Educare insegnando - Vigevano
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in collaborazione con
per docenti di scuola primaria e secondaria di I grado
Comune
di Zona 9
INTRODUZIONE A gennaio dello scorso anno alcuni insegnanti della scuola primaria e secondaria di
primo grado, operanti in diverse scuole della Zona 9 hanno cominciato a ritrovarsi
sollecitati dalla lettura dell’ “Appello all’educazione”,del nel quale si evidenziava la
crisi degli adulti nell’ educare i propri figli, sull’onda di un’accezione di libertà come
assenza di legami e di storia, di possibilità di crescere senza appartenere a niente e a
nessuno seguendo semplicemente il proprio istinto, il proprio gusto e il proprio
piacere;
Abbiamo voluto riflettere insieme sulla questione educativa che appariva a tutti come
esigenza impellente sia a livello scolastico sia a livello familiare.
Dopo la visione del film: “ Les choristes” del regista francese Barratier sul tema
dell’autorevolezza e della stima allievo-insegnante e un incontro di comunicazione di
situazioni problematiche e di difficoltà quotidiane nella conduzione del compito
educativo; abbiamo deciso di impostare un lavoro sistematico sul tema del ruolo della
relazione educativa nell’ambito dell’insegnamento.
Ci siamo rivolti quindi all’associazione DIESSE LOMBARDIA per verificare
l’ipotesi di un corso di aggiornamento per l’anno scolastico a venire.
Ottenuta anche l’approvazione e il supporto economico del C.d.Z 9, il corso
EDUCARE INSEGNANDO ha avuto luogo con il seguente calendario
La relazione educativa
Come conoscere il bambino Dott.ssa Giovanna Capolongo, psicologa
Giovedì 8 marzo 2007 orario 17-19
Quando la lezione apre al reale Prof. Rosario Mazzeo, dirigente scolastico
Giovedì 15 marzo 2007 orario 17-19
Padri e madri fonte dell’identità e della crescita: quale collaborazione da parte della scuola? Dott.ssa Rosi Rioli, formatore
Giovedì 22 marzo 2007 orario 17-19
La sede del corso è stata la scuola media “Falcone-Borsellino” viale Sarca,24
IL filo conduttore degli incontri è stato il tema della relazione educativa che si snoda
nell’ambito scolastico tenendo conto delle figure dell’adulto, del bambino e della
famiglia.
Gli interventi sono stati impostati sulla considerazione di alcune domande:
- qual è il compito e il ruolo dell’autorità nel rapporto educativo?
- Educare vuol dire solo trasmettere dei saperi e sviluppare delle abilità
sempre più numerose e specifiche?
- Perché allora percepiamo un disagio nei bambini?
- Che cosa manca?
- Come rispondere alla domanda di educazione che la famiglia
continuamente pone alla scuola, riconoscendo le proprie difficoltà in
merito?
L’incontro con i relatori ha suscitato molto interesse, curiosità e desiderio di
approfondire gli argomenti trattati.
Le lezioni, puntuali e significative, hanno risposto ampiamente alle richieste e molte
sono state le domande e le esperienze comunicate.
Tutto ciò ci è parso un segno evidente del bisogno di esprimere e condividere il
nostro lavoro di insegnanti ed educatori.
Nelle nostre scuole, in cui la progettualità, l’organizzazione, la burocrazia sembrano
aver relegato in secondo piano l’attenzione alla persona, alla domanda di significato e
di contenuto della realtà, risulta sempre più evidente la necessità di un confronto, di
un sostegno reciproco, di un lavoro che abbia un respiro più ampio, che superando
l’ambito di ogni singola scuola, offra la possibilità di condividere e verificare le
ragioni e i contenuti dell’educazione e della didattica.
Il corso è stato per noi l’occasione, oltre che, come già detto, di raccontarci le
esperienze vissute nei rispettivi ambiti lavorativi, di ipotizzare anche un itinerario di
lavoro comune per il prossimo anno scolastico.
La relazione educativa
di Maria Grazia Fertoli
Cos’è l’educazione
L’educazione non è un rapporto tra un’istituzione e un uomo, ma è il rapporto di un uomo che
introduce alla realtà un altro uomo. Educano un genitore, un adulto, un ambito di adulti, anche una
scuola può diventare ambito educativo non in quanto istituzione ma quanto più sa porre le
condizioni affinché un adulto o più adulti che abbiano il desiderio di introdurre un giovane nel
significato della realtà lo possano fare. E un adulto diviene educatore se ha a cuore il suo destino e
il destino di colui che gli è affidato.
E’ quindi innanzitutto scopo di chi educa quello di far crescere i bambini , i ragazzi in quanto
persone. Ma, come ben illustrato dal testo di Giorgio Chiosso, Teorie dell’educazione e della
formazione, Mondadori 2004, non è univoca la percezione che di persona il nostro mondo ha:
“Secondo gli orientamenti prevalenti nell’ambito della cultura dell’empirismo
utilitarista, per esempio, il titolo di persona spetterebbe soltanto a chi è dotato di
un’integrità completa, cioè di quelle caratteristiche che formano la sua identità nella
comunità… la persona non si identifica, dunque, con l’essere umano in sé (come accade,
invece, per la concezione onto-metafisica), ma solo con quell’essere umano che
manifesti alcune capacità convenute a prescindere dalla loro natura ontologica.
(…)Per la fenomenologia strettamente ancorata al piano dell’esistenza, il soggetto
acquista la dignità di persona nella misura in cui si lascia coinvolgere nelle cose e si apre
all’alterità.
(…)Non meno interessanti appaiono gli esiti della psicologia umanistica volti a
ritematizzare il concetto di persona… in questa prospettiva, la persona trova la sua
giustificazione se se ne valorizzano le potenzialità di crescita… E’ il processo
migliorativo che forma la persona, sino all’affermazione del principio di
autorealizzazione sostenuto da Ma slow.
(…) Nella concezione biblica l’uomo è a immagine di Dio, principio e presupposto del
suo divenire partner di Dio nell’alleanza. Non viene mai concepito come una generalità
indistinta o come un concetto universale, ma sempre in termini di persona. Dire che un
uomo è una persona significa dire che nella profondità del suo essere egli è piuttosto un
tutto che una parte, ed è più indipendente che servo” 1 .
La persona, scrive Luigi Giussani, “non ha nulla di paragonabile a sé nell’universo… gode di un
diritto in sé che nessuno può attribuirle o toglierle… ha in sé lo scopo del proprio agire…, è realtà
che è rapporto diretto esclusivo con Dio”.
La persona viene dunque definita non dalla somma delle sue capacità, o competenze, ma dal
rapporto con l’infinito che la costituisce e si realizza nell’amore, “suprema espressione
dell’autocoscienza e dell’autopossesso dell’uomo, cioè della libertà” 2 .
Educare la persona non significa dunque addestrare delle competenze (cosa che normalmente la
scuola si limita a fare), bensì introdurla nel significato di se stessa e dell’esistenza tutta (educazione
come introduzione alla realtà totale), affinché l’umano a immagine del divino che è in lei si compia,
si sviluppi, divenendo lei stessa sempre più consapevole della positività per cui è stata creata, dello
scopo ultimo cui tende, del compito che le è affidato nella vita.
1 G. Chiosso, p. 121. 2 Luigi Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, pp. 104-107.
Ogni persona, quindi ogni bambino, ogni ragazzo proprio per questo ha in sè una prepotente
esigenza di verità: non si accontenta, chiede ragioni e motivazioni, esprime in maniera confusa ciò
che di più vero c’è in ogni uomo, in lui come in noi: una domanda di senso, che nel bambino più
piccolo si pone come curiosità e domanda sul perchè delle cose, nel ragazzo più grande si pone
come la necessità di capire il nesso, il legame di un particolare con il tutto. Nella scuola un
bambino, pur piccolo, deve essere accolto stimato e guidato perchè le sue potenzialità crescano, la
sua ragione si sviluppi, la sua libertà si realizzi. Primo compito della scuola è dunque non tradire
questa esigenza di senso, ma educarla ed accompagnarla dandole corpo e consistenza.
Maestri di realismo e ragionevolezza
Il primo modo che in un rapporto educativo l’adulto ha per non tradire questa esigenza è condurre
il bambino e il ragazzo a conoscere la realtà, lasciandosi provocare da essa alimentando quella
curiosità inscritta nel cuore di ciascuno, che fa domandare il perchè delle cose. E questo realismo
significa anche aiutare i ragazzi ad affrontare la forza d’urto delle cose. Questo realismo, questo
amore per ciò che c’è ci è consegnato dall’intelligenza della tradizione a cui apparteniamo, a partire
dal mondo greco-romano per giungere alla tradizione giudaico-cristiana. Tale amore alla realtà si
esprime come stupore di fronte alla positività e alla forza e alla novità dell’essere contro ogni
tentazione nichilistica e relativista, contro ogni tentativo di problematizzazione innanzitutto.
Ciò richiede un lavoro, metodico e paziente, in netto contrasto con la modalità della conoscenza che
la nostra società, mordi e fuggi propone ai nostri ragazzi.
“Infatti anche l’evidenza più geniale non diviene convinzione se l’io non familiarizza con
l’oggetto, se non si apre con attenzione e con pazienza con l’oggetto, non gli dà il tempo non
convive con esso : cioè non lo ama. ( …) La mentalità moderna insegna ai giovani a
seguire le cose fino a una misura ad essi comunque gradita, e poi basta. Proviamo a
pensare a quanta intensità di solida adesione all’esistenza occorra per seguire tutta la voce
della realtà nel suo richiamo analogico, fino ai valori personali, fino a Dio” 3
In secondo luogo per non tradire questa esigenza di verità bisogna favorire lo sviluppo di ciò che i
ragazzi hanno di più prezioso: la ragione, come capacità di riconoscere e attestare il senso delle
cose. Ciò implica che se vuole educare la ragionevolezza, il primo passo per un maestro è
domandarsi il significato di ciò che propone ai suoi studenti, i quali hanno ragione di annoiarsi se
ciò che viene loro trasmesso, la “tradizione” non è in grado di “illuminare il presente e di aprire il
futuro”. Proprio questo è il compito del maestro:
“L’autentico maestro non può astrarre dalla comunicazione esistenziale. L’educazione
mediante la tradizione diviene qui verifica critica del rapporto tra passato e presente,
verifica in cui il docente è impegnato in prima persona. Il maestro è implicato nei nodi
fondamentali della tradizione, nelle domande e nelle risposte che provengono dal
passato, nella loro corrispondenza o meno alle esigenze fondamentali dell’io. La sua vita
e la sua intelligenza divengono testimonianza della loro attualità, della loro forza
espressiva, della capacità di perforare il destino del tempo. In ciò il maestro diviene
“maestro”, nel dare sostanza e realtà a quelle esigenze costitutive della persona che
muovono, più o meno consapevolmente, anche la vita del discepolo.” 4
Nella relazione educativa è compito dunque dell’adulto educare la ragione come apertura, come
percezione della profondità dell’essere come capacità di cogliere, secondo quanto spiega Giussani
“che ciò che si ha tra mano rimanda ad altro”, come percezione che , secondo quanto afferma
Lewis” Più entri nel cuore delle cose, più grandi diventano”.
3 L.Giussani, Il rischio educativo, S.E.I. 1995, pp.32-33 4 M. Borghesi, Il soggetto assente, Itaca libri 2005, p. 34,35.
In particolare nella scuola, il maestro deve fornire gli strumenti culturali e favorire esperienze
conoscitive per strutturare le categorie logiche e di pensiero che permettono di comprendere la
realtà, di aprirsi ragionevolmente ad essa e di riconoscerla come luogo e contenuto della
conoscenza, come via alla verità. La scuola cioè non si può limitare a fornire indicazioni d’uso,
tecniche di apprendimento e nozioni. Ciò che contraddistingue la scuola da altri ambiti educativi è
che introduce alla grandezza, alla complessità e alla sensatezza della realtà innanzitutto
attraverso il lavoro didattico e disciplinare. Ciò può avvenire solo attraverso un rapporto educativo: il rapporto tra chi è maestro e chi è discepolo E non dobbiamo dimenticare che ogni
disciplina ha una sua valenza educativa e che richiede un apprendimento non dispersivo, ma
ricorsivo, capace di mettere a fuoco i nodi del sapere in un percorso di apprendimento che inizia
già alla scuola elementare. Nella scuola il valore dato alle discipline non è formale ma sostanziale,
pensiamo per esempio al valore dell’insegnamento della lingua e della letteratura nella possibilità di
educare realismo e ragionevolezza (esempi nella scuola elementare e media della grammatica e
della narrativa)o dell’arte per educare la percezione del bello come ordine armonia proporzione,
della matematica e delle scienze per cogliere somiglianze analogie e per insegnare la logica del
pensiero anche come procedimento di passi ordinati, per insegnare a considerare la ragione come
apertura a conoscenze sempre nuove.
Quanto viene proposto agli studenti è sensato e dunque ragionevole se lo aiuta a entrare e divenire
via via sempre più autonomo in una certa disciplina, se gli fornisce quelle categorie indispensabili
per comprendere la tradizione di cui fa parte e il presente in cui vive, se gli dà ulteriori strumenti per
comprendere e conoscere la realtà interrogandola anche attraverso altre discipline, se infine gli
permette di conoscere se stesso, le esigenze da cui è costituito e di imboccare strade per soddisfarle.
Se la ragionevolezza della nostra proposta didattica è la prima condizione per educare la ragione dei
nostri studenti, non possiamo illuderci che ciò basti:
“…per il ridestarsi della coscienza e il formarsi della personalità non è sufficiente la
rivisitazione critica dei contenuti della tradizione. La rinascita dell’io non può essere il
mero risultato di un discorso culturale. Se, come afferma quel grande pedagogista che fu
Eugène Dévaud, l”educazione è lo sviluppo di disposizioni immanenti al soggetto”,
come queste attitudini ed esigenze possono svilupparsi? Mediante una pro-vocazione
esistenziale ed intellettuale dell’educatore.” 5
E’ dunque un dialogo continuo tra maestro e docente che sostiene i passi della ragione della persona
in crescita, un dialogo il cui contenuto è certamente quello didattico, ma che non ha efficacia se non
coinvolge l’interezza delle persone coinvolte, ovverosia se non tiene conto del secondo fattore che
determina l’io: l’affezione.
Conoscenza e benevolenza
“Il contenuto adeguato dell’autocoscienza è la percezione di un’appartenenza”
6 , dice Luigi
Giussani. L’io matura dunque nella coscienza di sé se riconosce di appartenere, e matura nella
capacità di conoscere la realtà nella totalità dei suoi fattori se si sente sostenuto in tale compito. Non
è un compito facile quello di addentrarsi nei meandri della realtà. Cosa dunque può dare la
speranza, può motivare la persona nell’avventura conoscitiva? Qualcuno che scommette su di lei.
E’ appena il caso di accennare a quanto sia gravida di conseguenze nella vita scolastica tale
semplice affermazione. I docenti sanno infatti quanto la fiducia nella capacità euristica ed
espressiva dei loro studenti sia il primo incentivo per i loro progressi scolastici: ad esempio i
progressi nella scrittura di uno studente solitamente sono direttamente proporzionali all’interesse
dell’insegnante e conseguentemente dei compagni per quanto comunicato nei suoi testi (d’altra
parte perché uno dovrebbe affrontare l’immane fatica della scrittura se a nessuno interessa quanto
5 M. Borghesi, p. 61. 6 L.Giussani, Il rischio educativo, SEI 1995, p. 138.
dice!), ma lo stesso si potrebbe dire per la matematica: la risoluzione dei problemi diventa
avvincente se l’insegnante è capace di stupirsi dei procedimenti che l’alunno ha trovato, magari
diversi dai suoi. Dobbiamo seriamente interrogarci su quanto spazio diamo ai tentativi di esprimersi
dei nostri alunni, su quanto consideriamo importante ai fini della scoperta della verità il loro
contributo.
Lo sguardo del maestro che scommette sulla possibilità che il discepolo ha di sviluppare le proprie
dimensioni, di dare il meglio di sé nell’avventura conoscitiva, di apportare un contributo personale
al lavoro che insieme stanno svolgendo, si traduce anche in un modo diverso di valutare. Magistrale
a tale proposito la lezione di Raffaella Manara, Personalizzazione e valutazione nel percorso
formativo 7 , nella quale si riconduce il significato dell’azione valutativa a quello di “giudizio su
quanto avviene nell’esperienza conoscitiva”. Non dunque misurazione autoritaria, bensì critica
autorevole capace di promuovere la crescita con decisione e benevolenza. Valutare dunque, dice la
Manara, significa rilevare i cambiamenti nell’atteggiamento dello studente verso la disciplina, la sua
capacità di agire in essa, la sua elaborazione dei contenuti. Ciò implica uno sguardo magnanimo da
parte dell’adulto, il quale deve tener conto del presente in rapporto al passato e al futuro
dell’apprendimento dello studente: i passi realmente fatti, le potenzialità e i possibili sviluppi. La
magnanimità e la benevolenza, che non hanno nulla a che vedere con la superficialità e
l’approssimazione, si declinano nella quotidianità della vita scolastica.
Questo modo di procedere dell’adulto è in grado di interpellare la libertà dell’alunno.
L’esercizio della libertà
La libertà è un fattore che merita molta attenzione quando si tratta di rapporto educativo, tant’è che
Chiosso lo riconosce come il centro della pedagogia di don Giussani:
“Per Giussani educare è dunque aiutare l’animo dell’uomo a entrare nella totalità della
realtà, accettando la funzione orientatrice di un’autorità (che non opprime, ma che libera
perché fondata sulla parola di Dio) e sperimentando la dimensione del rischio e
l’esercizio della libertà.
… L’educazione si configura perciò sempre come la proposta di una risposta, da vivere
come un evento personale in cui interagiscono affettività, intelligenza, comunione con
gli altri, apertura al trascendente. Detto con le parole di Giussani, l’educazione si compie
quando si manifesta il desiderio di rivivere l’esperienza della persona che si è fatta
carico di te “non per diventare come quella persona nella sua concretezza piena di limiti,
ma come quella persona nel valore a cui si dà (…) E’ il desiderio di partecipare alla vita
di quella persona che ti ha portato qualcosa d’Altro ed è quest’Altro ciò cui aspiri, cui
vuoi aderire”. 8
La nostra azione didattica diviene dunque opera educativa quando è “proposta di una risposta”,
quando pone lo studente nella condizione di aderire liberamente al lavoro
“E questo implica un’accanita esigenza di suscitare la loro consapevolezza e di
provocare la loro iniziativa. Ignoranza e passività sono limiti alla libertà; guai calcolare
su di esse per prendere o tenere la gente! … Perciò guardiamo con molta perplessità ogni
attaccamento puramente tradizionale ed ogni improvvisato entusiasmo. L’ambiente
proprio della libertà è la convinzione, illuminata e volitiva.
Rivolgersi alla libertà altrui, abbiamo detto, significa sollecitare ad una consapevole
iniziativa. Tale iniziativa può essere vissuta in gradazioni indefinite: cioè, la risposta può
essere data in modalità e livelli svariatissimi.
7 in Educazione e istruzione Suggerimenti per una verifica, Milano 2004, CCSL, Pro manuscripto, p. 31-39.
8 G. Chiosso, p. 128.
Sarebbe dimenticare l’essenziale riferimento alla libertà pura il selezionare le persone
partendo dalla pretesa di particolari livelli di risposta. Anche la presenza pura e
semplice può costituire iniziativa di vera risposta”. 9
Tener conto della libertà dello studente nella didattica significa offrirgli le ragioni per un impegno,
convincerlo, cioè legarlo alla sensatezza e alla verità di quanto a lui proposto, renderlo insomma
consapevole e sostenerlo nell’iniziativa personale. Con molta pazienza rispetto al livello della
risposta.
Nel rapporto educativo, soprattutto nella scuola, è indispensabile tenere conto sia della individualità
di ciascun alunno sia del contesto di classe in cui il singolo. La scuola non può essere massificante,
soprattutto tenendo conto della differenza dei tempi di risposta alla proposta che alcuni studenti
hanno rispetto alla media e del delinearsi nell’arco della nostra fascia scolare di sensibili differenze
di capacità, inclinazioni e interessi che non sempre trovano l’ambito adeguato nella classe di
esprimersi e incrementarsi. Ma questa attenzione all’individualità, cioè alla concretezza delle
persone che abbiamo il compito di educare istruendo, non è in contraddizione con la natura
fondamentalmente “corale” della vita scolastica. In tal senso è giusto denunciare il pericolo, insito
nell’estremizzazione dell’idea di personalizzazione , di diventare riduzione della proposta in nome
dell’accanimento affinché tutti raggiungono standard di apprendimento prefissati
La conoscenza infatti è un fenomeno individuale e comunitario al contempo: individuale, perché è
risposta al bisogno più profondo dell’io, quello di scoprire il senso della realtà, la verità;
comunitario perché tale bisogno accomuna tutti gli uomini. E ancora: individuale, perché senza
l’attivarsi del desiderio dell’individuo, con le sue peculiari doti e i suoi limiti, senza il suo agire, la
sua consapevole iniziativa non può avvenire alcuna esperienza conoscitiva, la realtà rimarrebbe
un’alterità muta e insignificante; comunitaria perché l’io necessita di un tu che lo introduca nella
conoscenza della realtà (un maestro) e di compagni che ne sostengano la libertà. In tal senso è
irrinunciabile nella scuola la classe, la “flotta” che accompagna nel viaggio, e, soprattutto nel primo
segmento scolare, quello che si conclude con la secondaria di primo grado, è importante che la
classe abbia una formazione il più possibile stabile, per le evidenti implicazioni affettive che la
stabilità dei rapporti ha sulla formazione di una persona in crescita.
Ma per approfondire l’importanza della coralità occorre sottolinearne due aspetti: l’unicità della
proposta e l’incidenza dell’ambiente sull’autocoscienza del singolo.
Una proposta, diverse risposte
Se la scuola si configura come l’ambito di una proposta educativa formulata da un maestro ad un
ragazzo nell’ambito di un contesto comunitario, non è possibile pensare alla didattica come a una
rincorsa degli interessi dei singoli o a un adeguamento ai limiti di apprendimento di ciascuno. Non è
raro sentire insegnanti liceali che rinunciano alla lettura dei classici della letteratura perché ritenuti
incapaci di interessare gli alunni e pur di far leggere propongono le ultime novità presenti sul
mercato, come se lo scopo fosse leggere di per sé e non incontrare opere che “diano forma a quelle
esigenze eterne dello spirito umano – di verità, felicità, giustizia, amore – che la vita può soddisfare
solo parzialmente” 10
. Certo la grandezza di un maestro consiste proprio nella capacità di
riattualizzare la tradizione, di trovare la strada per far vibrare le corde del cuore dei suoi allievi
nell’incontro con persone, eventi e idee del passato. E’ in tal senso che il maestro deve saper
cogliere l’interesse dell’alunno, o meglio fargli scoprire l’interesse profondo di cui sono segno i
suoi desideri più immediati.
9 L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, SEI 1995, p.7,8. 10
M. Borghesi, p. 31.
Ugualmente insensato risulta ridurre la proposta didattica a obbiettivi minimi per quegli studenti i
cui tempi e le cui potenzialità di apprendimento sono più limitate. Innanzitutto è presuntuoso
decidere quali obbiettivi uno può raggiungere e quali no, soprattutto nella nostra fascia scolare che
assiste a cambiamenti repentini, evoluzioni insospettate, destarsi di nuovi interessi, rivelarsi di doti
nascoste; inoltre è demotivante per lo studente percepire che la scommessa su di lui ha già dei
confini prefissati. Anche chi ha limiti di apprendimento più accentuati di altri ha il diritto di
ricevere una formazione attraverso la proposta di contenuti significativi e culturalmente validi, per
poter sviluppare la sua ragionevolezza, la sua capacità affettiva e la sua libertà. Gli essenziali delle
nostre discipline sono essenziali per tutti: ciò che varia non è la proposta, è la risposta. Così come
tutti, anche i più limitati dal punto di vista cognitivo e relazionale, sono degni di poter contribuire
alla ricerca comune della verità che si svolge nelle ore di lezione. In tal senso occorre essere molto
cauti nel proporre l’attività di sostegno fuori dalla classe durante le ore di lezione, in quanto rischia
di deresponsabilizzare l’insegnante nel rapporto con lo studente e di farlo sentire fuori dal coro. E’
una caratteristica del vero maestro proprio quella di saper diversificare le strade per attivare la
risposta, pur rimanendo fedele all’essenza della proposta:
“Solo la semplicità, infatti ha la duttilità per un riferimento ad ogni singolo. E solo
l’essenzialità ha la capacità di far arrivare allo scopo, eliminando fatiche non necessarie.
La precisione nell’individuare i fattori essenziali dell’esistenza porta:
-ad una forte sottolineatura del loro valore, e quindi a un forte attaccamento ad essi;
-ad una larga comprensione per tutte le posizioni sopraggiunte, ad una capacità di
valorizzare ed abbracciare infinite varietà di traduzione del valore.
C’è un’osservazione a meditare. “Elementare” non vuol dire “generico”, ma piuttosto
preciso negli elementi sostanziali e libero di fronte a qualsiasi traduzione.” 11
Certo, la risposta varia, perché l’iniziativa sollecitata dalla proposta può essere più o meno
consapevole, perché le categorie attraverso cui ogni studente legge la realtà maturano in rapporto
alla sua esperienza esistenziale, anche extra-scolastica; perché lo sviluppo della logica e
dell’espressività ha un corso diverso per ciascuno; perché l’equilibrio tra affezione e ragione non è
così semplice da raggiungere; perché le potenzialità di ciascuno sono differenti, e, perché no, per gli
errori dei docenti nell’individuazione delle strade proposte.
L’incidenza dell’ambiente
Se coralità della didattica vuol dire innanzitutto unicità della proposta, con la necessaria attenzione
all’individualità della mediazione e il dovuto rispetto dell’individualità della risposta, non va
trascurato un altro aspetto che incide fortemente sul percorso formativo del singolo: l’ambiente. E’
risaputo che è proprio nella nostra fascia scolare che il ragazzo inizia il processo di distacco dalla
famiglia, fase inevitabile per la crescita della sua capacità critica e della sua assunzione di
responsabilità nella società. Ed è proprio in questa fase che l’ambiente, soprattutto quello scolastico,
diventa determinante per le scelte di vita del ragazzo, fornendo modelli da seguire, categorie
attraverso cui leggere se stessi e la realtà, atteggiamenti da assumere… Occorre tener presente che
l’ambiente scolastico non è solo ciò che accade durante la lezione, sotto l’occhio vigile del docente,
ma tutta quella trama di rapporti che si instaurano tra compagni, i passatempi che condividono, i
programmi televisivi e i film di cui parlano, i vestiti che indossano. Elementi che, se non
adeguatamente tenuti presenti anche nella proposta didattica, rischiano di essere molto più incisivi
dei nostri pur nobili intenti formativi sulla percezione che il ragazzo matura di se stesso e della
realtà che lo circonda.
Ciò implica, come detto sopra, che il lavoro scolastico sia capace di interloquire, anche se non
necessariamente in modo diretto, con i desideri, gli atteggiamenti diffusi, le dinamiche relazionali
che si instaurano all’interno della classe. Coralità della didattica significa dunque anche capacità di
11
L. Giussani, Il cammino al vero…, pp. 6,7.
impregnare l’ambiente di una mentalità capace di dare significato, di spiegare, di valorizzare e di
correggere ciò che matura nel singolo che ad esso appartiene.
E questo si può fare solo se la coralità è innanzitutto vissuta da tutti coloro che operano in una
classe: è difficile per un singolo insegnante determinare il clima di una classe, se non condivide con
i colleghi i fondamentali dell’offerta formativa, l’unità di un corpo docenti dipende infatti dal
riferirsi a un’unica autorità. Da qui l’esigenza di condividere tra colleghi non solo la scelta dei
contenuti essenziali da proporre, ma anche le modalità di conduzione della lezione, i criteri di
impostazione delle verifiche e della valutazione, gli interventi sul singolo studente in difficoltà, con
l’umiltà necessaria a lasciarsi correggere e la benevolenza nei confronti dei ragazzi, scopo ultimo
del nostro fare scuola, a prescindere dalla quale la correzione tra adulti diverrebbe presunzione.
Per aiutare un lavoro comune che possa proseguire può essere utile cercare di rispondere a queste
domande:
1. Come cerco io, nella mia materia, di fare conoscere, di fare diventare esperienza le cose che
dico, cioè come ciò che insegno incrementa in qualcosa la coscienza che ogni mio alunno ha di
se stesso?
2. In particolare quali contenuti propongo, con quale metodo, come verifico, in modo da garantire
a ciascuno un cammino di apprendimento e di consapevolezza?
3. Nelle diverse discipline, all’interno di un curricolo quali passi aiuto i miei alunni a compiere al
fine di una crescita personale?
Come si struttura tra colleghi dal punto di vista metodologico la comune preoccupazione educativa
per gli alunni di una stessa classe, in quale modo è possibile creare nella scuola un ambito
educativo?
di Giovanna Capolongo
Questa che ci siamo posti è una domanda ad ampio raggio, partirei dicendo che ogni persona, ogni
soggetto si conosce in azione, tanto più un bambino.
Se anteponiamo all’osservazione una teoria, in conclusione cercheremo e troveremo nell’altro una
conferma alla nostra teoria.
Dunque il bambino si conosce osservandolo in azione, nel suo rapportarsi con la realtà e con l’altro.
Perché il bambino impara da ciò che vive.
Un bambino “normale” e un bambino “disturbato” sono due modi di imparare e vivere la realtà, di
imparare e vivere i rapporti.
Un bambino fiducioso, sicuro di sé, comprensivo è un bambino che dentro un rapporto è stato
stimato, apprezzato, incoraggiato, trattato lealmente e con sincerità; un bambino intransigente,
apprensivo, timido, sfiduciato è un bambino che è vissuto nel rimprovero, nell’ostilità, nella
derisione e nel rifiuto.
Il punto di partenza di ogni bambino, cioè di ogni soggetto, è la normalità.
La normalità è quella del soggetto orientato alla soddisfazione, tanto che se vediamo un bambino
che non gioca, pensiamo che non stia bene, che sia malato.
Nessuno nasce disturbato a meno che non ci sia una componente patologica o psichiatrica.
Nella normalità ogni soggetto è orientato alla soddisfazione e questo accade sin dalla nascita:
il neonato orienta la testa verso il seno della madre, verso la soddisfazione; tutto quello che il
soggetto fa, è proprio per rinnovare la soddisfazione.
Le caratteristiche di un soggetto orientato alla soddisfazione sono: l’apertura alla realtà, la curiosità,
la motivazione nell’apprendere dall’altro, nel rapporto con l’altro.
Un bambino nella normalità è orientato a prendere dell’altro, dal rapporto con l’altro.
Un’altra caratteristica del bambino che si muove nella normalità è la capacità di restituire il
beneficio ricevuto dall’altro: può essere un “grazie” da parte del bambino o un “bravo” da parte
dell’insegnante…
La legge del rapporto è contenuta nella frase latina: “Do ut des”, “ Ti do affinché tu mi dia.”
Quando ciò accade nel beneficio, bambino e adulto vivono la soddisfazione nel rapporto.
Quando il bambino restituisce nel rapporto, sta “onorando” l’altro, gli porta onore.
La soddisfazione implica l’apporto di un altro, nessuno incrementa la propria soddisfazione senza
l’altro.
L’intervento di un altro soddisfacente è ciò che rende il bambino “competente”, competente inteso
come “colui che sa pensare” e dunque ci “sa fare”.
Il bambino che sa pensare è perché sa riconoscere gli atti ostili e gli atti appaganti dell’altro.
L’ambito privilegiato in cui è possibile osservare questo è il gioco: luogo facilitante
l’apprendimento.
I bambini pensano e il loro pensiero è compiuto, pensare per un bambino non è sapere, perché il
sapere è successivo implica un lavoro, il lavoro scolastico, le abilità.
Il bambino nasce sano, aperto a ricevere da tutta la realtà, ma diventa intrattabile in seconda battuta.
Diventa intrattabile perché è stato trattato male da un altro per lui significativo.
uno non diventa intrattabile perché una persona per strada lo ha offeso, o uno sconosciuto si è preso
gioco di lui; diventa intrattabile se un genitore, un insegnante lo inganna sistematicamente, mente, a
volte questo accade quando vuole “propiziarsi” la fiducia del bambino.
Cos’è l’intrattabilità? “Non ti voglio, non voglio stare con te”, è una difesa.
Il bambino non sapendo come difendersi diventa intrattabile.
Nel disagio il pensiero del bambino è in crisi, è confuso riguardo al proprio giudizio (non sa più
cosa pensare) e al proprio moto (non sa più come fare).
Quando vi è crisi di pensiero il bambino non ci sa più pensare e dunque non ci sa più fare, cioè non
è in grado di ottenere l’interesse dell’altro. Non è in grado di domandare.
Come è possibile recuperare il bambino ad una normalità, alla normalità?
E’ sufficiente offrire un rapporto sano, il soggetto riconosce l’altro nel beneficio e si allea
immediatamente.
Siamo abituati ad osservare rapporti”malati”: un soggetto che nel rapporto con l’altro si muove per
cambiare l’altro,cambiargli la testa o un soggetto che “fa “ per l’altro, mettendosi al posto dell’altro.
Invece, all’origine di un rapporto sano, buono, non c’è solo un soggetto ed un altro, ma c’è
un’iniziativa da parte del soggetto a muovere l’altro, a suscitare nell’altro un interesse.
questo può voler dire semplicemente fare un gioco insieme, invitarlo a giocare insieme.
Un soggetto che ha questa competenza, è un soggetto che già lavora attorno alla propria
soddisfazione, al proprio interesse, e questo muoverà l’altro.
In molte circostanze il lavoro più impegnativo per un adulto è stare zitto, attendere; è molto più
facile dire,parlare, lavorare, (a volte in eccesso), piuttosto che aspettare l’altro, rispettare i suoi
tempi.
Nel silenzio, nell’aspettare, si dà la possibilità all’altro di prendere iniziativa.
Qual è l’adulto che muove un bambino disturbato?
E’ quell’adulto che si muove attorno ad un proprio interesse, una propria passione; il bambino lo
guarda e gli va dietro: “Voglio farlo anch’io...”
Questo è un lavoro impegnativo che non può essere svolto da soli, il lavoro su di sé richiede la
presenza di un altro.
Un adulto per poter dare ad un bambino deve poter ricevere, come voi ora: prendete per dare.
Occorre avere un luogo dal quale attingere al quale arricchirsi: una fonte.
Solo così è possibile correggersi, capire l’errore.
La correzione dell’errore, cioè giudicare il “perché” non si fa, non “giudicare” e basta.
L’intrattabilità se non viene corretta introduce ad una complicazione che si manifesta nel momento
del passaggio tra la pubertà e la giovinezza.
La fanciullezza si conclude verso i nove anni, poi inizia la giovinezza passando attraverso la
pubertà.
Una tappa certa dello sviluppo è la pubertà dopo di che esplode la giovinezza.
In questo periodo invece molti entrano nella crisi chiamata “adolescenza”.
Cos’è l’adolescenza?
“Quando i nodi vengono al pettine”: il ragazzo diventa oppositivo, non domanda, ma provoca, sfida,
va contro, non incontra, non è curioso ma si muove per dimostrare; per competere e non per
scoprire ciò che lo rende più ricco umanamente.
Questa complicazione segna il suo esordio con la fine della fanciullezza e l’inizio della pubertà:
é il tempo in cui il ragazzo esce dal proprio guscio, si affaccia alla realtà e comincia a dire “io”, si
pone le domande di sempre ma le vuole passare al vaglio della propri esperienza e del suo giudizio.
Vuol verificare, vedere se è vero, tutto , sottopone l’altro al vaglio, lo “prova”.
E’ la crisi.
L’adolescenza non è una tappa obbligata, non bisogna diventare nemici della realtà, per crescere,
ma l’adolescenza è la conseguenza di una complicazione iniziata prima.
Cos’è che introduce all’adolescenza? Parlare per teorie, stare di fronte ad un bambino con un
principio, che non centra niente con il soggetto che lo propone, per cui l’educazione diventa piegare
l’altro ad una teoria.
Successivamente alla pubertà c’è la giovinezza e la giovinezza segna il risolversi della crisi iniziata
con l’adolescenza.
Cosa possiamo fare noi per i ragazzi in difficoltà?
Noi possiamo da subito aiutare i genitori a porsi nel rapporto con i propri figli in modo diverso, con
o una modalità che favorisca il rapporto.
In che modo?
Non traendo delle conclusioni ma sollecitando domande, ad esempio chiedendo: “Come mai?”,
“Come mai suo figlio arriva stanco, è svogliato, disordinato…”
Occorre suscitare una domanda in modo che l’altro possa riflettere, lavorare secondo i propri tempi,
a volte occorrono anni. Ma la domanda rimane e interpella, richiede prima o poi un lavoro.
Non bisogna mai dare una risposta preconfezionata, le teorie, noi siamo infarciti di teorie,
allontanano un soggetto dal proprio benessere, dalla propria salute psichica.
Ciò che favorisce un cammino è una domanda che in quanto tale apre ad un impegno, ad un lavoro.
Quando la lezione insegna a studiare
di Rosario Mazzeo
In diverse interviste rivolte ai ragazzi sulla concezione dello studio, spesso le risposte attribuiscono
allo studio una valenza negativa: “Lo studio è quell’orribile azione che devo compiere tutti i
pomeriggi”, oppure “Studiare è una cosa annoiante, ma purtroppo è un obbligo e quindi ci vuole
volontà”, o ancora “E’ una perdita di tempo”.
La riduzione o la negazione dello studio da parte dei ragazzi è reale e drammatica.
Il risultato è che la maggior parte dei giovani non studia, oppure vive lo studio in modo reattivo o
meccanico.
Difficilmente si incontrano studenti che nell’applicazione allo studio sono attivi, sereni, creativi,
liberi.
Come mai?
Varie e divergenti sono le risposte che ho incontrato tra gli adulti.
Mi sembra importante sottolineare che studio deriva da studium, un termine che indica - in primo
luogo - cura, ardore; secondariamente desiderio, voglia, gusto, amore, passione; infine applicazione
assidua, esercizio.
Le parole desiderio, applicazione, esercizio possono aiutarci a “far” identificare e vivere l’essenza
dello studio, ancor oggi?
Come può e deve la scuola organizzarsi perché un siffatto studio diventi esperienza di tutti i suoi
alunni?
Possiamo provare insieme a introdurci nella dinamica della lezione come apertura al reale
Inserire prima diapositiva
Padri e madri fonte dell’identità e della crescita :
quale collaborazione da parte della scuola? di Rosi Rioli
L’appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme
non è il conforto di un normale voler bene
L’appartenenza è avere gli altri dentro di sé
Giorgio Gaber
La posizione di figlio
Ciò che accomuna l’adulto e il bambino è l’essere nella posizione di “figlio ”. Figlio è colui che
impara da un altro, che riattiva in ogni momento della sua vita la memoria di questa radicale
dipendenza. Occorre reimparare a ricevere.
Erikson afferma che “il bambino apprende ad esistere nello spazio e nel tempo nell’atto stesso in cui
apprende ad esistere organicamente nella forma dello spazio e del tempo proprio della sua cultura e
della tradizione che guida e dota di significato l’attività educatrice dei genitori” 12
Il termine generare rimanda a una dimensione più ampia del termine procreare. Il procreare è un
fato fisico, puntuale nel tempo, la generatività rimanda invece a un processo che si estende negli
anni. La generatività si dispiega nel “prendersi cura”, come suggerisce, in modo affascinante anche
il cammino etimologico che accomuna nella stessa radice generare e generoso: chi genera, chi si
prende cura, è generoso.
Ora fermiamoci e facciamo alcune considerazione educative .
Osservando questo percorso vediamo con chiarezza come la nascita psicologica non coincida con
la nascita fisica. Mentre la seconda è un evento puntuale e preciso nel tempo ( so il giorno e l’ora in
cui sono nato), la nascita psicologica è un processo lento, fatto di andate e ritorni, ed è un processo
che presume una base di sicurezza data da una esperienza di profonda e totale appartenenza: sembra
un paradosso ma per individuarmi devo appartenere, per dire IO occorre un TU a cui rivolgermi.
Il bambino inizia a vivere ospitato in un utero, ma può continuare a vivere solo se questo spazio
che ospita resta, rimane.
Si parla infatti di utero psicologico, di un luogo mentale e affettivo che continua la calda
accoglienza dell’utero. Questo luogo sono la mente e il cuore dei genitori.
Da sempre l’uomo esprime fin dalla nascita questo suo primo bisogno fondamentale, il bisogno di
appartenere, di essere di qualcuno, di abitare dentro l’altro…
L’uomo viene al mondo cominciando ad abitare in un’altra persona.
L’uomo viene al mondo nella sua prima coscienza attraverso l’abitare nella coscienza di qualcun
altro: i genitori prima, gli insegnanti, qualche amico.. ma l’uomo continuamente nella sua vita viene
al mondo andando ad abitare in qualcun altro.
Chi è l’adulto allora? L’adulto è colui che accompagna il bambino in questo percorso, è il luogo in
cui il bambino abita.
Prendersi cura
Il “prendersi cura di” comprendere, sia per il genitore sia per l’insegnante, due aspetti fondamentali:
la risorsa dell’affetto e il rispetto della legge e con esso delle norme; la legge è infatti il principio
regolatore dei comportamenti umani, ciò che dà senso e direzione dell’agire.
L’affetto permette al bambino di assimilare vitalità, calore, fiducia, stima di sé, capacità di
rapporto; la legge –il senso di ciò che è bene e ciò che è male- lo pone di fronte al limite aiutandolo
a riconoscere la realtà esterna, fisica e sociale, con cui deve fare i conti e nella quale deve inserirsi e
dare il suo costruttivo contributo.
La “regola” aiuta chi cresce a distinguere se stesso dagli altri (riconoscendo loro pari diritti), a
contenere i propri istinti distruttivi, in una parola ad educarsi alla reciprocità nelle relazioni. E il
prezioso equilibrio tra aspetti protettivi e aspetti normativi nella relazione tra genitore e bambino
scaturisce dall’ascolto attento delle esigenze, via via sempre diverse, del bambino che cresce.
Questo è quello che la famiglia deve dare e che sola può dare.
Ma il legame va continuamente nutrito altrimenti si impoverisce: la cura del legame è un fatto
molto concreto, non una cosa astratta: si tratta di dare tempo e spazio.
Nella società di oggi si è spezzato il ritmo naturale che collegava il tempo della famiglia con il
tempo della crescita dei bambini. Ci sono dei ritmi di vita che tendono a ‘mangiare’ il tempo della
cura del legame (tv, pc, cd…, cibo, vestiti, sport, ecc…); la fretta e la voracità mal si adattano ad un
bambino di pochi anni.
Nella società i conti non tornano
Con molta acutezza e con molta misericordia è stato sottolineato (e faccio mia la sottolineatura) che
la famiglia, oggi (…) è come una casa, come una stanza continuamente trapassata da fulmini,
tuoni, lampi (…)
Perciò la preoccupazione educativa in una famiglia, oggi, è intelligente ed umana nella misura in
cui si rassegna, se volete, ad uscire da un comodo, anche meritato, per stabilire rapporti che creino
una trama sociale che si opponga alla trama sociale dominante. i
Un’esperienza che non finisce di stupirmi è quella che, come pedagogista, faccio durante i colloqui
con i genitori.
Quasi mai sono io a proporli. Spessissimo me lo chiedono le madri.
La mia funzione prevalente è quella di ascoltare. Le questioni per cui le madri mi chiedono il
colloquio, quasi sempre risultano marginali. C’è un enorme bisogno di ascolto, di parlare di sé come
madre, e, sempre più spesso, di piangere insieme a qualcuno.
In questi casi tocco con mano la verità di quelle parole ed ho la percezione netta che non ci sia più
tempo da perdere.
In una società che si permette di produrre aggeggi che insegnano alle madri a riconoscere il
significato del pianto del figlio, che sforna i più sofisticati eliminatori di rischio, che fa sentire i
genitori degli imbecilli e ignoranti , è davvero il momento dell’alleanza. Ma non un’alleanza
corporativa; un’alleanza profonda sul senso e sul significato del figlio, che è poi un’alleanza sul
significato di sé, perché le domande chi sono?, da dove vengo?, dove vado? non appartengono
all’infanzia, ma alla persona tout court, e la risposta non si può dare se non a partire da sé.
Un Nota bene sulla fase di sviluppo con riferimento alla capacità di dialogo
Ovviamente i soggetti in gioco non sono esclusivamente genitori e insegnanti. Il ragazzo è IL
soggetto, la ragione per cui genitori e insegnanti sono insieme.
Occorre allora anche una sguardo al crescere della capacità dialogica del ragazzo.
J. Dunn (1990) in una sua ricerca longitudinale nelle più consuete situazioni famigliari 13
ha rilevato
che i bambini, anche in età molto precoce sono in grado di partecipare in modo attivo e dinamico
alle dinamiche famigliari, comprendendo i sentimenti degli altri, partecipano alle situazioni di
conflitto, offrono aiuto e collaborazione ora all’uno ora all’altro dei partner implicati dimostrando,
in generale una comprensione degli obiettivi altrui ed una conoscenza intuitiva delle regole sociali.
Questa competenza è a lungo sfuggita ai ricercatori, perché hanno osservato il bambino fuori dal
contesto famigliare, in situazioni più opache, meno interessanti per lui dal punto di vista del proprio
sviluppo conoscitivo, emotivo e sociale.
Lo sviluppo cognitivo è, infatti, uno degli strumenti più potenti che fanno evolvere la persona verso
la posizione adulta del dialogo.
Esso può essere descritto come il processo che porta il pensiero dalla prigionia dell’”hic et nunc” –
vissuta dal bambino nei primi anni di vita alla capacità di “decentrarsi” propria del pensiero astratto
e premessa per una relazione autenticamente dialogica
Parallelamente all’itinerario del pensiero verso il decentramento e la reciprocità, anche dal punto di
vista sociale il bambino lentamente consolida la sua capacità di stabilire scambi col mondo esterno
e con gli altri bambini meno egocentrici e più realistici
All’ingresso della scuola primaria il bambino, in genere, è in grado di stabilire relazioni durevoli di
amicizia e riesce a percepire gli altri bambini come compagni da temere, amare e con cui
competere.
Negli anni della scuola media il ‘gruppo dei pari’ diventa sempre più importante fino a costituire
per l’adolescente il luogo di protezione e di sostegno nel lungo cammino di distacco dalle modalità
infantili di vivere le relazioni, e cioè, in primo luogo, dalla fusione e dalla dipendenza.
Inizialmente, però, lo stesso rapporto col gruppo viene vissuto secondo una ‘dipendenza
ambivalente’.
Così l’adolescente presenta grande instabilità nei confronti di amicizie, scelte e gruppi, per cui
passerà più volte da una totale identificazione-fusione con persone, attività o gruppi, ad un
abbandono improvviso di tale identificazione con una sconcertante discontinuità di esperienza.
Spesso l’adolescente non riesce a tenere uniti e separati l’io e il tu, in modo che si formi il noi, sia
con gli adulti che con i coetanei.
Che fare?
E’ in questa fase dello sviluppo (fanciullezza, preadolescenza, adolescenza) che i rapporti tra
insegnanti e genitori si fanno più complessi: evidente conseguenza della complessità dello sviluppo.
Molto spesso le questioni si pongono, in prima battuta come questioni di governance.
“Che cosa devo fare con mio figlio? Come devo comportarmi?”
Si è quasi sorpresi, ci si sente ‘colpiti a tradimento’ da un figlio o da un alunno che si pensava
diverso e che invece ha l’ardire di presentarsi quale egli é.
In realtà la psicologia non ci fornisce un’ idea troppo ottimistica di sviluppo, come qualcosa di
graduale, sicuro e progressivo. Niente di più falso che il crescere dell’età e il passare del tempo sia
un automatico progresso. La crescita è un processo essenzialmente dinamico e acquisire la buona
13
J. Dunn La nascita della competenza sociale – Ed Boringhieri
qualità in alcune relazioni non preserva da fallimenti in altre o dal deterioramento successivo di
relazioni inizialmente buone.
Se questa è la fase evolutiva, gli adulti devono compiere un lavoro importante di discernimento
sulla presenza dei ‘pilastri’ che possono contenere un processo turbolento.
a) La cura del dialogo
Dialogare con l’altro significa anche svincolarsi dalla propria posizione nello spazio e nel tempo e
dalle proprie coordinate soggettive e culturali, per sperimentare altri punti di vista.
‘Svincolarsi’ non significa abbandonare, ma non ergere a vincolo nel rapporto ciò di cui si è
convinti.
In realtà solo chi è molto sicuro di ciò che pensa, perché ha molto riflettuto sulle proprie
convinzioni e le a messe alla prova, riesce in questa operazione
Occorre rendersi conto che questo è un dialogo tra generazioni che ha il compito di consegnare,
perché venga elaborato, il patrimonio ereditario della tradizione personale, famigliare, sociale.
b)Il rapporto con la propria tradizione
La parola cruciale è elaborazione.
L’elaborazione della tradizione richiede uno spazio per poterla assumere in termini propri,
introducendo le novità di cui i ragazzo stesso (e più in generale le nuove generazioni) sono
portatrici.
Da parte del giovane si tratta di un processo di critica nel senso profondo del termine, di vaglio, di
esame, di assunzione di alcune parti , di rifiuto di altre.
L’adulto può favorire questo processo se è capace di attenzione e di rispetto e se si sa porre in una
posizione di autentico dialogo.
Occorre ri-conoscere (conoscere di nuovo e insieme) ciò che è vero per l’adulto.
Dai ragazzi (anche e soprattutto da quelli in difficoltà) viene l’appello ad una società adulta che
non disattenda il compito fondamentale della crescita individuale, famigliare e sociale, cioè il
consolidarsi di relazioni improntate alla fiducia. Ma ciò richiede che, almeno a tratti, l’adulto
sappia abbandonare il percorso mortifero del controllo delle relazioni e riesca a lasciarsi
_________________________________
pro manuscripto
in collaborazione con
per docenti di scuola primaria e secondaria di I grado
Comune
di Zona 9
INTRODUZIONE A gennaio dello scorso anno alcuni insegnanti della scuola primaria e secondaria di
primo grado, operanti in diverse scuole della Zona 9 hanno cominciato a ritrovarsi
sollecitati dalla lettura dell’ “Appello all’educazione”,del nel quale si evidenziava la
crisi degli adulti nell’ educare i propri figli, sull’onda di un’accezione di libertà come
assenza di legami e di storia, di possibilità di crescere senza appartenere a niente e a
nessuno seguendo semplicemente il proprio istinto, il proprio gusto e il proprio
piacere;
Abbiamo voluto riflettere insieme sulla questione educativa che appariva a tutti come
esigenza impellente sia a livello scolastico sia a livello familiare.
Dopo la visione del film: “ Les choristes” del regista francese Barratier sul tema
dell’autorevolezza e della stima allievo-insegnante e un incontro di comunicazione di
situazioni problematiche e di difficoltà quotidiane nella conduzione del compito
educativo; abbiamo deciso di impostare un lavoro sistematico sul tema del ruolo della
relazione educativa nell’ambito dell’insegnamento.
Ci siamo rivolti quindi all’associazione DIESSE LOMBARDIA per verificare
l’ipotesi di un corso di aggiornamento per l’anno scolastico a venire.
Ottenuta anche l’approvazione e il supporto economico del C.d.Z 9, il corso
EDUCARE INSEGNANDO ha avuto luogo con il seguente calendario
La relazione educativa
Come conoscere il bambino Dott.ssa Giovanna Capolongo, psicologa
Giovedì 8 marzo 2007 orario 17-19
Quando la lezione apre al reale Prof. Rosario Mazzeo, dirigente scolastico
Giovedì 15 marzo 2007 orario 17-19
Padri e madri fonte dell’identità e della crescita: quale collaborazione da parte della scuola? Dott.ssa Rosi Rioli, formatore
Giovedì 22 marzo 2007 orario 17-19
La sede del corso è stata la scuola media “Falcone-Borsellino” viale Sarca,24
IL filo conduttore degli incontri è stato il tema della relazione educativa che si snoda
nell’ambito scolastico tenendo conto delle figure dell’adulto, del bambino e della
famiglia.
Gli interventi sono stati impostati sulla considerazione di alcune domande:
- qual è il compito e il ruolo dell’autorità nel rapporto educativo?
- Educare vuol dire solo trasmettere dei saperi e sviluppare delle abilità
sempre più numerose e specifiche?
- Perché allora percepiamo un disagio nei bambini?
- Che cosa manca?
- Come rispondere alla domanda di educazione che la famiglia
continuamente pone alla scuola, riconoscendo le proprie difficoltà in
merito?
L’incontro con i relatori ha suscitato molto interesse, curiosità e desiderio di
approfondire gli argomenti trattati.
Le lezioni, puntuali e significative, hanno risposto ampiamente alle richieste e molte
sono state le domande e le esperienze comunicate.
Tutto ciò ci è parso un segno evidente del bisogno di esprimere e condividere il
nostro lavoro di insegnanti ed educatori.
Nelle nostre scuole, in cui la progettualità, l’organizzazione, la burocrazia sembrano
aver relegato in secondo piano l’attenzione alla persona, alla domanda di significato e
di contenuto della realtà, risulta sempre più evidente la necessità di un confronto, di
un sostegno reciproco, di un lavoro che abbia un respiro più ampio, che superando
l’ambito di ogni singola scuola, offra la possibilità di condividere e verificare le
ragioni e i contenuti dell’educazione e della didattica.
Il corso è stato per noi l’occasione, oltre che, come già detto, di raccontarci le
esperienze vissute nei rispettivi ambiti lavorativi, di ipotizzare anche un itinerario di
lavoro comune per il prossimo anno scolastico.
La relazione educativa
di Maria Grazia Fertoli
Cos’è l’educazione
L’educazione non è un rapporto tra un’istituzione e un uomo, ma è il rapporto di un uomo che
introduce alla realtà un altro uomo. Educano un genitore, un adulto, un ambito di adulti, anche una
scuola può diventare ambito educativo non in quanto istituzione ma quanto più sa porre le
condizioni affinché un adulto o più adulti che abbiano il desiderio di introdurre un giovane nel
significato della realtà lo possano fare. E un adulto diviene educatore se ha a cuore il suo destino e
il destino di colui che gli è affidato.
E’ quindi innanzitutto scopo di chi educa quello di far crescere i bambini , i ragazzi in quanto
persone. Ma, come ben illustrato dal testo di Giorgio Chiosso, Teorie dell’educazione e della
formazione, Mondadori 2004, non è univoca la percezione che di persona il nostro mondo ha:
“Secondo gli orientamenti prevalenti nell’ambito della cultura dell’empirismo
utilitarista, per esempio, il titolo di persona spetterebbe soltanto a chi è dotato di
un’integrità completa, cioè di quelle caratteristiche che formano la sua identità nella
comunità… la persona non si identifica, dunque, con l’essere umano in sé (come accade,
invece, per la concezione onto-metafisica), ma solo con quell’essere umano che
manifesti alcune capacità convenute a prescindere dalla loro natura ontologica.
(…)Per la fenomenologia strettamente ancorata al piano dell’esistenza, il soggetto
acquista la dignità di persona nella misura in cui si lascia coinvolgere nelle cose e si apre
all’alterità.
(…)Non meno interessanti appaiono gli esiti della psicologia umanistica volti a
ritematizzare il concetto di persona… in questa prospettiva, la persona trova la sua
giustificazione se se ne valorizzano le potenzialità di crescita… E’ il processo
migliorativo che forma la persona, sino all’affermazione del principio di
autorealizzazione sostenuto da Ma slow.
(…) Nella concezione biblica l’uomo è a immagine di Dio, principio e presupposto del
suo divenire partner di Dio nell’alleanza. Non viene mai concepito come una generalità
indistinta o come un concetto universale, ma sempre in termini di persona. Dire che un
uomo è una persona significa dire che nella profondità del suo essere egli è piuttosto un
tutto che una parte, ed è più indipendente che servo” 1 .
La persona, scrive Luigi Giussani, “non ha nulla di paragonabile a sé nell’universo… gode di un
diritto in sé che nessuno può attribuirle o toglierle… ha in sé lo scopo del proprio agire…, è realtà
che è rapporto diretto esclusivo con Dio”.
La persona viene dunque definita non dalla somma delle sue capacità, o competenze, ma dal
rapporto con l’infinito che la costituisce e si realizza nell’amore, “suprema espressione
dell’autocoscienza e dell’autopossesso dell’uomo, cioè della libertà” 2 .
Educare la persona non significa dunque addestrare delle competenze (cosa che normalmente la
scuola si limita a fare), bensì introdurla nel significato di se stessa e dell’esistenza tutta (educazione
come introduzione alla realtà totale), affinché l’umano a immagine del divino che è in lei si compia,
si sviluppi, divenendo lei stessa sempre più consapevole della positività per cui è stata creata, dello
scopo ultimo cui tende, del compito che le è affidato nella vita.
1 G. Chiosso, p. 121. 2 Luigi Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, pp. 104-107.
Ogni persona, quindi ogni bambino, ogni ragazzo proprio per questo ha in sè una prepotente
esigenza di verità: non si accontenta, chiede ragioni e motivazioni, esprime in maniera confusa ciò
che di più vero c’è in ogni uomo, in lui come in noi: una domanda di senso, che nel bambino più
piccolo si pone come curiosità e domanda sul perchè delle cose, nel ragazzo più grande si pone
come la necessità di capire il nesso, il legame di un particolare con il tutto. Nella scuola un
bambino, pur piccolo, deve essere accolto stimato e guidato perchè le sue potenzialità crescano, la
sua ragione si sviluppi, la sua libertà si realizzi. Primo compito della scuola è dunque non tradire
questa esigenza di senso, ma educarla ed accompagnarla dandole corpo e consistenza.
Maestri di realismo e ragionevolezza
Il primo modo che in un rapporto educativo l’adulto ha per non tradire questa esigenza è condurre
il bambino e il ragazzo a conoscere la realtà, lasciandosi provocare da essa alimentando quella
curiosità inscritta nel cuore di ciascuno, che fa domandare il perchè delle cose. E questo realismo
significa anche aiutare i ragazzi ad affrontare la forza d’urto delle cose. Questo realismo, questo
amore per ciò che c’è ci è consegnato dall’intelligenza della tradizione a cui apparteniamo, a partire
dal mondo greco-romano per giungere alla tradizione giudaico-cristiana. Tale amore alla realtà si
esprime come stupore di fronte alla positività e alla forza e alla novità dell’essere contro ogni
tentazione nichilistica e relativista, contro ogni tentativo di problematizzazione innanzitutto.
Ciò richiede un lavoro, metodico e paziente, in netto contrasto con la modalità della conoscenza che
la nostra società, mordi e fuggi propone ai nostri ragazzi.
“Infatti anche l’evidenza più geniale non diviene convinzione se l’io non familiarizza con
l’oggetto, se non si apre con attenzione e con pazienza con l’oggetto, non gli dà il tempo non
convive con esso : cioè non lo ama. ( …) La mentalità moderna insegna ai giovani a
seguire le cose fino a una misura ad essi comunque gradita, e poi basta. Proviamo a
pensare a quanta intensità di solida adesione all’esistenza occorra per seguire tutta la voce
della realtà nel suo richiamo analogico, fino ai valori personali, fino a Dio” 3
In secondo luogo per non tradire questa esigenza di verità bisogna favorire lo sviluppo di ciò che i
ragazzi hanno di più prezioso: la ragione, come capacità di riconoscere e attestare il senso delle
cose. Ciò implica che se vuole educare la ragionevolezza, il primo passo per un maestro è
domandarsi il significato di ciò che propone ai suoi studenti, i quali hanno ragione di annoiarsi se
ciò che viene loro trasmesso, la “tradizione” non è in grado di “illuminare il presente e di aprire il
futuro”. Proprio questo è il compito del maestro:
“L’autentico maestro non può astrarre dalla comunicazione esistenziale. L’educazione
mediante la tradizione diviene qui verifica critica del rapporto tra passato e presente,
verifica in cui il docente è impegnato in prima persona. Il maestro è implicato nei nodi
fondamentali della tradizione, nelle domande e nelle risposte che provengono dal
passato, nella loro corrispondenza o meno alle esigenze fondamentali dell’io. La sua vita
e la sua intelligenza divengono testimonianza della loro attualità, della loro forza
espressiva, della capacità di perforare il destino del tempo. In ciò il maestro diviene
“maestro”, nel dare sostanza e realtà a quelle esigenze costitutive della persona che
muovono, più o meno consapevolmente, anche la vita del discepolo.” 4
Nella relazione educativa è compito dunque dell’adulto educare la ragione come apertura, come
percezione della profondità dell’essere come capacità di cogliere, secondo quanto spiega Giussani
“che ciò che si ha tra mano rimanda ad altro”, come percezione che , secondo quanto afferma
Lewis” Più entri nel cuore delle cose, più grandi diventano”.
3 L.Giussani, Il rischio educativo, S.E.I. 1995, pp.32-33 4 M. Borghesi, Il soggetto assente, Itaca libri 2005, p. 34,35.
In particolare nella scuola, il maestro deve fornire gli strumenti culturali e favorire esperienze
conoscitive per strutturare le categorie logiche e di pensiero che permettono di comprendere la
realtà, di aprirsi ragionevolmente ad essa e di riconoscerla come luogo e contenuto della
conoscenza, come via alla verità. La scuola cioè non si può limitare a fornire indicazioni d’uso,
tecniche di apprendimento e nozioni. Ciò che contraddistingue la scuola da altri ambiti educativi è
che introduce alla grandezza, alla complessità e alla sensatezza della realtà innanzitutto
attraverso il lavoro didattico e disciplinare. Ciò può avvenire solo attraverso un rapporto educativo: il rapporto tra chi è maestro e chi è discepolo E non dobbiamo dimenticare che ogni
disciplina ha una sua valenza educativa e che richiede un apprendimento non dispersivo, ma
ricorsivo, capace di mettere a fuoco i nodi del sapere in un percorso di apprendimento che inizia
già alla scuola elementare. Nella scuola il valore dato alle discipline non è formale ma sostanziale,
pensiamo per esempio al valore dell’insegnamento della lingua e della letteratura nella possibilità di
educare realismo e ragionevolezza (esempi nella scuola elementare e media della grammatica e
della narrativa)o dell’arte per educare la percezione del bello come ordine armonia proporzione,
della matematica e delle scienze per cogliere somiglianze analogie e per insegnare la logica del
pensiero anche come procedimento di passi ordinati, per insegnare a considerare la ragione come
apertura a conoscenze sempre nuove.
Quanto viene proposto agli studenti è sensato e dunque ragionevole se lo aiuta a entrare e divenire
via via sempre più autonomo in una certa disciplina, se gli fornisce quelle categorie indispensabili
per comprendere la tradizione di cui fa parte e il presente in cui vive, se gli dà ulteriori strumenti per
comprendere e conoscere la realtà interrogandola anche attraverso altre discipline, se infine gli
permette di conoscere se stesso, le esigenze da cui è costituito e di imboccare strade per soddisfarle.
Se la ragionevolezza della nostra proposta didattica è la prima condizione per educare la ragione dei
nostri studenti, non possiamo illuderci che ciò basti:
“…per il ridestarsi della coscienza e il formarsi della personalità non è sufficiente la
rivisitazione critica dei contenuti della tradizione. La rinascita dell’io non può essere il
mero risultato di un discorso culturale. Se, come afferma quel grande pedagogista che fu
Eugène Dévaud, l”educazione è lo sviluppo di disposizioni immanenti al soggetto”,
come queste attitudini ed esigenze possono svilupparsi? Mediante una pro-vocazione
esistenziale ed intellettuale dell’educatore.” 5
E’ dunque un dialogo continuo tra maestro e docente che sostiene i passi della ragione della persona
in crescita, un dialogo il cui contenuto è certamente quello didattico, ma che non ha efficacia se non
coinvolge l’interezza delle persone coinvolte, ovverosia se non tiene conto del secondo fattore che
determina l’io: l’affezione.
Conoscenza e benevolenza
“Il contenuto adeguato dell’autocoscienza è la percezione di un’appartenenza”
6 , dice Luigi
Giussani. L’io matura dunque nella coscienza di sé se riconosce di appartenere, e matura nella
capacità di conoscere la realtà nella totalità dei suoi fattori se si sente sostenuto in tale compito. Non
è un compito facile quello di addentrarsi nei meandri della realtà. Cosa dunque può dare la
speranza, può motivare la persona nell’avventura conoscitiva? Qualcuno che scommette su di lei.
E’ appena il caso di accennare a quanto sia gravida di conseguenze nella vita scolastica tale
semplice affermazione. I docenti sanno infatti quanto la fiducia nella capacità euristica ed
espressiva dei loro studenti sia il primo incentivo per i loro progressi scolastici: ad esempio i
progressi nella scrittura di uno studente solitamente sono direttamente proporzionali all’interesse
dell’insegnante e conseguentemente dei compagni per quanto comunicato nei suoi testi (d’altra
parte perché uno dovrebbe affrontare l’immane fatica della scrittura se a nessuno interessa quanto
5 M. Borghesi, p. 61. 6 L.Giussani, Il rischio educativo, SEI 1995, p. 138.
dice!), ma lo stesso si potrebbe dire per la matematica: la risoluzione dei problemi diventa
avvincente se l’insegnante è capace di stupirsi dei procedimenti che l’alunno ha trovato, magari
diversi dai suoi. Dobbiamo seriamente interrogarci su quanto spazio diamo ai tentativi di esprimersi
dei nostri alunni, su quanto consideriamo importante ai fini della scoperta della verità il loro
contributo.
Lo sguardo del maestro che scommette sulla possibilità che il discepolo ha di sviluppare le proprie
dimensioni, di dare il meglio di sé nell’avventura conoscitiva, di apportare un contributo personale
al lavoro che insieme stanno svolgendo, si traduce anche in un modo diverso di valutare. Magistrale
a tale proposito la lezione di Raffaella Manara, Personalizzazione e valutazione nel percorso
formativo 7 , nella quale si riconduce il significato dell’azione valutativa a quello di “giudizio su
quanto avviene nell’esperienza conoscitiva”. Non dunque misurazione autoritaria, bensì critica
autorevole capace di promuovere la crescita con decisione e benevolenza. Valutare dunque, dice la
Manara, significa rilevare i cambiamenti nell’atteggiamento dello studente verso la disciplina, la sua
capacità di agire in essa, la sua elaborazione dei contenuti. Ciò implica uno sguardo magnanimo da
parte dell’adulto, il quale deve tener conto del presente in rapporto al passato e al futuro
dell’apprendimento dello studente: i passi realmente fatti, le potenzialità e i possibili sviluppi. La
magnanimità e la benevolenza, che non hanno nulla a che vedere con la superficialità e
l’approssimazione, si declinano nella quotidianità della vita scolastica.
Questo modo di procedere dell’adulto è in grado di interpellare la libertà dell’alunno.
L’esercizio della libertà
La libertà è un fattore che merita molta attenzione quando si tratta di rapporto educativo, tant’è che
Chiosso lo riconosce come il centro della pedagogia di don Giussani:
“Per Giussani educare è dunque aiutare l’animo dell’uomo a entrare nella totalità della
realtà, accettando la funzione orientatrice di un’autorità (che non opprime, ma che libera
perché fondata sulla parola di Dio) e sperimentando la dimensione del rischio e
l’esercizio della libertà.
… L’educazione si configura perciò sempre come la proposta di una risposta, da vivere
come un evento personale in cui interagiscono affettività, intelligenza, comunione con
gli altri, apertura al trascendente. Detto con le parole di Giussani, l’educazione si compie
quando si manifesta il desiderio di rivivere l’esperienza della persona che si è fatta
carico di te “non per diventare come quella persona nella sua concretezza piena di limiti,
ma come quella persona nel valore a cui si dà (…) E’ il desiderio di partecipare alla vita
di quella persona che ti ha portato qualcosa d’Altro ed è quest’Altro ciò cui aspiri, cui
vuoi aderire”. 8
La nostra azione didattica diviene dunque opera educativa quando è “proposta di una risposta”,
quando pone lo studente nella condizione di aderire liberamente al lavoro
“E questo implica un’accanita esigenza di suscitare la loro consapevolezza e di
provocare la loro iniziativa. Ignoranza e passività sono limiti alla libertà; guai calcolare
su di esse per prendere o tenere la gente! … Perciò guardiamo con molta perplessità ogni
attaccamento puramente tradizionale ed ogni improvvisato entusiasmo. L’ambiente
proprio della libertà è la convinzione, illuminata e volitiva.
Rivolgersi alla libertà altrui, abbiamo detto, significa sollecitare ad una consapevole
iniziativa. Tale iniziativa può essere vissuta in gradazioni indefinite: cioè, la risposta può
essere data in modalità e livelli svariatissimi.
7 in Educazione e istruzione Suggerimenti per una verifica, Milano 2004, CCSL, Pro manuscripto, p. 31-39.
8 G. Chiosso, p. 128.
Sarebbe dimenticare l’essenziale riferimento alla libertà pura il selezionare le persone
partendo dalla pretesa di particolari livelli di risposta. Anche la presenza pura e
semplice può costituire iniziativa di vera risposta”. 9
Tener conto della libertà dello studente nella didattica significa offrirgli le ragioni per un impegno,
convincerlo, cioè legarlo alla sensatezza e alla verità di quanto a lui proposto, renderlo insomma
consapevole e sostenerlo nell’iniziativa personale. Con molta pazienza rispetto al livello della
risposta.
Nel rapporto educativo, soprattutto nella scuola, è indispensabile tenere conto sia della individualità
di ciascun alunno sia del contesto di classe in cui il singolo. La scuola non può essere massificante,
soprattutto tenendo conto della differenza dei tempi di risposta alla proposta che alcuni studenti
hanno rispetto alla media e del delinearsi nell’arco della nostra fascia scolare di sensibili differenze
di capacità, inclinazioni e interessi che non sempre trovano l’ambito adeguato nella classe di
esprimersi e incrementarsi. Ma questa attenzione all’individualità, cioè alla concretezza delle
persone che abbiamo il compito di educare istruendo, non è in contraddizione con la natura
fondamentalmente “corale” della vita scolastica. In tal senso è giusto denunciare il pericolo, insito
nell’estremizzazione dell’idea di personalizzazione , di diventare riduzione della proposta in nome
dell’accanimento affinché tutti raggiungono standard di apprendimento prefissati
La conoscenza infatti è un fenomeno individuale e comunitario al contempo: individuale, perché è
risposta al bisogno più profondo dell’io, quello di scoprire il senso della realtà, la verità;
comunitario perché tale bisogno accomuna tutti gli uomini. E ancora: individuale, perché senza
l’attivarsi del desiderio dell’individuo, con le sue peculiari doti e i suoi limiti, senza il suo agire, la
sua consapevole iniziativa non può avvenire alcuna esperienza conoscitiva, la realtà rimarrebbe
un’alterità muta e insignificante; comunitaria perché l’io necessita di un tu che lo introduca nella
conoscenza della realtà (un maestro) e di compagni che ne sostengano la libertà. In tal senso è
irrinunciabile nella scuola la classe, la “flotta” che accompagna nel viaggio, e, soprattutto nel primo
segmento scolare, quello che si conclude con la secondaria di primo grado, è importante che la
classe abbia una formazione il più possibile stabile, per le evidenti implicazioni affettive che la
stabilità dei rapporti ha sulla formazione di una persona in crescita.
Ma per approfondire l’importanza della coralità occorre sottolinearne due aspetti: l’unicità della
proposta e l’incidenza dell’ambiente sull’autocoscienza del singolo.
Una proposta, diverse risposte
Se la scuola si configura come l’ambito di una proposta educativa formulata da un maestro ad un
ragazzo nell’ambito di un contesto comunitario, non è possibile pensare alla didattica come a una
rincorsa degli interessi dei singoli o a un adeguamento ai limiti di apprendimento di ciascuno. Non è
raro sentire insegnanti liceali che rinunciano alla lettura dei classici della letteratura perché ritenuti
incapaci di interessare gli alunni e pur di far leggere propongono le ultime novità presenti sul
mercato, come se lo scopo fosse leggere di per sé e non incontrare opere che “diano forma a quelle
esigenze eterne dello spirito umano – di verità, felicità, giustizia, amore – che la vita può soddisfare
solo parzialmente” 10
. Certo la grandezza di un maestro consiste proprio nella capacità di
riattualizzare la tradizione, di trovare la strada per far vibrare le corde del cuore dei suoi allievi
nell’incontro con persone, eventi e idee del passato. E’ in tal senso che il maestro deve saper
cogliere l’interesse dell’alunno, o meglio fargli scoprire l’interesse profondo di cui sono segno i
suoi desideri più immediati.
9 L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, SEI 1995, p.7,8. 10
M. Borghesi, p. 31.
Ugualmente insensato risulta ridurre la proposta didattica a obbiettivi minimi per quegli studenti i
cui tempi e le cui potenzialità di apprendimento sono più limitate. Innanzitutto è presuntuoso
decidere quali obbiettivi uno può raggiungere e quali no, soprattutto nella nostra fascia scolare che
assiste a cambiamenti repentini, evoluzioni insospettate, destarsi di nuovi interessi, rivelarsi di doti
nascoste; inoltre è demotivante per lo studente percepire che la scommessa su di lui ha già dei
confini prefissati. Anche chi ha limiti di apprendimento più accentuati di altri ha il diritto di
ricevere una formazione attraverso la proposta di contenuti significativi e culturalmente validi, per
poter sviluppare la sua ragionevolezza, la sua capacità affettiva e la sua libertà. Gli essenziali delle
nostre discipline sono essenziali per tutti: ciò che varia non è la proposta, è la risposta. Così come
tutti, anche i più limitati dal punto di vista cognitivo e relazionale, sono degni di poter contribuire
alla ricerca comune della verità che si svolge nelle ore di lezione. In tal senso occorre essere molto
cauti nel proporre l’attività di sostegno fuori dalla classe durante le ore di lezione, in quanto rischia
di deresponsabilizzare l’insegnante nel rapporto con lo studente e di farlo sentire fuori dal coro. E’
una caratteristica del vero maestro proprio quella di saper diversificare le strade per attivare la
risposta, pur rimanendo fedele all’essenza della proposta:
“Solo la semplicità, infatti ha la duttilità per un riferimento ad ogni singolo. E solo
l’essenzialità ha la capacità di far arrivare allo scopo, eliminando fatiche non necessarie.
La precisione nell’individuare i fattori essenziali dell’esistenza porta:
-ad una forte sottolineatura del loro valore, e quindi a un forte attaccamento ad essi;
-ad una larga comprensione per tutte le posizioni sopraggiunte, ad una capacità di
valorizzare ed abbracciare infinite varietà di traduzione del valore.
C’è un’osservazione a meditare. “Elementare” non vuol dire “generico”, ma piuttosto
preciso negli elementi sostanziali e libero di fronte a qualsiasi traduzione.” 11
Certo, la risposta varia, perché l’iniziativa sollecitata dalla proposta può essere più o meno
consapevole, perché le categorie attraverso cui ogni studente legge la realtà maturano in rapporto
alla sua esperienza esistenziale, anche extra-scolastica; perché lo sviluppo della logica e
dell’espressività ha un corso diverso per ciascuno; perché l’equilibrio tra affezione e ragione non è
così semplice da raggiungere; perché le potenzialità di ciascuno sono differenti, e, perché no, per gli
errori dei docenti nell’individuazione delle strade proposte.
L’incidenza dell’ambiente
Se coralità della didattica vuol dire innanzitutto unicità della proposta, con la necessaria attenzione
all’individualità della mediazione e il dovuto rispetto dell’individualità della risposta, non va
trascurato un altro aspetto che incide fortemente sul percorso formativo del singolo: l’ambiente. E’
risaputo che è proprio nella nostra fascia scolare che il ragazzo inizia il processo di distacco dalla
famiglia, fase inevitabile per la crescita della sua capacità critica e della sua assunzione di
responsabilità nella società. Ed è proprio in questa fase che l’ambiente, soprattutto quello scolastico,
diventa determinante per le scelte di vita del ragazzo, fornendo modelli da seguire, categorie
attraverso cui leggere se stessi e la realtà, atteggiamenti da assumere… Occorre tener presente che
l’ambiente scolastico non è solo ciò che accade durante la lezione, sotto l’occhio vigile del docente,
ma tutta quella trama di rapporti che si instaurano tra compagni, i passatempi che condividono, i
programmi televisivi e i film di cui parlano, i vestiti che indossano. Elementi che, se non
adeguatamente tenuti presenti anche nella proposta didattica, rischiano di essere molto più incisivi
dei nostri pur nobili intenti formativi sulla percezione che il ragazzo matura di se stesso e della
realtà che lo circonda.
Ciò implica, come detto sopra, che il lavoro scolastico sia capace di interloquire, anche se non
necessariamente in modo diretto, con i desideri, gli atteggiamenti diffusi, le dinamiche relazionali
che si instaurano all’interno della classe. Coralità della didattica significa dunque anche capacità di
11
L. Giussani, Il cammino al vero…, pp. 6,7.
impregnare l’ambiente di una mentalità capace di dare significato, di spiegare, di valorizzare e di
correggere ciò che matura nel singolo che ad esso appartiene.
E questo si può fare solo se la coralità è innanzitutto vissuta da tutti coloro che operano in una
classe: è difficile per un singolo insegnante determinare il clima di una classe, se non condivide con
i colleghi i fondamentali dell’offerta formativa, l’unità di un corpo docenti dipende infatti dal
riferirsi a un’unica autorità. Da qui l’esigenza di condividere tra colleghi non solo la scelta dei
contenuti essenziali da proporre, ma anche le modalità di conduzione della lezione, i criteri di
impostazione delle verifiche e della valutazione, gli interventi sul singolo studente in difficoltà, con
l’umiltà necessaria a lasciarsi correggere e la benevolenza nei confronti dei ragazzi, scopo ultimo
del nostro fare scuola, a prescindere dalla quale la correzione tra adulti diverrebbe presunzione.
Per aiutare un lavoro comune che possa proseguire può essere utile cercare di rispondere a queste
domande:
1. Come cerco io, nella mia materia, di fare conoscere, di fare diventare esperienza le cose che
dico, cioè come ciò che insegno incrementa in qualcosa la coscienza che ogni mio alunno ha di
se stesso?
2. In particolare quali contenuti propongo, con quale metodo, come verifico, in modo da garantire
a ciascuno un cammino di apprendimento e di consapevolezza?
3. Nelle diverse discipline, all’interno di un curricolo quali passi aiuto i miei alunni a compiere al
fine di una crescita personale?
Come si struttura tra colleghi dal punto di vista metodologico la comune preoccupazione educativa
per gli alunni di una stessa classe, in quale modo è possibile creare nella scuola un ambito
educativo?
di Giovanna Capolongo
Questa che ci siamo posti è una domanda ad ampio raggio, partirei dicendo che ogni persona, ogni
soggetto si conosce in azione, tanto più un bambino.
Se anteponiamo all’osservazione una teoria, in conclusione cercheremo e troveremo nell’altro una
conferma alla nostra teoria.
Dunque il bambino si conosce osservandolo in azione, nel suo rapportarsi con la realtà e con l’altro.
Perché il bambino impara da ciò che vive.
Un bambino “normale” e un bambino “disturbato” sono due modi di imparare e vivere la realtà, di
imparare e vivere i rapporti.
Un bambino fiducioso, sicuro di sé, comprensivo è un bambino che dentro un rapporto è stato
stimato, apprezzato, incoraggiato, trattato lealmente e con sincerità; un bambino intransigente,
apprensivo, timido, sfiduciato è un bambino che è vissuto nel rimprovero, nell’ostilità, nella
derisione e nel rifiuto.
Il punto di partenza di ogni bambino, cioè di ogni soggetto, è la normalità.
La normalità è quella del soggetto orientato alla soddisfazione, tanto che se vediamo un bambino
che non gioca, pensiamo che non stia bene, che sia malato.
Nessuno nasce disturbato a meno che non ci sia una componente patologica o psichiatrica.
Nella normalità ogni soggetto è orientato alla soddisfazione e questo accade sin dalla nascita:
il neonato orienta la testa verso il seno della madre, verso la soddisfazione; tutto quello che il
soggetto fa, è proprio per rinnovare la soddisfazione.
Le caratteristiche di un soggetto orientato alla soddisfazione sono: l’apertura alla realtà, la curiosità,
la motivazione nell’apprendere dall’altro, nel rapporto con l’altro.
Un bambino nella normalità è orientato a prendere dell’altro, dal rapporto con l’altro.
Un’altra caratteristica del bambino che si muove nella normalità è la capacità di restituire il
beneficio ricevuto dall’altro: può essere un “grazie” da parte del bambino o un “bravo” da parte
dell’insegnante…
La legge del rapporto è contenuta nella frase latina: “Do ut des”, “ Ti do affinché tu mi dia.”
Quando ciò accade nel beneficio, bambino e adulto vivono la soddisfazione nel rapporto.
Quando il bambino restituisce nel rapporto, sta “onorando” l’altro, gli porta onore.
La soddisfazione implica l’apporto di un altro, nessuno incrementa la propria soddisfazione senza
l’altro.
L’intervento di un altro soddisfacente è ciò che rende il bambino “competente”, competente inteso
come “colui che sa pensare” e dunque ci “sa fare”.
Il bambino che sa pensare è perché sa riconoscere gli atti ostili e gli atti appaganti dell’altro.
L’ambito privilegiato in cui è possibile osservare questo è il gioco: luogo facilitante
l’apprendimento.
I bambini pensano e il loro pensiero è compiuto, pensare per un bambino non è sapere, perché il
sapere è successivo implica un lavoro, il lavoro scolastico, le abilità.
Il bambino nasce sano, aperto a ricevere da tutta la realtà, ma diventa intrattabile in seconda battuta.
Diventa intrattabile perché è stato trattato male da un altro per lui significativo.
uno non diventa intrattabile perché una persona per strada lo ha offeso, o uno sconosciuto si è preso
gioco di lui; diventa intrattabile se un genitore, un insegnante lo inganna sistematicamente, mente, a
volte questo accade quando vuole “propiziarsi” la fiducia del bambino.
Cos’è l’intrattabilità? “Non ti voglio, non voglio stare con te”, è una difesa.
Il bambino non sapendo come difendersi diventa intrattabile.
Nel disagio il pensiero del bambino è in crisi, è confuso riguardo al proprio giudizio (non sa più
cosa pensare) e al proprio moto (non sa più come fare).
Quando vi è crisi di pensiero il bambino non ci sa più pensare e dunque non ci sa più fare, cioè non
è in grado di ottenere l’interesse dell’altro. Non è in grado di domandare.
Come è possibile recuperare il bambino ad una normalità, alla normalità?
E’ sufficiente offrire un rapporto sano, il soggetto riconosce l’altro nel beneficio e si allea
immediatamente.
Siamo abituati ad osservare rapporti”malati”: un soggetto che nel rapporto con l’altro si muove per
cambiare l’altro,cambiargli la testa o un soggetto che “fa “ per l’altro, mettendosi al posto dell’altro.
Invece, all’origine di un rapporto sano, buono, non c’è solo un soggetto ed un altro, ma c’è
un’iniziativa da parte del soggetto a muovere l’altro, a suscitare nell’altro un interesse.
questo può voler dire semplicemente fare un gioco insieme, invitarlo a giocare insieme.
Un soggetto che ha questa competenza, è un soggetto che già lavora attorno alla propria
soddisfazione, al proprio interesse, e questo muoverà l’altro.
In molte circostanze il lavoro più impegnativo per un adulto è stare zitto, attendere; è molto più
facile dire,parlare, lavorare, (a volte in eccesso), piuttosto che aspettare l’altro, rispettare i suoi
tempi.
Nel silenzio, nell’aspettare, si dà la possibilità all’altro di prendere iniziativa.
Qual è l’adulto che muove un bambino disturbato?
E’ quell’adulto che si muove attorno ad un proprio interesse, una propria passione; il bambino lo
guarda e gli va dietro: “Voglio farlo anch’io...”
Questo è un lavoro impegnativo che non può essere svolto da soli, il lavoro su di sé richiede la
presenza di un altro.
Un adulto per poter dare ad un bambino deve poter ricevere, come voi ora: prendete per dare.
Occorre avere un luogo dal quale attingere al quale arricchirsi: una fonte.
Solo così è possibile correggersi, capire l’errore.
La correzione dell’errore, cioè giudicare il “perché” non si fa, non “giudicare” e basta.
L’intrattabilità se non viene corretta introduce ad una complicazione che si manifesta nel momento
del passaggio tra la pubertà e la giovinezza.
La fanciullezza si conclude verso i nove anni, poi inizia la giovinezza passando attraverso la
pubertà.
Una tappa certa dello sviluppo è la pubertà dopo di che esplode la giovinezza.
In questo periodo invece molti entrano nella crisi chiamata “adolescenza”.
Cos’è l’adolescenza?
“Quando i nodi vengono al pettine”: il ragazzo diventa oppositivo, non domanda, ma provoca, sfida,
va contro, non incontra, non è curioso ma si muove per dimostrare; per competere e non per
scoprire ciò che lo rende più ricco umanamente.
Questa complicazione segna il suo esordio con la fine della fanciullezza e l’inizio della pubertà:
é il tempo in cui il ragazzo esce dal proprio guscio, si affaccia alla realtà e comincia a dire “io”, si
pone le domande di sempre ma le vuole passare al vaglio della propri esperienza e del suo giudizio.
Vuol verificare, vedere se è vero, tutto , sottopone l’altro al vaglio, lo “prova”.
E’ la crisi.
L’adolescenza non è una tappa obbligata, non bisogna diventare nemici della realtà, per crescere,
ma l’adolescenza è la conseguenza di una complicazione iniziata prima.
Cos’è che introduce all’adolescenza? Parlare per teorie, stare di fronte ad un bambino con un
principio, che non centra niente con il soggetto che lo propone, per cui l’educazione diventa piegare
l’altro ad una teoria.
Successivamente alla pubertà c’è la giovinezza e la giovinezza segna il risolversi della crisi iniziata
con l’adolescenza.
Cosa possiamo fare noi per i ragazzi in difficoltà?
Noi possiamo da subito aiutare i genitori a porsi nel rapporto con i propri figli in modo diverso, con
o una modalità che favorisca il rapporto.
In che modo?
Non traendo delle conclusioni ma sollecitando domande, ad esempio chiedendo: “Come mai?”,
“Come mai suo figlio arriva stanco, è svogliato, disordinato…”
Occorre suscitare una domanda in modo che l’altro possa riflettere, lavorare secondo i propri tempi,
a volte occorrono anni. Ma la domanda rimane e interpella, richiede prima o poi un lavoro.
Non bisogna mai dare una risposta preconfezionata, le teorie, noi siamo infarciti di teorie,
allontanano un soggetto dal proprio benessere, dalla propria salute psichica.
Ciò che favorisce un cammino è una domanda che in quanto tale apre ad un impegno, ad un lavoro.
Quando la lezione insegna a studiare
di Rosario Mazzeo
In diverse interviste rivolte ai ragazzi sulla concezione dello studio, spesso le risposte attribuiscono
allo studio una valenza negativa: “Lo studio è quell’orribile azione che devo compiere tutti i
pomeriggi”, oppure “Studiare è una cosa annoiante, ma purtroppo è un obbligo e quindi ci vuole
volontà”, o ancora “E’ una perdita di tempo”.
La riduzione o la negazione dello studio da parte dei ragazzi è reale e drammatica.
Il risultato è che la maggior parte dei giovani non studia, oppure vive lo studio in modo reattivo o
meccanico.
Difficilmente si incontrano studenti che nell’applicazione allo studio sono attivi, sereni, creativi,
liberi.
Come mai?
Varie e divergenti sono le risposte che ho incontrato tra gli adulti.
Mi sembra importante sottolineare che studio deriva da studium, un termine che indica - in primo
luogo - cura, ardore; secondariamente desiderio, voglia, gusto, amore, passione; infine applicazione
assidua, esercizio.
Le parole desiderio, applicazione, esercizio possono aiutarci a “far” identificare e vivere l’essenza
dello studio, ancor oggi?
Come può e deve la scuola organizzarsi perché un siffatto studio diventi esperienza di tutti i suoi
alunni?
Possiamo provare insieme a introdurci nella dinamica della lezione come apertura al reale
Inserire prima diapositiva
Padri e madri fonte dell’identità e della crescita :
quale collaborazione da parte della scuola? di Rosi Rioli
L’appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme
non è il conforto di un normale voler bene
L’appartenenza è avere gli altri dentro di sé
Giorgio Gaber
La posizione di figlio
Ciò che accomuna l’adulto e il bambino è l’essere nella posizione di “figlio ”. Figlio è colui che
impara da un altro, che riattiva in ogni momento della sua vita la memoria di questa radicale
dipendenza. Occorre reimparare a ricevere.
Erikson afferma che “il bambino apprende ad esistere nello spazio e nel tempo nell’atto stesso in cui
apprende ad esistere organicamente nella forma dello spazio e del tempo proprio della sua cultura e
della tradizione che guida e dota di significato l’attività educatrice dei genitori” 12
Il termine generare rimanda a una dimensione più ampia del termine procreare. Il procreare è un
fato fisico, puntuale nel tempo, la generatività rimanda invece a un processo che si estende negli
anni. La generatività si dispiega nel “prendersi cura”, come suggerisce, in modo affascinante anche
il cammino etimologico che accomuna nella stessa radice generare e generoso: chi genera, chi si
prende cura, è generoso.
Ora fermiamoci e facciamo alcune considerazione educative .
Osservando questo percorso vediamo con chiarezza come la nascita psicologica non coincida con
la nascita fisica. Mentre la seconda è un evento puntuale e preciso nel tempo ( so il giorno e l’ora in
cui sono nato), la nascita psicologica è un processo lento, fatto di andate e ritorni, ed è un processo
che presume una base di sicurezza data da una esperienza di profonda e totale appartenenza: sembra
un paradosso ma per individuarmi devo appartenere, per dire IO occorre un TU a cui rivolgermi.
Il bambino inizia a vivere ospitato in un utero, ma può continuare a vivere solo se questo spazio
che ospita resta, rimane.
Si parla infatti di utero psicologico, di un luogo mentale e affettivo che continua la calda
accoglienza dell’utero. Questo luogo sono la mente e il cuore dei genitori.
Da sempre l’uomo esprime fin dalla nascita questo suo primo bisogno fondamentale, il bisogno di
appartenere, di essere di qualcuno, di abitare dentro l’altro…
L’uomo viene al mondo cominciando ad abitare in un’altra persona.
L’uomo viene al mondo nella sua prima coscienza attraverso l’abitare nella coscienza di qualcun
altro: i genitori prima, gli insegnanti, qualche amico.. ma l’uomo continuamente nella sua vita viene
al mondo andando ad abitare in qualcun altro.
Chi è l’adulto allora? L’adulto è colui che accompagna il bambino in questo percorso, è il luogo in
cui il bambino abita.
Prendersi cura
Il “prendersi cura di” comprendere, sia per il genitore sia per l’insegnante, due aspetti fondamentali:
la risorsa dell’affetto e il rispetto della legge e con esso delle norme; la legge è infatti il principio
regolatore dei comportamenti umani, ciò che dà senso e direzione dell’agire.
L’affetto permette al bambino di assimilare vitalità, calore, fiducia, stima di sé, capacità di
rapporto; la legge –il senso di ciò che è bene e ciò che è male- lo pone di fronte al limite aiutandolo
a riconoscere la realtà esterna, fisica e sociale, con cui deve fare i conti e nella quale deve inserirsi e
dare il suo costruttivo contributo.
La “regola” aiuta chi cresce a distinguere se stesso dagli altri (riconoscendo loro pari diritti), a
contenere i propri istinti distruttivi, in una parola ad educarsi alla reciprocità nelle relazioni. E il
prezioso equilibrio tra aspetti protettivi e aspetti normativi nella relazione tra genitore e bambino
scaturisce dall’ascolto attento delle esigenze, via via sempre diverse, del bambino che cresce.
Questo è quello che la famiglia deve dare e che sola può dare.
Ma il legame va continuamente nutrito altrimenti si impoverisce: la cura del legame è un fatto
molto concreto, non una cosa astratta: si tratta di dare tempo e spazio.
Nella società di oggi si è spezzato il ritmo naturale che collegava il tempo della famiglia con il
tempo della crescita dei bambini. Ci sono dei ritmi di vita che tendono a ‘mangiare’ il tempo della
cura del legame (tv, pc, cd…, cibo, vestiti, sport, ecc…); la fretta e la voracità mal si adattano ad un
bambino di pochi anni.
Nella società i conti non tornano
Con molta acutezza e con molta misericordia è stato sottolineato (e faccio mia la sottolineatura) che
la famiglia, oggi (…) è come una casa, come una stanza continuamente trapassata da fulmini,
tuoni, lampi (…)
Perciò la preoccupazione educativa in una famiglia, oggi, è intelligente ed umana nella misura in
cui si rassegna, se volete, ad uscire da un comodo, anche meritato, per stabilire rapporti che creino
una trama sociale che si opponga alla trama sociale dominante. i
Un’esperienza che non finisce di stupirmi è quella che, come pedagogista, faccio durante i colloqui
con i genitori.
Quasi mai sono io a proporli. Spessissimo me lo chiedono le madri.
La mia funzione prevalente è quella di ascoltare. Le questioni per cui le madri mi chiedono il
colloquio, quasi sempre risultano marginali. C’è un enorme bisogno di ascolto, di parlare di sé come
madre, e, sempre più spesso, di piangere insieme a qualcuno.
In questi casi tocco con mano la verità di quelle parole ed ho la percezione netta che non ci sia più
tempo da perdere.
In una società che si permette di produrre aggeggi che insegnano alle madri a riconoscere il
significato del pianto del figlio, che sforna i più sofisticati eliminatori di rischio, che fa sentire i
genitori degli imbecilli e ignoranti , è davvero il momento dell’alleanza. Ma non un’alleanza
corporativa; un’alleanza profonda sul senso e sul significato del figlio, che è poi un’alleanza sul
significato di sé, perché le domande chi sono?, da dove vengo?, dove vado? non appartengono
all’infanzia, ma alla persona tout court, e la risposta non si può dare se non a partire da sé.
Un Nota bene sulla fase di sviluppo con riferimento alla capacità di dialogo
Ovviamente i soggetti in gioco non sono esclusivamente genitori e insegnanti. Il ragazzo è IL
soggetto, la ragione per cui genitori e insegnanti sono insieme.
Occorre allora anche una sguardo al crescere della capacità dialogica del ragazzo.
J. Dunn (1990) in una sua ricerca longitudinale nelle più consuete situazioni famigliari 13
ha rilevato
che i bambini, anche in età molto precoce sono in grado di partecipare in modo attivo e dinamico
alle dinamiche famigliari, comprendendo i sentimenti degli altri, partecipano alle situazioni di
conflitto, offrono aiuto e collaborazione ora all’uno ora all’altro dei partner implicati dimostrando,
in generale una comprensione degli obiettivi altrui ed una conoscenza intuitiva delle regole sociali.
Questa competenza è a lungo sfuggita ai ricercatori, perché hanno osservato il bambino fuori dal
contesto famigliare, in situazioni più opache, meno interessanti per lui dal punto di vista del proprio
sviluppo conoscitivo, emotivo e sociale.
Lo sviluppo cognitivo è, infatti, uno degli strumenti più potenti che fanno evolvere la persona verso
la posizione adulta del dialogo.
Esso può essere descritto come il processo che porta il pensiero dalla prigionia dell’”hic et nunc” –
vissuta dal bambino nei primi anni di vita alla capacità di “decentrarsi” propria del pensiero astratto
e premessa per una relazione autenticamente dialogica
Parallelamente all’itinerario del pensiero verso il decentramento e la reciprocità, anche dal punto di
vista sociale il bambino lentamente consolida la sua capacità di stabilire scambi col mondo esterno
e con gli altri bambini meno egocentrici e più realistici
All’ingresso della scuola primaria il bambino, in genere, è in grado di stabilire relazioni durevoli di
amicizia e riesce a percepire gli altri bambini come compagni da temere, amare e con cui
competere.
Negli anni della scuola media il ‘gruppo dei pari’ diventa sempre più importante fino a costituire
per l’adolescente il luogo di protezione e di sostegno nel lungo cammino di distacco dalle modalità
infantili di vivere le relazioni, e cioè, in primo luogo, dalla fusione e dalla dipendenza.
Inizialmente, però, lo stesso rapporto col gruppo viene vissuto secondo una ‘dipendenza
ambivalente’.
Così l’adolescente presenta grande instabilità nei confronti di amicizie, scelte e gruppi, per cui
passerà più volte da una totale identificazione-fusione con persone, attività o gruppi, ad un
abbandono improvviso di tale identificazione con una sconcertante discontinuità di esperienza.
Spesso l’adolescente non riesce a tenere uniti e separati l’io e il tu, in modo che si formi il noi, sia
con gli adulti che con i coetanei.
Che fare?
E’ in questa fase dello sviluppo (fanciullezza, preadolescenza, adolescenza) che i rapporti tra
insegnanti e genitori si fanno più complessi: evidente conseguenza della complessità dello sviluppo.
Molto spesso le questioni si pongono, in prima battuta come questioni di governance.
“Che cosa devo fare con mio figlio? Come devo comportarmi?”
Si è quasi sorpresi, ci si sente ‘colpiti a tradimento’ da un figlio o da un alunno che si pensava
diverso e che invece ha l’ardire di presentarsi quale egli é.
In realtà la psicologia non ci fornisce un’ idea troppo ottimistica di sviluppo, come qualcosa di
graduale, sicuro e progressivo. Niente di più falso che il crescere dell’età e il passare del tempo sia
un automatico progresso. La crescita è un processo essenzialmente dinamico e acquisire la buona
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J. Dunn La nascita della competenza sociale – Ed Boringhieri
qualità in alcune relazioni non preserva da fallimenti in altre o dal deterioramento successivo di
relazioni inizialmente buone.
Se questa è la fase evolutiva, gli adulti devono compiere un lavoro importante di discernimento
sulla presenza dei ‘pilastri’ che possono contenere un processo turbolento.
a) La cura del dialogo
Dialogare con l’altro significa anche svincolarsi dalla propria posizione nello spazio e nel tempo e
dalle proprie coordinate soggettive e culturali, per sperimentare altri punti di vista.
‘Svincolarsi’ non significa abbandonare, ma non ergere a vincolo nel rapporto ciò di cui si è
convinti.
In realtà solo chi è molto sicuro di ciò che pensa, perché ha molto riflettuto sulle proprie
convinzioni e le a messe alla prova, riesce in questa operazione
Occorre rendersi conto che questo è un dialogo tra generazioni che ha il compito di consegnare,
perché venga elaborato, il patrimonio ereditario della tradizione personale, famigliare, sociale.
b)Il rapporto con la propria tradizione
La parola cruciale è elaborazione.
L’elaborazione della tradizione richiede uno spazio per poterla assumere in termini propri,
introducendo le novità di cui i ragazzo stesso (e più in generale le nuove generazioni) sono
portatrici.
Da parte del giovane si tratta di un processo di critica nel senso profondo del termine, di vaglio, di
esame, di assunzione di alcune parti , di rifiuto di altre.
L’adulto può favorire questo processo se è capace di attenzione e di rispetto e se si sa porre in una
posizione di autentico dialogo.
Occorre ri-conoscere (conoscere di nuovo e insieme) ciò che è vero per l’adulto.
Dai ragazzi (anche e soprattutto da quelli in difficoltà) viene l’appello ad una società adulta che
non disattenda il compito fondamentale della crescita individuale, famigliare e sociale, cioè il
consolidarsi di relazioni improntate alla fiducia. Ma ciò richiede che, almeno a tratti, l’adulto
sappia abbandonare il percorso mortifero del controllo delle relazioni e riesca a lasciarsi
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pro manuscripto