Elementare, Chaplin! (assaggio)

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E se Charlie Chaplin avesse lavorato con Sherlock Holmes? Un noir accattivante in cui compaiono anche personaggi come Oscar Wilde e Albert Einstein.

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de te fabula narratur

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Rafael Marín

Elementare, Chaplin!

Traduzione dallo spagnolo di Mariana E. Califano

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Titolo originaleElemental, querido Chaplin

Edizione originaleEdiciones Minotauro, Barcelona 2005

Copyright © 2005 Rafael Marín Trechera

Copyright © 2012 Meridiano Zero di Odoya srlTutti i diritti riservati

Pubblicato in accordo con Studio Grimorio

isbn 978-88-8237-252-1

Progetto grafico di copertina: Meat collettivo grafico

Realizzazione grafica: Nicolas CampagnariCoordinamento editoriale: Caterina Ciccotti

Revisione di traduzione: Jadel AndreettoRedazione: Ariase Barretta

Meridiano Zerovia Benedetto Marcello 7

40141 – Bolognawww.meridianozero.it

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“Rafael Marín è uno dei quattro o cinque migliori romanzieri dell’attuale panorama letterario fantastico spagnolo, e suoi sono due dei migliori romanzi di fantascienza pubblicati in Spagna negli ultimi vent’anni.”Dreamers

“Un romanzo che potrebbe essere descritto come fantastico storico, ucronia o fantastoria… o di un genere particolare noto come ‘pastiche holmesiano’, ma la cosa più accattivante è che rilancia la domanda delle domande: Sherlock Holmes è esistito davvero? E Watson e Conan Doyle erano i suoi cronisti? O no?”Alejandro Guardiola

“In Elementare, Chaplin! l’immaginazione feconda di Marín fa coesistere il giovane Charlie Chaplin con il re dei detective, l’infallibile Sherlock Holmes, in una serie di avventure che li porteranno ad affrontare il cattivo più famoso di tutti i tempi – il Fu Manchu di Sax Rohmer – e viaggiare fino a Ginevra per sventare i piani di dominio del mondo di una pericolosa setta che ha rapito niente meno che Albert Einstein.”El lector impaciente

“Un’opera inclassificabile, colma di humour e citazioni, dalla mano di uno dei migliori autori di fantascienza spagnoli.”Sedice.com

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Prologo

A metà autunno dell’anno 2000, in concomitanza con Halloween (quella festa pagana che tutto invade e contro la quale ogni rea-zione tradizionalista contraria ha perso la battaglia in partenza), un gruppo di scrittori spagnoli, tra cui il sottoscritto, è stato invitato al festival Utopiales di Nantes. Le possibilità di un autore di letteratura fantastica in lingua spagnola di venire riconosciuto sono in generale così scarse, anche nel mio paese (anzi, soprattutto nel mio paese), che quei cinque o sei baciati dalla fortuna hanno accolto l’invito con più scetticismo che gaudio: non immagina-vamo proprio che ci saremmo ritrovati lì.

Dopo un viaggio degno di Indiana Jones, nel quale sono stato costretto a saltare da un aereo all’altro senza mai la certezza di arrivare a destinazione (non parlo una sola parola di francese e la bella hostess bionda che mi assisteva in un bimotore sul quale ero l’unico passeggero non capiva né lo spagnolo né l’inglese… immaginate quanto fosse surreale la situazione: mi ero perso su un aereo che non era diretto dove dovevo andare ed ero nelle mani di qualcuno che non sapeva dove doveva farmi scendere – o buttarmi giù – perché potessi arrivare dove dovevo), sono sbarcato a Nantes e ho avuto finalmente l’opportunità di rincontrare vecchi amici, col-leghi scrittori che di solito non vedo più di una o due volte l’anno, considerata la distanza delle nostre ubicazioni geografiche: Cadice, Gijón, Madrid, Barcellona e Valencia. Le cose in comune sono così tante che l’allegria per esserci ritrovati ci ha fatto riprendere la

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conversazione praticamente dal punto in cui l’avevamo interrotta sette o otto mesi prima. In genere, uno dei nostri argomenti ricor-renti è l’ammirazione che nutriamo per gli scrittori tardovittoriani che hanno dato forma al fantastico così come oggi lo conosciamo: H.G. Wells e il suo socialismo intelligente; Oscar Wilde e il suo invidiabile dilettantismo, Bram Stoker e le sue insicurezze, superate solo grazie alla scrittura di un romanzo inclassificabile; o il francese Jules Verne, nato proprio lì a Nantes, in fin dei conti forse l’autore che, come per tanti prima di noi, ci fa tenere viva la fiamma della scrittura ben oltre i mondi triti e ritriti che assoggettano la lette-ratura agli andirivieni già transitati dalla Storia. Inevitabilmente, e senza alcun bisogno di una precisa e diretta relazione, finiamo sempre per parlare di Sherlock Holmes.

Se personalmente non mi ero mai azzardato a tentare la fortuna con il cosiddetto “pastiche holmesiano” (vale a dire la combi-nazione dei casi di Sherlock Holmes con personaggi storici o letterari più o meno celebri, da Karl Marx a Sigmund Freud), il mio caro amico Rodolfo Martínez si era già messo alla prova in questo genere, con un racconto lungo e un vero e proprio ro-manzo. Nell’atrio del lussuoso albergo nel quale alloggiavamo, mentre accanto a noi sfilavano autori di fantascienza americani che ammiravamo o detestavamo fin dall’infanzia, Rodolfo ha do-vuto riconoscere a malincuore, davanti al petit comité, quanto già sospettavo da tempo. Se il racconto Desde la tierra más allá del bosque (Dalla terra al di là del bosco) è in buona misura farina del suo sacco, il suo eccellente romanzo Sherlock Holmes y la sabiduría de los muertos (Sherlock Holmes e la saggezza dei morti) narra fatti veri e comprovabili.*

In pochi sono al corrente, o sono in grado di accettare, che

* Entrambe le storie sono state ripubblicate nel volume Sherlock Holmes y la sabiduría de los muertos (Bibliópolis, 2004). Ciononostante, per qualche mistero che potrebbe rivelarsi la chiave di futuri enigmi, Rudy Martínez ha nuovamente modificato alcuni dati relativi al lascito di Holmes e a quel particolare caso.

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Sherlock Holmes non sia solo un personaggio di finzione, bensì uno straordinario caso di essere umano eccezionale, una leggenda la cui grandezza ci costringe a considerarlo come un’entità imma-ginaria. Il gruppo degli Irregolari di Baker Street, al quale forse lo stesso Rodolfo Martínez appartiene, ne è invece ben consapevole e, come una società segreta, si occupa ancora oggi di sbrogliare i casi del detective mai resi pubblici al tempo dal suo biografo ed esecutore testamentario, il dottor John Watson. Per comodità, il resto del mondo preferisce credere che Sherlock Holmes, la sua spalla e la sua cerchia siano affabulazioni di un altro dottore in medicina e cultore delle fate, tal Sir Arthur Conan Doyle.

Né Juan Miguel Aguilera né Armando Boix né Javier Negre-te né Julián Díez né io abbiamo battuto ciglio davanti a quella rivelazione che Rodolfo ci aveva appena fatto. Dal canto mio, ho finito il Jameson con ghiaccio che stavo bevendo e gli ho domandato a bruciapelo: – Un altro caso vero, dunque? – Una breve pausa drammatica è sempre efficace quando si fa lezione a un pugno di adolescenti, e lo è altrettanto quando si vuole deviare una conversazione interessante verso un argomento da togliere il sonno. – È vero che un tuo amico ha scovato il manoscritto da un antiquario di Soho, come dici nel tuo libro, o l’ha trovato nel caveau di una banca come nel film di Billy Wilder?… O l’hai scoperto tu, magari?

Con quel suo modo laconico e scherzoso da incrocio tra Robert Carlyle e Keanu Reeves, in versione asturiana, Rudy non si è nem-meno stretto nelle spalle. – Mai stato a Londra – ha mormorato inarcando il sopracciglio verso la lunga frangia. – E, lavorando in un McDonald’s, il mio amico aveva ben poche possibilità di mettere piede in una banca.

Nessuno dei presenti ha saputo come proseguire il discorso. Senza dubbio Rudy ha assaporato quel momento d’incertezza.

– In realtà mi è arrivato per posta – ha spiegato, dandomi l’impressione di essersi tolto un peso. – A casa dei miei genitori,

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perché era l’indirizzo in cui ero ancora residente, anche se non vivevo più lì. Un manoscritto giallognolo, battuto con una vec-chia macchina da scrivere. Una Underwood, in base a quanto ho potuto verificare in seguito.

– Non c’era alcun mittente? – ho chiesto ansioso.– Delle iniziali, I.H., e una casella postale inesistente, come ho

appurato poi. Ho dedotto che mi veniva consegnata quella storia dopo che il suo precedente custode aveva letto il mio racconto su Holmes e Dracula. Come se la cosa mi avesse trasformato in una sorta di fedecommesso di un altro caso soprannaturale, uno di quelli che Conan Doyle non si è azzardato a render noto per paura di cadere nel ridicolo. Nel romanzare quegli appunti ho ordito la storia del negozio di antiquariato e della scatola di metallo ammaccata per rendere più drammatica la vicenda.

Tutti abbiamo assentito entusiasti per la scoperta e, immagino, per aver avuto conferma di quanto, a ognuno di noi, sembrava un segreto di Pulcinella: al giorno d’oggi nessuno prende alla leggera un caso di Holmes, non essendo in molti, con la vigilanza ferrea degli appassionati sparsi in tutto il mondo, a essere in grado di sta-bilire cosa sia canonico e cosa non lo sia, e, soprattutto, cosa sia affa-bulazione che parte da fatti accertati e cosa invece puro imbroglio, a volte frutto di un’ammirazione genuina nei confronti del maestro dei detective e della sua cerchia. Una cameriera bionda ha portato altro ghiaccio. Il cellulare di Julián Díez ha preso a squillare, ma lui non gli ha prestato alcuna attenzione, senza alzarsi di scatto per rispondere come fa sempre, camminando a passetti brevi.

– Mi è arrivata anche questa – ha aggiunto Rodolfo.Dalla sua tasca, tra un mucchio di chiavi e un portachiavi d’im-

portazione con il logo di Babylon 5, Rudy ha estratto con riguardo una piccola chiave brillante d’argento e me l’ha consegnata. L’ho presa con deferenza, quasi si trattasse del Santo Graal o della pozione consegnata all’alba dallo speziale a Romeo Montecchi in quel di Mantova perché compisse il suo destino.

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– Era sul fondo del pacco. Senza alcun tipo d’indicazione. Può darsi che abbia qualcosa a che fare con il caso del Necronomicon che racconto nel mio romanzo. Oppure può essere che chi ha inviato il manoscritto l’abbia persa per sbaglio, non so. Non sono mai riuscito a scoprire il significato di questa chiave.

Era una chiave normale, con una serie di numeri e di lettere incise nel metallo. Poteva appartenere a una porta qualsiasi, a una valigia, a una macchina, a una casella postale o a un armadio dimenticato. L’ho fissata, come ipnotizzato dai giochi di luce che i riflessi del fiume disegnavano sul rilievo irregolare e sul sorriso dei suoi denti d’acciaio argentato.

– Posso?…– Tienila pure, se vuoi – mi ha proposto Rodolfo. – Per quanto

ci abbia provato, non sono mai riuscito a scoprire cosa apra. Po-trebbe essere una chiave qualsiasi, di un posto qualunque.

– Conservi ancora il manoscritto? – ho domandato, convinto che fosse tuttora possibile scoprire qualche indizio tra le sue pagi-ne, chissà: impronte digitali, resti di tabacco, una lettera sghemba ripetuta che permettesse di individuare quella Underwood. Al tempo non conoscevo ancora Gil Grissom e CSI, ma sapevo già che è possibile trovare indizi per ogni cosa persino sotto i sassi: i casi dello stesso Sherlock Holmes ne costituivano un’ottima dimostrazione.

Rudy ha guardato il tappeto. Per un momento è sembrato turbato, come se avesse mantenuto segreto il suo imbattersi nel manoscritto proprio per non dover affrontare questa nuova sco-moda rivelazione.

– Il manoscritto è scomparso da casa una mattina. Non c’erano tracce di effrazione sulla porta e nemmeno nei cassetti della scri-vania dove lo tenevo sotto chiave, ma non era più lì. Qualcuno è arrivato e se l’è portato via, così, come ve lo sto raccontando. È come se non fosse mai esistito.

– Quindi La sabiduría de los muertos sarà considerata per sempre

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un’opera di finzione e non un documento autentico – ho dedotto con una smorfia di frustrazione amplificata da un morso dato al cubetto di ghiaccio rimasto nel bicchiere di whisky (dimentico del fatto che al ritorno a casa mi attendesse una endodonzia che avrebbe devitalizzato il nervo del molare che distraevo a botte di ibuprofene).

– Proprio così – ha affermato Rudy. – Ma la chiave non è scomparsa. Per cui sono arrivato alla conclusione che non abbia alcun significato. Forse un semplice incidente, non so. Qualcuno potrebbe averla dimenticata in fondo alla scatola quando me l’ha spedita.

Siamo rimasti in silenzio per un po’, poi abbiamo chiesto un altro giro di bevande e la conversazione si è spostata sul film del momento, sui fumetti di supereroi che stavo sceneggiando e su vari aneddoti legati alla loro redazione che, per quanto a occhi estranei potessero sembrare divertenti, mi facevano uscire di te-sta. Nello stesso albergo alloggiavano anche l’attore Christopher Lambert e l’illustratore Philippe Caza. In ogni caso, ad attrarre l’attenzione di noi spagnoletti era piuttosto la bellezza bruna di una conduttrice televisiva deputata alla cerimonia di chiusura, che con un certo disprezzo la nostra guida aveva definito “Miss Météo”, essendo addetta alle previsioni del tempo, e davanti alla quale non riuscivamo a smettere di comportarci, nonostante gli sguardi timidi, come emuli di Lino Banfi e Lando Buzzanca. Di certo, per molti di noi, la Francia rappresentava la nostra Svezia, inferno e paradiso.

Folgorato da Nantes e da quanto sembri essere tenuta in con-siderazione in Francia la letteratura che pratico (un’industria che non si vergogna, un ghetto che non esiste), sono tornato a casa con la piccola chiave in questione. Non riuscivo a smettere di pensare: qualcosa doveva pur significare, il fatto che si trovasse insieme al manoscritto che aveva trasformato la carriera da scrittore di Rodolfo Martínez. Non poteva trattarsi di una semplice casuali-

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tà. Sapevo che sarebbe stato come brancolare nel buio, perché la chiave era esattamente uguale a una qualsiasi altra chiave e le mie possibilità di seguire un indizio erano nulle quanto lo erano state quelle di Rudy. Ma io conoscevo l’unico esemplare gaditano di detective privato ancora in attività, padre di un ex allievo che ap-prezzavo molto e che ero riuscito a convincere a studiare medicina anziché arruolarsi nella legione straniera o in uno di quegli altri corpi d’élite e disperazione. Da allora, il detective mi doveva un favore. Il compito di un professore, infatti, a volte è proprio quel-lo di fare il jolly in disaccordi familiari nei quali non è coinvolto personalmente. Un pomeriggio di Natale, senza pensarci troppo, sono andato a trovarlo. Dopo una banale conversazione di cortesia (come stanno i ragazzi? bene; come vanno le cose a scuola? si tira avanti; come va il lavoro? pochi casi davvero interessanti, sempre la stessa noia, nascosto dietro a un giornale) gli ho dato la chiave per vedere se riusciva a scoprire qualcosa, sottolineando che non avevo alcuna fretta e che si trattava di una sciocchezza senza im-portanza, un vicolo cieco, senza pena né gloria.

Deve aver preso le mie parole alla lettera, o forse trovare l’ago nel pagliaio si è rivelato davvero difficile, perché sono passati qua-si due lunghi anni prima di ricevere sue notizie. Mi ha chiamato una mattina, senza rendersi conto che a quell’ora ero a lezione, e mi ha lasciato un messaggio nella segreteria telefonica dicendo di volermi incontrare. Nel pomeriggio, quando l’ho contattato, sono rimasto di stucco.

– È la chiave di una cassetta di sicurezza di una banca – mi ha detto, andando subito al sodo, come se gli avessi affidato la mis-sione il giorno prima e fossi in grado di ricordare di cosa stesse parlando. Il fatto curioso è che in effetti ho capito all’istante a cosa si stesse riferendo. – La Swiss National Bank di Losanna. Da molto tempo nessuno apre quella cassetta, almeno vent’anni, forse trenta.

Non gli ho domandato come avesse fatto a ottenere quell’in-

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formazione, ma me l’ha comunicata con tale sicurezza, con tale convinzione, che non mi è passato neppure per la testa di met-tere in dubbio le sue capacità investigative. Nonostante in una città piccola come la nostra il suo lavoro sia soprattutto quello di occuparsi di casi di possibile adulterio e, negli ultimi tempi, di vigilare sugli adolescenti di entrambi i sessi durante le notti di sballo: l’ultima risorsa dei genitori preoccupati di quello che i loro figli possano combinare quando escono all’alba per tornare verso metà pomeriggio, visto che il cellulare (predecessore del futuro chip sottocutaneo di monitoraggio) offre loro solo una ma-gra consolazione e nessun controllo su quello che i figli possano effettivamente fare e disfare.

Una settimana dopo, quando ci siamo incontrati in una caffet-teria del centro in cui senza dubbio stava seguendo un altro caso (o almeno così mi è parso, per il modo in cui spiava di sottecchi una giovane dagli occhi azzurri con una cartella da studentessa), il detective mi ha restituito la chiave insieme ad alcuni dati più precisi sulla banca e sulla cassetta di sicurezza che, in teoria, la fa-mosa chiave doveva aprire. Non ha voluto niente per il suo lavoro. Io ho ribattuto che, se un giorno avessi mai avuto bisogno delle prestazioni di suo figlio, speravo che anche lui non mi facesse pa-gare un centesimo. Ci siamo salutati tra risate e strette di mano e mi sono avviato verso casa sotto la pioggia, mentre lui si sollevava il bavero della giacca multitasche e riprendeva a scrutare gesti e chiamate telefoniche della ragazzina dagli occhi azzurri.

Per quanto mi riguarda, non ci ho più riflettuto su. O per me-glio dire, ci ho pensato molte volte, ma come sempre ho finito per mantenere la decisione già presa in partenza. Qualche setti-mana dopo sono dovuto tornare a Nantes per presentare uno dei miei romanzi, che finalmente è stato tradotto in francese (quella fortuna che nessuno immagina quando si chiude in casa con la macchina da scrivere o il computer per tessere una storia: il sogno impossibile di vedere i tuoi pensieri rivolti a un’altra sensibilità,

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a un’altra lingua). Di ritorno, approfittando della bravura di un amico che lavora in un’agenzia di viaggi e sa tutto di tariffe low cost, voli di collegamento e buoni sconto, ho deciso di fare una gita in Svizzera per scoprire se la chiave avrebbe aperto il forziere del tesoro o piuttosto fatto scattare tutti gli allarmi attirando su di me l’attenzione generale.

In Svizzera faceva freddo ed era tutto molto pulito. Mi sono sentito come Robert Redford in quel film di ladri in guanti bian-chi che ho visto in televisione tanti anni fa e che non sono mai più riuscito a individuare, soprattutto perché ho il dubbio che il protagonista non sia Redford, ma Warren Beatty. C’è una cosa da dire in favore degli svizzeri, al di là dell’indubbia qualità di orologi e cioccolato: a loro non importava nulla che non parlassi una sola parola di francese, con l’inglese ce la siamo cavata alla perfezione.

Non ho fatto il viaggio proprio alla cieca, azzardando una piro-etta senza mani: mi ero informato in anticipo che quello che stavo per fare fosse legale e non mi cacciasse in qualche guaio. Sono ab-bastanza conservatore riguardo a certe circostanze, e so che ci sono cose con le quali è meglio non giocare. Ma, una volta trovato un indizio sulla chiave, una coppia di amici giuristi (lei avvocato, lui giudice) si sono rivolti alle ambasciate e hanno studiato trattati e non so quanti sotterfugi e accordi commerciali, offrendomi infine la garanzia che, in effetti, la chiave in questione non richiedeva altro che andare là e usarla per quello per cui era stata concepita: aprire una cassetta di sicurezza abbandonata. Cosa che, come per i tesori nazisti o in quelle storie di americani senza risorse che Robert Ludlum scrive e riscrive così bene, non comportava altro che presentarsi al bancone dicendo che si voleva ritirare un depo-sito al quale si aveva accesso. Detto fatto (evidentemente non sono stato in grado di tenere a bada i nervi). Un impiegato della banca mi ha accompagnato nel caveau in cui scintillavano le cassette di sicurezza. Mi è venuto in mente l’episodio di Asterix e gli Elvezi, e

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non ho potuto fare a meno di chiedermi se dentro non ci fosse per caso una marmitta ossidata con resti di formaggio e se di notte non si sentisse la voce di un qualche gaudente romano gridare: “Le frustate! Le frustate!”. L’immaginazione si scatena, quando si hanno troppi punti di riferimento: film, fumetti, libri, musica e un nodo di tensione insopportabile allo stomaco.

L’uomo mi ha lasciato solo. Trattenendo l’emozione ho avvi-cinato la chiave alla serratura. È entrata al primo tentativo. L’ho girata da un lato, ma non è accaduto nulla. Stupido io, l’ho girata dall’altra. C’è stato un lieve suono metallico e l’anta si è aper-ta. Dentro c’era un pacchettino avvolto alla perfezione in carta manila. Vent’anni a scrivere romanzi e a spedire gli originali a editori che il più delle volte li rifiutano senza averli nemmeno letti mi hanno insegnato a riconoscere un manoscritto originale quasi al tatto.

Ho aperto l’involucro. Un paio di centinaia di pagine scritte a mano in inchiostro nero, con una calligrafia malferma e un po’ inclinata. Chi aveva vergato quel testo non si era affidato alla velocità della Underwood del documento misterioso di Rodolfo Martínez.

Ho letto frettolosamente le prime righe del testo:

Dad was a drunkard. Mom went crazy. My childhood memories are images of hunger and cold. And fear, especially. I was born the year after the Ripper…Cercando di apparire disinvolto, ho infilato il libro dentro una

valigetta che mi ero portato dietro per ogni eventualità. Ho salu-tato gli impiegati della banca con la flemma di Pierce Brosnan in Gioco a due, ho preso il primo tassì che passava per strada (appena un minuto dopo, e bravi gli svizzeri!) e tentando di controllare l’ansia me ne sono tornato in albergo. Ho chiuso porte e finestre, accendendo la luce. Mi sono seduto sul letto e, sfilatomi le scarpe, ho preso a leggere il manoscritto che qui andrò a tradurvi.

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Mio padre era un ubriacone. Mia madre era diventata pazza. I miei ricordi d’infanzia sono immagini di fame e di freddo. E, so-prattutto, di paura. Venni al mondo l’anno successivo alle vicende di Jack lo Squartatore e, sebbene i suoi crimini non siano andati oltre il settembre del 1888, il racconto degli orrori da lui perpe-trati ci avrebbe accompagnato per molto tempo ancora. Alcuni bambini temono l’uomo nero o il mostro nascosto sotto il letto o dentro l’armadio; io crebbi con la paura e la convinzione che mio padre fosse Jack lo Squartatore. Immagino che qualche volta mia madre, nel suo delirio, l’avesse accusato di frequentare donne di malaffare, le stesse che erano state vittime dell’ignoto assassino, e che partendo da quelle affermazioni la mia immaginazione abbia fatto il resto. Più tardi, quando conobbi mio padre in modo più approfondito, mi resi conto che in realtà era un pover’uomo del tutto incapace di fare volontariamente del male a qualcuno… A eccezione, forse, di mia madre e di se stesso.

La mia sgangherata famiglia soffrì tutte le pene che scaturiva-no da una società fatta di contrasti; da un Impero che dominava mezzo mondo con il pugno di ferro e al tempo stesso sembrava ignorare la delusione dilagante nelle case; ma che godette appieno della magia del teatro. Prima di venire sconfitto da un bicchiere di whisky dozzinale e dalla frustrazione per la consapevolezza che il treno della sua vita non sarebbe mai approdato a un capoluogo importante, mio padre era stato un noto cantante e attore di vau-

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deville. Dicono che io abbia ereditato le sue doti canore, gestuali e pantomimiche, affermazione che devo prendere per buona, non ricordando di averlo mai visto in scena. Non ho mai ascoltato il canto di un angelo, ma non ne ho mai sentito la mancanza, perché dubito che sia migliore di quello di mia madre. Così sembrava al bambino che ero, e all’uomo che divenni poi: un angelo bisogno-so, caduto a terra, incapace di comprendere che il paradiso ormai non le avrebbe più aperto le porte. E per scappare dall’inferno che questo mondo rappresentava per lei dovette rifugiarsi in una gloria immaginaria e tutta sua, alla quale gli altri avevano accesso solo quando riuscivano a rappezzare qualcosa dall’incoerenza delle sue chiacchiere.

Una notte, quando avevo cinque anni, la sua voce di violette si spezzò sul palcoscenico e mia madre rimase lì immobile, bianca e spaventata, con una mano sul collo, gli occhi blu inondati di lacrime per la vergogna e l’impotenza. Non potei sopportarlo: uscii da dietro le quinte e mi misi a ballare per la sorpresa di tutti, frenetico, nervoso, con un sorriso che si era già trasformato in smorfia sulle labbra e gli occhi brillanti di rabbia, mentre mia madre faceva scena muta e la gente si dimenticava della sua fugace presenza durata pochi attimi delle loro vite. Il tintinnio delle monete lanciate intorno a me da quel pubblico sorpreso dalla mia entrata in scena dovette essere qualcosa di simile a quando la manna cadeva dal cielo. Quella fu la mia prima recita, effetto della furia, dell’umiliazione, del dolore e dell’amore. Il mio primo successo, quello che mi insegnò che a un applauso deve sempre seguire una pioggia dal suono metallico o non si tratta di vero successo, tutt’al più di un gesto di compiacenza o carità se accade il contrario. Disgraziatamente mia madre non riuscì mai più a recuperare la sua voce. E fu un ulteriore passo nel definitivo cammino verso la sua follia.

Il mio fratellastro Syd rappresentava il punto di contatto con il mondo oltre la miseria familiare, il freddo, la fame, la vulnerabili-

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tà e le luci della ribalta che tutto compensavano. In realtà Sydney somigliava così tanto a mio padre che nessuno credeva alla mia povera madre quando rivelava, tra sussurri di complicità, che fos-se il frutto di una relazione niente meno che con un lord, che gli avrebbe lasciato una fortuna in monete, ville e cavalli da corsa al raggiungimento della sua maggiore età. Quattro anni più grande di me, Sydney aveva sangue d’avventuriero nelle vene e spariva di casa per settimane come uno zingaro errante, per tornare con le tasche piene di scellini, qualche conserva di cibo d’importazione e sigarette dal fumo blu. Quando mia madre gli chiedeva dove fosse stato, Syd alzava le spalle e faceva il misterioso, ma non si lasciava sfuggire nemmeno una parola perché sapeva che, per quanto pazza, mia madre aveva l’indole dell’istitutrice severa che per nessun motivo avrebbe permesso a suo figlio di combinare qualcosa che gli facesse rischiare di finire a Reading Gaol o de-portato in Australia. Tutto ciò che riuscì a scoprire è che Sydney frequentava una banda di mocciosi dalle parti di Marylebone e che faceva piccole commissioni per conto di un fantomatico gen-tiluomo. Una specie di filantropo il cui nome si era rifiutato di rivelare argomentando che nemmeno lui lo conosceva. Cosa credeva la mamma? Lui non era in grado di arrivare così in alto!

Quando si ha un fratello ricco e avventuriero si finisce per non desiderare altro che diventare a nostra volta ricchi e avventurieri. Io cantavo, ballavo e recitavo meglio di Syd, perciò sarei riuscito a fare meglio di lui… qualunque cosa combinasse durante le sue capatine nei quartieri della City. Come qualsiasi altro ragazzo, volevo essere tale e quale mio fratello, accompagnarlo nelle sue avventure e imprese, superarlo.

Tanto scocciai, tanto insistei, tanto mi impuntai che Syd finì per convincersi di svolgere un lavoro degno del miglior agente di Sua Maestà la regina, collaborando alla salvaguardia e alla sicurezza dell’Impero. Vale a dire che, dal momento che anch’io ne ero altrettanto convinto, si oppose risolutamente a lasciarmi

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partecipare alle sue scorribande e si fece ancor più misterioso a proposito dei suoi andirivieni, destando lo sgomento di mia madre e la mia invidia.

Con o senza il suo permesso, la mia futura fortuna in dolciumi, bottoni di madreperla e sigarette dal fumo nervoso non sarebbe dipesa dai capricci di mio fratello maggiore, egoista e dissolu-to. Così, approfittando di una delle crisi di follia di mia madre (quando le veniva di cantare ninne nanne in un francese inven-tato o quando mescolava i monologhi di Ofelia con le operette di Gilbert e Sullivan ottenendo uno strano effetto ipnotico: credo non abbia mai superato il fatto di non essere stata scelta per una piccola parte in The Mikado), una notte presi coraggio e decisi di seguirlo.

Syd si arrampicò sul sedile del cocchiere di una carrozza di pas-saggio, io su quello della vettura successiva. Percorremmo stradi-ne familiari, con le loro porte nere e le luci colorate, lasciandoci dietro la musica stridente delle pianole, le risate sguaiate degli uomini e gli strilli smodati delle donne che vendevano il loro corpo e il loro tempo prima che la notte finisse e si trovassero a far ritorno a una dimora inesistente o si ritirassero in un buco lercio per dormire legate a una corda assieme ad altre disgraziate come loro, aspettando il giorno in cui sarebbero cadute e avrebbero evitato la disillusione del risveglio. Attraversammo un ponte sul Tamigi che si intravedeva appena tra le nebbie, cambiando due volte landò (in una di queste rischiai di perdere di vista il mio fugace fratello perché scivolai in una pozzanghera) e, con mia sorpresa, passammo oltre i quartieri di case bianche, cancellate di ferro battuto e scudi nobiliari dove il silenzio e la sicurezza indicavano che il denaro non ha bisogno di musica, risate sgua-iate né di strilli, ma di presenze serene, fino ad arrivare alla zona umida e tenebrosa dei docks.

Syd si intrufolò tra fasci di corde di canapa, casse dal conte-nuto sospetto e pile di fagotti con forme e utilità sconosciute in

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partenza per la lontana America o in arrivo dall’ignoto Oriente, che immaginavo pieni di paillette e ventagli come quelli che indossava mia madre per qualche spettacolo teatrale. E in quel momento lo persi. Avevo attraversato tutta Londra, da un capo all’altro, mi ero fatto male alle mani afferrando le barre delle carrozze, ero fradicio fino al midollo, morivo di fame… e non avevo idea di dove fossi né di come fare per tornare a casa. Se non avessi ritrovato le tracce di Syd, il mattino seguente qualcuno avrebbe potuto trovare il mio corpo a mollo nel Tamigi: gli or-rori di Londra non erano svaniti con gli indizi dello Squartatore, perduti l’anno prima della mia nascita. I quotidiani approfitta-vano di ogni incidente per vendere qualche copia in più e, come avevano scoperto con il caso di Whitechapel, ingigantire ogni crimine fruttava buoni proventi e lasciava la popolazione sod-disfatta e bramosa di altre notizie. Allora leggevo molto male, ma mi affascinavano le illustrazioni in cui l’orrore e la morte si accompagnavano per mostrare belle damigelle rapite e cadaveri di bambini recuperati dal fondo del fiume e, infine, dimostrare che il delitto non paga; perché la bruttezza di quelle immagini cre-sceva ancor di più quando chi commetteva quegli orribili crimini finiva con gli occhi strabuzzati e la lingua annerita sbeffeggiante all’estremità di una forca.

– Charlie Chaplin, piccola carogna di Kennington Cross! No-nostante tutto mi hai seguito!

Non ebbi il tempo di ribattere. Mio fratello Syd, fantasma di-sperso nell’oscurità fino a pochi istanti prima, riapparve davanti a me, mi afferrò dal bavero e, quando ormai pensavo che mi avrebbe tirato un pugno sul muso, mi schiacciò contro una cassa, fuori dal raggio di luce di un barcone che stava attraccando a pochi metri di distanza.

Mio fratello si portò un dito alle labbra facendomi capire di restare immobile, come un bravo bambino. Ubbidii, ma appena mollò il bavero allungai il collo per vedere cosa stesse succedendo:

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non avevo fatto quel lungo viaggio per niente. Un uomo saltò giù dal barcone (mi sembrò si trattasse di un orientale per l’ampiezza delle maniche e il riflesso dei bottoni di madreperla), fece tre o quattro segnali con una lanterna, controllando con precisione il fascio di luce e, quando sembrava ormai che nessuno avrebbe re-plicato, una fiammata alla nostra destra rispose al suo richiamo.

Sentimmo un rumore di passi e, tra la nebbia e l’umidità, comparvero le forme di un cappotto, un bastone, un uomo. Il marinaio cinese abbassò la lanterna e i due individui rimasero per qualche istante a parlare in una lingua che non riuscii a indivi-duare, ma che non somigliava al cantonese che ogni tanto imita-vamo a teatro: parlavano in polacco, russo o tedesco. Il marinaio consegnò qualcosa all’uomo con il bastone e questi, in cambio, gli diede un sacchetto. Denaro, lo capii subito. L’uomo con il bastone si voltò e dette per terminato il loro incontro. Riuscii a scorgere un luccichio nel suo occhio destro e capii che portava un monocolo.

Con le stesse falcate fugaci di prima, il gentiluomo svanì ri-salendo il molo. Il barcone fece lo stesso seguendo la corrente, fino a convertirsi in un ciuf-ciuf-ciuf invisibile tra le frange di nebbia, diretto verso Greenwich o il mare oscuro oltre la mia immaginazione. Tutte le volte che in seguito sentii il brano Slow Boat to China mi tornò alla mente quel barcone.

– Andiamo – disse Syd, ed ebbi appena il tempo di aggiustarmi il berretto prima di corrergli dietro. Non so se fosse per le gambe più lunghe delle mie, ma il mio fratellastro sfrecciava come un daino e io faticavo a stare al passo.

Allora si trattava di questo: Syd stava seguendo l’uomo con il bastone! Che fosse il gentiluomo misterioso che gli dava quegli scellini che in seguito spendeva nelle ricchezze che tanto invi-diavo? No, non era possibile. Quell’uomo era senza dubbio uno straniero (non so perché associavo monocolo a straniero, facevo altrettanto con gli stivali alti e i pantaloni con le ghette). E se

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mio fratello avesse lavorato per lui, l’uomo si sarebbe già fatto riconoscere e Syd non l’avrebbe seguito con lo stesso impegno con cui, poco prima, io avevo seguito lui da una carrozza all’altra.

Mentre il gentiluomo con il monocolo avanzava sul molo noi lo seguivamo, correndo all’impazzata dietro pacchi e imballaggi e tentando di non fare rumore, finché lo superammo. Syd mi fece cenno di stare fermo e uscì sfrontatamente dal suo nascondiglio parandosi davanti all’uomo.

– Signore, un penny per carità. Sono un povero orfano – implo-rò mio fratello tagliando la strada allo sconosciuto, con la mano tesa, supplicante, stringendosi nelle spalle con fare piagnucoloso. – Sono due giorni che non mangio nemmeno un boccone e…

Il gentiluomo tentò di schivarlo, ma mio fratello fu più velo-ce e gli sbarrò nuovamente la strada. Questa volta fu ancor più sfacciato e lo afferrò per la manica del cappotto.

– Per carità signore, fa molto freddo…L’uomo si liberò di mio fratello con un movimento brusco e

lo gettò a terra. Ebbe sufficiente controllo di sé per non colpirlo con il bastone, forse perché era di fretta o forse perché gli sembrò che Syd non fosse degno nemmeno di quello. Mormorò qualcosa in quella lingua sconosciuta e si dileguò nell’oscurità. Esitai tra seguirlo o aiutare Syd, ma i miei sei anni e il fatto di essere incon-sapevole di cosa stesse accadendo risolsero il dilemma. Corsi da mio fratello, che si stava rialzando da terra con un enorme sorriso birichino stampato sulla faccia annerita dalla fuliggine.

– Syd! – esclamai. – Che cavolo stai facendo? Siamo attori, non mendicanti!

Syd mi guardò con le sopracciglia aggrottate, come fosse sul punto di farmi la filippica che non aveva potuto farmi poco prima. Invece compì una mossa da prestigiatore con la mano sinistra e mi mostrò una busta color avorio, con un sigillo rosso. Capii che lo scontro con il gentiluomo gli era servito come scusa per poterla rubare.

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– Sydney Chaplin! – lo ripresi imitando il tono caratteristico di mia madre. – È a questo che ti dedichi durante le tue scorribande? Sei peggio di un mendicante, ragazzo, sei un ladro.

Syd alzò le spalle, ripose la lettera in una tasca della giacca, stando attento a non stropicciarla e, ancora una volta, mi fece cenno di seguirlo. Ricordo che tentai di farlo ragionare su quanto fosse sbagliato quello che aveva fatto, ma non mi dava retta. Lo rincorsi a grandi falcate e quale fu la mia sorpresa quando, senza esitare un momento, entrò in uno di quei pub del porto dove il suono del piano, il tintinnio dei bicchieri e le risate degli avven-tori erano fragorosi come quelli che trasformavano in feste fuori orario le notti del mio quartiere.

Si guardò attorno e, quando scovò chi stava cercando, attraver-sò senza esitare l’ingresso pieno di marinai ubriachi, di portuali stanchi e meretrici con cispe che arrivavano alle scollature. Gli corsi dietro, spaventato, perché se nei pub della mia strada ero un bambino grazioso che tutti salutavano e delle cui piroette tutti ridevano, qui ero uno sconosciuto, un moccioso fastidioso che nessuno si sarebbe preoccupato di non calpestare, spintonare o peggio.

C’era un uomo seduto in fondo, sotto una lampada a gas oppor-tunamente spenta. Davanti a lui campeggiava una pinta di birra, ma il livello della schiuma indicava che non l’aveva assaggiata. Aveva uno sguardo penetrante, il naso adunco solcato da un’enor-me cicatrice, i denti anneriti e una barba sudicia di quelle su cui si riesce ad accendere un fiammifero, o almeno così facevamo nei trucchi a teatro. Vestiva di stracci: non mi colpì più di tanto né mi disturbò, perché nemmeno mio fratello e io eravamo usciti dalla bottega del sarto di Beau Brummell. All’epoca, d’altronde, non avevo ancora l’abitudine di frequentare la compagnia di mo-derni Petronio come Douglas Fairbanks o Rudy Valentino.

Con un inchino quasi scaramantico, mio fratello si sedette da-vanti all’uomo e, dopo essersi accertato che nessuno stesse osser-

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vando, prese la lettera che aveva rubato al gentiluomo e gliela consegnò con circospezione. L’uomo con la cicatrice allungò la mano e dai mezzi guanti consunti spuntarono dita lunghe e mac-chiate di fuliggine. O forse no. Le unghie sembravano curate e all’istante mi resi conto che la fuliggine poteva anche essere un trucco, come quello che i miei genitori usavano sul palco.

Senza indugiare, l’uomo con la cicatrice strappò la busta, ne lesse il contenuto e annuì, come se i suoi sospetti venissero pre-cisamente confermati.

– Hai fatto un buon lavoro, giovane Chaplin – disse con voce rauca e affettata, la voce di un uomo che stava fingendo. – Buon lavoro. L’Inghilterra può essere orgogliosa dell’impegno dei suoi figli.

Fece ruotare in aria una moneta d’argento per poi appoggiarla sul tavolo insieme a un’altra busta sigillata color avorio, identica alla precedente. In meno di due secondi Syd si premurò di far spa-rire dal tavolo entrambe le cose. Allora l’uomo con la cicatrice si alzò e vidi che portava una stampella, sebbene non fosse zoppo.

– Ragazzo, fa’ attenzione. Ricorda: – lo avvertì – per nessun motivo quel gentiluomo deve accorgersi che abbiamo scoperto la piccola manovra che sta preparando con i suoi amici orientali.

Sydney annuì, poi mi guardarono entrambi.– Mio fratello, signore – mormorò Syd.– Il ragazzino che canta e balla – assentì l’uomo. – Ti ho visto

quel giorno alla Cantina di Aldershot. Quando hai cantato Jack Jones. Ti chiami Charlie?

– Sissignore, come mio padre – mormorai. Non riuscivo a crede-re che quell’individuo fosse presente tra il pubblico di quella sera, quando per la prima volta ero salito sul palcoscenico. Non che il pubblico di quel teatrino fosse proprio colto ed educato…

– Piccolo Charlie Chaplin, adesso voglio che reciti per l’Inghil-terra – disse l’enigmatico sconosciuto. – Hai visto come lavora tuo fratello?

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Annuii. Non so perché cominciai a immaginare quello che volevano da me. E non mi piacque neanche un po’.

– Devi fare la stessa cosa, ma al contrario. Quel gentiluomo con il bastone non deve rendersi conto dello scambio di buste e potrebbe insospettirsi se incontra ancora Sydney. Potrei farlo io stesso, ma accadrebbe in modo più brusco, non privo di rischi. Per fortuna sei venuto anche tu. Charlie, si tratta di una questione di vitale importanza per la sicurezza di certi alleati dell’Inghilterra e forse persino per alcuni notabili. Credi di essere in grado di farlo?

In quel momento mi pentii di aver seguito mio fratello, e di essermi creduto più sveglio e capace di lui in tutto. Volevo diven-tare un artista del vaudeville, non un borseggiatore. Nemmeno per una causa giusta in nome dell’Inghilterra e dei suoi cittadini più distinti. Ma non potei dire di no, non con mio fratello che mi fissava e quell’uomo con quella spaventosa cicatrice e i denti neri.

– Allora è tutto tuo, Charlie – disse il finto zoppo e voltandosi si perse tra la folla. Girandoci ci accorgemmo che l’uomo con il monocolo e il bastone stava entrando proprio in quel momento.

– Avanti, sai già come devi fare. Tasca sinistra – mi incitò Syd, consegnandomi la busta falsa per poi perdersi tra la gente ed evitare che l’uomo lo vedesse, anche se dubito sarebbe stato in grado di riconoscere in lui il birbante che poco prima gli aveva chiesto l’elemosina.

Mi avvicinai tremando al gentiluomo con il monocolo, indossai la mia migliore faccia da bambino povero (ovvero la mia faccia del mercoledì) e gli tesi una mano supplicante. Già allora ebbi l’intuizione di porgere la mano opposta a quella che aveva utiliz-zato mio fratello Syd quando aveva fatto lo stesso trucco al molo, per evitare che identificasse entrambi, nonostante sapessi che era improbabile se non impossibile.

– Signore, qualche penny per carità. Mia sorella è malata e mia madre è cieca…

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L’uomo mi guardò come fossi un insetto, con quella faccia che fanno le persone quando vogliono evitare un mendicante, in un luogo e in un tempo in cui ce ne sono troppi, tutti fastidiosi. Allungò il collo come a cercare qualcuno nella taverna affollata, qualcuno che doveva essere senza dubbio il suo contatto o un suo complice nel torbido affare che aveva per le mani, e io approfittai di quell’istante per afferrare il suo cappotto.

– Una moneta per favore…Fu un vedo non vedo, niente di più semplice. Lasciai cadere la

busta nella sua tasca e mi separai dal gentiluomo. Feci due passi per allontanarmi, come se mi fossi dato per vinto davanti alla sua meschinità, e allora l’uomo mi prese per una spalla.

– Aspetta un momento, ometto – disse con voce tonante, tra-scinando la fine delle parole come solo un tedesco o un russo sanno fare.

Mi guardò con freddezza, con aria di sfida. Il monocolo scintillò come la pupilla di un lupo. Credetti che mi avesse scoperto. Ero perso. E l’Inghilterra con me. E i suoi alleati. E Syd. E la mia folle madre. L’uomo con il bastone mi strinse il polso, forzandomi ad aprire il palmo per dimostrare che non c’era niente.

E allora, con mio stupore, vi lasciò cadere una ghinea.– Non spenderla in birra, sei troppo piccolo – aggiunse quasi

felice e proseguì per la sua strada tra gli avventori, verso il retro del pub.

Repressi un sospiro di sollievo e corsi fuori. Syd mi stava aspet-tando con una sigaretta tra le labbra, il berretto a tre quarti, vicino a un bidone della spazzatura in cui era accesso un fuoco che riscaldava portuali, immigrati asiatici e altri mendicanti che pullulavano come scarafaggi in quella zona.

– Cosa sta succedendo? – domandai, mentre entrambi correva-mo per allontanarci da quel posto e tentavamo di orientarci per tornare a casa. – Per l’amor del cielo, è questo che fai? Derubare e contro-derubare, o quel che è, gentiluomini?

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– Non volevi sapere a cosa mi dedico? – replicò mio fratello, così pieno di sé da far compassione per il fatto che si sentisse tanto orgoglioso di essere un abile borseggiatore. – Non volevi conosce-re il mio gentiluomo misterioso? Bene, eccoti accontentato!

– Ma se ti ha dato persino una spinta. E poi gli hai rubato una lettera! – lo additai. – Ragazzo, quello è un crimine!

– Non quel gentiluomo, imbecille! – rise Syd, aggiustandosi il berretto di lato con quel gesto che Mickey Rooney avrebbe reso popolare, anche se non sono certo l’abbia imparato da lui, visto che mio fratello era molto più alto. – Il tizio con il monocolo è un cosacco, almeno credo, anche se non capisco che tipo di affari possa fare un russo con un cinese. Parlo dell’uomo con la stam-pella. Quello con la cicatrice.

– È quello il tuo gentiluomo? Ma va’!– Mi ha dato una ghinea – Syd fece comparire fugacemente

la moneta tra le sue dita e se la passò dietro l’orecchio per farla sparire in qualche posto della sua testa e poi riapparire nell’altra mano, da dove con facilità trovò la strada della sua tasca.

– L’uomo con il monocolo ne ha data una anche a me – ribattei, ma non gli mostrai il mio tesoro perché Sydney era veloce con le mani, più alto di me e si considerava il proprietario della mia fortuna o almeno di una parte di essa, come se fosse il mio agente, ruolo che più tardi in effetti avrebbe svolto per me.

– Una ghinea, che sfacciato! E a me solo uno spintone! – rise mio fratello. –Vieni, ti mostrerò chi è il mio gentiluomo.

Corremmo verso una carrozza che passava di lì, ci attaccammo alla meno peggio alla parte posteriore e lasciammo che il trotto dei cavalli ci portasse lontano dalla zona dei moli. Lungo la stra-da Syd mi lasciò fare un paio di tiri ansiosi della sua sigaretta, ma non aggiunse altro sul conto del suo fantomatico capo con la cicatrice e la stampella.

Poco dopo arrivammo a Regent’s Park e ci mettemmo a cor-rere verso Marylebone e le strade che in essa confluivano: Dorset

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Street, Blandford, Baker Street. Giusto in tempo. Lo sconosciuto con la gruccia uscì dall’ombra, si avvicinò a una porta e la aprì. Scomparve nel buio all’interno così velocemente che fu come se ce lo fossimo soltanto immaginato: un miraggio fantasmagorico e fuori luogo in quella strada così raffinata.

– È entrato per rubare? – chiesi a mio fratello, perché non capivo cos’altro potesse fare un individuo del genere in quell’abi-tazione.

– Non fare l’idiota, Charlie. Abita lì!– In quella casa, con quell’aspetto? – dissi, dimenticandomi

che poco prima mi era sembrato che le sue mani fossero troppo curate per essere quelle di un comune sgobbone.

– Maledetti monelli! – una voce tuonò alle nostre spalle. – Vo-lete andarvene una buona volta!

Ci voltammo. Un uomo basso e robusto, con una bombetta e un cappotto lungo fino ai piedi, ci afferrò entrambi dalle orecchie. Odorava di etere o medicinali e il suo baffo mi sembrò ridicolo. Zoppicava un po’, sebbene si sforzasse di mascherarlo.

– Che non vi ritrovi mai più nei dintorni, mocciosi! – disse mentre correvamo verso l’incrocio, sapendo che non avrebbe po-tuto raggiungerci e che non aveva nessuna intenzione di farlo.

Dopo aver mormorato qualcosa che non riuscimmo a sentire, l’uomo entrò nella stessa casa che stavamo spiando, utilizzando una chiave che prese dalla tasca del suo elegante cappotto grigio e che fece girare con un gesto rapido e nervoso. Allora vidi la numerazione: 221 B.

–Syd…! – esclamai.– Quello è il dottor John Watson. Antipatico, non è vero?

– commentò mio fratello. – E, come ti dicevo, l’uomo con la cicatrice è il mio gentiluomo. Un maestro del travestimento, tra le altre cose. Guarda, ora è alla finestra.

Un’ombra si stagliò contro le tendine, ormai senza travesti-mento: una testa perfettamente cesellata, il naso adunco, l’abboz-

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zo di una pipa sulle labbra. L’ombra si spostò e si portò qualcosa al mento. Un violino, capii, perché pochi istanti dopo ci arrivò il suono di una melodia che più tardi avrei riconosciuto come Il trillo del diavolo.

– Lavoro per il signor Sherlock Holmes, Charlie – confessò mio fratello Syd. – Faccio parte degli Irregolari di Baker Street. E suppongo che adesso ne faccia parte anche tu.

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Non riuscii a chiudere occhio per tutta la notte. E il giorno dopo ero irrequieto, divorato dai nervi e dall’eccitazione per l’avven-tura. Lavorare per un uomo così famoso come il signor Holmes, anche se ignaro di quello che stessi effettivamente facendo, e l’eventualità di contribuire a salvare l’Impero da una congiura internazionale o qualche damigella sconosciuta da una circostan-za imbarazzante per il suo buon nome, era più forte di qualsiasi altra sensazione avessi mai provato fino allora, inclusa la fame. Syd, almeno per una volta, tentò di non darsi troppe arie: l’aver aiutato il detective in uno dei suoi casi non era certo un motivo per fare l’isterico (o intendeva istrionico?). Mia madre, semmai avesse intuito qualcosa, ebbe l’accortezza di non farcelo notare perché non voleva che la vedessimo cullare un pupazzo di cartone che abbracciava furtivamente come fosse un’altra figlia, sostituta del suo bimbo rapito, mio fratello Wheeler che non vide per trent’anni.*

Per il ragazzino che ero a quei tempi, il signor Sherlock Holmes era una leggenda di cui avevo solo sentito parlare nei pub, una sagoma con la pipa e un cappello da cacciatore di anatre che appa-riva sulla copertina delle riviste. L’unico piedipiatti che meritasse

* Charlie si riferisce al figlio nato nel 1892 da un rapporto extraconiugale che sua madre ebbe con la stella del musical Leo Dryden mentre suo marito era in tournée negli Stati Uniti. Dryden portò via con sé il figlio di sei mesi, allontanandolo da Hannah. [N.d.T.]

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il rispetto di alcuni dei più pittoreschi abitanti del mio quartiere, forse perché si mescolava a loro e li trattava da pari: io stesso avevo visto come si fosse mascherato da marinaio zoppo (o quello che era) per riuscire a ottenere quella busta sigillata color avorio che mio fratello e io avevamo scambiato quella prima notte. Mettiamo le cose in chiaro: non che Holmes fosse un socialista (sebbene ci fosse chi raccontava di averlo visto al British Museum conversare amichevolmente con un anziano Karl Marx mentre quest’ultimo redigeva una delle sue ultime riflessioni), ma apparteneva a quel genere di gentiluomini di famiglia più o meno agiata che capi-scono qual è l’inevitabile destino dell’uomo del futuro e che si rendono conto di come una qualsiasi società utopica richieda la soppressione delle caste. Alla mia età, mentre ascoltavo parlare di socialismo e libertà da vecchi sindacalisti mezzi ubriachi di rum e di illusioni in parti uguali, non capivo nulla, non afferravo il concetto di casta (anche se nel quartiere abitava il servo indù di un nobile decaduto), e il futuro mi sembrava tanto lontano quanto Buckingham Palace. Comprendevo bene, però, che se il signor Holmes e gli uomini della sua classe sociale erano in grado di camuffarsi da membri della mia, la cosa poteva funzionare anche al contrario. Ci si poteva mascherare e trasformare per un po’ in qualcun altro, in un’altra cosa, in un membro di un’altra casta. Nel vaudeville lo facevamo di continuo: se non ci fossimo truccati la faccia di bianco, se i gesti non fossero stati così affettati e i vestiti finti, chi avrebbe mai potuto distinguere il ricco dal povero? Il sangue è rosso per tutti. Nelle guerre ancora da venire, come in quelle già passate, a narrare la cronaca degli orrori delle trincee o dei disastri della Crimea sono stati, con ogni probabilità, gli aristocratici di Oxford e Cambridge. Di certo però non sono stati i soli a morire. Ci sono stati anche altri figli d’Inghilterra non sopravvissuti per comporre poesie a costo del proprio sangue, e altri ancora che, riuscendo a far ritorno a casa, hanno ritrovato un mondo diverso, nel quale forse non c’era più posto per loro.

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Pagati un penny per un giorno di lavoro e una ghinea quan-do gli incarichi richiedevano qualche prestazione straordinaria, Syd e io, così come tanti altri mocciosi di strada, cominciammo fin d’allora a collaborare fugacemente con il famoso detective, il signor Sherlock Holmes. Quelle piccole fortune guadagnate quasi per gioco ci permisero di togliere le castagne dal fuoco e, in un paio di occasioni, ci evitarono persino di venire cacciati dal nostro vecchio appartamento di Pownall Terrace quando, a causa del suo debole stato di salute, mia madre si dimenticava di pagare l’affitto.

In realtà non posso dire di aver avuto molti contatti diretti con il grande detective, perché il dottor Watson ci scacciava appena ci affacciavamo in Baker Street, come se temesse che la nostra collaborazione con Holmes avvilisse le capacità deduttive del suo eroe o le proprie di confidente e biografo. La verità è che per noi quella era una distrazione innocente e non arrivammo mai a sa-pere cosa stessimo facendo né chi stessimo seguendo e spiando. In ogni caso, il biografo ufficiale del signor Holmes si premurò di cancellare ogni menzione di una nostra partecipazione ai suoi casi. E poi, dal momento che cambiava nomi e date, e che noi eravamo all’oscuro di quello che stavamo combinando, non riuscii mai a riconoscere nelle pagine dello Strand Magazine nessuno dei gentiluomini o dei pendagli da forca che avevamo sorvegliato e sui quali avevamo indagato.

Insomma, non so quanto sia servito, se poco o tanto, il nostro essere ombre e vedette del signor Holmes e della sua meritata fama di risolvere enigmi impossibili, e immagino che i quattro o cinque casi in cui intervenimmo siano stati in seguito riscritti, ritoccati e ripuliti dal dottor Watson. Forse per non divulgare questioni confidenziali che avrebbero potuto mettere a rischio reputazioni e fortune; o forse, come mi piace credere, perché nemmeno l’altezzo-so Watson riusciva a cogliere le procedure di pensiero e indagine del suo amico e a fare ordine nel susseguirsi di avvenimenti di cui

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non sempre era stato testimone, visto che non partecipava come noi allo svolgimento scenico… Anche perché le comparsate del grande detective, il più delle volte, erano recite ben orchestrate. Bisogna riconoscere, a vantaggio di Watson, che Holmes non ave-va l’abitudine di parlare molto di sé. Fatto che avrei scoperto in seguito, quando il destino ci fece rincontrare anni dopo, al tempo in cui si svolse la storia che ho intenzione di narrare in queste pagine; sempre che ne abbia ancora la forza e il tempo e che l’ispi-razione non si esaurisca in questo preambolo necessario a spiegare alcuni incidenti, forse secondari, del caso che mi portò a fare la conoscenza dell’uomo più intelligente della Storia.

Quella mia prima sortita nel mondo del grande detective im-magino abbia avuto implicazioni molto più complesse di quanto allora fui in grado di percepire, visto il mio piccolo contributo al furto della lettera ai danni dello sconosciuto con il monocolo: non ero che un bambino che vedeva la scena da dietro le quinte, anche se per un momento fui una delle comparse. Ma so che quella vicenda ebbe un seguito un paio di mesi dopo, e che a essa parteciparono persone che, nonostante allora non lo sapessi, erano famose e persino importanti. Cosa c’era davvero in gioco in quell’incrociarsi di buste e barche? Quali personaggi furono salvati in quel momento? Quali tristi destini si intersecarono quella notte a Limehouse? Perché quell’avventura non venne mai pubblicata? Lo ignoro, ma credo che la discrezione abbia contato più di ogni altra cosa. Sarebbe passato molto tempo prima che il diabolico nemico al quale Holmes aveva tentato di dare la caccia si rivelasse al mondo e, a sua volta, avesse una propria nemesi: un altro gentiluomo al servizio dell’Impero più portato all’azione che alla riflessione e alla cautela. Incontrai ancora quel terribile maestro del crimine a Hollywood, un paio di decenni dopo, ma ebbi l’accortezza di non guardarlo nei suoi peculiari occhi verdi da gatto. Il fatto curioso è che scrivo queste memorie nella mia villa in Svizzera, sapendo che quel temibi-

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le orientale sarà morto e sepolto, eppure mi sento reticente a rivelare il suo nome… Casomai Sherlock Holmes non sia stato l’unico a trovare il modo di allungare la sua esistenza grazie alle sperimentazioni scientifiche (io non ne ho avuto bisogno). Temo che gli esperimenti di quel diabolico dottore non si siano limitati alle api e alla pappa reale, come dicono sia avvenuto per il detective, ma che abbiano implicato l’uso di sostanze e risorse molto più spaventose.

Essere un Irregolare di Baker Street per noi significava poter gironzolare tra le case dei ricchi e ammirare i loro vestiti, la loro eleganza, i loro vizi e il loro stile di vita, così differente dal nostro che sembrava appartenessimo a due pianeti diversi, defi-niti in base alla separazione stabilita dai quartieri e dal fiume di Londra. Nascosti nell’ombra, appollaiati sugli alberi, vendendo quotidiani o giocando sui marciapiedi, io, mio fratello e i miei amici eravamo testimoni di un modo di vivere che ci attraeva e al tempo stesso ci disgustava un po’. L’ammirazione si mesco-lava al disprezzo perché in quelle carnagioni chiare e in quei vestiti inamidati e lindi vedevamo qualcosa che imparammo a identificare con la debolezza, forse come nella favola de La volpe e l’uva. I gentiluomini e le dame dei quartieri privilegiati della città, incapaci di risolvere le loro grane, inefficaci, inadeguati, dovevano fare ricorso ai servizi del detective e lui impiegava noi, il piccolo sudiciume delle strade, di cui nemmeno si accorge-vano. Molte volte il nostro lavoro di spionaggio gli consentiva di risolvere questioni spinose, ma loro continuavano a non ac-corgersi di quanto avevamo fatto per garantire di nuovo quella serenità di corpo e di spirito che tanto agognavano. Eppure non ci importava. Il nostro era un lavoro e come tale veniva pagato. Faceva un po’ male, questo è vero, che le belle ragazzine che vivevano in quelle ville recintate dalle numerose finestre non ci degnassero nemmeno di uno sguardo. Più di una volta, per molto tempo dopo quel fugace periodo, desiderai essere Peter

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Pan e portare via con me in un posto lontano qualcuna di quelle emule di Wendy.

Ma lavorare per il signor Holmes aveva anche un risvolto oscu-ro che ci metteva in pericolo. Sono sicuro che lui non la vedesse in questo modo o che pensasse che, essendo figli della sporcizia e della strada, ce la saremmo cavata senza intoppi in tutti i guai in cui saremmo potuti incappare. E così era nella maggior parte dei casi: se non avessero lavorato per lui, molti degli Irregolari non sarebbero altro che teppistelli e ladruncoli, bande di bambini perduti alla mercé del Fagin di Charles Dickens di turno (natu-ralmente a questo punto non farò alcun commento sugli archetipi ebrei: io non lo sono, non lo sono mai stato e mi sono stancato di negarlo; mio fratello Syd invece lo è, e mia madre Hannah lo fu fino a quando si convertì al cristianesimo), futura carne per la galera o per il patibolo. Senza dubbio Holmes pensava di redi-merci, al contrario di Watson, che ci considerava come appestati. Il detective aveva fiducia nella nostra capacità di sopravvivenza, ma non era conscio, o forse non lo interessava, del fatto che essere una spia bambino aveva il suo prezzo e che in certe circostanze quel prezzo era troppo elevato.

Per un po’ di tempo sorvegliammo gli andirivieni di un gen-tiluomo alto e di bella presenza, dalle labbra sottili e dalla carna-gione molto pallida. Né Syd né io sapevamo chi fosse, ma aveva sempre attorno a sé un nutrito gruppo di persone che festeggiava i suoi motti di spirito e applaudiva quelle che, da lontano, intu-ivamo essere battute sagaci. Era un uomo raffinato, stravagante, dai modi garbati. Una femminuccia, lo aveva definito immedia-tamente mio fratello. Mi ero stretto nelle spalle. Un altro ragazzo aveva scoperto che era un poeta, e durante i nostri pedinamenti capii che doveva essere così, perché girava per i teatri e, una volta, lo vidi montare su una carrozza con una di quelle dive del palcoscenico per la quale, dicevano, aveva scritto un’opera niente meno che in un’altra lingua.

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Il gentiluomo in questione andò a far visita a Holmes al 221 B di Baker Street* annunciandosi con tutta la pompa e il clamo-re che riteneva necessari: ci mancò solo che portasse con sé un fotografo e una banda musicale. Dalla strada in cui giocavamo a bilie nell’attesa di un incarico, Syd e io vedemmo che il volto di Watson si era fatto più acido del solito quando l’aveva ricevuto sulla porta: dedussi che non gli piacessero i poeti o che forse non gradisse gli scrittori drammatici, oppure che non gli andassero a genio gli effeminati. Ciononostante Holmes lo accolse in casa e, in strada, noi ci sfregammo le mani: ci misero così tanto a finire la loro conversazione che immaginammo si trattasse di un caso succulento e interessante e che, senza dubbio, l’avremmo visto pubblicato nelle pagine delle riviste e ci saremmo accorti della sua importanza dall’appesantirsi delle nostre tasche.

Quando il gentiluomo uscì, chiamò una vettura che si dileguò in direzione dei club cittadini o verso uno dei raduni letterari molto in voga all’epoca, che tanto scandalizzavano i benpensanti e facevano arrossire clamorosamente le signore. In segreto lo chia-mavo “Mister Lucciola”, forse perché lo immaginavo in piedi in quei saloni, acceso di luce propria, mentre raccontava aneddoti piccanti, sapendo di essere più brillante e più sveglio di tutti gli altri; più spiritoso, più attraente, più intelligente, più simpati-co… Una lucciola, sì, estranea al pericolo della fiamma intorno alla quale danzava. Quanto lontano ero allora dal sospettare che un giorno avrei sentito sulla mia pelle quello stesso sconcerto, il passaggio dall’adorazione al rifiuto, dalla stima all’esilio…

Non trascorse molto tempo prima che Holmes ci richiamasse in casa. Watson ebbe l’accortezza di non farsi vedere. Si ritirò in un’altra stanza a scrivere le sue storie o a preparare una delle sue medicine economiche, chissà, in ogni caso prima nascose l’argen-

* Charlie rispetta le convenzioni del cosiddetto “canone holmesiano”: il 221 B di Baker Street è in realtà il numero 31, perché è risaputo che all’epoca la strada arrivava al numero 85. [N.d.T.]

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teria. Non si era mai fidato di noi, non gli eravamo mai piaciuti. Ora capisco perché, nonostante i suoi svariati matrimoni, non abbia mai avuto figli: i bambini lo spaventavano.

Holmes chiese alla servizievole signora Hudson di portarci tè e pasticcini e, mentre divoravamo lo spuntino, si spiegò con semplicità, come sempre, ma non credo fosse perché ci consi-derava stupidi: il gentiluomo che gli aveva appena fatto visita era preoccupato per un suo amico che era scomparso da qualche settimana. Un poeta, come lui. Holmes pronunciò quella parola come se giustificasse un mucchio di cose, ma per noi un poeta era soltanto un damerino che scriveva in modo strano e, qualche volta, recitava sui palcoscenici, e che doveva declamare battute piccanti e in rima se non voleva ricevere una pioggia di ortaggi e pomodori al posto degli applausi.

– Può darsi che il gentiluomo in questione abbia avuto un incidente, circostanza che, al giorno d’oggi, è disgraziatamente sempre più comune – disse Holmes mentre contemplava il tra-monto dalla finestra del suo studio. – O forse ha abbandonato volontariamente la sua dimora. So che il suo non è un matrimonio felice. Sydney, Charlie, a quanto dice il gentiluomo che è appena andato via, è stato visto per l’ultima volta nella zona di Lime-house. E Limehouse è un posto pericoloso, che con i tempi che corrono nessun galantuomo dovrebbe frequentare.

Holmes piegò la testa, incrociò le mani dietro la schiena e aggiunse: – E nemmeno i bambini.

– Non abbiamo paura, signor Holmes – disse Syd con la boc-ca piena e l’avidità dipinta sul volto. Io invece un po’ di paura l’avevo, ma in un certo senso non aveva importanza: volevo il mio stipendio e, se bisognava andare in quella terribile zona per guadagnarselo, così avrei fatto.

– Io non posso recarmi a Limehouse, ragazzi – disse Holmes con le sopracciglia aggrottate in espressione meditabonda. – La mia presenza in quel luogo potrebbe far scattare l’allarme e al

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momento alcune circostanze rendono questa eventualità sconsi-gliabile. Non posso venire a Limehouse come detective.

– Per questo ci siamo noi, signor Holmes – replicò mio fra-tello.

Holmes lo guardò con gravità. Il suo profilo affilato risplendeva sotto la luce a gas.

– Per questo ci siete voi – asserì. – Ma, Sydney, dovete fare attenzione. Le vostre indagini non devono sollevare sospetti. Nes-suno deve sapere che fate parte del mio gruppo d’Irregolari: bric-concelli di strada, sì, investigatori con un piano premeditato, no. Il gentiluomo che stiamo cercando può essere scomparso in quella zona: non credo che l’abbiano sequestrato perché la sua fortuna non è molta, e nemmeno la sua fama. Inoltre ritengo improbabile che sia stato rapito da quel maestro del crimine che sto persegui-tando dallo stesso giorno in cui ci siamo conosciuti vicino ai moli, Charlie. Anche se è tanto elusivo quanto un serpente.

– Allora dobbiamo cercare quel gentiluomo senza che nessuno sappia che lo stiamo cercando?

– Su questo, non c’è alcun dubbio. Dovete cercare quel poeta. Sua moglie, Lady Rowena, è una cara amica di alcuni miei amici, e c’è molta gente che stimo preoccupata per la sua scomparsa… Lady Laura e Sir Lawrence Alma-Tadema, tra gli altri. Il fatto è che la polizia non si azzarda a entrare in molti vicoli di Limehou-se: ci sono orrori nascosti nell’ombra, e nessun fischietto potrebbe salvare gli agenti della corona se le cose si mettessero male per loro mentre cercano quel povero disgraziato.

– Nemmeno lei si azzarda a entrare in quel quartiere d’immi-grati? – chiesi con occhi spauriti, ma mi pentii subito di aver aperto bocca.

– Temo che se entrassi ora a Limehouse verrei immediatamente identificato dagli agenti di quel misterioso maestro del crimine che cerca di insediarsi a Londra, lo stesso che ha corrotto agenti nemici cercando il modo di agire di nascosto per non sollevare so-

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spetti. Ho dato la mia parola e perciò troverò il signor Wilberfor-ce quanto prima. Ma se adesso venissi individuato in quelle strade verrebbe meno la possibilità di sbaragliare la rete criminale, che si stabilirebbe in un altro luogo fuori dalla mia portata. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è che qualcuno venga a insediarsi sul trono di Napoleone del crimine che per tanto tempo il professor Moriarty ha occupato nell’ombra.

– Allora cosa dobbiamo fare?– Quello che avete sempre fatto. Tenere gli occhi aperti, fare

domande in modo intelligente e informarmi all’istante quando credete di avere un indizio chiaro per ritrovare il poeta.

– Wilberforce?– Alexander Wilberforce, questo è il suo nome.– Non ho mai sentito parlare di lui – commentò mio fratello.

– Sono rimasto a Shakespeare.– E non è una cattiva cosa – osservò Holmes con distacco. Sup-

pongo avesse intuito che mio fratello non era mai andato oltre la lettura di qualche quotidiano popolare e del libretto de I Pirati di Penzance che girava per casa, tra i guanti ancora da finire con i quali mia madre, improvvisatasi cucitrice, tentava di guadagnarsi da vivere.

Salutammo il signor Holmes dopo esserci riempiti le tasche di biscotti. Per infastidire Watson avevo pensato di portare via anche un cucchiaino, ma la signora Hudson e Holmes non si meritavano di pagare lo scotto per l’antipatia che destava in me il medico storpio, perciò lasciai perdere. Perché sono sempre stato un bravo ragazzo, e diffidare delle banche non è proprio la stessa cosa che essere un ladro: è così che ho scampato il crollo della borsa di quel venerdì nero. Per pura diffidenza, com’è risaputo, e non per una soffiata.

Eravamo quasi arrivati alla porta, quando Holmes richiamò mio fratello su da in cima alle scale. Syd si voltò e ricominciò a salire i gradini per andargli incontro. Io lo seguii.

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Dal punto in cui si trovava, Holmes alzò un dito.– Aspetta un momento lì, Charlie – disse con fare severo.Mi strinsi nelle spalle, girai i tacchi e attesi Syd sulla porta,

sentendo il fresco della notte sul volto. Dopo essersi trattenuto per qualche minuto con il detective Syd scese di corsa le scale per raggiungermi. Mi diede una pacca sulla spalla e imboccammo la strada di casa, verso i quartieri meridionali di Londra.

Mio fratello rimase in silenzio per tutto il tragitto, fumando e condividendo con me solo qualcuna delle sue sigarette costose. Non c’era bisogno di essere particolarmente perspicaci per ca-pire che Holmes aveva chiesto a mio fratello, in quella riunione dell’ultimo minuto, di non portarmi con sé alla ricerca di quel poeta scomparso nei reconditi vicoli del quartiere cinese.

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Sydney e io non eravamo gli unici Irregolari di Baker Street. Era-vamo una legione. Nel capitolo precedente ho parlato di Fagin (che una volta vidi al Teatro di Sua Maestà, a Londra, interpretato dal mio attore preferito, il grande sir Herbert Beerbohm Tree, che passavo le ore a imitare). Be’, in un certo senso, per noi Sher-lock Holmes era l’esatto contrario del personaggio di Dickens. Ci aveva raccolto dalla strada (o per meglio dire ci eravamo arruolati a vicenda) e lì ci incontravamo. Marmocchi di tutte le età, im-brattati da ogni sorta di sporcizia, affamati, cenciosi, in alcuni casi storpiati, bastonati, svegli, con tutte le carte in regola per buttarci a capofitto in una vita di alcol e microcriminalità e, cio-nonostante, lavoravamo con quell’ammirazione che solo i bambini possono avere per un uomo che pretendeva di fare giustizia o, in ogni caso, arrivare alla verità, impegnandosi come nessun altro si era mai azzardato a fare.

Non avevamo un capo. Tuttavia, nelle sue storie, Watson pensò bene di nominare Wiggins come nostro capobanda (forse proprio per le vicende avvenute quella sera e che ora vi narrerò). Ci gesti-vamo in modo assembleare, se così si può definire un raduno di venti o trenta mocciosi che parlano in contemporanea e nel quale si capisce solo in parte ciò che viene detto a causa del chiasso o della cattiva pronuncia causata dallo sforzo di urlare con la bocca piena di buchi per la caduta dei denti da latte. Non avevamo una guida: eravamo tutti capitani e marinai. Ma, naturalmente,

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alcuni contavano più di altri all’interno della banda. Perché essere veterani aveva il suo peso e conoscere le strade, sapere dove ficcare il naso e dove no, era indispensabile e imponeva il rispetto di quelli con meno esperienza, i più piccoli. Soprattutto, e tuttora lo considero un vantaggio, non dovevamo vestire pantaloni corti né pronunciare alcun giuramento con tanto di fazzoletti colorati, come avrebbero fatto anni dopo i marmocchi di Baden-Powell.

Dopo aver parlato con Holmes quell’imbrunire, mio fratello Sydney mise in moto la macchina. Un fischio qui, una campanella che suona fuori orario là, il carro del lattaio che passa riecheggian-do e svelando che i contenitori di metallo sono vuoti, una corda che si tende, un colombo che svolazza, un cane che abbaia perché gli hanno pestato la coda, il gatto che fugge atterrito portandosi dietro una scia di barattoli di conserve e che sveglia tutto il vici-nato annunciando che è ora di mettersi in marcia.

Il mattino seguente ci radunammo un po’ alla volta, a uno a uno o a gruppetti di tre. Bricconcelli di dieci e mocciosi con la metà di quegli anni, sporchi di fuliggine e segnati dalle pustole di un vaiolo che non li aveva portati all’altro mondo, con i nasoni, sdentati, bruttini nel periodo inevitabile che dall’infanzia porta all’età adulta e con una sola bambina misteriosa tra le nostre fila, che peccato; altri rosei e con quel gonfiore caratteristico della de-nutrizione, o alti e sgarbati, piccoli e neri come la pece, qualcuno di colore, che fumavano e bevevano di nascosto il whisky rubato al padre ubriacone, strilloni e lavapiatti, lustrascarpe, fiammiferai, calderai, spazzacamini, aiuto cuochi, attendenti che non si abi-tuavano ai tempi di pace. Bambini che per gioco entravano nel mondo degli adulti e, vedendolo da lontano, erano convinti di poter gestire simultaneamente entrambi gli aspetti: l’innocenza e il disinganno, la gioia di vivere e l’essere stufi degli anni sulla groppa. In seguito, avrei sentito molte volte la mancanza di quei mesi segreti della mia vita, di quei bambini, e mi sarei chiesto che fine avesse fatto la maggior parte di loro, come li avesse spezzati

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il destino; se fossero morti gonfi di alcol in qualche taverna, se li avesse ammazzati la polizia, se fossero diventati poliziotti ispirati da Sherlock Holmes e avessero risolto casi che il maestro avrebbe considerato di nessuna importanza, se la Grande Guerra li avesse spazzati via o se lo avessero fatto i bombardamenti della Luf-twaffe, una qualche malattia, una macchina senza freni, una lite al porto, oppure una banda dedita al crimine organizzato, come quella che incontrammo quella notte a Limehouse. Cosa sarà stato di tutti loro mentre io diventavo ricco e famoso in America, pri-ma che l’fbi prendesse a perseguitarmi perché penso quello che penso, anche se ormai non recito più? Ma sto divagando.

Non fu difficile scegliere un piano d’azione. O lo fu non più di tutte le altre volte che, in gruppo, ci eravamo messi a indagare per il nostro capo. In questo caso Syd, Wiggins e i ragazzi più grandi, forse seguendo istruzioni di Holmes, adottarono una strategia inusuale, piena di allusioni all’operaismo e persino rivoluzionarie: l’invasione diretta. Spedirono i più piccoli in missioni che, ne ero al corrente, erano di pura facciata, lontano da Limehouse che era al centro della vicenda e dove avremmo dovuto rintracciare il poeta scomparso. Poi tutti gli altri, come un solo bambino, si misero in marcia, a piedi o in carrozza, correndo o saltando. Se avessero potuto volare, lo avrebbero fatto.

Fu una crociata di bambini. Le strade di Londra si riempirono di mocciosi straccioni che camminavano risoluti verso i quartie-ri orientali, senza smettere di ridere, tirare sassi, rubare mele o aiutare le vecchiette ad attraversare la strada. Passo dopo passo, via dopo via, metro dopo metro. Senza pifferaio di Hamelin che li conducesse, ma con una destinazione in comune: Limehouse, il quartiere cinese, la zona proibita dei docks, dov’erano in agguato razzismo e paura.

Syd ci provò, devo riconoscerlo. Quando spedirono gli altri piccoletti verso compiti meno pericolosi, mi guardò con seve-rità. Io sostenni lo sguardo, come avevo già imparato a fare, e

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come avrei fatto negli anni a venire ogniqualvolta ci trovavamo in disaccordo su un piano, sul titolo di un film o per un litigio. Holmes o me. In un decimo di secondo decise… Tenermi sotto la sua ala o sapermi alle sue spalle da solo, a mio rischio e pericolo? Come tutte le altre volte, prima e dopo di questa, Syd scelse me, non Sherlock Holmes. Syd, sempre fedele e buono. Era più con-veniente avermi al suo fianco che essere preoccupato di dove mi sarei potuto cacciare: la notte che avevamo seguito l’uomo con il monocolo lo aveva dimostrato.

Senza smettere di giocare e ridere, da bambini che eravamo, attraversammo Londra e ci stabilimmo a Limehouse. Non sa-pevamo se lì ci fossero già altri mocciosi. Ma se c’erano, poteva darsi che non avessero la nostra carnagione, che non fossero della nostra razza: che la loro infanzia fosse ancor più breve della nostra. All’improvviso tutte le strade erano piene di marmocchi che gio-cavano a bilie, appostati agli incroci, che sorridevano e chiedevano l’elemosina. Bambini dai volti pallidi e sporchi, bambini con il viso magro e gli occhi azzurri che osservavano ogni angolo, in ogni casa, che scrutavano i passanti ed evitavano gli sguardi delle prostitute, arrossendo per qualche insinuazione fuori luogo, elu-dendo l’intuita presenza di un poliziotto irlandese che non era lì di guardia e, in particolare, cercando sui volti gialli degli abitanti del quartiere proibito un indizio, una traccia che ci indicasse dove fosse quel poeta che non avevamo mai visto.

Così passarono due giorni. O forse tre, o quattro, non ricordo, persi il conto. Ci alternavamo nei turni di guardia, ci dividevamo le vie e le piazze. Sempre osservando furtivamente, calcolando, soppesando, confrontando. I ragazzi più grandi (lo so perché me lo raccontarono, io non sarei mai stato in grado di farlo), oltre a vigilare, seminavano il dubbio, indagavano facendo finta di nien-te, ponevano domande. Ogni notte, qualcuno si allungava fino a Baker Street e riferiva a Holmes che Alexander Wilberforce, quel poeta sconosciuto, era stato inghiottito dalla terra.

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Così passavano i giorni, finché un pomeriggio una carrozza si fermò a Limehouse e ne scese con fare altezzoso, spazzolandosi il completo color malva chiaro, i guanti di pelle di daino e il capello abbinato coronato da una piuma, lo stesso poeta che avevamo se-guito in precedenza, l’uomo che aveva chiesto a Holmes di cercare il suo amico, Mister Lucciola in carne e ossa.

Syd e Wiggins si scambiarono uno sguardo e spensero la si-garetta che stavano condividendo senza farmi partecipe del loro piacere. Nonostante la mia giovane età, capii la situazione: se noi avevamo allegramente ignorato gli ordini di Holmes (io ero lì, a prova della nostra insubordinazione), anche il poeta sembrava essersi stancato di attendere notizie, ed eccolo di persona, elegante e fuori luogo, deciso a trovare da sé qualche indizio su dove fosse finito il suo amico.

Fuori luogo come non avevo mai visto nessun altro, ma intre-pido, se così si può dire, dell’atto più incosciente di cui sia mai stato testimone (e, naturalmente, sono stato testimone e persino protagonista di un mucchio di essi), balzava agli occhi come una tarantola in una fetta di pane imburrato. Nei giorni che erano trascorsi dallo sbarco degli Irregolari di Baker Street a Limehouse, gli abitanti del quartiere si erano abituati alla nostra presenza. In un certo senso era una zona di passaggio ed era possibile che nessuno si fermasse molto a lungo: problemi con la polizia, la famiglia, le triadi rendevano impossibile imbattersi in un paio di volti familiari per due settimane di fila. Dopo un giorno di permanenza a Limehouse nessuno prestava più attenzione all’in-vasione di bambini che occupavano, strategicamente, strade e incroci.

Ma l’arrivo del poeta fu un fulmine a ciel sereno. Profumava di denaro. Profumava di diversità. Profumava di “vado in cerca di guai”. Forse nei saloni che frequentava poteva mettersi in mostra in quel modo e venire elogiato e ammirato, ma in quel luogo era come se stesse chiedendo a squarciagola che qualcuno gli

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infilzasse un coltello tra le costole solo per vedere se le sue scarpe gli calzassero e se la sua cravatta fosse davvero di seta indiana. Il gentiluomo era abituato a comportarsi con disinvoltura, con sfacciataggine, ma lì quelle doti non gli sarebbero valse a nulla. Ci trovavamo in un quartiere problematico, in un luogo sordido e oscuro in cui un cadavere poteva sparire con la rapidità con la quale un pugno di formiche cancella le tracce di uno scarafaggio che qualcuno, senza volere, ha schiacciato con la scarpa.

Nonostante tutto, in quanto uomo di mondo dalla loquacità ragguardevole, il poeta non si scheggiò nemmeno un’unghia. Fermò il primo orientale che gli passò accanto con lo sguardo a terra e l’andatura veloce e scambiò con lui una serie di parole. Noi eravamo troppo lontani per sentire la loro conversazione, ma secondo me si svolse in cantonese, o per lo meno né in cockney né in nessun’altra lingua cristiana.

L’orientale esitò, si grattò il collo e si sistemò il codino sulla spalla. Prima segnalò una strada poco più in giù, poi gli indicò di girare a sinistra. Parlava molto velocemente, in modo fram-mentato e con cautela. Il poeta lo ringraziò chinando la testa, ebbe la premura di non trattarlo come un sottoposto ed evitò di ricompensarlo con qualche moneta che avrebbe potuto fargli fraintendere che il favore veniva considerato come un acquisto di informazioni.

Con passo svelto, Mister Lucciola s’incamminò nella direzione indicata e poi svoltò a sinistra lasciandosi alle spalle la chiesa di Sant’Anna che s’innalzava come un testimone severo e imponente sopra gli edifici del quartiere. Noi gli corremmo dietro, ma non passò molto tempo prima che si inoltrasse nel labirinto di vicoli che vanno da Ropemaker Street a Gun Street. Evitammo di fare rumore, per non mettere in allerta né lui né nessun altro. Non credo ci fossimo riusciti: il silenzio che regnava in strada indicava che, in tutti gli angoli, decine di occhi ci stavano spiando, e di certo non tutti erano amichevoli.

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Con il pomello del suo bastone, Mister Lucciola bussò a una porta e passò un bel po’ di tempo prima che qualcuno si degnasse di aprire, ma questo non persuase il poeta ad andarsene a cercare il suo amico da un’altra parte. Credo sapesse molto bene dove si stava recando: forse aveva indagato per conto proprio altrove e, se davvero tentava di trovare il poeta smarrito, aveva ben chiaro il fatto di dover rimanere lì e aspettare che qualcuno gli concedesse la grazia di aprirgli la porta.

E così fu. Una figura nella penombra, un vecchio cinese dal vol-to di pergamena con le unghie molto lunghe, allungò una mano e Mister Lucciola fece diligentemente scivolare alcune monete d’oro sul suo palmo. L’orientale spalancò la porta e, inspirando profondamente, Mister Lucciola attraversò l’ingresso buio e scom-parve dalla nostra vista.

Rimanemmo interdetti e senza poeta. Syd bestemmiò a bassa voce e buttò il mozzicone per terra, Wiggins imprecò e per poco non si mise a mordere la visiera del berretto. Non sapevo cosa dire, perciò guardai in alto e indicai ai due ragazzi più grandi che, se la porta era sigillata come sembrava, potevamo sempre tentare di trovare un altro ingresso.

Detto fatto. Ci aggrappammo a una tubatura che strisciava lungo il muro marrone scuro dell’edificio e, arrampicandoci come scimmie, riuscimmo ad arrivare a una finestra all’ultimo piano. Il vetro era rotto, perciò Wiggins e Syd si limitarono a togliere i frammenti per non tagliarci e in un attimo fummo all’interno dello stesso luogo in cui si era infilato Mister Lucciola.

Ricordo ancora l’odore: passa il tempo ma l’odore torna alla memoria come se si stesse diffondendo dalla stanza a fianco, come se mi avesse accompagnato tutta la vita, come se fosse parte di me. Odore di legno vecchio e sudore rancido, di salnitro e tela, di fumo e saliva e soprattutto di solitudine e disperazione, di lacri-me, miseria e fuoco lento. Più che buio, era nebbioso. La luce che filtrava dalla finestrella che ci aveva consentito l’accesso moriva

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sul pavimento come un raggio liquido che affogasse in una poz-zanghera assettata. Le tavole del pavimento scricchiolavano sotto i nostri piedi (nonostante non pesassimo molto), e dappertutto si sentiva un suono sfuggente, come quello dei topi in fuga o di passetti molto vivaci. Il luogo era un grande magazzino abban-donato, un deposito che, probabilmente, nessuno utilizzava più. Adesso assolveva a una funzione assai più terribile e misteriosa.

Scendemmo le scale di legno marcio, tentando di vedere oltre la punta dei nostri nasi. L’odore del posto era asfissiante, si insinuava nelle narici e saliva fino agli occhi, come un profumo dolciastro che cerca di conficcarsi al centro del cervello. Qualcosa o qualcuno emise un gemito, un fagotto allungò una mano vicino a dove mi trovavo e mi fece balzare dalla paura.

Syd mi protesse, frapponendosi inutilmente tra quella mano moscia e il mio corpo: la mano cominciò a dondolare lentamen-te, come se implorasse la carità che noi non potevamo darle né avremmo saputo concedergli. Schiena contro schiena, tutti e tre spaventati, procedevamo lungo un corridoio scuro e maleodo-rante mentre comprendevamo che quelle ombre che gemevano inquiete erano esseri umani. Non erano morti, ma lo sembravano. Dormivano, o sognavano, sembravano immobili anche se in realtà quello che stavano facendo era fuggire, non so se dal mondo o da loro stessi.

– Una fumeria d’oppio – sussurrò Wiggins. E Syd portò un dito alle labbra per chiedere silenzio, ma inutilmente, perché credo che nessuno di noi tre avesse ancora voglia di parlare.

I corpi ammucchiati erano di uomini e di qualche donna, con gli occhi socchiusi e la testa appoggiata sul legno duro dei letti. Quello che prima avevamo confuso con il rumore di topi erano in realtà i passi furtivi degli attendenti incaricati di ritirare o riempire le pipe d’oppio di quei disgraziati.

In fondo al corridoio, Mister Lucciola teneva il cappello in mano e si faceva aria piano. Stava osservando un uomo disteso e

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l’orientale che gli aveva aperto la porta aspettava alla sua destra, muto e silenzioso, come se stessero valutando un mobile senza valore o una pianta appena morta per mancanza d’acqua.

– Alexander, Alexander… – disse Mister Lucciola con tristezza, come recitasse. – Una cosa è cadere in tentazione per liberarti finalmente di lei, come ho sempre detto, e un’altra, molto diversa, è fare questo a te stesso, amico mio.

L’uomo nel lettino emise un gemito nel sonno, ma non sembrò riconoscere l’amico. Syd e Wiggins si scambiarono l’un l’altro del-le gomitate nel comprendere (come del resto avevo fatto anch’io, ma senza aggredire nessuno) che si trattava del poeta scomparso. Non l’avevano sequestrato, né era caduto nel Tamigi, né aveva abbandonato la famiglia per una cantante di vaudeville dal sorriso vacuo: semplicemente aveva sostituito il lusso della sua casa con la sordida oscurità di quella fumeria.

– Dobbiamo portarlo via di qui – disse Wiggins a voce alta, e sia Mister Lucciola che il cinese dalle unghie lunghe si voltarono a guardarci.

Né a Wiggins né a mio fratello sembrò importare essere stati scoperti. Eravamo Irregolari di Baker Street: un corpo di valorosi agli ordini di un uomo inimitabile. Se la parola di Holmes su-scitava rispetto, le sue azioni non erano da meno. E noi eravamo i suoi allievi, i suoi pupilli prediletti, i suoi eredi.

Mister Lucciola ci guardò e le sue labbra disegnarono una pic-cola “o” di apprezzamento. Non ci fu bisogno di dire chi eravamo e perché volevamo portare via da lì Wilberforce, che se ne stava raggomitolato con la pipa appoggiata di traverso sul petto come il calumet di un capo indiano.

– In effetti, dobbiamo portarlo via di qui – disse, e si voltò per depositare altre monete sul palmo della mano del vecchio cinese con le quali comprare, questa volta sì, la libertà del suo amico.

Ma il cinese non era più lì. In un qualche momento tra la sco-perta di Wilberforce e la nostra comparsa, era svanito, come in un

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trucco di specchi e fumo, tra le ombre che ci circondavano e delle quali ormai faceva parte. Mister Lucciola si strinse nelle spalle, indossò il cappello con squisita cura e, dopo essersi coperto il naso con un fazzoletto di seta che risplendeva come un fantasma nella penombra, tentò di sollevare il suo amico dal letto.

Syd e Wiggins gli diedero una mano e alzarono Wilberforce come fosse un bambolotto di pezza o l’assistente atona di un pre-stigiatore che entra ed esce agile dalla minuscola strettezza delle scatole di legno colorate. Ma riuscirono a malapena ad alzarlo: era impossibile fargli muovere un passo.

– Per tutti i diavoli dell’universo, è incatenato! – esclamò Wig-gins.

Ci avvicinammo per guardare con più attenzione. In effetti, le caviglie di Wilberforce erano circondate da anelli di ferro che tenevano legata al legno del letto la sua carne tumefatta.

– Ma è normale? – chiese mio fratello.– In un altro posto, forse. Qui temo di no – sussurrò Mister

Lucciola, mentre tentava di tirare le catene che impedivano al suo amico di fuggire dal letto e dal sonno.

In modo deciso Wiggins si avvicinò a un altro uomo che, come Wilberforce, sonnecchiava tra gli effluvi dell’oppio. Com’era pre-vedibile non era incatenato. Solo a Wilberforce veniva impedito il movimento. Chi entrava in questo posto lo faceva consenzien-temente: arrivarci non era difficile. Lo era, invece, uscirne. Ma non c’era bisogno di una catena di ferro: era molto più forte la catena simbolica dell’oppio che bruciava lentamente tra quelle dita intorpidite.

Rimanemmo di stucco senza sapere cosa fare. Inconsciamente ci volgemmo verso l’uomo con il completo color malva. Ma lui deglutì, confuso tanto quanto noi. Non aveva idea di quello che bisognasse fare: non era pronto a cavarsela in quella situazione inaspettata.

Wilberforce aprì gli occhi, come un cieco che vede la luce per la

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prima volta in tutta la sua vita, e alzò una mano tremante con la quale accarezzò il vuoto. A me sembrava che sfogliasse le pagine di un libro invisibile in cui avesse trovato qualcosa di simile alla consolazione.

Infine il suo sguardo annebbiato si arrestò sulla figura del po-eta e qualcosa di simile al riconoscere qualcuno, o all’allegria, si accese in quegli occhi per un breve istante.

– Oscar… – mormorò, con la bocca pastosa così diversa e al tempo stesso tanto simile a quella degli ubriachi delle taver-ne dove ogni tanto mi guadagnavo qualche scellino cantando e ballando. – Tanti libri, amico mio, tanti libri… Oscar, ti è mai capitato di vederla? Ti sei mai imbattuto nella città dei libri che si trova oltre i sogni?

Siccome Mister Lucciola non sapeva che cosa fare, e visto che con le catene alle caviglie non saremo mai riusciti a portare via Alexander Wilberforce da lì, Wiggins dovette prendere l’inizia-tiva. Cercò gli attrezzi da scassinatore tra le pieghe della giac-ca grigia, larga e consunta, e facendo allontanare di un passo il gentiluomo iniziò a brigare con il lucchetto e gli arnesi. Mio fratello mi scoccò uno sguardo e, nonostante lo sapessi nervoso, la sua finta sicurezza mi tranquillizzò. Wiggins aveva esperienza nell’apertura di porte: aveva fatto il ladruncolo in una banda di svaligiatori prima che il signor Holmes lo riscattasse da quella vita e lo mettesse ai suoi ordini.

Quello che si è appreso per bene non si dimentica mai nella vita: questa è l’importante lezione che imparai quella notte. A Wiggins bastarono un paio di minuti per armeggiare con le ser-rature e aprirle. E lo fece senza alcuno scompiglio, come chi toglie l’involucro a una caramella o accende una sigaretta dopo averla rollata mentre fa un’altra cosa nello stesso momento. E un’altra cosa in effetti la stava facendo: mentre saggiava i lucchetti non smetteva di guardarsi alle spalle. Quel luogo oscuro e fetido, appartato e occulto, faceva venire la pelle d’oca.

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Wiggins, mio fratello e Mister Lucciola riuscirono infine a sollevare Alexander Wilberforce dal letto. Anche senza catene, non sembrava in grado di muovere due passi di fila. Ma almeno era fisicamente libero. Era ancora tutto da vedere come saremmo riusciti a uscire da quel posto.

Ci incamminammo, ma facemmo appena in tempo a voltarci: le luci si erano spente di colpo.

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La mancanza di luce è una cosa, la mancanza assoluta di luce un’altra. Persino nella penombra di quel dormitorio terribile i nostri occhi si erano abituati a quelle sagome informi accasciate su entrambi i lati del corridoio, al tenue bagliore della brace delle pipe e ai fasci luminosi del giorno che entravano sfuocati dall’alto, da qualche fenditura che di colpo era stata sigillata, isolandoci. Fu letteralmente come passare dalla vista alla cecità. All’improvviso tutto divenne nero. Le sagome informi e il rossore delle pipe, come i bagliori sfuocati che indicavano che fuori era tardo pome-riggio, sparirono. Tutto si fece di pece, come il mare di notte. I gemiti dei fumatori d’oppio cessarono repentinamente. Il rumore dei passi lontani degli anonimi attendenti si quietarono. I topi smisero di correre. Si sentivano solo i nostri passi rimbombare sulle tavole marce del pavimento.

Ebbi l’impressione che fosse perfino cambiato lo scenario, come se d’un tratto, oltre a spegnersi la luce fievole, ci avessero trasfe-rito in un altro luogo ancora più tetro. Ma sapevo che eravamo ancora lì, perché il tanfo non se n’era andato. Anzi, aveva assunto una consistenza fisica, come se compensasse la deficienza degli altri sensi che in quel momento ci venivano negati. Eravamo intrappolati in una tana senza uscita.

– Mio caro Alexander, sembra proprio che non vogliano farti uscire di qui – mormorò Mister Lucciola, Oscar, il poeta con il completo malva chiaro. – Per tutti i re dell’Éire, devi dei soldi

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a qualcuno? Hai scommesso all’ippodromo di Ascot la fortuna che non hai più?

Wilberforce non gli rispose. Mio fratello tirò fuori una scatola di fiammiferi per accenderne uno e orientarsi, ma Wiggins gli afferrò la mano non appena ne sentì il rumore.

– No – sussurrò. – Se hanno spento le luci, nemmeno loro possono vederci. Se accendiamo un cerino loro potranno scorgerci ma noi continueremo a non sapere chi ci stia osservando.

– Ragazzo intelligente – osservò l’uomo di nome Oscar. – Mi rallegra constatare che non hai la vocazione a trasformarci in un bersaglio mobile. Ma questo non risolverà il nostro problema di come uscire da questo posto. Confesso che la situazione comincia a inquietarmi e, poi, ho un appuntamento con il sarto tra un paio d’ore.

Rimanemmo immobili, bloccati dalla paura. In seguito avrei sognato molte volte quel momento: il silenzio, l’oscurità, l’olezzo insopportabile. Per trasformare quel ricordo nell’incubo che più tardi sarebbe diventato ci mancava solo la sensazione che bastasse fare un passo per sprofondare in un abisso senza fondo.

Ci sembrò che qualcosa si muovesse attorno a noi: come un battito leggero di ali, un fruscio di vesti, la consistenza di qual-cosa senza peso. Penetranti occhi blu scintillarono davanti a noi, accendendosi e spegnendosi di luce propria. Sentimmo un corpo minuto posarsi sul pavimento e una voce sussurrò, dal nulla, una parola che più che un invito sembrava un ordine.

– Seguitemi!Non lo facemmo. Wiggins mi afferrò perché ero sul punto di

avanzare verso quella luce bluastra che appariva e scompariva un metro davanti a noi.

– Lucy? – mormorò Wiggins. – Sei tu?– Silenzio! – ordinò questa volta la voce fragile di una bambina.

– Possono arrivare da un momento all’altro, Wiggins! Seguitemi senza fare storie, svelti!

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Il gentiluomo in malva, prima ancora che avessimo il tempo di decidere cosa fare, ci spinse avanti.

– L’avete sentita, ragazzi. Alexander pesa e non mi allieta l’idea di finire intrappolato qui dentro. Di fatto, credo che non riuscirei a sopravvivere a nessun tipo di reclusione. Seguiamo quel folletto che sembra vedere nel buio.

Un po’ restii, Wiggins e mio fratello si misero a camminare dietro la bambina. Wilberforce, Mister Lucciola e io li seguimmo. Nell’oscurità, ogni volta che Lucy si voltava per spronarci, scorge-vamo solo gli occhi blu dell’unica ragazzina membro degli Irrego-lari di Baker Street. Lucy la morta, la chiamava qualcuno. Lucy il fantasma, bisbigliavano altri. Lucy dalla pelle fredda, quella dalle labbra pallide, che non parlava mai con gli altri bambini. Lucy, che seguiva tutto da lontano, che si vedeva solo di notte o mai troppo distante dall’ombra. Gli altri marmocchi della banda del signor Holmes sostenevano sottovoce che fosse uno spettro: vittima di una dama bianca che anni prima aveva tormentato il quartiere di Hampstead rapendo e dissanguando bambini, come lo Squartatore aveva fatto con le prostitute, che le aveva trasmesso una terribile maledizione per la quale non esisteva alcuna cura. Dall’aspetto do-veva avere uno o due anni più di me, sebbene vi fossero ragazzi tra gli Irregolari che sostenevano facesse parte della banda da almeno otto o dieci anni, un paradosso impossibile. Altri affermavano che quello non era nemmeno il suo vero nome, che non ricordava nulla della vita precedente a quella della strada e della notte, e qualcuno con più esperienza in quelle nostre avventure diceva che il signor Holmes l’aveva trovata quando stava tentando di risolvere il caso di quei bambini scomparsi, che non erano stati vittima di un lupo come sosteneva il Gazzette, e che il suo contributo era stato riuscire a far sì che quella bambina trasformata in spettro potesse cammi-nare in un eterno equilibrio tra luce e ombre. A me faceva un po’ paura, ma devo confessare che il suo sguardo azzurro, da angelo caduto, mi sembrava anche molto attraente.

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Muovendosi con l’agilità di un topolino e come se riuscisse davvero a vedere nell’oscurità, Lucy la morta si fece largo tra noi e si fermò una dozzina di metri più in là. Si chinò, o almeno così ci sembrò di vedere nella penombra, e di colpo dal pavimento comparve un cubo di luce che la illuminò dal basso e che le fece fare un balzo, non fummo in grado di capire se di dolore o di paura.

– Per di qua, veloci! – incalzò la ragazzina, mentre si copriva il volto con una mano inguantata e ci indicava la botola che aveva aperto nel pavimento. Senza il suo aiuto non avremmo mai tro-vato la via d’uscita… se di quello si trattava.

In gruppo ci calammo nella botola, verso un mondo diverso e illuminato dai toni ocra, un mondo che sembrava un inferno se-greto, una specie di santuario in costruzione, il covo di un mostro dove ancora non erano state appese le catene e sciolti i coccodril-li. Perché, tutto d’un tratto, il tanfo nero della fumeria d’oppio rimase ad aleggiare sopra le nostre teste e quello che vedemmo davanti a noi, scalino dopo scalino, rampa dopo rampa, livello dopo livello, fu un profondo sotterraneo in cui centinaia di orien-tali si muovevano con la velocità delle formiche, spostando casse, trasportando pacchi, sistemando statue. Era un antro segreto, un gigantesco dietro le quinte di una scenografia da sistemare, un fondale che non era di tela e garza a disegni bidimensionali, ma di pietra e metallo, di ferro e oro. All’improvviso sembrava che non ci trovassimo più nel sottosuolo di Limehouse, ma nel Lontano Oriente, in una qualche provincia della Cina, ad Honan, Shanghai o in Manciuria; nell’equivalente della costruzione della Grande Muraglia nei docks londinesi, a prossimo baluardo di un potere nell’ombra.

– È a questo che si riferiva il signor Holmes – disse mio fra-tello, con gli occhi così aperti per la sorpresa che temetti le sue palpebre si rovesciassero. – C’è una mente criminale dietro tutto questo, non capite? È il nascondiglio del tizio che sta cercando!

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– Un Buckingham Palace orientale nel cuore del nostro Impe-ro – mormorò Mister Lucciola. – Sua graziosa Maestà sarà pure l’Imperatrice dell’India e quanti altri titoli voglia esibire tra i merletti del suo velo, ma l’altra faccia del Commonwealth è già qui, a rodere i tacchi dei suoi stivali di pelle e pronta a insediarsi come un ragno tra le sue vesti. Mi infastidirebbe dover riconosce-re che Bram possa avere ragione, con i suoi assurdi timori.

Non afferrammo il senso di ciò che stava dicendo, non ne avem-mo il tempo. Non eravamo ancora arrivati al livello più basso per-ché scendevamo le scale lentamente, tentando di non richiamare l’attenzione, quando qualcuno dette l’allarme e un centinaio di teste si voltarono a guardarci. Non capimmo le parole d’allarme, ma il tono dell’urlo che riecheggiò in quel gigantesco sotterraneo non lasciava adito ad alcun dubbio.

Il senso delle parole non ha quasi mai tanta importanza quanto il contesto in cui vengono pronunciate. Un’immagine muta è tanto forte quanto i dialoghi nati da cento vocabolari.

– Temo che siamo perduti – disse Wiggins, senza abbando-nare la sua compostezza ma senza individuare una possibile via d’uscita.

Eppure così non fu. Quando pensavamo che quel mucchio di schiavi orientali (perché altro non erano, oggi ne sono certo) stesse per lanciarsi al nostro inseguimento, per punire la nostra curio-sità e la nostra mancanza di lungimiranza, qualcosa di simile a un fischio risuonò nella cripta e tutti cominciarono a correre in centinaia di direzioni diverse.

– Fuggono? – Wiggins si grattò la testa, sconcertato dalla situazione. – Ma come…? Che mi venga un colpo, ma non vi sembra che credano che siamo poliziotti?

Doveva essere così. In meno di un minuto la metà degli orien-tali era scomparsa dalla vista, proprio nello stesso momento in cui noi finivamo di scendere le scale e sentivamo, in lontanan-za, quel fischio caratteristico che si ripeteva con un’eco oscura

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in altre gallerie che sfociavano in questo luogo. Era proprio la polizia. Li immaginai correre alla cieca, agitando i manganelli di ferro, dando calci nei sederi o scivolando nelle pozzanghere create dall’umidità del sotterraneo. Il Tamigi non era lontano e le infiltrazioni d’acqua facevano trasudare e sputare lacrime nere ai muri. Una calca di uniformi e caschi di rame, di bottoni luc-cicanti e codini in fuga, di geta e baffi spessi, di frasi in cantonese e cockney puro. Se lo avessi visto per caso, di sicuro mi sarebbe sembrato divertente.

Ma non avemmo il tempo di reagire. All’improvviso una mano si chiuse intorno al collo di Lucy la morta, una mano piena di anelli e con le unghie più lunghe che avessi mai visto in vita mia e, prima che ce ne rendessimo conto, la sollevò di un paio di palmi da terra e la scaraventò in aria mandandola a schiantarsi contro una cassa a cui alcuni guerrieri di terracotta facevano la guardia. Lucy attraversò l’aria come se in effetti non avesse alcun peso, senza poter urlare o chiedere aiuto a qualcuno, e rimase a terra tra i resti di legno marcio: un fagotto inanimato con la lucentezza dei suoi occhi spenta.

Furono altri gli occhi a brillare inaspettatamente davanti a noi, che ancora non avevamo avuto modo di riprenderci dallo sconcerto. Poderosi occhi verdi da gatto, fessure fredde, le più crudeli che avessi mai visto, uno sguardo di disprezzo che né Boris Karloff né Myrna Loy sarebbero riusciti a imitare. L’uomo avanzò verso di noi, adirato, maledicendo a bassa voce in una lingua che non conoscevamo, infuriato nel constatare che avevamo liberato Wilberforce e avevamo fatto da esca per la polizia, che continua-va a correre oltre il nostro sguardo. Sembrava un mandarino: la tunica dorata e rossa, piena di ricami, croccante come zucchero filato, in contrasto assoluto con l’enigmatico color giada del suo sguardo di gelo infuocato. Portava lunghi baffi che spiovevano molto oltre il profilo del mento, un pizzo scuro e un capellino ben calcato sulla calotta, come un rabbino del male.

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Wiggins non gli diede il tempo di continuare a maledirci né di trasformarci in marionette con quegli occhi ipnotici. Valorosamen-te balzò verso il mandarino e gli tirò un pugno sulla mandibola. Ma sembrò che il sinistro personaggio non avesse sentito il colpo, tanto era furioso per quell’interruzione che, se non mandava a monte i suoi piani per il futuro, almeno li lasciava in sospeso.

Wiggins non era disposto a perdonare il modo in cui il man-darino aveva trattato Lucy la morta. Anche se strana, la bambina era un’Irregolare di Baker Street, e gli Irregolari si proteggevano gli uni con gli altri, come fratelli. Assalì ancora il mandarino e questi lo fermò con una mano sola, come un gigante che blocca la carica di un toro senza fare il minimo sforzo. Afferrò Wiggins dal collo, lo sollevò da terra e lo tenne lì, davanti ai suoi occhi verdi. Wiggins sostenne il suo sguardo, mentre lottava per respirare, scalciando in aria, senza riuscire a raggiungere il cinese.

E allora il mandarino sorrise, con ghigno diabolico, e fece un gesto davanti agli occhi di Wiggins senza smettere di guardarlo. Disse una parola impronunciabile e allungò due dita davanti al nostro amico, come a sottolineare il numero. Con le unghie segnò il volto di Wiggins, con crudeltà, in modo evidente, tracciando una doppia riga di sangue dalla fronte alla guancia. Non gli recise solo la carne del volto: lo bruciò anche, come se dentro le unghie laccate avesse minuscoli depositi di acido.

Wiggins cadde a terra contorcendosi dal dolore, urlando e ge-mendo, mentre il suo grugno fumava. Mio fratello e io ci voltam-mo senza sapere se aiutarlo o metterci a correre. Mister Lucciola, Oscar, tentò di far fronte alla minaccia del diabolico maestro del crimine, ma disgraziatamente il suo bastone non celava nulla, come succede nei romanzi popolari: nessuna lama nascosta. Wil-berforce crollò a terra tra i gemiti davanti alla figura del manda-rino, come se lo riconoscesse.

Una stella di metallo si conficcò a pochi metri dal volto del perfido aggressore. Poi un’altra fece scricchiolare il legno.

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All’improvviso un altro cinese si frappose tra lui e noi. Assunse una posizione di lotta sollevando le braccia da un lato e dall’altro, come fosse una rappresentazione teatrale della danza della dea Kali, ed entrambi gli uomini si contemplarono per un istante: il mandarino era sereno, quieto, immobile come la statua di terra-cotta che vigilava il sogno incosciente di Lucy la morta. Il nuovo arrivato lo scrutava in gesto di sfida, un invito al duello.

I due danzarono per un secondo, agitando le braccia e girandosi attorno. Le unghie del mandarino disegnavano figure nell’aria, come se scrivesse un codice, ma le mani dell’altro uomo le schi-vavano. Poi scattarono in avanti cercando di arrivare alla carne, senza raggiungerla.

Si fermarono. In quell’esibizione di mosse senza colpi, mi sembrò si fosse sviluppata una strategia degna di Napoleone e Wellington. Si guardavano negli occhi. Lo sguardo verde del ma-estro del crimine tentò senza successo di piegare lo sguardo scuro dell’altro. Non c’era altro da dire. Senza mai toccarsi, le braccia disegnarono nuovi gesti, contrastati da altri movimenti.

Allora si sentì il fischietto della polizia avvicinarsi e un manipolo di bobby arrivò di corsa. Il mandarino guardò con la coda dell’oc-chio a sinistra e a destra e comprese di non avere vie di fuga. Il suo avversario sorrise. Il mandarino piegò la testa di lato, come volesse darsi per vinto, ma di colpo, con la velocità di una tigre, estrasse una sfera di cristallo dalla manica e la schiantò a terra.

Fumo e specchietti. L’altro orientale retrocesse di un passo mentre si copriva naso e bocca. Noi facemmo lo stesso. Quando, poco dopo, i residui di fumo si furono dispersi nell’aria, il maestro del crimine era svanito.

Un uomo robusto si avvicinò a noi zoppicando. Ci riconobbe con una smorfia di disgusto. Non aveva finito di sbuffare che vide Wiggins contorcersi a terra. Senza esitare un istante, l’uomo si inginocchiò di fianco a lui. Con fare pacato e lievemente premu-roso, gli allontanò la mano dal volto.

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– Mio Dio, povero ragazzo! – esclamò il dottor Watson. – Chi ti ha fatto una cosa del genere?

– Un genio del male, di certo – rispose l’orientale che ci aveva salvato all’ultimo momento. – Magari sapessimo il suo nome, amico mio, per cancellare la sua esistenza prima che possa fare dell’altro male.

E così dicendo l’orientale si tolse il codino, si sistemò il naso e si sfregò gli occhi. Strofinò il volto con un fazzoletto e da sotto la tinta giallognola spuntò la pelle bianca. Avevo già riconosciuto la sua voce. Era Sherlock Holmes.

– Vedo, Sydney, che avete trovato il signor Wilberforce – disse, guardando mio fratello. – E che lei, signor Wilde, non è riuscito a concedermi il tempo che le avevo chiesto di aspettare.

– E forse lei non lo sapeva già, signor Holmes?– Potremmo dire di sì. Anche tenendo conto di quanto lei sia

imprevedibile, amico mio, non è difficile dedurre la sua prossima mossa.

– Davvero? – disse Wilde, inarcando un sopracciglio e reci-tando la parte dello scettico che in certe occasioni pretendeva di essere.

– Si rimetterà, Watson? – chiese Holmes mentre si avvicinava a Wiggins e all’amico medico. Il nostro compagno tremava, ma face-va tutto lo sforzo possibile per non piangere davanti al suo eroe.

– Si rimetterà, Holmes. Ma quella cicatrice lo accompagnerà fino alla fine dei suoi giorni – commentò con tristezza, poi ripeté la domanda, come se pensasse che Holmes, al solito, avesse tutte le risposte. – Chi è stato capace di fare una cosa del genere a un ragazzino?

– Qualcuno in grado di fare cose anche peggiori agli uomini, temo. Un mostro con forma umana. Come ce ne sono tanti. Un mo-stro impossibile da ricondurre al buon senso e alla compassione.

Holmes si voltò verso le casse con i soldati di terracotta. Se stava cercando Lucy la morta, non diede segni di sorpresa né di

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delusione nel constatare che la bambina non c’era più. L’arrivo della polizia l’aveva fatta fuggire prima che il luogo si trasfor-masse in un vespaio di piedipiatti e lanterne.

– Be’, sembra che abbiamo sventato i piani di quell’enigmatico mandarino. Almeno per ora. La copertura della fumeria è saltata e immagino che passeranno almeno quindici anni prima che provi a ritentare di stabilirsi a Londra. Il mondo è grande perché abbia voglia di confrontarsi di nuovo con me tanto presto. Anche se non sa chi ha affrontato oggi, senza dubbio avrà i suoi sospetti e, presto o tardi, lo scoprirà.

– Ma chi era?– Il diavolo.– Alexander era incatenato – commentò Wilde mentre Watson

finiva di fasciare il volto di Wiggins. – Se era già schiavo dell’op-pio, non comprendo perché lo tenessero prigioniero in quel modo, come un agnello al mattatoio.

Holmes finì di struccarsi. L’ispettore Lestrade arrivò in quel momento, inveendo e maledicendo la velocità di quei dannati cinesi: era riuscito a pescarne solo una dozzina.

– Certe volte il tesoro che il male cerca si trova oltre i sogni, signor Wilde – disse Holmes, e Wilberforce, ancora stordito, assentì. – Ci sono uomini che vivono per perseguire una stella fugace e altri che attendono, con una rete ben predisposta, pronti a rubare quei sogni.

– La città dei libri… – mormorò Wilberforce, guardando a terra.

– Appartiene a lei, come ogni suo delirio e la sua immagina-zione – tagliò corto Holmes. – So bene cosa vuol dire cercare con caparbietà una chimera – per un momento Holmes guardò Watson e il dottore annuì con tristezza. – La realtà, certe volte, non è altro che un’illusione del fantastico. Torni a casa sua, signor Wilberforce, e scriva quello che ha sognato. Ma non vada oltre, ci sono strade senza ritorno.

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– Mi sento come se fossi arrivato a uno spettacolo teatrale a metà del secondo atto – mormorò Oscar Wilde, spazzolandosi il cappello prima di rimetterlo in testa.

– Il secondo atto è sempre quello più interessante, signor Wil-de. E già che sono in vena di dare consigli, stia attento, la scon-giuro. Quella lettera che ha ricevuto in questi giorni… non dia retta. Il marchese è un infido nemico.

– E un pessimo scrittore – aggiunse Wilde, guardandosi le un-ghie della mano sinistra in una studiata posa di disprezzo. – Non so se spedirgli una grammatica o un avvocato.

– Lo ignori. Non è difficile immaginare che avrà gente impor-tante dalla sua parte. E lei, nonostante la sua fama, è solo.

Wilde si strinse nelle spalle e sorrise come un bimbo birichino. Holmes sospirò afflitto. Sapeva che né il consiglio che aveva dato a Wilberforce né quello che aveva appena dato a Oscar Wilde avrebbero sortito alcun effetto.

Così si chiuse l’avventura a Limehouse, che Watson non arrivò mai a raccontare. Le sue conseguenze sarebbero state importanti per tutti quelli che si trovavano lì. Lo furono per Wiggins, che avrebbe vissuto marchiato a vita, ossessionato dal numero due che quel mandarino enigmatico aveva disegnato davanti ai suoi occhi e inciso sulla sua carne. Per Wilde e Wilberforce, i due poeti che quella sera incrociarono il nostro cammino e ai quali il futuro riservò solo disgrazie. Per Lucy la morta, che aveva sal-vato tutti rischiando di finire trafitta dal legno di quelle casse e che era fuggita come un cane sbandato. Per l’impero oscuro, che dovette rimandare di due decenni il suo insediamento a causa dell’intervento di Holmes (e non so bene se con il nostro aiuto o con la nostra imprudente interferenza), che dopo essersi masche-rato da dacoit* aveva dato l’allarme alla polizia facendo risuonare

* Anglo-indiano, variante dacoo, da una voce indostana, sostantivo maschile: bandito, predone di strada. [N.d.T.]

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un fischietto quando il nostro destino sembrava ormai segnato per sempre.

E infine per Syd e per me, che quella sera tornammo a casa distrutti e febbricitanti per l’avventura e tutti i suoi misteri per scoprire che nostra madre era stata ricoverata in manicomio. Dal mattino seguente, noi due avremmo cominciato un periplo infi-nito da orfanotrofio in orfanotrofio. I nostri giorni come Irregolari di Baker Street erano finiti.