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BENEDETTO CROCE E IL LIBERALISMO * 1. Ai fini del chiarimento del dibattito politico in Italia in questi anni ritengo sia importante sapere se ed entro quali limiti il pensiero di Croce possa dirsi liberale. Si assiste, da un lato, alla pretesa dei seguaci di stretta osservanza di elevare Croce a filosofo del liberalismo, a farne il pensatore che per primo abbia elaborato una completa filosofia del liberalismo. D'altra parte gli avversari, soprattutto i marxisti, mostrano la tendenza a buttare via insieme con la filosofia di Croce, considerata come conservatrice, reazionaria, se non addirittura filo - fascista, anche il liberalismo •1•. Entrambe queste posizioni, pur essendo antitetiche rispetto ai risultati, partono dalla stessa premessa: che Filosofia di Croce filosofia del liberalismo siano una cosa sola, che Croce sia stato il migliore, se non l'unico, interprete, autorizzato dalla provvidenza storica, a formulare una teoria del liberalismo? E' una premessa che a me pare fondata principalmente sulla scarsa conoscenza della storia del liberalismo, di cui è stato in gran parte responsabile in Italia lo stesso idealismo, e su di una scarsa esperienza di politica liberale, onde finiscono per trar vantaggio gli avversari dello stato liberale e può derivare soltanto un aumento di confusione delle lingue, già così frequente nei dibattici politici. Dico subito che nonostante i dubbi che ritengo di dover sollevare sulla teoria del liberalismo di Benedetto Croce, non ho affatto l'intenzione di sminuire la funzione liberale che il pensiero e la personalità del Croce ebbero negli anni del predominio fascista. C'è qualcuno che per odio al liberalismo o per odio a Croce vorrebbe disconoscere i meriti e il valore pratico della posizione antifascista dell'autore della Storia d'Europa. Chiunque abbia partecipato alle ansie e alle speranze di quegli anni, parlo s'intende di intellettuali, non può dimenticare che la strada maestra per convertire all'antifascismo gli incerti era di far leggere e discutere i libri di Croce, che la maggior parte dei giovani intellettuali arrivarono all'antifascismo attraverso Croce, e coloro che già vi erano arrivati o vi erano sempre stati, traevano conforto dal sapere che Croce, il rappresentante più alto e più illustre della cultura italiana, non si era piegato alla dittatura. Ogni critica all'atteggiamento di Croce durante il fascismo è astiosa e malevola polemica. Come tale non merita discussione. Ciò che a me preme discutere è se oggi, negli anni della ricostruzione di uno stato liberale e democratico in Italia, la teoria politica elaborata da Croce negli anni in cui combatté il fascismo in nome dell'ideale morale della libertà, ci sia di giovamento, e qual frutto crediamo di poterne trarre per orientare il nostro pensiero sui problemi del presente. Ciò che viene in questione nelle pagine seguenti non è la personalità morale di Croce, ma unicamente la sua dottrina politica in funzione dello sviluppo della vita democratica in Italia.

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* Questo articolo è la seconda parte di un saggio che apparirà completo in un volume di prossima pubblicazione presso l'editore Einaudi.

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BENEDETTO CROCE E IL LIBERALISMO *

1. Ai fini del chiarimento del dibattito politico in Italia in questi anni ritengo sia importante sapere se ed entro quali limiti il pensiero di Croce possa dirsi liberale. Si assiste, da un lato, alla pretesa dei seguaci di stretta osservanza di elevare Croce a filosofo del liberalismo, a farne il pensatore che per primo abbia elaborato una completa filosofia del liberalismo. D'altra parte gli avversari, soprattutto i marxisti, mostrano la tendenza a buttare via insieme con la filosofia di Croce, considerata come conservatrice, reazionaria, se non addirittura filo - fascista, anche il liberalismo •1•. Entrambe queste posizioni, pur essendo antitetiche rispetto ai risultati, partono dalla stessa premessa: che Filosofia di Croce filosofia del liberalismo siano una cosa sola, che Croce sia stato il migliore, se non l'unico, interprete, autorizzato dalla provvidenza storica, a formulare una teoria del liberalismo? E' una premessa che a me pare fondata principalmente sulla scarsa conoscenza della storia del liberalismo, di cui è stato in gran parte responsabile in Italia lo stesso idealismo, e su di una scarsa esperienza di politica liberale, onde finiscono per trar vantaggio gli avversari dello stato liberale e può derivare soltanto un aumento di confusione delle lingue, già così frequente nei dibattici politici.

Dico subito che nonostante i dubbi che ritengo di dover sollevare sulla teoria del liberalismo di Benedetto Croce, non ho affatto l'intenzione di sminuire la funzione liberale che il pensiero e la personalità del Croce ebbero negli anni del predominio fascista. C'è qualcuno che per odio al liberalismo o per odio a Croce vorrebbe disconoscere i meriti e il valore pratico della posizione antifascista dell'autore della Storia d'Europa. Chiunque abbia partecipato alle ansie e alle speranze di quegli anni, parlo s'intende di intellettuali, non può dimenticare che la strada maestra per convertire all'antifascismo gli incerti era di far leggere e discutere i libri di Croce, che la maggior parte dei giovani intellettuali arrivarono all'antifascismo attraverso Croce, e coloro che già vi erano arrivati o vi erano sempre stati, traevano conforto dal sapere che Croce, il rappresentante più alto e più illustre della cultura italiana, non si era piegato alla dittatura. Ogni critica all'atteggiamento di Croce durante il fascismo è astiosa e malevola polemica. Come tale non merita discussione. Ciò che a me preme discutere è se oggi, negli anni della ricostruzione di uno stato liberale e democratico in Italia, la teoria politica elaborata da Croce negli anni in cui combatté il fascismo in nome dell'ideale morale della libertà, ci sia di giovamento, e qual frutto crediamo di poterne trarre per orientare il nostro pensiero sui problemi del presente. Ciò che viene in questione nelle pagine seguenti non è la personalità morale di Croce, ma unicamente la sua dottrina politica in funzione dello sviluppo della vita democratica in Italia.

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* Questo articolo è la seconda parte di un saggio che apparirà completo in un volume di prossima pubblicazione presso l'editore Einaudi.

1. Ancor recentemente tra ammiratori e avversari di Croce si è acceso un dibattito a proposito della recensione di Salvemini al libro del Mautino su "Il Ponte", maggio 1954, pp. 810-812; vedi le reazioni di Vinciguerra sulla stessa rivista, luglio - agosto 195, pp. 1251-1253; e la risposta di Salvemini La politica di B. Croce, ibidem, novembre 1954, pp. 1728-1744.

2. Risaliamo per tiri momento all'affermazione, ripetutamente fatta dal Croce nei momenti più drammatici della vita italiana in cui non era più possibile tenersi in disparte e ciascuno era costretto a scegliere il proprio posto, che egli fosse un liberale per temperamento e per sentimento. Sapeva benissimo il Croce, facendo questa affermazione, che nessuno avrebbe potuto riconoscere in lui un liberale per dottrina. In realtà, la formazione culturale del Croce era avvenuta interamente al di fuori della tradizione del pensiero liberale. E' un fatto piuttosto sconcertante, e come tale merita qualche commento, che colui che sarebbe. diventato un coraggioso paladino di libertà e secondo alcuni un insuperato teorico del liberalismo, non abbia mai dimostrato nel periodo della sua formazione interesse per la storia del liberalismo, anzi abbia mostrato forte attrazione per gli scrittori estranei a quella storia o addirittura illiberali.

Il suo primo maestro in politica era stato Carlo Marx, e per quanto l'infervoramento per i problemi del marxismo fu, com'egli stesso ebbe a confessare, più teoretico che politico, è certo che il primo contatto col marxismo rappresentò l'inizio del suo interessamento alla politica dopo i primi anni di studi eruditi, e che l'interesse che finì per essere prevalentemente teoretico per il marxismo non fu senza lasciar profonda traccia nei suoi orientamenti politici. Resta come documento fondamentale il passo della prefazione alla III edizione dei saggi marxistici scritta durante la guerra (1917), e che per quanto notissima siamo costretti a riportare anche noi per intero: "La qual cosa [che la teoria della lotta di classe non sia da considerarsi più valida] non deve impedire di ammirare pur sempre il vecchio pensatore rivoluzionario (per molti rispetti assai più moderno del Mazzini, che gli si suole presso di noi contrapporre): il socialista, che intese come anche ciò che si chiama rivoluzione, per diventare cosa politica ed effettuale, debba fondarsi sulla storia, armandosi di forza o potenza (mentale, culturale, etica, economica), e non già confidare nei sermoni moralistici e nelle ideologie e ciarle illuministiche. E, oltre l'ammirazione, gli serberemo, - noi che allora eravamo giovani, noi da lui ammaestrati, - altresì la nostra gratitudine per aver conferito a renderci insensibili alle alcinesche seduzioni (Alcina, la decrepita maga sdentata che mentiva le sembianze di florida giovane) della Dea Giustizia della Dea Umanità" •2•.

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Il secondo autore era stato Giorgio Sorel: "Vedi - scriveva ad un amico - io mi sono un tempo appassionato del socialismo alla Marx e poi del socialismo sindacalista alla Sorel: ho sperato dall'uno e dall'altro una rigenerazione della presente vita sociale" •3•. Sui rapporti ch'egli ebbe col Sorel siamo ben informati attraverso le lettere pubblicate sulla "Critica" dal 1927 al 1930, e sulle ragioni della sua simpatia intellettuale per il teorico della violenza ci dà una notizia precisa la lunga recensione, che è insieme un giudizio complessivo sull'opera soreliana e un incisivo ritratto di quello straordinario personaggio, pubblicata nella "Critica" del 1907, ove il Sorel appare come odiatore dei moralisti, dei giacobini, dei retori, affermatore "di una morale austera, seria, spoglia di enfasi e di chiacchiere, di una morale combattente, atta a serbare vive le forze che muovono la storia e le impediscono di stagnare e corrompersi" •4•. Quando, qualche anno più tardi, Croce decretò in una finta intervista sulla "Voce" che il socialismo, anche nella sua ultima incarnazione sindacalistica era morto •5•, non fu certo, come volle far credere in un tentativo di postuma riabilitazione dopo tanti anni •6•, per aver abbracciato la fede liberale.

2. Materialismo storico ed economia marxistica, IV ediz, 1927, pp. XII-XIV.

3. Cultura tedesca e politica italiana (1914), in Pagine sulla guerra, II ediz. l928, p. 22.

4. Conversazioni critiche, IV ediz. 1950, I, p. 309.

5. La morte del socialismo (1911), in Cultura e vita morale, II ediz. 1926, pp. 150-159. Per la polemica che questo articolo suscitò vedi la risposta di Croce in Pagine sparse, Napoli, Ricciardi, 1943, I, pp. 299-301.

6. Colpi che falliscono il segno (1947), in Due anni di vita politica italiana, Ilari, Laterza, 1948, pp. 142-145, dove ribadendo con ostinazione i concetti dell'infausto articolo del 1911 aggiunse anche che quella nuova fede a cui aveva accennato in fin d'articolo senza dichiarai lo era la fede nella via della libertà.

Che ci volesse una nuova fede dopo che la fiammata socialistica era spenta egli ben sapeva e predicava, ma questa nuova fede, nonostante quel che ne disse rievocando dopo molti anni quella profezia, non aveva niente a che vedere con la dottrina liberale. In un articolo del 1911, intitolato per l'appunto Fede e programma, che può sembrare l'integrazione positiva della critica contenuta nella profezia, deplorava l'atomismo sociale (proprio ciò di cui un liberale avrebbe dovuto rallegrarsi), la decadenza del sentimento dell'unità sociale e della disciplina nazionale, poiché gli individui " non si sentono più legati a un gran tutto, parte di un gran tutto, sottomessi a questo, cooperanti in esso, attingenti il loro valore dal lavoro che compiono nel tutto", e proclamava la necessità di una nuova tede da

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fondarsi tra l'altro sulla convinzione " che l'individuo gestisce un'eredità ricevuta dal passato e da tramandare accresciuta all'avvenire, che l'uomo è niente in quanto astratta individualità, ed è tutto in quanto concorda col tutto". Né ci sarebbe stato rinnovamento sino a che famiglia, patria, umanità non riprendessero il loro senso schietto e non riscaldassero i cuori " come li hanno sempre riscaldati da quando la storia è storia" •7•. Era l'ideale politico, come ognun vede, del perfetto uomo d'ordine, per il quale lo stato, questo ente ideale, sempre benefico perché per essenza interprete dei bisogni e degli interessi collettivi, ha sempre ragione, e gli individui che cercano di perseguire i loro interessi come meglio possono dando talora qualche cruccio ai governanti, hanno sempre torto. Quanto di più illiberale, insomma, si potesse immaginare. Il socialismo, dunque, per Croce era morto, ma non era ancora nato il liberalismo. Ciò che era nato era una specie di socialismo patriottico che era lontano dal liberalismo quanto il socialismo della prima maniera. Alla fine del 1914, all'inizio di quella guerra in cui egli avrebbe esaltato la teoria germanica dello stato - potenza, scriveva che gli si era accesa la speranza " di un movimento proletario inquadrato e risolto nella tradizione storica, di un socialismo di stato e nazione " e pensava che ciò non avrebbero fatto i demagoghi di Francia, Inghilterra ed Italia, ma "forse la Germania, dandone l'esempio e il modello agli altri popoli" •8•. Passando dal socialismo marxistico a quello della cattedra, ciò che saltava a piè pari era proprio la tradizione del pensiero liberale.

Nel luglio dello stesso anno, come presidente del comitato elettorale del "Fascio dell'ordine", che raccoglieva liberali moderati e cattolici contro il "Blocco" dei partiti del progresso, da lui sdegnosamente apostrofato col Sorel come "una raccolta di appetiti democratici inghirlandata di frasi banali", aveva preso parte alla campagna per le elezioni amministrative di Napoli, e dopo che il Blocco ebbe vinto scrisse che "il popolino" napoletano non era cambiato in nulla dal tempo dei Borboni perché, partito Franceschiello, si era formato altri idoli nei demagoghi della sinistra •9•. Durante gli anni della guerra esibì un terzo autore, più dei due precedenti consono ai suoi ideali di conservatore, il Treitschke, la cui opera principale fece pubblicare al Laterza nel 1918 raccomandandone la lettura e lo studio "tanta sapienza vi è raccolta ed esposta in forma semplice e sostanziosa" •10•, e già sin dall'inizio della guerra lo difendeva, come storico e come teorico della politica, contro gli attacchi e gli insulti degli scrittori democratici •11•, e da lui soprattutto traeva argomento per rafforzare il concetto dello stato - potenza, che non era un segreto di fabbrica per la prosperità della Germania, ma " è un universale principio direttivo, utile del pari a tutti gli stati, e che a tutti gli stati consiglia la 'potenza' e non 1' 'impotenza'; il tendere tutte le proprie forze per costringere gli altri alla stessa energia di vita in vantaggio dell'umanità, che solo col lavoro e con gli sforzi si salva dalla morte e dalla putredine" •12•. Questi tre autori gli offrono continuamente occasione di risalire a colui che possiamo ben dire il suo quarto autore, ma che avremmo dovuto per l'importanza storica nominare

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per il primo, Niccolò Machiavelli, al quale ripetutamente attribuì il merito di aver scoperto 1'atttonomia della politica, e di appartenere per ciò stesso alla storia del pensiero a maggior diritto che tanti frigidi filosofi scolastici, e di cui si era occupato in una nota, che già conteneva il succo della sua interpretazione, in uno dei suoi giovanili saggi marxistici •13•, e che non cessò in seguito di citare ogni qualvolta gli accadeva di scagliare fulmini contro i pacifisti, i moralisti, gli idealisti da strapazzo che avrebbero preteso fossero gli stati governati coi paternostri.

7. Cultura e vita morale, pp. 163 e 166.

8. Cultura tedesca e politica italiana, p. 22.

9. Vedi i lochi documenti di questa campagna elettorale in Pagine sparse, I. pp. 408-411.

10. Pagine .sulla guerra, p. 235.

11. Pagine .sulla guerra, p. 79 e segg.

12. Pagine sulla. guerra. p. 84.

13. Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, in Materialismo storico ed economia marxistica, pp. 105-107. - Sull'argomento vedi il saggio di G. Sasso. Benedetto Croce interprete del Machiavelli in "Letterature moderne", numero speciale dedicato a B. Croce, Milano. 1953, pp. 305-322.

3. Non solo gli autori di politica che il Croce prediligeva erano estranei, o addirittura ostili, alla tradizione liberale, ma egli avversa, con passione costante e veemente, per tutta la vita e talora derise quel moto di pensiero da cui la teoria dello stato liberale era sorta, e al quale era storicamente connessa : il giusnaturalismo, che egli accomunò nell'avversione all'illuminismo, tutto in blocco concepito e condannato come espressione della mentalità settecentesca contrapposta alla più matura mentalità storica ottocentesca, come razionalismo astratto contrapposto a razionalismo concreto. Di questa guerra aperta contro la teoria dei diritti naturali basteranno, per mostrarne il perseverante accanimento, tra le tante che si potrebbero andar spigolando in tutte le opere, due dichiarazioni tra le quali intercorre uno spazio di tempo di ben sessantadue anni. La prima, notissima, si trova nei Pensieri dell'arte, che recano la data del 1885 (il Croce non era ancora ventenne), ove si parla dei "diritti innati" come di "spiritosa invenzione dei filosofi del secolo scorso" •14•; la seconda si legge nella lettera inviata nel 1947 al Comitato promotore di una raccolta di saggi sui diritti umani, a cura dell'Unesco: "Le dichiarazioni di diritti... si fondano tutte su una

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teoria che la critica venuta da più parti e riuscita vittoriosa, ha abbandonato: la teoria del diritto naturale, che ebbe i suoi motivi contingenti nei secoli dal XVI al XVIII, ma che filosoficamente e storicamente è affatto insostenibile" •15•.

Al giusnaturalismo - illuminismo Croce attribuiva due grosse responsabilità : una più strettamente teoretica, di aver dato alimento alle dottrine dell'ottimo stato dei falsi idealisti i quali misconoscendo la realtà dello stato che è forza gli contrapponevano le alcinesche seduzioni dell'umanitarismo, del pacifismo, dell'universale abbracciamento dei popoli, e in definitiva una concezione fiacca della vita che è lotta perpetua; una più strettamente politica, di aver offerto il fondamento filosofico all'idea egualitaria secondo cui tutti gli uomini essendo uguali per natura debbono essere uguali in diritto, e la varietà degli ingegni e dei caratteri e delle forze, donde nasce il movimento storico, viene misconosciuta in un mortifero livellamento. Croce accentuò, a seconda delle occasioni, or 1'una or l'altra accusa, ma furono generalmente congiunte, e sono, nei contesti in cui vengono espresse, mal separabili. Del resto derivano entrambe dallo stesso errore filosofico che egli considerava ii vizio di tutto il movimento illuministico : l'astrattismo. Astrattismo nel giudizio storico, nel primo caso; astrattismo nel giudizio politico, nel secondo. Se vogliamo dar loro un nome facilmente riconoscibile nella terminologia crociana, il primo coincideva con la mentalità massonica, il secondo con la mentalità democratica.

La polemica antigiusnaturalistica, in particolare contro la mentalità massonica e contro la mentalità democratica, ebbe il suo momento culminante durante la prima guerra mondiale, ma ricorre anche prima e dopo e costituisce un motivo ricorrente nella storiografia crociana. Contro la prima aveva già espresso tutto il proprio pensiero nel 1910 tacciandola di astrattismo e di semplicismo, di cultura u ottima per commercianti, piccoli professionisti, maestri elementari, avvocati, mediconzoli" (ahimè, come costoro dovevano dimostrarsi dieci anni dopo molto migliori discepoli della teoria per spiriti forti che il Croce andava predicando!) •16•. Contro la seconda, non tralasciò di mostrare la sua ostilità ogni qualvolta si trovò di fronte ad una sua incarnazione storica, fossero il giacobinismo della Rivoluzione francese, il mazzinianesimo del Risorgimento, il socialismo degli anni dopo l'unità; e a questo proposito Gramsci riteneva che la storiografia crociana dovesse essere considerata come una rinascita della storiografia della Restaurazione •17•.

14. Pagine sparse, I, p. 475

15. Dei diritti dell'uomo, Milano. Edizioni di Comunità. 1959, p. 233.

16. La mentalità massonica, in Cultura e vita morale, pp. 143-150. Analoghe accuse in La storicità e la perpetuità della ideologia massonica (1918), in Pagine sulla guerra pp. 255-263.

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17. A. GRAMSCI, Il materialismo storico e la filosofia di R. Croce. Torino, Einaudi, 1948, soprattutto p. 184 e segg.

4. Proprio in questa condanna senza appello del giusnaturalismo e del democratismo comincerei ad indicare una delle principali ragioni dell'insufficienza del liberalismo crociano e della sua connessa sterilità negli anni della ricostruzione. Con questa condanna infatti il Croce si metteva nell'impossibilità di cogliere dite concetti che pur non potevano non confluire in una compiuta idea dello stato liberale, e che gli avrebbero offerto, se accolti, argomenti validissimi nell'opposizione, che egli pur si sforzò di condurre non solo politicamente, ma anche teoricamente, alla concezione autoritaria dello stato. Anzitutto non vide, o soltanto intravide, che il giusnaturalismo aveva posto le fondamenta non soltanto della concezione democratica dello stato, ma anche di quella liberale; in secondo luogo non diede mai segno di essersi reso conto che l'egualitarismo era un aspetto soltanto, e forse non il più importante, della concezione democratica dello stato. Cerchiamo di esaminare separatamente i due punti : la teoria dello stato liberale in opposizione allo stato assoluto nasce ad un tempo con la teoria dei limiti del potere dello stato. Nello stato assoluto il potere originario è considerato al disopra di ogni limitazione giuridica. Nello stato liberale il potere sovrano è esercitato da una pluralità di organi che agiscono nei limiti delle leggi. Quando i giuristi nel secolo XIX ne elaboreranno la teoria formuleranno il concetto di stato di diritto. Ma già, sin dal secolo XVI con le prime teorie politiche calvinistiche •18•, e più ancora nel secolo XVII in Inghilterra sino alla sistemazione del Locke, il giusnaturalismo offre il principale sostegno alla concezione dei limiti del potere statale : il quale è considerato come limitato perché al disopra della legge positiva è posta la legge naturale da cui derivano agli individui diritti originari, precedenti alla instaurazione della società civile, che la società civile una volta costituita non può in alcun modo violare, ma deve garantire a costo di dissolversi e di aprire la strada all'affermazione del diritto di resistenza, che è esso stesso un diritto naturale. Questa idea dello stato limitato dai diritti naturali, di uno stato la cui funzione non è di creare un ordinamento giuridico nuovo, ma di rendere possibile, attraverso l'esercizio del potere coattivo, l'adempimento delle leggi naturali, trapassa dall'esperienza politica inglese e dalla teoria di Locke nelle dichiarazioni dei diritti che accompagnano prima negli stati americani, poi in Francia, e infine via via fino ai giorni nostri in quasi tutte le costituzioni del mondo civile, la formazione dello stato moderno. Si può oggi contestare legittimamente, ed è stata più volte contestata, la validità della teoria del diritto naturale a far da sostegno alla teoria e alla pratica dello stato liberale. Quel che non si può respingere è il nesso storico tra giusnaturalismo e liberalismo, e la constatazione che la teoria dei diritti naturali, comunque oggi la si voglia giudicare in sede filosofica, è stata la principale ispiratrice di quella particolare tecnica

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della organizzazione statale che è la tecnica dei limiti giuridici del potere, fondata principalmente sulla garanzia dei diritti individuali da parte degli organi del pubblico potere e sul controllo del pubblico potere da parte dei cittadini e nella quale consiste la caratteristica, principale dello stato liberale. La ideologia da cui una certa tecnica ha tratto il proprio sostegno è caduta; ma la tecnica è rimasta. Quali altri sostegni ideologici abbia trovato e se ne abbia trovati, non è cosa che qui ci preoccupa. Quel che conta è che sinora nessun ordinamento che voglia mettere in atto un potere non dispotico, ha potuto di questa tecnica fare a meno. Ora il Croce, non avendo dato alcuna importanza al nesso fra giusnaturalismo e liberalismo, e del resto avverso com'era al primo dei due indirizzi non era nelle migliori condizioni per avvedersene, finì per gettare via insieme col giusnaturalismo anche la teoria dei limiti del potere dello stato, cioè quella teoria che differenzia ancor oggi una dottrina liberale da un'altra che liberale non è.

Sorprende infatti che a questa teoria egli sia passato accanto quasi senza accorgersene. Tra gli scrittori politici, di cui esamina brevemente la dottrina negli Elementi di politica, ve n'è uno solo che appartenga alla tradizione del pensiero liberale (il che dimostra che anche dopo l'interessamento per la teoria del liberalismo non provò alcuna curiosità di risalire alle fonti): Benjamin Constant •19•. Ora il Constant, il protestante e inglesizzante Constant, proprio nello scritto che il Croce aveva sott'occhio (La libertà degli antichi comparata a quella dei moderni) esprime una delle più chiare formulazioni, rimasta anche in seguito esemplare, della dottrina del liberalismo classico intesa come dottrina dei limiti del potere dello stato come affermazione della "libertà dallo stato" in contrapposto alla teoria antica (o a quella che il Constant reputa tale) della libertà nello stato". Questo modo di vedere la libertà dei moderni era l'effetto della dottrina giusnaturalistica di origine calvinistica che aveva contrapposto la sfera privata del cittadino alla sfera pubblica, il forum inteynum al forum externum, in una parola l'individuo allo stato. Il Constant, facesse o non facesse appello immediatamente ai giusnaturalisti e alla tradizione calvinistica, si presentava come l'erede e il continuatore di quella tradizione. Croce additava nel Constant colui che avrebbe avviata la soluzione del problema moderno della libertà, ma invece di soffermarsi su ciò che costituisce l'elemento fondamentale di quello scritto, ne sottolinea un aspetto secondario consistente nell'avere il Constant inteso la libertà moderna non come edonistica ma come etica, nell'averla intesa come lui, Croce, l'avrebbe intesa, lasciandosi sfuggire che quella libertà etica di cui parlava il Constant era in quel discorso, in quel contesto, il fondamento stesso della teoria giusnaturalistica dello stato per la quale il valore etico dell'individuo oltrepassa i fini utilitari dello stato e perciò stesso gli pone limiti invalicabili, che insomma libertà etica e teoria dei limiti del potere si implicavano. Croce invece s li disgiungeva, e mentre metteva in evidenza il concetto etico di libertà, si sbarazzava con un gesto di fastidio, o peggio d'impazienza, della teoria dei limiti del potere, come di teoria giuridica, empirica,

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non speculativa. quando, commentando la dottrina dello Jellinek, asseriva che la filosofia " non sa né dell'individuo di fronte allo stato, né dello stato di fronte all'individuo, dell'uno cioè fuori dell'altro e trattati come due entità quando sono invece i due termini di una relazione, definibili l'uno per l'altro" •20•. In realtà, dietro quell'indifferenza per una teoria empirica, non speculativa, si celava un modo diverso di concepire l'individuo e lo stato : si celava una concezione non personalistica dell'individuo (l'individuo come particella dello Spirito universale) e una concezione universalistica dello stato (lo stato come totalità di cui l'individuo empirico è parte). Ma entrambe le concezioni erano il normale fondamento di una concezione politica che certamente il Constant avrebbe considerato come " libertà degli antichi n e a cui si sarebbe meglio adattata la formula di " liberti nello stato" •21•, che, foggiata in periodo di restaurazione romantica dalle teorie organiche, e come tale estranea e contraria alla tradizione del pensiero liberale, è servita di poi egregiamente ai vari dittatori per giustificare ogni colpo di mano sulla libertà, e s'intende sulla libertà empirica e non su quella speculativa.

18. Rispetto alle origini del liberalismo Croce distinse il calvinismo di cui riconobbe il contributo positivo, dal giusnaturalismo che restrinse con una interpretazione storica discutibile alle teorie egualitarie del secolo XVIII. Si veda Etica e politica. II ediz. 1945 p.299. E per il contributo dato dal calvinismo al liberalismo Vite di avventure di fede e di passione, 1936, p. 211.

19. Constant e Jellinek, in Etica e Politica, pp. 294-302.

20. Op. cif., p. 299. Così pure nella Storco d'Europa del sec. XIX. a proposito del Constant condannava l'errore di astrattezza "che si rinnova sempre che si cerca di definire l'idea della libertà per mezzo di distinzioni giuridiche" (p. 13).

21. Si veda ad esempio questo passo: "L'amore allo stato è collaborazione con lo stato, è inserire nello stato e versare nella vita politica il meglio di noi stessi...; e questa partecipazione è quel che, con altra parola, si chiama la libertà. La quale non è dunque l'opposizione allo stato, l'offesa alla sua maestà, ma è la vita medesima dello stato... Né è concepibile libertà nello stato che non sia libertà politica o, come si è detto, collaborazione alla sua vita" (Vecchie e nuove questioni intorno all'idea dello stato, in Orientamenti. Milano, Gilardi e Noto. 1934, pp. 15 16).

5. Ogni qualvolta il Croce combatté la teoria e gli ideali democratici mostrò di non vedere nella democrazia altro che il trionfo del meccanico, meramente quantitativo, materialistico, principio dell'egualitarismo. Per lui democrazia significava il dogma dell'astratta eguaglianza di tutti gli uomini, vecchio e anacronistico dogma settecentesco, superato dalla concezione storicistica che nella fase più matura del suo pensiero identificava senz'altro con la concezione liberale della vita. Ciò facendo elevava a concetto della democrazia un uso non dico arbitrario ma certamente unilaterale di

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quell'abusatissimo termine. Nell'uso corrente e tecnico del termine, "democrazia" indica, non solo il regime egualitario, ma anche lo stato a sovranità popolare in contrapposto a quello a sovranità principesca, lo stato fondato sul consenso in contrapposto allo stato fondato sulla forza. Nel primo senso gli si contrappone di solito lo stato aristocratico o di privilegio, nel secondo quello autocratico o dispotico. In questo secondo senso " democrazia " non sta più ad indicare un certo ideale, ma piuttosto una certa tecnica dell'organizzazione statale, alla cui elaborazione, non meno che alla formulazione di quell'astratto ideale, diede impulso il giusnaturalismo attraverso la dottrina dell'origine contrattualistica dello stato. Nell'opera di chiarimento di termini disputatissimi come "liberalismo" e "democrazia", l'uno troppo ambiguo e l'altro troppo vago, può costituire, a mio avviso, un primo passo il rilevare che entrambi i termini vengono adoperati sia per indicare una certa tecnica dell'organizzazione statale, sia un certo ideale politico. Per " liberalismo " s'intende non solo, come già si è visto, lo stato fondato sulla tecnica dei limiti del potere statale, ma anche lo stato che ha per ideale il massimo sviluppo dell'individuo come centro autonomo di creazione di valori. Per "democrazia" s'intende non solo lo stato che ha per ideale l'uguaglianza, politica, sociale, economica, ecc., ma anche lo stato fondato sulla tecnica del consenso. Nel contrapporre liberalismo a democrazia Croce, invece, non tenne in nessun conto il significato tecnico di questi termini, ma li prese entrambi come significanti ideali, addirittura concezioni filosofiche opposte. E siccome la contrapposizione com'egli la vide non poteva esser più netta - si trattava nientemeno che dell'antitesi di illuminismo e storicismo - non si pose nella miglior condizione di vedere che liberalismo e democrazia, anziché essere movimenti antitetici, erano stati spesso considerati, dal punto di vista delle rispettive tecniche, come integrantisi si da dar origine alla concezione liberale - democratica dello stato, oggi dominante in tutti i paesi di tradizione liberale, e commise l'errore storico, più volte ripetuto e che ebbe sulle nuove generazioni di discepoli un effetto disorientante, di considerare l'ideale liberale come più maturo rispetto a quello democratico, e comunque cronologicamente posteriore (l'uno del secolo XVIII, l'altro del secolo XIX), mentre, prescindendo da ogni giudizio di valore su quale dei due ideali sia il migliore, è pura questione di fatto che, considerati questi termini nel loro legittimo uso tecnico, l'organizzazione dello stato democratico (fondato appunto sul consenso) rappresenta una conquista successiva attraverso il graduale allargamento del suffragio, rispetto allo stato liberale fondato sulla garanzia dei diritti di libertà.

Come gli era accaduto d'imbattersi in un genuino scrittore liberale, il Constant, se accorgersi che in lui vi era non già e non soltanto una professione di fede negli ideali di libertà ma una teoria dell'organizzazione statale contenente il nocciolo dello stato che si chiamò allora e si chiama tuttora liberale, così s'incontrò col più grande teorico moderno della democrazia trascurando ciò che aveva reso celebre quella dottrina, vale a dire il tentativo più audace e più

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conseguente sino allora compiuto di spiegare e giustificare l'organizzazione statale fondandola sul massimo consenso dei cittadini. Le poche pagine ch'egli dedicò al Rousseau negli Elementi di politica, oltre ad essere un pretesto per ribattere i soliti torti del giusnaturalismo, contengono una rapida presentazione dell'autore del Contratto sociale come di uno spirito matematizzante, incapace di comprendere la storia e la realtà, tutto assorto in una costruzione astratta che se fornì armi e bandiere agli innovatori, il pensiero più maturo non può considerare se non come fantasticheria e vacuità •22•. Ancora una volta Croce mirava diritto agli ideali e non si curava dei problemi di struttura. Ala in tal modo la sua semisecolare diatriba contro la democrazia e i democratici non solo rischiava di essere iniqua, ma si ritorceva alla fine contro lui stesso, contro il suo fiero atteggiamento di uomo di cultura che difende la libertà dalle spire dell'autoritarismo. E infatti come si poteva difendere la libertà osteggiando un grande movimento politico che era caratterizzato storicamente in primo luogo dall'aver propugnato il principio della sovranità popolare, cioè della sovranità che si esprime attraverso la partecipazione attiva di un sempre maggior numero di cittadini al governo della cosa pubblica? Ma la tecnica del consenso, messa in atto dagli stati democratici, non era stata escogitata in funzione di quella maggiore autonomia dell'individuo che era il fine precipuo dello stato liberale? In questo senso di "democrazia", liberalismo e democrazia non erano solidali? Era mai . possibile immaginare uno stato liberale che non fosse anche, se non nel senso ideale; per lo meno in senso strutturale, democratico? E allora come poteva il Croce rifiutare la democrazia ed accettare il liberalismo proprio nel momento in cui l'apparire dello stato totalitario che era antiliberale (cioè oppressivo delle libertà) e antidemocratico (cioè gerarchico) li mostrava strettamente legati ? Lo poteva fare solo a patto di predisporre il bersaglio sulla propria linea di tiro, accogliendo cioè la democrazia per l'ideale che essa rappresentava non. per le soluzioni giuridiche che aveva avanzato, e di separare la contemplazione degli ideali che sola gli pareva degna del filosofo dalla ricerca dei mezzi occorrenti per realizzarli, che abbassava a preoccupazione quotidiana da politici empirici. Invero, quando negli Elementi di politica trattò la questione del rapporto tra forza e consenso, mantenendosi nell'atmosfera rarefatta della disputa speculativa, né dandosi la minima pena di vedere quali problemi di organizzazione del potere sovrano ci fossero dietro i miti dello stato - forza e dello stato - consenso, se ne venne fuori con la facile argomentazione dialettica che, usata larghissimamente dai nostri padri spirituali è stata sommamente diseducativa e ha fatto credere a generazioni intere di giovani pigri di avere uno specifico che li rendesse padroni del sapere e invece era un potente sonnifero che li fece cadere in letargo, secondo la quale a forza e consenso sono in politica termini correlativi, e dov'è l'uno non può mai mancare l'altro ", ragion per cui, u non c'è formazione politica che si sottragga a questa vicenda : nel più liberale degli stati come nella più oppressiva delle tirannidi il consenso c'è sempre, e sempre è forzato, condizionato e mutevole"

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•23•. Il che era un modo, come ognun vede, non già di risolvere il problema, ma di scavalcarlo.

22. Etica e politica, pp. 256-260.

23. Etica e politica, p. 221.

6. Quello stesso fervore che Croce esplicò nel contrastare il passo al giusnaturalismo, che pur aveva ispirato il liberalismo, impiegò nell'esaltare il romanticismo (se pur il romanticismo filosofico e non quello morale) •24•, che non aveva generato se non teorie politiche illiberali. Che il secolo XIX abbia rappresentato un grande movimento di progresso nello sviluppo delle istituzioni liberali è fuori discussione : quel che rende perplessi è che Croce dimenticando la cautela che egli aveva sempre raccomandato di non trarre troppo affrettate. conseguenze pratiche da concetti filosofici, mise al principio di quel moto il romanticismo speculativo che avrebbe posto " le premesse teoretiche del liberalismo" •25• e contrappose al binomio giusnaturalismo - democratismo, di cui abbiamo visto la fragilità, l'altro binomio romanticismo - liberalismo che ci pare non meno carico di fraintendimenti o per lo meno di forzature, dal momento che non ci si può trattenere dal constatare che i due maggiori rappresentanti del romanticismo filosofico, Begel e Comte, ci lasciarono come loro testamento politico due libri, i Lineamenti di filosofia del diritto del 1821 e il Système de politique positive degli anni 1851-54, che non si potrebbero immaginare più antitetici allo spirito del liberalismo e più estranei alla tradizione del pensiero liberale, anche a non voler aggiungere la più ovvia constatazione che nell'età del romanticismo presero forza gli ideali politici del nazionalismo e del socialismo che confluirono talora nella corrente liberale ma più spesso la osteggiarono o la ostacolarono (come lo stesso Croce più volte avverti).

Lasciamo al De Ruggiero, il quale pur scrisse un'opera importante sul liberalismo e che in altri tempi ci è stata cara, la responsabilità di aver affermato che "il liberalismo tedesco offre, contro le apparenze, un, particolare interesse storico; non soltanto per la grande elevatezza storica delle sue espressioni dottrinali, ma anche per la singolarità del suo sviluppo" •26• (e ciò in un libro in cui i due personaggi più importanti di cui si parla nel capitolo dedicato al liberalismo tedesco sono Hegel e Treitschke !), e ancora di aver posto al centro della sua storia dell'idea liberale il pensiero di Hegel - colui che avrebbe avuto il grande merito di aver tratto dall'identificazione kantiana della libertà con lo spirito l'idea di uno sviluppo organico della libertà come sintesi tra l'astratto razionalismo dei rivoluzionari e l'astratto storicismo dei reazionari, come compendio e anticipazione del moderno costituzionalismo tedesco; Croce, più avveduto e più equilibrato, non si lasciò fuorviare dalla sua ammirazione per Hegel sino a farne il filosofo

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per eccellenza del liberalismo, anzi, come abbiamo visto, non si stanca di criticarne la concezione dell'eticità dello stato, e se ammirò la tradizione politica tedesca per la elaborazione del concetto di stato - forza, non l'ammirò altrettanto per il contributo dato all'idea e alla pratica liberale •27•. Però a questo punto è legittimo porsi la domanda: quali sono gli scrittori romantici che avrebbero' dato nuovo vigore alla teoria del liberalismo? Certamente Croce non nascose la sua ammirazione per gli scrittori reazionari della Restaurazione che "sono da leggere per il forte sentimento che li anima dello stato come autorità e consenso insieme, e come istituzione che trascende il libito degli astratti individui; oltre che pel loro antiegalitarismo e pel loro antigiacobinismo" •28•. Ma da essi avrebbe dovuto attingere il nuovo secolo nuovi lumi per l'avanzamento della libertà ? In un breve elenco di scrittori da lui reputati liberali ricorda Constant, Royer Collard, Tocqueville, Macaulay •29•; ma come possono essere paragonati, al fine di una fondazione teorica del liberalismo, proprio ciò che il Croce vanta come effetto benefico del rinnovamento filosofico prodotto dal romanticismo, con i Locke del secolo XVII o con i Montesquieu e i Kant del secolo XVIII? Che cosa c'è nei Constant e nei Tocqueville, per ricordare i maggiori, che già, non vi fosse nel costituzionalismo di Locke, nel garantismo di Montesquieu, nel liberalismo giuridico di Kant?

24. Vedi la distinzione in Storia d'Europa, p. 48 e segg.

25. Storia d'Europa, p. 50.

26. G. DE RUGGIERO, Storia del liberalismo europeo, Bari, Laterza, II ediz., 1941, p. 223.

27. E' una tesi costante dei libri storiografici scritti durante la resistenza contro il fascismo. E già nel saggio Contrasti d'ideali parla dell'unità della Germania che si era fatta r prescindendo dalle forze e dall'educazione liberale" (Etica e politica, p. 314).

28. Etica e politica, p. 267.

29. Conversazioni critiche, II ediz., 1951, IV, p. 320.

In Inghilterra, nella prima metà dell'800, la teoria del liberalismo si era sviluppata oltre la critica del giusnaturalismo fatta dal Bentham ; anzi, aveva trovato un fondamento più consono alla tradizione empiristica inglese e non più soggetto alle critiche a cui ovunque la teoria dei diritti naturali era stata sottoposta, nell'utilitarismo di Stuart Mill. Ma del Mill il Croce, se ammira la sincera fede liberale, peraltro "meschinamente e bassamente - ragionata mercé dei concetti di benessere e di felicità e di prudenza", respinge

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aspramente "i poveri e fallaci teorizzamenti" •30•. Del resto non sembra che egli avesse dedicato molta attenzione alla storia del pensiero politico inglese. È sorprendente il fatto che nella breve storia della filosofia della politica, che segue alla Politica "in nuce" non sia stato considerato neppure uno scrittore inglese, e sì che da Hobbes a Locke, da Hume a Bentham, non mancava certo il materiale di studio e di riflessione. Più volte ritornò sull'idea che l'Inghilterra aveva molto insegnato nei concetti liberali durante i secoli XVII e XVIII ma poi molto appreso dai popoli del continente nel secolo XIX •31•. E solo negli scritti più tardi si può osservare qualche più frequente riferimento alle benemerenze dell'Inghilterra nella filosofia politica, ma sempre con la riserva che il liberalismo,, sorto in Inghilterra, si era sviluppato altrove e comunque in Inghilterra aveva trovato pratica, applicazione ma non una sufficiente applicazione dottrinale •32•. Ancora una volta il Croce andava cercando non le istituzioni dello stato liberale, sulle quali avevano raccolto considerazioni utili per i posteri gli scrittori inglesi, ma il concetto filosofico della libertà, per il quale occorreva, a detta sua, che il pensiero umano fosse giunto ad una concezione di assoluto immanentismo o ad uno spiritualismo assoluto che fosse insieme storicismo assoluto, e non trovandone traccia nel pensiero inglese,, lamentava che " il figlio primogenito del liberalismo", rimasto per due secoli invischiato nell'empirismo sensistico e utilitario, con annesso agnosticismo e ` possibilismo religioso, cc fosse stato a lungo tempo il meno adatto a dimostrare filosoficamente il suo proprio ideale e il suo proprio fine" •33•. Ciò che non aveva trovato nella patria dei Miltou e dei Mill, Croce e purtroppo con lui in coro gli idealisti italiani; credettero di aver trovato nella patria dei Fichte e dei Bismarck; e tutti quanti andarono dai maestri dei dittatori a imparare la lezione della libertà.

Anche su Croce e in genere, se pur più gravemente sugli idealisti italiani, che si consideravano e vantavano eredi della tradizione hegeliana napoletana, pesarono due pregiudizi filosofici che risalivano ad Hegél : ché 1'empirismo inglese non fosse degno di essere assegnato alla storia del pensiero filosofico, e che il popolo tedesco avesse fatto teoreticamente, cioè mediante la filosofia idealistica, la rivoluzione che gli altri popoli, segnatamente l'inglese e il francese avevano fatto praticamente. Il primo pregiudizio li esonerava dall'indagare i rapporti tra la mentalità trionfante in Inghilterra che era la mentalità empiristica e il successo della politica liberale inglese, e per usare la loro stessa terminologia, tra la teoria e la prassi; il secondo faceva mettere loro il cuore in pace di fronte a tanto divario tra il corso della storia inglese e francese e quello della storia italiana e tedesca, perché la provvidenza aveva voluto per i suoi imperscrutabili disegni che agli Inglesi e ai Francesi fosse assegnato il compito di realizzare la libertà, ai Tedeschi, e chissà anche agli Italiani, di comprenderne l'essenza; a quelli di viverla senza saper che cosa fosse e a noi di farne la filosofia in istato di perpetuo servaggio.

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30. Principio ideale, teoria: a proposito della teoria filosofica della libertà, in Il carattere della filosofia moderna, 1941, pp. 114-115.

31. Storia d'Europa, pp. 17-18.

32. Libertà e giustizia (1943), in Discorsi di varia filosofia, I, p. 269; Ancora sulla teoria della libertà (1943), in Per la nuova vita d'Italia, Napoli, Ricciardi. 1944, p. 100; Liberalismo e cattolicesimo (1945), in Pensiero politico e politica attuale, Bari, Laterza, 1946, p. 69 ; Per il congresso internazionale del partito liberale in Oxford (1947), ibidem, p. 109.

33. Principio, ideale, teoria, p. 114.

7. Quali erano dunque i concetti che il Croce derivava dalla filosofia romantica per la elaborazione della sua filosofia della libertà? Come si è visto, egli rimetteva in onore, se pur diversamente interpretandola, l'espressione, che fu già di Hegel e ripetuta e divulgata, come lo stesso Croce osserva, dal Cousin, dal Michelet e da altri scrittori francesi (fra cui il Quinet), della storia ,come storia della libertà, con ciò intendendo che la libertà in quanto forza creatrice della storia è di questa il vero e proprio soggetto. "Invero, tutto ciò che l'uomo fa è fatto liberamente, siano azioni o istituzioni politiche o concezioni religiose o teorie scientifiche o creazioni della poesia o dell'arte o invenzioni tecniche P modi di accrescimento della ricchezza e della potenza" •34•.

Qual giovamento si possa trarre da tal concetto per una migliore comprensione del liberalismo, o quale incremento esso potesse dare alla teoria dello stato - libertà, non è facile intendere. Già é difficile capire in qual senso Croce usasse il termine " libertà n ed è da dubitare che lo usasse sempre nel medesimo senso. Nell'espressione " storia come storia della libertà n, sembra che stia ad indicare l'essenza stessa dello Spirito, cioè la forza creatrice, o creatività, dello Spirito •35• in contrapposto ad atteggiamenti come ripetizione, imitazione, manipolazione artificiosa e simili •36•. E il vecchio concetto teologico di libertà come attributo divino. Onde l'espressione "storia come storia della libertà" significa che la storia è il prodotto dell'attività creatrice dello Spirito o dello Spirito in quanto per essenza è attività creatrice. È noto, invece, che nel linguaggio della dottrina liberale "libertà" indica "assenza di vincoli o di impedimenti". In questa accezione non ha senso parlare di libertà senza che si risponda alla domanda: "da che cosa?"; senza cioè che si indichi da quale impedimento essa è libertà •37•. Ma è proprio questa accezione che vien respinta dichiaratamente da Croce là dove descrive la vocazione liberale dell'età della Restaurazione: "Era, dunque, affatto ovvio che alla domanda quale fosse l'ideale delle nuove generazioni si rispondesse con quella parola 'libertà' senz'altra determinazione, perché ogni aggiunta ne avrebbe, offuscato il concetto; e torto avevano i frigidi e i superficiali che di

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ciò si meravigliavano o ne facevano oggetto di scherno, e, tacciando di vuoto formalismo quel concetto, interrogavano .ironici o sarcastici: 'Che è mai la libertà? la libertà da chi e da che cosa? la libertà di fare che cosa?'"" •38•. Eppure, proprio in seguito all'eliminazione. di successivi impedimenti si passò dalla stato assoluto allo stato liberale, e solo in base alla presenza di certi non impedimenti e non di, certi altri si. giudica oggi della maggiore o minore liberalità di un ordinamento giuridico. Dal concetto teologico di libertà come essenza dello Spirito universale, al concetto empirico, utile in politica, di ,libertà come non impedimento, non c'è passaggio: dal primo non si trae alcun lume per comprendere il secondo. La teoria della libertà dello Spirito è tanto estranea alla teoria del liberalismo, quanto la teoria del liberalismo alla teoria della libertà dello Spirito. Si può benissimo immaginare una teoria spiritualistica in metafisica e illiberale in politica, così come una teoria politicamente liberale innestata sopra una filosofia naturalistica. E a dir vero gli esempi storici incoraggiano questa immaginazione. E non c'è passaggio, soprattutto perché, se il soggetto della storia è lo Spirito (e non l'individuo singolo, di cui si preoccupa il liberale) e questo Spirito è per essenza creatore e quindi libero, non si può escludere che esso per realizzare se stessa si debba poter servire tanto dei regimi liberali quanto di quelli non liberali e quindi l'esistenza di regimi illiberali è perfettamente compatibile con la libertà della storia: tanto compatibile che essi sono esistiti ed esistono, e se ciò nonostante la storia è storia della libertà, vuol dire che la libertà si attua anche per opera loro, e che atti di despoti e di oppressori appartengono alla storia della libertà allo stesso diritto degli atti degli uomini di governo liberali •39•.

34. Principio, ideale, teoria, p. 109.

35. L'equivalenza dei due termini "creatività" e "libertà" nel seguente contesto: "Al liberalismo come al comunismo il liberalismo dice: accetterò o respingerò le vostre singole e particolari proposte secondo che esse, nelle condizioni date di tempo e di luogo, promuovano o deprimano l'umana creatività, la libertà" (Pagine sparse, III, p. 31).

36. In Etica e politica si dice, invece, che la libertà "è la vita che vuole espandersi e godere di sé, la vita in tutte le sue forme e sentita da ciascuno a modo proprio, in quella infinita varietà, in quella individualità di tendenze e di opere onde s'intesse l'unità dell'universo"; e si spiega che così intesa la libertà non è nient'altro che la gioia del fare (p. 222).

37. Per considerazioni terminologiche sulla parola libertà e sulla distinzione di vari tipi di liberalismo si veda M. CRANSTON, Freedom, A New Analysis, Longmans, 1953.

38. Storia d'Europa, p. 18.

39. Per una critica in questa direzione al concetto di storia come storia della libertà, vedi A. GRAMSCI, Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce, pp. 795 e segg.

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I1 che è tanto conforme al concetto del Croce che egli fu costretto a riconoscere che anche i momenti di oppressione appartengono bene o male alla storia del promovimento della libertà, e vi appartengono per due ragioni: primo, perché i dittatori non possono fare a meno, se pur nolenti, di compiere opere di libertà; secondo, perché non vi è ferocia di oppressione che possa eliminare gli oppositori i quali, benché nascosti o taciti, mitigano la durezza del presente e pongono germi per l'avvenire •40•. "Senza dubbio, nella storia si vedono altresì regimi teocratici e regimi autoritari, regimi di violenza e reazioni e controriforme e dittature e tirannie; ma quel che solo e sempre risorge e si svolge e cresce è la libertà, la quale, ora in quelle varie forme si foggia i suoi mezzi,. ora le piega a suoi strumenti, ora delle apparenti sue sconfitte si vale a stimolo della sua stessa vita" •41•. Ciò significa che alla storia della libertà sono necessari anche i regimi di non libertà, o in altre parole che questi regimi, non liberali dal punto di vista del loro ordinamento sono liberali per i fini che raggiungono, ovvero, pur essendo non liberali nel senso illuministico della libertà come non impedimento, sono liberali nel senso romantico di libertà come creatività. La filosofia, commenta Croce, vede "un Napoleone, distruttore anch'esso di una libertà tale solo d'apparenza e di nome alla quale egli tolse apparenza e nome, agguagliatore di popoli sotto il' suo dominio, lasciar dopo di sé questi stessi popoli avidi di libertà e resi più esperti di quel che veramente fosse ed alacri a impiantarne, come poco dopo fecero, in tutta Europa, gli istituti" •42•. Ciò vede la filosofia, ma la filosofia, appunto, romantica della libertà; ma ciò che vede la filosofia, una certa filosofia, non è detto che sia visto allo stesso modo da una certa teoria politica, per esempio dalla teoria dello stato liberale. Continuando l'esempio del Croce, Napoleone appartiene alla storia della libertà. Ma appartiene anche a quella degli stati liberali ? Altro é dunque giustificare Napoleone sub specie di storia universale, altro elaborare una teoria del liberalismo che possa essere opposta ai regimi autoritari, tra i quali, appunto, vi è anche quello di Napoleone.

Per un'altra ragione ancora dalla filosofia della libertà alla teoria del liberalismo non c'è passaggio: "poiché la libertà spiegò Croce - è l'essenza dell'uomo, e l'uomo la possiede nella sua qualità stessa di uomo, non è da prendere letteralmente e materialmente l'espressione che bisogni all'uomo 'dare la libertà', che è ciò che non gli si può dare perché già l'ha in sè. Tanto poco gli si può dare che non si può neanche togliergliela; e tutti gli oppressori della libertà hanno potuto bensì spegnere certi uomini, impedire più o meno .certi moti di azione; costringere, a non pronunziare certe verità e a recitare certe menzogne, ma non togliere all'umanità la libertà, cioè il tessuto della sua vita, che, anzi, com'è risaputo, gli sforzi della violenza, invece di distruggerla, la rinsaldano e, dove era indebolita, la restaurano" •43•. Se la libertà non s'intende come qualcosa che caratterizza un certo modo di concepire i rapporti sociali nello stato, ed ha le sue

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istituzioni convalidate dall'esperienza storica, ma la si - concepisce senz'altro come l'essenza. dell'uomo, che l'uomo porta con sé ovunque vada e in qualsiasi condizione si trovi, non è difficile poi trarre la conseguenza che l'uomo è sempre .libero poiché l'essenza è per definizione indistruttibile. Ma appunto egli è sempre libero nel senso della storia come storia della libertà, per quanto possa non esserlo, anzi possa essere in catene; nel senso della teoria liberale.

40. Principio, ideale, teoria, p. 110.

41. Antistoricismo, in Ultimi Saggi, II ediz., 7948, n. 255. Si veda quel che potremmo chiamare l'inno alla libertà della Storia come pensiero e come azione, Bari, Laterza, 1938, pp. 47-50.

42. La storia come pensiero e come azione, pp. 48-49

43. Libertà e giustizia. p. 262.

8. Dalla .filosofia romantica Croce non trasse solo il concetto della storia come storia della libertà, ma anche quell'altro, che doveva via via prevalere e far più commossa la stia voce ed alto il suo messaggio negli anni di oppressione, della libertà come ideale morale. Proprio nella Storia d'Europa, come si è visto, considerava l'ideale morale della libertà come "complemento pratico" della concezione della storia come storia della libertà •44•. Da questa considerazione della libertà come ideale morale, attraverso le pagine della Storia come pensiero e come azione, in cui definiva l'attività morale come quella che "garantisce la libertà" •45• passava nel saggio del '39 a identificare senz'altro l'azione promovitrice di libertà con l'azione morale, l'ideale pratico della libertà con l'ideale morale •46•, e insomma il principio del liberalismo col principio stesso morale "la cui formula più adeguata è quella della sempre maggiore elevazione della vita, e pertanto della libertà senza cui non è concepibile né elevazione né attività" •47•. Quale fosse il riflesso di questa identificazione sul problema dei rapporti fra politica e morale, non vorrei qui indicare perché, come ho già detto, il problema è di tale importanza e complessità (uno dei problemi dominanti nel pensiero crociano) che meriterebbe uno studio a parte. Ancora una volta m'importa di capire il nesso, se nesso c'è, tra la libertà intesa come ideale morale e la teoria del liberalismo. Fu, infatti, soprattutto a proposito di .questa identificazione che il Croce disse con la maggior chiarezza, e ripeté non più soltanto come filosofo ma come politico, in molteplici occasioni negli anni della ricostruzione, che solo se della libertà si faceva il riflesso della coscienza etica essa non avrebbe mai potuto essere compromessa con le istituzioni storiche che, appunto perché storiche, sono transeunti, mentre la libertà come ideale morale ha per sé l'eterno. La libertà al singolare, spiegò nella Storia d'Europa, non si adegua mai e non si esaurisce in questa o

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quella delle sue particolarizzazioni, negl'istituti che ha creato; "e perciò non solo .... non si può definirla per mezzo dei suoi istituti, ossia giuridicamente, ma non bisogna porre un legame di necessità concettuale tra essa e questi, che, essendo fatti storici, le si legano e se ne slegano per necessità storica" •48•. Di fronte alla qual separazione tra ideale della libertà e tecnica della sua attuazione politica c'è da osservare che, se questi istituti avevano foggiato un certo tipo di stato che si era venuto caratterizzando come stato liberale in contrapposto ad altri stati che per essere caratterizzati da altri istituti erano detti totalitari, il distacco tra la libertà come ideale e la realizzazione dello stato liberale diventava ormai incolmabile. E diventava incolmabile proprio perché la teoria del liberalismo, pur partendo dal presupposto della libertà come ideale, era la teoria di quelle istituzioni e non di altre, e la storia del liberalismo era la storia dei vari tentativi, ora riusciti ora falliti ma non mai abbandonati dall'inizio dell'età moderna in poi, di creare, rinnovare, correggere certi istituti, tanto che la eliminazione e la cattiva applicazione di quegli istituti avevano dato luogo a stati che liberali non erano più e contro i quali il Croce stesso in nome dell'ideale morale aveva resistito. E questi istituti, pur diversi e diversamente foggiati a seconda dei tempi e dei luoghi, e certamente in quanto prodotti storici non mai perfetti e definitivi, avevano in comune il carattere di perseguire il medesimo scopo, che non abbiamo nessuna difficoltà a chiamare l'ideale pratico della libertà, con mezzi simili e convergenti, ora arginando l'invadenza dei pubblici poteri nella attività individuale, ora consolidando e assicurando più larga o più stretta che fosse a seconda dei bisogni, ma nomai abolendo, la cosiddetta sfera di liceità dell'individuo nei confronti dello stato, sempre distinguendo ciò che nell'uomo è partecipabile allo stato da ciò che non è partecipabile, insomma salvaguardando l'individuo dalla totale riduzione a membro della collettività, dalla riduzione di tutta la sua attività ad attività pubblica o politica, in cui consiste appunto la natura degli stati totalitari.

Contro questo distacco dell'ideale morale dalle sue realizzazioni storiche sono pur sempre valide le obiezioni che mossero ai. Croce da un lato 1'Einaudi, che confessò lo "stringimento di cuore" nel vedere cori qual disdegno il Croce parlasse dei mezzi, mentre' per lui il perseguimento del fine non poteva essere dissociato dalla ricerca dei mezzi idonei •49•; e qui a conforto della tesi dell'Einaudi si potrebbe aggiungere che la teoria del liberalismo è proprio la teoria di quei mezzi, e, vietata la discussione sui, mezzi, si parla di liberalismo a sproposito; dall'altro il Calogero affermante che se il liberalismo consisteva nel perseguire l'ideale morale senz'altri aggettivi, tutti erano o avrebbero voluto dirsi liberali salvo poi a ritrovare le differenze nell'analisi o nella volontà di quei particolari istituti che sono i diversi mezzi da ciascuno propugnati per lo scopo comune •50•, e salvo anche qui ad aggiungere che ciò che permette di distinguere in una situazione storica determinata chi è liberale da chi non è tale, è proprio la considerazione dei mezzi che propugna, e non l'identico fine di cui tutti sono egualmente fervidi assertori.

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Della nozione di liberalismo o di stato liberale ci serviamo e per questo importa chiarirne il concetto per due diversi scopi o per distinguere in sede storiografica uno stato liberale da uno autoritario, o per proporre questo tipo di stato, in sede politica, come modello d'azione. Né all'uno né all'altro impiego giova 1'identificazione della libertà con l'ideale morale e il conseguente distacco dell'ideale dalle istituzioni in cui si realizza.

44. Storia d'Europa, p. 16.

45. Storia come pensiero e come azione, p. 44.

46. Principio, ideale, teoria, p. 117.

47. Questa definizione della moralità come "elevamento della vita" che coincide col "dispiegamento della libertà" si ritrova in uno degli ultimi scritti Intorno alla categoria della vitalità, in Indagini su Hegel e altri schiarimenti filosofici, 1952, p. 134

48. Storia d'Europa, p. 18.

49. L. EINAUDI, Il Buongoverno, p. 254 e segg.

50. G. CALOGERO, Difesa del liberalsocialismo, Roma, Atlantica, 1945, soprattutto p. 32 e segg.

Non al primo scopo, perché anzi la presenza operante o l'assenza della libertà come ideale viene provata (e altra via non c'è di provarla) dall'esistenza o meno e dal maggior o minor funzionamento di quelle istituzioni, quali la garanzia dei diritti di libertà, la rappresentatività di alcuni organi fondamentali dello stato, la divisione degli organi e delle funzioni, la legalizzazione dell'opposizione politica, il rispetto delle minoranze e via dicendo. Che se poi si volesse dire che l'ideale morale, in quanto proprio di ogni uomo, come non può scomparire e sempre rinasce, così non è mai venuto menò e in ogni epoca ha avuto i suoi confessori e i suoi martiri, si dovrebbe rispondere a maggior ragione che il liberalismo non essendo di tutte le epoche e di tutti i paesi non può coincidere con quell'ideale, ma è un particolare modo della sua attuazione, caratterizzata dal fatto che quello stesso ideale risplende di una luce forse più blanda ma più diffusa, non è generoso dono di pochi, ma costume di molti, e tanto più quindi non si può prescindere per definirne il concetto dalle istituzioni che lo attuano. Né questa identificazione del liberalismo coll'ideale morale ci viene in aiuto per raggiungere il secondo scopo, perché per instaurare e mantenere uno stato liberale bisogna che l'ideale si attui in solidi istituti, e io devo sapere anzitutto quali istituti voglio conservare e quali

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respingere, e la lotta politica è lotta, in nome sl di ideali o di ideologie, ma anche pro o contro questa o quella istituzione.

Accadde perciò che quando venne il momento della ricostruzione del nuovo stato liberale dopo il tempo dell'opposizione allo stato autoritario, la filosofia della libertà tacque, e se parlò fu per porsi, incontaminata e incorrompibile, al di sopra dei partiti che tutti riconosceva e consacrava. Ma quali insegnamenti avrebbe potuto impartire? Lo stato liberale era un complesso, a lungo provato e riprovato, strumento di organizzazione sociale, un meccanismo delicato e soggetto a continui perfezionamenti, del cui congegno bisognava impadronirsi per metterlo in moto. Che cosa sapeva di lutto questo la filosofia della libertà che è tutt'uno con l'elevamento della vita in ogni tempo e in ogni luogo qualunque sia la strada percorsa per conseguirlo? Tanto alto era stato il magistero crociano negli anni della resistenza, tanto contrastato fu nel periodo del rinnovamento, in cui quegli stessi giovani che avevano combattuto nei più diversi partiti in nome dell'ideale morale della libertà, si trovarono impreparati di fronte agli enormi compiti tecnici che l'organizzazione di uno stato democratico richiedeva. Croce fu il mentore dell'opposizione; non poteva essere il saggio consigliere della ricostruzione. Più che un teorico del liberalismo fu l'ispiratore della resistenza all'oppressione né poteva essere teorico di un problema di cui in fondo non si era mai, teoricamente, troppo interessato durante tutta la sua vita chi studioso, e quando si era imbattuto in quel problema spintovi dalle circostanze aveva fatto ispirazione non dagli empiristi o utilitaristi inglesi, né dai giusnaturalisti o illuministi, né dai giuristi né dagli economisti, da coloro che avevano elaborato una teoria in continuo progresso dello stato liberale, ma proprio da quegli scrittori romantici che avrebbero contribuito con l'esaltazione della Libertà a oscurare o per lo meno a porgere pretesto, e argomenti all'oscuramento degli ideali liberali. Egli predicò con nobilissimi accenti (la cui eco ancor ci risuona nella mente e di cui gli siamo grati) la religione della libertà. La predicò più che non l'abbia allora e dopo teorizzata. E appunto perché di religione si trattava parlò da sacerdote più che da filosofo, e a rileggere ora quelle pagine si è riscaldati dal calor dell'oratoria più di quel che si sia afferrati dal rigor dei concetti. Ma quando la religione; come accade di tutte le religioni, dovette essere istituzionalizzata, cioè quando la religione della libertà dovette trasformarsi in stato liberale, quelle pagine e tante altre che scrisse poi restarono mute e sono ora quasi dimenticate.

9. Chi volesse oggi capire il liberalismo non mi sentirei di mandarlo a scuola da Croce. Gli consiglierei piuttosto di leggere i vecchi monarcomachi e Locke e Montesquieu e. Kant, il Federalist e Constant e Stuart Mill. In Italia più Cattaneo che non gli hegeliani napoletani, compreso. Silvio Spaventa, e gli metterei in mano più il Buongoverno di Einaudi che non la Storia come pensiero e come

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azione (che pur fu il libro certamente più importante dei movimenti di opposizione). Oppure, sl, gli direi di andare a scuola da Croce, ma non dal Croce filosofo della politica, ma da quel Croce che non si stancò mai dall'insegnare che il filosofo puro c un perdigiorno e che la filosofia non nascente dal gusto e dallo studio dei problemi concreti è vaniloquio se non addirittura sproloquio. In fondo, se oggi ci mostriamo un po' insofferenti dei teorizzamenti crociani sulla libertà, è perché abbiamo troppo bene imparato la lezione crociana che i teorizzamenti non scaturiti da amore per l'oggetto e da ricerca adeguata sono costruzioni di carta. Croce non ebbe per l'attività politica né amore né profonda inclinazione, come più volte dichiarò, né ci è sembrato che fosse gran conoscitore di cose politiche, e se lesse scrittori di politica passò da Machiavelli e dai teorici della ragion di stato che accentuando il momento politico lo indussero a risolvere la politica nella forza, agli scrittori dei periodo della Restaurazione che accentuando il momento morale lo indussero a risolvere la morale nella libertà, saltando i due secoli rispettivamente dell'illuminismo inglese e francese lungo i quali si formò la teoria dello stato liberale moderno, che è quello stato che mette la forza a servizio della libertà e si definisce kantianamente come la coesistenza, garantita coattivamente, delle libertà esterne. Si comportò nel dominio della filosofia politica. un po' come non ammise mai che ci si comportasse nel dominio della poesia, come colui che, assorto in cose troppo grandi disdegna le piccole e quelle cose grandi, poi, e sublimi, ci si accorge che non sono utili agli altri e il filosofo viene guardato con sospetto e deriso.

Dall'alto della filosofica sfera Croce tanto legò la concezione liberale alla filosofia da farne una manifestazione di una determinata filosofia, della filosofia immanentistica moderna in contrapposto alla trascendentistica medioevale, e poi più particolarmente dello storicismo in contrapposto all'illuminismo. Chi abbia appreso la sua lezione metodologica di partir dai problemi concreti, E abbia cercato di applicarla allo studio del liberalismo, è ora stretto dal dubbio che davvero giovi alla comprensione del liberalismo quel connubio. Osserva che lo spirito liberale nacque da concezioni religiose e teologiche come quelle del calvinistrio e sinora nessuno ha trovato miglior argomento contro lo strapotere dello stato che il valore assoluto della persona. E osserva altresì che concezioni immanentistiche, di storicismo assoluto, come il materialismo storico, hanno favorito e continuano oggi a sostenere la pratica di regimi non liberali. Più che una contrapposizione di concezioni filosofiche totali, quella di liberalismo e autoritarismo gli si è venuta chiarendo come una contrapposizione di mentalità o di atteggiamenti spirituali, l'uno empirico di chi procede a gradi, esaminando una questione per volta e non accetta altro criterio di verità che la verifica sperimentale, l'altro speculativo di chi crede di essere in possesso, lui solo, della verità una volta per tutte ed è disposto con ogni mezzo ad imporla. E di qua si è fatta la convinzione che a formar la mente a un modo liberale di vedere, di giudicare e di agire, gioverà leggere gli scrittori inglesi più che i tedeschi, gli illuministi

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più che i romantici. E anche il problema, o l'enigma, del liberalismo che avrebbe avuto una patria pratica, e una patria teorica, non è più un problema né tanto meno un enigma quando egli osservi che esso primamente si è sviluppato e ancor oggi fiorisce dove più forte è stata la tradizione empiristica, mentre nelle patrie che hanno nutrito i geni speculativi ha avuto di solito vita grama e di breve durata.

Il Croce ha staccato il liberalismo come valore assoluto dalle istituzioni empiriche, mettendo l'accento sul fine e non sui mezzi. Nel momento in cui il valore era oscurato o tradito, questo suo appello alla dignità del fine fu suscitatore di energie. morali come allora si richiedeva. Oggi che sul primato di quel fine nessuno discute o osa discutere; anche coloro che forse lo rinnegherebbero se disponessero, di mezzi per attuarlo, conviene mettere l'accento sui mezzi. E infatti, se il valore della libertà è rispettato e anche i suoi antichi e nuovi avversari chinano la fronte al suo cospetto, il metodo liberale, come cosa di minor momento che si nutre di minuta empiria e non di grosse speculazioni, rischia continuamente di esser messo da parte b momentaneamente sospeso e riservato a tempi migliori. Oggi la coscienza liberale non può prescindere dalla sorveglianza sui mezzi che lungo la faticosa creazione dello stato moderno sono stati foggiati e messi alla prova. E chi a questa coscienza si ispira. deve sforzarsi di persuadere i troppo impazienti o i troppo rassegnati che il tener fermi i mezzi non è meno importante dei tener fermo il fine, ,e che là dove i mezzi sono negletti anche il fine vien meno, e ad incitare coloro che si preoccupano delle sorti della democrazia in Italia a non indugiare troppo a lungo sulla concezione speculativa della libertà, che è costretta a considerare momenti di libertà anche i dispotismi, ma a perseverare nella indagine e nella pratica dei problemi concreti di una libera convivenza, dalle quali soltanto è lecito sperare che il dispotismo di ieri non generi per contraccolpo il dispotismo di domani.

NORBERTO BOBBIO