Ellesette_Architettura Zero_issue #002

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architettura zero ellesette 002# Rivista di architettura degli studenti del Politecnico di Bari

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La rivista di Architettura degli studenti del Politecnico di Bari

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architettura zero

ellesette002#Rivista di architettura degli studenti

del Politecnico di Bari

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L7 Rivista di Architettura a cura degli studenti del Politecnico di Bari

Direttore ResponsabileRossella Ferorelli

RedazioneAndrea PaoneDaniela ManciniEnza ChiarazzoMariagrazia PanunzioMaria Luigia SassoMassimo RubinoSilvia SivoVincenzo Tuccillo

Consulente EditorialeAlessandro Cariello

Direttore CreativoAlessandro Vizzino

StampaTipografia Romana, via Casamassima, Capurso (BA)

Ringraziamo inoltre Roberto Carlucci, Carlo Romanazzi, Giuseppe Fio-re, Luca Monastero, e Martino Bove per il loro contributo, il Politecni-co di Bari, il DAU, l’ICAR, Studenti Democratici e Azione Universitaria, l’artista Enrico Robusti per aver concesso l’utilizzo di una sua opera, i fotografi Peppe Maisto e Salvatore Gozzo che hanno prestato i loro scatti, il Prof. Arch. Marco Navarra e lo Studio NOWA.

INTRODUZIONE 02Leggimi.txt 02

EDITORIALE 04Ricominciamo da zero 04

MASH-UP 08

INDAGINE 16Chi è il più vuoto del reame? 16

WORKSHOP 22Gruppo 01_Corso Italia 24Gruppo 02_Piazza Diaz 32

Gruppo 03_Via Amendola 40Gruppo 04_Via Amendola + Ponte XX Settembre 46

Gruppo 05_Largo Ciaia 54Gruppo 06_Corso Italia 60

BLA, BLA, BLA... 66

INTERVISTA ALL'ARCH. NAVARRA 76

contentr

issue 002#

La distribuzione della rivista è completamente gra-tuita, pertanto ne è severamente vietata la vendita.Prodotto realizzato con il contributo del Politecnico di Bari (fondi ex Lege 390/91).

Contattifacebook: L7mail: [email protected]: http://ellesette.blogspot.com/

in copertina“72: architettura e(‘) uso di uno spazio qualunque” di Vincenzo Tuccillo

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02Introduzione

la RedazioneLeggimi.txt

Scena tratta dal film “Domicile conjugal” (1971)

Nell’espandere il campo d’azione del lavoro editoriale di Ellesette anche all’esperienza ope-rativa, la Redazione ha inteso ripensare del tutto la struttura della rivista fin nella dimensione tipografica. Ammettiamo di esserci voluti divertire un po' nella sperimentazione di diverse forme di espressione dei contenuti che proponiamo. Pensiamo infatti che le trasformazioni del modo in cui ci approcciamo quotidianamente alle informazioni debbano trovare riscontro anche nella maniera che scegliamo per trasferirle: quale miglior ragione per mettere in discussione anche le possibilità offerte da un mezzo "classico" come una rivista?Ci siamo insomma voluti chiedere in che modo agire sui limiti di queste possibilità e abbiamo deciso che, da ora in avanti, tra i compiti di Ellesette ci sarà anche quello di spingere in varie direzioni, per ampliarle (di poco o magari di molto).E, ovviamente, questo ha prodotto qualcosa che potrebbe aver bisogno di qualche istruzione per l'uso.Eccoci qua.

Il primo contenuto che troverete è un mashup, ovvero un miscuglio di quattro testi scritti

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negli anni passati da intellettuali di diversissima estrazione, montati insieme come in un impossibile dialogo che ponesse alcuni presupposti utili per la comprensione del contesto culturale che ci ha por-tati all’“Architettura 0”. Nessuno dei quattro autori nomina mai il fenomeno espressamente in questo modo; tuttavia, il filo rosso tra le loro parole è sottile ma presente, e per aiutare il lettore a trovarlo e interpretarlo, il testo è stato reso frammento grafico da ricomporre liberamente col pensiero.

Segue una indagine teorica sul significato del vuoto dal punto di vista di Ellesette, che si spinge oltre la dimensione puramente morfologica del volume, ormai persino inflazionata nel di-battito nazionale e internazionale, per divenire una chiave di lettura complessa della città. Si tratta, in altre parole, della traccia scientifica del metodo Ellesette di indagine del problema "zero". Un'indagine che introduce anche i motivi della scelta dei cinque spazi proposti agli studenti come temi progettuali durante il workshop, illustrando criteri di varia natura tradotti in simboli grafici utili alla loro localiz-zazione geografica e a una loro disamina logica.

Ancora a seguire, come diretta conseguenza, si mostrano i risultati del laboratorio progettuale (tavole, analisi, concept, ecc..) . Questo materiale viene riletto attraverso l’immer-sione in alcuni momenti salienti della serrata critica finale, operata tramite il confronto degli studenti con il professor Navarra (tenutosi il 20 maggio 2011 nell’Aula Magna Attilio Alto del Poliba).

Le pagine a fondo celeste compongono poi l'altro nucleo teorico della ricerca di Ellesette, nella forma di una conversazione avvenuta tra commensali fisici e virtuali: la Redazione, Ales-sandro Cariello e Donatello De Mattia da Bari, e Alessandro Martinelli e Iago Borja Carro Patiño via Skype rispettivamente da Bergamo e La Coruña.Ognuno, con la sua bevanda sul tavolo, ha saltato insieme a noi la cena per la necessità e il piacere di discorrere su ciò che sta cambiando oggi nel mestiere dell'architetto. Anche questo è, per Ellesette, "Architettura Zero".

L’ultimo contenuto è infine l'intervista concessaci dal professor Marco Navarra dello Studio NOWA, anch'essa rigorosamente via Skype, intorno a certe questioni scottanti che oggi anima-no il dibattito sulla città e sulla professione di architettura.

Fatta questa necessaria introduzione, possiamo cominciare.Vogliate seguirci: prego, da questa parte!

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testo didascalia

04Editoriale

È buona abitudine, quando si conclude una fase, tirare le somme del periodo di cui si sta celebrando la fine per aprire con la giusta consapevolezza quello che, inevitabilmente, deve aprirsi a seguito di esso. Che lo si voglia o no, gli “anni zero” – quelli del millennium bug – si sono chiusi dietro di noi portando molti cambiamenti. Certo, per la troppa vicinanza, molti di questi cambiamenti ci appaiono sfocati e privi di contorni netti, ma così come tacciamo di miopia chi non si sforzi di estendere in avanti l’orizzonte dei proprio interessi, così dovremmo dichiararci anzitempo presbiti se non facessimo quantomeno il tentativo di capire dove ci troviamo. Sicché ci sembra arrivato il momento di cominciare a osservare quello che ci separa dalla caduta delle Torri Gemelle e a chiederci cosa sia cambiato in una decade di architettura. Una domanda che, a rigore, avrebbe bisogno di risposte capaci di spaziare molto in largo; ma possiamo almeno rile-vare l’emergenza di alcuni fenomeni particolari.

di Rossella FerorelliRicominciamo da zero

Enrico Robusti, “Se penso che domani dovremo pagare l’affitto avverto un senso di vertigine” (2006)

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Così, concetti come quello di decrescita sono diventati lentamente ma sempre più stabilmente patri-monio condiviso di ogni campo del sapere, mentre si è spostata a Oriente l’aggressività verso l’uomo e verso il territorio.

E per tracciare come un solco il punto di non ritorno che separa il vecchio mondo da quello a venire, la crisi finanziaria ha lapidariamente lasciato la propria scia su tutto. Oggi, il mondo del lavoro è radicalmente diverso da quello di anche solo pochi anni fa. In particolare nel nostro paese, sommerso dai laureati nel settore dell’architettura, la disponibilità di incarichi pro capite e di budget disponibili tende sempre più verso lo zero. E mentre nell’emergenza riappaiono le economie informali, richiedendo

In primo luogo, si tratta di fare un esercizio di auto-coscienza e sforzarsi, pur con le limitazioni del caso, di forni-re una descrizione quanto più fedele e obiettiva possibile delle caratteristiche proprie della nostra generazione, dall’interno. Nessuno potrà contraddirci se affermiamo che chi esce oggi dall’università viveva già con internet 2.0 quando vi è entrato, e che ora è coinvolto in un sistema che, anche se ancora non la realizza fino in fondo, sicuramente è diretto verso la connes-sione totale. Per questa generazione, il cyberspazio non è un’u-topia avanguardista, ma la realtà di tutti i giorni, immersiva, ubiqua, polisensoriale, ma soprattutto familiare, naturale, ovvia.

P e r c e z i o n e : una generazio-ne diretta ver-so la connes-sione totale

L i n g u a g g i : un senso diver-so dello spazio condiviso

Non potremo mai ripetere abbastanza a lungo quanto ciò, modificando fin nell’hardware la nostra mente, ci stia trasfor-mando radicalmente come cittadini e come professionisti, e ciò è vero soprattutto nell’ambito dell’architettura, che ha in così alta percentuale implicazioni sociali e percettive nello svolgimento del lavoro di progettazione. Un senso diverso dello spazio condivi-so oggi ci deriva, in altre parole, dalle nostre rinnovate facoltà logiche. Il corpo, frontiera tra lo spazio fisico e quello menta-le, gioca nuovi ruoli nella definizione delle forme e non accetta più le limitazioni dell’architettura concepita come una scatola.

Per questo motivo, anche a livello linguistico, i nuovi sintagmi del nostro immaginario proiettivo, pur quando creano volume, non hanno più nulla a che fare con il volume e coi resti ormai sbilenchi della “metafisica della presenza” affondata col logocentrismo. Sono piuttosto elementi atti a creare mec-canismi generativi utili a suggerire soltanto al corpo un nuovo modo di muoversi nello spazio. Fare architettura è diventato, insomma, l’arte di costruire possibilità.

Contemporaneamente, dal 2007 la maggior parte della popola-zione mondiale vive in città e ciò costituisce un passaggio spesso ignorato ma in realtà epocale perché inedito nella storia dell’uomo, forse il principale corollario del processo rivoluzionario di globaliz-zazione in cui siamo tutti coinvolti. Un processo a partire dal quale nuovi concetti sono stati inventati ad uso di popolazioni occiden-tali (e occidentalizzate) affette da nuovi, striscianti sensi di colpa per la propria propensione colonialistica nei confronti dello spazio.

Decrescita: un processo epo-cale e inedito

”“

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Economia: la crisi ha la-sciato la sua scia su tutto

paradossalmente sempre più spesso progetti a profilo tecnologico zero, ci si trova a dover recuperare la capacità di inventarsi un mestiere, da zero. Con allo sfondo queste instabili consapevolezze, dopo qualche anno di inattività Ellesette riapre i battenti con una formula del tutto nuova: nuova la redazione, fatta sia di ingegneri sia di ar-chitetti; nuova la veste grafica; ma nuovo soprattutto il punto di vista sul mondo. Fulcro di una serie di riflessioni radicali sul presente (e sul futuro) della ricerca e della professione di archi-tettura, la nuova Ellesette si presenta con la volontà di animare il dibattito interno al Politecnico di Bari attraverso attività non solo

editoriali, ma anche di laboratorio e di ricerca operativa. Con l’obiettivo ambizioso di innescare quelle “buone abitudini” che – non sappiamo come – non hanno mai trovato modo, finora, di svilupparsi tra le mura del Poliba.Nel primo anno della sua nuova generazione, quindi, l’uscita di Ellesette è stata fatta precedere da un workshop di quattro giorni tenutosi a maggio 2011 nel Politecnico, con il titolo di “Architettura 0”. Se l’intenzione originaria della Redazione era quella di indagare nuovi modi di progettare la città attra-verso le lenti di volume 0, tempo 0, budget 0, chilometri 0 e tecnologia 0, l’apporto fondamentale degli architetti Iago Borja Carro Patiño, Donatello De Mattia e Alessandro Martinelli, invitati come tutor de-gli studenti, ha portato ad allargare l’orizzonte fino a considerare la natura della nuova progettazione urbana come eminentemente programmatica ma, insieme, intimamente informale. Il confronto finale con il professor Marco Navarra (Studio NOWA e Università di Catania) ha poi permesso di collocare l’approccio “tangenziale” adottato nel workshop all’interno di una pratica professionale consolidata, aiutando a tracciare i contorni di un mestiere che, oggi, può assumere un ventaglio vastissimo di forme.

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Ci siamo avvalsi della collaborazione di:

Arch. Iago Borja Carro Patino

Iago Borja Carro Patino (1981): architetto, direttore di Ergosfera, collettivo di studenti della Facoltà di Architettura di La Coruña (Galicia, España), che investiga sull’interazione degli agenti sociali, soprattutto per processi informali ed autorganizzati, all’interno dello spazio ur-bano. La ricerca si esplica attraverso l’organizzazione di eventi, la pubblicazione di saggi e la realizzazione di azioni urbane (www.ergosfera.org).

Arch. Donatello De Mattia

Donatello De Mattia (1970): architetto, artista, ricercatore, filmmaker, vive e lavora tra la Puglia, Bologna e Milano. Si occupa di ricerche transettoriali a carattere geo-politico. Partecipa a festival, progetti e mostre nazionali e internazionali, tra cui: La Biennale Arte di Venezia, La Biennale Architettura di Venezia, Mostar Intercultural Festival, Zagreb Architectur Salon, Empowerment, Cantiere Italia, Campagna Romana (con StalKer/Osservatorio Nomade), Milano Cronache dell’Abitare (con Multiplicity), Gemine Muse (edizione del 2007). Dal 2007 con Francesca Cogni fonda l’ass.culturale TooA (Trans office for open Art), inizia una ricerca sul Mediterraneo (12 Nautical Miles Isolario), pubblicata nel libro “Atlante Mediterraneo” (a cura di Amaze Lab), prende parte all’edizione 2008 della Biennale Giovani Artisti del Medi-terraneo.

Arch. Alessandro Martinelli

Alessandro Martinelli, laureato nel 2006 presso l’Accademia di Architettura di Mendrisio. Nel 2001-02, ha lavorato con Stefano Boeri a Milano. Nel 2003 ha fondato AsMA, organizzazione indipendente di ricerca e comunicazione nel campo dell’architettura contemporanea. Dal 2006 ha lavorato con i.CUP (istituto per il Progetto Urbano Contemporaneo), presso l’Accademia di Architettura di Mendrisio. Dal 2007 al 2009 ha frequentato il Berlage Institute di Rotterdam. Dal 2009 al 2010 ha partecipato alla ricerca su Sistemi Urbani e Modelli Urbani e ha lavorato come tutor assistente presso il Berlage Institute e come professore assistente per il corso di Urban Studies al BIArch (Barcelona Institute of Architecture). Oggi è dottorando sul rapporto tra metabolismo urbano e progetto urbano presso l’Accademia di Architettura di Mendrisio e lavora come curatore e research fellow presso l'i2a (istituto internazionale di architettura).

Arch. Marco Navarra

Marco Navarra, nato a Caltagirone nel 1963, è professore associato di composizione architettonica e progettazione urbana presso la facoltà di Architettura di Siracusa. Numeosi i suoi progetti e riconoscimenti: nel 2003 il progetto “Parco Lineare tra Caltagirone e Piazza Armerina” viene selezionato tra le quaranta opere finaliste del premio europeo di architettura Mies van der Rohe con sede a Barcellona. Nel mese di maggio vince la medaglia d’oro all’opera prima per l’architettura italiana della Triennale di Milano con il progetto del Parco Lineare tra Caltagirone e Piazza Armerina. Nel maggio del 2006 è finalista con il giardino-arena al Tempio per la menzione d’onore per gli spazi pub-blici nella Medaglia d’oro della triennale di Milano. Nel giugno del 2006 è finalista con il giardino-arena nell’EUROPEAN PRIZE FOR URBAN PUBLIC SPACE a Barcellona e vincitore del Premio Gubbio 2006 dell’ANCE. Nel 2008 è invitato ad esporre nel Padiglione Italiano della XI Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia. Ha curato Ruins of the Palace of the Emperor Diocletian at Spalato in Dal-matia di Robert Adam, 1754, con 61 tavole incise, Biblioteca del Cenide, Cannitello (Reggio Calabria) 2001.

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08Mash-up

Suggestioni

- Tutto è architettura - Hans Hollein(1968)- L’architettura della cybercezione - Roy Ascott (1994)- Kool killer e l’insurrezione mediante i segni - Jean Baudrillard (1972)- Un manifesto (incompleto) per la crescita - Bruce Mau (1999)

Al giorno d’oggi i concet-ti limitati e le definizioni

tradizionali dell’architettu-ra e dei suoi strumenti non

hanno più molto valore. È as-sai più utile dedicarsi all’am-

biente nella sua totalità e a tut-ti i media che lo definiscono.

[...] L’uomo crea con-dizioni artificiali; questo

è l’architettura. L’uomo [...]utilizza le risorse necessarie per sod-

disfare le sue necessità e raggiun-gere i suoi sogni; espande il suo cor-

po e la sua mente: si comunica. L’architettura è un mez-

zo di comunicazione. […] Dal suo stato più primitivo, l’uo-

mo ha cercato mezzi per la sua espansio-ne mentale; mezzi i quali, a loro vol-

ta, si sono evoluti costantemente.L’uomo possiede un cervello; i sen-

si sono la base per la percezione del mezzo che lo circonda. Le

risorse per la definizione e la creazione del [anco-

ra desiderato] mon-do si basano

sull’espan-sione dei

sensi.

È u n a questio-ne di con-sapevolezza. Stia-

mo acquisendo nuove facoltà e

una nuova comprensione della presenza

umana. L’abitare al tempo stesso il mondo reale e quello virtuale, l’essere

sia qui che potenzialmente dappertutto allo stesso tempo ci sta dan-

do un nuovo senso del sé, nuovi modi di pensare e di percepire che esten-

dono quelle che abbiamo creduto essere le nostre naturali capacità genetiche.

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baudrillard

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La città come un amalga-

ma di interfacce di sistemi e

nodi di comunicazione è proba-

bilmente molto più di supporto ad

una vita creativa e alle soddisfazioni

personali rispetto alle conurbazioni dell’e-

ra industriale, concepite grossolanamente e

realizzate rigidamente. Al posto della loro ma-

terialità densa e intrattabile, possiamo aspettarci

la fluidità ambientale di percorsi più veloci della luce,

superfici e strutture intelligenti e abitazioni trasformabi-

li. La fine della rappresentazione è vicina! La semiologia sta cessando di sostenere

le nostre strutture. Gli edifici si comporteranno in

modo coerente con la loro funzione annun-

ciata, invece di raccontare il loro ruolo

attraverso l’implicazione semiologica.

La città, l’urbano, è nello stesso tempo uno spazio neutraliz-

zato, quello dell’indifferenza, e quello della crescente segre-

gazione dei ghetti urbani, della relegazione dei quartieri, delle

razze, di certe classi d’età: lo spazio sminuzzato dei segni distintivi.

Ogni pratica, ogni istante della vita quotidiana è assegnato da co-dici multipli a uno spazio-tempo determi-nato. I ghetti razziali alla periferia o nel centro delle città non sono che

l’espressione limite di questa configurazione dell’urbano: un immenso centro

di smistamento e di reclusione dove il sistema si riproduce non solo economi-

camente e nello spazio, ma anche in profondità, mediante la ra-mificazione dei segni e dei codici, mediante

la distruzione simbolica dei rapporti sociali. [...] Contro questo, né l’architettura né l’urbanistica posso-no nulla, perché derivano esse stesse da questa nuo-

va svolta presa dall’economia generale del sistema. Ne sono la semiologia operativa.La città fu in precedenza il luogo della produzione e del-

la realizzazione della merce, della concentrazione

e dello sfruttamento industriali. Ora essa è in

prevalenza il luogo d’esecuzione del segno

come d’una sentenza di vita e di morte.

L’architettura è rituale; è etichetta, simbolo, segno ed espressione.

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[…] ora ognuno di noi è fatto di molti individui, un insieme di sé. In effetti il senso della persona sta cedendo il passo

al senso dell’interfaccia [...]. Siamo tutti interfaccia. Siamo mediati dal computer ed aumentati dal computer. Questi

nuovi modi di concettualizzare e di percepire la realtà implicano

più di una semplice sorta di variazioni quantitative nel modo di

vedere, pensare ed agire nel mondo. Essi costituiscono un cambia-

mento qualitativo nel nostro essere, una facoltà del tutto nuova, la facoltà post-biologica di “cybercezione”

[28.

Create n u o v e

p a r o l e .Espandete il lessico. Una realtà in continua evoluzione richiede nuovi modi di pensa-re, il pensiero nuove forme di espressione. Le nuove formedi espressione generano l’evoluzione della

r e a l t à . ]

Fino ad ora, abbiamo pensato e visto le cose in maniera lineare, una cosa dopo l’altra,

una cosa nascosta dietro l’altra, conducendo a questa o quel-

la finalità, e lungo la strada che divide il mondo in categorie

e classi di cose oggetti con i confini impermeabili, superfici

con interni impenetrabili, superficiale semplicità della visione

che ignorava la complessità infinita. Ma la cybercezione si-

gnifica ottenere un senso di un tutto, acquisire una vista a volo d’uccello degli eventi, la vista che l’a-

stronauta ha della terra, la vista che il cybernauta ha dei sistemi.

[40.

E v i t a -te le spe-

cializzazioni. Scavalcate le staccionate. I confini tra diverse categorie e le regole imposte da ordini o associa-zioni professionali sono tentativi di controllare lo sviluppo cao-tico della creatività [...]. Il nostro compito consiste nel-lo scavalcare questi stec-cati per tagliare in

mezzo ai campi.]

L’architettura è un elemento condizionante degli stati psicologici.

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mau

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hollein[ 6 .

C o n -c e n t r a t e -

vi sulle in-c o n g r u e n z e . La risposta sbagliata è in realtà una risposta giusta a un’altra domanda. Fate teso-ro delle risposte sbagliate come parte del vostro si-stema di lavoro. Prova-

te a fare domande diverse.]

Le tec-

nologie transperso-

nali della telepresenza, le reti

globali e il cyberspazio possono stimola-

re e riattivare le parti dell’apparato di una co-

scienza a lungo dimenticata e resa obsoleta da

una visione meccanicistica del mondo fatta di in-

granaggi e ruote. La cybercezione può significare

un risveglio dei nostri poteri psichici latenti, la nostra capaci-

tà di essere fuori dal corpo, o nella

mente in simbiosi mentale

con gli altri.

Noi architetti dobbia-mo smettere di pensare esclusivamente in termi-

ni di materialità. Oltre alla di-versificazione dei materiali di costruzio-

ne con l’apparizione di nuovi elementi o sistemi, e di miglioramenti tecnici che posso-

no introdursi nei metodi tradizionali, sorgeran-no mezzi intangibili per la creazione

spaziale. Nonostante ciò, continueranno a risolversi moltitudini di situazioni in for-

ma convenzionale, mediante la costru-zione, mediante l’“architettura”. Non esistono migliori risposte che un’“archi-tettura” nel suo senso c l a s s i c o ?

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baudrillard

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ascott

Qui sta tutta la differenza. Alcuni dei muri di-

pinti sono belli, ma questo non c’entra per nulla. Resteranno

nella storia dell’arte per aver saputo creare uno spazio sui

muri ciechi e nudi, soltanto con la linea e il colore - i più

belli sono sempre dei “trompe-l’oeil”, quelli che crea-

no un’illusione di spazio e di profondità, quelli che

‘allargano l’architettura con l’immaginazione’,

secondo la formula di uno degli artisti. Ma è

proprio là il loro limite. Essi fanno “gio-care” l’architettura, ma senza

infrangere le regole del gioco.

Riciclano l’architettura nell’immaginario,

ma conservano il sacramento dell’architettura.

Proprio come gli architetti devo-

no dimenticare le loro scatole di cemento e decorazioni in stile Disneyland, e partecipare alla progetta-zione di tutto ciò che è invisi-bile e immateriale in una città, così devono capire che la pianificazione deve

essere sviluppata in una matrice evolutiva spa-

zio-tempo che non è semplicemente tridi-

mensionale o limitata ad una mappatura

continua di edifici, strade e monumenti.

L’architettura contemporanea e lo shopping sono diventati più o

meno la stessa cosa. L’architettura, dopo aver voltato le spalle

alla necessità di dare risposte radicali alle realtà del tele-sé

e della presenza distribuita, rappresenta poco più di un

mondo di carrelli della spesa e pacchetti inscatolati,

che si muove sulle sue ruote intorno alle zone ste-

rili di una cultura da centro commerciale. Ogni

edificio è un prodotto imballato e reso attraente,

ogni componente ordinato da un catalogo via mail.

L’ipocrita codice di buo-na pratica della costru-zione ha preferito mettere la pacificazione

della tradizione prima della collaborazione con il futuro.

Ora l’architettura e l’urbanistica,

sia pure trasfigurate dall’immagina-

zione, non possono cambiare nulla, per-

ché sono esse stesse dei mass media e, persino nelle loro

concezioni più audaci, riproducono il rappor-

to sociale di massa, vale a dire lasciano colletti-

vamente le persone senza risposta. Tutto ciò che

possono fare è dell’animazione,

della partecipazione, del riciclaggio urbano, del

design nel senso più ampio. Cioè una simu-

lazione di scambio e di valori collettivi,

una simulazione di gio-

co e di spazi non funzionali.

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cottSi scorge un cambiamento che

colpisce l’importanza del “signi-ficato” e dell’“effetto”. L’ar-chitettura ha effetti. La forma in cui si prende posses-

so di un oggetto e si usa, acqui-sisce rilevanza. Un edificio può essere interpretato unicamente in termini di “informazione”[…].Un esempio […] è la cabina telefo-

nica: una costruzione di scala mini-ma estesa a scala globale. I caschi

dei piloti degli aeroplani a reazio-ne rappresentano un altro tipo di

ambiente ancora più compatto e direttamente relazionato col cor-

po umano. Attraverso le teleco-municazioni, questi espandono i

loro sensi e possono stabilire re-lazione diretta con moltitudi-

ne di luoghi. L’evoluzione del-le capsule e gli abiti spaziali

conducono verso una sintesi e verso una formulazione estrema

dell’architettura contemporanea. Avrò una “casa” (molto più perfe-

zionata di qualunque edificio) con un controllo totale delle fun-

zioni corporali, la provvista di alimenti e l’evacuazione di residui,

combinata con una massima mobilità.

Non stiamo par-

lando di semplici

comandi vocali a

qualche grossola-

na interfaccia da

computer, stia-mo parlan-do di antici-pazione da parte del no-stro ambiente costruito, basata

sul nostro comporta-

mento, con conseguenti

sottili trasformazioni del-

la messinscena. C’è una implicazio-ne di comunità in tutto questo per noi. La

cybercezione ci spinge ad

una ridefinizione del nostro

modo di vivere insieme e del

luogo dove viviamo insieme.

In questo processo dobbiamo

cominciare a rivalutare la ma-

trice materiale e culturale del-

la società, uno strumento che

abbiamo per così tanto tempo

dato per scontato: la città.

Immagini edificiali, superfici esteriori

definiscono la città contempora-

nea. Ma per i suoi utenti quotidiani,

una città non è solo una facciata piace-vole. È una zona di negoziazione compo-

sta da una moltitudine di reti e

sistemi. Quel che serve sono

progettisti di spazi di questo

tipo, che possano procurare

forme di accesso che non

siano solo dirette e traspa-

renti ma che arricchiscano

gli affari e le transazioni

quotidiane della città. Il

linguaggio dell’accesso a

questi processi di comu-

nicazione, produzione

e trasformazione ha più a che fare con le inter-facce di siste-ma e i nodi di rete che col tradizio-nale discor-so archi-tettonico.

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La città nel 21esimo secolo deve essere per-spicace, orientata al futuro, deve lavorare all’e-

stremità più avanzata della cultura contemporanea,

come agente di prosperità culturale, come possibile causa

di innovazione redditizia, piuttosto che come un semplice effet-

to dell’arte e dei prodotti di un tempo precedente. Dovrebbe es-

sere un banco di prova per tutto ciò che è nuovo, non solo nelle arti, ma nel divertimento, nel tempo

libero, nell’istruzione, nel lavoro, nella ricerca e nella produzione.

Una città dovrebbe offrire ai propri cittadini la possibilità di condivi-

dere, collaborare e partecipare ai processi di evoluzione culturale.

Le sue molte comunità devono portare interesse nel suo futuro. Per

questo motivo, deve essere trasparente nelle sue strutture, nei suoi obiettivi, e nei suoi

sistemi di funzionamento a tutti i livelli. Le sue infra-strutture, come la sua architettura, de-vono essere sia “intelligenti” che com-prensibili al pubblico e comprendere sistemi che

reagiscono a noi tanto quanto noi interagiamo con loro.

La città non è più il poligono politico-industriale

che è stata nel Diciannovesimo secolo, è il

poligono dei segni, dei media, del codi-

ce. Di colpo, la sua verità

non è più in un luogo geografi-

co, come la fabbrica oppure

il ghetto tradizionale. La

sua verità, la reclu-

sione nella for-

ma/segno, è o v u n -que.

Li-b e -

r a t a dei con-

d i z i o n a n -ti tecnici del

passato, l’archi-tettura funzionerà

più intensamente con qualità spaziali e psicolo-

giche. Il processo di “erezione” acquisi-

rà un nuovo significato.

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mau

ascott(sarà solo con la consapevolezza che

gli edifici devono essere piantati e “cre-

sciuti” che l’architettura si svilupperà. È necessaria una cultura da

growbag, in cui la semina sostituisce

la progettazione. La pratica dell’architettu-

ra deve trovare le sue metafore guida nell’orti-

coltura, piuttosto che nella guerra. In definitiva si

può forse parlare di impollinazione e di innesto. Gli edifici, come

le città, dovrebbero

crescere.)

[19.Lavorate sul-le metafore. Qualsiasi oggetto ha la capacità di rappre-sentare qualche cosa d’altro rispetto a quello che appare. Lavorate su quello

che esso rappre-senta. ]

[...] e gli spazi avran-no proprietà tatti-li, ottiche ed acustiche, e conterranno effetti informa-tivi insieme ed esprimeranno necessità emozionali.Una vera architettura del nostro tempo dovrà ridefinir-si ed espandere le sue risorse. Molti campi fuori della costruzio-ne tradizionale saranno incorporati al dominio dell’architettura, nello stesso modo che l’architettura e gli architetti entreranno a fare parte di altri ambiti. Tutti siamo architetti. Tutto è architettura.

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Chi è il più vuoto del reame?

16Indagine

E’ possibile trasformare la scarsità di risorse e gli aspetti deboli in elementi progettuali?

Questa riflessione è partita dalla presa di coscienza che il momento storicoin atto, di grande carenza di risorse disponibili, richiede necessariamente la discussioneattorno a temi trascurati nei corsi universitari perché rivolti a condizioni insite nellarealtà dei contesti urbani contemporanei da sempre percepite come poco rilevanti, ma cheassumono una luce diversa se considerati come meccanismi generatori di nuovi segni compositivi.Un primo input è scaturito dall’osservazione della grande varietà del patrimonio di vuoto presenteall’interno della città di Bari, che ci ha naturalmente condotti a immaginarne tutte le possibilità diutilizzo; la volontà è quella di far emergere un nuovo carattere della condizione urbana, che crea unaterza spazialità mettendo in relazione i vuoti come elementi di raccordo tra gli spazi pieni esistenti.Le città nel corso della loro evoluzione producono allo stesso tempo sia i pieni, che rappresentano

di Daniela Mancini e Silvia Sivo

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il volto fisico della città, sia i vuoti, che possono essere considerati in chiave detrattivacome gli scarti del pieno, ma che noi scegliamo di vedere come luoghi della potenzialità.

Il vuoto, ben lontano dal significare semplicemente l’assenza di materia, si può declinaresia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, se si introduce l’elemento determinativodi grado di vuoto, inteso come porosità; immaginando la città come un solido, il vuoto èinteso come una parte dello spazio pertinente al solido stesso, ma non necessariamente privodi materia. Questo concetto ci aiuta a comprendere come tra i due estremi ci sia un ventagliodi sfumature che definiscono un rapporto più complesso, di mutua permeabilità.

Nella nostra epoca, abbandonata la visione del territorio urbanizzato come di un impiantopreordinato che risponda secondo livelli gerarchici ad una struttura imposta, si pensaalla città piuttosto come a un organismo vivente, in cui sono immersi allo stesso tempo la suaesistenza presente, la sua storia e il suo sviluppo. In quest’ottica i vuoti vengono interpretaticome spazi metabolizzati , vera e propria manifestazione di una tendenza “alimentare”della città che ripartisce, predispone e consuma il suo ambiente naturale; in questa visione gliscarti sono lasciati come possibili territori di attecchimento e sviluppo di future forme viventi.I vuoti seguono quindi il cambiamento fisico della città e reagiscono ad esso come in un’entitàconforme, mantenendo memoria della reversibilità delle trasformazioni, che sono legate allevariazioni della condizione energetica (di cui fanno parte lo sviluppo economico, la politicafiscale, la situazione demografica), in un processo di matrice analitica o sintetica: la città quindiscompone e ricompone le sue parti e si sviluppa in gradi di complessità o semplicità a secondadelle esigenze temporanee, e i vuoti fanno parte di questo corso. L’aspetto fondamentale daconsiderare "quindi" è la mancata immobilità e compiutezza connaturata a queste metamorfosi,che sono influenzate da “enzimi” esterni, dipendenti dai fattori più disparati e non semprecooperanti tra loro, che utilizzano l’habitat urbano senza soluzione di continuità, riflettendo larealtà sociale e le aspirazioni culturali di una comunità.

È perciò realistico stabilire una classificazione puntuale deivuoti, attenendosi anche solo semplicemente all’aspetto visivo, inun contesto complesso come quello urbano, in cui le trasformazioniavvengono in maniera rapida e incontrollabile?

Oltre al carattere puramente fisico, in generale si possono riscontrare dei dati comunidi indefinitezza di funzioni e di discontinuità d’uso di questi spazi, che vengono vissuti in manierainformale; questi, data la difficoltà nello stabilire chi li usa e in che modo, sono consideratiportatori di promiscuità non voluta e vengono perciò evitati o relegati ai margini dell’esperienzaquotidiana, o tuttavia associati (condizione che di solito si verifica di conseguenza) all’ideadi una fruizione “scorretta”. Da ciò si deduce che il problema di un’analisi dei vuoti urbani nonpertiene esclusivamente al campo architettonico-urbanistico, ma ricade inevitabilmente inproblematiche sociali, culturali, e più in generale dell’esperienza individuale e collettiva deiterritori urbanizzati contemporanei. Il valore fisico, ma anche sociale e culturale dello spazio vuoto, è di interstizio non

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sfruttato, spesso spazio, gap culturale, terreno sprecato tra gli edifici, tra i recinti privati e giàparte della vita urbana, che ha un potenziale di riuso per le attività di inclusio-ne (giardini raccolti, aree di sosta libera, luoghi per la comunità e naturalità urbana). Nellarealtà effettiva solitamente queste condizioni non si verificano per motivi differenti quali mancanzadi intenzionalità progettuale, lacune decisionali o semplicemente scelte dell’uomo, chepreferisce vivere dei luoghi piuttosto che altri e attribuisce loro valori e significati a secondadei parametri che di volta in volta vengono assunti come rilevanti da una particolare strutturasociale.

Quali sono gli elementi che rendono uno spazio vuoto, e gliconferiscono l’immagine di zona da evitare o di incompiuto pro-gettuale? Le cause che producono un vuoto urbano sono in generale riconducibili a tre condizionidiverse, al punto che si possono riconoscere tre tipologie di vuoto: vuoto normativo, provocatodall’assenza di programmazione temporale in fase di pianificazione e realizzazione; vuotoformale, quando si è prodotta un’interruzione nel disegno di sviluppo della città; vuoto progettuale-gestionale, in cui l’utilizzo dell’area non è regolato. Queste tre tipologie possono essere accomunate dalle modalità che portano uno spazio ad essere considerato “respingente”per i fruitori, che scelgono di evitare un luogo o di accelerare il flusso al fine di transitare nell’areaper il minor tempo possibile. La respingenza è fondamentalmente provocata dal senso di pericolosità e disagio che determinate caratteristiche spaziali inducono nell’uomo. Ad esempio, il salto di scala tra due spaziattigui porta, ad una percezione dello spazio adiacente come di uno scarto di quello principale, ilcui attraversamento quindi è subordinato ed avviene solo quando necessario. Anche la presenzadi un percorso attiguo ad alta frequenza o velocità provoca un senso di smarrimento, così come l’impossibilità di vedere la fine di un percorso a causa della presenza di una barriera visiva. Alla sensazione di pericolo si somma quella di disagio, quando un’area è caratterizzata da un’alta percentuale di superficie all’ombra o quando il soleggiamento è eccessivo.

Questi spazi sono percepiti come marginali e denotati negativamente, i loro bordi appaionocome confini da non valicare, sono generalmente percorsi da flussi di utenti moltodiversi che non si incontrano; non vi è stazionamento, mancando totalmente le condizioni per una sosta di tipo formale. In generale l’utilizzo delle aree varia nel corso delle diverse ore della giornata, con ore cri-tiche caratterizzate da sovraffollamento (prevalentemente legato alla necessi-tà di parcheggio) e archi temporali di pressoché totale assenza di passaggio, soprattut-to pedonale. Gli usi degli spazi sono solitamente diversi rispetto alla funzioneprestabilita, qualora questa fosse stata pensata nel progetto originario, e discendono dal diverso

Tipologie di vuoto:1. Vuoto normativo2. Vuoto formale3. Vuoto progettuale

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work park

food

play

live

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ruolo attribuito agli spazi compresi tra gli edifici, che si trasformano in zone da adibire aparcheggio o ad altre funzioni accessorie. Svanita la percezione del vuoto inteso come spaziopubblico, si è fatta avanti l’idea di spazio inteso come elemento debole da sfruttare per necessitàquasi sempre legate all’automobile. L’aggressione carrabile a cui è soggetto lo spazio pubblico èl’elemento unificante che accomuna le aree scelte per il workshop.

I dati di debolezza possono però rivenire inaspettatamente ribaltati in elementi di pro-gettualità: considerando che gli stessi esseri umani con la loro esperienza corporea possono inmaniera spontanea dare senso al movimento altrui, modificando attraverso l’interazione fisica lacodificazione mentale degli spazi, e intervenendo in maniera finora mai valutata sulla progettazione,che quindi si pone come veicolo della rielaborazione cognitiva e sensoriale dei luoghi.Il riconoscimento di questa potenzialità è stato il leitmotiv nella scelta delle aree del workshop;situate in zone differenti della città, ma sempre a ridosso del centro urbano, hanno difformità piùo meno evidenti, ponendosi a modello delle diverse tipologie dei vuoti urbani e delle specificitàdelle cause che le hanno prodotte.

.:: La Rotonda di piazza Diaz è tra tutte l’area più carica di storia: collocata sul lungomare NazarioSauro, in un’area fortemente istituzionale e rappresentativa, è l’unico punto della città aggettante sulla linea di costa e in cui la città può guardare a se stessa. Si tratta di un “vuoto progettato”: nel progetto originario la rotonda era concepita come perno in cui la maglia murattiana incontrandoil lungomare cambia orientamento, punto nodale del progetto del lungomare e del voltodella città vista dal mare. Oggi l’area è usata come sede di diversi eventi ludici e istituzionali ed èil luogo in cui molte manifestazioni trovano la loro conclusione: ha una dimensione istituzionaleche però non si è mai concretizzata, al punto da poterle attribuire una serie di usi, ma non unavera e propria identità.

.:: L’area collocata tra via Amendola e via Postiglione si può, invece, definire come un vero e propriospazio informale. In questi caso si è creato un gap tra quella che doveva essere la vocazioneoriginaria dell’area e la funzione che poi ha assunto successivamente. In origine il terreno eradestinato alla locazione di una stazione di servizio, successivamente dismessa a seguito di unalegge che ha vietato la presenza delle stazioni di servizio nei contesti urbani. In un primo momento,vi è stata una forma di appropriazione da parte degli abitanti, che l’hanno utilizzata comeparco giochi, finchè non si è scelto di chiudere l’accesso all’esterno tramutandola in un parcheggioabusivo.

Caratteri di respingenza di uno spazio:1. Salto di scala rispetto a uno spazio attiguo2. Alta frequenza/velocità deipercorsi attigui3. Alta percentuale di superficie all’ombra/soleggiata4. Adiacenza di una barriera visiva del percorso

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.:: Il Sottoponte XX Settembre fa parte di quei luoghi della città che risultano quasi invisibili a granparte della collettività, che li attraversa senza prestare attenzione, ma che hanno un significatodifferente per coloro che le utilizzano: il Sottoponte, ad esempio, accoglie l’ingresso di due edificiscolastici e si trasforma durante l’orario di ingresso e di uscita dalle scuole in un luogo di raccoltadi giovani e in cui gli elementi di arredo urbano sono gli stessi motocicli, usati come sedute.

.:: Largo Principessa Iolanda è usato prevalentemente come parcheggio a cielo aperto. Seppurcollocato in un punto cardine della città, ovvero a ridosso di una delle fermate principali dei mezzipubblici su ruote e nei pressi della stazione centrale, è frequentato da utenti che la attraversanoma non la vivono (i pendolari) e dai residenti della zona, che non entrano mai in contatto tra loronell’utilizzo del luogo.

.:: Il Sottoviadotto di Corso Italia si presenta come un tratto lineare caratterizzato da un vastomarciapiede all’ombra del viadotto delle Ferrovie Appulo-Lucane, quasi sempre occupato daparcheggi incontrollati. Tra i due estremi del percorso, da una zona storica della periferia urbanaal centro murattiano, si passa attraverso gradi di attrattività e flussi di utenza via via crescenti.

Queste prime riflessioni, e l’analisi delle aree scelte ha inevitabilmente portato una seriedi questioni, riguardanti le tematiche da individuare nell’approccio alla progettazione e le problematicheda affrontare nel suo corso:

.:: La condizione che uno spazio sia investito da una serie di usi informali è indipendente dallapossibilità di attribuire a quell’area soprattutto nell’immaginario collettivo una determinata funzione,e quindi lo status di luogo?

.:: Gli strumenti normativi risultano essere spesso e in più modi parte della causa della formazionedei vuoti urbani: l’incapacità degli strumenti urbanistici di permettere la realizzazione nello stessotempo degli edifici privati e dei servizi urbani e di quartiere, o più generalmente della progettazionecontestuale dei pieni e dei vuoti, ha prodotto una serie di non-luoghi, il cui adeguamentoal contesto urbanizzato è avvenuta recentemente o ancora non è avvenuta.

.:: La percezione “respingente” di questi luoghi, per la prossimità non ricercata con altri fruitori “in-formali” che comporta, può essere rivalutata e assunta a esperienza fondamentale per la lettura degli spazi: in questo modo un’area apparentemente priva di qualità estetica, può essere pensata in modo diverso se si assumono come chiave progettuale gli elementi che alimentano metodologie utili a sug-gerire un nuovo modo di percorrere lo spazio, valore dato dagli stessi esseri umani attraverso le forme e le modalità di uso, che danno forma all’esperienza dei luoghi in un processo di adeguamento al corpo umano e al suo movimento, che diventa evidente per la collettività tutta.

Partendo quindi da una nuova consapevolezza, che altre persone vivono e si muovonointorno a noi, che va inserita nel processo conoscitivo in maniera chiara e in chiave positiva,piuttosto che nascosta o soppressa in fase di progetto, e dal suggerimento di un cambio di rottaradicale del modello di città, pensata a partire dai percorsi nello spazio e non dai volumi pieni,la progettazione dei vuoti diventa il momento della costruzione di possibilità. Il processo metodologicodi conseguenza ripensa le accezioni negative precedentemente esposte, e pone come

24h0

Modalità di uso dello spaziomargine:1. Flussi di utenti molto diversiche non si incontrano2. Attraversamento senza condizioni per lo stazionamento3. Utilizzi molto diversi a secondadegli orari4.Spazio non progettato per unafunzione prestabilita ma chesubisce una funzionalità attigua

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obiettivo il superamento delle barriere fisiche e mentali che finora hanno condizionato l’avvicinamentoa questi spazi, attraverso l’avvicinamento a queste condizioni (trattate nel corso delworkshop):

.:: attraversabilità

.:: permeabilità fisica e visiva

.:: integrazione funzionale

.:: correlazione con percorsi e spazi pubblici

.:: compatibilità urbana

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22Workshop

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Gruppo 01

Dati dimensionaliArea: 2800 mqPerimetro: 370 ml

DescrizioneLargo marciapiede con la presenza di piloni che sostengono la soprae-levata delle Ferrovie Appulo Lucane, disposto longitudinalmente ai binari delle Ferrovie del Nord Barese

UsoParcheggio e presenza di contenitori per i rifi uti

Valori qualitativiRaggiungibilità: obbligatorio per at-traversare la città Frequenza: residenti e passanti, nes-sun motivo di sostaAttrattività: zona prettamente resi-denziale e di piccolo commercio

Corso Italia

Francesco GagliardiMarica LabbateNicola BaldassarreNicoletta Faccitondo

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L’infrastruttura, con il suo ritmo e la sua serialità, può diventare la chiave per utilizzare queste tracce e agganciare tutto il resto della città. Tramite delle sezioni trasversali è possibile indagare come si dilata questo spazio tra il muro della ferrovia, il viadotto, e la città che sta affianco, capire che respiro ha la città, anche dentro le case stesse, se ci sono dei locali che si aprono su questa strada per diventare spazi che offrono delle opportunità. È interessante la strategia di costruire un laboratorio perché è un modo che permette di attivare un processo. La domanda è come si costruisce la partecipazione perché non è automatica, non è naturale, è il grande problema di oggi. La soluzione di una questione urbana non si risolve né con la cultura di un progettista, né con la cultura di un amministratore, o di un committente tradizionale pubblico, c’è bisogno di una dinamica diversa e più complessa, e questa strategia può essere un modo per innescare dei processi di apertura e di definizione, soprattutto lavorando con il tempo.L’altra questione interessante è la questione del tempo: queste cose hanno bisogno di un tempo diverso, che non è quello delle norme con cui sono regolati i tempi del progetto. Il codice degli appalti e dei lavori pubblici impedisce di costruire un processo più lungo di interazione tra chi elabora il progetto e coloro che possono essere i fruitori.

Il progetto del viadotto in Corso Italia è una sperimentazione incisiva su come attraverso le piccole trac-ce urbane si può ricostruire tutta una grande complessità urbana. Un primo passo per il dopo. Mentre il viadotto rimane costante lungo tutto il percorso che va dal Redentore sino alla stazione, tutto ciò che accade al di sotto e intorno al viadotto cambia. È un progetto che nel tempo può avere una funzione più sostenibile, e coinvolgere tutti i cittadini in un processo di rigenerazione. Possiamo utilizzare del mate-riale riciclato che c’è già all’interno di questo spazio: il vagone.

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Giuseppe RestaLuigi Angelo RecchiaMargherita ValenteRenè Soleti

Gruppo 02

Dati dimensionaliArea: 4340 mqPerimetro: 265 ml

DescrizioneRotonda pedonale circondata da percorso carrabile e marciapiede, prospiciente il lungomare Imperato-re Augusto

UsoLuogo di passeggio e sede di manife-stazioni culturali, sportive e militari

Valori qualitativiRaggiungibilità: zona centrale ma in posizione laterale rispetto ai percor-si principaliFrequenza: zona di passaggioAttrattività: contesto altamente ca-ratterizzato, sebbene poco inserito nel circuito urbano

Piazza Diaz

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Il discorso dei frangiflutti mi sembra un discorso un po’ debole rispetto alla volontà della riconquista di questo piano zero libero. Queste costellazioni di usi sono molto interessanti perché è come se disegnas-sero ogni volta una nuova configurazione della piazza a seconda delle condizioni. Questa scelta di non toccare, rispetto ad un disegno che è molto preciso, che è contrario ad uno spazio libero, mi sembra una fuga rispetto al coraggio di azzerare e ripensare il bordo. A volte raggiungere lo zero significa fare delle operazioni un po’ forti, in questo caso parliamo della demolizione di un marciapiede, di uno spessore minimo che però è una variazione molto forte sugli usi al fine di rendere questo piano unico. É necessario eliminare non solo le ringhiere, ma anche i muretti con quel tipo di lampade, ripensare il bordo sotto, trovare un altro sistema per liberare l’orizzonte rispetto al mare. Liberare quindi un piano neutro che si disegna con questi usi che sono già una pratica, era il naturale sviluppo di questo lavoro.

Questa è una piazza sul mare che è un contenitore di eventi e funzioni istituzionali per la città. Elen-cando tutte le funzioni, i ragazzi si sono lasciati suggestionare da quello che informalmente avviene sul mare, ossia lo spazio che c’è tra i frangiflutti e il lungomare, esplicitando nel progetto le potenzialità che questo luogo possiede. L’acqua messa in sicurezza è un’acqua limpida dove ci si potrebbe fare il bagno, il loro lavoro è stato quello di rendere sempre più balneabile anche il bordo della città.

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Via Amendola

Alessandro BenedettoAlfonso De LeonardisAnna Caterina Angione Emanuela Rosiello

Gruppo 03

Dati dimensionaliArea: 950 mqPerimetro: 130 ml

DescrizioneSpazio aperto asfaltato delimitato su due lati da cortine edilizie (di cui una cieca) e sui rimanenti lati dalla viabilità carrabile

UsoParcheggio, campo da calcio per ra-gazzi della zona

Valori qualitativiRaggiungibilità: zona limitrofa a grande arteria carrabileFrequenza: limitata ai residenti e a pendolariAttrattività: zona residenziale, pre-senza di attività manifatturiere e industriali di piccolo taglio attive e in disuso, vicinanza al campus uni-versitario e al percorso ferroviario

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Questo è più un progetto urbanistico, hanno avuto l’umiltà di informarsi, di chiedere le misure, e devo dire che alla fine non hanno fatto il progetto. Sono stati anche ironici e si sono inventati una festa in cui i cartelloni pubblicitari vengono tirati giù e bruciati.Avendo creato un processo che si chiude non ha bisogno di essere gestito da un’altra parte, non va al comune, non rientra in altri budget.

Dopo che abbiamo fatto tutti questi soldi cosa facciamo a questa piazza?Tutto ciò che avete pensato va bene, ma non avete pensato al meccanismo architettonico per farlo funzionare: il cinema non funziona se passano le macchine, se non posso controllare gli ingressi! Questo sposta la nostra attenzione verso un problema più generale: trattandosi di un pezzo di isolato mancante, bisognava lavorare in tensione con il pezzo di isolato che manca, porsi il problema del limite che manca, trasformando questo in uno spazio speciale pubblico, che cominciava poi a funzionare con questo mec-canismo delle pubblicità.È corretta l’impostazione del problema, perché bisogna interrogarsi su come mettere in campo un pro-cesso, in quanto il progetto non è solo pensare alla struttura, o a come organizzano uno spazio, però poi dentro questo processo ci deve stare la definizione "degli elementi delle attività degli spazi".Affrontare in questi termini il processo significa portare queste questioni dentro il progetto urbano, non lasciarle a qualcun altro che le fa prima e ci condiziona con dei vincoli. Portare dentro il ragionamento della costruzione di un progetto anche i termini di cosa significa fare la manutenzione, mantenerlo, finanziarlo, costruirlo, fa partecipare i diversi gruppi sociali anche al processo economico, questo è l’aspetto interessante.

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Amendola+XX Settembre

Andrea ColangiuliFrancesco VurchioGiuseppe MiccoliSilvia Laterza

Gruppo 04

Dati dimensionaliArea: 1030 mqPerimetro: 305 ml

DescrizioneLargo marciapiede sottostante il ponte carrabile, disposto longitudi-nalmente alla cortina edilizia

UsoPercorso pedonale, sede di attività commerciali occasionali (mercatini)

Valori qualitativiRaggiungibilità: zona centrale ma in posizione defi lata rispetto al percor-so principaleFrequenza: zona di passaggio Attrattività: presenza di edifi ci sco-lastici, vicinanza a stazione e al tracciato ferroviario

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Certi usi, come certe piante, tendono a prevaricare gli altri: se voi mettete le macchine, queste potreb-bero fagocitare gli altri usi, oppure dovrebbero esserci dei meccanismi di controllo che definiscono dei limiti. Il sovrapporre gli usi è interessante, però è interessante inventare dei nuovi sistemi, senza creare dei limiti con un recinto; sarebbe interessante capire se esistono dei meccanismi che controllino le propor-zioni senza dire “qui sta la macchina”. Ad esempio in Francia o in Spagna hanno superato la questione del marciapiede col limite di velocità: se le macchine possono andare a 30 o a 20 km/h, non c’è bisogno del marciapiede. Quindi qui la domanda interessante è capire che meccanismo si possa inventare per permettere questa compresenza.

I ragazzi hanno fatto un lavoro tremendo, è molto difficile cambiare il chip, dire ok dobbiamo lavorare molto per sapere come costruire un vuoto, ma prima dobbiamo sapere come funzione la macchina: sem-plicemente ampliando lo spazio, senza porre quasi nulla, nessuna pavimentazione, le condizioni cam-biano radicalmente. Essendo poi luoghi differenti, uno pubblico, l’altro privato, i margini sono irrilevanti, mentre è rilevante la questione della gestione, di come possiamo fare per far lasciare ad un privato uno spazio libero, e come possiamo far sì che un parcheggio possa essere un’altra cosa, e sappiamo anche, dalle tracce urbane, che questa centralità può essere usata per tanti usi già presenti e nuovi.Credo che questa sia una sperimentazione importante, per capire quanto lavoro c’è da fare per creare un vuoto urbano.

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Largo Ciaia

Gerardo TopputoGiuseppe GrazianiPasquale RienzoValeria Castrignani

Gruppo 05

Dati dimensionaliArea: 1920 mqPerimetro: 190 ml

DescrizioneSpazio aperto asfaltato con presen-za di marciapiedi alberati, delimitato dalle cortine edilizie su tre lati e da una grande arteria stradale sul quar-to lato

UsoParcheggio e luogo di incontro gio-vanile

Valori qualitativiRaggiungibilità: attraversamento per raggiungere la zona centraleFrequenza: zona di passaggio per re-sidenti e pendolariAttrattività: vicinanza a capolinea di mezzi di trasporto extraurbani, interfaccia tra residenziale di scala e livello sociale differenti

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Questo slargo è utilizzato come un parcheggio, vero DNA di questi luoghi nella città di Bari. È stato ri-levato il carattere e il comfort potenziale che questa piazza può avere, poiché è una piazza con quattro filari di alberi da una parte e tre da un’altra, con una serpentina e un cordolo di pietra di Trani. I ragazzi incrementano la vegetazione e ne fanno una piastra allestibile.

Partendo dall’idea della piastra, se l’idea del progetto è quella di offrire delle opportunità, un’adattabili-tà di questa piastra ad usi diversi, il problema è come costruisco questa piastra, come la organizzo, non è solo la pavimentazione, devo organizzare dei piccoli elementi fissi che mi servono per agganciare le cose e per legarle. Poi l’idea della piastra è contraddetta dalle macchine, anche il parcheggio deve diventare una materia del progetto, anche le macchine sono materiale di paesaggio urbano, non possiamo nasconderle solo con gli alberi, se ci sono e sto facendo un parcheggio, a seconda di come lo organizzo posso disporle in un certo modo, posso costruire un paesaggio fisso. Non si può però rimanere indifferenti a quello che c’è anche come opportunità.Poi, siccome tradizionalmente i piani terra sono una dilatazione degli spazi pubblici, anche fare un dise-gno in cui rappresento questo spazio, è un altro modo di vedere le potenzialità della piazza, dell’esten-dersi, possono nascere stimoli e idee diverse.

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Corso Italia

Carmela MaggioCiro ParisiFrancesca Guadalupi Maria Angela Bruno

Gruppo 06

Dati dimensionaliArea: 2800 mqPerimetro: 370m

DescrizioneLargo marciapiede con la presenza di piloni che sostengono la soprae-levata delle Ferrovie Appulo Lucane, disposto longitudinalmente ai binari delle Ferrovie del Nord Barese

UsoParcheggio e presenza di contenitori per i rifi uti

Valori qualitativiRaggiungibilità: obbligatorio per at-traversare la città Frequenza: residenti e passanti, nes-sun motivo di sostaAttrattività: zona prettamente resi-denziale e di piccolo commercio

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Il progetto ha tentato di fare in modo architettonico, soprattutto mediante le sezioni, una cosa molto sottile, ma anche rilevante: i meccanismi di esclusione che sono sul sito, come le barriere, sono stati trasformati in altri sistemi o in altre modalità più architettoniche, che garantissero l’uso libero dell’area, così da permettere anche la possibilità di parcheggiare. In una parte non c’è altro che un’estensione della strada, e il modo in cui sono parcheggiate le macchine è autonomo; la parte centrale è, invece, più legata all’utenza locale, questo sistema di esclusione si realizza attraverso la creazione di un gradino; nell’ultima parte, infine, il parcheggio avverrà anche lungo la strada, in quanto si entra in rapporto con la zona commerciale e con i servizi pubblici presenti sulla zona: si permette così l’estensione dello spazio pubblico con una forma di separazione dalla strada e uno spazio di protezione. In questo ci sta una certa forma di umiltà di pensiero: si pensa a come mantenere questo spazio pu-lito, come fare che sia inclinato in modo che l’acqua possa dilavare, pulire, come gestire il problema dell’esclusione che era già presente sull’area, ma non permetteva un utilizzo di questa.

Mi domando se questo sistema poteva essere governato su tutta l'area, pensare se gli elementi pote-vano sovrapporsi, lavorando a fasce, pur avendo delle intensità diverse, però mantenendo sempre una sovrapposizione; mantenere una sorta di metamorfosi delle sezioni per permetterne la commistione. Mi sembra interessante, inoltre, la rilettura della ripetitività dell’infrastruttura con questa variazione di co-lore: questo potrebbe diventare un elemento da estendere, sempre in questa logica di addizione, di modo che l’uso del colore suggerisca un altro ritmo dentro la ripetizione dell’elemento strutturale, un’altra possibilità di ritmare, quindi dare una nuova lettura, un nuovo fronte alla strada.Secondo me è interessante affrontare realisticamente la questione e quindi, piuttosto che portar via le macchine, vedere come metterle e come renderle compatibili ad altri usi.

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66Bla, bla, bla...

Il mestiere dell'architetto, cosa signifi ca oggi, la dimensione glo-bale dei fenomeni, e la necessità di un paio di birre per continuare a pensarci.

I commensali:- la Redazione di L7- Alessandro Cariello- Iago Borja Carro Patiño- Alessandro Martinelli- Donatello De Mattia

L7: ehilà, ci sentite?

Alessandro Martinelli: forte e chiaro.

Iago Carro: ciao a tutti!

Donatello De Mattia: ciao ragazzi!

L7: perfetto, cominciamo subito allora.

L7: Dunque, noi vorremmo che questa chiacchiera partisse da una rifl essione sulla mutazione della professione dell’architetto. Vorremmo parlarne con voi perché ci sembra che incarniate molti degli aspetti di questa trasformazione che è in atto ora, proprio mentre parliamo. Proviamo a darvi un paio di chiavi di lettura, e voi diteci cosa ne pensate.Per prima cosa, oggi, gli architetti sono spesso nomadi già nel percorso della loro formazione (e infatti alcuni di voi, quando gliel’abbiamo chiesto, hanno avuto una certa diffi coltà ad indicare un loro domicilio preciso).Poi, è ormai evidente che non esistono più professionisti solitari, che danno il proprio cognome al loro studio di progettazione, bensì costituiscono associazioni, agenzie e gruppi più o meno formali in cui si riconoscono. E, difatti, tutti voi trovate il vostro alias in un gruppo: Iago ha Ergosfera, Alessandro ha AsMA, Donatello ha TooA. Titoli che non contengono in alcun modo il vostro nome.D’altronde, nella crisi delle committenze classiche, siamo tutti unsolicited archi-tects: dobbiamo spesso trovare occasioni progettuali osservando le fessure nel funzionamento della società e delle sue interazioni nello spazio, lavorando al bordo di regolamenti e norme per inventare ex novo plusvalenze per il pubblico.

Alessandro Martinelli: In effetti forse solo i nostri padri, che si trovarono a lavorare nel momento della crescita in Italia, avevano chiaro il lavoro come occupazione in un contesto ben defi nito in cui agire. Se invece mi osservo dal di fuori, mi rendo conto che io ho costantemente la preoccupazione di capire qual è il contesto di quello che faccio, ovvero perché faccio alcune cose, chi è che mi sta ad ascoltare: in sostanza, per chi lavoro.

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Io penso che queste due cose insieme, ovvero lavorare e costruirsi un ambito in cui lavorare, creino una condizione nuova. Insomma, alla fi ne non hai più così tanto tempo per lavorare, perché hai necessità anche di lavorare per trovare da lavorare!E direi che questa anomalia non cambia soltanto il modo con cui ci poniamo nei confronti del lavoro. Cambia anche il lavoro vero e proprio.

Iago Carro: Io penso che questa sia una cuestión molto importante e molto legata alla cuestión dell’investigazione. Si tratta della trasformazione di questa parola, di un’investigazione unicamente pensata sulla città. Allora dobbiamo pensare a come trasformare il nostro ruolo all’interno del lavoro nella città, a come relazionarci a un mondo che è sempre in crisi, in un’eterna crisi, e che gli attori e le risorse che esistono e che noi possiamo prendere per lavorare si trovano diffuse nelle città. Nelle università non ci insegnano a lavorare con questi parametri.

Donatello De Mattia: Io personalmente da troppo tempo penso di non voler fare l’architetto. Però, in realtà, spesso analizzo biografi e di altri architetti, storie, un po’ anche per cercare, diciamo, il “da farsi”, la strada da percorrere. E mi rendo conto che ci sono molti architetti, specialmente quelli delle avanguardie degli anni ‘60 e ‘70, che hanno fatto di tutto; pensiamo a Ugo La Pietra o Andrea Branzi, ma ce ne son tanti. All’interno di questi gruppi c’erano architetti che facevano ricerche e collaborazioni particolari e incursioni nel mondo dell’arte, del cinema, della ricerca. Erano gli intellettuali dell’avan-guardia, gli architetti e gli artisti dell’avanguardia.Non solo: nei primi anni 2000 (e io me lo ricordo molto bene, perché all’epoca ero appena emigrato da Bari a Venezia) iniziava un momento molto interessante in Italia: c’era stata la Biennale di Architet-tura di Fuksas e poi su alcune tracce lasciate della Biennale d’Arte di Szeemann, ci fu la successiva di Bonami; poi curatori come Hans Ulrich Obrist o Carlos Basualdo, cioè curatori d’arte contemporanea che chiedevano agli architetti di parlare di quello su cui stavano ricercando. Infatti proprio in Italia in quel periodo, sotto il segno del movimento studentesco della Pantera, nascono a Roma gli Stalker, Ma0 e Sciatto Produzie e poi dei giovanissimi, ancora studenti, 2A+P. A Torino nasce Cliostraat, a Genova A12, gruppi anche loro di avanguardia. Si propone di nuovo quella fi gura di architetto-ricercatore-artista. Anche in altri Paesi nascono situazioni interessanti: se vogliamo, curatori di arte più che di architettura. Penso a Obrist che si interessa a Yona Friedman, a Cedric Price e a Costant, in un certo modo “sbancando”, cioè rompendo un tabù che i nostri docenti di architettura e di storia ci avevano costruito, il grande tabù sulle avanguardie. Secondo me, fu un anno di svolta (o almeno io mi sento fi glio di quell’anno di svolta); ma anche in voi che siete un po’ più giovani vedo che questa cosa continua ad andare avanti, continua a produrre pensiero, continua a produrre avanguardie. Vedo ad esempio proprio il lavoro di Iago ma anche di tanti suoi colleghi spagnoli. In Italia no, perché in Italia succede così, che a un certo punto le cose vengono sparigliate, come quando si gioca a carte.

Alessandro Cariello: Forse è possibile interpretare questo fenomeno col fatto che nei momenti di crisi profonda di un settore professionale, piuttosto che dargli ancora più profondità, spontaneamente av-viene che si guardi immediatamente a fi anco all’ambito disciplinare. O anche molto lontano. Ciò che, come hai detto tu, Donatello, è avvenuto con l’arte in un certo periodo e contesto, potrebbe avere il suo corrispettivo in Spagna (e in questo chiedo aiuto a Iago). Lì, in quello stesso momento, si è guardato

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invece alla sociologia o all’antropologia come discipline di supporto. Discipline dalle quali pescare per sopperire a questa mancanza di profondità e per tentare di rinnovare i meccanismi, le lenti con le quali si guardava ai fenomeni della città e del territorio dell’architettura. Come la vedete?

I.C.: Penso che la questione di come pensiamo la professione e questa investigazione delle discipline ai margini, sono cose che hanno sempre avuto importanza per gli architetti che pensavano alla città. E la questione è un po’ relazionata con la prima domanda su lo global, sulla mobilità degli architetti; penso che simultaneamente a questa importanza di materie come la fi losofi a, l’antropologia, la sociologia, ci sia la questione della località che, molto più che viaggiare, è la questione di fare rete con la gente locale in un luogo più accessibile per cambiare l’architettura e per incontrare forme di pratica della professione. Una cosa di cui sono sicuro è che quella di come possiamo introdurre le nostre forme e la nostra pratica di vita nella professione è una questione trascendentale che abbiamo davanti.

A.M.: Secondo me in verità la crisi disciplinare dell’architetto è la questione dell’espansione dell’archi-tettura come disciplina fuori dagli ambiti di quello che fa l’architetto, è cioè il problema di come tutti facciano architettura oggi. Mi spiego meglio.Fondamentalmente, per me, quello che un architetto fa è di permettere alle cose di trovare il loro posto. Penso che la maggior parte dell’impegno, oggi, sia cercare di capire fi n dove stare. E non è solo degli architetti. È di chiunque, soprattutto di fronte alla grandissima sensibilità di qualsiasi cosa.

I.C.: L’altro problema molto relazionato con questo è che l’architettura, molto più delle altre maniere di pensiero, è una professione che al 99% è catturata dal capitalismo. Noi siamo tenuti a fare rete con il committente, con il costruttore, ecc. Oggi l’architettura come architettura non è un campo ampio.

A.M.: Vero, perché il capitalismo ha bisogno di quella dinamica che esiste tra la fl uidifi cazione del capitale e il fatto che questo venga convertito in affari materiali. In qualche modo il capitalismo si può defi nire come costituito da fl ussi che devono trovare il loro posto per essere densifi cati e poi rimessi in circolo. Quindi è chiaro che la disciplina del capitalismo prende a piene mani dall’architettura. Insom-ma: i soldi, fi nché stanno in aria, non sono niente.

A.C.: Una postura differente, però, potrebbe essere quella di non pensare più a un’architettura che si ponga in maniera frontale al capitalismo, ma piuttosto che cerchi di distorcere il capitalismo per piegarlo agli usi che oggi ne vogliamo fare. Si tratta di ammettere che il capita-lismo è un nuovo materiale di lavoro.

I.C.: Sono completamente d’accordo, questa è una delle due prospettive sul capitalismo. Ovviamente l’opinione pubblica è mediata dal capitalismo. Noi come architetti abbiamo la possibilità di osservare la città e scoprire altri temi e problemi, non dobbiamo dimenticarlo.

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A.C.: Farei un accenno alla questione odierna di come addirittura i governi possano cambiare per ri-spondere a domande che fondamentalmente sono del capitalismo. Non si chiede un’idea di città, non si chiede un’idea di società, non si chiedono principi diversi. Oggi i governi cambiano per rispondere a esigenze del mercato, e la postura nella quale si pongono è simpaticamente cinica rispetto alla situa-zione in cui ci troviamo.

D.DeM.: Enzo Mari dice che ogni progetto per un architetto diventa un’occasione per “fregare il siste-ma”, per fare qualcosa che chi ti fi nanzia in realtà non pensava davvero. Avere un ideale, un’ideologia, per un architetto è una cosa importante. Come dice Alessandro Martinelli, la funzione dell’architetto è di poter mettere le cose al proprio posto, ma senza un’ideologia le cose non vanno bene. Sono d’accor-do con chi sostiene che l’architetto ha delle grandi responsabilità. In questo panorama di mercati e di capitalismi, da cui personalmente non sono attratto, mi interessa piuttosto chi lavora contro e che fa qualcosa di alternativo. Lo cerco con curiosità. E penso che quello sia l’importante per la rifondazione del mestiere dell’architetto: quel materiale che propone dei modelli nuovi senza avere la presunzione di architettare il futuro ma con l’idea di mettere a punto soluzioni politicamente valide di alcune questioni.

L7: Vorremmo portarvi a rifl ettere anche su un’altra questione. Probabilmente, il problema del rapporto con il potere oggi è che si tratta oramai di meccanismi ad una scala talmente vasta che dobbiamo chiederci: in che modo intercettarli alla scala globale, operando invece nella vita materiale delle città, o in ambiti ancora più contenuti? Se pensiamo a Bari, emergono due scale diverse. C’è quella di una città in cui un nuovo piano urbanistico è in itinere e in cui ci sono nuove idee di espansione di una zona industriale già in gran parte abbandonata e inutiliz-zata. E le funzioni che si prevedono sono rigide, nascono già vecchie. E poi c’è la situazione nazionale, in cui per rispondere a richieste europee di liquidità, si opta per la vendita e la cessione di un enorme patrimonio di proprietà dello Stato che è inutilizzato. Ma in questo periodo, è davvero pos-sibile un ripensamento così semplifi cato, che non consenta un cambiamento radicale dal punto di vista dei metodi e della vita?

D.DeM.: Io sono convinto di una cosa: la fi gura dell’architetto è la fi gura di un intellettuale. E quindi può anche non costruire, può anche star fermo, può lavorare in altra maniera: può scrivere, può criticare, può costituire un’associazione culturale, può occupare un posto abbandonato e farlo funzionare in forma di festival permanente, per esempio. La storia è piena di questi esempi. E noi dobbiamo uscire dalla crisi un po’ come Superman: con il pugno in avanti (e non vi dico quale!). L’architettura può esprimersi in talmente tante maniere che io trovo anche tanta diffi coltà a defi nire il mestiere dell’architetto, se vogliamo dare un valore aggiunto ad un mestiere complesso, affascinante e da intellettuale. Senza snobberie…

I.C.: Donatello, io sono d’accordo, però noi dobbiamo lavorare come cittadini, e quindi ciò che noi possiamo fare è dire: «Ok, io non so niente del capitalismo e della complessità del mondo, però so che questo è buono per la città, e lo so perché lo vivo e lo vedo come cittadino». E quando so questo, allora posso osservare una pratica da un posto, copiarla e incollarla in un altro posto.

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A.C.: Stiamo parlando di architettura non come architetti, bensì come cittadini: quindi un’architettura militante?

I.C.: Non penso che serva l’architettura militante, penso che serva fare architettura sulla base della scienza, della libertà, dei valori che noi come cittadini possiamo raccogliere dalla scala globale.

A.M.: Vorrei aggiungere una cosa. Se c’è qualche cosa che manca all’architetto, penso che sia la capacità di comprendere e rapportarsi alle cose nella reale com-plessità che hanno. Se c’è un problema dell’architettura, ad oggi, è che molte volte ven-gono fatte scelte e vengono avanzate proposte (spesso anche realizzate) che partono da idee astratte rispetto alla realtà. Questo ha molto a che vedere con l’importanza di capire il signifi cato del capitalismo nei confronti dell’architettura. Mi spiego meglio. Pensiamo a un museo: cos’è un museo, e come farlo oggi?Il museo è una cosa molto complicata perché è un simbolo rappresentativo ed ideologico e quindi l’architetto deve dargli anche un valore formale. La forma interna del museo e il modo in cui è gestita permettono al museo di funzionare o meno. Per la maggior parte, i musei che noi abbiamo ereditato dal secolo scorso non sono stati progettati e trattati ponendo problemi di questo tipo. Cosa signifi ca? Che tenere in attività il Louvre vuol dire inve-stirci soldi per il mantenimento, per i buchi di gestione, e signifi ca inevitabilmente convertire parte del museo in un enorme centro commerciale. Ed è quello che è stato fatto nel grande progetto di Pei. Il che non signifi ca che il progetto di Pei sia negativo: signifi ca che il Louvre è un museo che abbiamo eredi-tato in un momento in cui l’architettura disponeva di alcune necessità che non sono quelle di adesso. Spesso il fatto che sia necessario entrare in uno scambio economico è la risposta al fatto che molte cose non funzionano o sono diffi cili da far funzionare, anche architettonicamente. Così, bisogna fare arrivare i soldi da qualche altra parte. Iago, mi sembra che voi lavoriate molto sul tema della complessità dei rapporti e delle reti di persone.

I.C.: Quello della complessità è un problema… complesso. È chiaro che non possiamo entendere tutte le cose che circondano un progetto. In ciò sono d’accordo con Donatello sull’approccio alla questione del capitalismo. Non penso che possiamo comprendere tutte le questioni sociali e di sostenibilità ambientale. Dobbia-mo trovare concetti, non so, probabilmente in qualche maniera più piccoli. Per esempio sul tema della differenza, che può essere utile per fare architettura molto più che pensare sempre al capitalismo e a problemi fuori scala. Noi, per esempio, facciamo studi teorici e diagrammi per scoprire se possiamo inventare procedimenti per cambiare, per fare.

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A.C.: Tutti i discorsi fatti fi no a questo momento, mi pare, convergono sull’interesse nella microscala (micropolitiche, microazioni, microrapporti), attraverso un fortissimo pragmatismo. Che ne pensate?

I.C.: Io credo che il tema della microscala è una questione di simple possibilità. Come dicevamo, l’architettura è catturata dalle forme. Io non posso sperimentare in alcun modo facendo un progetto grandioso di urbanismo nella mia città; però certamente posso trovare qualche risorsa economica, anche attraverso fl ussi di sovvenzionamenti pubblici, per fare un esperimento sulla via, sulla strada. Non penso che le microazioni siano il fi ne delle cose, ma sono delle sperimentazioni a cui noi possiamo tendere oggi.

L7: È chiaro a questo punto che stiamo girando intorno a una considerazione: il nostro fi ne non è più l’azione, ma può essere il processo. Nell’intenzione dell’architetto che Donatello chiama “intellettua-le”, c’è quindi che il fi ne non sia quello di produrre architettura in sé, ma capire quelli che sono i processi al di sotto della produzione di progetti.Possiamo forse chiederci se questa attenzione esasperata che oggi abbiamo nei confronti dei processi sia giustifi cata o se si dovrebbe ritornare a depositare delle cose all’interno della città. Ma probabil-mente una risposta viene dalla rifl essione che ha fatto Iago, ovvero il fatto che se l’effettiva possibilità che oggi abbiamo è solo quella di occuparci di interventi scalarmente molto piccoli, a maggior ragione dobbiamo ricercare per essi una accresciuta portata strategica all’interno della città o in generale di qualsiasi contesto. Insomma, se quello che intendiamo fare è generare effetti ad una scala importante, pur avendo a disposizione mezzi drasticamente ridotti in tutti i sensi, allora forse occorre rifl ettere particolarmente sulla portata e sul tipo di processo che un progetto può portare dopo di sé, non soltanto attraverso di sé in se stesso.

D.DeM.: Il fi ne non è soltanto quello del costruire e quindi, quello del progettare per costruire, ma può essere quello di fare degli esperimenti. Gli strumenti sono tanti, vanno dal disegno al video, all’editoria, alle politiche, alle conferenze, al coinvolgimento, alla rete, alla relazione. Tutti questi sono strumenti, materiali, con cui è interessante ed è importante lavorare e danno veramente la possibilità a un ar-chitetto di relazionarsi con il territorio in cui sta lavorando o con il mestiere dell’architettura oggi. Il valore aggiunto sta proprio in queste cose ed è qui quindi l’uscita dalla crisi del proprio mestiere, della propria fi gura. L’architetto deve riprendere ad essere un cittadino attivo dotato di capacità di far rete e di convogliare energie, idee, ideali. Questa è una frontiera interessante.

A.M.: Secondo me la domanda che fate è un po’ strana. È strano chiedere se un architetto si può anche interessare di processi.In verità non esistono oggetti “da soli”. Qualsiasi cosa esiste in relazione con un suo proprio contesto, con una sua propria realtà. Qualsiasi cosa che noi facciamo appartiene ad un processo.Allora piuttosto che chiedersi se un architetto può anche interessarsi di processi, la mia domanda sa-rebbe: «ma come mai ci interessiamo ancora di oggetti?». Non ci siamo accorti che qualsiasi cosa che noi facciamo è comunque un processo, e che quindi possiamo affrontarla

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sia in termini dinamici, sia attraverso un intervento, ma solo riconoscendole questo stato?Se facciamo un oggetto che è una forma, ci riferiamo a dei processi ideologici, istituzionali, culturali; se ci occupiamo di fare un progetto che è più specifi catamente una questione alogica, dove non fac-ciamo quasi nulla, ci occupiamo di processi, di relazioni naturali; se ci occupiamo di qualcosa legato alle tasse, ci occupiamo di processi sociali.Secondo me qualsiasi cosa che noi facciamo come architetti dialoga con processi ad ogni scala e in ogni modo. Ed è proprio per questo che, come accennavo, il lavoro dell’architetto non è tanto quello del costruire, quanto quello di permettere che le cose trovino il loro posto, il che non ha niente a che vedere con il costruire.

A.C.: A proposito di processi, traspare in modo latente la necessità di allargare questi processi a chi ci sta attorno, anche a chi non appartiene direttamente o in maniera conclamata a ciò che da sempre determina l’architettura. L’istanza di democratizzazione può essere uno dei temi su come si crea e come si modifi ca l’architettura della città?

I.C.: Non so se ho comprendido bene. Ma sulla inclusione dei cittadini si possono fare più discorsi. Uno è il modo di chi fa inclusione e partecipazione cittadina senza cambiare posto, che è qualcosa molto in voga ultimamente, e che penso abbia molti limiti. Poi c’è la questione dell’introdurci in questa rete e fare il lavoro dei tecnici, degli architetti, ma in un altro modo, non in quello classico. E ancora, c’è la questione dell’investigazione, di come noi possiamo trovare il modo di capire come funziona la formazione della città.E così si deve parlare tanto dei cittadini attivi, quanto dei cittadini che non fanno niente per la città e che stanno su Facebook tutto il giorno. Si deve parlare di quali sono i desideri e i bisogni della città contemporanea, perché questo è buono sia per la città sia per noi tecnici. Per alcuni teorici americani, il fatto che tutti siamo a casa su Facebook è già partecipazione. Quello che possiamo dire è che la co-municazione è una questione fondamentale per il cittadino di oggi. Ma noi come architetti possiamo e dobbiamo fare in modo che sia la città il luogo della comunicazione.È una questione molto ambigua, perché si introducono nell’architettura questioni come la suscettibilità, le forme di vita, e molte cose di cui l’uomo “generico” di Le Corbusier-non stava parlando. Noi parliamo di una diversità amplissima a cui, come diceva Alessandro Martinelli, dobbiamo saper trovare il giusto posto nella città.

A.M.: Quello che è vero è che ogni cosa che viene fatta è nello stesso tempo fatta per una persona e per il resto della popolazione, e in questo senso è necessario sempre allargare l’architettura.È necessario avere una capacità di sintesi che renda evidente la complessità delle cose, e che contem-poraneamente renda comprensibili le cose. Questo costituisce la nostra etica professionale: essere capaci di renderci simili al mondo.

A.C.: Quello a cui mi riferivo, in effetti, non era un discorso sul dover fare dell’inclusione sociale a tutti i costi. Invece sottolineerei la necessità di imparare a imparare dalla realtà, cioè di capire esattamente dove peschiamo quando ci mettiamo davanti ad un problema. Capire dove guardiamo.

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A.M.: C’è una cosa che vorrei chiedere a Donatello, per il fatto che lui tende ad incontrare le persone molto più di me, che amo fare il topo di biblioteca. Quando scelsi la professione dell’architetto, la scelsi perché mi piaceva che mio padre andasse in giro ogni giorno ad incontrare gli operai del cantiere, poi i proprietari della casa, i funzionari del Comune. Soprattutto, ad incontrare persone per fare qualche cosa, non solo per parlare.E mi piacerebbe che Donatello aggiungesse qualche cosa su questo andare incontro alle persone, portarle in giro, spiegare. Il lavoro che è stato fatto a Bari, con le escursioni nel campo, è fantastico, perché è un lavoro di inclusione, ma allo stesso tempo è un lavoro di sintesi: non è una passeggiata fi ne a se stessa, ma è una passeggiata con un esperto capace di spiegare la realtà e far da mediatore. E questo sono sicuro che è un lavoro da architetto al mille per mille, perché grazie ad esso le persone capiscono meglio il vostro posto, e in questo senso la realtà è stata semplifi cata, non ridotta: è stata resa più accessibile.Penso a quando parlavi del lavoro che avete fatto sull’immigrazione, basandovi sul fatto che queste persone appena arrivate, messe sugli autobus, guardavano per la prima volta il mondo esterno attra-verso un fi nestrino.La scelta di compiere questa semplifi cazione e di far capire questa cosa del fi nestrino, è incredibile, e non so neanche se come architetto fare qualcosa a riguardo sia effettivamente il mio ruolo. Sicu-ramente è il ruolo del politico e dell’amministratore. Ma il tuo essere stato capace di entrare nella complessità di quei fenomeni sociali e politici, spiegarli e renderli accessibili a me architetto, questo secondo me è fantastico.

A.C.: Io direi che più ancora della semplifi cazione, intenderei il problema sul piano del discorso sul rin-novare gli strumenti. O ancora meglio, piuttosto che rinnovarli per comprendere una realtà che esiste a priori, un qualcosa che noi disveliamo, invece mi piacerebbe capire in che maniera gli strumenti, leg-gendo la realtà, possono rivelarne la complessità. Attraverso l’utilizzo di strumenti anche trasversali e inusuali, che non siamo soliti utilizzare, riusciamo addirittura a trovare ulteriori livelli della complessità. Quindi non si tratta di semplifi care la realtà, ma addirittura di renderla più complessa.

D.DeM.: Vi dirò di più, l’aspetto più interessante è proprio nell’uso degli strumenti e delle pratiche. In quel nostro lavoro a cui alludete c’è la pratica del camminare, che è la deriva urbana dei situazionisti. Poi c’è il cinema, quindi l’utilizzo dell’audiovisivo per raccontare questa camminata, che ha una regola, che è l’esplorazione di un territorio con sue complessità e sue caratteristiche.Poi c’è la terza fase, che è molto interessante e che solo il cinema ha, ovvero la proiezione pubblica. Io mi sono reso conto, attraversando le varie arti, che in realtà il cinema è l’arte che rileva qualcosa, ed è una delle arti più democratiche. È un’arte molto aperta al pubblico. Quindi proiettare qualcosa, magari qualcosa che riguarda sé stessi e un luogo, e proiettarlo alla gente che abita quel luogo, pro-duce un effetto interessantissimo. C’è un’apertura di questioni, di affezioni, e vengono fuori anche rifl essioni di tipo politico. Perché queste proiezioni sono pubbliche, alla presenza degli amministratori. Lo strumento dell’audiovisivo ha una capacità di produrre una visione che è fascinazione ma è anche critica. Su questo ho scritto anche una cosa per il giornale dello IUAV che si chiama L’urbanista con la mac-

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china da presa, sull’idea di utilizzare le potenzialità di uno strumento per raccontare affascinandosi, criticando e rilevando potenzialità.

A.M.: Io credo che il valore del lavoro di Donatello sia il fatto che lui utilizza ogni disciplina per quel-lo che può dare, riconosce a ognuna di esse il proprio contesto. E questa cosa permette un lavoro di sintesi. Donatello non sta facendo il panegirico dell’arte cinematografi ca, bensì spiega perché e in che campo può essere usata. È una cosa specifi ca. Poi parla della deriva situazionista e la usa operativa-mente per quello che quella cosa può fare. È molto bello. Il lavoro di Donatello può essere letto anche al contrario: non soltanto sugli effetti sociali, sulla capacità di spiegazione, ma al contrario come una rifl essione sulle discipline. E, nuovamente, questa possibilità di rimettere a posto le discipline, è un lavoro da architetto.

D.DeM.: Essì, mi hai scoperto! Non me n’ero reso conto nemmeno io, me l’hai fatto scoprire tu.

A.C.: Iago, volevo solo rilevare che voi spagnoli siete forse un po’ meno sensibili a questo tema della deriva artistica, tendenzialmente siete più pragmatici. Sbaglio?

I.C.: Sì, noi siamo più pragmatici, ma ci sono molte persone che stanno cercando anche altre vie rispet-to alla deriva artistica. È soprattutto un mondo pieno di varietà. Probabilmente, come dicevamo prima, c’è da una parte la questione delle discipline umanistiche, delle derive urbane, e dall’altra le forme di fare la professione. Per esempio, dopo molto pensare, Santiago Cirugeda arriva alla conclusione che è meglio prendere un camiòn… non so come si dice camiòn…

TUTTI: Uguale!

I.C.: …è meglio prendere un camiòn che spendere soldi per parte-cipare a concorsi o fare render. Un camiòn è più utile per fare l’architetto!La questione è, dopo tutta l’educazione che ci hanno messo in testa per diventare architetto, come fare a trasformare tutte le questioni personali e collettive, che sono fondamentali, in modi di fare architet-tura? Per me, questa è la battaglia.

A.C.: Disimparare a fare gli architetti?

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I.C.: Penso di sì, è una questione simile a quella dell’artisticità, è la questione della sog-gettività. Noi non sappiamo niente, ma sappiamo di pensare come cittadini soggettivamente e che molti di questi sentimenti soggettivi sono condivisi da parte della città.

D.DeM.: Forse è più il fare che il disimparare. Quando io ho visto il lavoro di Iago con Ergosfera l’ho anche invidiato (nel senso buono del termine). In Spagna lo scenario è molto pervaso dal lavoro collet-tivo, si creano gruppi d’azione, di gente che lavora nel campo, che fa le cose. Invece in Italia quando si fanno i gruppi sono sempre gruppi di confronto… di chiacchiera, insomma. Infatti penso al luogo in cui eravamo qui a Bari con L7 durante il workshop, e pensavo: «i ragazzi dovrebbero prendere dei copertoni da una discarica e costruirsi un posto dove stare, con la loro identità». Invece non ce la si fa, ma non per mancanza di capacità o volontà: è un modo diverso di vedere le cose.Ecco perché poi nascono sempre questi dubbi: perché noi ci aspettiamo qualcosa dal mestiere, dal fare l’architetto, che forse non esiste più. Secondo me c’è molto da imparare dal modo in cui si fa architettura in Spagna. Prendere la patente C anziché quella di 3DStudio Max, comprare l’avvitatore automatico invece della tavoletta grafi ca… In Italia queste cose accadono nei luoghi di autogestione, che però sono ghettizzati e a loro volta si ghettizzano. Sono gruppi chiusi. Poi dipende dalle città, ad esempio a Bologna i centri sociali in cui si identifi ca molto l’autocostruzione e l’autodeterminazione sono spazi pubblici aperti. Invece in altre città, come Milano, sono molto più chiusi e quindi c’è un’operatività diversa.Che facciamo, lasciamo andare Iago?

A.C.: Iago, tienes que irte, no?

I.C.: Sì. Penso che sia vero che in Spagna ci sono molti gruppi che stanno lavorando, e dopo dieci anni cominciano a vedersi i problemi di questi gruppi: dobbiamo pensare a problemi economici e a come siamo educati in termini di gerarchia, di proprietà delle idee, che sono tutte collettive. Bisogna far sì che l’individuo e il collettivo pos-sono lavorare simultaneamente. Questa diversità di modi di vedere di cui parlavate prima comincia a emergere nei gruppi di lavoro. Ci sono collettivi che hanno un enorme desiderio comune e che permettono anche differenze interne per far sì che ci sia possibilità di trovare reti eco-nomiche, di contatti sociali per trovare problemi urbani, materiali su cui lavorare. Penso che questo sia un periodo molto interessante, perché cominciano ad apparire questi problemi. Abbiamo domande sul tavolo.

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76Intervista

© Salvatore Gozzo, Parco Lineare, progetto Studio NOWA, Caltagirone (2003)

la Redazione L7Intervista all’Arch. Marco Navarra

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Redazione L7: Cominciamo dal principio: ovvero, capiamoci sulle parole.Bisogna che ci sveli da dove origina la scelta del nome Nowa. Cos’è un’architettura “camminante”?

Marco Navarra: Potrei dire che il nome deriva sostanzialmente dal progetto del Parco Lineare tra Caltagirone e Piazza Armerina e dall’esperienza che questo progetto ha apportato allo studio Nowa, cambiandone in qualche modo la rotta, l’atteggiamento, il metodo di lavoro, insomma il modo di pen-sare il progetto di architettura. Questa esperienza di progetto, attraverso la successiva costruzione del parco, in qualche modo ci ha fatto scoprire un’architettura “camminante” come architettura dell’incontro che, uscendo dai limiti disciplinari tradizionali, cerca di incontrare il mondo sco-prendo i suoi caratteri, le sue specificità che a volte sfuggono ad un occhio concentrato su una visua-le settoriale. E soprattutto, ci ha portati a capire come attraverso il camminare si acquisisca una diversa dimensione del tempo, intesa come capacità di ascolto degli elementi, come capacità di registrazione dei caratteri dei luoghi persino nei loro aspetti più banali, perché spesso di-ventano fattori caratterizzanti dei paesaggi contemporanei.

È molto interessante che questo cambio di riflessione sia venuto da un progetto e non prima di un progetto. Che cosa un progetto può insegnare ad uno studio di architettura? Cosa viene, in termini di riflessioni, prima di un progetto, cosa viene durante, e cosa dopo?

Ciò che è accaduto in questa esperienza è che, dopo un primo momento di minor consapevolezza, ci siamo trovati a dover cambiare radicalmente l’idea del progetto tradizionale, un’idea fondata sulla convinzione che il progetto venga tutto prima di una costruzione; invece, si può dire che con questa esperienza il progetto è continuato anche durante il cantiere e dopo di esso. Peraltro, quest’opera è stata realizzata solo parzialmente, e quindi questo ci ha fatto scoprire come a volte i progetti possano avere un’efficacia pur nella loro incom-piutezza. In effetti ciò che abbiamo realizzato sono 10 dei 35 kilometri previsti, ma la natura del progetto era tale da far funzionare quei 10 kilometri già nella loro consistenza, dandoci lo spazio per continuare a pensarci e a lavorarci anche dopo questa prima fase. Grazie a questa esperienza abbiamo preso coscienza di come oggi sia insostenibile l’idea di un progetto che controlla la successione degli eventi e delle dinamiche che si verificheranno dopo, e come invece sia fondamentale rompere questa convinzione a favore di un movimento di andata e ritorno continuo, capace di aprire il progetto ad una dinamica processuale piuttosto che a metodi asfitticamente formalistici.

In effetti, riflettendo sulla domanda che stavamo per porle intorno all’“architettura camminan-te”, abbiamo tentato di rispondervi noi stessi. Questo camminare come pratica operativa, tutto sommato, ormai va un po’ di moda, ed è stata tra l’altro oggetto anche di alcuni libri di successo. E ragionavamo sul fatto che, come lei stesso diceva riferendosi al Parco Lineare, si tratta di rapportarsi al contesto in maniera diversa rispetto al passato: mentre prima ci si riferiva ad esso come ad un materiale di progetto da usare in forma mimetico-stilistica, adesso si guarda al contesto attribuendogli una serie di altri significati, di altri contenuti. Se volessimo riassumere tutto questo in una formula, che cos’è adesso il contesto nel progetto, e come si usa, se non più come in passato?

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Io ritengo sia opportuno definire il contesto come un campo di energie dentro il quale il progetto inserisce delle dinamiche che attivano reazioni di altre forze. In questo senso il progetto si limita, con la sua azione, ad innescare delle interferenze e non può assolutamente pensare di controllare queste dinamiche; può invece pensare di attivare dei processi, degli orizzonti e delle direzioni nuove che mettano in moto meccanismi in grado di attivare delle conseguenze in una situazione “periferica”, di orizzontalità. E tutto senza questa idea assolutamente modernista del con-trollo del mondo, frutto di una impostazione positivista che pretendeva, una volta conosciute a fondo le regole della natura o dell’universo, e di fornire risposte certe e assolute, in modo da risolvere una volta per tutte le questioni dell'abitare e con esse tutti i problemi connessi all’uomo: dagli oggetti, agli spazi dell’abitazione, a quelli della città. Era un modello anche gerarchico, scalare. Il concetto di contesto come campo di energia rompe anche l’idea di una progressione scalare dal grande al piccolo e viceversa, e lavora invece sui salti di scala, sui fuori scala e sui passaggi veloci. Lavora sul tenere insieme velocità diverse. Tornando all’idea del camminare, spesso essa ha in effetti avuto successo in questi anni, però in un modo un po’ ideologico, come contrapposizione alla velocità. Al contrario, credo che la cosa più inte-ressante sia proprio tenere insieme velocità diverse.

Altrimenti si rischia la demagogia.

Si tratta di riuscire invece ad attivare nei momenti giusti la lentezza e in altri momenti la velocità, con un l’atteggiamento che sposta le chiavi del progetto a seconda dei casi. Io sono anche molto convinto che il progetto contemporaneo debba essere un progetto meno fondamentalista e ortodosso degli anni passati, anni in cui ci si schierava per delle posizioni nette, di conservazione, di novità, facendo tabula rasa del resto a tutti i costi. Invece penso a un progetto laico che nel momento opportuno sappia usare strumenti diversi. Cioè che sappia usare secondo le necessità il restauro o la ricostruzione filologica, contemporaneamente, alla costruzione ex novo. La cosa più importante è venir fuori dal meccanismo classico, entrando in campi di energia dove individuare le condizioni necessarie per attivare la risposta migliore.

Probabilmente questo è anche il senso di una qualche forma di democratizzazione della funzione dell’architetto. Si può azzardare che ci stiamo avvicinando a qualche processo che possa portare a una definizione democratica del nostro agire. A tal proposito, cosa pensa dell’autocostruzione? Cosa può voler significare in termini di democrazia urbana? Rientra nel discorso che abbiamo appena fatto sulla caduta di certi fondamentalismi del pensiero degli architetti?

Sì, sicuramente oggi “democrazia” è una parola molto…

… difficile?

Difficile da utilizzare, soprattutto se pensiamo alle cronache di questi mesi: dopo un referendum che porta all’attenzione il tema dei beni comuni, accade che dei movimenti della borsa obblighino ad una manovra economica che invece va nella direzione della vendita dei beni pubblici per fare cassa e risol-vere i problemi del bilancio dello Stato.Lo stato della democrazia, diciamo, “formale” versa oggi in uno stato di crisi assoluta, fenomeni di globalizzazione della finanza e dell’economia. Però, credo che come il potere non corrisponde più ad

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© Peppe Maisto, Parco Lineare, progetto Studio NOWA, Caltagirone (2003)

© Peppe Maisto, Parco Lineare, progetto Studio NOWA, Caltagirone (2003)

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© Salvatore Gozzo, Parco Lineare, progetto Studio NOWA, Caltagirone (2003)

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un soggetto ben preciso (per dirla con Foucault, il potere è un dispositivo orizzontale diffuso), così forse le forme di democrazia non nascono da nodi precisi. Perciò ritengo che l’azione democratica e le possibilità di un progetto diverso sfuggano alle logiche formali della democrazia, e possono inne-scare dei cambiamenti solo lavorando sugli interstizi. Se prendiamo in considerazione le dinamiche del web, possiamo notare come l'azione degli hacker occupa spazi interstiziali nella rete o luoghi borderline dove è possibile agire con maggiore libertà. Allo stesso modo, in Italia abbiamo avuto un’esperienza di spazi del cambiamento a partire dall’interno delle stesse istituzioni: mi riferisco per esempio all'azione di Franco Basaglia che attraverso un tenace lavoro dentro le norme ha portato alla legge 180 con la conseguente chiusura dei manicomi. Si tratta di lavorare non in aperta con-trapposizione al potere costituito, bensì inserendosi in quelle zone grigie della società che ne favoriscono trasformazioni e spostamenti.L'esperienza di Basaglia suggerisce un modello in cui la democrazia dal basso nasce negli spazi che si riescono a ricavare tra le pieghe dei regolamenti. Questo, nelle città contemporanee, è un modo fertile di pensare il cambiamento attraverso l’attivazione di forme democratiche alternative che si sviluppano grazie a luoghi e spazi inesplorati.

Stiamo da tempo discutendo proprio di questa opportunità/necessità di lavorare al bordo dei re-golamenti e delle norme per studiarne la forma, nell’idea che operare al margine di esse significhi poter tentare di agirvi su, o quantomeno di capire se sono arrivate a una “scadenza”, se quindi è giunto il momento di una loro evoluzione. Ci pare però che lavorare così come architetti signifi-chi, alle volte, rischiare di produrre interventi così strategicamente piccoli che sulla scala urbana abbiano, nei fatti, un’interferenza molto marginale. Secondo lei, questo modo un po’ informale di progettare – col quale abbiamo cercato di impostare anche il nostro workshop – può comunque lasciare ai progetti la possibilità di raggiungere un peso interessante nelle dinamiche urbane, o si rischia invece che disperdano la loro carica in un impatti troppo polverizzati?

Si tratta di intraprendere forme di azione capaci di spostarsi contemporaneamente su più livelli. Al-trimenti, in effetti, si rischia di restare confinati in azioni marginali, incapaci di incidere su processi importanti. L’obiettivo di queste operazioni è proprio quello di non esaurirsi su se stesse, bensì di atti-vare dinamiche diverse. Perché ciò avvenga, bisogna essere in grado di agire su vari registri di gestione dell’evoluzione della città, penetrando profondamente il dinamismo dei cambiamenti urbani esistenti. Il nostro lavoro ha a che fare anche con lo spostamento delle risorse e dei capitali: per questo credo che, se è vero che azioni di questo genere, se rimangono chiuse in se stesse rischiano di essere marginali, è anche vero che quando riescono ad intrufolarsi dentro dinamiche complesse, possono assumere la forza di stimolare il cambiamento culturale e sociale pro-fondo. L'attivazione di questi processi, come laboratorio aperto di trasformazione, permette di rinnovare gli strumenti del progetto di architettura, come laboratorio aperto di trasformazione. Da questo punto di vista possono essere utili ed anche più efficaci di un progetto tradizionale.

Emerge sempre più chiaramente come il progetto di architettura stia progressivamente perdendo il suo carattere di problema riguardante forme “sensibili”, per diventare sempre più una que-stione di programmazione degli usi. Il nostro mestiere, in altre parole, sta diventando quello di designer di dinamiche più che di oggetti.

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Come si modifica un simile modo di operare, a seconda che ci si trovi a doversi confrontare con contesti stratificati o in spazi di risulta? Ritiene che i luoghi con identità consolidate si prestino ad accogliere progetti più programmatici? E che invece le aree residuali richiedono un approccio mirato alla costruzione di significati tramite interventi propriamente “fisici”?

È il caso di cui parlavamo prima: la forza di un progetto sta nella capacità di scegliere atteggiamenti diversi a seconda dei casi, nella consapevolezza di essersi finalmente liberati dall’osses-sione della forma come risultato finale. Ciò non toglie che noi ci occupiamo del progetto come trasformazione fisica e perciò di quelli che sono gli elementi costitutivi delle forme e degli usi dell’abitare. Non si tratta di una rinuncia rispetto alla trasformazione, si tratta di pensarla in modo diverso: un modo, appunto, in cui le forme diventino strumenti per raggiungere risultati. In questo aspetto emerge la nostra specificità, perché altrimenti potremmo confonderci con altre figure e con altre discipline. La nostra tipicità è proprio quella di avere degli strumenti specifici che sono capaci di leggere le forme fisiche e il loro utilizzo, per poi poter inserire elementi nuovi in dinamiche differenti. In altre parole, il progetto non può essere una rinuncia totale alle forme. La differenza sta nel pensare di essere liberi rispetto al risultato finale, al controllo sul risultato finale. In questo senso è importante fissare questi presupposti, che diventano anche una condizione di specialità del nostro lavoro e del nostro contributo alla società.

Ci viene in mente un caso barese. Si tratta di Piazza Risorgimento1, un piccolo spazio davanti a una scuola elementare (un progetto esposto anche nell’ultima Biennale, del gruppo ma02). La sua particolarità era di avere panchine rotanti intorno a uno dei loro piedi, capaci di assumere configurazioni diverse. Un progetto semplice, che possedeva però quantomeno questa minima interattività nei confronti dell’utenza. Bene, il progetto non è stato capito né dalla popolazione né dall’amministrazione, tanto che, in pochi mesi, quest’ultima è intervenuta per bloccare le panchine in una posizione fissa allo scopo di prevenire atti giudicati di vandalismo.

Le panchine hanno funzionato per qualche tempo?

Sì, ma il blocco ci è sembrato l’amara metafora di questi piccoli progetti coraggiosi, che si ac-contentano di provocare effetti limitati pur di lavorare sulle comunità. L’amministrazione non ha capito, sebbene professi la voglia di impostare processi di partecipazione – che ci paiono però alquanto estemporanei.

E voi siete andati a svitare, a smontare? [Ci incalza sorridendo, N.d.R.]

Touché! Non ci abbiamo pensato.

In questi casi non c’è alternativa. Purtroppo una cosa è certa: non possiamo pretendere che le amministrazioni capiscano tutto. Sicu-ramente il lavoro sull’interstizio normativo comporta delle azioni borderline che possono diventare anche dirompenti nel momento in cui rivelano contraddizioni. È importante per un progetto portare alla luce anche problemi e contrasti, persino in questo genere di condizioni limite in cui il meccanismo che si è creato non funziona più.

1 Piccola piazza di forma rettangolare, Piazza Risorgimento, nella parte mu-rattiana della citta’. Volumetricamen-te la piazza e’ individuata sul fronte lungo da un lato dalla monumentale facciata della scuola media, recen-temente recuperata, dall’altro da un asse stradale che porta dritto fino alla facciata del celebre teatro Petruzzelli.Per ricercare un’asimmetria gli em-meazero propongono un inedito si-stema di sedute girevoli incernierate a terra, su un lato, e libere di ruota-re descrivendo traiettorie circolari, sull’altro. Il dispositivo e’ un esplicito riferimento alle vecchie giostre dei playground per bambini. La posizio-ne delle cerniere a terra e’ distribuita casualmente, in modo da moltiplicare le possibilita’ di combinazioni tra le sedute; l’illuminazione e’ disposta in modo tale che i lampioni non ostaco-lino la rotazione delle panchine.

2 I romani emmeazero/ma0 concepi-scono l’architettura come un “sapere di mezzo” a cavallo tra diverse disci-pline e geografie del territorio, come un sistema di regole spaziali capaci di produrre e modificare le relazioni tra spazi e abitanti, tra pubblico e privato, tra interno ed esterno, tra artificiale e naturale, reale e virtuale.

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Piazza Risorgimento, progetto © Studio ma0, Bari (2002-05)

Piazza Risorgimento, progetto © Studio ma0, Bari (2002-05)

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© Peppe Maisto, Giardino-Arena al Tempio, progetto Studio NOWA, Caltagirone (2006)

© Peppe Maisto, Giardino-Arena al Tempio, progetto Studio NOWA, Caltagirone (2006)

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Da questo punto di vista i progetti possono porre delle domande, inne-scare dei conflitti ben al di là degli esiti previsti. Se non siamo affezionati alla forma, tutto sommato non ci interessa che il progetto funzioni perfettamente per come lo avevamo pensato. Chis-sà, forse, alla fine dei conti, il progetto della vostra piazza ha funzionato di più proprio perché hanno bloccato le panchine…

E allora, se la mettiamo in questi termini, perché non rileggere un suo progetto secondo le nostre chiavi di interpretazione? Quando ci siamo dati il tema “Architettura 0”, abbiamo deciso di ca-ratterizzarlo in cinque aspetti indipendenti ma, al tempo stesso, concatenati: quello morfologico del Volume 0, ormai di dominio comune grazie agli scritti di Aldo Aymonino e alla Biennale, che ha così nominato una delle installazioni del Padiglione Italia nel 2010; quelli di Budget 0 e Tecnologia 0, dirette conseguenze dei temi legati alla crisi economica; quello dei Km 0, che noi abbiamo declinato come una questione relativa sia alla sostenibilità attraverso l’uso di materiali locali, sia in generale alla specificità di un intervento informale rispetto al luogo in cui esaurirà la sua esistenza; e infine quello del Tempo 0, in relazione all’esistenza di interventi dotati di una data di scadenza già alla nascita, e dunque della loro capacità di lasciarsi definire “architettura effimera”.

Tra tutti questi zeri verrebbe da pensare… zero progetti! [Ridiamo, N.d.R.]

E no! “Architettura 0”, non zero architettura!

Se togliamo tutto, speriamo resti almeno il compenso del nostro lavoro…

Beh, abbiamo parlato di Budget 0… : purtroppo ci fa preoccupare anche questo!Allora, vogliamo fare questo tentativo?

Dunque, direi che un progetto che tiene insieme varie chiavi è il Giardino-Arena al Tempio, a San Michele di Ganzaria (Catania). Innanzi tutto, si confronta con un volume esistente che è la discarica abusiva di sfabbricidi edilizi, ma si tratta di un volume casuale, derivato dalla stratificazione degli scarti. Ha a che vedere coi concetti di Km e Tecnologia 0 legati al massimo risparmio sul trasporto dei materiali e al fatto che l’idea guida è stata quella di riutilizzare dentro il progetto un’economia di mezzi permessa dalla scelta di una tecnologia elementare di contenimento per il volume di terra ottenuto dalla bonifica della discarica. In questo modo si è risparmiato sul trasporto e sui costi della discarica.Per quanto riguarda l’indicatore di Tempo 0, posso senz’altro dire che il progetto è diventato un attivatore di confronto tra tempi diversi e che è forse proprio in questo aspetto che dimostra il suo maggiore interesse. Da un lato, infatti, si è basato su un aspetto collegato a un tem-po breve, che è quello della discarica, mentre dall’altro si è innestato in un ciclo lungo, abbiamo dovuto ragionare sul ciclo delle acque, prevedendo una sorta di grande imbuto che raccoglie le acque piovane, ma anche, appunto, sui tempi lunghi delle forme naturali, delle piante che ad ogni stagione vanno ad occupare spontaneamente il sito, formando panorami variabili in base alla prevalenza di certi arbusti rispetto ad altri. Tutte queste dinamiche si sono inserite nei tempi brevi del lavoro di progettazione, riuscendo a convergere con essi. Ritengo quindi che si possa parlare di un progetto che fa da nodo ed interseca diverse condizioni, tutte per lo più interessanti sotto questo punto di vista.

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Torniamo in ambito decisamente urbano, per un’altra domanda a bruciapelo: vorremmo conosce-re la sua posizione intorno alla questione del margine. A suo parere, cosa dobbiamo aspettarci dall’evoluzione della città? I vecchi margini, costruiti per essere tali, sono destinati a diventare nuovi centri, oppure esiste un’identità di margine che rimane e deve rimanere tale?

Credo che quello del margine, oggi, sia un falso problema. La dimostrazione più evidente la si ha, sem-plicemente, attraversando il Veneto della città diffusa. Forse nelle città meridionali abbiamo ancora l'illusione che non sia cambiato niente perchè rimane una differenza e un passaggio apparente tra città e campagna; tuttavia, le persone che vivono in queste aree non possono più dirsi appartenenti a quel solo territorio, perché in realtà appartengono a più comunità locali contemporaneamente: comunità che si formano durante i loro viaggi, nei luoghi dove vanno a studiare, nei social network. Ormai si è sempre in mezzo a qualcosa, non più al margine di qualcosa.

Si tratta insomma di domini di intersezione tra influenze.

Sì. Prova ne è che non esistono più davvero centri di riferimento o periferie. Non esiste più una grande città nel senso in cui intendevamo New York negli anni '60-'70, o Parigi nei primi del ‘900. Al di là delle apparenze fisiche che ci possono indurre a rilevare che ci sono un centro storico e una periferia, queste condizioni sono in realtà state scardinate dall’interno, dalle forme date loro dalla vita delle persone che ci vivono.

Stiamo dicendo che non esiste più gerarchia tra centri e periferie, tra nodi e margini?

Se esiste, è solo perché c’è qualcuno che di tanto in tanto si ostina a ri-costruirla. Si può dire che ormai l’unica cosa reale di questi fenomeni sia la loro rappresentazione.

A questo punto, non crede che la pianificazione e la politica siano indietro su queste questioni? Obiettivamente, anche leggendo i piani di nuova generazione o le loro previsioni programmati-che, emerge chiaramente che ad oggi non c’è una consapevolezza forte del fatto che le gerarchie stiano perdendo di senso così rapidamente. Per lo più, anche nei nuovi strumenti, si parla ancora di periferie, e tutto sommato quasi sempre con riferimento alle stesse logiche classificatorie.

Sì. Scontiamo questa inerzia e l’arretratezza causata dalla proiezione di vecchi modelli su una realtà che sta andando in altre direzioni, e che quindi diventa incomprensibile. Molti progetti e molti piani sono la rappresentazione di una realtà che non c’è più, e rendono illeggibile quello che invece è l’attuale stato delle cose. Un esempio è quello degli strumenti urbanistici di Messina: essi non riescono a vedere la città continua che si è costruita da lì fin quasi a Taormina, e continuano a parlare di borghi marinari e illusorie centralità locali. Nel frattempo, la gente si muove quotidianamente andando da una parte all’altra e vive questa città in modo chiaramente diverso dalle nomenclature che l’urbanistica cerca di attribuirle.

Con una certa nostalgia anche nella terminologia, se vogliamo.

Decisamente.86

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© Peppe Maisto, Giardino-Arena al Tempio, progetto Studio NOWA, Caltagirone (2006)

© Peppe Maisto, Giardino-Arena al Tempio, progetto Studio NOWA, Caltagirone (2006)

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© Peppe Maisto, Giardino-Arena al Tempio, progetto Studio NOWA, Caltagirone (2006)

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E dunque, il problema non è la presenza dei margini. Piuttosto, il problema è come lavorare sulla città alla luce della consapevolezza che questi non esistano.

Proviamo a elaborare una visione? (Ovvero: ora che si è posto questa domanda, si dia una risposta!)

Non è facile superare un’inerzia culturale. Se vogliamo, è come l’obsolescenza delle nostre case: ormai si vive in un certo modo, ma lo si fa in case vecchie di cinquant’anni, in cui c’è ancora il corridoio tra le stanze, mentre le forme di vita che vi si svolgono all’interno sono del tutto diverse. In qualche modo, anche le città sono in queste condizioni. Il nostro compito è quindi quello di affrontare queste nuove condizioni e di occuparci di tutte quelle parti che possono essere più facilmente trasformabili. Un lavoro potrebbe appunto essere quello di descrivere le parti sulle quali ancora si può agire. Osserviamo gli scarti, ciò che in questo momento sembra non essere utile al fun-zionamento delle nostre città. Per esempio in Veneto (e lo cito spesso perché ci stiamo lavorando su) c’è un problema che riguarda una volumetria di capannoni enorme, residuo di quello che è stato il capitalismo molecolare degli anni ‘80, che ha costruito seguendo un trend di crescita del prodotto in-terno lordo del 20% all’anno. Tutto questo ha generato una quantità di volumetria di capannoni quasi equivalente al costruito residenziale delle città e di cui ora quasi il 35% è abbandonato.

In effetti, pur nelle debite proporzioni, la situazione a Bari è analoga. In particolare, tra i piani dell’amministrazione comunale c’è l’idea di aumentare ulteriormente la stazza di quest’area indu-striale, già oggi abbandonata per metà, per convertirla in un interporto sui cui destini aleggiano svariate ombre. L’operazione ci lascia forti dubbi per il notevole potenziale autodistruttivo che gli viene dalla assoluta sproporzione rispetto alla dimensione della città abitata e che probabil-mente ne preannuncia il fallimento.

In questi contesti, bisognerebbe recuperare il paesaggio perduto, imparare a guardare a que-sti oggetti in maniera disincantata per capire se e come possono diventare qual-cos’altro, una risorsa, un futuro per i nostri territori. Quello che stiamo facendo in Veneto, in effetti, è lavorare facendo un censimento, per provare anche a conoscere la natura di questi oggetti.

[Sorridiamo tutti, N.d.R.] Lo sa, architetto, che questo è proprio il tema del prossimo numero di Ellesette?

È un tema caldo. Noi abbiamo deciso di affrontarlo utilizzando gli strumenti tradizionali del rilievo e del ridisegno, della catalogazione e della classificazione, cercando di capire quali sono i caratteri che distinguono un capannone da un altro, o ciò che è nato accanto e tra di essi. In questo modo proviamo anche a misurare i limiti di questi strumenti pronti a sperimentarne degli altri per leggere e descrivere ciò che sembra sfuggire.Noi, assieme allo IUAV, abbiamo fatto un workshop in cui abbiamo condotto un censimento su un’area di studio di Bassano del Grappa (Vicenza), che ha coinvolto circa 300 capannoni. Li abbiamo ridisegna-ti, e poi proposto una serie di lavori di trasformazione. Ogni lavoro è poi confluito in un libro pop-up che raccontava il passaggio dallo stato di fatto ad una complessità di trasformazione. Si tratta di una materia di assoluta attualità, con sviluppi tutti da scrivere. Buon lavoro!

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suggestioni

LIBRIPaolo Desideri, Massimo Ilardi (a cura di), Attraversamenti. I nuovi territori dello spazio pubblico, Costa & Nolan, Genova, 1997

Aldo Aymonino, Valerio Paolo Mosco, Spazi pubblici contemporanei. Architettura a volume zero, Skyra, Milano, 2006Francesco Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Einaudi, Torino, 2006

Koh Kitayama, Yoshiharu Tsukamoto e Ryue Nishizawa, Tokyo Metabolizing, TOTO, Tokyo, 2010Emilio Baccarini, Andrea Bonavoglia e Aldo Meccariello (a cura di), Ripensare la città, Punto Rosso, Milano, 2010

Netherland Architecture Institute (NAI) (a cura di), Vacant NL - Where Architecture Meets Ideas, 2010Mario Lupano, Luca Emanueli, Marco Navarra, LO-FI: Architecture as curatorial practice, Marsilio, Venezia, 2010

RIVISTE + ARTICOLIJean Baudrillard, Kool Killer o l’insurrezione mediante i segni, in “Lo scambio simbolico e la morte”, Feltrinelli, Milano, 2007

[L’échange symbolique et la mort, 1976]Valerio Paolo Mosco (a cura di), Antologia: Manuel Gausa, Wes Jones, Ilhyun Kim, Kengo Kuma, Luca Molinari, Juan Purcell, Denise Scott

Brown, Vittorio Sermonti, James Wines, in “Area” n. 111, luglio/agosto 2010Aldo Aymonino, Valerio Paolo Mosco, Zero cubatura per un’architettura ancora pubblica, in “Area” n. 111, luglio/agosto 2010

MANIFESTIRoy Ascott, The architecture of cyberception, 1994

Bruce Mau, An incomplete manifesto for growth, 1998Hans Hollein, Alles ist Architektur, in “Bau” n.1/2, 1968

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