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Effetto Hilton

Di Chip Heath & Karla Starr

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Lettera di presentazione La maggior parte delle aziende, al proprio centenario, si accontenterebbe di dare una

festa. Hilton invece, ha deciso di assumere un paio di figure esterne dallo sguardo critico -

autori di pubblicazioni in materia aziendale, di formazione sociologica - per raccontare

l’influenza che l’azienda ha avuto sull’industria del turismo, i viaggiatori, il personale, e su varie

comunità in tutto il mondo. Se consideriamo il modo in cui Hilton ha influenzato tutti questi

ambiti, siamo in grado di valutare l’impatto complessivo di Hilton sul settore dei viaggi. È questo

che intendiamo per “Effetto Hilton”.

Abbiamo scavato nella storia di Hilton per capire in che modo gli esordi di questa

azienda abbiano plasmato la sua efficienza, e il ruolo di quei primi successi sulle modalità

operative attuali. Hilton è un’azienda globale che, considerando tutti i suoi 14 brand, conta quasi

900.000 camere, e che continua a crescere a un ritmo molto rapido, specialmente in Cina. E

siccome abbiamo dovuto restringere il campo di indagine, ci siamo concentrati sul cuore

dell’azienda. La maggior parte delle storie che vi racconteremo si riferiscono al marchio

originale e di punta del gruppo: Hilton.

Non siamo così naïf da ritenerci totalmente imparziali. Hilton ci ha remunerati per

realizzare questo progetto, e la ricerca ha dimostrato che persino il più piccolo dei regali rende

più accondiscendenti nei confronti del donatore. Per questo voi, saggi lettori, dovreste tenere

conto del nostro possibile eccesso di benevolenza nei confronti di Hilton. Tuttavia non riteniamo

che la ricerca sconti distorsioni su aspetti di Hilton che abbiamo giudicato positivi.

Se abbiamo potuto raccontarvi la storia di Hilton è solo grazie al supporto di uno

storiografo d’eccezione, Mark E. Young, che dirige gli archivi del settore alberghiero dell’Hilton

College of Hotel Management dell’Università di Houston. Sin dall’inizio, ci ha aiutati a notare

piccoli quanto sorprendenti particolari della documentazione storica, che hanno poi costituito il

fulcro della nostra analisi, come l’importanza dell’aria condizionata nelle stanze degli hotel, di

una linea diretta per le prenotazioni, della nascita di Lady Hilton, di un design d’interni

interculturale, e foto che mostrano chiaramente come la costruzione di un hotel Hilton inneschi

lo sviluppo economico delle zone limitrofe. Ringraziamo inoltre tutti coloro che ci hanno aiutati a

ricostruire i case study contenuti in questo libro, inclusi i gruppi locali che hanno condotto le

interviste preliminari.

E siccome gli esseri umani hanno la tendenza a enfatizzare il proprio ruolo negli

avvenimenti, ci siamo serviti di fonti esterne per verificare i dati contenuti nei case study e

l’impatto complessivo di Hilton a livello mondiale. Abbiamo scoperto che, nella maggior parte

dei casi, i collaboratori di Hilton non davano il giusto valore ai risultati ottenuti. Durante la

seconda tranche di interviste, i loro racconti ci apparivano spesso ben più degni di nota di

quanto inizialmente avessimo intuito. Ciò che i membri del gruppo consideravano ordinario, era

in realtà abbastanza straordinario. Siamo impazienti di raccontarvi queste storie, tanto quanto

fummo sorpresi di scoprirle.

La redazione di questo libro serve a Hilton per capire meglio quali aspetti della propria

storia abbiano contribuito al successo della compagnia, così da proseguire sulla stessa strada e

fare ancora meglio in futuro. La speranza è anche quella di offrire uno spunto utile a tutte le

persone che gli stanno a cuore: voi, gli ospiti, e i vari amici sparsi in altri posti di lavoro.

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Se lavorate per un competitor di Hilton, vi preghiamo di posare il libro immediatamente.

Se invece lavorate altrove, specialmente in Hilton, allora siete i benvenuti! Fate come a casa

vostra, curiosi lettori. Confidiamo di trasmettervi qualcosa di utile.

Da Hilton potrete imparare come ridare entusiasmo a clienti annoiati, creare un

ambiente di lavoro che coinvolga realmente i dipendenti, diventare influenti nella vostra realtà, e

scoprirete il potenziale d’azione di un’azienda capace di resistere alla prova del tempo.

Che possiate avere la fortuna di lavorare in un gruppo di lavoro appassionato quanto

quello del Colombo Hilton in Sri Lanka,

Chip Heath e Karla Starr

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Perché Hilton’s Hotel è come la lampadina di Edison

Parlare di Thomas Edison come l’inventore della lampadina non è del tutto corretto.

Edison ne ha semplicemente brevettata una parte (il filamento di carbone che bruciava a lungo

in un tubo sottovuoto) e l’ha combinata con invenzioni preesistenti (fili elettrici e altri

componenti). Ma il suo contributo ha rivelato il pezzo mancante del puzzle, consentendo alla

rete d’illuminazione di prendere forma.

Neppure Henry Ford ha inventato l’automobile, ma solo il pezzo mancante del puzzle (la

catena di montaggio) che serviva a rendere il tutto (assemblaggio di motore, freni e carrozzeria)

economicamente sostenibile, attraente e abbordabile per un pubblico di massa.

Considerati questi precedenti, non è un oltraggio definire Conrad Hilton l’inventore della

moderna esperienza alberghiera, specialmente nel settore dei viaggi aziendali. Le persone

viaggiavano per lavoro anche prima (persino Ferdinando Magellano era in missione per conto di

Dio e del Re di Spagna), e gli hotel esistevano anche prima di Hilton (a Natale non ci sarebbe il

presepe se tutte le pensioni del posto non fossero state piene). Ma sappiamo che Hilton ha

fornito il pezzo mancante del puzzle, perché il suo marchio di hotel fu il primo a prendere il volo.

Nel 1943, Hilton divenne la prima catena di hotel coast-to-coast degli Stati Uniti.

Nel 1946, la Hilton Hotels Corporation fu la prima compagnia alberghiera a vendere le

proprie azioni, e nel 1947 fu pubblicamente quotata alla Borsa di New York.

Tre anni dopo, Hilton costruì il suo primo hotel internazionale e moderno, il Caribe di

San Juan, in Portorico. Nel 1963, un cronista della rivista Life scriveva persino che “in alcuni

paesi, come la Spagna, si sta diffondendo l’idea che ‘Hilton’ sia la parola inglese per ‘hotel’”.

Nel 2016, Hilton è presente in 100 Paesi.

E oggi, Hilton celebra i suoi 100 anni di attività.

L’azienda di Conrad Hilton decollò perché fornì l’anello mancante dell’esperienza

alberghiera, in cui si imbatté per soddisfare le esigenze di una categoria di clienti che Hilton

conosceva molto bene: i viaggiatori d’affari.

Hilton era cresciuto in una famiglia benestante. Suo padre Gus, norvegese di origini,

aveva fatto fortuna vendendo miniere di carbone. Ma nel 1907, il progetto speculativo da parte

di una banca newyorkese ne provocò la bancarotta. La banca chiuse, creando il panico e

provocando la chiusura a cascata di altre banche in tutta la nazione. Gus Hilton si ritrovò con

una sacco di merce che non poteva più convertire in denaro. “All’improvviso non eravamo più

ricchi”, scrive Hilton nelle sue memorie, Be My Guest (Fate come a casa vostra).

A detta di Hilton, la famiglia, improvvisamente al verde, convocò una riunione per

decidere come affrontare la crisi, e concluse che per restare a galla avrebbe dovuto sfruttare le

uniche quattro risorse che aveva a disposizione:

1. La forza lavoro

2. La merce rimasta invenduta nel suo negozio

3. La “più grande e mal costruita casa di mattoni rossi del Nuovo Messico, che dava su

una stazione ferroviaria della linea principale”

4. La cucina di Mary Hilton

La migliore analisi dei fatti la fornì il ventenne Conrad: “C’era solo una soluzione

possibile: creare un hotel Hilton”.

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Ogni giorno, a mezzanotte, alle tre del mattino, e a mezzogiorno, Conrad e suo fratello

Carl si recavano al treno in cerca di clienti. I loro clienti erano spesso commercianti di

passaggio, che avevano denaro sufficiente per pagarsi una notte. Tre volte al giorno, Conrad

percorreva il tragitto dalla stazione alla casa di famiglia e pensione, portando con sé le borse

piene di campioni dei venditori. Mentre lo immaginiamo chiacchierare della vita lungo il tragitto,

Conrad cercava di promuovere la cucina della madre e di ricavare spunti utili per rendere felici

gli ospiti durante il loro soggiorno.

Conrad e Carl gestivano la drogheria e si occupavano dei bagagli. Svegliavano gli ospiti

assonnati. Dormivano dove potevano. Gus si occupava dell’esperienza degli ospiti, Mary gli

riempiva la pancia.

L’esperimento di famiglia si rivelò presto un successo. Un letto comodo, lenzuola pulite,

piatti fatti in casa, un negozio disponibile all’interno, un’ottima posizione vicina a uno snodo

ferroviario, e una paio di zelanti facchini? Per due dollari e mezzo a notte?

Ben presto tra i venditori più scaltri cominciò a girare la voce (una sorta di TripAdvisor

alla vecchia maniera) che a San Antonio, nel Nuovo Messico, c’era questo nuovo posto dove

soggiornare. “Prova ad andare all’Hilton”.

Nel giro di sei settimane, la voce era arrivata a Chicago. “Se lungo il viaggio devi fare

tappa”, proseguiva il consiglio, “falla a San Antonio e vedi se trovi una camera all’Hilton”.

E non importa se questa prima dimora, dove Hilton apprese l’arte dell’imprenditorialità e

dell’ospitalità, si trovava a San Antonio, New Mexico, e non a San Antonio, Texas. Gli Hilton

erano così bravi nel soddisfare i bisogni dei loro viaggiatori d’affari da spingerli a fare

appositamente tappa in questa piccola cittadina a metà strada tra El Paso e Albuquerque (o,

per essere più precisi, a metà strada tra il nulla e il nulla).

Cosa c’era di così speciale

lì? Il discorso proseguiva:

“Servono i migliori piatti del

West e hanno un ragazzo che è un

mago nel farti sentire come a casa.”

Nel 1919, Conrad Hilton

acquistò il suo primo hotel, il Mobley

di Cisco, Texas, che lui stesso

descrisse come “una via di mezzo

tra una topaia e una miniera d’oro”. Il

Mobley attraeva i lavoratori del

giacimento petrolifero di Cisco, ma

gli innumerevoli successivi hotel

Hilton, acquistati o acquisiti, si

rivolgevano ai viaggiatori d’affari in

sosta tra le città del Texas, come

Waco ed El Paso, durante il boom petrolifero dei primi del ‘900. Diventato il santo patrono dei

viaggiatori d’affari benestanti, egli aveva casualmente trovato la ricetta che avrebbe poi

funzionato su un pubblico ben più vasto. La gente vuole andare ovunque, sentendosi però

sempre come a casa propria.

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Twilight Zone, puntata n. 157: un’hotellerie senza Hilton

Per avere un’idea di come l’abilità di Hilton di puntare al pezzo mancante del puzzle per i

viaggiatori d’affari, i comfort, si sia evoluta negli anni, dobbiamo fare un passo indietro e provare

a immaginare un mondo senza Hilton. Se riuscite, provate a ricordare l’immaginario bizzarro e

la colonna sonora delle prime scene della vecchia serie TV Twilight Zone. Ecco come ci

apparirebbe il mondo se tutto ciò che Conrad Hilton ha creato svanisse (insieme a quegli

esemplari di eccezionale qualità, come il Waldorf Astoria a New York, che Hilton ebbe il buon

gusto di acquisire). Immaginarne l’assenza dà il giusto peso alla loro presenza, con un effetto

simile a quello dei telefilm di paura del venerdì sera.

Submitted for your approval...

Immaginate una camera d’albergo senza termostato: la temperatura della stanza resterà

la stessa in qualsiasi ora del giorno. Fa un po’ troppo caldo per i vostri gusti, così prendete un

bicchiere per riempirlo d’acqua da bere. L’acqua è a temperatura ambiente. Perciò, proprio

come la stanza, è calda.

In cerca di qualcosa che vi faccia rilassare in fretta (il volo è stato un incubo), gettate

l’acqua tiepida nel lavandino e cercate il minibar. Continuate a cercare. Non c’è nessun minibar.

Vi sedete sul letto e vi togliete le scarpe. D’istinto, le vostre mani si dirigono verso il

telecomando della TV sul comodino. Niente. Cercate la lista dei canali via cavo. Niente.

Setacciate la camera con lo sguardo in cerca della TV. Niente.

Siete esausti dopo il viaggio infinito dall’aeroporto, che vi ha fatto perdere la cena. Non

c’era un hotel più vicino all’aeroporto l’altra volta?

Decidete di ordinare del cibo in camera, per riparare alla cena mancata, pregustando già

la vostra pietanza preferita: le patatine fritte! Afferrate il telefono, ma il ragazzo che vi risponde

dall’altro capo del filo ridendo vi informa che non ha mai sentito parlare del servizio in camera:

“Intende dire che dovremmo cucinarle il pasto e portarglielo in camera?”, “Esattamente.” “Non lo

facciamo, può ordinare qualcosa fuori.”

E vi dà il numero di una pizzeria d’asporto.

Decidete di scendere per risolvere la cosa e prendere almeno un caffè Starbucks. Ma al

pian terreno non servono caffè.

Altrove nel mondo, gli avventori del bar sorseggiano piña coladas sotto gli ombrelloni.

Non c’è da stupirsi se le persone desiderano sentirsi

comode in viaggio come a casa. L’intuizione di Hilton? Se il

viaggio è molto stressante, i comfort a disposizione devono

superare quelli di casa. Tutte le innovazioni di Hilton offrono

comodità e comfort pensati per alleviare la fatica del viaggio.

Nell’era che precede l’invenzione dell’aria

condizionata, nel 1925, il primo hotel a portare il marchio

Hilton pubblicizza con orgoglio una caratteristica: non ci

sono camere esposte a ovest. In questo modo le stanze

degli ospiti non si riscaldano eccessivamente sotto il sole del

Texas.

Nel 1930, al Waldorf Astoria di New York nasce il

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concetto di servizio in camera.

Nel 1947, il Roosevelt Hilton di New York è il primo hotel al mondo ad avere la

televisione nelle sue camere.

Nel 1954, al Caribe Hilton di Portorico viene inventata la piña colada.

Nel 1955, in tutte le camere dotate di termostato Hilton fa installare l’aria condizionata.

Hilton inventa il concetto di hotel dell’aeroporto nel 1959, con l’apertura del San

Francisco Airport Hilton. Morite dalla voglia di soggiornare in un hotel dell’aeroporto?

Probabilmente no. Riuscite a intuirne l’utilità quando siete a corto di tempo? Certamente.

All’apertura del London Hilton nel 1963, su Park Lane, le camere avevano due

telecomandi: uno per la televisione e uno per la radio.

Qualche anno dopo, Hilton introdusse il minibar (generando nei viaggiatori il senso di

colpa del “Non posso credere di essermi mangiato tutta la confezione di anacardi all’una del

mattino”).

Se vi è capitato di acquistare un caffè Starbucks o un rasoio in un hotel, dovete

ringraziare Hilton. Forse ispirato dal valore aggiunto di avere una drogheria nelle vicinanze della

pensione di famiglia, Hilton fu il primo a portare i negozi dall’esterno all’interno del suo hotel.

Conrad, nel 1947, ebbe l’idea di una linea di prenotazione diretta per gli ospiti di

qualsiasi hotel Hilton.

Se vi è capitato di fare una prenotazione attraverso un database computerizzato potete,

ancora una volta, ringraziare Hilton che lo introdusse nel 1973.

L’impulso iniziale di Hilton era quello di concentrarsi sui viaggiatori d’affari in sosta per

motivi di lavoro. Conrad si prendeva cura dei suoi indaffarati clienti ristorandoli con aria

condizionata, minibar, TV e servizio in camera. Se siete capaci di trattare con un venditore che

non ha tempo da perdere - stressato dalla chiusura di un affare, che si è fermato in un paesino

del New Mexico semplicemente perché stanco morto - e a farlo sentire a proprio agio in pieno

agosto, allora potete far sentire a casa chiunque.

Viaggiatori d’affari: ristorare gli ospiti esausti “Immagino che Conrad abbia inventato l’esperienza dell’hotel d’affari”, direbbe il cinico.

“C’è bisogno di commemorare la cosa? Hilton scelse la categoria più viziata di viaggiatori, e gli

offrì qualcosa in più: una camera generica, identica in tutte le città, con servizio in camera e

caffè al piano terra, nella hall. Lo scopo? Evitargli la necessità di vedere il luogo in cui si erano

recati!” Hilton stava forse semplicemente assecondando gli aspetti peggiori legati alla paura

delle novità?

Quello del turismo d’affari è un fenomeno da celebrare o da biasimare? Gli scrittori di

viaggio hanno criticato a lungo questa categoria di viaggiatori e la loro disponibilità a pagare un

sacco di soldi pur di restare nella bolla della business-class. Un giornalista di Vogue, nel 1965,

descriveva con tono di sufficienza un ospite che faceva colazione in un hotel Hilton in Turchia:

Una mattina, a Istanbul, stavo facendo colazione in una stanza dalle pareti in vetro

davanti al Bosforo. Al tavolo accanto al mio sedeva un uomo d’affari americano… Attraverso i

suoi occhiali osservava la sua colazione rigorosamente americana: spremuta d’arancia, pancake

e sciroppo d’acero, e una grossa tazza di caffè caldo… In quel preciso momento, qualche

chilometro più un là nella Moschea Blu, alcune persone venivano chiamate al cielo. La cosa

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avrebbe potuto inorridire anche lui. Ma secondo voi se ne accorse? No. Si sentiva al sicuro nella

sua oasi.

Decenni dopo Annabel Jane Wharton, docente alla Duke University, faceva eco a

questo sentimento scrivendo che in gioventù aveva “disprezzato gli Hilton in quanto luoghi di

inautenticità istituzionalizzata. Per me rappresentano una fuga dall’esperienza del diverso che

appartiene al mondo reale”.

Un uomo d’affari seduto poco distante, mangia il suo pancake ignorando gli usi locali.

Al sicuro nella sua oasi.

Una fuga dall’esperienza del diverso che caratterizza il mondo reale.

Inautenticità istituzionalizzata.

Sono critiche piuttosto forti ma legittime. Fuggire dall’esperienza del diverso che

appartiene al mondo reale apparentemente contraddice il motivo stesso per cui le persone

viaggiano. Lasciamo casa per espandere i nostri orizzonti, per sperimentare qualcosa di diverso

da ciò che la vita quotidiana ci offre.

Il punto di visto critico dipinge una semplice istantanea e dimentica il contesto più ampio:

il caffè e il pancake del viaggiatore d’affari rappresentano soltanto l’inizio della sua giornata.

Forse la colazione è l’unico momento familiare di una giornata di nove ore di lavoro, di cui la

metà passata ad aggirarsi in un’azienda (sconosciuta) e l’altra metà di intense trattative. In

questo momento forse sta solo cercando di ricordare come pronunciare strani nomi e attenersi

alle prescrizioni locali (porgere il biglietto da visita con entrambe le mani, o non mostrare il retro

delle scarpe!). Più tardi forse lo aspettano uscite al bar e pranzi con gli autoctoni, e canti e balli

al karaoke.

Considerate questi due viaggiatori:

Viaggiatore A: una persona che mangia con le persone del posto a colazione prima di

trascorrere una giornata da flâneur, girando per la città, ammirando opere d’arte e sorseggiando

tè.

Viaggiatore B: un professionista che mangia pancake prima di avventurarsi in un nuovo

ufficio di un paese straniero per siglare un contratto con persone del posto.

Non si tratta semplicemente di modi diversi di relazionarsi con una nuova cultura?

Non soltanto viaggiare per lavoro è una ragione valida tanto quanto altre, è anche molto

stressante. Se vi è mai capitato di innervosirvi con il vostro compagno, il vostro cane, il router

Wi-Fi, o con un bambino dopo una giornata di lavoro febbrile, allora avete sperimentato quello

che si chiama “esaurimento”, una delle aree calde della ricerca psicologica degli ultimi decenni.

Attraverso una serie di manipolazioni sperimentali, gli studi hanno individuato un risultato

rilevante: la nostra energia mentale, che diminuisce con l’autocontrollo, non è una risorsa

illimitata. Tuttavia può essere recuperata. Se ci viene chiesto di esercitare l’autocontrollo per

troppo tempo, ci sentiamo pressati e mantenere la determinazione risulta difficile, anche se ci

dedichiamo a un compito diverso.

Il nostro bacino di risorse disponibili può esaurirsi per i motivi più disparati. Se il nostro

responsabile ci manda continuamente e-mail con richieste urgenti e stressanti, ignorando la

nostra richiesta ripetuta di concentrarci su altri obiettivi, le nostre energie diminuiscono e ogni

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compito diventa più complicato. Dopo una giornata complicata, passata a tenere a freno la

delusione per una scadenza non rispettata o i commenti sarcastici riguardo la strategia

proposta, è più difficile essere gentili con i nostri familiari quando torniamo a casa.

Le cose diventano stressanti quando non possiamo esprimere la nostra opinione e

dobbiamo andare avanti. Le pressioni esterne hanno il loro peso, e non c’è esperimento

migliore, per valutare gli effetti dell’esaurimento, dell’osservare le persone mentre lavorano su

turni lunghi. Uno studio ha monitorato le abitudini correlate all’igiene della mani di 4.157

infermieri di vari ospedali, attraverso tecnologie di identificazione a radiofrequenza in azione sui

loro badge. Teoricamente, i lavoranti dovrebbero lavarsi le mani entro un minuto e mezzo dal

termine di ogni visita ai pazienti. Data la sproporzione tra costi (lavarsi le mani non richiede

molto tempo) e benefici (ogni anno 1 milione di decessi in tutto il mondo correlati alle cure

sanitarie potrebbero essere evitati con un’adeguata igiene delle mani), sembrerebbe una cosa

ovvia.

Ma col procedere del turno di lavoro, le persone sembrano perdere la propensione a

lavarsi le mani. Alla fine di un turno di lavoro di 12 ore l’attitudine a lavarsi le mani diminuisce

dell’8,7%, e se la giornata è più impegnativa o il turno di lavoro più lungo, questa attitudine

diminuisce ulteriormente. La stanchezza spinge le persone a cercare scorciatoie, anche quando

si tratta di un’azione semplice che potrebbe salvare delle vite.

Il lavoro diventa stancante perché esercita una pressione costante sul nostro

comportamento e non appena scatta l’allarme, entra in scena l’autocontrollo. Richiede di gestire

i nostri atteggiamenti più spigolosi, negativi e apatici con uno sforzo ancora maggiore:

l’autocontrollo, definito in una meta-analisi come “la capacità di alterare o ignorare gli impulsi

dominanti e di calibrare comportamenti, pensieri ed emozioni”. L’ambiente di lavoro richiede

questo sforzo contemporaneamente su vari fronti. Dobbiamo fare del nostro meglio a livello

sociale (assicurarci che Mohammed sia d’accordo prima di dirlo a tutti), emozionale (sorridi al

cliente!), e cognitivo (siamo sicuri che le condizioni del carried interest siano vantaggiose?). Il

lavoro richiede costantemente una tale dose di tempo ed energie da stancarci così tanto che

qualcuno dovrebbe pagarci anche solo per la presenza.

La Teoria del Ristoro Non c’è bisogno di ribadire ulteriormente che lavorare stanca. Ma che mi dite del

contrario dell’esaurimento? Che cos’è il ristoro e cosa significa ricaricarsi? Vediamo un altro

esempio che apparentemente descrive un altro caso di esaurimento mentale, ma che in realtà

racconta qualcosa di totalmente diverso. Dei ricercatori israeliani hanno cercato di comprendere

in quali casi le commissioni disciplinari - giudici e operatori sociali - concedessero la libertà

vigilata ai prigionieri.

Quella dei prigionieri che richiedono la libertà vigilata non è una categoria qualsiasi di

efferati criminali. Per ottenere un’ordinanza di libertà vigilata bisogna provare o l’errore

giudiziario o il reale pentimento dell’assistito. Seguono poi anni, o anche decenni, di duro lavoro

e buona condotta.

I ricercatori hanno esaminato le decisioni della commissione nel corso della giornata.

Giornata suddivisa in tre parti da una pausa di mezza mattina e da una pausa pranzo.

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All’inizio della giornata la commissione aveva concesso la libertà vigilata in oltre la metà

dei casi mentre, col passare del tempo, le possibilità per un prigioniero di ottenere la libertà

vigilata diminuivano costantemente.

In altre parole, passare da un caso all’altro aumentava la sensazione di fatica o di

esaurimento mentale che rendeva le decisioni successive ancora più complicate. I dati

mostrano chiaramente una parabola discendente: nel corso del proprio turno di lavoro, la

commissione diventava sempre meno propensa a concedere la libertà vigilata. Il problema

dell’utilizzare tutta quell’energia mentale è che la sensazione di fatica rende tutto più difficile. In

realtà, respingendo le richieste di libertà vigilata la commissione non fa altro che aumentare la

propria mole di lavoro, perché probabilmente lo stesso fascicolo gli si riproporrà l’anno venturo.

Eppure al momento sembra l’unica via d’uscita. Concedere una libertà vigilata, piuttosto che

respingerla, espone a maggiori critiche.

Il messaggio sconfortante di questo studio è che anche in condizioni lavorative normali,

anche in situazioni ad alto rischio, anche con operatori esperti, l’esaurimento mentale ha un

impatto importante.

La seconda osservazione è che, se siamo consapevoli del problema, con i giusti

strumenti possiamo combattere l’esaurimento mentale. Nello studio sulla libertà vigilata, i giudici

riprendevano tono dopo una pausa a base di caffè e frutta.

I ricercatori hanno dedicato anni a discutere sulle ragioni teoriche dell’esaurimento. Ma

ciò che le persone fanno per ristorarsi, in pratica, ha una caratteristica: ci rilassiamo e

ricarichiamo attraverso ricompense di nostro gradimento. La risposta più comune alla domanda

“come si preparano le persone a tornare al lavoro?”, è semplice: con la caffeina e simili (il fatto

che l’acqua frizzante e il caffè siano due dei prodotti più venduti non è una coincidenza). Su altri

rimedi, c’è poco consenso. Alcuni giurano che basti un po’ di riposo, ma per altri, un pisolino a

metà giornata fa sentire ancora più intontiti. La scarica di endorfine dell’esercizio fisico

rinvigorisce alcuni, ma spedisce molti altri a letto.

Indipendentemente da quale sia il vostro rimedio preferito, la ricerca ha provato che è

possibile contrastare gli effetti della fatica attraverso piccole pause, comfort, e altre iniezioni di

felicità che ci rimettano in carreggiata. Questo ci riporta allo studio fatto in Israele. La

commissione per la libertà vigilata non operava in un’unica lunga sessione, ma su tre fasce

orarie suddivise da una pausa mattutina (in Israele a base di sandwich e frutta) e una per il

pranzo. Quando tornava a deliberare, ritornati dalle pause, accadeva qualcosa di magico alla

qualità del suo lavoro: tornava alla normalità. Staccare la spina per meno di un’ora era

sufficiente a ricaricarsi completamente e a contrastare gli effetti dell’esaurimento. Anche se la

sensazione di fatica ed esaurimento aumentavano nel corso della giornata, le pause avevano

un effetto ristoratore. A tal punto, infatti, che i primi casi esaminati subito dopo la pausa di

mezza mattina o il pranzo apparivano alla commissione esattamente come i casi iniziali.

Consideriamo adesso qualcosa di egualmente sorprendente: il viaggio è snervante. Per

tutti. Per tuffarci in un mondo di esperienze sconosciute, dobbiamo abbandonare il nostro

rassicurante rifugio di abitudini e certezze. E navigare in questo territorio inesplorato richiede

uno sforzo mentale ulteriore. Innanzitutto, dobbiamo concentrarci per risolvere problemi basilari.

Dove trovo il cibo? Da che lato della strada guardo per attraversare? Che ore sono? Il viaggio ci

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pone in uno stato di disorientamento cronico, tipo quello della mattina dopo una festa con open

bar. Oltre a sentirsi perennemente assonnati o straniti, ogni singolo acquisto richiede la

conversione di valuta, a cui segue perennemente la sensazione di essere stati truffati.

Durante la vacanza, sopportiamo la strana sensazione di dover continuamente fare

calcoli e il persistente cerchio alla testa perché al viaggio ci teniamo davvero: “Finalmente

siamo in America! A vedere ciò che immaginavamo da anni!” E la motivazione si sa, aiuta a

prevenire l’affaticamento mentale.

Una delle cose più piacevoli dei viaggi di piacere è la possibilità di organizzarsi le

giornate come meglio si vuole. Stare vigili e freschi è più facile se siamo noi a decidere cosa

fare, perché abbiamo la possibilità di fermarci e ricompensarci per il lavoro svolto con ciò che ci

fa stare meglio, prevenendo l’esaurimento delle nostre risorse mentali. La fila per vedere La

Gioconda era lunga? Possiamo fermarci a comprare dei souvenir! La Muraglia Cinese non ci ha

detto poi tanto? Vada per i ravioli! Affrontare i trasporti pubblici del Sudamerica ci infastidisce?

Nessun problema: facciamo una passeggiata al parco.

Ma viaggiare per lavoro significa davvero aggiungere lavoro al lavoro. Quando si viaggia

per lavoro è necessario ricaricarsi il più rapidamente possibile. Bisogna restare lucidi per

l’incontro che è la vera ragione del nostro soggiorno all’estero.

Per questo: mangiamo cibo familiare a colazione. Dormiamo in letti morbidissimi.

Mettiamo l’aria condizionata al massimo. Indossiamo abiti stirati in modo impeccabile. Quando

sappiamo che la giornata che ci aspetta sarà molto impegnativa, e che nonostante questo

dovremo essere sempre al top, ci ricompensiamo in anticipo con ciò che ci fa stare bene. In

questo modo avremo la carica necessaria per resistere quando le cose si faranno difficili.

Decidendo di concentrarsi sulla clientela professionale, Conrad Hilton ha fatto centro

perché nessun albergatore l’aveva ancora fatto. A differenza dei viaggiatori europei di fascia

alta, che non avevano alcuna fretta di tornare al lavoro e lo sfoggiavano con orgoglio, i clienti di

Hilton non avevano tempo da perdere. Concentrandosi sull’esperienza di questa categoria di

viaggiatori, Hilton elaborò soluzioni innovative che consentissero ai suoi ospiti di ricaricarsi

rapidamente. E siccome viaggiare per lavoro significa aggiungere lavoro al lavoro, per ristorare

gli uomini d’affari in viaggio bisognava offrire loro comfort, svaghi e occasioni di divertimento al

di là di ogni aspettativa. Ed è esattamente questo il pezzo del puzzle mancante che consentì al

primo marchio di hotel di prendere il volo.

Lady Hilton Le ricompense motivano chi le riceve. Per questo con un pezzetto di cioccolato

riusciamo a spaccarci la testa su un problema di matematica per dieci minuti e più. Un buon

pranzo con il nostro collega preferito può fornirci l’energia necessaria per completare la

relazione che avevamo lasciato a metà. Ma una presentazione davanti a un pubblico abituato,

per ragioni culturali, a non sorridere troppo, potrebbe richiedere anche mezza bottiglia di vino

sorseggiata su un letto di piume.

Agli Hilton soggiornano sia viaggiatori d’affari che di piacere in cerca di rapido ristoro.

Ma mentre i vacanzieri possono utilizzare le loro risorse per andare al museo, intrattenersi con

le persone del posto, e imparare i costumi locali, il viaggiatore d’affari deve pensare a preparare

il discorso e al voltaggio dell’adattatore del computer.

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Viaggiare significa sentirsi stranieri in situazioni straniere,

ma le stesse situazioni, ad alcuni viaggiatori, possono sembrare

ancora più stranianti. Per decenni, rivolgendosi ai viaggiatori

d’affari, Hilton si è confrontato con una categoria composta quasi

esclusivamente da uomini. Nei primi anni ‘20 del ‘900 al Mobley, il

primo hotel di Conrad Hilton, gli ospiti maschili superavano gli

ospiti femminili in una proporzione di quattro a uno.

Nel 1950, lo Stevens Hotel di Chicago iniziò a corteggiare

il pubblico femminile collocando in ciascuna delle sue 3.000

stanze una cartellina con la scritta “Per sole donne”, contenente

buste e carta da lettere, un set di cucito, e un opuscolo

informativo con servizi utili per il viaggio, incluso un servizio di

baby-sitting e di sartoria disponibili in hotel.

Dopo una fase preliminare di osservazione del pubblico femminile del Palmer Hotel di

Chicago, per capire quali fossero i servizi più apprezzati dalle donne in viaggio, nel 1965 fu

ufficialmente introdotto il programma Lady Hilton. Il programma mirava a supportare le prime

donne che si avventuravano da sole in viaggi di lavoro, facendole sentire a proprio agio. Per

non parlare del mondo dominato da uomini che si sarebbero trovate ad affrontare.

I cambiamenti necessari erano relativamente semplici. In alcuni hotel, il programma

Lady Hilton prevedeva stanze con servizi aggiuntivi quali asciugacapelli, speciali appendini per

vestiti, e specchiere. Si trattava di un pubblico ristretto. Si stima che a quell’epoca le donne in

viaggio per lavoro costituissero l’1% di tutti i viaggiatori d’affari.

Carol Brock, un dipendente della famiglia

Hilton che si occupò del programma Lady Hilton

presso lo Statler Hilton di Boston nel 1969,

afferma che molte delle donne che utilizzavano

questi comfort non li avevano mai visti prima. Data

la sproporzionata presenza di uomini negli hotel

all’epoca del maschilismo, la vera questione era il

bisogno di sentirsi in un ambiente sicuro, e non la

presenza di un asciugacapelli. Alcuni dei prodotti

Lady Hilton che oggi potrebbero apparire sessisti,

come i set di trucchi o i profumi, sono stati in realtà

strumenti di marketing che non devono porre in

secondo piano il vero core concept di Lady Hilton:

una Lady Hilton in carne e ossa, un’assistente

personale in hotel.

“La cosa più importante che Lady Hilton

offriva alle viaggiatrici era un’assistente che si

prendeva cura di loro”, dice Brock. Con il

programma vennero messe in atto misure

aggiuntive per garantire la sicurezza delle ospiti.

Al check-in, i dipendenti stavano attenti a non

pronunciare il numero di camera ad alta voce. Alcuni hotel predisposero dei piani riservati alle

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ospiti Lady Hilton, e incaricarono il personale addetto agli ascensori di accertarsi che nessuno le

seguisse.

I viaggiatori sono stranieri in terra straniera, e le normali camere d’hotel forniscono

comfort universali che li aiutano a riprendere le forze. Ma negli anni ‘50, le viaggiatrici d’affari

erano al margine di questa categoria di outsider. Facendole sentire meno isolate e offrendo loro

assistenza personale, queste donne si sentivano al sicuro: un’ulteriore fonte di ristoro. Gli hotel

che offrono servizi per categorie specifiche di viaggiatori con esigenze particolari, sono come

quei ristoranti che inseriscono nel menù un piatto per i clienti con regimi dietetici particolari.

Siccome anche i carnivori a volte desiderano un pranzo leggero, un gustoso risotto vegetariano

può far felice chiunque, anche chi fino a quel momento non avrebbe mai pensato di

assiaggiarne uno.

Hamptonality: Quando un Waffle è più di un Semplice Waffle Phil Cordell è uno dei pionieri del settore alberghiero: era il Direttore generale del

secondo Hampton Inn, quando aprì nel 1984. Quel marchio, oggi l’Hampton by Hilton, rispetto

ad altri hotel si caratterizza per un numero inferiore di addetti, per esempio il facchino non è

sempre disponibile a portare i bagagli.

Ma non mancano altri servizi chiave. La colazione compresa nel prezzo dopo 30 anni è

ancora un servizio molto apprezzato: oltre il 90% degli ospiti di Hampton by Hilton ne

usufruisce. A causa della popolarità di questa offerta, Hampton by Hilton ha dato il via a una

vera e propria lotta tra le catene di hotel.

“Tutto è iniziato da semplici ciambelle glassate, succo d’arancia e caffè”, racconta

Cordell. Ma negli anni la colazione si è evoluta offrendo pasti caldi completi, e rimanendo

gratuita nonostante le difficoltà di offrire un pasto a prezzi così bassi. Con l’intensificarsi della

competizione e sempre meno elementi di distinzione tra Hampton e i suoi rivali, qualche anno fa

Cordell e il suo team decisero di fare qualcosa per riaffermare la supremazia di Hampton.

Ma i clienti non sempre sanno cosa sia a renderli felici. “Se andaste da loro a chiedergli

‘Ditemi cinque cose che vi farebbero stare meglio’, scoprirete che non è facile per loro trovare

una risposta”, afferma Phil Cordell, attuale Global Head per il New Brand Development di Hilton.

La Direzione di Hampton ha incaricato un gruppo di persone, composto da importanti

opinion leader, chef del settore e non, di individuare “possibili alternative originali” che facessero

letteralmente impazzire i clienti. “Abbiamo pensato alle cose più impossibili, a cose che i clienti

non si sarebbero mai aspettati.” Una delle idee emerse, che sono state testate, era la colazione

in forma di spiedo: involtini di salsiccia con uova strapazzate in pastella di pancake.

Un’altra proposta testata era quella di un waffle già pronto, inizialmente vuoto e non

molto invitante. Ma accompagnato da gustose salse d’accompagnamento (fragole, panna

montata, sciroppi aromatizzati), il waffle diventava decisamente più interessante.

Cordell racconta: “Ci siamo detti ‘okay non è male, ma cosa possiamo fare di più?’”.

Qualcuno avanzò la proposta di cucinare waffle sul momento. Subito il gruppo apparve

interessato ma preoccupato.

Un waffle fatto al momento è un cibo altamente sensoriale. I quadratini vuoti fungono da

recipiente per lo sciroppo d’acero e il burro, per una gran quantità di frutta e panna montata. Il

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waffle è un modo intelligente di servire il cibo, un gioco di prestigio che trasforma un gustoso

dessert di fine pasto in un antipasto per la colazione.

E per qualche misteriosa ragione, è impossibile ottenere lo stesso waffle a casa, dove la

maggior parte delle piastre per waffle giacciono in qualche armadio piene di polvere. Quando

Alice nel Paese delle Meraviglie, di Lewis Carroll, diceva “Certe volte ho creduto fino a sei cose

impossibili prima di colazione”, una di quelle doveva essere riuscire a fare un waffle: preparare

la pastella, preriscaldare la piastra, e mettere insieme una quantità appropriata di salse. La

mattina, prima che il caffè abbia fatto effetto, questi semplici passaggi possono richiedere uno

sforzo titanico.

Ma se agli ospiti diamo una piastra, la pastella già pronta e delle salse, allora questo

sforzo potrebbe trasformarsi in qualcosa di entusiasmante.

La genialità dell’idea dei waffle non apparve subito chiara a tutti, in azienda. Cordell

ricorda: “All’inizio della discussione, se fossimo stati onesti, avremmo sollevato molti dubbi”.

Se sei nel mezzo di un brainstorming in ufficio, una piastra per waffle di metallo rovente

ti appare come un coacervo di pericoli imminenti. Secondo Cordell il gruppo avrebbe potuto

trovare mille motivi per contestare l’idea: “Si creeranno file troppo lunghe, sarà un casino, le

persone non sapranno come fare, si scotteranno!”.

Per tener testa ai signor no, il gruppo avviò un progetto pilota posizionando, durante la

colazione, piastre per waffle sul tavolo da buffet di vari Hampton.

A quanto pare, pochi giorni a osservare gli ospiti che si godono la colazione possono

rivelare molto più di anni passati a fare brainstorming in ufficio. Il team si rese conto che per

migliorare l’esperienza degli ospiti bisognava inventare un dispenser che fornisse una quantità

di pastella sufficiente a cucinare un waffle per volta. Se il procedimento non è poi così

complicato (anche prima che il caffè del mattino abbia fatto effetto), si tratta pur sempre di una

novità capace di innescare conversazioni tra gli ospiti. In soli tre minuti e mezzo un dilettante è

in grado di preparare un waffle perfetto, generando domande sulla tecnica di preparazione e le

salse.

Il team non aveva considerato che quel piccolo frammento di interazione avrebbe

migliorato l’esperienza. “Ingenuamente”, afferma Cordell, “non avevamo nemmeno pensato [alla

componente relazionale] fino a quando non abbiamo visto gli ospiti interagire l’uno con l’altro”.

Ma la preparazione del waffle consentiva a ogni ospite di condividere la propria esperienza

culinaria con il successivo, facendogli provare per un istante cosa si prova a essere Julia Childs

o Gordon Ramsey.

“Abbiamo fatto questa prova in diversi hotel e fu semplicemente un successo”, afferma.

L’Hampton di Times Square, a New York, dispone di meno di 300 camere e in un weekend

serve da mangiare a 1.200-1.500 persone.

Durante la sua ultima visita alla location, Cordell si rese conto che ciò che aveva

progettato 30 anni prima funzionava ancora bene. Era perfetta? No, perché ci viene molta

gente. A volte c’è un po’ di fila? Sì. Si crea un po’ di confusione? Sì. Le persone si sono scottate

con la piastra? No. Si rompono spesso? No.

Cordell tira le somme: “Non è successo nulla di negativo, e gli effetti positivi sono stati

ben superiori alle nostre aspettative”. Se avessimo continuato a discutere in ufficio per eliminare

le imperfezioni della nostra idea, la Direzione non avrebbe avuto modo di osservare quanto i lati

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positivi superassero quelli negativi. E non avrebbe mai notato uno dei maggiori punti di forza di

questa soluzione, e cioè il fatto di offrire agli ospiti un momento di convivialità durante la

colazione. I comfort sono indispensabili per un viaggiatore d’affari che si avventura verso

destinazioni esotiche, ma sono apprezzati anche dai viaggiatori di piacere che fanno colazione

prima di percorrere 200 chilometri di strada. Per dare al viaggio la possibilità di cambiarci la vita,

dobbiamo prima sentirci ristorati e pronti ad affrontarlo. Certe volte, tutto quello che ci serve è

un momento di convivialità... accompagnato da un waffle.

Allargare gli Orizzonti Con tutti questi comfort a ristorare rapidamente anche il più affaticato tra noi, per i

viaggiatori di piacere è ancora più facile godersi tutti i vantaggi del viaggio, espandendo i propri

orizzonti e arricchendosi di nuove prospettive su sé stessi e il mondo che li circonda.

La psicologa Barbara Fredrickson della Duke University, ha dimostrato che le emozioni

positive aiutano le persone ad ampliare e a costruire il proprio punto di vista sul mondo. Quando

questo accade, un viaggio può davvero influenzarci profondamente e può accadere che ci

sentiamo riconoscenti per un buon pasto o emozionati davanti a un’opera d’arte. Queste potenti

emozioni stimolano la creatività, le relazioni con gli altri, e ci fanno vedere il mondo come

qualcosa di prezioso.

Prima di poter essere felici abbiamo bisogno di sentirci sicuri, mentre un umore positivo

favorisce il pensiero creativo, la valutazione di più punti di vista, e genera un numero maggiore

di soluzioni possibili e valide. Quando non siamo di fretta o affamati di energia, ci sentiamo

sicuri e a nostro agio nel presente. Una volta soddisfatti i bisogni basilari, siamo in grado di

esplorare e conoscere nuovi aspetti dell’ambiente, cosa che può renderci più creativi se ci

consente di confrontare il nostro modo di vedere il mondo con nuove prospettive, che ci

vengono offerte da altre persone o da culture diverse. Anche (o soprattutto) gli adulti traggono

vantaggio dallo stupore e dal gioco perché facilita l’interazione positiva con gli altri, ampliando i

nostri orizzonti grazie all’acquisizione di nuove competenze e relazioni sociali.

Il Waldorf Astoria, Amsterdam

“Si muove nella camera come se fosse sulle ruote”, scriveva Condé Nast Traveller,

descrivendo la naturalezza con la quale il 69enne Direttore generale dell’Hilton di Amsterdam,

Roberto Payer, si muoveva durante il cocktail party. “Payer è una leggenda ad Amsterdam.”

Durante una cena, anni fa, un amico di Payer raccontò che sua figlia aveva da poco

acquistato una fila di palazzi del XVII secolo lungo l’Herengracht. La serie di edifici, allineati

lungo il canale, nel XVIII secolo aveva ospitato una banca e abitazioni di lusso.

A Payer venne un’idea di cosa fare con quei palazzi: “Dovremmo farci un Waldorf

Astoria”. Dopo aver acquistato i diritti di gestione del Waldorf Astoria di New York, il leggendario

hotel, nel 1949, Hilton lo acquistò per intero nel 1972. Nel 2009 il Waldorf Astoria divenne il

marchio Hilton per gli hotel di lusso.

Ed ecco la vera sfida: come costruire un hotel di lusso in Europa che sappia offrire

un’esperienza unica a ciascun ospite, consentendo anche a coloro che hanno, o hanno visto,

già tutto di raccogliere i benefici di un viaggio che ci dona felicità?

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Roberto Payer, una leggenda ad Amsterdam e membro del gruppo Hilton da 50 anni,

era l’unica persona adatta a realizzare questo compito:

“Avevamo l’idea. Ed era quella che non avremmo dovuto copiare nessuno, ma

presentare l’hotel in modo diverso”.

Per prima cosa, chiaramente, la storia: “È un luogo unico… un palazzo del XVII secolo”.

I sei palazzi che compongono il Waldorf Astoria una volta ospitavano la sede olandese della

banca MeesPierson, che fu fondata nel 1720. Nei cento anni seguenti, diventarono residenza di

alcune delle famiglie più ricche della storia olandese, con nomi quali Geelvinck e Huygens. Nel

2011 furono inseriti nella Lista dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO. Persino lo scalone

centrale ha una storia che non si può comprare: fu costruita da Daniel Marot, l’architetto di Luigi

XIV.

In secondo luogo, le persone: “Qual è la cosa più importante, il primo impatto, quando si

arriva in un posto? Le persone e il loro aspetto”, afferma Payer. In qualità di animali sociali, le

altre persone catturano la nostra attenzione come delle calamite. Jan Taminiau è uno stilista

olandese che ha lanciato la sua linea di vestiti, JANTAMINIAU, nel 2003. Dieci anni più tardi la

regina dei Paesi Bassi, Maxima, indossava una delle sue creazioni all’a cerimonia di

insediamento di suo marito (all’estero, i suoi capi d’abbigliamento sono stati indossati da

Beyoncé e Lady Gaga). Taminiau ha disegnato le divise dei membri dello staff del Waldorf

Astoria. Il personale femminile alla reception, indossa abiti di seta fantasia in tonalità beige e

marrone. Uno sguardo attento riesce a intravedere che quella fantasia rappresenta una mappa.

E solo chiedendo allo staff, o se avete una passione per la cartografia olandese del XVII secolo,

potrete capirne il senso profondo: la stampa si ispira a una mappa della zona disegnata nel XVII

secolo dal cartografo olandese Balthasar Florisz van Berckenrode.

Negli hotel di lusso, l’esperienza sensoriale è curata fin nei minimi dettagli. Per questo

non sorprende che l’hotel sia costellato di candele profumate che diffondono una fragranza

delicata e raffinata. La loro profumazione fu creata appositamente per il Waldorf Astoria, e

assicura ai suoi ospiti un piacere che non troveranno altrove.

Dopo aver preso possesso della stanza, un membro dello staff presenta all’ospite

quattro diverse profumazioni tra cui scegliere: “Finirà nel loro letto”, dice Payer riferendosi

all’abitudine di vaporizzare le lenzuola degli ospiti. Quel profumo contribuisce a personalizzare

ulteriormente la stanza. In seguito, all’ospite verrà consegnato uno speciale medaglione

contenente la fragranza dell’hotel da portare a casa per ravvivare il ricordo del soggiorno:

“[Gli ospiti mettono il loro medaglione] in valigia. E quando a casa aprono la valigia, ecco

il punto, sono di nuovo al Waldorf Astoria”. Le candele e le esclusive profumazioni sono state

create da Cire Trudon, compagnia francese che produce candele sin dall’epoca dello scalone di

Marot, il XVII secolo.

Al primo piano, nella hall principale dell’hotel situata nell’edificio che ospitava la

MeesPierson, gli ospiti possono ordinare cocktail ispirati a diverse culture. Un cocktail ispirato

alla cultura indiana per esempio, unisce la vodka aromatizzata al Chaat masala con coriandolo,

verjus, ananas al curry, zenzero e birra IPA. Questo drink, il Rupee, porta il nome della moneta

indiana. Al posto del menù, gli ospiti ricevono un portafoglio pieno di banconote colorate, una

per ogni paese.

Le bottiglie dei liquori sono posizionate sopra una fila di cassette di sicurezza ben

collocate; sì il tema del denaro prosegue. I nomi dei cocktail, il menù, le cassette di sicurezza

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sono un modo per scherzare sul ricco

passato del Vault Bar, situato dove una

volta sorgeva il caveau della banca

MeesPierson.

Viaggiare può renderci felici

perché ci permette di vivere nuove

esperienze positive. Ma Payer doveva

riuscire a convincere persone che

potevano permettersi di andare

ovunque. Persone che avevano già

tutto, avevano già visto tutto, o che

forse erano semplicemente già stanche

di tutto. “L’idea era che non avremmo

dovuto copiare nessuno.” Competere con gli hotel di Parigi e Londra di pari livello costruendo

un hotel di lusso tradizionale in Europa, semplicemente non avrebbe funzionato. Perciò se le

divise, le invitanti fragranze e i menù del bar sono innovativi e ben fatti, dietro ogni dettaglio si

nascondono altri livelli di significato, capaci di incuriosire e affascinare ulteriormente. Alla

reception, giovani e splendidi volti indossano abiti ispirati a una mappa della città vecchia di

secoli, disegnati dallo stilista scelto anche da Beyoncé.

I piaceri dell’hotel sono frutto di una ricerca approfondita che intreccia le gioie dei sensi

con una tradizione vecchia di secoli, che si respira nella storia culturale di Amsterdam e dello

stesso hotel.

Di certo sarà un’esperienza nuova, fosse anche solo perché ciò che si trova qui non può

esistere altrove. Lo scalone restaurato in stile Luigi XIV si trova qui da secoli. I dolci a base di

miele che nel mese di giugno accompagnano il tè delle cinque utilizzano miele prodotto negli

alveari locali, situati sul tetto del Librije’s Zusje, il ristorante due stelle Michelin dell’hotel e uno

dei migliori della città.

Le innovazioni di Payer al Waldorf portano avanti l’idea iniziale di Conrad Hilton, quella

di rivolgersi alla clientela più difficile da accontentare: se riesci a fare felice un gruppo di turisti

annoiati, hai scoperto il segreto della felicità.

Il London Hilton on Park Lane

Da un po’ di tempo, Conrad Hilton voleva un hotel a Londra che potesse definire proprio.

Il 26 luglio del 1952, il New York Times scriveva che la Direzione del Grosvenor House,

un hotel di lusso nel quartiere di Mayfair a Londra, aveva rifiutato di vendere a Hilton le sue

500.000 azioni, a quanto si dice per non vedere un’istituzione della cultura inglese finire in mani

americane. Dopo poco più di un anno, il 5 ottobre 1953, il Times scriveva che Hilton aveva

annunciato piani per un ventilato hotel di 550 stanze con affaccio su Hyde Park, a meno di 800

metri dal Grosvenor.

Gli inglesi sembravano temere l’ostile scalata americana sugli alberghi inglesi. “Telefoni

e radio in ogni stanza, e televisione nelle suite, minacciano di disturbare la tranquillità che i

visitatori sono soliti trovare negli hotel londinesi”, scriveva il corrispondente estero del New York

Times, Thomas F. Brady, “Il boom dei turisti americani degli ultimi anni sta riversando capitali e

gestioni statunitensi nel settore alberghiero inglese, e la competizione con i dollari finirà per

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costringere gli albergatori inglesi a emulare le innovazioni portate dagli invasori, che appaiono

come una barbarie in mezzo allo splendore delle travi di legno in stile edoardiano, ai lampadari

a bracci e a rispettosi servitori”.

Quando Hilton finalmente ottenne un pezzo di terra, era piccolo e costoso (1,25 acri), e

per ricavare qualcosa da questo investimento Hilton dovette farvi stare il numero più alto di

stanze possibile. Questo, ovviamente, implicò la costruzione di un edificio alto. Un edificio molto

alto. I piani iniziali di Hilton vennero rispettati passando per quello che potrebbe apparire come

uno sfogo rabbioso da parte dell’Inghilterra: inchieste pubbliche e un veto del London City

Council. I titoli dei giornali, come “Arriva il progetto dell’hotel grattacielo: simbolo dell’egemonia

del dollaro”, facevano ben poco per stemperare le tensioni. Nel 1959, quando il City Council

rovesciò la sua decisione, la risposta immediata di Hilton fu costruire, e costruire in fretta.

Trionfante nei suoi 100 metri di altezza, il London Hilton on Park Lane diventava così

l’edificio più alto della città, il primo a sovrastare la Cattedrale di St. Paul. A un certo punto, pare

che i domestici della Regina rivelassero a Sua Altezza Reale le loro preoccupazioni riguardo

alla possibilità che gli ospiti riuscissero a vedere nel giardino di Buckingham Palace.

Quando aprì, il 17 aprile del 1963, era anche il più grande hotel ad essere costruito in

Europa dopo la guerra con i suoi cinque bar, cinque ristoranti, e una hall che veniva descritta

ottimisticamente come “troppo piccola e troppo bassa”. Le camere erano piene di incivili comfort

americani: “Un impianto di aria condizionata regolabile a proprio piacere riscaldava o

raffreddava ogni stanza. Radio e televisione in ogni camera erano incassate nel comò in legno

di noce, e potevano essere azionate tramite un telecomando. Quattro canali in radiodiffusione

erano una novità all’epoca”, scrive il giornalista di viaggio Andreas Augustin. Un gruppo di

operatori telefonici rispondeva alle 88 linee dell’hotel, inoltrando le chiamate e annotando i

messaggi per gli ospiti assenti che venivano allertati al loro rientro da una luce rossa sul

telefono in camera.

Sulla scia della moda del momento, l’F&B Manager Lim Ewe Hin reinventò uno dei bar

chiamandolo Hilton's 007 Night Spot, ispirato al film Goldfinger del 1964, e lo arredò con arredi

scenici dello studio cinematografico. Il film per qualche tempo entrò realmente in relazione con

l’hotel: l’attore americano-giapponese Harold Sakata (Oddjob), il braccio destro del cattivo Auric

Goldfinger, passò qui le prime tre settimane di riprese. Oddjob indossava il costume di scena

con cappello a bombetta a falda in acciaio, e aveva il compito di dare il benvenuto agli ospiti agli

ascensori e scortarli fino al bar.

Il cocktail della casa? Martini shakerato, non mescolato, ovviamente.

Anche in questo contesto, era chiaro come l’hotel indossasse la sua inglesità a stento,

come una giacca presa in prestito più che come un abito confezionato su misura, incapace di

nascondere il suo stile all’americana: i piani dell’hotel, ad esempio, erano numerati in origine

secondo l’uso americano dove la hall è il Piano 1, e non il Pianoterra. A cena non veniva servito

il vino, come invece si usa fare in Europa.

Il suo cuore era americano, ma malleabile. L’obiettivo era creare un mix culturale, un

luogo dove gli ospiti di qualsiasi provenienza si sentissero i benvenuti.

Vale a dire, che al London Hilton on Park Lane: “Nel 1963 al ristorante internazionale un

trio di musicisti ungheresi intratteneva gli ospiti. La musica e le divise dei musicisti cambiavano

ogni paio di mesi a seconda del tema, delle decorazioni, del cibo e dei cocktail del ristorante. Se

il ristorante cambiava il suo stile da europeo a mediterraneo, da nordamericano a

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centro/sudamericano, anche i musicisti si trasformavano da violinisti viennesi in frac a gondolieri

italiani, a chitarristi spagnoli, a mariachi messicani, a violinisti cowboy” scrive Augustin.

Tra gli ospiti illustri che nel corso degli anni hanno soggiornato in questo hotel citiamo:

gli artisti Sammy Davis Jr., Ray Charles, gli attori Peter Ustinov, Telly Savalas, Raquel Welch,

Michael Caine, John Cleese, il fondatore di Playboy Hugh Hefner, vincitori del Premio Nobel per

la Pace, e l’attore e Capo di Stato Ronald Reagan.

Subito dopo il rientro della Missione Apollo che portò il primo uomo sulla luna, l’Air Force

One del Presidente Richard Nixon atterrò a Londra con a bordo Neil Armstrong, Buzz Aldrin e

Michael Collins, che soggiornarono insieme alle loro mogli all’Hilton on Park Lane.

Se riesci a creare un luogo accogliente ed invitante per una clientela diversificata avrai

fatto centro perché avrai dato vita a una location in grado di distendere e al tempo stesso

ispirare gli ospiti.

La ricerca premia il pluralismo culturale. Durante uno studio, gli studenti di un college

americano vennero divisi in gruppi e gli vennero mostrati 45 minuti di prodotti culturali vari. A

ogni partecipante vennero mostrati quattro minuti di video musicali, quattro trailer, e 160

immagini che ripercorrevano tutta una gamma di produzioni artistiche, dall’architettura alla

decorazione, alla moda e al design. Gli vennero poi sottoposti dei test per mettere alla prova la

loro creatività: rivisitare la fiaba di Cenerentola immaginando un pubblico di bambini turchi nel

modo più originale e intenso possibile, o individuare analogie creative al concetto di tempo.

Al gruppo di base non venne mostrato nulla. Agli studenti fu semplicemente chiesto di

presentarsi in laboratorio per alcuni test di creatività. Gli altri vennero suddivisi in quattro gruppi.

A un gruppo di studenti vennero mostrati 45 minuti della più creativa produzione culturale

americana, a loro più affine. La creatività di questo gruppo risultò leggermente superiore a

quella del gruppo di base. A un altro gruppo vennero mostrati 45 minuti di prodotti culturali

cinesi. La loro creatività si attestò leggermente sopra a quella del gruppo di controllo, al pari di

quella del gruppo americano-americano.

Gli altri due gruppi, invece, mostrarono risultati migliori. In un gruppo, che chiameremo

“condizione buffet”, ai partecipanti venne mostrata una serie di prodotti culturali cinesi e

americani in alternanza: un abito cinese seguito da un abito americano, poi un’architettura

cinese seguita da una americana. Un altro gruppo, cui daremo il nome di “condizione di

mescolanza”, ai partecipanti vennero mostrati prodotti culturali rielaborati mescolando elementi

della cultura americana e di quella cinese, come ad esempio un hamburger di riso di

McDonald’s.

L’esperimento mostrò che l’affiancamento di culture aumentava la creatività. La giuria

stabilì che sia la condizione buffet che quella di mescolanza producevano livelli di creatività

superiori rispetto alle altre condizioni. La creatività trae spunto da elementi contrapposti perché

fornisce cambi di prospettiva, confini indeterminati e genera variazioni sui temi più familiari

Dai giorni della pensione di famiglia in New Mexico, Hilton aveva sempre cercato di

assicurare ai suoi ospiti parte dei comfort di casa. Ma nei centri nevralgici del commercio

internazionale, a cercare i comfort di casa c’era una pletora di culture e persone provenienti da

ogni paese, e per fare sentire tutti a casa nascevano esperienze interessanti. Molti degli hotel

internazionali di Hilton hanno dimostrato di aver messo in atto soluzioni estetiche creative e

servizi derivanti dalla giustapposizione tra culture.

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All’Hilton Istanbul, la costruzione degli otto bar avvenne sotto la supervisione di manager

quasi totalmente stranieri. Il Roof Bar originariamente era un luogo d’incontro per l’élite di

Istanbul. Dopo la ristrutturazione sul finire degli anni ‘60, riaprì nel 1971 con il nome di Cloud 9

Disco e divenne la prima discoteca di Istanbul.

Il Karagöz Bar, un bar tradizionale turco, fu anch’esso eliminato durante la

ristrutturazione. A Londra giunse un architetto in pellegrinaggio culturale, e trascorse mesi a

osservare i bar inglesi per conto di Hilton. Il risultato fu il Pilsen Pub, una rievocazione del

tradizionale pub inglese costruito interamente in legno. Per la maggior parte venivano servite

bevande alcoliche e birra alla spina, a metà prezzo dalle 17:00 alle 19:00, guadagnandosi la

fama di primo locale “happy hour” di Istanbul.

Forse questa giustapposizione culturale e questo giocare sugli elementi culturali è un

insulto alla storia? La nozione di autenticità è semplicemente un punto di vista che non ha nulla

di oggettivo: le culture sono sempre in evoluzione e soggette a interpretazione. Giocando con i

confini culturali senza mancare loro di rispetto può favorire la nostra conoscenza di altri stili di

vita e renderci più creativi, farci apparire ciò che è estraneo come meno estraneo, mettere in

evidenza i nostri legami con esso, e far sentire tutti un po’ più a casa.

Sin dall’inizio, abbiamo definito Conrad Hilton come un “mago” nel far sentire gli altri

come a casa propria. Il pezzo mancante che ha permesso di completare il puzzle? Portare

l’asticella dei comfort oltre ogni aspettativa, consentendo alle persone di ribaltare gli effetti della

stanchezza e dell’esaurimento mentale, e di tornare nel mondo ricaricate. Prima di trarre i

benefici del viaggio e di espandere così i propri orizzonti, i viaggiatori hanno bisogno di riportare

la mente a una condizione di equilibrio.

Il concetto di “allargare e costruire” suggerisce che un hotel ha la capacità di offrire gioia

e piacere ai propri ospiti, ma anche di veicolare significati di livello più elevato attraverso

l’attenzione ai dettagli. La possibilità di personalizzare l’esperienza di viaggio, anche attraverso

semplici scelte, può rafforzare i legami sociali con le persone che viaggiano con noi.

Un’esperienza condivisa è semplicemente più appagante.

I risultati dello studio citato sopra mostrano chiaramente che la creatività nasce dallo

scambio culturale: pluralismo è meglio, mescolare è meglio. I piaceri del culturalmente altro

possono accendere la gioia e la creatività associando qualcosa di familiare (vodka) a variazioni

esotiche sul tema (aroma di Chaat Masala). Si può suscitare interesse anche associando

elementi provenienti da epoche diverse, come un abito contemporaneo accanto a immagini

provenienti da un tempo antico (una vecchia mappa).

Osservare queste contrapposizioni ci permette di tracciare connessioni tra culture

diverse, o epoche diverse, offrendoci nuove prospettive sulla nostra cultura e permettendoci di

vederla come una possibile variazione sul tema, e non come l’unico centro dell’universo

possibile. Uno dei grandi vantaggi del viaggio è la sua capacità di allargare gli orizzonti e

aumentare la consapevolezza, ovvero di allargare e costruire il nostro mondo. E se per fare

questo bastassero dei cocktail e splendidi vestiti culturalmente ispirati? Allora ci guadagnano

tutti.

Hilton ha sempre cercato di dotare ciascuno dei suoi hotel di una personalità unica ed

inimitabile. All’estero, questo avviene quasi sempre attraverso elementi del design della cultura

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ospitante e dei suoi abitanti. Negli Stati Uniti, può avvenire semplicemente accostando il

passato al presente. In questo modo possiamo affidarci a ciò che ci è familiare e provare

qualcosa di nuovo: un’esperienza positiva sa confortarci e insegnarci qualcosa di nuovo in un

colpo solo.

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Chris Silcock: da cameriere a guru dell’IA Dopo essersi laureato in informatica, Chris Silcock aveva deciso di concentrare i suoi

studi su qualcosa di meno remunerativo: la musica. Per sbarcare il lunario, di sera e nei

weekend lavorava come cameriere alla banchettistica dell’Hilton Watford, in Inghilterra:

“Mi piaceva il gruppo di lavoro”, racconta parlando dei suoi primi giorni, “Lavoravi in orari

scomodi con altra gente che lavorava in orari scomodi. Alla fine si diventava tutti amici e ci si

supportava a vicenda perché ci ritrovavamo a spasso quando tutti gli altri erano a lavorare”.

Dopo la fine del master, i capi di Silcock gli parlarono: “Mi offrirono un lavoro e delle

responsabilità che non credevo di meritarmi”, ammette. Come accadde spesso nella carriera di

Silcock, fu premiato per il buon lavoro svolto con nuove responsabilità. Gli chiesero se gli

sarebbe piaciuto diventare responsabile della banchettistica.

A soli 21 anni, Silcock all’improvviso era il responsabile di una squadra di decine di

persone che servivano durante banchetti e matrimoni centinaia di invitati. Era anche il

responsabile delle relazioni con i clienti, e interagire con i clienti era molto interessante:

“Ovviamente, per loro era un evento importante”. All’inizio fu affiancato da un banquet manager

più anziano, poi soltanto osservato da questi mentre faceva le chiamate più importanti ai clienti

e ricevendone i suggerimenti all’occorrenza.

Pochi mesi più tardi, il suo responsabile gli offrì un’altra posizione, un’esperienza di

apprendimento intensa che avrebbe contribuito ad accrescere le sue competenze: lo volevano a

gestire il turno notturno in hotel come night manager.

Silcock descrive il suo lavoro da night manager come un lavoro: “Dove si impara

moltissimo perché certe volte di notte ti ritrovi ad essere l’unico referente Hilton in tutto l’hotel.

Perciò che si tratti di un room service o di un check-in, o di un problema in una stanza o di

qualsiasi altra cosa, devi necessariamente saperla gestire”.

Dopo che il manager gli aveva elencato tutti i vantaggi di questo lavoro gli disse: “E

comunque sia, inizi stasera perché non c’è nessun altro disponibile”, ricorda Silcock con una

risata.

Indipendentemente dalla sede, dal reparto, o dall’anzianità di servizio, le promozioni in

Hilton offrono sempre la stessa ricompensa per un lavoro ben fatto: altro lavoro. Ma anziché

premiare Silcock per la sua bravura con i clienti della banchettistica attraverso un miglioramento

degli orari di lavoro, i suoi responsabili gli offrirono un lavoro più interessante.

Alla fine Silcock trovò la sua strada all’interno dell’azienda, acquisendo un’esperienza

internazionale in qualità di responsabile di zona: “Per la prima volta un’azienda mi pagava per

viaggiare in tutta Europa. Prima non ci avrei mai creduto. Un grande passo in avanti”.

Il suo prossimo passo lo condusse in un altro continente, dove viaggiava per formare il

personale locale riguardo alle politiche di prezzo e alle modalità di prenotazione della sede

centrale. Questa nuova promozione gli venne presentata più o meno com’era avvenuto per la

posizione di night manager, offrendogli un paio di rotelle di supporto ad ammortizzare

l’inevitabile percorso di formazione.

Silcock fu spedito all’Hilton Alexandria, in Egitto. Il novello viaggiatore, arrivato al Cairo,

saltò su un taxi e chiese di essere portato ad Alessandria:

“Venne fuori che ci volevano cinque ore di macchina”, dice Silcock ridendo. “Si trovava

nel bel mezzo del nulla, e la strada per arrivarci non era particolarmente ben messa. Pensavo

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che mi avrebbero portato nel deserto e che di me non si saprebbe mai più saputo nulla”, dice

scherzandoci su.

Grazie al background informatico e alle competenze manageriali acquisite durante gli

anni, Silcock formava i membri dello staff riguardo al software di revenue management e di

gestione delle prenotazioni. Insegnò al personale come inserire le camere disponibili nel

database del call center centrale, e a modificare il prezzo delle camere per massimizzare i

profitti.

Dopo aver dimostrato di riuscire a cavarsela su un terreno di gioco più impegnativo,

Silcock fu promosso a vicepresidente del revenue management. In questo ruolo si assicurava

che tutti gli hotel Hilton International utilizzassero il sistema di cui si era occupato mille volte in

hotel come quello di Alessandria, attraverso il software e le strategie che consentivano ai

proprietari di massimizzare i loro profitti.

L’attuale carica di Silcock, quella di direttore commerciale, assomiglia ben poco al suo

ruolo iniziale di addetto alla banchettistica. Il suo team si occupa delle tariffe di circa 880.000

stanze, tramite il gestionale Hilton. Il complesso sistema multifattoriale per la determinazione dei

prezzi prende in considerazione fattori come la località (Topeka o Tokyo), il marchio (Embassy

Suites vs. Waldorf Astoria), il periodo dell’anno, e i servizi (l’hotel offre servizio bar, parcheggio,

colazione gratuita?). Attraverso l’analisi dei dati si gestisce l’e-commerce e vengono creati

messaggi pubblicitari ad hoc, a seconda degli eventi locali. Alla fine del soggiorno, il suo team

sottopone agli ospiti un questionario di soddisfazione. Le sue responsabilità ora vanno ben oltre

la gestione di un team di una ventina di camerieri durante un pranzo di nozze, coinvolgendo

migliaia di dipendenti in tutto il mondo. Oggi lavora alla sede centrale di McLean, in Virginia, e

riferisce direttamente al CEO di Hilton, Chris Nassetta.

Prove Lavorative di Arrampicata

Se la posizione attuale di Silcock non assomiglia per niente al suo ruolo di partenza, la

natura autonoma della carriera lavorativa in Hilton è già visibile dalla storia del suo fondatore.

“Fu lui ad inventare, ad esempio, la pratica inusuale quanto sana di nominare Direttori

indipendenti a gestire i suoi hotel, senza pretendere alcun investimento da parte loro se non

l’esperienza, l’onestà e lo zelo”, scrive il biografo Whitney Bolton in The Silver Spade: The

Conrad Hilton Story.

Nel 1969, lo psicologo Mihaly Csikszentmihalyi mise in atto un seminario sul gioco, con

l’obiettivo di scoprire come mai certe esperienze risultano più piacevoli di altre. In uno studio

preliminare, iniziò a chiamare delle persone a caso che avevano degli hobby, chiedendo loro

cosa stessero facendo in quel momento e quanta gioia gli dava.

Fu sorprendente scoprire che il grado di soddisfazione delle persone nel corso di una

settimana non era correlato alle ore trascorse sul lavoro piuttosto che a svolgere attività

ricreative, ma al numero di ore trascorse in uno stato di coinvolgimento attivo,

indipendentemente dalle etichette di svago e lavoro. Quando entriamo nella condizione che

Csikszentmihalyi chiama di “flusso”, o flow, ogni esperienza diviene intrinsecamente appagante.

Lo stato di flow si realizza quando le richieste che ci vengono poste incontrano le nostre

competenze. Essere in grado di affrontare una sfida interessante ci fa sentire vivi, ma perché

questo succeda ci deve essere una sfida interessante da affrontare.

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Immaginate di parlare con un appassionato di arrampicata dell’esperimento di

Csikszentmihalyi, con un grado di abilità 9. Se gli chiedeste di scalare una cima di livello 4, si

annoierebbe. Per coinvolgere le persone bisogna chiedergli di arrampicarsi un po’ più in alto.

All’arrampicatore di grado 9 dovreste chiedere di raggiungere un livello appena superiore al suo

livello di comfort (10, o forse 11). Ma oltrepassare questo livello (con un grado 13), manderebbe

in agitazione l’arrampicatore che probabilmente si arrenderebbe. Se lo scopo è coinvolgere il

personale, bisogna porgli delle sfide che si trovano uno o due step oltre il loro grado di abilità.

I responsabili di Silcock sembrano aver fatto pratica con il manuale di Csikszentmihalyi.

Per convincerlo a lasciare la carriera informatica, gli offrirono una sfida: (grado di abilità 4, livello

di sfida 5): sai gestire una ventina di camerieri e soddisfare i clienti? Dopo aver preso

confidenza con questo lavoro, ma prima che lo sapesse fare così bene da iniziare ad annoiarsi

e a prendere interesse gli offrirono una nuova sfida: sei in grado di gestire l’intero hotel? La

nuova posizione di Night manager gli richiedeva di imparare cose totalmente nuove (grado di

abilità 6, livello di sfida 9), ma gli fu fornito il contesto migliore per imparare. Il ritmo più lento del

lavoro notturno gli consentì di confrontarsi con nuovi problemi che non richiedevano però

decisioni immediate. Poteva fare innumerevoli tentativi, sbagliare e poi trovare la risposta esatta

prima che gli altri si fossero svegliati per colazione. Uno degli aspetti chiave del flow è

l’autonomia: la possibilità di decidere autonomamente come restare aggiornati.

Il ruolo di Silcock in azienda gli consentiva di utilizzare il suo background informatico,

perciò la sfida si faceva ancora più interessante in quanto coinvolgeva le sue competenze.

Mentre viaggiava per il mondo, formando lo staff, la sfida era più complicata ma la formazione

dello staff in luoghi remoti ricordava quella del night desk, solo lontano dagli occhi della

Direzione che normalmente vegliavano sul suo operato e che gli avevano dato il tempo di

sperimentare e perfezionare il suo sistema. Dopo aver affinato le sue competenze insegnando a

svariati team locali come svolgere i loro compiti al meglio, era pronto per finire sotto i riflettori

come vicepresidente del revenue management.

Hilton incoraggia i propri manager a promuovere i dipendenti che, come Silcock, amano

le sfide. Sollecitando l’autonomia da linee guida standardizzate, l’azienda favorisce la

motivazione intrinseca. Flow e coinvolgimento sono profondamente radicati nel DNA aziendale.

Il flow si verifica quando una persona è totalmente immersa in un compito, il che presuppone

obiettivi chiari, interesse personale, concentrazione, perdita della consapevolezza di sé,

padronanza della situazione, e il giusto rapporto tra competenze personali e obiettivi da

raggiungere. Nell’insieme, tutti questi elementi permettono di accrescere le abilità e il senso di

autostima, in modo piacevole.

Il padre di Conrad Hilton, Gus, favorì in lui lo sviluppo di uno spirito imprenditoriale:

“Vendevo sow-belly bacon, porridge di mais, fagioli e caffè nella drogheria di mio padre

prima ancora di essere abbastanza grande da riuscire a vedere oltre al bancone.” Mentre gli

altri bambini decidevano con quale gioco giocare, Conrad decideva come contribuire all’azienda

di famiglia, che comprendeva una drogheria, una pensione, e più avanti, una banca.

Un profilo di Hilton tracciato dal New York Times nel 1949, racconta del suo stile

manageriale basato sull’incoraggiamento dell’autonomia: “Conrad Hilton non si fa carico delle

minuzie delle operazioni. Quando consegna uno dei suoi hotel a un manager, dà a quella

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persona totale autonomia. Per questo, ciascuna unità è gestita in modo diverso e ha una sua

individualità”.

C’è una battuta che ricorre spesso in Hilton: “La ricompensa per un lavoro ben fatto, è

altro lavoro”. E non si tratta solo di altro lavoro, ma di lavoro più impegnativo. E quella sfida

viene offerta ai dipendenti in modo da favorirne la buona riuscita, che sia facendo pratica in

orari notturni dove non sono presenti occhi indiscreti, o quando l’hotel è ancora vuoto e i riflettori

spenti.

Come prevedibile, la ricerca dimostra che sentirsi sotto esame nello svolgere un

compito, svilisce la motivazione e l’appagamento, soprattutto se stiamo ancora imparando a

svolgerlo in modo appropriato. Un buon lavoro ci consente di uscire di scena a prepararci per la

prossima sfida. Una volta acquisite le dovute competenze, possiamo tornare in scena ed essere

guardati mentre facciamo bene il nostro nuovo lavoro, pronti per un’altra sfida. Essere guardati

mentre svolgiamo bene il nostro lavoro, al contrario, fa migliorare le nostre prestazioni.

Percepire che ci attende un complimenti può renderci avidi di ottenerlo, che si tratti di un

encomio o di una promozione che ci prepara a una nuova sfida.

Insapona, risciacqua, ripeti se necessario.

Dianna Vaughan Dianna Vaughan conosce il senso della parola

ospitalità. Come il fondatore Conrad Hilton, la Vaughan

inizia a conoscere questo settore da bambina, dando una

mano nell’azienda di famiglia. All’età di otto anni, la

Vaughan aiutava la zia nella registrazione degli ospiti

presso la sua locanda sulla strada, il Gladys’ di Huston.

Due aspetti del suo primo impiego pagato come

receptionist notturna contribuirono a plasmare la sua

carriera:

“Fui fortunata ad avere un direttore generale

donna. Lei fu un grande esempio per me, perché mi fece

capire che se avessi lavorato sodo avrei potuto diventare

general manager a mia volta”. Ciò che la Vaughan non

sapeva, era che nessun hotel della sua compagnia con più

di 300 stanze aveva un direttore generale donna. Ma l’aver

avuto una responsabile di sesso femminile era stato abbastanza per farle immaginare sé stessa

in quel ruolo, e a non vedere il suo genere un ostacolo.

Durante il turno notturno dalle 23:00 alle 07:00, uno dei primi direttori della Vaughan le

affidò un compito nuovo: “Devi chiamare 10 hotel per capire se sono pieni, e se lo sono, devi

chiedergli di mandarti la gente”. “E mi ricordo di essermi chiesta, pensando come una vera

dipendente, ‘Perché? Perché dovrei crearmi altro lavoro? Faccio i compiti durante il turno di

lavoro dalle 23:00 alle 07:00, perché dovrei chiamare la gente per farmi mandare altra gente

mentre sto cercando di fare i compiti?’

Tornai da lui e gli chiesi, ‘E io cosa ci guadagno?’”

All’inizio il suo capo ridendo disse: “Ci guadagni che non perdi il lavoro”. Poi lei propose

una formula: se avesse raggiunto i 10 ospiti per notte al posto dei soliti 5, avrebbe ricevuto una

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percentuale del 10% sugli extra. Sentirsi controllati, per esempio mentre chiamiamo 10 hotel,

induce un senso di fatica mentale e di esaurimento. Essere personalmente motivati da un

risultato (“voglio guadagnare di più”) ci permette di raccogliere le energie e di restare

concentrati, l’elemento motivazionale in grado di generale il flow.

I lavoratori degli altri turni iniziarono presto a richiedere gli stessi incentivi:

“Così ottenemmo il risultato, e ci guadagnammo parecchio. Nacque una specie di

competizione tra turnanti che oltre a un po’ di divertimento ci mise in tasca qualche soldo in più”,

racconta la Vaughan.

La straordinaria carriera della Vaughan la fece passare dai ruoli di receptionist notturna,

receptionist, F&B manager, vice direttore generale, direttore vendite, direttore generale,

revenue manager di zona, ed infine svariati ruoli da vicepresidente. In tempi più recenti, si è

occupata del lancio di due nuovi brand extra lusso per Hilton: Curio e Tapestry. Oggi, la

Vaughan è vicepresidente senior e direttore globale dei marchi All Suites di Hilton.

“Alla base dell’ospitalità (e del settore alberghiero), c’è l’immagine di una casa aperta

che accoglie con generosità i propri ospiti, facilitandone il viaggio”, dice la Vaughan. Il concetto

di viaggio non riguarda soltanto gli ospiti che soggiornano negli hotel. Anche i membri dello staff

hanno bisogno di supporto durante il viaggio, che è la loro carriera lavorativa. Questo spirito di

squadra è ciò che ha consentito alla Vaughan di instaurare contatti sociali a tutti i livelli

dell’organizzazione:

“Posso raggiungere qualsiasi membro del team anche solo con un’e-mail o una

telefonata”, dice, “E allo stesso tempo, se qualcuno ha bisogno di me, cercherò di rispondergli il

prima possibile. Credo che questo sia utile. È come mettere denaro nella banca relazionale”.

Queste relazioni sono di supporto nel momento in cui si sta affrontando una nuova sfida, e

possono davvero favorire il passaggio al livello di abilità successivo.

La Triade di Houston: un ingegnere, uno chef, e un direttore

generale davanti all’uragano Gli abitanti del Texas hanno una passione sconsiderata per le cose grandi. Gli piace

pensare al loro stato come al più grande, ignorando sistematicamente l’Alaska, che detiene

questo titolo dal 1959. La più grande città di questo grande stato è Houston. E il più grande

hotel di questa grande città è l’Hilton Americas-Houston. L’hotel di 1.200 stanze, parzialmente

realizzato a spese della città, è situato proprio accanto al centro congressi. Osservare come i

dipendenti di Hilton siano lasciati liberi di apportare innovazioni a un livello così alto, può aiutarci

a capire qual è il modo giusto per un’azienda di coinvolgere e motivare i propri dipendenti.

Non è troppo lontano dall’epicentro della storia di Hilton, quando Conrad Hilton comprò il

suo primo hotel, il Mobley di Cisco, in Texas nel 1919. Nel 1925 aprì il primo hotel costruito da

zero, a Dallas.

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Mo Khan

Mo Khan iniziò la sua carriera in Hilton 30 anni fa, come vice ingegnere capo. Oggi, è il

direttore delle operazioni immobiliari dell’Hilton Americas-Houston. Khan viene dall’India, dove

la sua famiglia viveva in modo molto modesto. Afferma che la sua esperienza personale sia alla

base di quella che è la sua ossessione professionale da oltre trent’anni: l’efficienza. Oggi, Khan

è specializzato nell’individuare le inefficienze e nell’individuare soluzioni per ridurre gli sprechi.

“Non sopporto gli sprechi”, dice. Nella posizione che ricopre attualmente, è responsabile

dell’intera infrastruttura: ristrutturazioni, costruzioni, aspetti tecnici come lo stato delle linee

elettriche, delle condutture idrauliche, dell’impianto di aria condizionata, della gestione dei

progetti e della supervisione dei budget.

In altre parole, la sua posizione attuale gli offre innumerevoli occasioni per mettere in

pratica la sua passione: identificare ed eliminare gli sprechi.

Dopo 11 anni a Houston in due diverse proprietà Hilton, si trasferì nel Pacifico nord-

occidentale e trascorse sette anni lavorando come direttore tecnico presso il Seattle Airport

DoubleTree by Hilton, prima di fare ritorno a Houston. Nel periodo di tempo trascorso nello

splendore del Pacifico nord-occidentale, la sua passione d’infanzia per la tutela ambientale

crebbe ulteriormente.

L’Hilton Americas-Houston si arricchì di tecnologie che favorivano il risparmio

energetico, anche laddove gli ospiti fanno scelte diverse, ma il progetto originale degli impianti

dell’hotel presentava un paio di soluzioni inefficienti. Khan, con grande zelo, cercò di risolverle

una per una. Ad esempio, in ogni camera dell’hotel venne messo un sensore per rilevare

l’assenza di persone e regolare il termostato evitando che l’aria condizionata resti accesa

quando in camera non c’è nessuno.

Una delle sue prime misure per eliminare gli sprechi riguardò le luci. Dall’arrivo di Khan,

nella proprietà di Houston sono state installate 7.000 lampadine LED in varie aree, compresa la

hall, il centro conferenze, e il bordo piscina. La città di Huston ha persino offerto a Hilton un

rimborso di oltre 66.000 USD. “Si sono praticamente pagate da sole!”, afferma con vanto. Ma

sono in corso progetti per convertire a LED l’illuminazione di tutte le camere durante la prossima

ristrutturazione.

Se il motto di Conrad “non risparmieremo sulle lenzuola” è ancora valido, ha comunque

un prezzo. L’acqua della lavanderia è una grande fonte di spreco, specialmente quando si

devono lavare asciugamani e lenzuola di 1.200 camere d’hotel. Khan scoprì un impianto di

riciclo dell’acqua capace di raccogliere e depurare l’80% dell’acqua di scarto dalle lavatrici.

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Rimozione dei pelucchi, filtrazione a carbone, e un trattamento antibatterico a raggi UV

producono un’acqua talmente pulita che l’installatore inscena una dimostrazione in cui beve un

bicchiere dell’acqua depurata che aveva poco prima lavato le lenzuola.

Quando l’acqua riciclata e pulita esce dall’impianto, pronta per un altro ciclo di lavaggio,

è di 40° più calda dell’acqua della città. Grazie al sistema di riciclo della lavanderia, milioni di litri

d’acqua devono essere riscaldati di soli 40° (anziché dei soliti 80°), prima di essere usati per il

lavaggio. Il risparmio energetico è enorme, e si aggiunge a quello di un’incredibile quantità

d’acqua, che può essere riutilizzata sei volte.

L’impianto venne installato nel settembre 2011, e si è ripagato da solo in pochi mesi.

Dopo due anni, ha già consentito all’hotel di risparmiare 750.000 USD. Ora anche l’Hilton New

Orleans utilizza questo sistema, e Khan riceve chiamate dai colleghi degli Hilton di San

Francisco, Florida e Dubai.

L’Hilton Americas-Houston dispone di moltissime tecnologie per il risparmio energetico,

e Khan sta lavorando per ridurre ogni minima possibilità di spreco rimasta. Oltre a questo, Khan

ha introdotto impianti per l’aria condizionata e il pompaggio dell’acqua che consentono all’hotel

di risparmiare migliaia di dollari, riducendo al contempo l’impatto sull’ambiente.

L’impianto di refrigerazione dell’hotel, che immette aria fresca nelle stanze e nelle sale

conferenza, si compone di tre grandi serbatoi e un quarto più piccolo. Purtroppo, non furono

progettati in modo da monitorare la capienza e regolare la fornitura. Quando arrivò Khan, due

dei tre grandi serbatoi vennero interamente dedicati alla fornitura di aria fredda alla hall e ai

piani dedicati alle conferenze, mentre il serbatoio piccolo raffreddava le stanze.

“Avevamo tre impianti di raffreddamento che funzionavano 24 ore su 24, 7 giorni su 7, a

prescindere dalla temperatura esterna”, racconta Khan, “una pessima progettazione”.

Con l’aiuto di consulenti esterni, esperti di raffreddamento e riscaldamento, Khan fu in

grado di collegare i quattro impianti di raffreddamento a un unico collettore, cosa che consentiva

a ogni impianto di produrre aria fredda per qualsiasi area dell’hotel. Adesso, durante l’inverno, è

possibile riscaldare l’intero hotel utilizzando solo l’impianto più piccolo, invece di tre.

E incredibilmente Khan scoprì che anche quando le temperature estive salgono oltre i

100°F, bastano un impianto grande e uno piccolo per raffreddare l’intero edificio. La spesa per

l’elettricità diminuì di 100.000 USD mensili.

“Ecco una cosa interessante”, dice, “Ci sono state tre aziende che si sono offerte di

prestarci consulenza gratuita”. Queste aziende si ripagano le loro verifiche proponendo ai clienti

soluzioni per il risparmio energetico e proponendole al direttore generale. Ma tutte le compagnie

restarono profondamente deluse dal sopralluogo all’Hilton Americas.

“Tutte e tre ci dissero, ‘Ci dispiace, il vostro edificio è già troppo economico, non

sappiamo come aiutarvi.’”

Khan è un ingegnere che ama l’ambiente e detesta gli sprechi, perciò per lui ogni

minima vittoria sullo spreco è importante. Era entusiasta del rimborso di 66.000 USD per l’uso

dei LED quanto lo fu per la riprogettazione dell’impianto di raffreddamento che consentì all’hotel

di risparmiare oltre 1 milione di dollari all’anno sulla corrente elettrica.

I progetti di Khan l’avevano portato dal lavorare in hotel piccoli e modesti all’occuparsi

della revisione generale degli impianti di uno dei più grandi hotel dell’ecosistema Hilton, anche

se la sua posizione ufficiale gli fornisce già molti problemi da risolvere. Ma Khan ama risolvere

problemi, e cerca attivamente nuove sfide, procurandosi lavoro extra pur di sentirsi in quello

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stato di coinvolgimento dove anche il tempo scompare, e che il ricercatore Csikszentmihalyi

chiama flow.

Nonostante la sua curiosità innata, tutto ciò che non rientra nel suo campo d’interesse

sfugge totalmente alla sua attenzione. Quando gli chiediamo quali brand Hilton hanno adottato

questa iniziativa ambientale, risponde: “Non so!”. Se gli chiediamo come si stanno muovendo i

competitor a riguardo, risponde: “Non mi interessa!”.

Non è un uomo interessato alle problematiche sociali, ma alle problematiche interne,

che premia sé stesso rendendo il proprio lavoro più interessante. La difficoltà di Hilton, e di altre

aziende dal forte spirito imprenditoriale, è che incoraggiando i propri dipendenti a coltivare le

proprie ambizioni individualistiche e imprenditoriali spesso si perde di vista la standardizzazione

di soluzioni consolidate chiaramente vincenti. Tutti gli hotel del paese dovrebbero avere un

impianto di raffreddamento come quello progettato da Mo Khan. Tutti. Ma le imprese dal forte

spirito imprenditoriale spesso sono riluttanti ad accettare la standardizzazione. Le tue soluzioni

sono tue e basta. Ma siccome non tutti i tecnici sono intelligenti e caparbi quanto Mo Khan,

standardizzare ciò che lui ha già imparato sarebbe certamente utile.

Come trovare un equilibrio tra la necessità di dare spazio alla creatività individuale e

quella di innalzare il livello generale? La risposta ci arriva da una categoria notoriamente fuori

dalle righe: gli chef. Chef che sono orgogliosi di creare senza seguire una ricetta, chef che si

ostinano a usare la tecnica del “un po’ di questo, un po’ di quello”, chef che si sentono insultati

all’idea di dover pesare qualcosa con precisione.

Lo Chef Ruffy Sulaiman

“Ruffy ha costruito un grande giro d’affari intorno alla banchettistica e alle conferenze”,

dice dello Chef Ruffy Sulaiman il direttore generale dell’Hilton Americas-Houston, Jacques

D’Rovencourt, “Abbiamo clienti molto affezionati che tornano da noi con grandi budget solo

grazie alla sua creatività e al suo cibo”. D’Rovencourt non è il solo a elogiare lo Chef Ruffy

Sulaiman.

Daniel Yergin, vincitore del premio Pulitzer con il suo The Prize: The Epic Quest for Oil,

Money, and Power, fondò la Cambridge Energy Research Associates (CERA) nel 1983. Oggi,

la conferenza annuale del CERA, un evento che dura cinque giorni, è una calamita per tutti gli

imprenditori del settore energetico (l’unica volta che l’Hilton Americas- Houston ha ospitato

contemporaneamente due presidenti, Clinton e Bush, fu durante il CERA).

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Quando, durante la conferenza, si parlò di “innovazioni destabilizzanti”, lo Chef Ruffy

ebbe un’idea mentre ascoltava gli organizzatori discutere dei sorprendenti sviluppi del settore:

perché non pensare a una cena che proponga agli ospiti esperienze destabilizzanti? Si inventò

una cena per la conferenza, organizzata in cinque postazioni, ciascuna con la sua piccola

sorpresa destabilizzante.

A una postazione venne servito cibo himalayano, ma per gustarlo, gli ospiti dovettero

adattarsi all’uso himalayano di sedersi su dei tappeti (importati) e mangiare con le mani.

Dal cibo arrivarono altre sorprese. Una postazione serviva “midollo osseo”, che usciva

arrostito dal forno con ogni osso dorato di una perfetta cottura media. Prima di riuscire ad

addentare il midollo, agli ospiti veniva data la notizia scioccante: si trattava in realtà di mousse

di aragosta.

Un’altra postazione serviva qualcosa che aveva l’aspetto di normali hamburger. Invitanti,

certo, ma dal contenuto fortemente “destabilizzante”. La sorpresa stava nei dettagli: quel manzo

dall’aspetto delizioso era in realtà composto da proteine vegetali.

Il tavolo dei dessert appariva come un laboratorio, con vasi in vetro dal contenuto

ribollente. Con una stampante alimentare vennero stampati dei medaglioni di cioccolato.

“Li abbiamo sconvolti”, sorride Sulaiman.

Questo tipo di creatività non è casuale. Sulaiman aveva scelto Hilton perché parlava al

suo lato imprenditoriale, e si è sempre impegnato duramente, in mezzo a tanti colleghi, per

assicurarsi che i suoi menù fossero ogni volta ponderati su misura del cliente.

Chef Ruffy, di origini nigeriane, aveva iniziato la sua carriera culinaria lavorando per 12

anni nell’ancora esistente catena di hotel Adam’s Mark. Poi, un hotel di Orlando gli aveva offerto

il suo primo lavoro da executive chef, che svolse dal 1992 al 1997. Si era spostato poi in Texas

dove aveva lavorato come executive chef di resort e country club, ma si era presto reso conto

che non era l’ambiente adatto a lui.

Sulaiman voleva riuscire a lavorare in Hilton. Un giorno vide un annuncio per un posto

da executive chef all’Hilton Americas-Houston, uno splendido hotel ancora in costruzione. Non

ottenne il lavoro da executive chef ma gli fu offerto e accettò il posto di responsabile alla

banchettistica, rifiutando un’offerta che gli avrebbe dato l’occasione di lavorare come executive

chef in un altro hotel di Norfolk, Virginia. Sapendo che molti dipendenti Hilton lavorano lì da

anni, Sulaiman pensò che avrebbe avuto tempo per crescere e fare carriera. Scelse Hilton

perché voleva lavorare in un’azienda dove poter “trovare casa e restarci”.

Lo Chef Sulaiman, meglio conosciuto come Ruffy, entrò in Hilton nel 2003 giocando un

ruolo chiave come membro del team di apertura dell’Hilton Americas. Due anni dopo aver

firmato il contratto come responsabile della banchettistica, fu promosso al ruolo di executive

sous-chef. Otto anni dopo, venne promosso executive chef. Era il lavoro dei suoi sogni.

Non tutti i cuochi della catena avevano le capacità e la creatività della brigata di Chef

Ruffy. La qualità variava molto da hotel a hotel. “Il livello dei cibi e delle bevande che venivano

serviti non era degno di una delle più grandi compagnie alberghiere del mondo”, racconta Ruffy.

Dopo aver constatato evidenti incongruenze nei piatti, si diede inizio a una

ristrutturazione che investì tutto il settore food and beverage della compagnia e che ne innalzò

gli standard globali.

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Il primo passo nella rivoluzione globale avvenne con la nomina a head chef di Marc

Ehrler, che aveva maturato la sua esperienza culinaria in hotel di lusso di tutto il mondo. Se i

clienti non si lamentavano del cibo che veniva servito in Hilton, non era comunque niente di

sbalorditivo. Ed Ehrler voleva dei clienti sbalorditi.

Ehrler costituì un gruppo, l’Hilton Corporate Culinary Council, formato da figure chiave, i

cosiddetti “C1”, con l’obiettivo di innalzare gli standard della compagnia. A ciascuna delle 11

regioni venne chiesto di selezionare uno chef, in base alla qualità e alla voglia di imparare, che

rappresentasse la regione in commissione.

Sulaiman fu scelto come fuoriclasse della sua regione. Il gruppo di virtuosi gastronomici

si incontrò per discutere di menù e piatti ideali, confrontarsi sulle particolarità regionali, proporre

idee per nuovi menù in brainstorming, e cucinare insieme (gli autori fanno sapere che sono

disponibili a partecipare alle prossime riunioni dei C1).

Una volta messo a punto, il nuovo menù venne inviato a tutti gli Hilton locali. Anziché far

lavorare gli chef in orario notturno per dargli il tempo di imparare, questa volta la Commissione

C1 aveva prodotto materiali di supporto, ad esempio dei video, per aiutare i singoli chef con le

tecniche culinarie utilizzate nella creazione dei nuovi piatti. Gli 11 chef della commissione

vennero incaricati di insegnare e valutare le competenze delle cucine della loro regione.

Chef Ruffy viaggiò in 18 hotel in tutto il Texas, la Louisiana e l’Oklahoma per formare

direttamente gli altri chef sul nuovo menù. Il percorso di formazione durò alcuni mesi, durante i

quali si svolsero workshop negli hotel e video-lezioni.

È facile immaginarsi la struttura della Commissione C1 trasformata in un noioso

apparato burocratico: “Possiamo aggiungere una patata dolce alla torta di pecan del menù del

Ringraziamento?”, “Prendi uno di quei moduli rosa vicino all’orologio e inoltra la domanda al C1.

Dopo averlo fatto firmare e consegnato, dovresti riceve una risposta entro sei settimane.”

Invece, non appena i membri del C1 furono sicuri che i loro hotel fossero pronti, si fecero

da parte. E poi? Un’esplosione di creatività.

Indissero un concorso in tutti gli hotel per il miglior piatto.

Ed è grazie a questo, racconta lo Chef Ruffy, “che ci rendemmo conto di quanti talenti ci

fossero all’interno della compagnia. Alcuni dei piatti che vinsero, e che alla fine si decise di

utilizzare, furono realizzati dai sous chef”. È proprio così, fu premiato il talento a prescindere dal

ruolo o dalla posizione. Lasciarono libero ciascun membro del team di stabilire il proprio limite, e

di rispondere alla sfida.

“Adesso si respira un certo orgoglio in tutti gli hotel. I menù principali gli appartengono.

Adesso, non sono più percepiti come qualcosa di imposto dall’esterno, ma come qualcosa che

anche loro hanno contribuito a creare. Davvero una gran cosa.”

Le cucine sono per natura ambienti creativi che attirano personaggi eccentrici, ma il

lavoro delle posizioni junior implica compiti ripetitivi e noiosi, quasi da catena di montaggio. Molti

parteciparono alla sfida per provare a fare ciò che li aveva attirati nel lavoro della cucina.

“Parteciparono anche alcuni cuochi”, racconta Sulaiman, “la possibilità di provarci, e di

essere il più creativi possibile, venne data a tutti”.

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Il direttore generale Jacques D’Rovencourt

Dopo essersi laureato all’Università di Nevada-Las Vegas con una laurea in

amministrazione alberghiera, nel 1989 Jacques D’Rovencourt portò a termine l’Hilton

Development Program. Dopo il suo primo impiego come assistente direttore di ristorante

all’Hilton Irvine in California, lavorò in vari hotel di Minneapolis, Chicago, Long Beach e

Baltimora. Iniziò a lavorare all’Hilton Americas-Houston come direttore dell’hotel nella primavera

del 2011, e fu nominato direttore generale dell’hotel nell’aprile 2016.

Il 25 agosto del 2017 arrivò l’uragano Harvey. Il 26 agosto fu declassato al grado di

tempesta tropicale, e il vento sopra i 160 chilometri orari scese a 65 km/h. Ma il 27 agosto

Harvey si fermò sopra Huston, inondando la città con la pioggia di un anno in meno di una

settimana. Le precipitazioni dell’uragano Harvey raggiunsero i 124 milioni di milioni di litri, con

una cascata d’acqua superiore a qualsiasi altra tempesta nella storia degli Stati Uniti. Per

costruire un cubo in grado di contenere tutta l’acqua scaricata da Harvey, ogni lato dovrebbe

misurare cinque chilometri. L’uragano causò danni per oltre 125 miliardi di dollari.

Per quanto si possa essere preparati a un tale disastro naturale, Hilton lo era. Non

appena la tempesta iniziò a lampeggiare sui radar della città, il team di direzione tenne riunioni

giornaliere per assicurarsi che ci fossero scorte a sufficienza e tennero le linee di

comunicazione aperte con tutti i membri del team. C’erano linee guida e un “manuale”, ma il

team sapeva che era fondamentale restare fluidi e collaborativi.

Molte delle informazioni contenute nel manuale furono utili alla direzione, che le utilizzò

per organizzare la risposta al disastro naturale in arrivo: ordinare le scorte, riempire le vasche

da bagno, e assicurarsi ampie scorte d’acqua. Ma la portata di Harvey presto superò ciò che

qualsiasi manuale potesse prevedere, lasciando molte delle decisioni al giudizio dei membri del

team.

D’Rovencourt e il suo comitato esecutivo temevano che il personale disposto a lavorare

durante l’emergenza non sarebbe stato sufficiente, in quanto non avrebbero potuto tornare a

casa dalle loro famiglie per giorni in conseguenza degli effetti dell’uragano.

Alcuni membri del team cominciarono a chiedere se potevano restare e portare le loro

famiglie in hotel. D’Rovencourt rispose che non aveva nulla in contrario, ma che avrebbe dovuto

chiedere conferma al comitato esecutivo (i responsabili di tutti i reparti, incluso Mo Khan per il

settore tecnico e lo Chef Ruffy).

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Era raro ma non insolito che un membro del team si fermasse in hotel. Se un dipendente

faceva doppio turno, e il responsabile era preoccupato che si addormentasse durante il

percorso verso casa, o se era in corso una tempesta di ghiaccio, era normale offrirgli una

stanza. Ma si trattava pur sempre di un evento raro e su piccola scala.

Per questo, consentire ai membri delle famiglie di restare a dormire comportava un

cambio di politica senza precedenti per Houston. Per quanto sapessero, nessun altro hotel della

zona l’aveva fatto. Ma quella che gli si presentava era una sfida senza precedenti e certamente,

acconsentendo a ospitare le famiglie, il numero di dipendenti disposti a fermarsi sarebbe stato

più alto.

Al momento di affrontare la discussione, si giunse a un accordo in tempi brevissimi per

una deviazione così importante dalle procedure standard. “Fummo tutti subito d’accordo che era

la cosa giusta da fare”, dice Jacques.

Gli chiediamo: “Nessun dibattito? Nessun disaccordo?”, “Nessuno”, risponde.

Il comitato esecutivo andò oltre le richieste e consentì al personale di portare anche gli

animali domestici. Cani, gatti, e uccellini furono tutti accolti con i loro familiari. “Nessuno

starebbe qui quattro giorni preoccupato per il proprio cane”, afferma uno dei membri del

comitato esecutivo. E se uno degli animali non ben educati avesse bagnato i costosi tappeti?

“Abbiamo ritenuto che era il caso di rimandare la soluzione del problema”, risponde, “a quando

saremmo stati certi che il personale e le loro famiglie fossero sopravvissuti”.

D’Rovencourt diede il permesso di restare in hotel ai dipendenti ancora prima di

realizzare che doveva attendere il permesso del vicepresidente di zona.

Uno chef soggiornò in una delle camere con la moglie, che lavorava come chef in un

altro hotel. Anche il suo hotel le aveva offerto di restare durante l’uragano, ma non avrebbe

potuto portare suo marito. Ma all’Hilton, tutti erano benvenuti. Delle 600 persone dello staff, una

su tre si offrì volontaria di restare in hotel. I membri della famiglia risposerò con generosità. Le

mogli e i bambini servivano il cibo in mensa. Gli adulti e i ragazzi davano una mano in

lavanderia o con la Croce Rossa al centro conferenze dall’altra parte della strada.

La cucina diede da mangiare a tutti. Durante l’uragano Harvey, il personale dello

Houston Police Department, lo staff e i loro familiari mangiarono tutti gratuitamente nella mensa

dell’hotel. A ogni bocca che si aggiungeva, veniva apparecchiato un nuovo tavolo,

raggiungendo le 500 persone per pasto.

“La prima sera si passò da 500 persone a 1.000. E prima che me ne rendessi conto,

eravamo a 3.000”, racconta lo Chef Ruffy, “Ho lavorato per quasi due settimane. Quindi sì,

abbiamo fatto quello che dovevamo fare. Ma ripensandoci, è stato giusto essere lì a prendersi

cura delle persone, dei propri colleghi”.

L’hotel diventò la postazione di comando per due divisioni dello Houston Police

Department i cui uffici si erano allagati. L’hotel diede da mangiare anche a loro. “Tutti i giorni gli

venivano offerti gratuitamente pranzo, cena e colazione. Ci assicuravamo che ogni giorno tutte

le persone in hotel ricevessero un pasto caldo”, racconta Lula Broussard, responsabile della

mensa dell’hotel. In tutto, la Broussard e il suo team, durante l’uragano, servirono a tutte le

persone che lavoravano in hotel oltre 25.000 pasti.

Innovazione e spirito di squadra ammortizzarono il contraccolpo causato dall’arrivo di

centinaia di nuovi ospiti. Venne apposta una nuova segnaletica per guidare l’elevato numero di

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ospiti. Quando l’hotel venne adibito a sede temporanea per le postazioni di comando delle forze

dell’ordine, lo staff portò altre TV nelle aree comuni per consentire loro di restare meglio

aggiornati sugli avvenimenti. La polizia era lieta di poter utilizzare il parcheggio recintato,

soluzione che però aumentò il traffico. Ne risultò un compromesso: lasceremo i cancelli aperti

se lascerete una volante a vigilare sui veicoli parcheggiati. Gli altri hotel della zona, intanto,

avevano chiuso le loro porte a polizia, pompieri e personale di soccorso che avevano bisogno di

utilizzare il bagno.

I membri delle organizzazioni umanitarie, tra cui la Croce Rossa, stavano al George R.

Brown Convention Center dall’altro lato della strada, collegati da un ponte sospeso. Il centro

congressi venne predisposto per accogliere 1.000 residenti sfollati, ma dopo qualche giorno,

10.000 sfollati texani trasformarono il centro congressi in un mare di brandine. Hilton diede una

mano cucinando per gli sfollati, offrendo asciugamani e persino lenzuola pulite. La reception

riceveva continue chiamate di residenti in cerca di alloggio, dai vari capi di dipartimento della

città, dal Dipartimento di Sicurezza, dal Department of Health and Human Services and Veteran

Affairs, e dai giornalisti della CNN che stavano facendo la cronaca dell’uragano.

Le persone restarono fino a quando non furono certe di poter tornare a casa loro: cinque

giorni, per qualcuno. D’Rovencourt restò nove giorni. Alcune persone, le cui case erano state

danneggiate, restarono in hotel per mesi. Harvey consentì all’hotel di predisporre un piano per

eventuali disastri futuri. Da quel momento esiste persino un servizio di messaggistica per

consentire comunicazioni rapide tra direzione e staff. La verifica delle forniture,

l’immagazzinamento delle scorte, la creazione di copie di sicurezza e l’addestramento per la

gestione delle emergenze sono da allora pratiche abituali, estese a ogni periodo dell’anno.

Sono pronti per qualsiasi evenienza.

Una Riflessione su Norme e Procedure Standardizzate Se foste voi a detenere lo scettro del potere della gestione energetica di Hilton, forse

sareste tentati di installare degli impianti in grado di minimizzare il consumo energetico, un

metodo infallibile per risparmiare una cifra importante. Ma forzare l’applicazione di determinate

procedure va contro la cultura aziendale di Hilton, che mira a garantire l’autonomia del

personale sul modo in cui conseguire gli obiettivi. Se la gestione aziendale somigliasse

realmente al selvaggio west, non ci sarebbe più nessun Hilton a discuterne. Ma è il come a

differenziare l’approccio di Hilton.

In tutti i reparti si presentano occasioni per favorire il coinvolgimento e lo spirito

imprenditoriale del personale, dal reparto tecnico, a quello della ristorazione, o del crisis

management. Nella centrale operativa, un sistema denominato LightStay facilita l’equilibrio tra

autonomia del personale e raggiungimento dell’obiettivo aziendale di Hilton di ridurre gli sprechi,

così come il consumo di acqua e corrente. LightStay monitora l’utilizzo complessivo dell’energia

e gli interventi fatti nei confronti della sostenibilità, ma il modo in cui ciascun hotel raggiunge gli

obiettivi è a discrezione del Mo Khan di turno. Assegnare al personale la responsabilità di

scegliere le strategie di risparmio energetico facilita la condizione di flow e questo, di contro, ha

fatto risparmiare all’azienda oltre un miliardo di dollari negli ultimi dieci anni.

La storia del C1 e della competizione tra chef suggerisce un altro stratagemma per

massimizzare i benefici di regolamentazione e autonomia: un periodo di formazione una tantum

per garantire competenze standardizzate, seguito da un periodo di “supervisione” esterna che

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favorisca il fiorire della creatività. Offrire ai dipendenti delle pause tra questi due periodi, di

innalzamento delle richieste e definizione degli obiettivi, diminuisce la sensazione di

esaurimento. Se innalzare il livello delle richieste è una buona strategia a breve termine, la

ricerca dimostra che nel tempo accresce la fatica e il calo di energie. E può persino ritorcersi

contro, incoraggiando comportamenti non etici nel momento in cui i dipendenti iniziano a

credere che non riusciranno a raggiungere gli obiettivi con mezzi leciti e a cercare di truccare le

carte.

Anche se i racconti dell’Hilton Americas-Houston, con le sue 1.200 camere, sono

racconti di vasta portata (texana), anche gli esempi di innovazione da parte di singoli individui

non sono rari. Se i waffle di Kansas City e i bar 007 del London’s Swinging Sixties vanno alla

grande, è grazie a questo spirito di imprenditorialità.

I dipendenti Hilton beneficiano di una specie di promessa: i colleghi di sfideranno a

estendere le tue competenze. Se hai imparato a cavartela con l’hotel del paese, è ora di

passare al centro città.

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L’Effetto Hilton sulle comunità: impegno rilevanza, legami

sociali, e sviluppo economico

Sul finire degli anni ‘50 il docente di Harvard, Thomas Schelling, si mise a interrogare le

persone con un curioso gioco da lui inventato:

Siete stati messi in coppia con un’altra persona di cui non conoscete l’identità. Se, ad un

orario qualsiasi nell’arco delle prossime 24 ore, entrambi vi presenterete nello stesso

luogo di New York alla stessa ora, vincerete 100 USD ciascuno (entrambi indosserete

dei grandi bottoni rossi per farvi riconoscere).

Dove andate, e a che ora?

Normalmente ci metteremmo d’accordo attraverso la comunicazione, condividendo

informazioni. Dopotutto è questo il senso della comunicazione. Ma qui, Schelling ha eliminato

ogni possibilità di comunicare con altri. E non è nemmeno possibile imparare dai fallimenti e dai

successi precedenti. Non c’è una seconda possibilità.

Il motivo per cui questo dilemma è un dilemma, è che ci sono infinite soluzioni possibili,

come il magazzino di FAO Schwarz alle nove di sera, l’angolo sud-est tra Lexington e la

48esima strada al tramonto, o l’ingresso di Rikers Island alle quattro del mattino.

Nonostante le infinite possibilità, l’esperimento di Schelling rivelò che le persone

sceglievano un numero considerevolmente piccolo di risposte. Dovendo immaginare cosa

avrebbe risposto l’altra persona, gravitavano attorno a pochi luoghi iconici, le cose più evidenti.

Tutti scelsero di incontrarsi a mezzogiorno, l’orario più convenzionale. I nativi

newyorkesi tendenzialmente si diedero appuntamento al banco informazioni della Grand

Central Station. Le persone che non vivevano a New York gravitavano verso il luogo che per

primo saltava alla mente di un turista: la terrazza panoramica dell’Empire State Building.

Schelling definì queste soluzioni, i punti più salienti di una zona, come “focali”. Certi

luoghi, certe persone, certe esperienze hanno in comune abbastanza da consentire alle

persone di sapere, in modo quasi telepatico e senza bisogno di comunicare, ciò che qualcun

altro potrebbe trovare degno di nota o rilevante.

Provate a immaginare di giocare a questo gioco a Parigi: quando vi incontrate? A

mezzogiorno. Dove vi incontrate? Alla Tour Eiffel. Ci sono molte terrazze, e potreste scegliere

quella sbagliata, ma almeno avrete ridotto le infinite possibilità a un paio.

Fate questo gioco a Londra? Vi date appuntamento al Big Ben.

Cairo, Egitto? Prendete un cammello e percorrete il sentiero nel deserto che conduce

alla Piramide di Cheope. Chissà, forse incontrerete il vostro compagno di gioco lungo il tragitto,

con addosso i suoi bottoni rossi.

Istanbul? Ci sono buone probabilità che vi ritroviate all’ingresso della Moschea Blu. Ma

c’è una possibilità neanche troppo piccola che vi incontriate all’ingresso dell’Hilton Istanbul.

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Istanbul: un luogo rilevante

Come si diventa un punto focale è un dilemma quasi quanto quello dell’uovo e la gallina:

in base a che cosa le persone scelgono i loro punti focali? In base alla loro rilevanza. E perché

quei luoghi sono rilevanti? Perché la gente ci va.

A New York ci sono moltissimi edifici più antichi della Grand Central, perciò il tempo non

è sufficiente a fare di un luogo un punto di riferimento. La Grand Central, per esempio, è uno

snodo ferroviario che permette a milioni di newyorkesi di spostarsi ogni giorno. Inoltre è un

luogo di interesse architettonico, ed entrambe le caratteristiche contribuiscono alla sua

reputazione di “luogo da visitare”.

Ogni icona, prima di diventarlo, era sconosciuta. Qualcosa deve aver innescato il

meccanismo. Conrad Hilton era pronto ad innescarlo quando l’Hilton Istanbul aprì. Se nel

periodo della ricostruzione del secondo dopoguerra, la maggior parte delle aziende spendeva

con prudenza e investiva nella propria terra, Hilton dava inizio alle danze. E pare che il mondo

avesse bisogno proprio di questo.

Il 9 giugno del 1955, due aerei passeggeri della Pan American, noleggiati da Hilton e

denominati per l’occasione The Flying Carpet e The Magic Carpet, atterrarono in Turchia con il

loro prezioso carico di ospiti per l’inaugurazione. L’elenco di 106 personaggi illustri

comprendeva Carol Channing, la medaglia d’oro olimpica del pattinaggio di figura e poi attrice

Sonja Henie, e William R. Hearst Jr., che vennero accolti all’aeroporto da migliaia di turchi. I

facchini impiegarono 45 minuti per portare tutti i loro 1.200 bagagli in camera. Dopo una

memorabile inaugurazione durata cinque giorni, i divi di Hollywood tornarono a casa, ma

lasciarono all’Hilton Istanbul una certa aura di importanza. La loro presenza aveva fatto

dell’Istanbul Hilton il luogo da visitare, consolidandone l’immagine.

Nel suo discorso ai presenti, Hilton previde che l’Hilton Istanbul sarebbe stata solo la

prima di molte altre location internazionali, e che ciascuna sarebbe divenuta un punto di ritrovo

per le persone di ogni estrazione sociale. (Fornì anche a Thomas Schelling il lessico che gli

permise di vincere il Premio Nobel):

Tra non molto, un viaggiatore in giro per il mondo troverà un hotel Hilton ad aspettarlo in

quasi tutte le città che si troverà a visitare… Questi hotel esprimono la nostra idea per

cui qualsiasi hotel, in qualsiasi luogo, dovrebbe essere più di un semplice centro

nevralgico. Da un punto di vista internazionale, un hotel può diventare il punto focale per

lo scambio di conoscenze tra milioni di persone, cittadini e visitatori che si sono dati

appuntamento lì per conoscersi meglio, intrattenere rapporti commerciali, e vivere

insieme in pace.

Conrad Hilton, 1955, Istanbul Hotel Scrapbook (Discorso

all’inaugurazione dell’Hilton Istanbul Bosphorus)

La sala da ballo dell’Hilton Istanbul era la più grande sala per le feste della città, e

divenne un luogo dove la gente del posto festeggiava matrimoni e occasioni speciali (con il

comfort dell’aria condizionata, come è ovvio aspettarsi da Hilton). Le sue caffetterie divennero

luoghi di incontro dove sorseggiare caffè importanti. In un punto focale ogni cosa, persino una

tazza di caffè, ha un significato speciale.

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“In Turchia, bere una tazza di caffè ha un significato molto speciale”, scrive Conrad

Hilton nel suo Be My Guest, “La prima volta che mi venne offerta una tazzina della forte miscela

locale mi fu spiegato che, ‘Bere una tazza di caffè insieme’, diceva il mio ospite, ‘implica che

saremo amici per i prossimi trent’anni.’”

Anche se l’effetto novità passò, il senso di prestigio si conservò immutato negli anni a

seguire. Col tempo, l’Hilton Istanbul divenne luogo d’incontro per l’élite turca, che qui

organizzava anche i suoi matrimoni. Nell’estate del 1972, si raggiunse il record di 21 coppie

sposate all’Hilton Istanbul. Proprio così, 21 matrimoni in una sola settimana.

Aydın Doğan ricorda la sua visita all’hotel da studente: “In quegli anni, il solo bere una

tazza di tè all’Hilton era considerato un privilegio”. Dopo essersi fidanzato, aveva promesso alla

sua promessa sposa che si sarebbero sposati lì, ma per questioni familiari dovettero dirottare su

Gumuşhane.

Il destino è stato generoso con Doğan. Fondò la Doğan Holding, uno dei più grandi

gruppi turchi che possiede vaste risorse nazionali nei settori energetico, pubblicitario, e dei

media (compreso Milliyet), e diventò miliardario quando diventò pubblica.

Nel 2005, la branca turca di Doğan Group acquistò l’hotel per 255 milioni di dollari.

Immaginate vostro marito che torna a casa e vi dice: “Ti ricordi che avremmo dovuto

sposarci all’Hilton? Bè, ho trovato un modo per farmi perdonare di non esserci riuscito

all’epoca”.

Il successo si nutre di sé stesso. Una volta che un luogo diventa focale, probabilmente lo

rimarrà. Questo giustifica tutti gli sforzi che si fanno per ottenere il riconoscimento di un punto

focale da parte della comunità. Hilton mise insieme un cast stellare di ospiti per l’inaugurazione

e pensò a una serie di eventi che potrebbero sembrare esagerati, ma non se leggiamo tutto

questo come un tentativo per istituire un punto focale.

Sarebbe stato lo stesso senza attrici e bagagli? Per un direttore generale di hotel o

ristorante varrebbe la pena rifletterci. Che genere di eventi ricerchiamo attivamente? Per quali di

essi diamo il massimo in termini di preparativi? Gli eventi giusti sono quelli che vedono diverse

tipologie di persone appartenenti a una comunità partecipare a un evento che li coinvolge

emotivamente. Una raccolta di giocattoli per le vacanze di Natale, con preparazione dei

pacchetti? Una cena di chiusura di un campionato di calcio dilettantistico? Un contest di waffle

al festival d’autunno della città, sponsorizzato da Hampton by Hilton.

Schelling era affascinato dal modo in cui le persone collaborano senza comunicare, ma

nel mondo reale, la lettera che riceviamo contenente l’invito a collaborare, contiene una

richiesta ben più grande. Anziché contenere un semplice “incontriamoci domani”, la lettera dice:

“Incontriamoci qui. Aiutami ad allestire un negozio. Saremo buoni vicini, costituiamo un centro

così i visitatori verranno. Se lavoreremo insieme, ne ricaveremo ottimi risultati”.

Ma come essere certi che le persone faranno realmente ciò che hanno promesso? È

facile mantenere la parola quando le cose vanno bene, lo è meno quando sorgono i primi

problemi. Nel mondo reale, ci sono dei segnali che ci aiutano a decidere se è il caso di

collaborare: abbiamo informazioni riguardo alla reputazione degli altri.

Se siamo circondati da persone collaborative, la strategia migliore è quella di formare

una squadra e iniziare a giocare insieme. Ma se siamo circondati da persone che mettono al

primo posto il loro interesse, dobbiamo proteggerci. Schelling avrebbe considerato il compito di

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rivitalizzare un’area marginale come un dilemma sulla collaborazione, dove le parole non hanno

molto valore e sono poco affidabili. Vogliamo credere alle promesse: incontriamoci qui,

allestiamo un negozio, siamo buoni vicini, costituiamo un centro così i visitatori verranno. Se

lavoreremo insieme, ne ricaveremo ottimi risultati. Ma come essere certi che le persone faranno

realmente ciò che hanno promesso?

Comunicare non è sufficiente. Il vostro compratore vi dice: “L’assegno è nella busta”. I

vostri colleghi: “Parla con il capo e saremo al tuo fianco a sostenerti!”. Al vostro appuntamento,

“Con il mio ex è completamente finita”.

Ma come funziona in pratica? Cercheremo di capirlo ripercorrendo una delle più grandi

trasformazioni della storia, un esempio di come si sviluppino le grandi città e che vede Hilton

protagonista.

Buenos Aires Mantenere la parola in tempi difficili è proprio ciò che ha fatto Hilton costruendo uno dei

suoi hotel in uno dei quartieri più fatiscenti di Buenos Aires, divenuto poi uno dei più amati di

sempre.

Buenos Aires, capitale dell’Argentina, sorge sulle sponde del Río de la Plata, a soli 240

chilometri dall’Oceano Atlantico. Le navi mercantili internazionali un tempo non vi si potevano

avvicinare via fiume, a causa delle acque troppo basse che rendevano impossibile raggiungere

la riva. Nel corso degli anni, la città rese possibile l’attracco grazie alla costruzione, nel 1802, di

una banchina di 35 metri, estesa a 200 metri nel 1855. Le navi venivano ormeggiate anche

all’ancora, mentre carico e passeggeri venivano caricati su delle chiatte. Infine, venne costruito

Puerto Madero, una stretta ma profonda via d’acqua con dei moli dove le navi cargo potevano

attraccare in parallelo. Una serie di magazzini in mattoni costellò la periferia della città, seguiti

dalla stretta via d’acqua. Sulla riva del fiume appena costruita, Puerto Madero, c’era il porto.

Dietro, chilometri e chilometri di campi.

Quando i moli aprirono nel 1897, furono salutati come una pietra miliare dell’ingegneria.

Ma dopo un decennio, le navi cargo internazionali erano diventate così grandi da non entrare

più nelle banchine, rendendole inutilizzabili. Tutta la zona di Puerto Madero non serviva più.

Con gli anni, tutte le attività commerciali si trasferirono e la gente del posto lentamente smise di

frequentare il litorale nei pressi dei campi.

La zona si trovava a meno di un chilometro dal Palazzo presidenziale, ma gli anni di

declino e abbandono gettarono l’intera area nel degrado: spazzatura nell’acqua, magazzini vuoti

e pieni di graffiti. Nel corso degli anni, decine di tentativi di rivitalizzare la zona fallirono.

Finalmente, verso la fine del 1989, il Governo federale argentino e l’Amministrazione comunale

della città di Buenos Aires siglarono un accordo per la rinascita del quartiere.

L’immobiliarista locale Alberto Gonzales acquistò alcuni lotti, degli appezzamenti di terra

ricoperti d’erba sul lungofiume di Puerto Madero, tra i moli numero tre e quattro. Gonzalez era

un uomo che conosceva l’importanza dei punti focali. Un tempo produttore e distributore di

programmi per la TV, aveva immaginato di costruire qui uno stadio sportivo, o un centro

convegni, ma dopo aver fatto i dovuti rilevamenti aveva optato per un hotel con una grande sala

riunioni.

“Guardavano ai brand che non erano ancora presenti a Buenos Aires, brand di hotel.

Hilton fu l’interlocutore chiave”, afferma Tom Potter, vicepresidente di Hilton per i Caraibi e

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l’America Latina. Dopo aver iniziato la conversazione con Hilton nel 1998, Gonzalez assunse

l’iconico architetto argentino Mario Roberto Álvarez. Il contributo di Álvarez allo skyline della

zona comprende anche l’edificio dell’IBM (sede latinoamericana dell’azienda), e il Teatro

General San Martín.

Gonzalez, Álvarez e Hilton, un potente terzetto nel mondo degli affari immobiliari

argentini. Cosa sarebbe potuto andare storto?

Tutto.

Sul finire del 1998, una scossa provocò il dissesto della turbolenta economia argentina.

Le cose cominciarono ad andare male.

Dopo aver promesso che l’hotel avrebbe aperto a gennaio del 2000, Gonzalez fece

bancarotta nel 1999. L’economia peggiorava. Aveva anche promesso che avrebbe dato una

festa indimenticabile per salutare il nuovo millennio il 31 dicembre 1999, ed aveva immaginato

600 ospiti a riempire l’opulenta hall dell’hotel e il suo piano terra.

Ma l’economia non era dalla sua parte.

“In quel momento diventò tutto abbastanza

complicato”, racconta Potter. Una delle principali

imprese coinvolte nel progetto, una ditta edile

tedesca, fece bancarotta prima di finire il serbatoio

dell’acqua: “Questo ritardò il completamento della

commessa e di tutta la proprietà”.

Appaltatori e società di servizi dovevano

ancora realizzare delle infrastrutture nell’area a

prato: scarichi, fognature, collegamenti elettrici, e

linee telefoniche erano nel limbo: “Tutto venne

completato entro un anno dalla costruzione, il 1999.

Appena prima dell’apertura effettiva dell’hotel”.

Persino la strada di fronte all’Hilton venne

asfaltata solo tre mesi prima dell’apertura. Senza la

determinazione di Gonzalez, Álvarez e Hilton che

operarono all’unisono, l’intera operazione avrebbe

potuto fallire facilmente. Ma Gonzalez ebbe la sua

festa.

All’apertura, nel marzo del 2000, l’Hilton

Buenos Aires era il primo edificio commerciale di

Puerto Madero.

“All’inizio, gli affari non andarono bene a

causa della situazione economica globale dell’Argentina di quel periodo”, racconta Potter. A

luglio 2001 il tasso di disoccupazione era al 14,7%. Proprio quando sembrava giunta la tregua,

le cose cominciarono ad andare peggio.

Quel mese, Standard and Poor’s declassò il rating argentino a B–. La disoccupazione

aumentò.

Nel novembre di quell’anno, la paura che il peso presto non avrebbe avuto più alcun

valore causò l’assalto agli sportelli dei bancomat, erodendo ulteriormente la stabilità economica.

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A metà dicembre 2001, il tasso di disoccupazione nel Paese toccò il 20%. Le proteste

degli argentini nelle strade giunsero a meno di 400 metri dal Palazzo presidenziale.

Se escludiamo piccoli periodi di stabilizzazione, o quantomeno di non peggioramento, la

crisi iniziata come una scossa finanziaria si trasformò in una depressione economica destinata

a durare quattro anni. I tagli ai salari e i limiti imposti ai prelievi bancari allo sportello

complicavano agli argentini la rimessa in circolo del denaro nell’economia.

Probabilmente un boutique hotel o un brand con tasche meno profonde non avrebbe

potuto, durante quel primo estenuante periodo, pagare i dipendenti.

Un brand alberghiero internazionale e conosciuto è un ponte sicuro verso il mondo

esterno, il segno di un afflusso costante di denaro, e di danaroso pubblico straniero, da Paesi

con economie più stabili. Persino durante una crisi, può assicurare stabilità sufficiente a

mantenere accesi i riflettori su un intero quartiere durante la sua costruzione. Se

sufficientemente forte, può addirittura invertire il declino e stimolare lo sviluppo economico nel

bel mezzo di una crisi.

E il nome di Hilton era abbastanza forte da riuscirci. Sia Schelling che Conrad ne

sarebbero stati orgogliosi.

“In circa sei mesi, iniziarono a svilupparsi gradualmente altre proprietà”, ricorda Potter.

La Argentine Petroleum Company YPF iniziò la costruzione del suo edificio simbolo proprio di

fronte all’Hilton. Si trasferirono qui persino due ambasciate.

“Molto rapidamente, la zona diventò un centro di opportunità e sviluppo per Buenos

Aires, perché c’erano grandi appezzamenti di terra liberi.” Se la terra è la tela degli

immobiliaristi, allora dei grandi appezzamenti situati a 500 metri dal Palazzo presidenziale di

una capitale cosmopolita sono tele uniche, occasioni che capitano una volta nella vita. Perciò è

ovvio che altre aziende e costruttori volessero aprirvi dei negozi.

Ma non bisogna dimenticare che quegli appezzamenti di terra erano rimasti disponibili

per decenni.

Ci volle un punto focale per innescare il meccanismo. “In circa due anni, circa il 25% di

Puerto Madero era completamente sviluppato”, stima Potter.

Oggi, Puerto Madero è un florido centro di affari internazionali e un quartiere di Buenos

Aires dove vivono brasiliani e stranieri amanti dell’architettura contemporanea. I graffiti di Puerto

Madero, oggi, sono realizzati con molta probabilità da Banksy. In meno di vent’anni una distesa

erbosa accanto a banchine abbandonate si è trasformata in qualcosa di molto più interessante:

il quartiere più ricco di Buenos Aires, che la star del calcio Lionel Messi chiama casa quando è

in città.

Alle spalle dei grattacieli moderni ancora in costruzione, la riserva naturale di Costanera

Sur è lo spazio verde più grande e ricco di biodiversità della città, un parco giochi naturale di

350 ettari.

Il costruttore Alberto Gonzalez morì un anno dopo l’apertura dell’Hilton, “ma solo dopo

aver lasciato in eredità la sua impronta definitiva”, racconta Potter. Secondo un’analisi, la

mancanza di una via di accesso pubblico avrebbe potuto soffocare gli sforzi di far rinascere

Puerto Madero. Gonzalez decise di risolvere il problema in modo spettacolare. Come regalo alla

città, chiamò l’architetto spagnolo di fama internazionale e ingegnere strutturista Santiago

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Calatrava a progettare un nuovo ponte pedonale che collegasse Puerto Madero al resto della

città.

Calatrava progettò El Puente de la Mujer, il Ponte delle Donne, che raffigura una coppia

di ballerini di tango (e che può ruotare in pochi minuti per consentire il passaggio delle navi,

facendone un capolavoro dell’ingegneria).

Il ponte adesso è uno dei luoghi più fotografati di Buenos Aires, un simbolo perfetto

perché connette il passato cittadino con la sua nuova epoca di crescita e rinascita.

“Oggi è uno dei simboli della città”, dice Potter.

Purtroppo, Gonzalez morì mentre il ponte veniva installato.

Al momento di pesare le alternative possibili per rendere la zona più interessante,

Gonzalez scelse essenzialmente l’investimento più grande: un ponte, non un cartellone

pubblicitario. Infrastrutture, non marketing. Rivitalizzare un’area grande come quella di Puerto

Madero richiede considerevoli iniezioni di capitale, per neutralizzare gli effetti di decenni di

degrado. Il ritorno economico di quegli investimenti dipende sostanzialmente da quanto valore

acquista l’area. Mettendo per primi il denaro sul piatto, tutti gli altri saranno più propensi a

contribuire perché percepiranno un livello di rischio inferiore. Nemmeno gli altri vogliono perdere

il loro investimento.

Hilton fu il fortunato beneficiario della fulgida visione di Gonzalez. Ma il nome di Hilton fu

la grande risorsa che rese più credibile la promessa, aggiungendo valore all’intero piatto. Il fatto

che attori così importanti, con una reputazione e un passato credibili, rispettassero gli impegni

presi persuase altri soggetti a sostenere la causa e unire le forze con successo. Non mantenere

anche solo l’1% degli impegni presi può rendere gli osservatori riluttanti a giocare con noi. Se al

contrario la nostra reputazione dimostra che le promesse che facciamo sono credibili, gli altri

saranno più propensi a entrare in campo.

Siamo più propensi a investire se confidiamo che gli altri non si tireranno indietro: anche

loro, dopotutto, ci perderebbero. Nel bel mezzo di una turbolenta recessione economica, che

richiede la cooperazione di una sfilza di investitori e costruttori, chiunque potrebbe tirarsi

indietro ad ogni piccolo sovvertimento.

Ma se il superamento di quei primi ostacoli richiese resilienza e coraggio, ogni difficoltà

affrontata con successo favorì l’interessamento di altri al progetto e, conseguentemente, la

rinascita di Puerto Madero. E questo avveniva sostanzialmente ripetendo sempre lo stesso

messaggio: da qui non ce ne andremo.

La rivitalizzazione di Puerto Madero dimostra l’importanza della reputazione di Hilton per

la buona conclusione di un progetto: il marchio può fare da apripista confidando che altri

seguiranno il suo esempio.

Cleveland/York, Pennsylvania Gli psicologi sociali, affrontando il tema della reputazione considerano due fattori chiave:

il calore (la bontà delle intenzioni di qualcuno) e la competenza (la capacità di mettere in pratica

tali intenzioni). Per riuscire a immaginare come qualcuno si comporterà con noi in futuro,

consideriamo il suo comportamento con altri in passato, e questo influenza la nostra

predisposizione a ricambiare le sue buone intenzioni.

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I brand, soprattutto i brand internazionali, sono comunemente considerati come portatori

di competenza. Il semplice fatto di essere un’entità conosciuta, nel mondo degli affari è segnale

di competenza: l’azienda conosce il mestiere abbastanza da fare sul serio. Sono nel giro da

molto tempo. Sanno come restare sul mercato. Abbiamo già dimostrato come i brand di lunga

tradizione siano capaci di tenere i riflettori accesi anche in periodi di turbolenza economica.

Tuttavia, il modo in cui la comunità risponde alla chiamata di costruire qualcosa insieme

(“Se lavoreremo insieme, ne ricaveremo ottimi risultati!”) dipende in larga misura dal secondo

fattore chiave della reputazione: il calore. Anche se riteniamo qualcuno abbastanza competente

da riuscire a far crescere l’intera torta, potremmo comunque avere dei dubbi sul modo in cui la

torta verrà spartita. E una reputazione “di calore” fa sì che le persone si aspettino che venga

spartita in modo equo.

Allungare un ramoscello d’ulivo ai membri più ricchi di una comunità potrebbe farvi

ottenere una donazione, ma un ramoscello d’ulivo senza intenzioni di profitto può farvi

guadagnare ciò che non può essere comprato: una buona intenzione.

L’Hilton Cleveland Downtown stabilì una priorità insolita nelle modalità di assunzione, sin

da prima dell’apertura nel 2016: dare la precedenza ai residenti, anche preferendo una persona

inesperta rispetto a un esterno con esperienza nel settore dell’ospitalità. Per reclutare il

personale si rivolsero a un’agenzia chiamata Towards Employment.

La Towards Employment è un’organizzazione non-profit che aiuta nella ricerca del

lavoro persone che faticano a trovarlo a causa del loro burrascoso passato o per mancanza di

opportunità. Quando l’hotel aprì, molte di queste persone del posto, che non avevano mai

lavorato nel settore, vennero sottratte alla povertà dei rifugi per senzatetto.

Quello alberghiero è un settore in cui, per molte posizioni, un dipendente con tanta

voglia di lavorare può riuscire a soffiare il posto a un altro con più esperienza. La priorità è

sempre quella di soddisfare i clienti. Anche in assenza di una lunga esperienza lavorativa, la

voglia di imparare unita a una forte etica del lavoro possono trasformare in breve tempo un

apprendista in un facchino, o in un cameriere ai piani, competente.

Qualcuno potrebbe criticare la scelta di assumere queste persone. Ma ascoltare la

direttrice generale dell’Hilton Cleveland Downtown, Teri Agosta, parlare di queste assunzioni

non fa sembrare questa scelta qualcosa di rischioso, quanto piuttosto una mossa intelligente:

“Ci siamo resi conto che, una volta che offriamo ai nostri membri del team una seconda

possibilità, generava in loro una grande riconoscenza. La loro etica e la loro produttività sono

superiori. Stiamo cambiando le loro vite, è questo che stiamo facendo. E vedere [con quanto

entusiasmo affrontano il loro lavoro] scalda il cuore. È qualcosa di contagioso”, aggiunge. Il

gesto così generoso di Hilton generò un reale entusiasmo, e fu caldamente ricompensato dai

neoassunti cui era stata offerta una prima occasione di lavoro.

Assumere personale non qualificato aveva richiesto a Hilton uno sforzo in termini di

tempo per la formazione. Ma pensate allo scambio: è difficile, se non impossibile, fingere calore

autentico (diversi studi dimostrano che le persone sono sorprendentemente brave a riconoscere

un sorriso falso). Il calore è la componente chiave della reputazione che non può essere

contraffatta, estende le buone intenzioni verso gli altri. E può nascere da zero.

Anche se aprire un hotel in un importante centro internazionale già zeppo di hotel può

sembrare azzardato, quel rischio è parzialmente controbilanciato dalla certezza della domanda,

un po’ come comprare azioni blue chip. E quando invece si decide di investire in società di

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tutt’altro tipo, come per esempio piccole società senza tutto quel giro di affari e senza grandi

piani di espansione?

Oggi, York, Pennsylvania è una città con poco più di 40.000 abitanti. La sua popolazione

aveva raggiunto il picco nel 1950. La sua economia avrebbe potuto rialzarsi anche prima: era la

sede della casa automobilistica Pullman, che produceva auto di lusso in stile Model-T.

I piccoli sforzi fatti per rivitalizzare la città, negli ultimi anni stanno iniziando a dare i primi

risultati sull’economia del centro di York. Vista la scarsa popolazione dei paesi della cosiddetta

Rust Belt (Cintura di ruggine), anche una sola fabbrica, un solo ufficio o un solo negozio che

chiude in centro ha il potere di innescare una reazione a catena.

Lo Yorktowne Hotel aveva aperto i battenti nel 1925, ma era rimasto vuoto per anni. Le

attività vicine, birrerie e ristoranti, hanno iniziato a comparire solo negli ultimi anni. Nonostante

le gallerie d’arte, i caffè e il piano di bike sharing, la vera sfida alla rivitalizzazione urbana è

costituita dagli edifici inutilizzati, soprattutto in comunità così piccole che non hanno grandi

margini di guadagno. Per una società esterna può essere difficile investire quando c’è

un’incertezza così grande ad accompagnare l’operazione: i grandi edifici vuoti potrebbero

trasformarsi nel prossimo paradiso dei graffitari.

A maggio 2018, la York County Industrial Development Authority ha annunciato che la

proprietà avrebbe ospitato un edificio della Hilton’s Tapestry Collection nel 2020. Oltre a dotare

la zona di un nuovo punto focale, l’accordo prevede un partenariato con la scuola alberghiera

dello York College. Appalti e ristrutturazioni da soli pomperanno 30 milioni di dollari

nell’economia locale.

“Hilton nel centro della vostra città, è un fattore di prestigio”, afferma Kevin Schreiber,

presidente e CEO della York County Economic Alliance.

L’aver mostrato ripetutamente sia un atteggiamento positivo nei confronti delle comunità,

che una fondamentale conoscenza del settore, fa sì che gli altri siano più propensi a fidarsi di

Hilton e a ritenere che non chiuderà, anche se intorno altri lo faranno.

Abuja

Anche chi conosce bene la geografia e ha visto un planisfero milioni di volte

probabilmente non ha del mondo un’immagine reale. Le mappe traducono un mondo

tridimensionale in un’immagine bidimensionale, un effetto dovuto all’utilizzo della proiezione di

Mercatore, ideata nel 1569. L’immagine che la maggior parte di noi ha del mondo è influenzata

da una distorsione 3D-2D che accresce le dimensioni delle forme man mano che ci si allontana

dall’equatore. Ne risulta che la maggior parte delle persone sottostima l’enormità dell’Africa. Se i

nostri mappamondi fossero più precisi, ci renderemmo conto che l’Africa potrebbe

comodamente contenere Stati Uniti, Cina, India, Messico, Francia, Spagna, Giappone,

Germania, Italia, Nuova Zelanda, Regno Unito, Nepal, Bangladesh e Grecia.

La Nigeria è il Paese più popoloso dell’Africa. Un africano su sei è nigeriano.

Nel 1976, il governo nigeriano votò lo spostamento della capitale da Lagos, che era così

congestionata da richiedere ore di viaggio solo per fare pochi chilometri. Spostare la capitale

voleva dire offrire alla Nigeria la possibilità di avere una capitale neutra, una città nuova da una

tela bianca, che non apparteneva a nessuno e che per questo poteva appartenere a tutti i

nigeriani. Il luogo più neutro della Nigeria doveva essere in posizione centrale che non

appartenesse a nessun gruppo o regione.

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La centrale e scarsamente popolata Abuja sembrò la soluzione migliore. La decisione di

spostare lì la capitale fu attuata nel 1991.

“Gli hotel internazionali Hilton sono sempre stati i primi ad arrivare nelle grandi capitali

dell’Asia e di altri Paesi”, afferma Andreas Jersaback, attualmente direttore generale di Conrad

Hilton Istanbul Bosphorus. Jersaback venne assunto nella task force che doveva aprire l’Hilton

Abuja, e lavorò nel team di apertura.

Essere il primo hotel internazionale di una capitale solitamente implica che le

infrastrutture locali hanno raggiunto un livello di importanza e sicurezza tale da garantire

l’interesse dei turisti e degli uomini d’affari di tutto il mondo. Ma con Abuja, era tutto l’opposto.

Qui, i funzionari governativi avevano detto: “Vedi questa zona sottosviluppata lontano da tutte le

altre infrastrutture del Paese? Portiamo qui la capitale“.

Gli alti funzionari del governo nigeriano erano da poco stati in visita al Noga Hilton Hotel

di Ginevra, in Svizzera, e avevano deciso

che un hotel simile avrebbe dovuto ospitare

i capi di stato nella nuova capitale del loro

Paese. Il proprietario, Mr. Nessim Gaon,

acconsentì alla costruzione. E così si iniziò.

Hilton mantenne la promessa di

costruire il primo hotel internazionale della

nuova capitale Abuja, nonostante la

carenza di infrastrutture.

“Abbiamo avuto il nostro impianto

fognario. Otto generatori elettrici. Per la

costruzione dell’hotel, l’hotel costruì una

falegnameria a Kaduna, il villaggio vicino,

per tutti i lavori di verniciatura delle parti in

legno”, racconta Jersaback. Hilton si era impegnata a essere il primo hotel ad aprire nella zona

nonostante i lavori aggiuntivi necessari a partire, come la costruzione di una fabbrica nel

villaggio vicino.

Inoltre, Hilton si era impegnata ad accogliere i diplomatici con un hotel che presentasse

numerose suite presidenziali, non con un qualsiasi hotel con più stanze possibili per

massimizzare i profitti. “In vista dei futuri incontri di governo costruimmo 50 suite presidenziali,

160 junior suite, e 40 royal suite.”

Poi arrivò il turno dell’ultima promessa, quella che si rivelò la più folle di tutte. Il governo

nigeriano aveva chiesto di poter utilizzare l’hotel per ospitare il summit della Comunità

Economica degli Stati dell'Africa Occidentale, ECOWAS, prima dell’apertura ufficiale dell’hotel.

Mancava ancora un anno al completamento dei lavori. A ECOWAS mancavano due

mesi.

Hilton accettò.

Il presidente della Nigeria invitò prontamente 14 capi di stato dell’Africa Occidentale a un

summit di due settimane all’Hilton Abuja.

Il team Hilton aveva dato la sua parola.

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Insieme a decine di altri membri dello staff provenienti da 17 Hilton di tutto il mondo (da

Monaco a Parigi, dal Brasile a Zurigo), Jersaback arrivò a Londra, dove la task force ricevette

tutte le istruzioni. Dopo alcuni giorni, il gruppo volò a Lagos (non c’erano voli diretti per la

capitale), prima di raggiungere Abuja.

“Bisogna tener presente che ad Abuja praticamente non esisteva personale qualificato”,

racconta Jersaback. Quando la task force fece circolare la voce che si cercava personale, alle

porte dell’hotel si presentarono in centinaia. Siccome nessuno dei presenti aveva esperienze

precedenti, il processo di selezione andò più a casaccio del solito.

Si racconta che il direttore del personale fosse uscito dai cancelli e avesse iniziato a

indicare le persone: “Tu, tu, tu, e tu, venite”. Una volta entrate, le persone vennero assegnate

ciascuna ad un ruolo: “Tu farai il cameriere, tu il barman, tu la cameriera ai piani. Tu alla

mensa.”

Qualsiasi cosa gli europei avessero pianificato di utilizzare come manuale di formazione,

fu rapidamente cestinata. Prima di imparare come stappare uno Chablis, i neoassunti dovettero

imparare a portare un vassoio con tre bicchieri di vino senza rovesciarli. E prima ancora,

dovettero imparare a portare un vassoio. In realtà, dovevano anche imparare cosa fossero i

bicchieri.

Tre settimane prima di servire i capi di stato, alcuni membri dello staff impararono

qualcosa su posate e bicchieri per la prima volta nella loro vita. Alcuni membri del personale si

presentavano senza calze perché l’unico paio che avevano era quello che avevano indossato il

giorno prima, e che lavato, doveva ancora asciugare. Compiti e promozioni venivano assegnati

in base alla curva di apprendimento individuale.

Altrove, l’intero hotel era ancora in costruzione.

La natura offrì alcuni dei servizi iniziali.

“Non avevamo bisogno di un impianto per lo smaltimento dei rifiuti, perché alla

spazzatura ci pensavano gli avvoltoi”, scherza Curt R. Strand, l’allora presidente di Hilton

International Hotels. I dipendenti scattarono foto di decine di avvoltoi appostati fuori dall’hotel.

“Quando arrivammo per la prima volta, era tutto un cantiere”, racconta Jersaback,

“avevamo quattro settimane per arrivare in hotel, dove non c’era niente, che era solo una

scatola vuota, e per, come ho detto, disfare gli scatoloni, scaricare, e prepararci. Forse

avevamo tre settimane e la quarta era quella della conferenza”.

I camion, per esempio, dovevano consegnare centinaia di scatoloni di lenzuola.

Dovevano essere scaricati, contati, organizzati, e distribuiti in ciascuna delle 700 camere

dell’hotel. Bisognava preparare 700 letti. Tutti i nuovi membri del team dovevano imparare come

si fa un letto.

Materassi, posate, bicchieri, asciugamani, vino, cibo, condizionatori, marmo: tutto quello

che serve per completare la costruzione di un hotel a cinque stelle nel bel mezzo del nulla.

Verso la fine, i membri del team della task force lavoravano 20 ore al giorno in

previsione del summit, per preparare l’hotel e il nuovo personale all’arrivo degli 800 invitati.

In meno di due mesi dall’iniziale richiesta di terminare l’hotel in tempo, e dopo un mese

dall’arrivo del primo membro del team, un edificio in costruzione fu trasformato in un hotel

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perfettamente funzionante, con più di 1.000 nuovi addetti pronti a servire oltre 800 ospiti durante

la conferenza. Capi di Stato inclusi.

L’Hilton ospitò l’ECOWAS.

Subito dopo, l’hotel chiuse per due mesi per portare a termine i lavori di costruzione e

riaprì con il 70% dello staff originale. Anche qui, come a Buenos Aires, il tasso di occupazione

era tutt’altro che ottimale ma Abuja iniziava a prendere forma come capitale. Tre settimane

dopo l’apertura ufficiale, l’hotel preparava 400 pranzi e 600 cene. Le strade asfaltate presero il

posto di quelle sterrate. Si costruirono scuole. Attività commerciali.

Conrad Hilton diceva sempre che per l’apertura di un hotel non ci si sente mai pronti al

100%, si apre e basta. Ma questo caso estremo fu reso possibile solo grazie agli sforzi

straordinari dei membri del team Hilton, che arrivarono qui da ogni parte del mondo. Veterani e

sopravvissuti di questa intensa apertura ne uscirono con una medaglia al valore: dire di essere

stato un membro del team di apertura di Abuja assicurava il rispetto immediato dell’interlocutore

e un paio di bevute in cambio del racconto della storia.

La maggior parte delle persone chiama i lavoratori di un’azienda dipendenti, e siccome è

quello che voi, lettori, vi aspettate, ci siamo riferiti a essi in questi termini.

Ma se discutessimo di questa scelta lessicale con Hilton, verremmo cortesemente

corretti: non sono dipendenti di Hilton, sono membri del team.

Ne risulta che il linguaggio è importante, forse più di quanto voi stessi crediate.

Il valore della parola “insieme”

Un gruppo di ricercatori della Stanford University ha cercato di capire i vantaggi

dell’appartenere a un team o a un gruppo. Chiaramente, l’interazione sociale è importante: un

collega che ci abbraccia o che ci batte un cinque contribuisce notevolmente a rinvigorire il

nostro ego scarico. Ma questi ricercatori erano interessati a dimostrare un’affermazione ben più

audace: ritenevano che anche il semplice pensarsi parte di un team avesse effetti positivi.

Anche senza il cinque, i consigli, i sorrisi, sembra che le persone diano valore all’appartenere a

un gruppo. Ma è sufficiente che la percezione di appartenere a un gruppo sia anche solo

accennata per dare dei frutti?

I ricercatori condussero alcuni studenti in un laboratorio e diedero loro un compito che

potrebbe apparire per bambini: le istruzioni erano di colorare una mappa senza usare lo stesso

colore per due sezioni adiacenti, e senza usare più di quattro colori in tutto. Come il parcheggio

in parallelo, il compito sembrava facile e innocuo ma presto si rivelò impossibile.

Gli studenti si presentarono al laboratorio, e dopo le presentazioni ciascuno venne

condotto in una stanza separata per lavorare al rompicapo. A tutti venne assegnato lo stesso

compito (un rompicapo irrisolvibile), nella stessa condizione (lavorando da soli in una stanza).

Per testare l’impatto psicologico dell’appartenenza, con la metà dei partecipanti i

ricercatori allusero vagamente all’esistenza di un team, accennando al fatto che ne facessero

parte. I soggetti in questa condizione di “insieme” ricevettero due piccoli indizi che gli facevano

pensare di non essere soli. Per prima cosa, ai partecipanti nella condizione di insieme giunse la

voce che lo studio testava “il modo in cui le persone collaborano alla soluzione di rompicapi”,

mentre il resto dei partecipanti, nella condizione di “individuo”, sentì dire che l’obiettivo dello

studio era testare “il modo in cui le persone risolvono dei rompicapi”.

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Il secondo indizio: dopo due minuti e mezzo dall’inizio del test, un ricercatore entrò nella

stanza con un pezzetto di carta che conteneva un suggerimento per risolvere il rompicapo. I

partecipanti nella condizione di insieme ricevettero un suggerimento che era indirizzato “a” loro

“da” un altro partecipante. Quelli nella condizione di individuo, un pezzetto di carta “per” loro.

I partecipanti che avevano ricevuto l’indizio di solidarietà considerarono il compito più

interessante. Ma la scoperta più interessante non riguardò l’opinione soggettiva dei partecipanti,

quanto il grado di impegno che dedicarono a un compito impossibile. I partecipanti nella

condizione di individuo lavorarono sulla mappa per poco più di 11 minuti, mentre quelli nella

condizione di insieme per 17 minuti, un bel 48% in più.

Da ulteriori sessioni del test, emerse che i soggetti che avevano ricevuto gli indizi della

condizione di insieme si sentivano meno provati e affaticati. È importante notare, tuttavia, che

non erano meno affaticati perché avevano battuto la fiacca, ma perché la sensazione di essere

un insieme li aveva motivati a lavorare con più impegno.

La sensazione di lavorare con altri combatte l’esaurimento dandoci la sensazione di

avere a disposizione un altro bacino di risorse a cui attingere: le altre persone. Piccoli, semplici

indizi del fatto che non siamo soli nel nostro compito costituiscono un ammortizzatore e un

incentivo contro l’esaurimento, consentendoci di fare di più, impegnarci a fondo e non cedere.

Chris Silcock, lo Chef Ruffy Sulaiman, Dianna Vaughan, e Jacques D’Rovencourt non

sono mai stati dipendenti di Hilton perché Hilton, sulla busta paga, non si riferisce a loro con il

termine di dipendenti: sono membri del team. La semplice definizione di “membro del team” può

fare più di quanto anche gli abili dirigenti Hilton possano immaginare. A riprova della potenza di

queste parole, leggete la storia che segue, un racconto di quanto può essere grande l’impegno

di chi è membro di un team.

Sri Lanka Negli anni ‘80 e ‘90, la festa danzante settimanale dell’Hilton Colombo, nota come Blue

Elephant, era il centro del divertimento della capitale srilankese.

Kapila Mohotti iniziò a lavorare in hotel come apprendista steward all’età di 19 anni. Si

sentiva attratto dalle Blue Elephant, così chiese al performer DJ Bunty di insegnargli il mestiere.

Prima e dopo il suo turno si esercitava, e finalmente i suoi frutti vennero ripagati quando a

Mohotti fu chiesto di sostituire il DJ per una serata durante la Blue Elephant. Quando Bunty se

ne andò, il direttore generale dell’Hilton Colombo, Gamini Fernando, chiese a Mohotti se fosse

interessato a diventare il nuovo DJ delle Blue Elephant:

“Mi sentii come se le cose stessero finalmente andando nel modo giusto”, racconta

Mohotti.

Il Blue Elephant era il primo night club internazionale del Paese. Attraeva esponenti

dell’alta società e persone del posto che volevano sentirsi come loro. Ci si trovava a bere con gli

amici e a danzare fino all’alba, quando la pista si svuotava.

L’attuale direttore generale dell’hotel, Manesh Fernando, ricorda con affetto quegli anni:

“Questo hotel era un’oasi nella città”.

Con un drink tra le mani, danzando sulla pista da ballo, gli srilankesi dimenticavano ciò

che accadeva fuori: il Paese attraversava una sanguinosa guerra civile.

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“Quando sei in guerra, impari ad avere la memoria corta. Impari ad affrontare le

situazioni. Non puoi stare a pianificare le tue decisioni per uno, due o tre anni. In quel momento

chi diceva “arrivederci” lo sperava davvero, perché non era certo che sarebbe tornato indietro”,

racconta Fernando.

“Le persone realmente, realmente si divertivano al nightclub.”

Il Blue Elephant è stato una bella esperienza, ma i tempi cambiano, insieme ai gusti

locali. Chiuse i battenti il 21 aprile 2007, dopo aver regalato agli srilankesi 20 anni di

champagne, musica, una grande pista da ballo e, ancora più importante, un luogo dove

potevano dimenticare le difficoltà di un Paese in guerra, e che è una calamita di disastri naturali.

La capitale dello Sri Lanka, Colombo, ha una popolazione di 700.000 abitanti. Il centro si

visita a piedi in un giorno. Gli edifici federali e gli uffici più importanti delle aziende si

concentrano nel centro della città, il Colombo City Center. In tempi favorevoli, la posizione

centrale di Hilton rispetto a questi luoghi era una manna, ma in tempi cattivi, faceva di Hilton un

obiettivo.

L’Hilton Colombo aprì nel 1987, quattro anni dopo l’inizio della guerra civile. Le Tigri per

la liberazione di Tamil Eelam, o LTTE, un gruppo separatista noto anche come le Tigri di Tamil,

nel 1983 diedero inizio al conflitto armato contro il governo nazionale.

Il 31 gennaio 1996, l’LTTE fece esplodere 200 chilogrammi di esplosivi nei pressi della

Banca Centrale dello Sri Lanka, uccidendo 91 persone.

L’anno seguente l’LTTE colpì di nuovo, questa volta il World Trade Centre, un palazzo di

39 piani inaugurato solo tre giorni prima e collegato all’Hilton Colombo.

Il direttore generale di quel momento, Gamini Fernando, all’epoca tirocinante

amministrativo che lavorava al turno notturno, lasciò l’hotel alle 3:00. Alle 7:00, mentre

Fernando dormiva a casa sua, un ordigno devastante di 450 chili di esplosivo scoppiò tra i

sacchi di riso nel retro di un furgone.

“Lo staff mi svegliò dicendomi che c’era stata una

grande esplosione nel centro della città”, ricorda

Fernando. La bomba era scoppiata nel parcheggio del

Galadarai Hotel, mandando in frantumi le finestre dei

palazzi del centro e persino dei dintorni. Aveva distrutto

anche le facciate dei colossi alberghieri internazionali: il

Galadari, l’InterContinental, e l’Hilton.

“Quando feci ritorno, la zona era completamente

disastrata… l’hotel era un macello. Su una delle facciate

non era rimasta nemmeno una finestra”, racconta

Fernando. Trentasei ospiti stranieri furono portati in

ospedale. Ci furono danni per decine di milioni di dollari.

Fernando chiamò a raccolta i membri del team

per annunciargli: “Non chiuderemo, e in qualche modo

riapriremo l’hotel nel minor tempo possibile”. Come

avrebbe poi fatto anche D’Rovencourt a Houston 20 anni

dopo, Fernando non si chiese mai se l’hotel sarebbe

rimasto riaperto. Semplicemente si era impegnato a

tenerlo aperto.

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Poi, il direttore generale fece un secondo proclama: “'Non preoccupatevi per lo

stipendio’, dissi, e questo mise d’accordo tutti”, racconta Fernando. In Sri Lanka, lo stipendio dei

lavoratori nel settore alberghiero comprende un 10% di tassa di servizio. Sapere che i loro salari

non avrebbero subito riduzioni dovute all’inevitabile calo del turismo, li convinse ad andare

avanti. I proprietari dell’hotel presero in prestito 2 milioni di dollari da Hilton per tornare alla

normalità il prima possibile.

L’impegno è un percorso a doppio senso. Sentire che Hilton avrebbe mantenuto

l’impegno a restare aperto, ebbe un effetto ben preciso sul personale, ricorda Fernando: “Tutti

noi entrammo in azione come un esercito”.

“La prima cosa da fare era pulire… tutti ci mettemmo i guanti e prendemmo i secchi per

raccogliere i vetri sparsi in tutto l’hotel.” Mentre raccoglievano i vetri a mano, indossavano dei

caschi e altre protezioni per la testa per proteggersi dai pezzi di cemento e vetro che avrebbero

potuto cadere dall’alto.

Il ricordo di un’identità condivisa e il senso di appartenenza a un gruppo sono d’aiuto in

tempi difficili, e favoriscono la resilienza. Il ritrovarsi insieme, nel mezzo di una crisi, metteva in

luce il destino comune dei membri del team rendendo il gruppo ancora più coeso.

Il forte coinvolgimento innesca una spirale positiva: sapere che la situazione durerà a

lungo spinge a fare esattamente ciò che contribuirà a migliorare il nostro futuro. Vedere i

progressi fatti grazie a quegli sforzi supplementari, di contro, è rinfrancante. L’impegno è

promotore di altro impegno. Sentire che i manager avrebbero tenuto i riflettori accesi, e i salari

accettabili, aveva spinto i dipendenti a tornare a pulire l’hotel.

Poi, dagli uffici regionali di Singapore giunse qui un gruppo di ingegneri incaricato di

valutare i danni all’edificio e dichiarare l’integrità della struttura. Conoscendo la decisione

dell’hotel di restare aperto, la direzione chiese come, e non se. Fernando e l’ingegnere capo

decisero di proteggere gli interni dell’hotel realizzando rapidamente un rivestimento di

compensato.

Il Galadari Hotel situato accanto aveva subito un danno simile, ma esitava a mantenere

il proprio impegno a rimanere aperto. A detta di Fernando, non coprirono le aperture lasciate

dalle finestre esplose a causa della bomba. I direttori non erano certi nemmeno di riaprire in

quanto temevano entrate insufficienti. Davanti a un hotel, uno straniero tende a mettere il

proprio punto di vista in primo piano e quello dei dipendenti dell’hotel in secondo piano. Ma una

persona del posto guarda a un hotel in modo diverso, come una potenziale risorsa per trovare

un impiego, organizzare matrimoni, e aperitivi occasionali: ci sono loro in primo piano, e gli

ospiti sullo sfondo. Quando i proprietari stranieri iniziarono a temere che la guerra civile non

avrebbe mai avuto fine, si chiesero se il turismo sarebbe mai tornato come prima. Se non fosse

successo, restare non aveva più molto senso.

Le cose peggiorarono per il Galadari quando su Colombo, dopo la bomba, si abbatté il

monsone.

“La tempesta giunse e danneggiò l’hotel ancor più della bomba, credo, perché la pioggia

rovinò tutto ciò che era rimasto nell’hotel”, racconta Fernando.

Dopo il monsone, il Galadari chiuse. L’Hilton Colombo tornò in attività dopo alcune

settimane.

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Ormai, la guerra civile aveva causato 50.000 vittime e il turismo internazionale stava

pagando un tributo enorme. Per qualche tempo l’Hilton rimase l’unico hotel internazionale di

Colombo, rendendolo la meta inevitabile per tutti gli uomini d’affari stranieri.

Gli altri hotel avevano sottovalutato l’importanza della loro presenza per i residenti, e la

loro chiusura aveva fatto di Hilton un punto focale determinante per le persone del posto. Anche

durante la guerra civile, i residenti di Colombo non avevano altra scelta se non quella di restare.

Sono realmente devoti al luogo di lavoro.

“La chiusura dell’hotel non è mai stata presa in considerazione. È il nostro piccolo

mondo, e Hilton deve funzionare”, racconta Fernando. Se non hai alcuna possibilità di

andartene, devi sfruttare al massimo quello che hai, non hai altra scelta. Allora ti stringi attorno

al tuo team e sviluppi un senso di fedeltà tale da non pensarci due volte a sacrificarti per esso

(c’erano membri del team che ogni giorno guidavano per più di 20 chilometri in condizioni di

rischio, attraverso una zona di guerra, per arrivare al lavoro.

Gli anni passavano e la guerra civile non sembrava fermarsi.

A un certo punto “a tutta la città venne chiesto di spegnere ogni luce per evitare che gli

aeroplani vedessero i luoghi da colpire”, racconta Fernando. Poi aggiunge: “non avrei mai

voluto veder chiudere l’hotel nel bel mezzo dei raid aerei”. La direzione decise di coprire tutte le

finestre dell’hotel con tendoni neri, esteticamente gradevoli sia dall’interno che dall’esterno ma

impossibili da aprire, chiusi ermeticamente per impedire il passaggio della luce.

Nel 2008, un kamikaze uccise nove persone di cui sette poliziotti, facendosi esplodere a

un checkpoint della polizia fuori dall’hotel, danneggiando qualche finestra. William Costley,

l’allora direttore generale (oggi Vice President of Operations for the Arabian Peninsula &

Turkey), come il suo predecessore non prese mai in considerazione la chiusura dell’hotel.

L’hotel si era ormai guadagnato la reputazione di restare sempre aperto e tenere tutti al

sicuro. Si decise semplicemente di continuare a tenere i riflettori accesi.

“La vita continua”, dice Fernando. “Questo hotel era il luogo dove le persone andavano e

dimenticavano tutti i loro problemi, tutta quella negatività. Era il cuore che pompava il suo

ottimismo alla città.” Era un luogo dove la vita riprendeva sembianze di normalità e sicurezza, e

dove le persone potevano sviluppare dei ricordi positivi.

Anche il giorno in cui il kamikaze

danneggiò le finestre di una facciata dell’hotel, la

vita andò avanti.

Una guerra civile non elimina il desiderio

delle persone di sposarsi o di festeggiare. Quel

giorno, nell’altra ala dell’hotel, si tenne un

matrimonio esattamente come era stato

programmato.

Vi ricordate il sarcastico giornalista di

Vogue infastidito per l’uomo d’affari che faceva

colazione nella sua oasi? In alcuni casi un’oasi può essere un tetto che ti salva la vita.

La possibilità di sentirsi al sicuro durante una guerra civile è niente di meno che un diritto

sacrosanto. E fare il suo sacrosanto dovere nel garantirlo è sempre stata una priorità per il

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direttore generale Manesh Fernando, sin da quando era un tirocinante e vide il suo stesso

direttore generale, Gamini Fernando, andare avanti e indietro nella hall in pantaloncini ed

entrare in scena dicendo ai membri del suo team: “Non chiuderemo, e in qualche modo

riapriremo l’hotel nel minor tempo possibile”.

Il semplice sentire le parole “Non chiuderemo mai” era bastato a motivare il team

abbastanza da trovare la risposta a quel “in qualche modo”: l’impegno promuove l’impegno.

Cosa importa se il turismo subirà una flessione temporanea? I turisti sono solo un lato

della medaglia. Anche gli abitanti di un luogo anelano alla luce e al calore dell’ospitalità.

Sapere che i riflettori erano accesi, e che altri membri del team avevano bisogno di loro,

li convinse a restare. Dei 700 membri del team che attualmente lavorano all’Hilton Colombo,

200 fanno parte del team che era presente il giorno della bomba del 1996.

La visione di Conrad Hilton era semplice: essere una fonte affidabile di ospitalità per i

suoi clienti. Ma probabilmente non avrebbe potuto immaginare fino a che punto il suo impegno

per realizzare la visione di un mondo riscaldato dalla luce e dal calore dell’ospitalità, avrebbe

assunto, in oltre 100 anni, significati così diversi in tutto il mondo.

Semplicemente perseguendo la sua finalità primaria di essere ospitale, Hilton è in grado

di allargare gli orizzonti di chi viaggia e costruire comunità. Garantendo ospitalità, diventando

un’oasi ben radicata al territorio i cui i riflettori restino sempre accesi. Il suo impegno a essere

punto di riferimento per turisti e residenti, le cui porte sono sempre aperte, gli conferisce una

reputazione di affidabilità che favorisce l’impegno degli altri.

I contratti moderni sono scritti in modo da sollevare le persone dalle loro responsabilità

contrattuali in caso di “calamità naturale”. Ecco una clausola generica relativa alle calamità

naturali:

Il depositario non è responsabile per eventuali fallimenti o ritardi nell’adempimento dei

suoi obblighi cui al presente accordo, derivanti o causati, direttamente o indirettamente,

da circostanze indipendenti dal suo ragionevole controllo, incluse calamità naturali,

terremoti, incendi, alluvioni, guerre, disordini civili o militari, sabotaggi, epidemie,

sommosse, incidenti, controversie sindacali, atti di autorità civili o militari, o iniziative

governative.

Se questa clausola specificasse l’interruzione di servizio, sarebbe comprensibile. Ma il

vero obiettivo di questa clausola è quello di consentire alle persone di rinunciare a un appalto in

situazioni critiche che sfuggono al loro controllo. Ma le parole di questo contratto richiamano alla

mente tutta una serie di difficoltà che i team attivi in posti come Colombo, il Cairo e il Giappone

hanno dovuto affrontare.

Incendi? Già.

Alluvioni? Sì.

Guerre, disordini civili o militari, sabotaggi? Scacco al Re.

Nessuno biasimerebbe un dipendente che in una di queste situazioni uscisse prima dal

lavoro, ma è proprio in questi momenti che i dipendenti di Hilton danno il massimo. I membri del

team danno sempre il massimo per il team, consentendo a Hilton di mantenere i suoi impegni

nei confronti delle comunità cui si rivolge.

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A Buenos Aires, l’aggravamento della crisi economica aveva portato alla bancarotta di

alcuni investitori e appaltatori principali, prima del completamento dell’hotel. Mentre la crisi si

trasformava in una depressione di lungo termine, l’hotel manteneva la sua promessa di aprire

nei tempi previsti e di mantenere i riflettori accesi. L’assicurare uno stipendio congruo ai membri

del team, garantiva che i riflettori non venissero spenti nei periodi più duri. Quando Hilton restò

l’unica realtà commerciale del quartiere, fu un segnale di stabilità così importante da sollecitare

lo sviluppo dell’area circostante, trasformando chilometri di prati e edifici abbandonati nel più

ricco quartiere di Buenos Aires, nel pieno della recessione.

Al Cairo, la rivoluzione della Primavera araba ebbe inizio vicino al Nile Hilton, e l’hotel

supportò i manifestanti pro-democratici. Qualcuno aveva commentato: “Non è un caso che

questi eventi si siano verificati vicino all’Hilton perché è sempre stato il fulcro della città”. E se

era il fulcro della città era perché, come a Buenos Aires, aveva sempre costituito un punto

focale attorno al quale si era sviluppata la città. In Giappone, i membri del team sopravvissero alla furia divina resistendo a un

terremoto, a uno tsunami, e alla fusione del nocciolo di una centrale nucleare.

È facile mantenere la parola quando le cose vanno bene. E quando in una località le

cose cominciano ad andare male? Un po’ meno.

Conrad Hilton probabilmente non avrebbe mai immaginato il suo hotel in una città

bombardata più volte nell’arco di un decennio. Ma sarebbe stato fiero di associare il suo nome

all’hotel Colombo perché i membri del suo team erano l’impersonificazione stessa della sua

visione dell’ospitalità.

Il 5 novembre 1954 Hilton, intervenendo al convegno dell’American Hotel Association a

New York, raccontò la sua versione di una storia antica:

Tanto tempo fa, l’umanità era costretta a vivere al freddo e nell’oscurità. Un giorno,

Prometeo decise di rubare il fuoco agli Dei e di portarlo sulla Terra. Uomini, donne e bambini

in schiere attendevano, dalle più alte vette fino ai confini della Terra, di ricevere la fiamma

per trasmetterla al proprio vicino. Improvvisamente ci fu un lampo, e la prima torcia del primo

uomo si illuminò. Rapidamente la fiamma passò di mano in mano. Da una fiamma se ne

crearono dieci, da cento mille, di città in città, da nazione a nazione, fino a quando la luce e il

calore riempirono l’intera Terra. Questa è la storia del nostro settore. In qualità di uomini e

donne che lavorano nel settore alberghiero, è nostra precisa responsabilità quella di

riempire la terra della luce e del calore dell’ospitalità.

“Riempire la Terra della luce e del calore dell’ospitalità.” Oggi, attraverso piccoli e grandi

gesti, Hilton persegue quella visione creando un Effetto Hilton su ospiti, membri del team, e

comunità.

● Un’ospite è all’estero per il suo primo viaggio di lavoro. Deve convincere un

cliente che parla un’altra lingua ad acquistare i suoi prodotti. Teme già che le

trattative si faranno complicate, ma si entusiasma al vedere la sua colazione

preferita al buffet della mattina. Sarà una lunga giornata, comunque vada si sarà

goduta la colazione. Sua madre ne sarebbe orgogliosa.

● Un giovane membro del team di Abuja, Nigeria, sta lavorando ai banchetti

dell’Embassy Suites di Houston, Texas. Viene chiamato in direzione e gli viene

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proposto di lavorare per qualche tempo come night manager. “È un lavoro

impegnativo”, gli viene detto, “ma imparerai molte cose”.

● Un facchino di Cleveland mostra la stanza a una famiglia, che si sente subito

ricaricata dal suo entusiasmo e dai suoi aneddoti sulla storia dell’hotel. Prima di

avere il lavoro, era disoccupato da cinque anni.

Il ritorno del Blue Elephant Nel 2018 il Blue Elephant annunciò la sua riapertura in occasione di un party revival

organizzato per il 10 e l’11 agosto, a più di dieci anni dalla chiusura.

Per l’occasione fece il suo ritorno il DJ Kapila, anche se sarebbe più corretto dire che

restò. Kapila Mohotti infatti, è attualmente l’F&B manager dell’hotel, e lavora all’Hilton Colombo

da oltre 30 anni.

“La gente ci chiese di riaprire perché per loro quel posto era una miniera di ricordi”,

racconta il direttore generale Fernando.

L’annuncio della rimpatriata al Blue Elephant

creò un certo fermento sui social media. La gente

raccontava aneddoti nostalgici e poetici, e faceva

congetture sui vecchi amici che si sarebbero

presentati dopo dieci anni, a rendere omaggio a quel

club di un hotel del centro che per qualche tempo

aveva riportato luce e calore agli abitanti di un Paese

in cui le calamità naturali erano parte integrante della

vita.

Quando non sai quanto durerà la serenità,

impari a goderti il presente.

Al party di commemorazione, la fila all’ingresso era piena di facce sorridenti e diverse

persone indossavano vestiti rimasti a giacere per anni sul fondo degli armadi. Al bar fioccavano

le ordinazioni. Al DJ fioccavano richieste. “Era tutto pieno”, racconta Fernando.

Il DJ mise al massimo il pezzo forte di Whitney Houston, “I Wanna Dance With

Somebody”. In un hotel che non aveva mai chiuso, che aveva sempre assicurato luce e calore

anche nei momenti più bui, con la musica a tutto volume e cocktail ghiacciati tra le mani.

E si ballò.

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Postfazione di CJN a “L’Effetto Hilton”

di Christopher J. Nassetta, President & CEO, Hilton

Come molti dei Team Member che Chip e Karla hanno incontrato durante le loro

ricerche per “L’Effetto Hilton”, ero molto giovane quando ho fatto i miei primi passi nel settore

ospitalità. Ai tempi delle superiori, spronato da mio padre, trascorsi le vacanze estive lavorando

nel team addetto alla manutenzione di un hotel di Washington D.C. Un’estate ho sturato

talmente tanti gabinetti che il mio regalo d’addio è stato uno sturalavandini spruzzato di vernice

dorata. Nonostante quel premio non esattamente onorevole, mi sono innamorato del settore e

da allora non ho mai cambiato idea.

Una decina d’anni fa sono arrivato in Hilton come Amministratore delegato, ed è stato

solo allora che ho davvero capito ciò che Conrad Hilton aveva intuito molti anni fa: che un

viaggio diventa una vera esperienza di vita se l’hotel sa far esprimere al meglio il viaggiatore.

Conrad lo aveva capito quando inaugurò il suo primo hotel a Cisco, in Texas, e si rese conto

che il trucco per fare felici gli ospiti stava nel creare uno spirito di squadra fra i suoi dipendenti:

una cultura del team che li motivò a innovare improvvisando sul momento, per arricchire

l’esperienza di viaggio degli ospiti.

Oggi, come hanno scoperto Chip e Karla, i nostri 400.000 Team Member restano fedeli

alla nostra storia e alle nostre radici in tutti i 5.400 hotel Hilton presenti in 106 Paesi e territori. E

sono numeri in crescita. Nel solco delle idee di Conrad, più di 10 milioni dei nostri Team

Member hanno riempito il mondo con la luce e il calore dell’ospitalità dal nostro inizio, al servizio

degli oltre 3 miliardi di viaggiatori.

Diamo ai nostri ospiti l’ispirazione per esplorare, sognare, ritrovarsi coi loro cari, agire,

conoscere le altre culture, fare cose che non avrebbero mai pensato di fare – cambiando il loro

mondo e il nostro.

In un periodo che sembra pervaso da preoccupazioni e discordia, non c’è mai stato così

tanto bisogno del potere unificante del viaggiare. Ecco la magia del viaggio: amplia la nostra

visione del mondo e allo stesso tempo ci fa avvicinare alle altre persone in giro per il mondo.

Come dico spesso, stiamo vivendo un Secolo d’oro dei viaggi. I ceti medi emergenti in

Paesi come l’India e la Cina alimentano una sete globale di esplorazione e avventura, aprendo

un numero sempre più ampio di mete a nuove culture e nuove idee. Nel 2017, 4 miliardi di

viaggiatori hanno usato l’aereo. In appena 20 anni, questo numero raddoppierà.

Ecco perché sono così grato di poter usare l’esperienza centenaria di Hilton nel creare

legami umani per aprire la strada a una nuova, entusiasmante era dell’ospitalità. Proprio ora

che celebriamo il nostro centenario. Forte di questa solida storia alle spalle, Hilton non è mai

stata così dinamica.

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Stiamo aprendo la strada a nuove destinazioni di viaggio, aprendo centinaia di hotel in

quasi 50 paesi e territori nel solo anno dell'anniversario.

In Cina, stiamo dando a milioni di famiglie del ceto medio la possibilità di viaggiare con

maggior comfort e sicurezza, aprendo in tutto il Paese hotel di alta qualità e dai prezzi

accessibili.

Continuiamo a distinguerci nella missione di creare nuove frontiere di viaggio in tutta

l’Africa, con l’impegno di aprire 100 nuovi hotel entro il 2022 attraverso la nostra iniziativa

“Hilton Africa Growth”.

Le nuove generazioni di viaggiatori hanno esigenze e preferenze in costante evoluzione,

e noi ci stiamo adeguando attivamente: abbiamo aggiunto nuovi marchi smart ai prestigiosi 14

del nostro portfolio e lanciato la Connected Room, per un’esperienza in hotel davvero a misura

di dispositivi mobile.

Ogni giorno, diamo il massimo per onorare lo spirito pionieristico che ha animato il

nostro fondatore nel creare la prima azienda alberghiera globale al mondo.

Leggendo la ricerca di Chip e Karla, non posso che sentirmi onorato di essere parte di

questa storia, che loro chiamano “L’Effetto Hilton”. Sono davvero convinto che, 100 anni fa, la

nascita di Hilton abbia reso il mondo un luogo migliore. E se facciamo bene il nostro lavoro, nei

prossimi 100 anni Hilton renderà il mondo ancora migliore.

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FONTI

PRIMA PARTE “Suddenly, we weren’t rich anymore”: Conrad Hilton (1957), Be My Guest. Englewood Cliffs, NJ:

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“Tipped me five dollars”: Hilton, Be My Guest, p. 62.

“A crackerjack at making things comfortable for you”: J. Randy Taraborrelli (2014), Hiltons: The

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“A cross between a flophouse and a gold mine”: Hilton, Be My Guest, p. 109.

First hotel to install TVs, multi-hotel reservations system, no guest rooms with westward-facing

windows: http://newsroom.hilton.com/hhr/page/29

Erin McCarthy, “Who Invented the Brownie?” Mental Floss, November 13, 2014,

http://mentalfloss.com/article/60011/who-invented-brownie.

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SECONDA PARTE: MEMBRI DEL TEAM E FLOW

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TERZA PARTE

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CLEVELAND/YORK Andrew Small, “The Difference a DIY Cultural Revival Can Make,” Citylab, September 2017,

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“Hilton in your downtown – that’s a prestige factor”: Anthony J. Machcinski, “Saving Yorktowne:

Unlikely story of how York landed Hilton and why that's such a big deal,” York Daily Record,

June 4, 2018, https://www.ydr.com/story/news/2018/06/04/hilton-tapestry-rescue-yorktowne-

hotel-story-behind-deal-downtown-york-efforts-could-have-died/630300002/

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https://www.naija.ng/574434-nigeriaat55-top-5-reasons-nigerias-capital-moved-lagos-abuja-

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Blue Elephant Retro Party: YAMU TV, https://www.yamu.lk/event/blue-elephant-retro-party

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the-gloom-hanging-over-sri-lanka.html

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http://news.bbc.co.uk/2/hi/south_asia/7404147.stm

Address by Conrad N. Hilton at the annual convention luncheon, American Hotel Association,

New York, NY. November 5, 1954. Transcript provided by Hospitality Industry Archives, Conrad

N. Hilton College of Hotel & Restaurant Management, University of Houston, Texas.