETRIOLO

Cicerone citò questo luogo nell’Orazione pro Marco Caelio e anche il poeta Marco Valerio Marziale ne ricordò la località in uno dei suoi epigrammi a testimoniare l’antica frequenta-

zione di questo luogo che si offre al mondo degli uomini con la sua forma quasi ad imbuto che ne ha originato il toponimo medievale Petriolo, una ruga sul terreno,

una screpolatura del tempo da dove la forza primigenia, chiusa nelle viscere della terra, cerca di uscire piena di vitalità. Oggi sul fondo di quella valle a ridosso della statale Sie-na Grosseto, passano tranquille giornate gruppi di gi-rovaghi alla ricerca del benefico calore di acque che già videro i sacri lombi di papa Pio II e di moltissimi altri

Quando la storia incontra il benessere

Testo di Giuseppe Garbarinoe foto dell’Archivio Terme di Petriolo

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personaggi come i Medici di Firen-ze, i Gonzaga di Mantova oltre un lungo elenco di vescovi, cardinali e nobili. I Bagni di Petriolo, dopo il lungo oblio del periodo medievale, suscitarono nuovamente l’interesse dell’uomo a partire dal 1230, per poi raggiungere il massimo splendore nel Rinascimento, quando nel 1404 il luogo venne addirittura fortificato dai senesi ad indicare il suo notevole prestigio poiché i siti termali erano come cliniche, luoghi dove le cal-de acque che sgorgano dalla terra erano considerate curative, infatti ancora oggi la temperatura dell’ac-qua solfidrica al momento della sua uscita dal terreno è di 43 °C. Unico esempio conosciuto di terme forti-ficate, la posizione della sorgente è sul fianco di una ripida collina che corrisponde ad un tratto di quell’af-fascinante fiume chiamato Farma, in una zona impervia, circondata da fit-ti boschi dove la natura è la regina. Il luogo è ideale per la ricerca del be-

nessere fisico e spirituale, affiancan-do la possibilità di un percorso dove storia, natura e contemporaneità si incontrano. Quando l’acqua calda si mescola con quella del fiume si crea un ideale microclima acquatico all’interno di un’altra piscina creata naturalmente da grossi sassi. Le ter-me hanno negli anni avuto momen-ti di inevitabile declino, ma oggi il nuovo e moderno stabilimento ter-male nel comune di Monticiano of-fre una serie di interessanti proposte per trascorrere brevi periodi di relax o giornate di puro piacere immersi nella natura e soprattutto godere di acque calde senza dover raggiunge-re esotiche località turistiche. L’offer-ta termale ha quindi due possibilità, quella del classico centro benessere o la scoperta delle tradizionali pisci-ne naturali che affiancano i resti delle antiche terme. All’interno di questo storico edifico si possono ancora ve-dere le vasche in pietra allineate sot-to il portico, mentre a poca distanza

è possibile immergersi nelle piccole conche naturali formate da depositi di calcare e zolfo. Sulla parte supe-riore della collina si trova quindi il nuovo centro termale, eccellenza nel panorama toscano dell’offerta nel settore benessere, un luogo di indiscussa professionalità adeguato a tutte le patologie legate alla der-matologia, aspetti locomotori e re-spiratori. Le terme di Petriolo sono un luogo adatto ad ogni stagione, ma forse è proprio in gennaio, mese con il quale inizia l’altalenarsi fati-coso di impegni e scadenze lavora-tive, che tutti sentiamo la necessità di ricaricarci, di ricercare noi stessi quindi rivitalizzare il corpo insieme allo spirito. Il freddo gennaio può diventare un momento di indubbio stimolo per visitare un luogo come questo. E’ stupenda la sensazione di gioia che ci aggredisce nell’immer-gersi nelle acque calde mentre l’a-ria intorno a noi è quella pungente delle più fredde giornate invernali,

52 Le antiche terme. E’ l’unico esempio di luogo termale fortificato conosciuto in Europa. (foto Roberto Fortini)

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bilità di personalizzati programmi benessere completa-no l’itinerario presso il panoramico albergo che visto da lontano sembra arroccato sulla dorsale della collina, at-tento a non scivolare dentro quell’imbuto naturale dove si fa strada l’acqua termale di Petriolo. Ecco che in quest’angolo di Maremma incontaminata, in uno spazio unico e tranquillo è possibile passare da poche ore ad un fine settimana in perfetta sintonia con se stessi, dimenticando forse che nonostante il caldo e ospitale tepore delle acque, il freddo gennaio ci assedia silenzioso. Unico problema, insignificante alla luce degli effetti benefici e ristoratrici, l’odore di zolfo che ci ac-compagnerà per qualche ora.•

Terme di PetrioloLoc. Petriolo – Monticiano 58100 Grosseto (GR)Tel. E fax 0577 75 70 92/0577 75 71 04 www.termepetriolo.it

Petriolo Spa & ResortLocalità Bagni di Petriolo 58045 Pari, Civitella Paganico (GR)Prenotazioni: +39.0564.9091www.petriolospa.com

magari con qualche timida macchia di neve sui rilievi della zona. Possia-mo certo dire che ad un anno dalla riapertura delle Terme di Petriolo, al centro di quella che è la riserva naturale del Basso Merse, lo slancio economico della zona ne ha posi-tivamente risentito grazie ad una struttura concepita per un moderno incontro con noi stessi. La struttura si articola su quattro piani con ampi solarium e vasche termali esterne ed interne, vicino a queste si artico-la un percorso vascolare Kneipp per aiutare la circolazione sanguigna di gambe e piedi. Particolarmente ap-prezzate sono le sedute di massag-gio e le applicazioni dei fanghi, ma non dovete spaventarvi, nonostante il successo che hanno avuto, le nuo-ve terme non soffrono di quell’af-follamento turistico tipico di altri periodi dell’anno e anche una sola giornata nella quiete dei vapori cal-di che accarezzano le acque termali è sufficiente a ripartire in attesa di mesi più caldi. Tutta la zona guarda con interesse a questa iniziativa di riscoperta delle terme di Petriolo, soprattutto in funzione di ripristino conservativo di alcuni edifici storici come la trecentesca chiesa, il cas-sero e le mura che circondavano l’antico complesso termale, ancora in stato di abbandono e degrado. Petriolo vive oggi una nuova epo-ca, quella del terzo millennio, in un momento di grande interesse per tutti quei luoghi dove si uniscono alcune delle tradizionali situazioni di benessere, relax, gastronomia, accoglienza e storia. A poca distanza si trova il Petriolo Spa & Resort, un albergo che domi-na la vallata lungo la strada stata-le Siena Grosseto; qui la tradizione mediterranea si incontra con i più intimi profumi della toscana, in una sensuale ospitalità di magia e colo-ri, in un ambiente di grande classe e ricercatezza adatta a far sentire chiunque a casa propria. Anche in questo caso la parte termale del luogo è vincente; una grande pisci-na esterna ed una interna, sembra-no il naturale completamento delle vicine terme. Un calidarium, il tepi-darium e una sauna, oltre alla possi-

Petriolo le calde acque dei signori di Toscana

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Fangoterapia, una delle più ricercate e terapeutiche soluzioni per il rilassamento muscolare. (foto Terme di Petriolo)

Il solarium, il luogo da dove godere il panorama sulle incontaminate foreste di Petriolo anche quando le temperature sono basse. (foto Terme di Petriolo)

La piscina esterna delle Terme di Petriolo, immersa nella natura sembra galleggiare su un tappeto verde. (foto Terme di Petriolo)

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Kaleidoscope

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TIVOLIviaggio a ritroso nel tempo

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Con questa citazione di Goethe ha inizio il nostro viaggio alla scoperta di Tivoli, l’antica città latina Tibur, chiamata da Virgilio, nel libro VII dell’Eneide, Tibur Superbum e fondata ancora prima di Roma, nel 1215 a.C.Situata ad est di Roma, nacque e si

estese sulla riva sinistra del fiume Aniene, dove sorse l’acro-poli e vi tornarono, nel Medioevo, i cittadini tiburtini che si garantivano così il percorso più breve per la transumanza delle greggi. Nel Settecento la città, con tutte le sue rovine, divenne una tappa obbligata per i viaggiatori del Gran Tour, soprattutto nobili inglesi, che finanziarono sterri, alla ricer-ca di sculture, per arricchire le loro dimore, ma anche pittori francesi, olandesi e tedeschi. Oggi Tivoli vanta ben quattro siti statali: Villa Adriana, il Santuario di Ercole Vincitore, Villa d’Este e Villa Gregoriana di cui 2 (Villa Adriana e Villa d’Este) Patrimonio dell’Umanità.

Sono stato a Tivoli ed ho ammirato uno degli spettacoli più super-bi. Le cascate insieme alle rovine antiche e tutto l’insieme di quel paesaggio sono cose la cui conoscenza ci arricchisce nell’intimo dello spirito (Goethe, Viaggio in Italia)

Testo di Raffaella Ansuinie foto di Marco Aschi

La villa d’Este di è un capolavoro del Rinascimento italiano e figura nella lista del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO

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Villa AdrianaÈ la villa che l’imperatore Adriano volle farsi costruire e forse, in parte progettò. È sicuramente la più fa-mosa delle molte residenze imperiali romane. Ma alla fama si aggiunge il mistero poiché, in realtà, Villa Adriana è ancora poco conosciuta. È costituita da un insieme di costruzioni monu-mentali, vie , specchi d’acqua, terme, biblioteche, teatri, templi che alcuni vogliono considerare come la pro-iezione di analoghi monumenti visti dall’imperatore durante i propri viag-gi. Si tratta di una vera e propria città estesa su di un’area di circa 300 ettari, nella quale il grandioso complesso si presenta diviso in quattro diversi nuclei. La Villa era certamente ispi-rata alla Domus Aurea di Nerone, la grandiosa reggia romana quasi com-pletamente distrutta dopo la morte dell’imperatore. Il progetto della villa tiburtina è attribuito allo stesso im-peratore, interessato all’architettura, che volle qui riprodurre i luoghi e gli edifici che più lo avevano colpito nei suoi numerosi viaggi nelle province dell’impero: il Liceo, l’Accademia, il Pritaneo, il Pecile di Atene, il Cano-po sul delta del Nilo, la Valle di Tem-pe in Tessaglia. Non si trattò di una scelta puramente amatoriale: i viaggi di Adriano non avevano un carattere,

per così dire, turistico, ma costituiro-no il segno più evidente della nuova concezione dell’impero che lui stesso andava affermando in quell’inizio del II secolo d.C., dopo che le conquiste del suo predecessore Traiano avevano portato i confini dell’impero romano alla massima espansione.Dopo la morte di Adriano, avvenu-ta nel 138 d.C., la villa continuò a far parte dei beni della Casa Imperiale. Nei secoli successivi subì un lento declino e fu spogliata dei suoi marmi, utilizzati in molti edifici e chiese me-dievali. All’inizio del Settecento gran parte della Villa fu acquisita dalla ca-sata Conte che iniziò una campagna di scavi e la adornò con cipressi e viti. Dopo l’unità d’Italia (1870) passò al Demanio statale.

Santuario di Ercole VincitoreEra attorno al I secolo a.C., quando fu costruito, a circa 300 metri dalle mura urbane di Tivoli, l’imponen-te santuario dedicato ad Ercole, dio tutelare della città, protettore della transumanza. Il santuario divenne ben presto meta di rilevanti flussi econo-mici e commerciali, visto il controllo sistematico dei traffici commerciali che si svolgevano lungo l’asse viario della Tiburtina. Il Santuario di Ercole

Vincitore è da considerarsi fra i gran-di santuari del Lazio, assieme a quello di Palestrina e quello di Terracina. Ad un periodo di abbandono fa seguito, nella seconda metà del XIX secolo, un recupero e una variazione di destina-zione d’uso; in centrale idroelettrica, la prima dell’Italia centrale, e poi in cartiera fino al 1950. Le trasformazio-ni del complesso, se pur significative, non ne hanno comunque compro-messo l’identità monumentale. Si è infatti creato un connubio tra antico e moderno; tra archeologia classica e archeologia industriale. Nel 1840, ad opera dell’archeologo belga Thierry, venne restituito alla sua reale identi-tà e alla fine degli anni Settanta (del secolo scorso), acquisito dal demanio. Oggi, il santuario sta lentamente tornando alla luce, anche grazie ad un progetto per la riqualificazione e fruizione del teatro - che è parte inte-grante del complesso, con i suoi 700 posti - finanziato dai fondi del gioco del lotto 2004-2006 D.M. 22/10/2004 e diretto dalla Direzione Regiona-le per i Beni Culturali e Paesaggistici del Lazio, di concerto con la Soprin-tendenza per i Beni Archeologici del Lazio.Villa D’EsteVenne fatta costruire dal Cardinale Ippolito d’Este (1550), al posto di un

TIVOLI un viaggio a ritroso nel tempo

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Scorcio di Tivoli

quartiere chiamato Valle Gaudente di epoca medievale. La Villa è un capolavoro di giardino all’italiana, una miscellanea di fontane, ninfei, grotte, giochi d’acqua e musiche idrauliche che costituiscono un modello per i giardini europei. Villa D’E-ste, fra il 1867 e il 1882, ospitò spesso il musicista Franz Liszt che proprio qui compose Giochi d’acqua a Villa d’Este, per pianoforte, e tenne, nel 1879, uno dei suoi ultimi concerti. Allo scoppio della prima guerra mondiale la villa entrò a far parte delle proprietà dello Stato Italiano, fu aperta al pub-blico e interamente restaurata negli anni 1920-30. Un altro radicale restauro fu eseguito, subito dopo la seconda guerra mondiale, per riparare i danni provocati dal bombardamen-to del 1944. A causa delle condizioni ambientali particolar-mente sfavorevoli, i restauri si sono da allora susseguiti quasi ininterrottamente nell’ultimo ventennio.

Villa GregorianaParco pubblico voluto da papa Gregorio XVI, Villa Grego-riana nacque nel 1835 dalla sistemazione del vecchio letto dell’Aniene, stravolto dalla rovinosa piena del 1826. Di rara bellezza la Villa, detta anche di Manlio Vopisco, proprietario in epoca romana della villa distrutta, si caratterizza per gli aspetti naturalistici che esaltano la presenza delle acque del fiume Aniene. Si possono ammirare la grande cascata (oltre 100 metri di salto) che esce con impeto dai cunicoli artifi-ciali scavati, dopo la piena catastrofica del 1826; le grotte di Nettuno e delle Sirene, dove il fiume stesso viene inghiottito nelle viscere della roccia, per poi ricomparire più a valle. La suggestione che i luoghi ancora selvaggi incutono e il parti-colare ecosistema ne fanno un luogo unico al mondo.•

www.villadestetivoli.infowww.comune.tivoli.rm.itwww.fai.itbibliografia: villa adriana. Una storia mai finita

Tivoli, Ponte Gregoriano Villa Gregoriana, Tempio di Vesta

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San Daniele, uno dei centri principali del Friuli, é una bella cittadina adagiata su un colle, lungo il maestoso fiume Tagliamento, da cui si

possono cogliere panorami sconfinati su altre dolci distese collinari che nel loro complesso costituiscono il terri-torio ideale per dare vita alla famosis-sima produzione del prosciutto San Daniele, frutto di una tradizione mille-naria e di un microclima unico.Ed é significativo, avvicinandosi alla cittadina, rendersi conto di quanto sia appropriata la sua appartenenza a quella Associazione delle “Città slow”, che, nata con lo scopo di “promuovere e diffondere la cultura del buon vive-re”, animata da uno spirito attento alla curiosità verso “il tempo ritrovato” ed il “lento, benefico succedersi delle sta-gioni”, allarga l’attenzione dalla buona tavola, alla qualità dell’accoglienza e dei servizi, alla bontà degli stili di vita e di una serie di impegni il cui rispetto viene verificato periodicamente. E se il termine “slow” sta ad indicare “lento”, nella accezione positiva di contrappo-sizione ad uno stile di vita “fast”, che negli ultimi decenni è stato in voga nelle grandi metropoli, essere parte dell’associazione significa impegnar-si a rispettare i parametri in materia urbanistica e ambientale, a guardare avanti senza dimenticare le tradizioni

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Salone di stagionatura

Marchiatura a fuoco Piatto di prosciutto San Daniele e marchi

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Testo di Luisa Chiumentifoto dell’Archivio del Consorzio di San Daniele e dell’Ufficio Turistico Pro San Daniele

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San Daniele del FriuliLa -Città slow- del celebre prosciutto

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San Daniele del Friuli - La -Città slow- del celebre prosciutto

e i valori di riferimento impegnandosi a salvaguardare gli aspetti storici, arti-stici e naturali di pregio della propria città, pur mettendo la tecnologia in-novativa a servizio della qualità della vita. L’impegno per il Comune riguarda tutti gli aspetti della città: infrastruttu-re, qualità urbana (recupero dei centri storici e degli edifici di pregio, bioar-chitettura, piste ciclabili, abbattimen-to delle barriere architettoniche, etc); politica ambientale (lotta all’inquina-mento, promozione di una mobilità sostenibile); difesa delle produzioni autoctone e consapevolezza, ovvero la crescita della coscienza di essere città slow. Due dei principi emanati dallo statu-to delle città slow, sono esattamente legati alla produzione tipica del pro-sciutto: quello della “salvaguardia del-le produzioni autoctone che hanno radici nella cultura e nelle tradizioni e che contribuiscono alla tipizzazione del territorio mantenendone i luoghi e i modi e promuovendo occasioni e spazi privilegiati per il contatto diretto tra consumatori e produttori di quali-tà” e quello di promuovere la qualità della ospitalità come momento di rea-le collegamento con la comunità e con le sue specificità”, con ”l’utilizzazione piena e diffusa delle risorse della città”. Per quanto riguarda il prestigioso pro-dotto di questa terra, é doveroso ri-

cordare come la qualità del prosciutto San Daniele sia stata riconosciuta dal-lo Stato Italiano fin dal 1970 e come, dal 1996, il Prosciutto di San Daniele sia stato riconosciuto dall’Unione Eu-ropea come prodotto DOP, le cui ca-ratteristiche distintive contemplano la zona di origine, esclusiva e rigoro-samente delimitata, con l’obbligo, per l’intera filiera produttiva, di rispettare le norme del Disciplinare di Produzio-ne, realizzato da un Istituto autorizzato dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali. Ed é del 1961 la costituzione del “Consorzio dei pro-duttori del prosciutto di San Daniele. Origine e qualità certificate”, nato con lo scopo di “tutelare e diffondere il nome del prosciutto tipico e di stabi-lire delle regole per le materie prime e per la lavorazione del prodotto”. Ma facciamo una passeggiata all’interno di questa città slow che è anche co-nosciuta a livello internazionale come una “perla” del Friuli Venezia Giulia, dal punto di vista del suo tessuto sto-rico architettonico e monumentale. Ecco ad esempio il Duomo settecen-tesco, con gli affreschi dell’ex Chiesa di Sant’Antonio Abate, il più bel ciclo rinascimentale della regione, tanto da far guadagnare a San Daniele l’appel-lativo di “piccola Siena del Friuli”, né é da dimenticare la presenza della Biblioteca Guarneriana, che conserva

preziosi codici miniati, una delle più prestigiose biblioteche d’Italia e la più antica del Friuli Venezia Giulia. E che dire del ricco Museo del Territo-rio, collocato nel secentesco chiostro dell’ospedale vecchio, già convento domenicano, che espone preziose te-stimonianze: dai reperti archeologici alle oreficerie, dalle monete antiche, ai vetri, alle ceramiche, terrecotte e di-pinti. Il museo é articolato infatti in tre sezioni fondamentali: archeologia, arte sacra e etnografia. La sezione archeo-logica presenta reperti provenienti da ritrovamenti e scavi effettuati sul terri-torio, che permettono di seguire l’evo-luzione della vita nella zona a partire dal periodo compreso fra l’XI e l’VIII sec. a.C. fino al periodo medioevale. Completa l’esposizione la sezione et-nografica con reperti relativi alle arti ed ai mestieri della civiltà friulana.

Ufficio Turistico Pro San DanielePiazza Pellegrino, 433038 San Daniele del Friuli (UD)Tel/Fax: [email protected]

Consorzio del prosciutto di San DanieleVia Umberto I, 26San Daniele del Friuli (UD)[email protected]

Il Duomo di S. Michele a San Daniele

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Carnosi, croccanti e invitanti: l’uno rosso vivo e l’altro screziato, bello come una rosa. Il Radicchio Rosso di Treviso e il Variegato di Castelfranco sono l’orgoglio dell’offerta gastro-nomica trevigiana e nella stagione fredda sono molto apprezzati dai visitatori gourmet. I radicchi hanno la particolarità di crescere rigogliosi nel freddo, quando la natura si ferma. Questi fiori dell’inverno, discendenti dall’affollata famiglia delle cicorie, possono essere gustati crudi o cotti in mille ricette tradizionali. Diversi, ma entrambi tutelati da un consorzio

e dal marchio Igp (Identità geo-grafica protetta), danno il massimo delle loro qualità e del gusto fino a Pasqua. Chiunque decida di conce-dersi un week end o una vacanza in questa romantica città veneta percorsa da tanti canali originati dal fiume Sile, non potrà non apprez-zare le specialità - o anche tutto un menu completo, dolce compreso- a base di radicchio. Irresistibili le foglie lucide e carnose, da gustare crude, leggermente condite con qualche salsa a base di olio e limone o con scaglie di grana e acciughe. Un

classico è il radicchio ai ferri, condito semplicemente con olio, aceto, sale e pepe. Ma può essere fritto in tempura, gustato con i tipici sfilacci di cavallo, in crocchette, in crema, in sformati e persino nel famoso soufflé agrodolce con cioccolato bianco. Ogni ristorante offre la sua perso-nalissima ricetta, a cominciare dal risotto al radicchio che ha varcato ogni confine regionale per entrare nei menu più stellati del mondo. L’offerta enogastronomica trevigiana varrebbe da sola il viaggio ma la città serba altre sorprese. “Bella, giace una

Testo diMariella Morosi

regione ricca d’acque, acque di mon-tagna e di fiume, del vicino Piave e del Grappa, che filtrano sotto terra e riappaiono ovunque nella campagna, luccicando”. Così la descriveva Guido Piovene nel suo celebre Viaggio in Italia. Questo centro antichissimo, la Tarvisium dell’impero romano,

ancora oggi parla della sua storia secolare tra i palazzi medievali e tardo gotici, tra le arcate e i graziosi ponticelli dove sembra che il tempo non sia passato. E’ una città d’acqua, di un fascino più discreto rispetto alla magnificenza di Venezia con cui comunque divise alterni destini. E’

stata proprio l’acqua a disegnarla, a deciderne la sua storia urbanisti-ca. E’ bello scoprirla lungo queste vie d’argento e coglierne gli scorci più caratteristici: dai salici che si specchiano nel Cagnano del canale dei Buranelli -così si chiamavano i pescatori dell’isola di Burano- alla

Archivio Fotografico Provincia di Treviso - Mattia Gri

In queste pagine Archivio Fotografico del Consorzio di Tutela del Radicchio di Treviso

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Pescheria con i banchi del mercato fino alla Riviera Santa Margherita, antica sede del porto cittadino. Tappa d’obbligo, insieme al Duomo dalle belle cupole, è la superba Piaz-za dei Signori, su cui si affacciano la Prefettura, il Palazzo dei Trecento e il Cal Maggiore. Ed è proprio su questa piazza duecentesca su cui dominava il Podestà che si svolge ogni anno, per un’intera settimana, -Radic-chio in Piazza-, la festa dedicata al celebrato “fiore che si mangia”, che vede botteghe, mercati, bancarel-le e piatti tipici colorarsi di rosso acceso. Sono molte altre le rassegne gastronomiche a tema, specialmente a primavera: da Cocoradicchio, a Suprema, dalle sagre paesane ai per-corsi della Strada del Radicchio, con degustazioni guidate, corsi di cucina a cura di Slow Food e gemellaggi con altri nobili prodotti, primo tra tutti l’olio extravergine. Nobilissimo protagonista della cucina, il radicchio contribuisce a rafforzare l’appeal turistico di tutta la Marca Trevigia-na, termine storico con cui si indica tutta la provincia, una delle zone più ricche di beni storici e paesaggistici dell’intera pianura veneta con ville, castelli, oasi naturalistiche e mulini secolari. Se il radicchio è inamovibile al top delle eccellenze gastronomi-che, a marcarlo stretto è l’Asparago di Cimadolmo, detto il Re Bianco che, insieme alle erbette spontanee, entra in tante specialità offerte dai ristoranti e dalle discrete trattorie dei vicini borghi: Canizzano, Frescada, Monigo, S. Angelo, S. Antonio, Santa Bona, S. Giuseppe, S. Pelajo, Selvana. Molti possiedono edifici storici, ma la maggior parte vanta una natura bel-lissima. Il Parco Naturale del Sile of-fre tre ambienti diversi lungo il corso del fiume: le zone umide e paludose vicino alla sorgente, il tratto tortuo-so che precede l’entrata in Treviso e, infine, il paesaggio lagunare in prossimità della foce. Famose le ville realizzate da grandi artisti come An-drea Palladio e Francesco Maria Preti, studiate nelle università del mondo per il loro straordinario valore archi-tettonico, per la perfetta armonia con il paesaggio e per gli affreschi e le opere d’arte che contengono.

Tutta la Marca Trevigiana merita una visita all’insegna della cultura, della natura e dell’arte, ma è una desti-nazione davvero speciale per i tanti enogastronomi. Molti altri prodotti d’eccezione oltre al radicchio sono da gustare nella Marca Trevigiana: tra i formaggi quelli di Asolo, la casatella e, di tradizione antichissima, la for-majea butirrosa, la latteria coi busi e l’ imbriago al Raboso. Consistente il paniere dei salumi con la sopressa, il salame punta di coltello, i cotechini, l’arista e le pancette. I vini sono tanti e tutti di qualità, dal prosecco ai vini dei Colli Asolani fino a quelli della zona del Piave: un’offerta enotu-ristica straordinaria. Le Strade dei

Vini sono ormai diventate una meta privilegiata dei turisti più attenti che assieme al gusto della buona tavola scelgono itinerari ricchi di bellezze artistiche e fascino.•

CONSORZIO DI TUTELA DEL RADICCHIO DI TREVISO www.radicchioditreviso.it

PROVINCIA DI TREVISOwww.provincia.treviso.it Archivio Fotografico del Consorzio di Tutela del Radicchio di Treviso Archivio Fotografico della Provin-cia di Treviso - Mattia Gri.

Il Radicchio di Treviso e il Variegato di Castelfranco

Archivio Fotografico Provincia di Treviso - Mattia Gri

Se potessi avere Mille Lire al mese… cosi diceva la famosa e popolare canzoncina degli anni 30, quando in Italia si cercava il benessere spiccio-lo, quello fatto di piccole cose, perché in fondo Mille Lire del 1933, non erano poi così tante. Il

freddo calcolo matematico sul valore di quelle Mille Lire rapportato ad oggi è di circa 1200 Euro, pochini se si ricordano le strofe della canzone, la casettina, mogliet-tina, auto, ecc…., ma il segreto è nel potere di acquisto di quelle Mille Lire. Il mistero è risolto dall’analisi del co-sto delle materie prime di uso quotidiano che negli Anni Trenta del secolo scorso scesero sensibilmente e nella re-altà le Mille Lire del nostro sognatore avevano un potere d’acquisto di circa 2800/3300 Euro al mese, una cifra che

anche di questi tempi non è da disdegnare per affrontare le problematiche della vita quotidiana. E’ partendo da questa idea di storia della Lira nel tempo, dei prezzi al dettaglio, dei costi di una vita fatta di quoti-dianità, che su questa falsariga storica è stata inaugurata a metà dicembre una particolare mostra, una storia della Lira dall’Unità d’Italia fino all’avvento dell’Euro. A questa mostra di antiche e bellissime banconote è stata abbi-nata anche una pubblicazione nella quale si raccontano gli avvenimenti in una Firenze che nel 1860 entra a fare parte del neonato Regno d’Italia seguendone lo spirito, i fatti e le aspirazioni nell’Ottocento e nel Novecento. E’ attraverso la letteratura o le corrispondenze epistolari tra personaggi dell’epoca che sono stati trovati piccoli

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Mille Lire al mese

Testo diGiuseppe Garbarino

La Lira che fu, in una mostra di rievocazione risorgimentale nella Firenze dell’Euro

Mille Lire - La famosa e grossa banconota da Mille Lire. Venne utiliz-zata dall’inizio del novecento fino a dopo la seconda guerra mondiale.

I portafogli maschili venivano fatti tenendo conto delle sue misure

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indizi sull’uso delle Lire e a volte dei centesimi, preziosi sottomultipli di un epoca lontana che è diventata familiare a tutti con l’introduzione dell’Euro. E quindi ecco Pinocchio accanto a Soffici e La Pira, tutti misu-rati con la Lira, questa moneta tanto spesa da essersi inflazionata da sola, che ebbe origine in un mondo lonta-no, sicuramente nel tempo di Carlo Magno che per primo codificò ed in-trodusse l’unità di misura monetaria denominata Lira. La mostra, organiz-zata dall’Associazione Culturale PRI-MA (Promozione Reti Interculturali e

Movimenti Artistici), particolarmente vivace ed attenta alla cultura storica di Firenze, è stata possibile grazie alla disponibilità data dagli eredi di Tullio Marrone, un collezionista che negli anni ha accumulato una note-vole varietà di banconote italiane che rappresentano due secoli di storia. Il Comune di Firenze ha colto al volo l’occasione, coinvolgendo l’Ente Cas-sa di Risparmio di Firenze e una se-rie di sponsor che hanno dimostrato un’attenzione ed un interesse fuori dal comune all’evento espositivo ed editoriale di -La Lira dal Risorgimen-

to all’Euro-. L’alto livello dell’evento, inaugurato il 16 dicembre 2011 pres-so lo Spazio Mostre dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze nel grande e storico palazzo di via Bufalini, si vede dai loghi di chi ha contribuito alla sua realizzazione, come Autostrade Tech, Gemmo, British Telecom. Nel-la mostra, che durerà per tre mesi a partire dal 16 dicembre, si spazia dalla raccolta delle banconote emes-se dall’effimera Repubblica Veneta nel 1848 alle emissioni speciali per le colonie del Regno d’Italia, oltre a nu-merose curiosità, le emissioni locali

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Mille Lire al mese

di banche oggi scomparse, bigliettini colorati con sopra impresso il valore di una lira o cinquanta centesimi e il nome dell’istituto emittente, ma-gari quel curioso Banco di Pescia o la Banca Nazionale Toscana che a quel tempo era istituto di emissione come è stata fino all’avvento dell’Eu-ro la Banca d’Italia. La cronologia dell’esposizione tocca anche il perio-do dell’occupazione americana e la stampa di quelle curiose banconote che erano le AM Lire, trasportate in Italia a bordo di aerei militari per poi arrivare alla serie completa delle banconote della Repubblica Italiana.

Quindi dietro ogni banconota c’è una storia? “E’ vero”, risponde Filippo Giovannelli, presidente dell’Associa-zione PRIMA, “dietro ogni banco-nota c’è la storia d’Italia. Pensi che ne esiste una stampata addirittura a New York nel 1866 e un’altra presso l’Istituto Geografico de Agostini di Novara, durante la seconda guerra mondiale. Se non avessimo avuto la disponibilità di questa collezione da parte di Antonio Marrone, erede del collezionista Tullio, non avremmo avuto il modo di far incontrare ai fio-rentini e a tutti gli altri ospiti della cit-tà che sono intervenuti e che ancora

visiteranno la mostra, quel mondo di carta che passa tra le mani, magari resta dimenticato in fondo ad una tasca ma che troppo spesso viene solo speso e non osservato per quel-lo che è veramente. Firenze con que-sta mostra incontra anche se stessa, perché moltissime delle immagini utilizzate nel secondo dopo guerra sulle banconote italiane si sono ispi-rate a vedute o personaggi fiorentini, è l’esempio di Galilei e il panorama di Arcetri, le immagini tratte dai quadri del Botticelli conservati agli Uffizi, Michelangelo, Leonardo da Vinci e Machiavelli.•

il 10 Lire “Cavour”, emesse nel 1866, in piena epopea risolrgimentale, il volto di Cavour venne abbinato a quello di Cristoforo Colombo

100 Lire Am Lire, emesse a partire dal 1944 dalle truppe americane. Questa tipologia di banconota fece esplodere l’inflazione in Italia nel secondo dopo guerra

Una delle curiosità della mostra è questo titolo emesso a “sollievo e soccorso” dei romani che avevano lasciato lo stato ponti-ficio a causa di problemi politici. Alcune di queste finte banconote erano firmate anche da Garibaldi

Il 50 Lire emesso dalla Repubblica di Venezia nel 1848, in piena Prima Guerra di Indipendenza, durante l’assedio austriaco della città

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Chi mai alla mezzanotte del 31 dicembre brinda a Quinto Fulvio Nobiliore? Probabilmente nessuno. E’ l’ingratitudine della storia.

Eppure fu proprio questo console romano che nel 153 a. C. fissò il Ca-podanno al primo gennaio. Come si svolsero i fatti? Originariamente i Ro-mani, nell’VIII secolo a. C., avevano, come gli Etruschi, un calendario che si fondava sulle fasi lunari di soli dieci

mesi: Martius, ApriIis, Majus. Junius, Quintilis, Sextilis, September, Octo-ber, November, December. L’anno si iniziava con Marzo, consacrato a Mar-te, araldo della primavera e protetto-re dei campi. Solo in seguito questo dio rivestì la corazza del guerriero, in coerenza con l’evoluzione storica dei Romani, sempre più militaristi e im-perialisti. Aprile invece derivava ge-nericamente dal concetto di “aprire”; Majus era dedicato a Maja, protettrice

delle messi; Junius probabilmente a Giunone, la moglie di Giove. Gli altri mesi riportavano nel nome semplice-mente il numero progressivo che era stato loro assegnato nell’anno. Questo anno lunare, di circa 300 giorni, non reggeva però il ritmo delle stagioni. Perciò, probabilmente già all’epoca di Numa Pompilio, successore di Romo-lo, vennero aggiunti due mesi: Janua-rius e Februarius. Il primo in omaggio a Giano, il secondo forse a Febronia,

protettrice delle febbri. Ma i conti non tornavano ancora. Per adeguare il calendario lunare a quello solare, e quindi rispettare davvero le cadenze stagionali, venne aggiunto il cosiddet-to mese intercalare, di 22 o 23 giorni, posto subito dopo il 23 febbraio, la cui durata era decisa dal Pontefice Massi-mo sulla base di calcoli che potevano variare. Marzo manteneva il ruolo di primo mese e alle Idi, cioè verso il 15, venivano insediati i consoli neo eletti che reggevano la Repubblica. Per l’an-no 153 a. C. fu eletto console Quinto Fulvio Nobiliore, figlio di Marco Ful-vio Nobi-liore, politico e comandante militare, conquistatore di Ambracia in Epiro, pretore in Iberia e vincitore sui Celtiberi. Ma quest’ultima popolazio-ne era ancora in fermento. Appena eletto, Quinto pensò che fosse neces-sario intervenire in fretta nella peniso-la iberica per riportare la pax romana. Perciò il console, con l’accordo del col-legio e del senato, decise di anticipare l’entrata in carica al pri¬mo gennaio, per poi partire immediatamente a

capo di una spedizione militare.Fu così che l’anno subì un ribaltone, destinato a diventare definitivo. Nella nuova collocazione i mesi successivi a Majus slittarono di due posizioni e divennero incoerenti rispetto ai loro nomi. Quintilis in seguito diventò Ju-lius, in onore di Giulio Cesare, nato in quel mese nell’anno 100 a.C.: la proposta fu fatta da Antonio, dopo l’uccisione del dittatore avvenuta il 15 marzo del 44 a. C. Sextilis divenne Augustus nell’8 a. C., in onore di Au-gusto che, in quel mese, nel 33 a. C., aveva ricevuto le insegne di console e, in anni diversi, aveva celebrato trion-fi per la sottomissione dell’Egitto e la fine delle guerre civili. A Giulio Cesare dobbiamo la sistemazione quasi defi-nitiva del calendario, nel 46 a. C.. Per porre ordine in questa materia egli ricorse all’aiuto dello scienziato greco Sosigene, il quale stabilì che l’anno era lungo 365 giorni e un quarto. La map-pa dei mesi venne ridisegnata, sparì il mese intercalare, venne introdotto, ogni quattro anni, un giorno in più,

con il raddoppio del 24 febbraio: il giorno aggiunto fu definito bis sextus clies ante calendas Martias e quell’an-no in seguito fu chiamato bisextilis. In realtà l’anno solare durò un po’ meno di 365 giorni e un quarto e quindi gli anni bisestili risultavano troppi. Nel Medioevo il solstizio d’inverno era fi-nito con coincidere, più o meno, con il 13 dicembre, dedicato a Santa Lucia, e divenne, secondo il detto popolare, “il giorno più corto che ci sia”. Una nuova riforma fu introdotta da papa Grego-rio XIII nel 1582. Quell’anno, per pa-reggiare i conti, si passò direttamente da giovedì 4 ottobre a venerdì 15; il febbraio degli anni bisestili fu modi-ficato aggiungendo il giorno 29. Con-temporaneamente furono soppressi tre anni bisestili secolari su quattro. Cioè rimase bisestile il 1600, ma non lo furono in seguito il 1700, il 1800 e il 1900. Lo è stato invece il 2000 e lo sarà il 2400. Questa rettifica vale 10.000 anni; ne mancano ancora 9.600 fino al prossimo intervento. Ne riparleremo a suo tempo.•

Capodanno? Grazie a Quinto Fulvio Nobiliore

Testo di Luigi Bernardie foto di Archivio

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E’ notizia di qualche mese fa che, dopo la decisione dell’Assessorato Regionale alla Cultura, si terrà in Umbria, a partire dal mese di giu-gno 2012 e in collaborazione con

l’associazione Civita, la grande mostra-evento sul pittore Luca Signorelli. La mani-festazione, successiva ai precedenti grandi allestimenti dedicati al Perugino e al Pin-turicchio, raccoglierà le opere dell’artista provenienti da tutta Europa, toccando di-verse città del centro Italia, come Cortona, Perugia, Città di Castello e Orvieto, dove si

trova all’interno del duomo, nella cappella di San Brizio, il suo capolavoro: il Giudizio Universale.

La carriera di “messer” Luca“Luca Signorelli fu ne’ suoi tempi tenuto in Italia tanto famoso e l’opere sue in tanto pregio, quanto nessun altro in qualsivoglia tempo sia stato già mai”, così Giorgio Va-sari apre la biografia dell’artista nelle sue Vite, pubblicate nel 1550. Nato a Cortona intorno al 1445(vi morirà nel 1523), l’artista deve gran parte di quella celebrità agli af-

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L’anno del Signorelliun tributo al suo Giudizio Universale

Testo di Valerio De Amicis Foto di Sandro Vannini

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Angeli

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freschi di Orvieto (Il Giudizio Universale), anche se la sua precedente attività è ricca di passaggi importanti, come gli affreschi nella cappella Sistina (Testamento e Morte di Mosè) e il grande ciclo con le Storie di san Benedetto nella abbazia di Monte Oliveto Maggiore (Siena).Tra gli altri suoi capolavori, da non dimenticare, sono la Sacra Famiglia agli Uffizi, la Natività alla National Gallery di Londra e l’Adorazione dei Magi al Louvre.

Il Giudizio Universale di OrvietoEra il 1504 quando il pittore di Cortona Luca Signorelli, quasi sessantenne, concluse la decorazione della cap-pella “Nova”, ultima aggiunta alla ricca cattedrale orvie-tana, straordinaria macchina architettonica trecentesca che domina lo sperone di tufo su cui si adagia la città di Orvieto. A chiamare l’artista di Cortona, nel 1499, dopo lunghe trattative con il Perugino, furono i cittadini emi-nenti, gli amministratori dell’Opera del duomo e quelli del Comune, decisi a colmare il vuoto lasciato da Fra’ Giovanni da Fiesole, il Beato Angelico, che cinquant’anni prima aveva realizzato solo due vele della volta. Così per 575 ducati, insieme a mosto e grano, il Signorelli portò a compimento in quattro anni il suo capolavoro, dando forma al racconto biblico più terribile, quello cioè che dalle storie dell’Anticristo giunge al Giudizio Universale attraverso la fine del mondo e la resurrezione dei corpi. Unire fede e ragione, teologia e filosofia, questo l’obiet-tivo culturale del ciclo, ma la pittura di Signorelli parla prima ai sensi e alle emozioni, coinvolge gli spettatori con il serrato montaggio delle sequenze narrative, im-paginando il racconto con sensibilità teatrale e spiccato gusto per la trovata spettacolare che trascina lo spetta-

tore in una avvincente spirale lungo la quale scorrono immagini terribili e dolci, scene drammatiche e soavi. Il film dell’apocalisse ha inizio proprio con la venuta dell’Anticristo, che sopra un piedistallo viene ispirato dal demonio per sedurre, con una fallace predicazione, una folla radunata ai suoi piedi dove sono raffigurati perso-naggi illustri di ogni tempo, tra cui spicca anche il pro-filo inconfondibile di Dante Alighieri. Poi, seguendo una rotazione antioraria, sopra l’arco d’ingresso, si dipana la cronaca della fine del mondo, presentata da due guide d’eccezione: il profeta Davide e la sibilla Eritrea. La pre-dicazione biblica e quella pagana si avverano. Dal cielo gli angeli saettano con lingue di fuoco l’intero genere umano che cerca inutilmente scampo, fino a dare l’im-pressione di uscire dagli affreschi per gettarsi, con scorci da vertigine, all’interno dello spazio della cappella. Ca-lato il silenzio l’occhio cerca subito la scena della resur-rezione, dove due angeli trombettieri, in un splendente cielo dorato, annunciano l’avvento di una nuova vita. Lo spettacolo non è meno sconvolgente dei precedenti. La carne, come un inno alla bellezza, torna a rivivere ricon-giungendosi con la propria anima. L’immagine è di quel-le che non abbandonano facilmente la memoria, perché i corpi, dalla muscolatura perfetta e potente, non esco-no dalle tombe, ma emergono a fatica dal suolo, ancora scheletri o non completamente formati, fino a ritrovarsi abbracciati o in contemplazione. A seguire, nella volta sopra l’altare, ecco finalmente impresso il momento del Giudizio Universale messo in atto dal ritorno di Cristo seduto sulle nubi, quello appunto del beato Angelico, che rivolge il suo sguardo “compassionevole” verso co-loro che si perderanno. Sulle pareti laterali, si spalancano

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Inferno

Finimondo

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infatti, fronteggiandosi, i due mon-di ultraterreni, inferno e paradiso, contrassegnati dai loro contrappo-sti, caos e disperazione da una par-te, armonia ed estasi dall’altra. E se nella bolgia infernale del Signorelli, la più suggestiva e rappresentativa nella storia dell’arte, diavoli rabbiosi si avventano sui dannati per scara-ventarli, dopo terribili tormenti, in una fornace ardente da cui escono fiamme e fumo, nel paradiso inve-ce angeli gettano petali di fiori sui beati che, in un atmosfera di musi-che e profumi, sembrano sollevar-si come in una danza, tra sublimi effusioni di amore, mentre, prima dell’incontro con Dio, si trovano ad essere dolcemente incoronati da quella sapienza divina che seppe guidarli in vita verso la gloria cele-ste. Dopo Leonardo, pare che anche Michelangelo abbia sostato a lungo davanti a questi straordinari affre-schi prima di dedicarsi al Giudizio Universale nella cappella Sistina, al punto che lo stesso Vasari ricorda come “alcune cose” della grandiosa opera signorelliana “furono da lui gentilmente tolte in parte dall’in-venzione di Luca”, dalla eccezio-nale fantasia di un grande artista che ebbe solo la sfortuna di trovare nella sua strada un simile genio il cui capolavoro, ebbe a dire lo sto-rico orvietano Luigi Fumi, “a torto e troppo in fretta offuscò la fama di quello del Signorelli”.

“Mirabilia, i luoghi dell’Apocalis-se”A rendere tutto più coinvolgente è l’esperienza della società “Mirabilia” che ha saputo creare, in questi anni, una modalità inedita di valorizzare e promuovere ad Orvieto il ciclo dell’A-pocalisse. Il prodotto si caratterizza per la presentazione del significato teologico e filosofico dell’opera del Signorelli (la trattazione più com-pleta e rigorosa della dottrina esca-tologica cristiana e dell’Umanesimo mai realizzata nella storia dell’ar-te) e comprende la speciale visita guidata e la pubblicazione-guida “Mirabilia, i luoghi dell’Apocalisse” corredata dallo splendido servizio fotografico di Sandro Vannini (più di 150 foto ad alta definizione), de-finite nel XII Rapporto del Turismo Italiano-2003 e nel XVIII Rapporto Italiano dell’Eurispes-2006 come un modo totalmente innovativo, sia nei contenuti sia nelle modalità, di co-municare e illustrare le grandi opere

d’arte d’ispirazione religiosa. Diver-samente dalla fruizione tradiziona-le, in “Mirabilia” il visitatore non si trova in un museo, ma viene guidato “dentro” l’opera stessa per cogliere attraverso la suggestione delle im-magini tutta l’originalità, la bellezza e, diremo, l’attualità di uno dei più grandi capolavori del Rinascimento italiano, dove il pubblico è aiutato a diventare un contemplante, cioè a fare un’esperienza personale e tota-le delle immagini di Luca Signorelli, trasformandosi da semplice spetta-tore a co-protagonista delle gran-diose scene apocalittiche (Marco Guzzi, filosofo e saggista, membro ordinario dell’Accademia Pontificia per i beni culturali e le lettere). Per l’anno 2012 è prevista, inoltre, la ri-apertura della mostra multimediale “Mirabilia”, una spettacolare “ante-prima” del capolavoro del Signorel-li ricca di contenuti emozionali ed evocativi dove in un coinvolgente percorso tra arte, storia, teologia e

filosofia verrà illustrato ai turisti il significato dell’apocalisse mediante la visione ravvicinata di “particolari” fotografici dell’opera, altrimenti non visibili per la distanza, la mancanza di luce e la scomodità d’osservazio-ne, sull’esempio di quanto è stato già realizzato a Roma per la cappel-la Sistina con il progetto “la Parola dipinta” (Sole 24 ore), dove sono stati esposti al pubblico dei pannelli fotografici corredati da testi biblici contenenti le immagini del Giudizio Universale di Michelangelo da os-servare prima di entrare a visitare la cappella stessa. •

Comune di Orvieto: www.comune.orvieto.tr.itOpera del duomo: www.museo-modo.it www.opsm.itSoc. Mirabilia Orvieto: www.mira-biliaonline.com

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Anticristo, particolare

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ta Europa, come ad esempio quella di Nymphenburg (Monaco), la più prospera delle manifatture bavaresi del XVIII secolo. Essa, che divenne subito famosa per la produzione di statuette e altri ornamenti, nacque nel 1747 per volontà del principe Eletto Massimiliano Giuseppe III, del-la casata dei Wittelsbach. Nel 1753 la manifattura arruolò J.J. Ringler, che aveva lavorato a stretto contatto con Bottger, perché anch’egli possedeva l’arcano e sapeva costruire il forno: la prima porcellana venne prodotta nel 1754.

Porcellana di BavieraAll’inizio la fabbrica diede molta importanza alla produzione di sta-tuette, poi col viennese Joseph Pon-hauser venne realizzato un servizio da tavola di centinaia di pezzi, men-tre le rifiniture vennero affidate alle

mani esperte di Franz Anton Fustelli, assunto dalla manifattura nel 1754 come creatore di figurine. Per Nym-phenburg, avere un artista come Fu-stelli era di grande prestigio: per le sue capacità artistiche poteva essere paragonato al famoso Kaendler di Meissen. Vi rimase purtroppo per un tempo troppo breve (morì nell’aprile 1763), durante il quale modellò più di cento statuette tra dame e cava-lieri, figure della Commedia dell’Arte, cinesi dai volti misteriosi, che sono diventati celebri in tutto il mondo. I servizi da tavola nel primo periodo della manifattura richiamano lo stile di Meissen con bordi intrecciati, det-tagli in vecchio Brandestein, mentre la decorazione offre scene mitolo-giche o soggetti di caccia: troviamo inoltre anche sui bordi di tutti i piatti di Nymphenburg motivi rocaille po-licromi. I prezzi? Davvero proibitivi.

Le porcellane di FedericoIl 1752 è l’anno di nascita della Mani-fattura di porcellana di Berlino, cono-sciuta anche come KPM (Koenigliche Porzellan Manufaktur) che, per tradi-zione e qualità dei lavori, può essere collocata fra le primissime fabbriche tedesche, subito a ridosso della leg-gendaria Meissen. La nobiltà le viene dalla nascita, in quanto fu fortemen-te voluta da Federico II il Grande, cui non mancavano le ragioni per finanziare la Manifattura. Lo spinge-vano innanzitutto la passione e l’in-teresse che aveva dimostrato fin da ragazzo verso le arti decorative; poi il prestigio e il potere che derivava-no dal poter produrre direttamente la porcellana. Anche perché la Prus-sia, a differenza della Sassonia o di altri principati, non aveva ancora una Manifattura di porcellana e a quell’e-poca disporre in prima persona di

Testo diAnna Maria Arnesano

Non si può parlare di porcel-lana senza citare Meissen e Bottger. Fu proprio a Meis-sen, in Sassonia, nei primi anni del Settecento che av-

venne infatti, dopo innumerevoli tentati-vi andati a vuoto, la scoperta più impor-tante, cioè la miscelazione delle materie prime. Bottger invece fu il personaggio chiave in questa ricerca, perché fu lui, dopo anni e anni di esperimenti, a sco-prire l’arcano, vale a dire il segreto della

fabbricazione della porcellana autentica, quella dura, la porcellana che solo i ci-nesi sapevano produrre e per la quale i ricchi collezionisti dell’epoca spendeva-no delle fortune. Benché da Meissen si tentasse di proteggere il segreto met-tendo anche sottochiave Bottger, alcuni dipendenti della manifattura, per trasfor-mare la loro conoscenza in fama e fortu-na, vendettero il segreto praticamente in tutta la Germania e anche altrove. Nac-quero così fabbriche di porcellana in tut-

Dagli alambicchi europei l’alchimia misteriosa della

Mise en place con porcellane della Manifattura Meissen Piatto di Natale da collezione della Royal Copenhagen

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Figurina classica in porcellana Royal Copenhagen

Gruppo di statuine Royal Copenhagen

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tutto il mondo i piatti di Natale della Royal Copenaghen, quelli blu, la cui produzione risale al 1908: da allora ininterrottamente ogni anno viene prodotto un piatto con impressa la relativa data, realizzati per decora-re ed arredare la casa, ma possono essere anche utilizzati, specialmente nel periodo natalizio, per festeggiare a tavola.

Doccia, l’arte italianaTra le porcellane italiane che hanno segnato un’epoca possiamo annove-rare quelle della Richard-Ginori. La storia di questa azienda risale al 1735 quando il marchese Carlo Ginori, im-prenditore ed amante della ricerca, comincia a lavorare la porcellana nei locali della sua villa a Doccia, vicino a Firenze, con l’intento di dare ini-zio alla produzione in Toscana. Non era un’impresa facile, ma lui ci riuscì. Dopo il marchese Carlo, ben cinque generazioni di Ginori si succedettero alla guida di questa attività che andò acquistando considerevole prestigio e notorietà, fino al 1896 anno in cui avvenne la fusione con l’azienda mi-lanese Richard capace di trasforma-re l’antica manifattura in una realtà industriale di livello internazionale. Nel 1949 viene inaugurato a Sesto Fiorentino, sempre a pochi chilome-tri da Firenze, un nuovo stabilimento accanto al quale sorge l’attuale Mu-seo.

Francesi di LimogesRisale al primo marzo del 1771 la fondazione della società per la fab-bricazione della porcellana costituita tra Massiè, proprietario della mani-fattura di maioliche di Limoges, i fra-telli Grellet, finanziatori, e Fourneyrat, un giovane chimico venuto da Parigi. La fabbrica di Massié-Grellet, che produceva porcellane a pasta dura, ottenne la protezione del Conte D’Artois, fratello del re. Fu proprio in onore del principe che vennero scel-te come marca le iniziali C.D. (rimaste in uso fino alla fine del secolo), incise nella pasta in lettere maiuscole o in corsivo. Gli oggetti prodotti, decorati con deliziosi mazzi di fiori naturalisti-ci stile a la rose de Limoges, vengono generalmente definite come porcel-lane del Conte d’Artois, ma in verità, dato che i proprietari avevano fatto pessimi affari, si trovarono costretti a vendere al re, nel 1784, la loro fabbri-ca, la quale da quel momento diven-ne Manufacture Royale (Manifattura Reale) come quella di Sèvres. Tutta-

via nel 1789, per una serie di fatti, ad esempio la Rivoluzione in atto e la sostituzione di Grellet con Francois Alluaud, la fabbrica non sopravvis-se. Solo nell’Ottocento, quando la produzione di porcellane di Limoges passò in gestione ad imprese priva-te, tornò a rifiorire. Successivamente con l’arrivo dall’America di David Ha-viland (1842), si aprirono nuovi mer-cati oltremare e, nello stesso perio-do, con l’arrivo di Pouyat, originario di Limoges (le cui porcellane bianche ebbero successo nell’Esposizione del 1855), la manifattura della porcella-na di Limoges raggiunse il massimo

splendore e una fama internazionale che dura ancora oggi.

Le porcellane di SèvresCorreva l’anno 1756 quando, per vo-lere di Luigi XV, nacque a Sèvres una manifattura di porcellana a pasta te-nera, nella quale in seguito, grazie anche all’interessamento di Madame Pompadour, venne trasferita la fab-brica di Vincennes. Sèvres divenne dunque la Manifattura Reale dove vennero creati pezzi di notevole pre-gio, tanto da superare di gran lunga la celeberrima Meissen. La porcellana di Sèvres intanto, tra un editto e l’al-

Dagli alambicchi europei l’alchimia misteriosa della PORCELLANA

una fabbrica manifatturiera rappre-sentava per re, principi e vescovi, un simbolo di stile, tanto da diventare un’attività molto diffusa, quasi un passatempo, che soltanto più tar-di divenne autentico interesse per questo materiale, così affascinante e misterioso. Per quanto riguarda Fe-derico, anche in questo volle marca-re la rottura con il gusto del tempo e, a differenza di suo padre il quale preferiva uno stile tradizionale per la decorazione degli interni, egli amava il nuovo stile rococò, tanto da fare decorare in tal senso il suo castello di Rheinsberg. Quando Federico II di Prussia succedette a suo padre, nel 1740, era proprio il momento in cui si registrava una grande richiesta di porcellane, ed era quindi un’occa-sione propizia per dar vita ad una fabbrica. Oggi come allora, la KPM, produce porcellana realizzata con il 50% di caolino originario della Ger-mania, il 25% di feldspato e il 25% di quarzo, entrambi provenienti dai paesi scandinavi.

Porcellane danesiIl primo tentativo concretamente riuscito di fabbricare porcellana a Copenaghen fu quello di un fran-cese, Louis Antoine Fournier, uomo competente ed esperto perché ave-va lavorato come modellatore nella fabbrica di Vincennes in Francia nel 1747-49 e a Chantilly dopo il 1752. Nel 1759, dopo una sosta a Sèvres, accettò l’invito di recarsi a Copena-ghen dove iniziò a sperimentare i materiali locali sotto il controllo dello scultore di corte Stanley e in seguito dal suo successore J. Wiedewelt. Due anni dopo vennero assunti per assi-stere Fournier altri tre francesi, un tornitore e due modellatori. Il loro arrivo permise a Fournier di recarsi a Bornholm, dove c’era la miniera di caolino, per continuare gli esperi-menti. I testi specializzati nel settore riportano che le prime vere porcel-lane (per intenderci quelle a pasta dura) realizzate in Danimarca furono il risultato delle fatiche del chimico F.H. Muller, una delle due perso-ne a cui Fournier aveva trasmesso i segreti della porcellana. Muller adottò come marchio di identifica-zione della fabbrica nascente tre li-nee blu ondulate, le quali stanno a simboleggiare i tre corsi d’acqua che uniscono il regno di Danimarca al resto d’Europa e al mondo: lo stes-so marchio continua ad essere usato ancora oggi. Famosi e conosciuti in

Vaso con coperchio “chinoiserie” stile Höroldt produzio-ne limitata 10 pezzi, 100.000,00 Euro Manifattura Meissen

Donna con ventaglio, di Paul Scheurich 1930, produzione limitata 10 pezzi, 10.000,00 EuroManifattura Meissen

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tro del re (che vietava la fabbricazione, la decorazione, la doratura e la vendita di porcellane alle altre mani-fatture), prendeva forma e colore e i pezzi prodotti di-vennero sempre più sontuosi. Furono concepiti servizi da tavola, oggetti ornamentali e ninnoli di tale bellezza che il re li donava ad altri sovrani. Nel 1757 fu creato lo sfondo rose Pompadour, e gli sfondi blue de roi ven-nero abbelliti con fregi a occhio di pernice e cailloutès. Tuttavia nonostante le fabbriche francesi conoscessero da molto tempo il segreto della porcellana dura, la sua realizzazione era inattuabile in quanto si credeva che nel Paese non ci fossero i materiali adatti. Non solo. La porcellana a pasta tenera inoltre non richiedeva un urgente passaggio alla produzione di pasta dura, mol-to più costosa, in quanto vantava molteplici caratte-ristiche: era morbida e duttile, bella e preziosa, facile da decorare e soprattutto più economica. Solo dopo aver intrapreso altre ricerche nel 1769 vennero scoper-ti giacimenti di caolino a St Yrieix e allora si cominciò la lavorazione della porcellana dura, che inizialmente era bianca e opaca perché le vernici non aderivano bene alla superficie e quindi si dovettero modificare, così come i colori che non penetravano a sufficienza nella vernice. Modellatori del calibro di Duplessis, Falconet, Bachelier, Bolory, La Rue e Le Riche, come pure molti pittori autori delle bellissime decorazioni che vanno da Le Quay a Dodin, da Asselin a Aubert, contribuirono alla nascita di pezzi prestigiosi e molto più grandi di quelli realizzati con la porcellana tenera. Crearono così casse di orologi a pendolo con montatura in similoro, vasi alti un metro e oggetti sempre più fitti di deco-razioni, tanto da non lasciare intravedere un minimo di sfondo. Benché la produzione della porcellana dura fosse diventata primaria, la fabbricazione di quella te-nera continuò ancora.•

Dagli alambicchi europei l’alchimia misteriosa della PORCELLANA

in questa pagina foto del Museo Richard-Ginori della Manifattura di Doccia, Sesto Fiorentino

Vasi da pot-pourri, 1810 circaporcellana dipinta in policromia, h 28,5 cm

su disegno di Giovanni Gariboldi, Vaso a conchiglia con decoro in rilievo a soggetti marini, 1930, porcellana, h 13,5 cm

Piatto di porcellana decorata di Limogesdi gusto romantico, raffigura figure femminili sognanti e intorno una bordura con rilievi in oro zecchino

Michel Guy chadelaud Gallery, tavolo XIX secolo con piano in porcellana della Manifattura Reale di Sèvres

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anche il più giovane talento tra gli emergenti designer di ac-cessori. Da cosa trae principalmente ispirazione? Dall’eleganza e dal portamento di quella splendida creatura che è il Pavone, dalla sua maestosità, da quell’aura misteriosa, dall’incantevole armonia di colori contrastanti che esplodono in un immenso ventaglio di sfumature vivaci e brillanti, una bellezza senza fine e senza tempo. Alston dice “La bellezza non può essere definita da alcuna logica umana, la bellezza è solo negli occhi di chi guarda”. Di grande sensibilità e da sempre amante degli ani-mali, trae spesso ispirazione da questo mondo che sente a lui vicino. E’ il 2005 che segna comunque la sua svolta, gli viene in-

fatti affidata, in collaborazione con la designer Anne Avantie, la realizzazione della corona e dello scettro per l’abito che avrebbe indossato la vincitrice del concorso di Miss Indonesia: oltre al trionfo della bellissima Nadine Chandrawinata incoronata Miss, sarà un enorme trionfo anche per lui, decreterà il suo successo e il vero esordio in quell’affascinante ed intrigante mondo da cui Alston è stato sempre irresistibilmente attratto sin da bam-bino, come unico strumento di espressione del suo estro. Pizzi vintage o francesi che si intrecciano e si arricchiscono delica-tamente di pietre colorate, perle, pizzi impreziositi da cristalli Swarovsky combinati con oro, argento, ottone ma anche con

Testo diAlessandra Amati

i virtuosismi di un giovane stilista

Bizzarro, eclettico, stravagante ma al tempo stes-so classico e riservato: è davvero difficile definire Alston Stephanus, giovanissimo stilista ed artista che a soli 24 anni, grazie alla sua spiccata per-sonalità è riuscito ad imporsi nel panorama del-

la moda nazionale ed ora anche in quello internazionale con le sue strabilianti creazioni di favolosi gioielli, e non solo…Uno straordinario talento, precursore di tempi e di mode che ha saputo combinare stili e tendenze in un’ar-monia di forme e colori. Attratto dal vintage ma proteso verso il contemporaneo con l’unico vero obiettivo, dice, “di celebrare nelle sue creazioni l’unicità nella sua essenza più profonda” come è nella sua personale visione delle cose, perché ognuna si possa sentire unica e diversa, senza mai omologarsi, ma rimanendo sempre se stessa. Tutte le sue creazioni sono infatti pezzi unici, vere e proprie opere d’arte che diventano spesso decorazioni preziose di fascinosi abi-ti. Nato a Singapore ma vissuto tra Giacarta e Londra dove attualmente risiede, Alston è riuscito a combinare la gran-dezza del barocco europeo con la delicatezza del tocco del Keraton giavanese, a fondere, miscelare, legare l’occidente con l’oriente e ad esprimerlo nell’esclusività, nella singola-rità dei suoi gioielli. Da prima si avvicina al mondo della moda come testimonial di grandi firme, decide poi dopo intensi studi, ancora giovanissimo di disegnare personal-mente gioielli di lusso e di esordire con la sua incredibile originalità creando una propria collezione: nasce così nel 2005 la Alston Stephanus Accessories. Il Fashion Show in Indonesia sarà il traguardo successivo che lo incoronerà

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vere piume di pavone e di struzzo, sono questi gli elementi che caratterizzano le sue creazioni. L’antico che si perde e si confonde nel nuovo senza mai abbando-nare l’armonia delle forme, è l’eleganza che s’impone sovrana, è il particolare che

seduce, il trionfo della femminilità che si libera del convenzionale per consentire l’esaltazione della sensualità che è insita in ogni donna. Ma Alston Stephanus non è solo uno straordinario stilista. Appassionato di

Burlesque, ispirato dalla sua icona e splendida musa Dita Van Tees, Alston si avvicina giovanissimo anche a questa forma di spettacolo che lo incuriosisce e che decide presto di reinterpretare. Gra-zie alla sua intuizione libera il Burlesque

Alston Stephanus - i virtuosismi di un giovane stilista

da tutto ciò che è “volgare” e “popolare”, spoglia il Burlesque della sua “banalità” e “semplicità” tra-sformandolo in uno spettacolo raffinato, di gran classe, di estremo gusto. Prende le distanze dal cabaret, e crea uno spettacolo dove il lusso, il bel-lo ed il prezioso diventano i tre aspetti dominanti. Di enorme successo i suoi eventi-rappresentazioni di Burlesque organizzate all’ombra di magnifiche location, tra queste l’ultima dello scorso Ottobre nel favoloso Rivoli Ballroom di Londra. I prossimi progetti lo vedono impegnato nella realizzazione di un documentario sul Burlesque e nella parteci-pazione al Burlesque Festival di Amsterdam.Alston Stephanus è semplicemente diverso, è un “sognatore”.•

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Gaya Island Resort apre in BorneoKaleidoscope

L’Unicità dell’ Hotel Unique

di Josée Gontier

Che San Paolo sia il fulcro del design contempora-neo brasiliano non ci sono dubbi. Basta girare la grande metropoli per accorgersene, ed è spesso nel settore della ricettività che l’avanguardia si spinge ai livelli più audaci.

Come nell’Hotel Unique dalla forma inconfondibile e pro-vocante. Progettato dall’architetto Ruy Ohtake, degno erede del grande Oscar Niemeyer, la struttura sembra lo scafo di una barca che si poggia su due grandi piloni di cemento. E come sempre, quando di grande design si tratta, la forma originale è molto di più di un gioco eccentrico. Perché l’i-deazione di Ohtake permette al maggior numero di camere di godere delle viste migliori sulla citta. Infatti, mentre sul secondo piano ci sono solo quattro camere, il piano più alto ne conta trenta.I riferimenti nautici si ripetono nelle finestre circolari a oblò,

e nell’uso di legno come nella pavimentazione del grande ingresso dove, al posto del solito banco reception, gli ospiti si siedono su due siede davanti a una piccola scrivania per fare il check-in. Ricorrente l’uso del legno anche nelle ca-mere, dove il parquet chiaro fa gioco, specialmente in quelle al lati dell’edificio dove il pavimento segue inesorabilmente le curve che, all’esterno formano la prua e la poppa della “nave”. Allo stesso tempo eleganti e sobri gli interni voluti dal desi-gner Joao Armentano che è riuscito a dotare i grandi spazi di mobilio e pezzi di design armoniosi ed intriganti. Come il bar, un grande ponte in legno intorno alla piscina - che di notte si illumina di rosso fuoco - sulla terrazza sul tetto dalla quale lo sguardo abbraccia lo skyline illuminato della città. E nei bagni dotati di vasche trasparenti e da porte scorrevoli che servono per separarli dalla zona notte. pmf

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Kaleidoscope

anno2 n°1 - gennaio 2012

E’ prevista per aprile 2012 l’a-pertura di una nuova struttura YTL Hotels, Gaya Island Resort, nel Borneo, che si aggiunge alla collezione di resort di lusso del-

la catena in tutta l’Asia e l’Europa raffor-zando la sua reputazione di primo grup-po nell’ospitalità della Malesia. Appena al largo della costa di Kota Kinabalu e situato nelle acque di Pulau Gaya, l’isola più grande del Parco Marino di Tunku Abdul Rahman, il Gaya Island Resort è circondato da incontaminate spiagge di sabbia bianca, da barriere coralline e da mangrovie e si affaccia sull’iconico Monte Kinabalu. Fedele alla filosofia di YTL Hotels di integrare la cultura locale e il suo ambiente naturale, il resort in-corporerà elementi di architettura del Sabahan e di design contemporaneo completati da strutture moderne e da risorse WiFi. Sarà composto da 124 spa-ziose ville indipendenti sulla collina o di fronte al mare con una vista spettacola-re sul maestoso Monte Kinabalu. Questo

lussuoso resort per famiglie immerso nella foresta pluviale, offre ai suoi ospiti una miriade di attività, dal trekking nella giungla attraverso il parco marino loca-le, dove si potrà godere della natura e del paesaggio tropicale, alla possibilità di visitare la terraferma, per sperimenta-re la colorita cultura del Sabah. Insom-ma proposte in grado di soddisfare gli appassionati dell’avventura, della natura e del mare. Le famiglie avranno la pos-sibilità di scegliere tra una vasta gamma di iniziative per i bambini dai percorsi e sentieri nella jungla, escursioni marine, costruzioni di castelli di sabbia, dise-gni, racconti di storie del Borneo sino alle attività acquatiche con particolare attenzione per l’impegno e l’apprendi-mento da parte del nostro qualificato personale naturalista, che farà davvero divertire i bambini in maniera istrutti-va. Per chi preferisce un’esperienza più indulgente ed olistica, il premiato Spa Village di YTL Hotels offrirà trattamen-ti, terapie e pratiche di guarigione tipici

della cultura del Borneo che saranno re-alizzati unicamente all’interno di un am-biente tra le mangrovie con sei sale con terrazze all’aperto e un spazio riservato allo yoga.Il Gaya Island Resort sarà au-tosufficiente con tre diverse opzioni per la ristorazione- il Feast Village, che offre una cucina internazionale tutti i giorni; il Fisherman’s Cove, aperto solo per cena, ed il più informale Pool Bar Lounge, si-tuato ai bordi della piscina di 50 metri, aperto durante il giorno con una terraz-za sovrastante con vista sulla piscina e sul paesaggio marino. Il resort sarà un luogo ideale per piccole riunioni e me-eting di affari, per coloro che sono alla ricerca di un ambiente naturale lontano dalle grandi città. Gaya Island Resort è facilmente raggiungibile dall’aeroporto di Kota Kinabalu, e dista solo 30 minuti fra macchina e traghetto privato dal Su-tera Harbour Marina di Sabah.

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Intervista all’avv. Emanuela Perazzoli - Presidente di Melegattia cura di Teresa Carrubba

Melegatti dolci e impegno sociale

Melegatti, un nome emblematico per la pasticceria italiana. Qual è la sua storia?L’Azienda è legata al capostipite Domenico Melegatti, pasticcere e droghiere della seconda metà dell’Ottocento. Una persona geniale artefice di varie invenzioni, tra cui i dadi da brodo e il Pandoro, dolce al quale dedicò molta passione. Un prodotto sano senza alcuna spinta chimica che ebbe da subito un gran successo. Del Pandoro, Melegatti inventò la ricetta, la forma e il nome e ne brevettò tutte e tre le carat-teristiche il 14 ottobre 1894. Da quel momento il suo laboratorio di Corso Porta Borsari a Verona, cuore della città antica, ebbe una grande risonanza proprio grazie a quel dolce strepitoso. Sul giornale locale, che già da allora si chiamava L’Arena, fu pubblicato l’annuncio di un concor-so tra tutti i pasticceri di Verona e provincia per chi sarebbe riuscito ad imitare il Pandoro Melegatti, con un premio di mille lire. Nessun pasticcere riuscì nell’impresa e Do-menico Melegatti fu incoronato “Re del Pandoro” dalla città di Verona. Finché durò il brevetto, quindi per 50 anni, Melegatti ebbe l’esclusiva della fabbricazione del Pandoro, ma alla sua scadenza, molti ex dipendenti della fabbrica si misero in proprio ed iniziarono a produrre il pandoro con la ricetta originale. Tale ricetta, ideata da Domenico Melegatti fu riconosciuta persino dal disciplinare secondo il decreto 22 luglio 2005 come riferimento obbligatorio cui attenersi per attribuire ad un dolce la denominazione di Pandoro. Una tradizione che comunque continua. Sono 117 anni che non per via

diretta, perché Domenico Melegatti è morto senza lasciare eredi diretti, ma per vie collaterali, l’Azienda appartie-ne alla stessa famiglia.

Pur mantenendo questa bellissi-ma tradizione, la Melegatti si è evolutaCertamente. Intanto lo stesso Pando-ro è stato declinato in varie versioni andando incontro alle richieste del mercato, poi siamo passati al panettone per Natale e alla colomba per la Pasqua. Però Melegatti, che è rimasta l’unica azienda che produce dolci lievitati da forno esclusiva-mente per le ricorrenze, ha iniziato anche a realizzare dei prodotti che esulano dagli eventi canonici. Torte per occasioni diverse, per esempio la TortAmore per San Valentino, unica torta a forma di cuore prodotta indu-strialmente. Poi recentemente abbia-mo acquistato un’azienda a Mariano Comense in provincia di Como, che fabbrica croissant, brioches ed altro, per aggiungere nel nostro catalogo

anche un prodotto “continuativo”, da consumare tutti i giorni.

Al di là della produzione dolcia-ria la Melegatti promuove degli eventi o si occupa del sociale?Abbiamo istituito la -Melegatti Golf Cup- è già il secondo anno. E’ un torneo di golf sponsorizzato da Melegatti, suddiviso in 12 tappe in tutta Italia nel corso dell’anno. Per quanto riguarda l’impegno sociale, siamo legati come benefattori all’ Istituto Don Calabria di Verona e alla UILDM-Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare. Quest’anno abbiamo sostenuto una nuova Onlus, la Fondazione Rosangela D’Ambrosio che ci ha chiesto di produrre per loro dei pandori, fornendoci un astuccio speciale con l’immagine di bambini indiani, per una vendita di benefi-cienza a favore della costruzione di strutture essenziali per certe zone molto disagiate dell’India, da cui ab-biamo già avuto dei riscontri positivi.

Un grande impegno nel sociale, dunqueCerchiamo di fare qualcosa di con-creto per la società in vari modi. Per esempio, negli ultimi 3 anni siamo andati controcorrente operando molte assunzioni riempiendo così molti ruoli vacanti. Inoltre, nella fabbrica che abbiamo acquistato in provincia di Como la Melegatti ha riassunto tutti gli operai che erano in cassa integrazione. Insomma, abbiamo cercato di cavalcare la crisi per superarla.•

Via Monte Carega, 23San Giovanni lupatoto - VRwww.melegatti.it

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Per l’ultimo atto della loro carriera, salvo improbabili (ma possibili) ripensamenti, I R.E.M. hanno scelto un titolo wertmulleriano. La band di Atlanta ha dichiara-

to al mondo il proprio fine vita, dopo trent’anni di onoratis-sima carriera. Succede anche nei migliori matrimoni, sei lustri sfiancherebbero chiunque. Ergo, questa raccolta diventa il te-stamento di Michael Stipe e soci, il proprio lascito ai posteri. I trentasette brani da antologia di questa compilation, che copro-no un percorso musicale composito e lineare, hanno segnato una resistenza della forma-canzone all’aggressione del conglomerato

di suoni, spesso definiti “nuovo rock”, pur essendo semplici rime-scolamenti di plagi sonori, di questi ultimi venti anni. Un’opposizio-ne costruttiva, come si dice in politichese, alle pacchianerie alla Lady Gaga. Sono una band “sobria” i R.E.M., per usare un termine rispolve-rato di recente. La tracklist include tutto il necessario perché il testa-mento sia esaustivo, e perché chi non conosce possa conoscere. I tre inediti , “We all go back to where we belong” (titolo che parla da sé), “A month of saturdays” e “Hallelujah”, sono dei piccoli divertissment da

zona Cesarini. Poi, tutti, aspettiamo qualche rewind. In fondo, per Stipe e compagni, l’età della pensione è lontana, almeno 67 anni. •

Ha solo 21 anni, la biondissima e inglesissima Laura Marling (Eversley, Hampshire), e ha già sfornato tre album. Peraltro tutti di livello. Enfant prodige. In

terra d’Albione è già una diva, e non è neanche uscita da Amici o Xfactor, che in Italia costituiscono l’unico passapor-to valido per entrare a far parte deila nazione degli illustri conosciuti. Chitarra e voce, anche un po’ ruvida, qualche strumento di contorno a dosaggi omeopatici, pochi orpel-li e nessuna concessione all’easy listening: questa è Lau-ra Marling. D’altronde, una che fa sua la lezione di Joni Mitchell e Suzanne Vega, poco ha a che fare con la mu-sica da gettare dopo l’uso. La ragazza è talentuosa (non a caso ha vinto il Brit Award 2011 come “miglior voce femminile britannica”), e qualche smussatura agli spigoli potrà farle conquistare anche il grosso pubblico, quello che va educato con le istruzioni per l’uso. Basta ascol-tare “Don’t ask me why” per capire che è proprio Joni Mitchell la sua musa di riferimento, e questo rende la Marling ostica ai poveri di spirito e di giudizio. D’altron-

de, diceva qualcuno, le cose belle sono solo per pochi. Ma il kitsch come modello di riferimento per le masse sta cominciando a stan-care, quindi qualche speranza per la sopravvivenza dell’estetica c’è ancora. Laura Marling sta lì ad alimentarla.•

“Cinquanta parole per la neve”, titolo stralunato e misterioso, che evoca “Il senso di Smilla per la neve”, il bel romanzo di Peter Hoeg, tradotto per il cinema da Billie August. Perché

in entrambi, libro e disco, c’è la fascinazione per il candore e la purezza silenziosa di quel manto bianco che segna le stagioni, protegge la terra e il seminato, e ammanta i luoghi di purez-za. Salvo lasciare delle tracce che solo in pochi (come Smilla e la Bush) sanno leggere. La regina delle cime tempestose tor-na dunque con un disco invernale, ma fortunatamente non natalizio. Solo sette brani, ma di una lunghezza inusuale. La sua voce, sempre eterea e trascendente, le linee di piano, la batteria jazzata dell’americano Steve Gadd (Clapton, Pino Da-niele, Paula Simon, Mccartney), l’elettronica a spruzzi, il figlio tredicenne Bertie a cantare, sir Elton John che ci mette anche la sua voce, l’attore Stephen Frey che enumera 50 sinonimi di “neve”, soprani (Michael Wood) e contro-soprani (Stefan Ro-berts), fiabe, boleri, emozioni vittoriane, incontri con lo Yeti, laghi californiani (Lake Tahoe): tutto questo sta dentro le “50 parole per la neve”. Un mondo fantastico e misterioso che si immerge nel reale, ma con la struttura narrativa dei fratelli Grimm. Per sere d’inverno, davanti al camino, con un buon brandy e un amore vicino.•

Sempre a proposito di lasciti testamentari, anche il nostro buon Fossati ha pensato bene di andare in pensione. Ultimo disco e ultimo tour per il cantautore

genovese, che ha detto stop. Dev’essere un virus contagio-so, visto che in parecchi quest’anno hanno comunicato la volontà di abbandonare le scene. “Dacadancing” è un titolo strano, fa pensare a un ballo sulle rovine dell’umanità, quello che potrebbero fare i sopravvissuti ad un olocausto nucleare. Ma non è così. Questo capitolo di chiusura del libro Fossati è un gran bel capitolo. Riassume in sé la grandezza dell’au-tore e dell’interprete, in grado di volteggiare con leggerezza (da non confondere con la banalità) sul mondo che si sta auto-seppellendo, di inanellare canzoni piene di parole gonfie di si-gnificato. Non c’è da aspettarsi il futuribile da Ivano Fossati. Ma semplicemente che ripeta la sua formula usuale, sempre uguale da quarant’anni eppure sempre diversa. Un classico, insomma, di quelli che non passano mai di moda. Per cui, per tirare le som-me, “Dacadancing” è un gran disco con dentro grandi canzoni, tipo “Settembre”, una delle più belle conclusioni di un amore mai m e s s e in musica. Triste, ma di quella tristezza che avvolge e purifica. Fos- sati si divide fra pubblico e privato, guarda il pubblico (leggi politico) con lo sguardo cinico di chi sa come va il mondo (male) e il privato con l’occhio di chi ha avuto la vita come maestra e sa che non c’è pozzo tanto profondo dal quale non si possa risalire.•

Testi di Marco De Rossi

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MUSICA per viaggiare

R.E.M.Part lies, part heart, part truth, part garbage (WarnerBros)

Laura MarlingA creature I don’t know (Virgin)

Kate Bush50 Words For Snow (Capitol)

Ivano Fossati Decadancing (Capitol)

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anno2 n°1 - gennaio 2012

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Il bel volume illustra ampia-mente quali siano stati i due principali obiettivi posti alla base dell’intervento proget-tuale, realizzato dall’architetto

Crachi, mirato a “restaurare un ec-cellente esempio di architettura co-loniale, evidenziato come “museo di se stesso”, ma al tempo stesso dare vita, con criteri assolutamente innovativi, ad un museo interattivo e multimediale sulla storia e la cul-tura della Libia. Si é trattato infatti di un recupero, restauro e totale rinnovo dell’allestimento, nato dalla “riconversione” di quel Palazzo del Governatore di Tripoli, che era sta-to costruito tra il 1924 e il 1931, su progetto dell’ingegnere Saul Me-raviglia Mantegazza, palazzo che poi sarebbe divenuto “Palazzo del Popolo”, in seguito alla Rivoluzione del 1969. Il volume racconta, attra-verso disegni di dettaglio, immagi-ni storiche, ma anche immagini “di cantiere”, il concept del progetto e

le soluzioni tecniche adottate per dare vita ad un museo dai conte-nuti sia “reali” che “virtuali”. Le sale del museo documentano infatti, affrontando i diversi temi presenti sul territorio, in una panoramica a trecentosessanta gradi sulla Libia, i siti archeologici, l’architettura araba storica e contemporanea, il deserto, le popolazioni, la musica e il diver-timento, la Rivoluzione del 1969, il “Libro Verde” e il “Libro Bianco”, l’in-novazione tecnologica, l’arte tessile, l’arte contemporanea e i progetti futuri. Né manca la presentazione degli eventi legati alla costruzio-ne originaria, sistemata in un lot-to di circa quattro ettari, situato in posizione strategica riguardo allo sviluppo della città moderna verso Ovest. Il libro, attraverso i diversi saggi, illustra tutte le componenti della progettazione di un Museo molto attuale e di facile fruibilità, con metodi tecnologicamente in-novativi. •

Può bastare un mese per imparare a cucinare? Sì, e anche bene, secondo Sara Papa, maestra di cibo, star della tv e scrittrice che

dopo il successo di «Tutta la bontà del pane» continua a svelarci i suoi segreti ai fornelli. Le caratteristiche di questo suo ultimo libro dal titolo ironicamente ambizioso: «Impara a cucinare in un mese» sono la chia-rezza e la semplicità: nel leggere, nello scegliere, nel conservare, nel mescolare, nell’impastare e nel ser-vire. E’ una vera scuola di cucina per tutti, con consigli e ricette, con un approccio senza complessi che permetterà anche a chi sostiene di non saper fare “neppure un uovo al

tegamino” di realizzare, in appena quattro settimane, ricette degne di uno chef stellato: risotti da manuale, saporiti piatti di pasta, pani profu-mati, dolci spettacolari. Non trascu-rare di leggere la parte introduttiva: dà entusiasmo e accantona qualsi-asi timore di flop. L’autrice fornisce, con uno stile asciutto e convincen-te, tutte le indicazioni indispensabili per mettersi ai fornelli, a cominciare dai consigli per mantenere ordine e igiene in cucina, proprio come nei manuali di economia domestica di una volta. Il secondo e non meno fondamentale step è riconoscere la qualità degli alimenti al momento dell’acquisto perché, come dicevano le nonne, la bontà di un piatto di-

pende da quello che metti in pento-la. Nel libro c’è tutto il know how per passare dai «fondamentali» alla per-fezione: si riesce a ottenere il risotto perfetto, mantecato ma con i chic-chi ben sgranati senza ripiegare sul parboiled. Ci sono le spiegazioni per preparare la pasta all’uovo, quella di grano duro e gli impasti per i dol-ci, e non manca l’attenzione per le temperature di cottura. L’autrice in-segna anche a fare in casa alcuni tipi di condimenti, come gli oli e i sali aromatizzati o il dado da brodo sen-za ricorrere alla chimica. La sezione dedicata alle ricette è suddivisa in 4 parti, da realizzare in altrettante settimane: le preparazioni si fanno pian piano più complesse, senza sconfinare in tragiche difficoltà, e alla fine del mese il lettore dai piatti più semplici arriva a realizzare opere di livello. Per ciascuna settimana le proposte sono articolate e spaziano dagli antipasti ai dolci. Tutte le 60 ricette sono accompagnate da foto-grafie che illustrano il risultato finale e, in alcuni casi, i passaggi più com-plessi. Se è vero che «siamo quello che mangiamo», citando il filosofo Feuerbach, Sara Papa, fin dall’in-fanzia in terra calabra ha imparato a scegliere il meglio, a valorizzare i doni della terra e ad elaborarli per-ché diano gusto, piacere e salute. •

A cura di Pier Carlo CrachiIl Nuovo Museo della Libia nel Palazzo del Popolo di Tripoli. Storia di un progetto realizzato

Editore Gangemi

Sara Papa

IMPARA A CUCINARE IN UN MESE

€ 16,90

Collana Sapori e fantasiaGRIBAUDO EDITORE

Testo di Luisa Chiumenti

Testo di Mariella Morosi

anno2 n°1 - gennaio 2012

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Ediciclo e Transboreal, una collaborazione editoriale per una collana davvero innovati-va la “Piccola filosofia di viag-gio”. Un titolo evocativo per

una serie di libri che penetrano dentro lo spirito del viaggio non attraverso la descrizione di luoghi e paesaggi ma seguendo le emozioni che tali luoghi procurano e la passione che anima chi erige ad habitat privilegiato la pro-pria destinazione preferita. Ecco allora -L’euforia delle cime- di Anne-Laure Boch, dedicato a chi ama la montagna assoluta, quella che costringe a guar-dare il mondo dall’alto e a confrontarsi con se stessi e con la natura impervia. Anche –Il mormorio delle dune-, di Jean-Pierre Valentin, con il fruscio del vento che sposta i profili del deserto

ci spinge in un’altra dimensione fatta di sconfinati silenzi nelle incredibili sfu-mature dell’ocra, ma anche di segni di vita nomade quantomai ospitale. Tut-to diverso –Il richiamo della strada- di Sebastien Jallade, dove il viaggiatore sembra lasciarsi andare verso le mete più diverse, là dove lo porta la stra-da, sia essa una città affollata o una campagna deserta, intravedendo la possibilità di vivere la propria libertà e di capire meglio se stesso attraverso l’incontro con gli altri. -La musica della neve- di Davide Sapienza, raccoglie la miriade di sensazioni che suscita il manto innevato della natura, un’espe-rienza dalle Alpi all’Artico. ”Ogni fiocco è un suono puro e traccia i movimenti della musica, continua come una fuga scritta nell’universo…”•

PICCOLA FILOSOFIA DI VIAGGIO

Ediciclo Editore

Testo di Lorenzo Tarantini

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Direttore ResponsabileTeresa Carrubba

[email protected]

Progetto Grafico, impaginazionee creazione logo Emotions

Ilenia [email protected]

CollaboratoriAlessandra Amati, Raffaella Ansuini, Anna Maria Arnesano, Luigi Bernardi,

Romeo Bolognesi, Luisa Chiumenti, Valerio De Amicis, Marco De Rossi, Giuseppe Garbarino,

Josée Gontier, Roberto Lippi, Pamela McCourt Francescone, Mariella Morosi, Mirella Sborgia, Lorenzo Tarantini

FotografieMarco Aschi, Giulio Badini, Romeo Bolognesi,

Alessandro Neri, Marcello Peci, Sandro VanniniArchivio Consorzio del prosciutto di San Daniele,

Archivio Terme di Petriolo,Ufficio Turistico Pro San Daniele,

Museo Richard-Ginori della Manifattura di Doccia, Sesto Fiorentino

Responsabile Marketing e ComunicazioneMirella Sborgia

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Responsabile Marketing per le agenzieFrancesca Rocchi

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TraduzionePamela McCourt Francescone

[email protected]

TipografiaSograf Srl - Litorama GroupVia Alvari 36 - 00155 Roma

tel. +39 062282333- www.litorama.it

EditoreTeresa Carrubba

Via Tirso 49 -00198 RomaTel. e fax 06 8417855

Pubblicazione mensile registrata presso il Tribunale di Roma il 27.10.2011 - N° 310/2011 Copyright © - Tutto il materiale [testi e immagini] utilizzato è copyright dei rispettivi autori e della Case Editrice che ne detiene i diritti.

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