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7 La rivista Archeologia Medievale entra, con questo numero, nel suo trentacinquesimo anno di vita. La ricorrenza è, questa volta, segnata dalla dolorosa as- senza di Riccardo Francovich: quello che si pubblica è, di fatto, il primo volume realizzato completamente senza di lui. L’archeologia è molto cambiata dai primi anni ’70 quando, con uno sparuto gruppo di amici, si decise di dare vita a quella che doveva diventare la prima rivista di archeologia medievale italiana (e anche tra le prime in Europa). La Rivista intercettò da subito i fermenti più innovativi di una disciplina che, in quegli anni, era in forte movimento: la centralità della “cultura materiale”, lo scavo stratigra�co, il rapporto con il territorio, il senso civico di una professione �no ad allora quasi completamente separata dalla società. Bisognerà prima o poi ritornare a quegli anni, e a quei fermenti, per ragionare serenamente su che cosa è diventata l’archeologia medievale e, soprattutto, l’archeologia in generale nel nostro Paese. Perché se c’è stato un aspetto, tra i tanti, che hanno quali�cato la nascita di una ‘nuova disciplina’, questo è stato il posizionarsi immediatamente all’interno di un dibatti- to che investiva l’archeologia nel suo complesso. Col- tivare una propria speci�cità non ha mai signi�cato, infatti, praticare la separatezza, perseguire obbiettivi di categoria. Oggi che l’archeologia si colloca, ogget- tivamente, in una dimensione sopra-nazionale, dove il metodo (e la teoria che lo informa) hanno sempre più ragione sulla dimensione temporale dell’agire archeo- logico, sarebbe un obbiettivo ancor più fuori luogo. Tuttavia, segni poco promettenti colorano il presen- te e minacciano di condizionare il futuro. La standar- dizzazione dei metodi e la pratica stratigra�ca diffusa sul territorio, insieme all’apparente accettazione della multiperiodalità, rischiano di rimanere contenitori vuoti, se asserviti, come nella maggioranza dei casi, ad una progettualità assente o priva di riferimenti teorici. L’archeologia medievale, e con essa la rivista che la rappresenta, rischiano l’as�ssia o l’afasia se non tenteranno di uscire dalla gabbia dell’appagamento e della ripetitività. La Rivista ha svolto, a nostro giudizio, diverse signi�cative funzioni nel corso di questi anni. È stata il luogo nel quale la maggioranza di quelli che praticano la nostra disciplina si sono riconosciuti e l’hanno scelta per far conoscere le proprie ricerche; ma è stato il luogo nel quale, anche se non sempre, si è cercato di anticipare i tempi, cogliere orien- tamenti nuovi, guardare al di fuori degli angusti con�ni nazionali, comporre spazi di discussione su temi ed argomenti sempre nuovi. Se nel corso degli anni l’appagamento ha forse un po’ smorzato questa funzione ‘movimentista’ (che peraltro era propria di molti numeri delle origini), è tempo per cercare di ritornare perlomeno allo spirito degli inizi, tenendo ovviamente conto del quadro politico e culturale nel quale ci troviamo, che è molto cambiato. Questo editoriale vuole cominciare ad esplicitare alcune delle linee che la rivista intende perseguire nel futuro, non solo per parametrarsi agli standard europei, ma anche per continuare a quali�carsi come un prodotto di alto livello scienti�co. Il primo è quello, già in atto, di adeguarsi alle norme internazionali, formalizzando il sistema di accettazione dei saggi, attraverso il ricorso sistematico ai referee. Se- condo le nuove norme, adottate già a partire da questo numero, i referee rimangono rigorosamente anonimi e vengono scelti dalla redazione tra gli studiosi italiani e stranieri maggiormente competenti per i soggetti speci�ci degli articoli da esaminare. Per ogni saggio vengono contattati due valutatori ed il loro parere è considerato vincolante. Oltre ad un giudizio libero ed argomentato, si chiede di dichiarare se l’articolo sia pubblicabile senza correzioni, con correzioni oppure se non sia pubblicabile. In caso di totale disaccordo tra i due referee prescelti, la redazione può ricorrere ad ulteriori pareri. I saggi vengono sottoposti a giudizio privi dell’indicazione dell’autore. Nel continuare quindi ad invitare tutti gli studiosi, del nostro o di settori af�ni, a proporre i propri saggi alla nostra rivista vogliamo comunque dare risalto al fatto che le nuove procedure costituiscono un valore aggiunto, e in qualche modo anche un servizio, che EDITORIALE «Archeologia Medievale» sta cambiando

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La rivista Archeologia Medievale entra, con questo numero, nel suo trentacinquesimo anno di vita. La ricorrenza è, questa volta, segnata dalla dolorosa as-senza di Riccardo Francovich: quello che si pubblica è, di fatto, il primo volume realizzato completamente senza di lui.

L’archeologia è molto cambiata dai primi anni ’70 quando, con uno sparuto gruppo di amici, si decise di dare vita a quella che doveva diventare la prima rivista di archeologia medievale italiana (e anche tra le prime in Europa). La Rivista intercettò da subito i fermenti più innovativi di una disciplina che, in quegli anni, era in forte movimento: la centralità della “cultura materiale”, lo scavo stratigra�co, il rapporto con il territorio, il senso civico di una professione �no ad allora quasi completamente separata dalla società.

Bisognerà prima o poi ritornare a quegli anni, e a quei fermenti, per ragionare serenamente su che cosa è diventata l’archeologia medievale e, soprattutto, l’archeologia in generale nel nostro Paese. Perché se c’è stato un aspetto, tra i tanti, che hanno quali�cato la nascita di una ‘nuova disciplina’, questo è stato il posizionarsi immediatamente all’interno di un dibatti-to che investiva l’archeologia nel suo complesso. Col-tivare una propria speci�cità non ha mai signi�cato, infatti, praticare la separatezza, perseguire obbiettivi di categoria. Oggi che l’archeologia si colloca, ogget-tivamente, in una dimensione sopra-nazionale, dove il metodo (e la teoria che lo informa) hanno sempre più ragione sulla dimensione temporale dell’agire archeo-logico, sarebbe un obbiettivo ancor più fuori luogo.

Tuttavia, segni poco promettenti colorano il presen-te e minacciano di condizionare il futuro. La standar-dizzazione dei metodi e la pratica stratigra�ca diffusa sul territorio, insieme all’apparente accettazione della multiperiodalità, rischiano di rimanere contenitori vuoti, se asserviti, come nella maggioranza dei casi, ad una progettualità assente o priva di riferimenti teorici. L’archeologia medievale, e con essa la rivista che la rappresenta, rischiano l’as�ssia o l’afasia se non tenteranno di uscire dalla gabbia dell’appagamento e della ripetitività.

La Rivista ha svolto, a nostro giudizio, diverse signi�cative funzioni nel corso di questi anni. È stata il luogo nel quale la maggioranza di quelli che praticano la nostra disciplina si sono riconosciuti e l’hanno scelta per far conoscere le proprie ricerche; ma è stato il luogo nel quale, anche se non sempre, si è cercato di anticipare i tempi, cogliere orien-tamenti nuovi, guardare al di fuori degli angusti con�ni nazionali, comporre spazi di discussione su temi ed argomenti sempre nuovi. Se nel corso degli anni l’appagamento ha forse un po’ smorzato questa funzione ‘movimentista’ (che peraltro era propria di molti numeri delle origini), è tempo per cercare di ritornare perlomeno allo spirito degli inizi, tenendo ovviamente conto del quadro politico e culturale nel quale ci troviamo, che è molto cambiato. Questo editoriale vuole cominciare ad esplicitare alcune delle linee che la rivista intende perseguire nel futuro, non solo per parametrarsi agli standard europei, ma anche per continuare a quali�carsi come un prodotto di alto livello scienti�co.

Il primo è quello, già in atto, di adeguarsi alle norme internazionali, formalizzando il sistema di accettazione dei saggi, attraverso il ricorso sistematico ai referee. Se-condo le nuove norme, adottate già a partire da questo numero, i referee rimangono rigorosamente anonimi e vengono scelti dalla redazione tra gli studiosi italiani e stranieri maggiormente competenti per i soggetti speci�ci degli articoli da esaminare. Per ogni saggio vengono contattati due valutatori ed il loro parere è considerato vincolante. Oltre ad un giudizio libero ed argomentato, si chiede di dichiarare se l’articolo sia pubblicabile senza correzioni, con correzioni oppure se non sia pubblicabile. In caso di totale disaccordo tra i due referee prescelti, la redazione può ricorrere ad ulteriori pareri. I saggi vengono sottoposti a giudizio privi dell’indicazione dell’autore.

Nel continuare quindi ad invitare tutti gli studiosi, del nostro o di settori af�ni, a proporre i propri saggi alla nostra rivista vogliamo comunque dare risalto al fatto che le nuove procedure costituiscono un valore aggiunto, e in qualche modo anche un servizio, che

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EDITORIALE

si offre ai candidati autori. Riteniamo in ogni caso importante la cultura del confronto e della valutazio-ne, per giunta priva di personalismi, grazie al reciproco anonimato di autori e valutatori.

Un ulteriore cambiamento riguarda l’edizione dei dati di scavo. In considerazione del fatto che, per le segnalazioni e le notizie di scavi di ogni tipo, si sono fortunamente moltiplicate le possibili sedi editoriali, in particolare quelle telematiche, riteniamo importante pubblicare soprattutto saggi che rappresentino un livello avanzato di elaborazione dei dati o comunque che riguardino temi e contesti di sicuro interesse sto-rico-archeologico.

Per quanto riguarda le linee editoriali più in gene-rale, si intende in�ne riprendere la consuetudine di dedicare, sempre più spesso, numeri della rivista ad argomenti di carattere monogra�co, a temi che ap-

profondiscano o amplino gli ambiti di ri�essione e di ricerca dell’archeologia medievale. È questa una linea che la rivista ha percorso, in più di una circostanza, anche nel passato, ospitando incontri appositamente creati dalla redazione o accogliendo atti di semina-ri/congressi organizzati da altri. Si riprende questa tradizione pubblicando, in questo numero, gli atti di un seminario sulle architetture altomedievali tenuto a Monselice nel maggio del 2008.

Pensiamo che Riccardo Francovich, che tanto si è speso nel passato per la Rivista e per l’archeologia medievale nel nostro Paese, avrebbe condiviso queste linee programmatiche e sicuramente ci avrebbe inco-raggiati a migliorarle. Per ricordarne la memoria di uomo e di studioso, i membri della direzione e della redazione hanno inteso dedicargli un volumetto alle-gato a questo numero della Rivista.

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Archeologia MedievaleXXXV, 2008, pp. 9-22

Gian Pietro Brogiolo

ASPETTI E PROSPETTIVE DI RICERCA SULLE ARCHITETTURE ALTOMEDIEVALI TRA VII E X SECOLO

(MONSELICE, CA’ EMO, 22 MAGGIO 2008)

Con questo numero, la rivista riprende la consue-tudine, ef�cacemente sperimentata a più riprese in passato (quali i convegni di Rapallo del 1978, di Pavia del 1981, di Monte Barro del 1989), di pubblicare gli atti di convegni e seminari. Lo scopo è di promuovere la discussione su alcuni temi di particolare interesse, assicurandone altresì la diffusione in tempi rapidi.

Il primo appuntamento, dedicato alle “Architetture altomedievali tra VII e X secolo”, si è tenuto il 22 maggio 2008 a Ca’ Emo di Monselice, come semi-nario ristretto nell’ambito delle attività didattiche della Scuola di specializzazione in Beni Archeologici dell’Università di Padova. Lo spunto è stato offerto dall’uscita nel 2007 del quarto volume monogra�co di «Arqueología de la Arquitectura», curato da A. Azkarate e da J.A. Quirós e dedicato alle tecniche costruttive medievali nel Mediterraneo occidentale. Le tematiche affrontate sul IV numero della rivista spagnola sono state peraltro cronologicamente assai più ampie, rispetto all’incontro di Monselice, e hanno compreso, oltre ad un contributo teorico-metodolo-gico di T. Mannoni (Archeologia della produzione architettonica. Le tecniche costruttive): (a) interventi sull’evoluzione di lungo periodo delle architetture altomedievali in Spagna (L. Caballero Zoreda; R. Azuar Ruiz e A. Azkarate Garai-Olaun con L. Sanchez Zu�aurre) e in Toscana (G. Bianchi); (b) contributi sul problema della ricomparsa dell’opera quadrata a Pisa (J.A. Quirós), a Genova (A. Cagnana) e Milano (L. Feni) (c) uno di Y. Esquieu sulle tecniche costruttive dall’XI al XV secolo nella Francia sud-orientale; (d) un paio sulla cittadella di Damasco degli inizi XIII secolo, rispettivamente di J.-C. Bessac con M. Boqvist e di A. Hartmann-Virnic.

La Penisola iberica, come l’Italia, è una regione chiave per capire l’evoluzione dell’architettura alto-medievale europea in rapporto alla tradizione romana, all’apporto bizantino e a quello arabo. Negli ultimi quindici anni, un acceso dibattito ha visto confrontarsi chi sostiene l’idea tradizionale di un’architettura visi-gota di VII secolo erede di quella romana e soggetta ad in�ussi bizantini, a sua volta matrice di quella astu-riana, mozaraba e andalusì di IX secolo e chi, come

Caballero Zoreda, ritiene invece che l’architettura cristiana “visigota”, almeno in parte cronologicamente più recente di quanto si sia ritenuto, sia debitrice di quella islamica di VIII secolo. Il dibattito è aperto e di parere diverso è Azuar Ruiz che sostiene come l’architettura araba dell’VIII secolo si basi sul riuso e sul tapial (con l’unica eccezione della moschea di Cordoba): solo nel IX secolo grazie all’arrivo di mae-stranze orientali comparirebbero costruzioni in opera quadrata, che dal X secolo avrebbero poi un’ampia diffusione. Questa discussione, che ha coinvolto nu-merosi studiosi, ha avuto il merito di avviare progetti di schedatura regionale di tutte le tecniche costruttive altomedievali, un passaggio obbligato per risolvere la questione. Nel volume, Azkarate Garai-Olaun e Sanchez Zu�aurre presentano una sintesi di quella realizzata in tre regioni del nord-ovest, dove tra VIII e XIII secolo sono diffuse quattro differenti tecniche edilizie: (1) in legno o in tecnica mista; (2) in opera quadrata con materiali di riutilizzo (IX sec.) o nuovo (X sec.); (3) in opera quadrata nei cantonali e nelle cornici e muratura incerta nei paramenti (tra IX e XIII) (4) in opera incerta (tra VIII e XIII).

Lo studio dell’edilizia medievale in Italia è stato avviato solo per alcune regioni e per alcuni periodi. In «Arqueología de la Arquitectura», Cagnana e Bianchi ne hanno delineato una sintesi, rispettiva-mente per Genova e la Toscana sud-occidentale. Nel primo caso, dopo l’abbandono delle cave romane, non vi è più traccia dell’opera quadrata �no alla sua reintroduzione alla metà del XII secolo ad opera di maestranze esterne, i magistri Antelami, provenienti dalla Val d’Intelvi e legati alle famiglie emergenti locali. Nell’alto medioevo sono attestati solo il petit appareil degradato e l’opera incerta, con legante di calce o di argilla. Nella Toscana sud-occidentale, la pietra come materiale da costruzione ricomparirebbe invece nella seconda metà dell’VIII secolo, introdotta da mae-stranze specializzate, probabilmente quelle lombarde menzionate dalle fonti. Ma ancor nell’XI secolo è diffusa la tecnica mista, con basamenti in pietra legata da terra, alzato ligneo e copertura in paglia. E solo nel XII secolo si afferma l’opera quadrata con ri�nitura

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degli spigoli, anche in questo territorio portata da magistri esterni che si avvalgono di maestranze locali (collaborazione testimoniata dalla contemporanea presenza nella stessa fase di differenti tecniche).

Si discostano da queste convergenti conclusioni di una reintroduzione tarda dell’opera quadrata, le analisi della Feni sulla basilica di San Lorenzo a Mi-lano e di Quirós Castillo sull’edilizia religiosa di Pisa. In San Lorenzo, la ricostruzione in opera quadrata dei pilastri che sorreggono la cupola viene datata alla seconda metà del X secolo in base a datazioni assolute e attribuita a maestranze orientali chiama-te dall’imperatore Ottone II che aveva sposato la principessa bizantina Teofano. Anche a Pisa l’opera quadrata ricompare precocemente, tra l’ultimo quarto del X o il primo quarto dell’XI a San Pietro a Grado (datazione dei bacini ceramici inseriti nelle murature), San Zeno, Santa Cristina in Chimica e San Matteo in Sgarza (anche in questo caso in base alla datazione di due frammenti di bacini). Ma a differenza di Mila-no, questa rivoluzione architettonica che richiedeva un’accentuata divisione professionale del lavoro e un alto grado di specializzazione, viene attribuita a maestranze islamiche, secondo l’ipotesi già avanzata da Quirós in precedenza.

È a partire da queste conclusioni, complementari più che divergenti, che va proseguita la ricerca sulle tecniche costruttive altomedievali in Italia, rinnovato negli ultimi trent’anni grazie all’applicazione dei meto-di stratigra�ci introdotti dall’Archeologia Medievale. Nello scavo questo ha portato dagli anni ’80 alla scoperta archeologica degli edi�ci in tecnica povera (a Luni, Brescia, Ferrara, Milano ecc.: sintesi in Bro-giolo 1994, Fronza, Valenti 1996), in precedenza noti solo attraverso le fonti scritte (Monneret de Villard 1920, Cagiano de Azevedo 1972, 1973, 1974, Belli Barsali 1973, Galetti 2004, Jarnut 2005). Nello studio delle architetture conservate in alzato, alla lettura stratigra�ca, che ha permesso di ricostruire sequenze corrette di molti monumenti, si è aggiunta un’analisi archeometrica in grado di farci conoscere meglio le caratteristiche tecniche dei materiali (per una sintesi, purtroppo ormai datata: Mannoni 1994).

Allo stato degli studi, servono da un lato censimenti sistematici dei dati, dall’altro una reimpostazione teorico-metodologica. Tra i censimenti in atto, sono da segnalare quello sull’edilizia povera da parte del-l’Università di Siena e quello sull’edilizia religiosa dalle origini all’anno Mille ad opera di più gruppi di ricerca. Iniziative che costringono ad una ri�essione sui parametri costruttivi e sui termini che li descrivo-no. Per reimpostare la ricerca occorre inoltre aprirsi ad un confronto globale e multidisciplinare con le fonti scritte e i dati etnoarcheologici, un percorso che per essere approfondito deve articolarsi in segmenti, per proporsi in un secondo momento una riaggrega-zione dei saperi in una sintesi interpretativa �nale.

I segmenti da considerare sono anzitutto i materiali, l’organizzazione del cantiere, le tecniche costruttive, le tipologie edilizie, il rapporto con l’insediamento. Le sintesi interpretative devono valutare sia il grado di specializzazione richiesta dalle differenti opere, sia le modalità di trasmissione dei saperi tecnici e dei tipi edilizi, sia i signi�cati sociali, culturali, ideologici.

In questa prospettiva lo studio delle sole archi-tetture altomedievali, alle quali è stato dedicato il seminario di Monselice, può risultare riduttivo, ma l’arco cronologico considerato è forse quello di maggior rilievo per l’epoca storica in quanto ri�esso di profonde trasformazioni economiche e sociali ac-compagnate a trasferimenti di popolazioni alloctone (migranti o invasori a seconda delle interpretazioni degli storici moderni, in ogni caso barbari inferiori da distruggere, se possibile, in quella dell’impero), di cui va valutato l’impatto sull’evoluzione delle architetture di quel periodo.

Nel mio intervento, manterrò l’attenzione su questo periodo e sul dato archeologico, pur divagando, ove necessario anche in altri periodi e in altre fonti, in particolare quella scritta, per rintracciare eventuali confronti o spunti di ri�essione. Con questa scelta, corro consapevolmente il rischio di contaminazioni, che pur mi pare si possano accettare in una fase di navigazione a vista, in attesa di poter costruire percorsi più solidi e univoci.

I. CONOSCERE PER SEGMENTI

1. I materiali da costruzione

La provenienza dei materiali da costruzione ha grande rilievo sia per le tecniche di messa in opera, sia per l’insieme delle attività coinvolte nel ciclo economi-co dell’edilizia. Tre sono le modalità attraverso le quali si selezionano i materiali: il riutilizzo, la raccolta di materiale sporadico, la produzione di nuovi elementi, ricavati da cave o tramite processi pirotecnologici.

(a). Nelle società del passato il riutilizzo di materiali provenienti da precedenti edi�ci è stato ampiamente praticato per motivi sia economici sia ideologici. La tarda antichità e l’alto medioevo sono, come è noto, le grandi stagioni del riuso, in primo luogo per l’abbon-danza di materiali del periodo classico ricavabili da edi�ci in rovina, pubblici e privati. Di quelli pubblici si occupano sia la legislazione teodosiana sia le lettere di Cassiodoro, non si contano gli accenni e i tentativi di regolamentazione di un fenomeno ormai generalizzato (Janvier 1969; Saliou 1994). E nelle fonti si allude al valore culturale dell’edilizia antica e dunque della sua conservazione (Fauvinet, Ranson 2006). Il che ha portato alcuni autori a sopravvalutare il riuso di materiali antichi come una riappropriazione dei sim-boli della classicità. In alcuni casi questo è corretto, ma l’interpretazione non va generalizzata. Vi sono molti

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esempi di riutilizzo che lo escludono senza ombra di dubbio, come nel caso delle mura di Emona, dove le statue sono inserite ancora intere nell’emplecton o nella capanne di Brescia dove sono ridotte a frammenti e riusate senza alcun intento decorativo.

Ma più in generale il riuso costituiva il mezzo di approvvigionamento più semplice e meno costoso, salvo che gli oneri del recupero (demolizione e ri-lavorazione) e di trasporto non superassero quelli del materiale nuovo. Nei centri della media e bassa pianura padana, dove nei depositi alluvionali �ni non si trovano materiali lapidei, era certo più conveniente che in quelli dell’alta pianura e del pedemonte dove le pietre (ciottoli �uviali o pietre da banchi super�ciali) erano abbondanti. Ciò spiega perché le strutture di età romana siano state capillarmente demolite molto più nei primi rispetto ai secondi. A determinare il costo del materiale concorreva l’incidenza della manodopera, che solo negli ultimi decenni ha reso impraticabile il riuso dei materiali di precedenti costruzioni, fuorché dei manufatti di valore antiquario, quali laterizi di pavimento dei secoli scorsi o pietre lavorate. Ma si tratta di eccezioni, anche perché la vita media di un edi�cio in muratura, che in passato si misurava in se-coli, ora si valuta in pochi decenni, la durata cioè degli impianti il cui rifacimento può risultare più costoso di una ricostruzione.

Se il calcolo economico, ora come in passato, era prevalente, non si può però escludere che in taluni casi il riuso avvenisse anche per necessità (dif�coltà di trasporto o altri impedimenti di natura politica) o per incapacità tecnica nello sfruttare le cave o nel produrre laterizi. Ma per approfondire tutti gli aspetti di quello che appare un fenomeno complesso, servono speci�che ricerche. Anzitutto sulle tecniche di demolizione appropriate, che richiedono tecnolo-gie complesse non inferiori a quelle richieste per la produzione di nuovi materiali (oltre a strumenti quali picconi, punte, mazzette e cunei, servivano impalcature o piani inclinati di lavorazione per raggiungere le parti più alte dell’edi�cio, nonchè particolari accorgimenti tecnici per il recupero di elementi architettonici interi, come colonne e trabeazioni). Tecnologie che peraltro producono risultati diversi, a seconda del materiale e della qualità architettonica del monumento. Ad esem-pio i masselli recuperati ancor integri da monumenti romani possono essere reimpiegati con una tecnica costruttiva che si distingue talvolta solo con un’attenta osservazione da quella ottenuta con materiali nuovi. Questo accurato riuso è testimoniato, oltre che in architetture auliche bizantine, visigote e arabe, anche da esempi italiani, come il San Salvatore di Spoleto, dove i masselli, a mio avviso di reimpiego, sono messi in opera con grande cura. All’opposto, grandi lastre di rivestimento marmoreo dif�cilmente possono essere conservate intere. E lo stesso avviene per marmi de-corativi, epigra� e monumenti funerari, che vengono riusati in frammenti come nelle forti�cazioni di molte

città, da Mantova a Castelseprio a Oderzo a Benevento ecc. È evidente poi che, dove esistevano ruderi in abbondanza, ad esempio nei vecchi centri urbani, il recupero era sistematico, come dimostrano le trincee di spoliazione documentate archeologicamente, ma in aree di nuovo insediamento si doveva talora ricorrere ad approvvigionamenti sulla lunga distanza, come nei nuovi centri delle lagune venete, o a Monselice dove in costruzioni altomedievali vengono riusati nei luoghi di culto grossi mattoni di età repubblicana, impiegati in origine in opere di difesa.

(b) Quanto al materiale nuovo, occorre distinguere quello proveniente da raccolta rispetto a quello da cave coltivate. Hanno infatti costi e richiedono saperi tecnici assai diversi e non comparabili. La raccolta di pietre durante le arature �no ad età moderna è sem-pre stata una pratica ricorrente, ristretta ovviamente ai territori dove è possibile (nelle morene collinari, nei banchi alluvionali con detriti grossolani, in mon-tagna). I contadini, ad ogni aratura, le asportavano anzitutto per dissodare il campo e le conservavano poi in bancate lungo i con�ni (in quelle zone dove la pietra era abbondante e quindi non soggetta a furti) o trasferendole in spazi appositi presso le abitazioni (dove era più rara). Il costo di queste operazioni era pari a zero, in quanto servivano anzitutto a boni�care i terreni. La raccolta diretta (nei tratti dei �umi più prossimi alle montagne, nelle strati�cazioni super�-ciali dei banchi rocciosi) era anch’essa possibile solo in determinati territori, ma non sappiamo se e come fosse regolamentata. Possiamo ipotizzare che almeno nei �umi fosse libera, mentre nei terreni privati era soggetta all’autorizzazione dei proprietari.

La coltivazione delle grandi cave sfruttate nell’an-tichità cessò in un periodo compreso tra il V secolo (nel caso di quelle Apuane) e la �ne del VI (nel caso di quelle del Proconneso). La �ne di queste produzioni pare imputabile ad una crisi progressiva della do-manda, ridotta nelle ultime fasi a quella espressa dal potere imperiale bizantino. Non al venir meno delle capacità tecniche di estrazione dai banchi rocciosi che seppur in modo frammentario sono testimoniate anche per l’età altomedievale da alcuni manufatti (proba-bilmente due colonne scanalate del San Salvatore di Brescia e quella del frontone del tempietto di Spoleto realizzate ex novo per completare quelle di recupero), dai capitelli (San Zeno di Bardolino, San Salvatore di Spoleto, Tempietto di Cividale ecc.), dalle cornici di aperture e dalle lastre di arredo scultoreo conservate in ogni regione. Da questo punto di vista, il dato archeologico conferma la continuità delle capacità tecnologiche suggerite dal Memoratorio de mercedes Commacinorum (MGH, legum T IV, pp. 176-182, del tempo di Grimoaldo o Liutprando), forse parte di un capitolato di appalto della �ne del VII o degli inizi dell’VIII (Monneret De Villard 1920, p. 14; Jarnut 2005) che determina i costi per le opere dei

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GIAN PIETRO BROGIOLO

marmisti (marmorarii): per il taglio di lastre marmoree un solido per 15 piedi e un tremisse per tre colonnette di quattro o cinque piedi.

Analogamente sporadica divenne la produzione di nuovi laterizi, in alcune aree non è nemmeno attestata. Anche se, come per le cave, non erano venute meno le ca-pacità tecnologiche: per tutto l’altomedioevo si continuò infatti a costruire mattoni, tegole, elementi decorativi o strutturali (cornici, elementi di colonna ecc.).

Né vennero mai meno le conoscenze pirotecnologi-che per la produzione di calce, della quale si continua-rono a realizzare differenti tipi, così come malte di varia consistenza, sulla base di opportuni dosaggi di inerti, che andrebbero studiati con analisi archeometriche sistematiche. Ma anche in questo caso, il trasporto poteva incidere nel costo e questo spiega, a mio avviso, perché talora se ne fece un uso parsimonioso all’interno della stessa muratura, addottando l’argilla cruda non solo come legante principe, ma anche per i rivestimenti e le pavimentazioni. Lo conferma il Memoratorio, nel quale la costruzione di un’opera romanense è calcolata allo stesso pezzo di una gallica a 1500 piedi per solido, ma l’opera cementizia (massa) vale più del doppio: con un solido se ne costruivano solo 600 piedi.

Limitate a poche grandi opere furono anche le de-corazioni a mosaico (in cubetti di pietra o pasta vitrea per i quali è spesso dif�cile determinare se si tratti o meno di materiale di reimpiego), a fresco (per le quali si continuarono ad importare colori anche da lunga distanza, ad esempio dall’Egitto) e a stucco, opera di maestranze itineranti, talora forse provenienti da paesi lontani, come è documentato per la Spagna Omeiade (supra) e come è stato ipotizzato per il tempietto di Cividale (Cagnana et al. 2004).

In conclusione, non fu la perdita delle capacità tecniche, ma la crisi della domanda a portare al decli-no della produzione di materiali nuovi. Anche per la concorrenza, in alcune fasi e in alcune aree regionali, del legno o della terra (pisé, tapial), più universalmente diffusi e dunque alla portata di tutti. A far la differenza furono dunque la grande disponibilità di materiali da recuperare e i costi (nel Memoratorio la messa in opera di una tegola costa quanto quella di 15 scandole di legno che però permettevano di coprire una super�cie almeno doppia se larghe come in esempi storici una ventina di cm). Per alcune aree, lontane dai luoghi di produzione, dovevano incidere anche le dif�coltà e il costo del trasporto. Lo rammenta direttamente Paolino di Périgueux nella vita di San Martino (De vita sancti Martini 6.264-289: CSEL 16, pp. 149-150: Cantino Wataghin 2007, p. 301) e indirettamente l’epigrafe celebrativa per la fondazione della chiesa di Santa Anastasio di Lomello, che Liutprando arricchì con colonne acquistate a Roma. Ed in�ne in alcune regioni si può ipotizzare anche l’incapacità tecnica di costruire in muratura rispetto a tradizioni fondate sul materiale deperibile, ma su questo aspetto rimando alla parte �nale del mio contributo.

2. Il cantiere

Sono �nora mancate indagini speci�che indiriz-zate all’individuazione delle tracce archeologiche del cantiere altomedievale, che peraltro non sempre sono conservate. Alcune indicazioni si ricavano dunque prevalentemente dalle fonti scritte.

(a) L’organizzazione del lavoro è esplicitamente tratta-ta nei documenti giuridici come i famosi capp. 144 e 145 dell’editto di Rotari del 643, dedicati ai magistri commacini, assunti in tre modi, o come impresa (cum consortibus suis), per domum restaurandum vel fa-bricandum (Roth., 144), o per dirigere il lavoro o per aiutare a giornata la manodopera servile fornita dalla committenza (aut conduxerit ad opera dictandum aut solatium diurnum prestandum inter servus suos: cap. 145). Un esempio di quest’ultima pratica è offerto da una famosa epigrafe, apposta sulla mura fatte erigere da Leone IV, nell’843, attorno al Vaticano, che ricorda che la costruzione venne portata a termine grazie a maestranze provenienti dalle domoscultae papali. Ma quali effetti si producevano sulle murature? Differenti tecniche costruttive coeve che Giovanna Bianchi, stu-diando dapprima il castello di San Silvestro e poi altri contesti toscani, come Donoratico, ha riconosciuto attribuendole a maestranze con diversa competenza tecnica? O una diversa qualità esecutiva della mede-sima tecnica, come sovente si riscontra in prodotti scultorei, come nel famoso caso delle due lastre con pavone del San Salvatore di Brescia?

Si tratta di problemi che l’archeologo dovrebbe porsi nel tentativo di riconoscere responsabilità e specializzazioni (presenza di maestranze specializzate e loro quanti�cazione rispetto a muratori raccolti localmente, divisione del lavoro ecc.).

(b) Anche l’organizzazione degli spazi del cantiere (re-cinzione, stoccaggio materiali da costruzione, magaz-zino attrezzi, alloggio/ristoro maestranze) trova scarsa ospitalità nelle relazioni archeologiche. E allorché si rinvengono capanne, coeve o di poco anteriori alla costruzione di edi�ci di buona qualità, si è incerti se riferirle a strutture provvisorie di cantiere o ad una compresenza di strutture di differente tecnica. Meno problemi pongono alcuni tipi di lavorazione, che lasciano tracce incontestabili sul terreno: fosse per conservazione della calce, aree/macchine di impasto (calce+inerte) per malta come quelle documentate ar-cheologicamente a Donoratico e Miranduolo (Bianchi e Valenti in questo volume), forge per la lavorazione di manufatti in ferro ecc., fosse per campane presenti in numerose chiese.

(c) Non sempre è possibile determinare dove ci si ap-provvigionasse dell’acqua, necessaria per alcuni pro-cessi pirotecnologici, in particolare quelli connessi con la produzione e l’utilizzo di intonaci e di laterizi (che vanno bagnati per agevolare la presa con la malta).

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ASPETTI E PROSPETTIVE DI RICERCA SULLE ARCHITETTURE ALTOMEDIEVALI TRA VII E X SECOLO

Non vi erano problemi in prossimità di un torrente o dove funzionava un acquedotto o si disponeva di un pozzo (il cui costo era tutto sommato modesto almeno �no a medie profondità: �no a dodici piedi un solido, per uno di 26 piedi 3 solidi, per uno di 35 piedi 4 solidi, per uno di 100 piedi 20 solidi, secondo il capitolo 9 del Memoratorio). Ma dove l’acqua non era dispo-nibile, il trasporto in botti poteva incidere alquanto e consigliare di scegliere una tecnica costruttiva che ne richiedesse meno (ad esempio utilizzando l’argilla come legante o rivestimento) o affatto, come il legno o la pietra a secco. E una volta costruito l’edi�cio, si poteva sempre ricorrere alle cisterne che raccoglievano l’acqua dal tetto.

(d) Le operazioni preliminari si concludevano con la sistemazione del piano di costruzione e il tracciamento dell’edi�cio. La predisposizione del piano di costru-zione era ovviamente condizionata dalla qualità del terreno: se umido poteva richiedere opere di drenaggio con escavazione di canalette di scolo, consolidamento con macerie se instabile o sconnesso, opere di livel-lamento: riporti o “massicciate obliteranti” sui crolli di precedenti edi�ci (de�nizione di Lorenzo Dal Rì e Giorgio Rizzi (1994), nella descrizione dei livellamenti di pietre dello scavo di Villandro).

Il tracciamento dell’edi�cio postulava una cono-scenza del teorema di Pitagora o la disponibilità di una squadra per determinare l’ortogonalità dei muri, ma l’irregolarità di molte costruzioni fa presumere che talora se ne facesse a meno. Mantenere poi l’oriz-zontalità dei piani e dei corsi e la verticalità dei muri richiedeva speci�ci accorgimenti, quali la messa a bolla e a piombo di cordicelle orizzontali agganciate a sup-porti verticali, dei quali si possono talora osservare le impronte sulle murature o nel terreno (per i supporti). Si tratta di saperi tecnici minimali che sono rimasti inalterati �no ai nostri giorni, ma che non sempre sono stati impiegati e dobbiamo chiederci quale ne sia stata la motivazione.

(e) Completate tutte le operazioni preliminari, iniziava la costruzione con lo scavo delle trincee di fondazio-ne, necessarie salvo nei casi in cui l’edi�cio veniva ricostruito su uno preesistente mantenendone la di-sposizione geometrica e quando la base era la roccia naturale. Le caratteristiche della trincea di fondazione (a sacco per un getto o ampia per una messa in opera manuale; profonda o appena accennata) dipendono e dalla natura del terreno e dalla qualità e dimensione architettonica dell’opera. Le torri medievali avevano talvolta fondazioni di oltre dieci metri, come quelle del torrazzo di Cremona. Fondazioni a sacco di un metro (o meno a seconda della natura del terreno) erano più che suf�cienti per un edi�cio a due piani. Il legante faceva poi la differenza, se di malta compattava in un corpo unico la fondazione con l’alzato. Quando invece la fondazione era legata da argilla, mentre l’alzato da malta, si può forse ipotizzare che si privilegiasse

l’isolamento dall’umidità o, più banalmente, almeno in alcuni casi, che si volesse risparmiare sui costi.

(f) In un cantiere gerarchicamente organizzato esiste una distinzione tra chi predispone i materiali, chi li trasporta e chi li mette in opera. La descrivono le fonti scritte e ne conserva memoria chi ha potuto osservarla nel cantiere tradizionale che è sopravvissuto in aree rurali �no a ’50 anni fa. Le tracce archeologiche si riferiscono invece esclusivamente alla lavorazione dei materiali: a piè d’opera, dove si possono trovare resi-dui di ri�nitura e in opera dove le scaglie minute sono spesso il risultato di un ritocco eseguito dal muratore per meglio adattare i materiali sul letto di posa.

(g) In un edi�cio che comprendeva più piani, oltre a quello terra, erano fondamentali i ponteggi (piantati o pensili) e altri strumenti di sollevamento per rifornire i materiali, quali scale, carrucole e argani che lasciano tracce nel terreno (buche di palo) e nella muratura, più o meno evidenti. Quelli dei ponteggi, per l’archeologo, che le descrive puntualmente in ogni relazione, non evocano particolari problemi interpretativi e tuttavia ci si potrebbe porre qualche ulteriore domanda: tal-volta alcune buche di palo potrebbero essere attribuite a macchine di sollevamento; i ponteggi non vengono realizzati �no a che sono necessari e dunque uno scavo attento, microstratigra�co, potrebbe inserirli in sequenza aiutando in tal modo la comprensione del processo costruttivo.

Nella legislazione altomedievale erano una discri-minante di grande rilievo per determinare non solo i costi, ma anche l’organizzazione del lavoro. Ne derivava infatti la stessa de�nizione di magister com-macinus: operaio specializzato cum macinis, ovvero ponteggi nel senso di Memoratorium 2 (cfr. glossa nel manoscritto cavense delle Leges, machina id est pontonem: MGH, Legum IV, p. 656, n. 111; cfr. anche Isidoro, Et. XXIX, 8 e altre citazioni in Monneret de Villard 1919).

Lo stesso Memoratorium, nel �ssare il costo di un muro, oltre allo spessore (da uno a cinque piedi), in-dica come criterio fondamentale l’uso di un ponteggio (180 piedi per un solido) e determinante è anche per il costo della sostituzione delle tegole di copertura: nel caso di una sala (che si può intepretare come edi�cio ad un piano) è di 600 tegole per un solido, ma per un solario (edi�cio con un piano superiore che evidente-mente richiede l’impiego di un ponteggio) sale a più del doppio, cioè a un solido “vestito” (cioè con vitto fornito dal committente) per 300 tegole. Una differen-za notevole, che sembra suggerire un’alta incidenza della manodopera, rispetto alle tegole. Un particolare tipo di ponteggio era poi costituito dalle impalcature per sof�tto (peuma), il cui costo, nel Memoratorio 6 era di una siliqua per piede.

(h) Terminata la costruzione, era necessario procedere alla sistemazione degli esterni (realizzazione di piani

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GIAN PIETRO BROGIOLO

d’uso destinati a speci�che funzioni: orti, piuttosto che cortili lastricati, aree destinate a speci�che funzioni, annessi ecc.). Se non già esistenti, si dovevano in�ne costruire i servizi, la riserva d’acqua, una recinzione (in muratura, in legno, in arbusti vivi), gli annessi per la coservazione di alimenti (cantina, silos).

Concluse tutte queste operazioni, iniziava la vita dell’edi�cio, ovvero una sequenza stratigra�ca di attività leggibili sia nei depositi sul terreno sia nelle stratigra�e degli elevati (non solo successioni di muri e intonaci che pur richiedono analisi attente, ma anche trasformazioni più leggere: chiodi in�ssi per appen-dere qualcosa, variazioni cromatiche negli intonaci in corrispondenza dell’addosso di mobili, una differente usura delle super�cie a seconda dell’esposizione agli agenti atmosferici).

3. Le tecniche costruttive e i tipi edilizi “poveri”

La classi�cazione di un muro deve considerare ogni sua parte, distinguendo gli elementi che lo compon-gono (litologia, forma, tipo di lavorazione), la messa in opera in corsi o senza corsi, i tipi di legante. Come ha più volte ricordato Tiziano Mannoni (da ultimo, in Mannoni 2005), tutte le tecniche costruttive pre-sentano un certo grado di complessità e anche quelle apparentemente più semplici richiedono saperi tecnici collaudati. Quelle irregolari sono più complesse nella messa in opera e non sono meno resistenti di quelle iso-dome, più semplici ma più costose perchè richiedono una maggiore lavorazione degli elementi. Quale sia la tecnica, l’obiettivo del costruttore è l’omogeneità del muro per salvaguardarne l’elasticità (in caso di sisma). In ogni periodo storico sono coesistiti differenti tipi edilizi. In età romana accanto agli edi�ci di alto livello architettonico, sopravvivevano tipi edilizi “poveri”, quali le casette retiche seminterrate di tradizione protostorica, rinvenute a Idro (Brogiolo 1980), Doss Zelor e Sanzeno (Cavada 2000) o le baracche di legno come la capanna appoggiata su massicciata scavata a San Lorenzo di Sebato (BZ) e datata al III secolo d.C. Ma, in genere, erano diffusi in aree marginali. Per l’età altomedievale l’archeologia registra la maggior varietà di tecniche costruttive e di tipi edilizi tra V e VII secolo, ovvero nella fase di sovrapposizione dei saperi tecnici alloctoni su quelli presenti in età romana nel territorio italiano. Un quadro dettagliato, a scala regionale, è ben lungi dall’essere de�nito, ma qualche indicazione, per de�nirne i parametri, si può già cominciare a proporla, distinguendo, sulla base del materiale impiegato, tra edilizia in legno, in terra e in muratura e aggiungen-do una quarta categoria di edi�ci in tecnica mista. Si tratta di una sempli�cazione perché, come vedremo, le connessioni tra una tecnica e l’altra nel medesimo edi�cio sono frequenti. Ad esempio a Mantova, via Tazzoli 19 (Brogiolo et al. 1986), una struttura seminterrata (cantina o capanna?), datata tra V e VII

secolo, è realizzata con un muretto a secco contro terra, paletti verticali e ramaglia intrecciata con ri-vestimento in terra. E quando l’evidenza è costituita solo da buche di palo, vi è talora l’incertezza se si tratti effettivamente di edi�ci, come nel caso dei semplici allineamenti di buchi di palo di modesta dimensione, come a Brescia Santa Giulia: impronte di scaffalature o pareti di edi�cio?

In questo contributo, mi occuperò solo degli edi�ci in legno, in terra e in tecnica mista, che corrispondono, nella de�nizione corrente al concetto di edilizia povera (Gelichi, Librenti 2003). Tratterò in un secondo articolo di quella in muratura. L’ambito geogra�co, considerato che Marco Valenti e Giovanna Bianchi riferiscono della situazione toscana, è limitato all’Italia settentrionale. E lo scopo non è quello di costruire una tipologia complessiva dell’edilizia povera, che richie-derebbe un’analisi più ampia, ma di fornire esempi dai quali trarre ulteriori ri�essioni che svilupperò nel paragrafo conclusivo.

L’edilizia in legno richiede una serie di saperi tecnici, elaborati a partire almeno dal Neolitico che comprendono la scelta dell’essenza più adatta (rovere e castagno i migliori per dimensione e durata), le tecni-che di abbattimento e riduzione in travi e assi (tramite sega, ascia, scortecciatoio), le tecniche di assemblaggio della struttura portante (incastri, chiavi, pioli e chiodi, in legno o ferro) e l’ancoraggio della pareti (in tavole, rami intrecciati rivestiti ecc.) e del tetto (in scandole, paglia ecc.). Gran parte di questi saperi sono richiesti anche per le parti in legno (sof�tti e impalcatura del tetto) degli edi�ci in muratura. Viceversa per un edi-�cio in legno non è necessario conoscere le tecniche connesse con la lavorazione della pietra e la produ-zione di calce e laterizi. Il legno ha poi il vantaggio di essere diffuso dappertutto, mentre in determinate aree, come la pianura padana centro orientale, alla mancanza di pietre si poteva sopperire con il laterizio, che però richiede un’organizzazione produttiva più complessa. Se in�ne si considera che solo una parte ristretta della popolazione aveva il surplus necessario per pagare artigiani specializzati o i materiali costrut-tivi, mentre i ceti più poveri dovevano provvedere da sé a costruirsi una casa, si comprendono sia la grande diffusione del legno sia la varietà di tipi edilizi legati a tradizioni locali o etnico-culturali. Tipi edilizi che per comodità possono essere suddivisi in tre grandi gruppi di capanne: seminterrate, con struttura portante in�ssa nel terreno, appoggiata su una base.

La capanna seminterrata (Grubenhaus = sunkenhut = fond de cabane) ad un solo vano (rettangolare, ovale, circolare), documentata per la prima volta a Brescia Santa Giulia nel 1986, è venuta in luce in numerosi altri contesti, sia urbani, quali Oderzo (Bishop 2005) e Cividale (Vitri, Villa, Borzacconi 2006) sia so-prattutto rurali quali Collegno (Pejrani 2004), Rosà (Tuzzato 2004), Cornate (Simone 2006), Frascaro (Micheletto 2004) ecc., con caratteristiche tecniche

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ASPETTI E PROSPETTIVE DI RICERCA SULLE ARCHITETTURE ALTOMEDIEVALI TRA VII E X SECOLO

� g. 1 – Idro, edi� cio II.

� g. 2 – San Lorenzo di Sebato, capanna di III secolo (da Rizzi, Dal Rì 1994).

� g. 3 – Mantova, via Tazzoli 19.

� g. 4 – Brescia, Santa Giulia, buche di palo negli ambienti della domus romana.

� g. 5 – Oderzo, capanne seminterrate (da Bishop 2005).

� g. 6 – Frascaro, capanna seminterrata di epoca gota (da Micheletto 2007).

che suggeriscono una pluralità di adattamenti locali: quella di Collegno (VI secolo a giudicare dai materiali pubblicati) è irregolarmente rettangolare con quat-tro buche lungo i bordi di tre lati e una, eccentrica, all’interno; a Frascaro la struttura quadrangolare, seminterrata per una ventina di cm, presenta due strani solchi al centro paralleli tra loro, ma obliqui rispetto alla struttura, connessi con due buchi di palo; ad Olmo di Nogara (Saggioro 2003), la capanna seminterrata, dotata di focolare, misura 6×4,5 m circa

(ovvero: 26 m²), con 10 buche di palo prevalentemente distribuite sul lato nord ed ovest.

In altri esempi la capanna è parte di una struttura più complessa: a Rodengo Saiano (Brogiolo 1986), un piano con focolare e buche di palo, pertinente ad un edi� cio solo parzialmente compreso nell’area di scavo è adiacente alla capanna seminterrata. Solo scavi in estensione permettono di comprendere la re-lazione tra le capanne seminterrate e le altre strutture dell’insediamento. Oltre al caso di Rosà (Mura et al.

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� g. 7 – Olmo di Nogara, capanna seminterrata (da Saggioro 2003).

� g. 8 – Rodengo Saiano, edi� ci in legno.

� g. 9 – Flero, foto complessiva delle strutture (da Breda, Malaspina 2007).

� g. 10 – Flero, capanna (da Breda, Malaspina 2007).

� g. 11 – Flero, struttura seminterrata 2 (da Breda, Malaspina 2007).

� g. 12 – Flero, struttura seminterrata 4 (da Breda, Malaspina 2007).

in questo volume) sono assai interessanti quelli di Flero e di Cornate. A Flero via XX settembre (Breda, Malaspina 2007), un sito indagato in estensione di poco meno di 5 ettari, nel quale sono state docu-mentate tracce di una villa romana, di un forno per ceramiche di V-VI secolo e un piccolo insediamento con strutture in legno composto da: (a) una capanna rettangolare di 5×8 m, con angoli arrotondati, con un solco stretto per alloggiamento di travi dormienti e buche distribuite a distanze irregolari lungo tre lati, mentre non sono stati ritrovati elementi del quarto; (b) un’adiacente struttura seminterrata di 2,2×1,30×1 m di profondità, forno per cottura di alimenti secon-do gli scavatori, che derivano questa interpretazione dall’arrossamento della parete in corrispondenza di una risega di appoggio a meno 0,30-0,40 m: ma non potrebbe essere il risultato dell’incendio di un pavimento ligneo, nel qual caso di tratterebbe di una

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ASPETTI E PROSPETTIVE DI RICERCA SULLE ARCHITETTURE ALTOMEDIEVALI TRA VII E X SECOLO

� g. 13 – Cornate, resti della villa, buche palo pertinenti a strut-ture in legno e sepolture a cassa di VII secolo (da Lampugnani

2004).

� g. 14 – Cornate, cisterna (da Simone Zopfi 2006).

� g. 15 – Cornate, capanna seminterrata (da Simone Zopfi 2006).

� g. 16 – Cornate, spalliera? (da Simone Zopfi 2006).

piccola grubenhaus? È infatti provvista di un corri-doio di accesso e di 14 buche di piccoli pali lungo il perimetro più due buche di grandi dimensioni ai lati del corridoio e una larga 30 cm alla metà del lato op-

posto; (c) altre due strutture seminterrate riempite di resti di combustione (rispettivamente di 1,5×1,1×0,40 m di profondità e 1,4×1,2×0,30 m), con 11 buche di palo asimmetriche all’esterno delle stesse; (d) un poz-zo profondo 4 m; (e) due sepolture prive di corredo. Mancano dati per una datazione di questo complesso e non è chiaro se sia o meno contemporaneo al forno che produceva ceramiche comuni di imitazione delle sigillate e invetriate. Quel che è certo è che si tratta di un insediamento monofamiliare di breve durata e con confronti tra VI e VII secolo.

È stato scavato solo parzialmente il sito di Cornate località Villa Paradiso (Simone 2006), composto da

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una villa romana (I-VI secolo) con una fase di capanne (Brogiolo, Chavarría Arnau 2005)) e una successi-va necropoli di VII secolo con tombe a cassa. A poche decine di metri a sud della villa, una successiva trincea esplorativa ha messo in luce esclusivamente strutture seminterrate, pubblicate come sepolture, in realtà, tutte pertinenti all’abitato in legno sviluppatosi sulla villa. Si tratta infatti di: (a) una cisterna (= tomba 3) di 1,2×1,6×0,5 m di profondità con pareti in tegole legate da argilla e fondo con vespaio in ciottoli; pareti e fondo sono rivestiti da cocciopesto con legante in argilla anziché malta ma con analogo effetto permea-lizzante; (b) di una struttura seminterrata (= tomba 4) di 1,6×1,35 m, con pareti quasi verticali e una buca di palo del diametro di 30 cm verso nord; (c) di altra struttura seminterrata (= tomba 5) di 2,5×2,20 m, con una buca di palo del diametro di 30 cm verso sud; (d-e) di altre due strutture seminterrate di forma ovale del diametro di 3 m con almeno una buca di palo lungo il bordo in quella della foto 21, riempite da ciottoli e argilla concotta con impronta di incannucciata e scorie di metallo. È incerta invece la funzione di una serie di tre buche di grossi pali inseriti in una trincea rettango-lare (= tomba 14) di 2,60×0,55×0,35 m di profondità con pareti quasi verticali e tre buche di palo, quella centrale di forma rettangolare di 0,50×0,60 m: una spalliera?

Allo stato della ricerca, non conosciamo l’evolu-zione delle capanne seminterrate dopo il VII secolo, mentre quelle rettangolari con pali in�ssi nel terreno a livello del suolo sono ben documentate anche nei villaggi padani di IX secolo, quali Piadena, Fidenza, Bovolone, Nogara. Sono di varia dimensione, a uno o due vani. Convivono (a Piadena e Fidenza) con le capanne appoggiate su trave dormiente rettangolare a uno e due vani. A Villandro le capanne dell’VIII secolo sono invece appoggiate su una massicciata in pietre. Un terzo gruppo comprende gli edi�ci con alzato ligneo su zoccolo in muratura (blockbau), non sempre distinguibile, tuttavia, da quelli con parete in muratura �no al tetto.

È invece plausibilmente a Blockbau la casa di Mom-bello (VII secolo): edi�cio quadrangolare formato da un unico ambiente, con muri in blocchi di arenaria legati da argilla e focolare interno. Si conserva solo un perimetrale, al centro del quale si riconosce una porta, mentre alle estremità due pietre piatte potrebbero forse essere servite come basi per pali verticali per un telaio in legno. La modesta qualità della muratura suggerisce di intepretarla come zoccolo per un alzato in materiale deperibile (forse terra e frammenti di laterizi e pietre a giudicare dai crolli sparsi all’interno dell’edi�cio).

Ma in altri casi il dubbio rimane. Non condivido ad esempio l’idea di Negrelli (2006) su un alzato ligneo per l’edi�cio del VII inizi VIII secolo scavato a Rimini, Piazza Ferrari: le murature in pietre e laterizi legati da argilla sono infatti suf�cientemente larghe da permet-tere alla muratura di raggiungere l’imposta del tetto.

�g. 17 – Mombello, capanna gota (da Micheletto 2007).

�g. 18 – Mombello, casa longobarda (da Micheletto 2007).

L’edilizia in terra ha per ora una sola attestazione in Italia settentrionale, a Collegno dove è stata scavata una struttura irregolare con terra e sassi, rinforzata da buche di palo lungo il perimetro. E tuttavia è plau-sibile che questa scarsità sia dovuta alla dif�coltà di riconoscere archeologicamente questa tecnica che era diffusa anche in epoca romana nelle parti alte delle murature di domus. Il muro in argilla aveva poprietà coibenti superiori a quello in muratura e una volta rivestito da intonaco affrescato non si distingueva da quello in pietra.

Più diffuse le costruzioni in tecnica mista, soprat-tutto perché costituiscono un riutilizzo con tecniche

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ASPETTI E PROSPETTIVE DI RICERCA SULLE ARCHITETTURE ALTOMEDIEVALI TRA VII E X SECOLO

� gg. 21-22 – Brescia, Santa Giulia, struttura delle pareti in legno (da Castiglioni, Rottoli 2005).

� g. 19 – Fidenza, edi� cio in legno con pali in� ssi (da Catarsi Dall’Aglio 1994).

� g. 20 – Fidenza, edi� cio in legno con travi dormienti (da Catarsi Dall’Aglio 1994).

povere di porzioni di edi� ci romani. L’edi� cio XXIX di Santa Giulia è da questo punto di vista ancora il più complesso: oltre a muri romani riusati, presenta nuove murature (una di perimetrale, la seconda di-visioria interna) in pietre legate da argilla (una con trave verticale incorporata, l’altra con monolite ad una estremità) che potevano salire � no al tetto e un perimetrale in legno (costituito da trave dormiente, basi monolitiche di appoggio a montanti lignei, parete in ramaglia rivestita in argilla).

La complessità dell’edilizia povera è confermata inoltre: (a) dalla varietà di pareti che potevano essere in ramaglia rivestita in argilla, con telaio in legno rive-stita in argilla (Castiglioni, Rottoli 2005), con assi verticali (stabbau), con tronchi orizzontali (blockbau); (b) dalla pluralità degli annessi (silos, cessi, buche per ri� uti ecc.); (c) dalle diverse soluzioni adottate nel medesimo sito (ad esempio a Brescia Santa Giulia, Collegno e Rosà dove coesistono differenti tecniche costruttive e tipi edilizi); (d) dal diverso comporta-mento rispetto a preesistenze (riutilizzo parziale di un precedente edi� cio, oppure obliterazione totale); (e) dal succedersi in breve tempo di tecniche costrut-tive diverse nel medesimo sedime, come a Mombello

Monferrato dove tra V e VII secolo) si susseguono: il riuso di un edi� cio romano con strutture di legno, segnalate da buche di palo; la successiva demolizione dell’edi� cio con livellamento in posto del materiale di risulta; un riporto di terreno di coltivo; la costruzione della casa longobarda sopra descritta. A condizionare le scelte poteva essere anche il contesto insediativo (la città, piuttosto che un castello, un villaggio o l’inse-diamento sparso), ma sull’intera questione servono un corpus accurato e ulteriori ricerche mirate.

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II. INTERPRETARE LE TECNICHE COSTRUTTIVE

Interpretare le tecniche costruttive signi�ca ri�et-tere in primo luogo sul concetto dei saperi tecnici (o specializzazioni), discutere poi di chi li possedesse e di come si siano evoluti nel tempo, all’interno di una società o per in�uenza esterna.

Massimo Vidale (192) ha proposto di de�nire il sapere tecnico come grado di specializzazione non solo in rapporto alla dif�coltà tecnica delle singole opera-zioni (ad esempio quelle che richiedono conoscenze pirotecnologiche), ma anche in relazione al numero di operazioni speci�che e delle reciproche interazioni (ad esempio nel ciclo di cavatura e di lavorazione in moduli regolari della pietra) e alla distanza dalle fonti di approvvigionamento. In base a questi parametri, il grado di specializzazione risulterebbe inversamente proporzionale al numero delle operazioni eseguite da un singolo individuo: massimo quanto corrisponde ad un’unica fase di lavorazione e a un solo materiale (ad esempio la realizzazione di un affresco o di un pavimento musivo), minimo allorquando un singolo individuo è impegnato in più operazioni (dalla raccolta dei materiali, ad una prima lavorazione, al trasporto e alla posa in opera). Misurata con questi parametri l’edilizia “povera” altomedievale richiede un minimo grado di specializzazione. E lo stesso si può dire di tutti i tipi edilizi costruiti senza l’intervento di maestranze esterne. Del resto, �no alla metà del secolo scorso, agri-coltori e pastori avevano nel proprio bagaglio culturale le conoscenze tecnologiche necessarie per costruire non solo ricoveri temporanei, ma talora anche le proprie abitazioni. Ad esempio, in alcune zone di montagna, la produzione di calce era un’impresa condotta comunita-riamente ogniqualvolta se ne riscontrava la necessità.

E tuttavia il problema di chi padroneggiasse i dif-ferenti saperi tecnici è più complesso. Le fonti scritte ne accennano, senza però chiarirlo �no in fondo. Nel capitolo 5 del Memoratorio si fa cenno, come si è detto, all’opera romanense distinta da quella gallica, il cui costo è il medesimo (1500 piedi per solido). E in Me-moratorio 3, l’imbiancatura di un muro viene calcolata a un solido per 600 piedi, mentre le tavole di una co-struzione gallica sono �ssate a un solido per 1500 piedi. Ma non è chiaro se queste differenti tecniche venissero realizzate dal medesimo artigiano che le padroneggiava entrambe. Viceversa quando in Memoratorio 6-7 si al-lude ai compensi per il carpentiere (abietarius) sembra si tratti del medesimo artigiano in grado di realizzare cancelli o sagome per gli archi, di costruire i telai per il tetto oppure un muro «cum axis clausum». Del resto, la squadratura del legno, menzionata in Memoratorio 4 (travi da costruzione più o meno grandi, valutati venti per un tremisse e armature e braccioli in numero di cinque per un trave) poteva servire sia per un edi�cio in muratura sia per uno di legno. Del resto il Memo-ratorio riguarda esplicitamente sia l’opera romanense sia quella gallica, entrambe competenza delle medesime

maestranze specializzate. Impossibile però dire, sulla base di questo testo, per quali tipi edilizi poveri fosse necessario farvi ricorso. E non va dimenticato che il testo appartiene al tempo di Grimoaldo (�ne del VII secolo), quando a cento anni dalla conquista la società si era ormai integrata nelle due componenti, germanica e romana, comprese probabilmente le competenze degli artigiani edili, che in precedenza potevano essere distin-te, secondo un processo che pare documentato anche nel campo della metallurgia (La Salvia 2007).

In conclusione, per ricostruire la trasmissione dei saperi tecnici nell’altomedioevo, penso sia indispen-sabile lavorare sulle fonti materiali, attaverso quattro percorsi analitici, che riguardano: (1) la conservazione, grazie alla sopravvivenza o alla reintroduzione di maestranze specializzate, di tecniche di tradizione classica con radicamenti ove vi è continui-tà di committenza (come nelle capitali) e spostamenti a richiesta delle élites più elevate. Alcune di queste tecniche specializzate potevano poi essere apprese da muratori occasionali, quali i servi del capitolo 145 dell’editto di Rotari che si mettevano al servizio dei ma-gistri venuti da fuori, secondo le modalità proposte, in alcuni esempi toscani, da Giovanna Bianchi (1996); (2) l’evoluzione delle conoscenze nella tradizione re-gionale, tramandata di padre in �glio, che, come si è accennato, comprendeva una varietà di tipi e teniche costruttive caratterizzate da una scarsa specializzione (almeno secondo i parametri di Vidale). Tradizioni regionali di lunga durata che vanno studiate distinta-mente, come le case con zoccolo in muratura e alzato in materiale deperibile, seminterrate su tre lati ben documentate nell’area retica alpina (tipo Idro);(3) l’introduzione di altri tipi e tecniche edilizie da parte di gruppi alloctoni; è questo il caso delle Grubenhäuser documentate nella campagne dell’Occidente, dal IV se-colo nel nord della Gallia (Van Ossel 2008), dalla �ne del V in Spagna (Vigil Escalera 2000), dall’età gota in Italia (Brogiolo, Chavarría Arnau 2005, 2008), per le quali, nonostante alcuni pareri contrari (Augenti 2004, Arthur 1999 e 2004), va rilevato che hanno ca-ratteristiche strutturali diverse dagli edi�ci seminterrati di tradizione regionale italiana: sono interamente in legno con pali verticali e fondo scavato nel terreno per alcuni decimetri, non sono anteriori all’età gota e in alcuni casi (oltre a Brescia S. Giulia, a Frascaro, Collegno, Rodengo Saiano, Oderzo, Rosà) sono riferibili a insediamenti al-loctoni di VI-VII secolo. È però del tutto plausibile che, una volta trasferito in Italia, questo tipo edilizio possa essere stato utilizzato anche in insediamenti di romani; (4) l’introduzione di tecniche costruttive di alto livello da parte di maestranze o di singoli maestri provenienti da altri contesti culturali e tecnici. È stata ipotizzata, come si è detto, per le decorazioni del Tempietto di Cividale e per la reintroduzione dell’opera quadrata in Occidente ad opera di maestranze bizantine e/o arabe, che avrebbero riattivato le tradizioni architettoniche già presenti in età romana.

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ASPETTI E PROSPETTIVE DI RICERCA SULLE ARCHITETTURE ALTOMEDIEVALI TRA VII E X SECOLO

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