(eBook - Ita - Narr - Fantascienza) Ricciardiello, Franco - Saluti Dal Lago Di Mandelbrot

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Franco Ricciardiello

Saluti dal lagodi Mandelbrot

presentazioni di Roberto Sturme Mirko Tavosanis

Delos Books

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Ombre di imperi a venire

4 Presentazione di Roberto Sturm

7 L’eterna estate sul fiordo

19 Michela e la bomba al neutrone

29 L'uomo del dieci di agosto

43 Archeologia

69 Con gli occhi di Lavrentij

87 Ombre di Imperi a venire

99 Torino

115 Saluti dal lago di Mandelbrot

133 Frammenti degli occhi di Tiberio

Cronache dell’arabesco di pietra

148 Prefazione di Mirko Tavosanis

151 Tutti i miti dell'Ebro

161 Rive del Duero

169 Non giurammo fedeltà ad alcun Re

179 Cronache dell'arabesco di pietra

189 Verrà il tempo della cenere

201 Effetto notte

Indice

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Saluti dal lago di

Mandelbrot

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parte I

Ombre diimperi a venire

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Ma i tratti caratteristici del Ricciardiello scrittore sono molteplici e ne fanno un autore unico nelpanorama della fantascienza italiana.

Se nei primi racconti è l’idea fantastica il fulcro della narrazione, con l’andare del tempo Fran-co intraprende con decisione la strada dell’approfondimento dei personaggi, della cura attenta deidettagli. Il mutamento graduale dello stile porta i suoi lavori a ritmi quasi vertiginosi. La solidastruttura dei racconti rimane comunque inalterata, lasciando al lettore un senso di completezza dif-ficilmente riscontrabile in altri autori.

Importante sottolineare come l’evoluzione dello stile di Ricciardiello non intacchi minimamen-te i contenuti dei suoi lavori, contenuti di denuncia e forte impegno sociale.

D’altronde l’autore non ha mai nascosto né le sue idee politiche né il suo impegno sul versantesociale. Fondamentale quanto evidente, nella sua narrativa, la componente politico-ideologica cheusa quasi sempre senza retorica (salvo in qualche racconto degli esordi) e mai a sproposito.

E’ proprio questa componente che lo contraddistingue, fin dai primi racconti che pubblica, dauna produzione italiana poco restia (a parte rare eccezioni oggi fortunatamente sempre più fre-quenti) ad affrontare temi qualificanti ed impegnati. Purtroppo in Italia per anni ha prevalso unaconcezione di letteratura di fantascienza neutra, concezione sostenuta da una cultura di destra an-cora oggi presente ma che mostra attualmente evidenti segni di cedimento sotto i colpi portati daautori motivati e politicamente schierati. Ricciardiello, senza dubbio, è uno degli esponenti piùrappresentativi di questa corrente.

Convinto assertore dell’autonomia della fantascienza italiana rispetto a quella di lingua anglo-sassone, si è sempre battuto con solide argomentazioni, sia dalle pagine di riviste amatoriali cheprofessionali, a sostegno di questa ipotesi. E ogni suo racconto pesa come un macigno sopra latesta di coloro che pensano il contrario.

Per tutti le ragioni che ho appena citato mi piace pensare, e con me credo tutti coloro che so-no in sintonia con le posizioni di Franco, che il recente Premio Urania recentemente vinto con ilromanzo “Ai margini del caos” rappresenti, oltre che il giusto riconoscimento per uno scrittore divalore assoluto, un sintomo indiscutibile di vero cambiamento della letteratura di fantascienza ita-liana verso posizioni meno conservatrici, che finalmente la possa aprire anche ad un pubblico nonspecializzato.

Si potrebbero dire ancora tante cose di Franco Ricciardiello, ma credo che sia meglio far par-lare di lui i suoi racconti. Nessuno riuscirebbe a farlo meglio.

Buona lettura.

Roberto Sturm

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IL GIORNO IN CUI RUBAI IL MANTELLO a Robert non potevo ancora sa-pere quanto fosse vicina la fine dell’estate sul Lyngenfjord. Nonsarei mai riuscita a entrare in possesso della preziosissima tela senon durante le ore di sonno, perché Robert era solito tenere ilmantello sulle spalle mentre passeggiava sulla sua sedia a rotelledal Sevagram alla spiaggia e viceversa. Suppongo che nella suaesistenza egli abbia ben poche soddisfazioni all’infuori della vistadel castello della Signora e delle proprietà taumaturgiche delmantello che ora non possiede più. Solo oggi mi accorgo di sa-pere cosí poco di lui, e in un improvviso slancio d’amore vorreiconoscere tutti i lunghi momenti delle sue due vite. Robert è miopadre ma, fin dove la memoria giunge negli anni luminosi del-l’infanzia, lo ricordo sempre inchiodato sulla sedia a rotelle conlo sguardo triste ma affettuoso che mi indicava come il mio verogenitore fosse lui e non Eric.

Dopo aver rubato il mantello mi incamminai col cuore in go-la verso la rupe che dominava il Sevagram nascondendolo alla vi-sta dei superstiti abitanti di Lyngseidet. Come tutte le “notti” arti-che il cielo sotto la cupola trasparente era nuvoloso ma pieno disole, e la luce impediva agli uomini la meravigliosa visione dellestelle dalle quali le Silfidi erano discese a sconvolgere la routinedell’esistenza umana.

Mentre camminavo in salita pensavo a Eric. Eric mi aveva insegnato tutto ciò che sapevo. Non sono mai

andata a scuola oltre il decimo anno d’età, quando tutti i ragaz-zini norvegesi abbandonarono le meravigliose aule del Sevagram.Nella.sua precedente vita Eric era stato uno scrittore; possedeva,

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L’eterna estate sul fiordo

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lo con la Tela Magica. Eric mi venne dietro come meglio poteva

mentre cercavo di portarmi il più possibile ac-canto a Robert. Mio padre mi stava guardandodalla sedia a rotelle con un’espressione chedalla distanza a cui mi trovavo non potevo de-cifrare. Coprendosi gli occhi con l’ombra dellamano, mi osservava. Con una manovra azzar-data inclinai le ali all’indietro diminuendo im-provvisamente la velocità, riprendendomi unattimo prima che fosse troppo tardi.

Tuttavia presi terra bruscamente e le ginoc-chia mi si piegarono; Robert fece il gesto di al-zarsi dalla sedia per soccorrermi, ma sorrisequando sollevai la testa e a mia volta sorrisi.Quando Eric giunse da noi, Robert cambiòespressione e cercò di rimproverarmi: “Corri-na”, disse, “Sai che avresti potuto non farcela?E se fossi precipitata dalla rupe?”

Eric riprese fiato e disse: “Eri magnifica,Corrina! Ecco a cosa ti servivano tutti quei libridi aerodinamica! Però, ammettilo, ti sembrabello rubare il mantello di Robert?”

Slacciai le cinghie, raccolsi le ali e tenendo-le sotto il braccio mi avvicinai a Robert. “Misembrava il miglior regalo che potessi farti,” glidissi, “Anche tu hai contribuito al mio Volo;quando mi sarò allenata abbastanza, girerò in-torno al castello e salirò su, su fino all’ombeli-co per uscire dalla cupola.”

I due si oscurarono in volto e Eric risposeche avremmo dovuto parlarne. Mi cinse lespalle con un braccio accompagnandomi ver-so casa, mentre continuavo a stringere le aliche avevo rifiutato di consegnargli. Robert citenne dietro spingendo a forza di braccia leruote, mentre le nuvole che si formavano sot-to l’ombelico continuavano a discendere le pa-reti interne della cupola, muovendosi dallaverticale di Lyngseidet verso tutti i punti cardi-nali.

* * *

Venticinque anni fa, due lustri prima chenascessi, le Silfidi scesero su una Terra che nonaveva mai conosciuto la loro esistenza. Eranorappresentanti di una civiltà extraterrestre tec-nologicamente ed eticamente avanzata, e offri-rono i propri servigi agli esseri umani in cam-bio del permesso di compiere alcuni studi sul-la civiltà e sulla cultura terrestri. Non ho mai vi-sto dal vivo una Silfide, ma ho consultato fo-tografie e letto parecchi libri su di loro. Il loro

nome è preso a prestito dal microcosmo mito-logico degli occultisti; da Paracelso a EliphasLevi, gli spiriti della natura sono stati classificatiin quattro specie, e cioè: spiriti della Terra(gnomi), spiriti dell’Acqua (ondine), spiriti delFuoco (salamandre), e spiriti dell’Aria (Silfidi).Tuttavia l’accostamento non è dei piú riusciti:gli alieni sono in grado di volare per mezzodelle ali di membrana attaccate alle loro schie-ne, ma la somiglianza finisce qui. La tradizioneoccultista rimanda immagini di creature forti epossenti, superiori agli umani per dimensionimentre le “nostre” Silfidi sono esseri deboli esnelli, figurine femminee dai lineamenti leviga-ti e morbidi, che indubbiamente potrebberoessere state scolpite nel marmo più puro dallamano di Michelangelo.

Le Silfidi accettarono di risolvere il proble-ma della nutrizione nel mondo, modificando ilclima di precchie regioni per renderne possi-bile lo sfruttamento. Per mezzo di immense cu-pole, lande ghiacciate e deserti fusi si trasfor-marono in lussurreggianti oasi di coltivazionidal clima mediterraneo.

La cupola sotto la quale vivevamo era unastruttura circolare del diametro di cento chilo-metri, posta sulle coste settentrionali della Nor-vegia, oltre trecento chilometri a nord del Cir-colo Polare Artico. L’effetto serra che la sua so-la esistenza generava aveva fatto sí che terrefredde e improduttive si trasformassero in unmeraviglioso giardino di vegetazione e coltiva-zioni intensive. La cupola era fatta di un mate-riale agli umani assolutamente sconosciuto,una pellicola tesa dello spessore di dodici mo-lecole che, al suo vertice, s’innalzava a duemi-la metri sopra il livello del mare. L’ombelico, ilritaglio tondo largo mille metri che era il suovertice perfetto, era esattamente sopra la citta-dina di Lyngseidet. Lo scambio di pressione frale masse ascendenti d’aria calda provenientidall’interno e quelle d’aria fredda che penetra-vano dalla zona polare esterna, producevaun’enorme quantità d’acqua condensata che,trascinata dalle correnti fredde che dall’ombe-lico scendevano lungo la superficie internadella cupola, benediva di precipitazioni rego-lari tutte le terre coltivate sopra le scogliere.Parecchi ritagli nella superficie delle cupolepermettevano a chiunque volesse di percorre-re le strade in precedenza esistenti che colle-gavano la cittadina al capoluogo di Tromsø eagli altri centri abitati delle coste. Come la no-stra cupola, migliaia di altre erano state create

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FRANCO RICCIARDIELLO SALUTI DAL LAGO DI MANDELBROT

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“Un grande inglese del passato chiamatoThomas More,” mi aveva detto una volta Eric,“scrisse queste righe riferendosi alla tradizionemusicale irlandese, la cui anima era stata stron-cata da secoli di genocidio perpetrato dagli in-glesi.” Eric diceva inoltre che durante il tempoin cui era vissuto la mentalità imperialista del-la sua razza non si era ancora estinta, malgra-do fossero passati secoli dall’epoca di More.

Il paragone con Robert calzava alla perfe-zione, me ne resi conto una volta di piú quan-do lo vidi entrare a forza di braccia, astenen-dosi dal guardare lo strumento che sedici anniprima aveva accantonato per sempre, in gestodi estrema protesta.

“Non posso credere,” disse Eric, “che tu ab-bia imparato a volare in quel modo solo con-sultando quei pochi testi di aerodinamica cheho in biblioteca. Bambina mia, neanche Leo-nardo avrebbe potuto fare altrettanto.”

Sorrisi, compiaciuta del paragone, e gli dis-si degli allenamenti a volo radente sulla spiag-gia oltre la rupe. “Inoltre,” aggiunsi, “mi sareicertamente schiantata sul muro dell’acqua sen-za la tela della Signora.”

Guardai Robert: “Spero non ti dispiacciatroppo. So che era un caro ricordo e so quan-to vi fossi affezionato, ma io ne avevo bisogno.Capisci quanto è importante che io vada dallaSignora, che le parli? Capisci che devo risalirefino all’ombelico per uscire dalla cupola?”

Eric si schiarí la gola. Potevo vedere la ci-catrice della pallottola che nel 1937 gli avevaperforato il collo sul fronte di Huesca, durantela guerra di Spagna. La Signora l’aveva evoca-to nelle stesse condizioni fisiche del 1945, cer-tamente ritenendo che avrebbe sminuito buo-na parte del suo fascino senza le prove dellasua militanza repubblicana. “Non posso asse-condarti, Corrina. Un conto è volare per un mi-glio dalla rupe, altro conto è attraversare ventichilometri di spazio aperto fino al castello.Quanto all’illusione di poterti affiancare alla Si-gnora in volo...! Ella ha un’abilità acquisita du-rante secoli di volo con membra naturali. Nonarrischiare la tua vita!”

“Ma le ali che porto,” replicai, “sono dellasostanza fabbricata dalle Silfidi, che sembracreata apposta per sostenere in aria un certopeso, e io vi ho dimostrato che, anche senzaesperienza, ho volato!”

Eric e Robert non riuscirono ovviamente aconvincermi. Quel pomeriggio, mentre la tem-peratura superava i 25° e cominciava a piove-

re sul Sevagram e i campi circostanti ora in-colti, tornai a piedi sulla rupe e scrutai con ilbinocolo in direzione del castello. Osservai imovimenti delle nubi che rivelavano le cor-renti d’ aria, quindi volsi lo sguardo a ovest,verso Lyngseidet sulla sponda opposta del fior-do e l’ombelico sopra di essa, ripetendo l’os-servazione delle masse d’aria.”

* * *

I giorni seguenti avevo un brutto raffreddo-re, ma continuai ad allenarmi regolarmente.Avevo scelto quella che sarebbe divenuta lamia “tuta di volo”: un paio di calzoni di coto-ne molto leggeri e una camicia; non potevoportare alcun peso superfluo perché i mieiquaranta chili rendevano le ali difficilmentemanovrabili. Mi allenai con continui atterraggi,poi seguendo correnti ascensionali in larghespirali concentriche che mi portavano a quasimille metri d’altezza. Imparai a planare la-sciandomi trasportare all’infinito dalle massed’aria che discendevano le scogliere del fiordo,provenienti dall’ombelico. Provai infine il voloradente, a pochi centimetri dalla superfici del-l’acqua, dove l’aria da me spostata ritornava in-dietro inantenendomi per lungo tempo in quo-ta senza sforzo eccessivo.

Un giorno mi gettai dalla rupe giungendofino alla riva opposta del fiordo, dove mi ripo-sai riprendendo poi il volo fino a Lyngseidetseguendo la strada che dalla cittadina portavaal pontile del traghetto. Nel centro abitato nonvivevano più di poche centinaia di persone acausa del pessimo clima che lo opprimeva daquando la Signora aveva chiuso tutte le entra-te della cupola. Provocata dallo scontro fra lamassa d’aria calda densa di vapore acqueo chesaliva dal mare e l’aria fredda che scendevadall’ombelico, una coltre continua di nubi la-crimava quasi incessantemente sulle vecchiecase dei pescatori costruite in legno. La mag-gior parte degli abitanti si era trasferita in dire-zione di.Tromsø, a ovest, sulle rive di un altrofiordo che non godeva della vista del castello.

Sorvolai Lyngseidet destando sguardi curio-si nei giovani norvegesi con il naso all’insú.Avrei voluto gridare loro di non preoccuparsi,perché di lí a poche settimane sarei uscita iostessa dall’ombelico per andare finalmente nelmondo esterno e riportare indietro agli abitan-ti della cupola, alla mia gente, le prime notizieda cinque anni a quella parte; cioè dal giorno

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se.Io annuii. Eric e Robert erano di lingua in-glese e era quella che io usavo correntemente,ma al Sevagram avevo imparato anche il nor-vegese.

“Chi sei?” continuò il ragazzo. “Non ti homai vista da queste parti; sei in grado di vola-re, ti ho notata prima e ti ho seguita. Vieni daLyngseidet? “

Negai e spiegai che alla cittadina non era-no rimaste che poche anime. “Vengo dal Seva-gram.”

Il mio interlocutore era un ragazzo, credosui venticinque anni. “Dal Sevagram?” l’ombraimprovvisa di una serie di ricordi gli attraversòil volto scuro. “Ma certo, tu sei la figlia di Dy-lan!”

“Zimmerman,” lo corressi io. Forse in quel-l’altra vita Robert aveva usato uno pseudonimo,ma in questa non era altro che sè stesso, tantopiú che aveva accantonato la musica e rifiutatocompletamente la sua precedente identità.

“Robert Allen Zimmerman, certo,” replicò ilragazzo. “Ho vissuto.e studiato per sedici annial Sevagram, e ti ricordo bene.”

“Sedici anni? Hai conosciuto Robert ed Ericprima che io venissi al mondo?”

“Eric Blair è certamente una delle personepiú affascinanti che mi sia stato dato di cono-scere. La sua sola personalità teneva in pieditutta la struttura del Sevagram quando ancorala Silfide effettuava le sue visite. La sua solaidentità faceva di lui una testimonianza viven-te del0la prima metà del secolo scorso. Imma-gino tu sappia della sua attività di giornalista,della vita sbandata che aveva tenuto fra i va-gabondi di Londra e Parigi, della sua sincerafede nel socialismo. Ti avrà parlato della guer-ra di Spagna, delle due utopie negative da luiscritte, “La fattoria degli animale” e “1984”?”

Avevo letto i libri nominati dal ragazzo e co-noscevo parecchi dei fatti da lui citati, ma poi-chè Eric non era cosi orgoglioso da parlarmi disè stesso, buona parte della sua prima vita miera sconosciuta. Quando Eric.era morto nel1949, Robert aveva solamente otto anni, ma du-rante la maturità lo aveva conosciuto come unodei piú significativi scrittori del secolo.

“Tutti sono fuggiti dal Sevagram,” dissi. “So-lo Eric, Robert e io siamo rimasti.”

Il ragazzo mi offrí una ciliegia che accettai. “Quella di tuo padre è una triste storia,”

disse. “E’ stato per essa che noialtri abbiamoaperto gli occhi sulla reale natura della Si-gnora.”

“Cosa intendi dire?”“Quando le Silfídi calarono sulla Terra si

presentarono come il più grande dono di Dioagli esseri umani. Portavano la pace, la solu-zione al problema della fame, una resurrezio-ne su scala limitata. Però probabilmente ciòche accadde qui sul Lyngenfjord si ripetè sottotutte le altre cupole. In realtà alle Silfidi non in-teressa affatto il nostro progresso sociale, cul-turale o spirituale; nelle loro esistenze immor-tali non siamo altro che uno sciame di meteo-re, un frenetico impero di formiche che fluiscesenza sosta sotto i bastioni dei loro castelli;probabilmente alla stessa stregua dell’acquadel fiordo. La Signora ha soltanto voluto gio-care con noi, forse senza che nelle sue inten-zioni ci fosse il bisogno di farci del male. Mala sua indifferenza per la nostra sorte è crimi-nale; la sua indifferenza per gli abitanti dellaTerra spezzata fra spazio aperto e riserve sottole cupole, calpestata da due razze aliene, è cri-minale.”

Non interruppi il ragazzo, ma non volevoascoltarlo oltre. Diceva menzogne. Robert nonaveva mai parlato male della Signora, seppurefosse colui che aveva ricevuto il maggior dan-no. Il norvegese stava solo blaterando dellescuse, le scuse che tutta l’umanità assumevaper non prendere parte attiva alla lotta al fian-co delle Silfidi. Questo lo dissi chiaramente.

Il ragazzo pensò un attimo, quindi decise dirispondermi: “Tu hai purtroppo una visioneparziale del problema. Sei sempre vissuta condue grandissime personalità che però non so-no, ne possono essere, del nostro tempo. Pre-feriscono, e non posso dar loro torto, sedersiin riva al Sevagram per guardare il mare e l’u-manità rifluire ai margini delle loro esistenze.L’immortalità è per loro una condanna. Forsefra dieci anni, fra cento anni o fra mille annicambieranno idea, ma per ora è una condan-na.”

“Non puoi parlare cosí. Robert ha vissutonel nostro tempo e ha pagato di persona. Stascontando e sconterà all’infinito la sua infer-mità, il prezzo per aver osato vivere la propriaesistenza accanto alla Signora.”

Il norvegese inspirò profondamente. “Franon molto tempo, comunque, saremo alla resadei conti. Qualcuno ha visto un coiste bodharalcuni mesi or sono, oltre la barriera della cu-pola. Era fermo, immobile, come per permet-tere al dullahan di sondare le difese della Si-gnora.” All’improvviso mi agitai: “Il dullahan

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Eric tornò a voltarsi verso di me: “E’ unaguerra che dura da secoli, e che le Silfidi han-no portato fin qui. Esse fuggono e i dullahandanno loro la caccia, all’infinito.”

“Cosa vuoi dire con ciò?” replicai, alzandola voce, “Da che parte stai tu, Eric?”

“Dalla parte dell’umanità. Noi non possia-mo fare niente. Io non voglio fare niente.Quando le cupole saranno tutte distrutte, gliinvasori si sposteranno a cacciare su altre stel-le, senza minimamente curarsi di noi.”

Guardai Robert, come per supplicarlo diaiutarmi, di dire una parola in mio favore.Niente. Ero sola.

Spostai lo sguardo alla finestra. Le nuvole sierano diradate. Avevo preso la mia decisione;raccolsi le ali e uscii. Nè Eric nè Robert mi se-guirono. Calcolando che il coiste bodhar con-tinuasse a procedere alla stessa velocità che te-neva quando l’avevo visto poche ore prima, cisarebbe voluto ancora un certo tempo primache si affacciasse alle scogliere di fronte al ca-stello. Risalii la rupe e spiegai le ali sulla roc-cia; i raggi solari scaldarono e tesero la tela chegià cominciava a sollevarsi da sola. Indossai leali e mi gettai.

L’aria era più fresca e irreale del solito; do-po una breve planata mi lanciai in avanti sulmare salendo molto, molto lentamente in linearetta per non perdere tempo. Mentre volavotenni d’occhio la strada sulla mia destra, te-mendo a ogni momento di scorgere la tozzaforma del coiste bodhar arrancare sull’asfalto.

Il castello della Signora era una grossa strut-tura slanciata, costruita in materiale vitreo du-rante una notte, a similitudine dei favolosi ca-stelli della Schwarzwald; era appoggiato suuno stelo slanciato che dall’entrata, a centometri sul livello del mare, scendeva diminuen-do progressivamente di diametro fino a pene-trare sotto la superfice dell’acqua raggiungen-do il fondo del fiordo.

Mentre mi avvicinavo, troppo lentamenteper i miei desideri, scorsi una figura nell’ariaintorno alle mura. Immediatamente compresiche era la Silfide, la Signora del Fiordo. Ero sta-ta fortunatissima a incontrarla all’esterno. Co-me mi avrebbe accolta?

Era bellissima, notai mentre ascendevo. Ilcorpo bianco, nudo e straordinariamente uma-no, si armonizzava straordinariamente con leali, sottili membrane traslucide che univano ifianchi alla punta dei lunghissimi mignoli dellemani. La Signora dominava l’aria; fluiva dolcis-

sima da uno strato all’altro, da una corrente al-l’altra, da ogni dimensione dello spazio a quel-la successiva; era una piuma delicata che sfrut-tava le mille e mille spirali messe a sua disposi-zione dall’atmosfera artificiale della cupola.

Quasi timorosa della sua presenza, mi avvi-cinai, pronta al discorso che avevo preparato.La Silfide mi vide e parve stupita. Probabil-mente non mi aveva mai notata volare sullescogliere circostanti.

Cominciai a parlarle, tentando di affiancar-mi. Le gridai del dullahan che si avvicinava sul-la strada. Le gridai di salvarci. Le gridai di fer-mare il coiste bodhar. Dapprima non capii co-sa stesse facendo quando stallò con l’ala destraprecipitando a vite fino alla mia altezza. Conun magnifico colpo d’ali si reimpossessò delcontrollo del proprio corpo. Prese quindi avolteggiarmi intorno, vanificando i miei tenta-tivi di accostarmi o di continuare a parlarle.

Senza che potessi far nulla, la Signora s’al-lontanò con grazia in direzione del castello, ac-quistando velocità per bloccarsi con un im-provviso colpo d’ali, stallando nuovamente ecadendo per un metro all’entrata del castello,dove scomparve.

Sconcertata, tentai di seguirla, ma la portaera chiusa. Girai intorno al castello a fatica,chiamando la Signora. Infine, disperata, mivolsi alla scogliera; man mano che mi avvici-navo ad essa, vedevo la fatale sagoma del coi-ste bodhar arrancare sulla strada, finchè sifermò e scorsi l’animale volgersi in modo che,se avesse posseduto una testa, avrebbe guar-dato verso il castello. Mi fermai a metà del miovolo e virai in direzione del castello.

Temevo il peggio, e il peggio accadde.Dapprima i muri persero la lucentezza, poiun’intera torre s’incrinò staccandosi dai bastio-ni e rovinando lentamente, molto lentamente,lungo lo stelo, trasformandosi in polvere di ve-tro prima di affondare sotto la superfice delmare. Senza che il coiste bodhar o l’animale simuovessero, apparentemente, il tetto di un’al-tra torre esplose in una nuvola di particelle cheriflettevano la luce solare. E l’opera di distru-zione continuò muro dopo muro, sala doposala, torre dopo torre. Non potevo far nulla,non potevo fermare il dullahan, non potevosalvare la Signora che mi aveva rifiutata.

Cercai una corrente che mi portasse in altoe mi diressi verso la costa opposta al Seva-gram; seguii la riva, alzandomi sempre più.Sorvolai le baracche dei pescatori che avevano

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SPINSI IL COLTELLO NEL CUORE di mia moglie fingendo di allungarmiverso il portafrutta. Era stato un gesto premeditato da lungo tem-po, eppure al momento di agire tremavo come un bambino: mos-si la mano di impulso verso il cesto di alluminio alla sinistra diMichela, nell’angolo del tavolino quadrato al quale avevamo ap-pena consumato una cena leggera; fra le dita tenevo però la la-ma tagliente di un coltello da tavola, sulla quale poggiai tutto ilmio peso.

Michela se ne accorse all’ultimo momento e cercò di solleva-re una mano per fermarmi, ma troppo tardi. Avvertii anch’io la vi-brazione del colpo, l’arma che si arrestava all’elsa dopo aver ra-schiato contro la costola. Per un secondo rimasi inerte, protesosul tavolo, quindi mi lasciai cadere sulla sedia. Michela era rima-sta immobile al suo posto, mortalmente pallida, i palmi delle ma-ni sulla tovaglia accanto alle posate. Abbassai gli occhi al miopiatto e udii subito l’urlo della donna seduta al tavolo accanto anoi, poi un rumore di stoviglie infrante: il cameriere aveva la-sciato cadere in terra le portate e ci osservava allibito.

Trovai la forza di guardare Michela, che ancora mi fissava; unalacrima le era scesa dagli occhi fino al mento, sul suo viso con-servatosi più giovane dell’età. Tremava. Non aveva il coraggio diguardare ciò che vedevo io: il coltello infisso sino all’elsa nel suoseno, la macchia scarlatta che andava espandendosi sulla camiciacandida.

I pusillanimi intorno a noi si tenevano a distanza: il camerie-re pallido sulla soglia, i clienti ai loro tavoli, la ragazza con ilgrembiule accanto al tavolo degli antipasti.

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Michela e la bomba al neutronePremio Italia 1988

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una bautta sugli occhi, che danzava come sequalcuno la stesse giudicando per un esame.Fra coloro che riuscivo a vedere, era quellache più di ogni altro della musica sapeva co-gliere lo spirito: esibizione, piacere, comunica-zione. Desiderai danzare con lei, benché fosseuna cosa che non avevo mai fatto; osservavole sue mani guantate che disegnavano parabo-le tridimensionali nella sera tutto intorno al suocorpo, i capelli ondulati che seguivano ognimovimento del capo, le falde del mantello chea ogni passo svelavano e ricoprivano il vestitoblu.

La persi di vista a causa di un turbine didanzatori, rimasi in seconda fila. Stavo per vol-germi e tornare verso piazza San Marco quan-do la ragazza mascherata mi si parò dinanzi,posandomi le mani sul braccio.

“Vuoi ballare?” mi disse. Era lei, la ragazzache avevo ammirato fino a poco prima; scor-dai persino che non sapevo danzare. Primache potessi rispondere, la folla si richiuse in-nalzando intorno a noi una barriera di suoniche solo la musica poteva perforare.

Sentivo appena le sua mani sulle spalle, at-traverso il tessuto del mantello. Sotto la bauttache le copriva la parte superiore del viso vede-vo le labbra nitide, il mento, gli orecchini a cer-chio grossi come una moneta. Parlavamo dan-zando; ero preoccupato di pestarle i piedi, disbagliare i passi o le parole. Su di me aveva ilvantaggio di vedere il viso, perché portavo so-lo una feluca piumata in capo. Danzando mi fe-ci più vicino, favorito dalla sua mantella risvol-tata su una spalla; sull’altro braccio, la falda misfiorava invece i ginocchi a ogni passo. Sentivoi suoi fianchi snelli sotto le mie mani, e persi-no la stoffa del suo vestito aveva la morbidez-za della pelle sotto i miei polpastrelli.

Non so quanto restammo ad ascoltare i mu-sicisti sempre più stanchi; infine aiutai la miadama dalle guance imporporate a scendere dalpalco e ci dirigemmo a un caffè. La sarabandaall’esterno del locale proseguì per ore mentreal bancone di marmo del bar io potevo final-mente ammirare il viso di Michela per intero,la bautta abbandonata sul collo con il nastroallentato.

La musica terminò, la gente continuò a na-vigare fra le calli e sui ponti, cabotando sotto ibalconi e da un caffè all’altro per differire l’o-ra del ritorno, in una continua schermaglia diretroguardia contro la notte. Ci ritrovammo an-che noi fra la gente, rifiutando di separarci; se-

guimmo gruppi di dragoni e fantesche fino al-la via nuova. Ci ritirammo a passo lento versola stazione, soffermandoci quasi a ogni cam-piello, sedendoci sull’orlo dei pozzi murati,chiacchierando sugli scalini delle chiese, osser-vando con venerazione il riflesso delle luci suicanali.

L’alba ci rinvenne sul ponte delle Guglie,seduti con i ginocchi fra le mani, a parlare an-cora di noi e degli altri. Tornammo allora in si-lenzio, per rispetto verso Venezia e la mattinadi marzo, alla stazione di Santa Lucia, Michelaaggrappata alla mia spalla, leggera e mesta co-me la sera di cinque anni dopo in cui le avreiaffondato il coltello nel cuore.

* * *

Michela uscì dal bagno dopo alcuni minuti,con un largo asciugamano di spugna drappeg-giato sulle spalle a coprire il seno, così che conmio grande sollievo non potevo vedere la feri-ta. Incerta se venirmi accanto o meno, si fermòin mezzo alla stanza, i piedi nudi sulla mo-quette azzurra.

“Da quanto tempo sai la verità?” mi do-mandò.

Non volendo intimorirla ancora, abbassai losguardo alla punta delle scarpe. “Da mesi” ri-sposi.

“Mesi...” Michela sembrò cercare confermafuori dalla finestra, nel labirinto di calli e luceelettrica della città. “Cos’è che ti ha fatto com-prendere? domandò, risvegliandomi dalle fan-tasie in cui ero stato rapito.

Sospirai. “I sogni” risposi.“I sogni?” ripeté incredula, e poi: “natural-

mente, i sogni non si possono controllare...”Scossi la testa. “No, non è questo” dissi.

Una parte della mia coscienza mi diceva cheera inutile parlare con lei, l’altra mi ripetevache, dopo gli anni passati insieme, era come seMichela fosse davvero mia moglie e perciò ledovevo delle spiegazioni.

Osservai quasi con incredulità, a ragionepensavo, le curve perfette delle sue gambe, idettagli ideali dei ginocchi, l’incavo nudo del-l’inguine che l’asciugamano non arrivava a co-prire. “Non è così” spiegai, “semplicemente,non avete idea di come sia un sogno. Avete at-tinto a un patrimonio di descrizioni che si av-vicina appena alla realtà: tutti i libri che ho let-to non sono in grado di descrivere uno solodei miei incubi.”

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Michela si abbassò la bautta sul mento. “C’èqualcosa che non va?” domandò preoccupata.

Mi intenerì. Nascondendo il tremito dellelabbra la baciai, poi raccolsi tutto il mio corag-gio e con pochi passi silenziosi tornammo allavia; una banda di pomodori di gommapiumaquasi ci travolse, seguiti da un orso con il pic-colo in spalla. Mi asciugai gli occhi con il pal-mo della mano.

“Posso aiutarti?” mi sussurrò Michela in unorecchio.

“Grazie, è passato” risposi.Così finiva la domenica di carnevale.

* * *

Nella stanza d’albergo il riscaldamento eraspento da parecchie ore. Provai compassioneper Michela e il suo asciugamano sulle spalle.

“Copriti, avrai freddo” le dissi. Sentivo chetremava, ma non si mosse; allungai le dita ver-so la mantella, accanto a me sulla coperta delletto, e gliela porsi. Si coprì, appoggiando lespalle alla testiera. “Quando è accaduto?” dissi“è sempre stato così?”

“No, non sempre, naturalmente” mi risposefinalmente “Tu avevi meno di un anno di vita.”

Scossi la testa, non sapendo cosa pensare.Sentivo le lacrime dietro il vetro umido degliocchi. “La guerra?” domandai “Un’epidemia? Ilsole? L’energia atomica?”

Michela tirò su con il naso, si coprì megliocon la mantella. “La bomba al neutrone” rispo-se.

Il neutrone. Mi alzai volgendole le spalle ebarcollai fino alla porta del bagno; prima di en-trare mi voltai, domandando con un filo di vo-ce “In quanti siamo?”

Michela si alzò in piedi, lasciando che lamantella e l’asciugamano scivolassero in terra;sotto la curva del seno sinistro aveva un’ecchi-mosi scura. “Solo tu” sillabò.

Vomitai tutta la cena nel lavandino, urlandocome un cane sotto i ferri della vivisezione;pensavo che avrei tirato su anche lo stomaco.Quando riuscii a rimettere a fuoco lo sguardosul rubinetto, curvo sul lavabo e con le manipoggiate al muro, sentii la mano di Michelasulla mia spalla. Alzai la testa verso lo specchioe vidi i nostri volti, uno dietro l’altro, inevita-bilmente pallidi alla luce bianca del neon.

Respirai affannosamente, poi riuscii a con-centrarmi sul battito del cuore e a rallentarlo.Mi lavai il viso, ricordando quando l’avevo fat-

to per la prima volta in presenza di Michela inuna pensione di Mestre.

La sentii appoggiarsi alla mia schiena. Chi-nai il capo, poi mi voltai verso di lei sostenen-domi al muro. Cercò i miei occhi: “E’ passata?”

Non riuscivo a pensare a lei come a un es-sere umano. Non era un essere umano. Cercaidi rallentare ancora il ritmo delle pulsazioni,poi colto da un dubbio sollevai una mano perposarla sul seno di Michela, là dove era il cuo-re. Mi fermai a meno di un millimetro dalla suapelle, pensando che non era giusto fare espe-rimenti su di lei. Michela comprese ogni cosaguardandomi.

Poggiai i polpastrelli; la pelle era tiepidaesattamente come la mia e sentivo le pulsazio-ni come sempre. Michela sussultò appena,stringendo i denti per non reagire al dolore sullivido.

Espirai tutta l’aria dai polmoni, pensando aquanto fosse stato stupido quel gesto, ma l’al-tra parte di me disse che Michela non aveva imiei stessi diritti, che probabilmente ciò che lebatteva in seno non era un cuore ma qualcosaper simularlo.

“Dunque il mondo non esiste?” domandaialla luce del neon, rifiutando di rabbrividireper conto di mia moglie, nuda nel bagno nonriscaldato. “Non esiste tutta la gente, gli errorie l’idiozia, l’ignoranza e gli eroi? Non sono rea-li Boris Elcin e Clinton, Konçalovskij e IngmarBergman, Bob Dylan e Lucio Battisti, OrianaFallaci e García Márquez, Evtusenko e GarcíaLorca, Albert Schweitzer e Gandhi? Sono soloregistrazioni televisive che la Bomba ha rispar-miato?”

* * *

Lunedì di carnevale. Mi svegliai e per un at-timo non riuscii a orizzontarmi; poi ricordai chemi trovavo nella camera di pensione insieme aMichela, dove avevo deciso di trasferirmi sinoal ritorno a Torino. Mi passai una mano fra i ca-pelli, poi guardai Michela sotto le coperte, ac-canto a me; le posai una mano sull’anca e sivoltò, apparentemente già sveglia.

“E’ quasi mezzogiorno” le dissi “E’ ora dipranzare.”

“Mi farai ingrassare” rispose con voce im-pastata. Uscimmo nell’aria addolcita dal sole dimarzo; Michela indossava i soli vestiti con cuil’avessi mai vista: la mantella e la bautta nera.Preferimmo non prendere il traghetto e pas-

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conda volta che veniva annientato.Passeggiavo su e giù per a stanza mentre

Michela, l’essere che conoscevo con quel no-me, rimaneva seduta con le man in grembo.

“Sembra tutto così perfetto, così organizza-to. Chi ha pianificato tutto?”

“Pianificato?” Ripeté senza comprendereMichela. “Nessuno, credo. Nessuno avrebbemai pensato che tutta l’umanità sarebbe scom-parsa. Tutti meno uno...”

“Se dunque non c’è chi vi comanda, secon-do quale logica operate? Chi ti ha dato l’ordinedi sposarmi?”

Tacque. Tacemmo. Udivo il ticchettio del-l’orologio sul comodino da notte; immaginai diudire i botti dei fuochi artificiali sul CanalGrande, gli schiamazzi delle marionette di car-ne e metallo nelle calli, indifferenti se tutto ciòper cui erano vissuti non aveva oramai più ra-gione di essere.

Mi avvidi della lacrima che era scesa sino almento di Michela e ancora assistei a una lottafra due parti di me, una delle quali mi dicevache un essere artificiale non può piangere dav-vero.

“Nessuno mi ha comandato di sposarti” dis-se a voce tanto bassa che dovetti trattenere ilrespiro per udirla. “Nessuno mi ha imposto diamarti. Nessuno ci dirige: semplicemente,ognuno di noi fa ciò per cui siamo stati pro-grammati. Noi vogliamo il tuo bene, e io riten-go di svolgere il mio compito al meglio possi-bile.”

“Perché tu e non un’altra?”“Non so, è andata così. Io mi sono fatta

avanti.”“E soprattutto, perché io e non un altro?”Non riuscì a rispondermi. Nella stanza d’al-

bergo mi sentivo soffocare. Ancora non sape-vo come comportarmi con Michela.

“Io esco a prendere una boccata d’aria” dissi.“Non puoi trattarmi come se fossi solo una

macchina” disse in tono sommesso prima cherichiudessi la porta. “Sebbene il mio scheletrosia di plastica e metallo e i miei organi artifi-ciali, ho pur sempre un cervello che pensa esoprattutto prova sentimenti. Il fatto che siastata progettata per fare in modo che tu sia fe-lice non significa che le mie passioni siano dif-ferenti dalle tue.”

Richiusi la porta dietro di me senza parlare.L’aria del mattino era pungente; rialzando il

bavero del cappotto mi mossi lungo i muri delpalazzo, osservando con la coda dell’occhio la

gente che passeggiava, davvero intimorito dal-la loro reale sostanza che solo allora vedevoper la prima volta.

Il mondo era finito, distrutto; ciò che ioavevo sempre considerato la realtà era un in-commensurabile, indicibile simulacro che solograzie all’analisi non mediata del mio subcon-scio avevo potuto smascherare.

La bomba al neutrone aveva debellato l’in-fezione della vita sulla crosta del pianeta, con-servando però quasi per delicatezza tutti glioggetti inerti: grazie a ciò gli androidi eranosopravvissuti e si erano avvalsi di registrazionisonore e visive autentiche, di tutta la scienzaumana per rendersi più simili all’uomo per me-glio ricreare un intero mondo distrutto e pro-teggere il loro unico protetto. E non li avreimai smascherati se fosse stato possibile teneresotto controllo il mio subcosciente; perché, aquel livello, io sapevo di non essere circonda-to da esseri umani. E ricevevo messaggi du-rante il sonno: persone che si strappavano lapelle del volto, gente cui non riuscivo a to-gliere la maschera di cartapesta, città desertedove mi aggiravo senza incontrare anima viva.Ma l’incubo peggiore era quello in cui credevodi svegliarmi udendo un pianto; scendevo dalletto, seguivo i singhiozzi fino in cucina dovetrovavo Michela con il volto fra le mani, alla lu-ce accecante del neon, che si graffiava le guan-ce e gli occhi per strappare la pelle artificiale.

Questi sogni ricorrenti erano iniziati cinqueanni prima, nel periodo in cui avevo incontra-to Michela proprio a Venezia, dove tutto stavaora finendo.

L’intero mondo ricostruito era crollato per-ché io sapevo. La vita di questo povero ani-male e delle sue imitazioni premurose che an-cora infettavano la litosfera terrestre stava percambiare completamente.

* * *

Martedì di carnevale, mattino presto. Tor-navamo verso piazza San Marco come cani ba-stonati, le spalle rigide per l’umidità e la bom-ba al neutrone in testa. La pacata, splendidadanza silenziosa di quei giovani dai volti gravici aveva toccati.

Venezia era sporca di carta e neve calpe-stata, intrisa di nebbia e sonno, oscurata dal si-lenzio e dalla notte. Torrenti di maschere flui-vano là dove sino a poche ore prima erano sta-ti fiumi. Battemmo tutti i caffè sulla strada del

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mi sdraiare prima che svenga; io sono il vostroobbiettivo.

Respinsi malamente con la mano la donna,quindi travolgendo un estintore mi diressi al-l’angolo più buio del salone.

Tutti coloro che ho conosciuto erano an-droidi: mio padre, mia madre, i compagni discuola, gli amici, i colleghi. Le ragazze. Michela.

Michela non ha mai avuto bisogno di dor-mire, eppure fingeva; fingeva nella camera dipensione, a Mestre, e a casa, e in vacanza, equella volta sul treno da Venezia quando l’a-vevo osservata con tenerezza, sentendomistanco e felice di quei giorni e fiducioso ri-guardo l’avvenire. Michela era spinta a pren-dersi cura di me da un impulso ben più fortedi quello dell’affetto: era questa, me ne rende-vo conto, la verità più amara.

Essi interpretarono secondo logica la rego-la fondamentale inserita nelle loro istruzioni dachi li progettò, prima dell’olocausto: protegge-te gli esseri umani. A modo loro, agirono cor-rettamente: per proteggere un essere umano ènecessario conservare intatta la sua umanità.Ma qual è la definizione di umanità? E’ scindi-bile dai difetti della razza umana? Hanno ri-creato il mondo come era effettivamente, e for-se era davvero questa l’unica possibilità perfarmi diventare umano: dovevo vivere una vi-ta normale, anonima, né troppo serena nétroppo turbata, conoscere l’amore e non sape-re mai la verità sulla bomba al neutrone.

Se il mio subcosciente non avesse reagito aquegli stimoli che percepiva come alieni, nonavrei potuto accorgermi della mistificazione;avrei seguitato a vivere come sempre, con i so-liti progetti per il futuro, con l’automobile a ra-te e un mese l’anno di ferie, con la musica allaradio e le poesie di Evtu_enko sul comodino,con i figli dei vicini per casa e Woody Allen alcinematografo, le lezioni serali di inglese e ilsabato sera in pizzeria con gli amici, i concertidi musica celtica nel chiostro della chiesa scon-sacrata, e la tessera del sindacato, i referendumabrogativi, i dépliants dei viaggi in Russia, gli

amici di penna e le amiche di mia moglie.Cosa sarebbe accaduto da allora in poi, vi-

sto che tutto ciò aveva perduto senso? Come sisarebbero comportati i miei angeli custodi?

Mi accorsi che erano tutti intorno a me eche mi osservavano con i loro visi lunghi e, miparve, addirittura impauriti. Ma come il came-riere e i clienti del ristorante, non osavano far-si avanti. MI passai una mano fra i capelli,mossi un passo; arretrarono.

Camminai fra due ali di loro, che si apriro-no in silenzio e con deferenza. Uscii in stradaed erano ad attendermi, si scostarono sollecitial mio passaggio. Tornai verso l’albergo, sottolo sguardo di quelle schiere silenziose di gen-te accostata spalla a spalla, e nessuno osò ri-volgermi la parola.

Venezia taceva, il mondo taceva. Michelapareva l’unica che avesse ancora il coraggio diparlarmi.

Salii le scale dell’albergo a passi stanchi,senza usare l’ascensore. Sentivo tutto il pesodel passato, del presente e del futuro del mon-do, che ad ogni scalino si facevano più grevi.

Aprii la porta della camera; Michela era se-duta al piccolo scrittoio d’angolo, vestita di tut-to punto come per uscire. Mi voltava le spalle,ma quando mi udì entrare posò la penna a sfe-ra che teneva in mano.

“Stavi per uscire?” le domandai con genti-lezza.

Non rispose, ma la sua intenzione di an-darsene era evidente. Mi avvicinai, posandolele mani sulle spalle; sul piano dello scrittoioc’era un biglietto con poche parole scritte disuo pugno.

Mi si strinse il cuore. Senza lasciarle le spal-le per non che si alzasse andandosene persempre, raccolsi il suo biglietto. Erano versi diuna poesia che aveva tratto dal libro sul co-modino:

“Perché ho smesso di amarti, non chiedo di perdonarmi

Perché ho amato, perdonami”

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Il primo diritto è quello di esistere. La prima legge è dunquequella che garantisce a tutti i membri della società i mezzi di

esistenza; tutte le altre sono subordinate a quella.(Maximilien Robespierre, discorso sui moti frumentari del-

l’Eure- et-Loir, 2 dicembre 1792)

“DESIDERI QUALCOSA DI PARTICOLARE, CITTADINO?” Domandò il bancodella frutta, un tavolaccio di assi di platano tenute insieme dachiodi di legno e sorretto da cavalletti incrociati, sovraccarico dicassette di frutti locali: panmeloni, verze dolci, corrance, mele la-custri.

L’uomo di mezza età che si dondolava sui talloni di fronte albanco della frutta si destò dai propri pensieri e scosse il capo insegno di diniego. Era vestito, come tutti gli abitanti di Deux Lacs,di una semplice tuta di tela morbida composta da un paio di cal-zoni e una blusa senza colletto; ai piedi calzava scarpe di stoffacon suola di corda. Mentre si allontanava dal banco della frutta,il banco di verdura accanto disse a mezza voce: “Non l’hai rico-nosciuto? E’ il cittadino Robespierre.”

L’uomo udì ma non prestò attenzione alla conversazione cheseguì; era abituato a essere riconosciuto dagli abitanti di DeuxLacs ancora in giudizio e anche dagli altri, i giudicati: i lampioni,gli alberi della frutta, i filòfoni nelle case, le case stesse, i banchidel mercato e via dicendo.

Da un certo punto di vista era piacevole essere riconosciutiper strada: significava che per l’esistenza di tutta quella gente l’o-perato del cittadino Robespierre aveva avuto un’importanza fon-

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L’uomo del dieci di agosto

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“Caro cittadino” gli fu risposto, “mi stupisceche tu non lo sappia: è l’argomento più con-sultato di questa biblioteca. Sali al quinto pia-no, cerca l’armadio Marie-Louise Saint-Ger-main, lei ha tutto.”

Robespierre ringraziò e fece quanto consi-gliatogli. Nel salire la scala di quercia provocòuno scricchiolio stridente e inatteso al settimoscalino e involontariamente trasalì.

“Non preoccuparti, cittadino” lo rassicuròla scala; “è normale: si tratta purtroppo di unatavola difettosa, non posso ovviare.” Sul balla-toio del quinto piano erano presenti solo duefloride cittadine con rotondi volti da figlie dimercanti. Bisbigliavano, ma s’interruppero ar-rossendo quando sopraggiunse Robespierre,che si soffermò a curiosare sul loro stessoscaffale.

Mathiez, La reazione termidoriana, Soboul,Movimento popolare e rivoluzione borghese,Galante Garrone, Buonarroti e Babeuf, Jaures,Storia socialista della Rivoluzione francese. Epoi ancora altri: c’era solo l’imbarazzo dellascelta. Ne prese uno a caso e ridiscese tutte lescale. Desmoulins si era liberato e Robespierresi sedette sulla panca di abete del tavolo di let-tura.

“Buongiorno, Camille.”“Cosa leggi, Maxime?”“Dunque, fammi vedere: Carovita e lotte so-

ciali sotto il Terrore.”Il tavolo, Camille Desmoulins del Club dei

Giacobini, poi del Club dei Cordiglieri, ghi-gliottinato nel marzo del 1794, rimase per al-cuni minuti in silenzio mentre Robespierre sfo-gliava il volume in brossura. Desmoulins pote-va percepire l’imbarazzo di Robespierre, checon palese senso di colpa non se la sentiva dirifiutare l’amicizia di colui che egli stesso ave-va voluto condannare alla pena capitale.

“Sai qualche novità riguardo il tuo proces-so?” domandò il tavolo.

“Non ancora. Penso che ne avrò per molto.”“Il mio processo è durato tre mesi.”“Beato te,” commentò il libro aperto sul ta-

volo; “io sono rimasto sotto giudizio per ottomesi.”

Sia Robespierre che Desmoulins rimaseroesterrefatti. Mai era capitato che un giudicatofosse inviato in un libro.

“Chi sei?” domandarono i due all’unisono.“Marie Joseph, Marchese di La Fayette, caro

Robespierre.”Robespierre sospirò di delusione. Aveva

segretamente sperato di ritrovare qualcheamico.

“Otto mesi di giudizio?” domandò Desmou-lins riallacciandosi all’intervento del libro; “Do-vevi confessare parecchi misfatti.”

Dopo essersi informato sull’identità del ta-volo da lettura, La Fayette dichiarò: “La veritàè che la mia vita è stata ben più lunga delle vo-stre due, cari miei; ho vissuto una repubblica,un consolato, un impero, un regno, una se-conda rivoluzione, una monarchia costituzio-nale. Ho mantenuto la testa sulle spalle, io.”

Robespierre richiuse il volume. “Non hopiù voglia di leggere” disse.

La Fayette spiegò che il numero dei pro-cessi risolti aumentava di giorno in giorno, enella stessa misura cresceva la richiesta di og-getti d’invio. A Deux Lacs non erano disponi-bili ulteriori lampioni a gas né alberi da frutta,né abitazioni, né svariati altri oggetti ricettiviper l’enorme massa di giudicati. Si era perciòsentita la necessità di trovare nuovi oggettid’invio a partire dai due milioni di volumi del-la biblioteca.

“Si parla di dodici milioni di processi risol-ti,” concluse La Fayette.

Robespierre si scusò con Desmoulins e ri-portò il volume al suo posto nell’armadio. Ri-tornò all’aria aperta della Lungastrada fingendodi ignorare la porta che quasi la biblioteca glisbatté sui talloni. Corrucciato, si avviò mani intasca verso la propria abitazione, nel quartieredelle Isole. Il solo pensiero di ritornare a com-battere contro i meschini boicottaggi della ca-sa in cui viveva lo deprimeva irrimediabilmen-te.

All’altezza del ponte sul canale dei Senti-menti si accorse di camminare controcorrente:evidentemente era l’ora in cui tutti si avviava-no verso il mercato per il piacere di stare fra lafolla, anche senza bisogno di contrattare per iprodotti dei banchi.

Il ponte era costruito in legno scuro, moltoconsumato agli scalini dove una moltitudine dipiedi lo calpestava in continuazione, sia in sa-lita che in discesa.

Dacché erano iniziati i processi, sempre unnumero fisso di cittadini aveva abitato DeuxLacs: 531.441, l’equivalente di 1.000.000 in unsistema numerico a base 9 (così aveva confi-dato a Robespierre il Laplace). Non appena uncittadino veniva giudicato e passava in un og-getto d’invio, un altro prendeva il suo posto, lasua abitazione, il suo turno di lavoro, il suo

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me! Non avrei dovuto dirlo.”Un violento crampo rimescolò le viscere di

Maximilien Robespierre. Prese a camminare sue giù per la stanza.

“Tenessi chiusa quella tua bocca di legno,Louis Antoine. Che ore sono?”

“E’ mattino presto. Hai dormito dieci ore.”Robespierre sussultò. Doveva recarsi imme-

diatamente al Tribunale o avrebbe rischiato diarrivare in ritardo. Si lavò il viso nel lavandinodi ceramica, salutò Saint Just e ritornò sulla via.

L’aria del mattino era frizzante e induceva afare del moto fisico. Camminò di buona lenasulla leggera salita verso la Lungastrada, salu-tando i conoscenti che venivano in senso con-trario.

Il Tribunale era l’edificio più imponente diDeux Lacs. Occupava un’area maggiore diquella del mercato e di quella della biblioteca;non era un oggetto d’invio. Non era neppureparte integrante della città. Dalle sue nove por-te entrava e usciva un flusso incessante di fol-la; a giorni alterni e per turni di due ore ogniabitante varcava quelle soglie per essere sotto-posto alla pratica del processo.

Quale fosse la ragione per cui Deux Lacsesisteva, e che nessuno sembrava conoscereperfettamente, doveva riferirsi unicamente al-l’esistenza del Tribunale.

Con spirito di rassegnazione, Robespierre sisoffermò per un attimo di fronte all’arcata a se-sto acuto della Porta della Lontananza. Trerampe di nove scalini che conducevano a ogniporta del Tribunale erappresentavano comeuna transizione fra Deux Lacs e l’atmosfera au-stera delle camere di giudizio..

Nella penombra dei lunghi corridoi crivel-lati di porte, una marea di folla fluiva in ognidirezione, entrava e usciva dalle camere di giu-dizio, si scambiava saluti, riempiva l’atmosferadi un brusio sommesso. Dividendo la popola-zione totale di Deux Lacs per la durata di ogniturno di processo e la sua frequenza, si otte-neva che almeno 22.143 persone in ogni mo-mento erano presenti nel Tribunale; sempre ilLaplace aveva assicurato a Robespierre che lecamere di giudizio corrispondevano a questocalcolo.

Varcata la soglia e chiusa la porta dietro disè, come sempre Robespierre si accorse che ilbrusio dei corridoi svaniva completamente. Lacamera era una cella esagonale con due soleporte: quella dalla quale entrava il giudicato equella dei giudici; le pareti erano a piombo e

spoglie, tranne che per il fregio circolare deldiametro di un braccio con la scritta “Libertéégalité fraternité”. L’unico arredamento eranouna scrivania e tre sedie.

“Buongiorno, Robespierre” salutò la sedia,“accomodati. Hai dormito bene?”

Le altre due sedie, quelle dei giudici, nonerano oggetti d’invio.

Robespierre non ebbe tempo di rispondereperché l’altra porta si spalancò e ne entraronoi giudici.

Il più basso dei due aveva corti capelli on-dulati color polenta, un viso largo e interes-sante, corporatura ben piantata. Le mani eranotozze e forti, gli occhi grigi, la barba corta eispida. Non aveva lo sguardo del conquistato-re nè quello del giudice, bensì l’espressione in-definibile del filosofo.

L’altro uomo era di poco più alto, aveva ca-pelli crespi e scuri, barba e pizzo sotto il men-to e lenti sul naso incastonate su una di quel-le montature metalliche così rare ai tempi diRobespierre e che egli chiamava occhiali. Nonsembrava un pensatore ma un uomo d’azione,non un uomo di lettere ma di parole.

Ogni abitante di Deux Lacs possedeva leesatte condizioni fisiche del 10 agosto 1792;dalla città erano e sarebbero transitati a turnotutti i 26 milioni di esseri umani che avevanovissuto in Francia in quel preciso giorno, comepure i cittadini francesi riparati all’estero a cau-sa della rivoluzione.

Ma i giudici non erano vissuti in quel pe-riodo storico; non erano neppure francesi.L’uomo basso dai capelli di grano era una del-le menti più alte dell’umanità, l’acheo Platone.L’uomo dagli occhiali era un ebreo russo delXX secolo, Lev Davidovic’ Bronstein, meglioconosciuto con il nome di Trozkij.

Robespierre conosceva e ammirava il primogiudice, ma del secondo non sapeva nulla senon ciò che egli stesso gli aveva rivelato du-rante lo svolgersi del processo, e cioè che an-ch’egli apparteneva alla grossa e triste famigliadei rivoluzionari sociali.

Il giudice Trozkij conosceva sia il suo col-lega che il giudicando, Platone non conoscevanessuno dei due. In un altro tempo e in un al-tro luogo, ambedue erano stati processati econdannati alla pena di essere giudici lorostessi.

La seduta si rivelò immediatamente agli oc-chi di Robespierre come diversa da tutte quel-le che l’avevano preceduta. I giudici non ave-

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piantagioni: il Corpo dei Fiori, il Campo delleStelle, il Prato Libero, le isole minori.

Senza accorgersene, Robespierre era giuntodi fronte alla porta di casa. Ancora sconvoltodagli avvenimenti, e con l’impressione che tut-to congiurasse per travolgerlo, fece l’atto diaprire la porta.

Dumouriez si rifiutò di lasciarlo entrare. Ro-bespierre si imporporò in viso e picchiò sulleassi del portone, minacciando la casa.

Colto da un improvviso malore, si lasciòscivolare sugli scalini; tutto parve ruotare in-torno a lui, lasciandolo frastornato.

“Stai bene, cittadino?”Una voce femminile superò la nebbia bian-

ca. Intravide il volto di una donna di mezza etàchino su di lui, quasi contemporaneamente udìi tonfi secchi di martelli che picchiavano con-tro il legno.

“Cosa accade?” domandò. La donna loaiutò ad alzarsi.

“Sei svenuto, cittadino Robespierre. Il tuofilòfono ha chiamato la guardia civile, stannominacciando la casa.”

Il ritmo dei martelli si intensificò. Tre uomi-ni stavano picchiando contro la porta di casacon pesanti attrezzi dal manico lungo almenoun braccio.

“Non preoccuparti, cittadino,” disse uno de-gli uomini, “Non può resistere per molto. Ognigiorno abbiamo tre o quattro casi di abitazionirecidive, ma dopo un trattamento della guardiacivile un simile incidente non si ripeterà, te loassicuro.”

E riprese a martellare.“Sei sicuro di stare bene, cittadino?” do-

mandò premurosa la donna; “io abito qui, difronte a te. Vuoi venire da me per un bicchie-re di acqua intanto che la guardia civile finisceil suo compito?”

“No, no, grazie;” declinò Robespierre “Vor-rei prendere una boccata d’aria. Mi pare cheabbiano quasi finito, tra l’altro.”

La porta si spalancò con uno schiocco sec-co, ma Dumouriez non disse una parola. Sbuf-fando e asciugandosi il sudore dalla pelle luci-da, gli uomini della guardia civile si rimisero imartelli in spalla.

“Ah, è stata dura, stavolta! Ma chi è la ca-sa?”

“Il traditore Dumouriez” rispose Robe-spierre.

“Ah, vile!” gridarono gli uomini e quasi sisarebbero rimessi a martellare, ma Robespierre

ringraziò e li congedò. Doveva riposarsi.La donna lo accompagnò in casa, dove

Saint Just lo festeggiò. “Maxime, cara anima.Hai visto? A tanto è giunto il cane Dumouriez!”

“State tranquillo, cittadino” commentò ladonna “dopo questo trattamento ci penseràpiù di una volta prima di rifare uno scherzo.”

“Siedi, Maxime;” continuò Saint Just, “pos-siamo chiedere a questa brava cittadina di fa-re del caffè di erba doria, se ti va.”

Quando la donna fu in cucina, Robespierreriassunse a Saint Just la seduta in tribunale. Ilgiudicato nel filòfono tacque, riflettendo. Robe-spierre respirava a fatica sul sofà imbottito.

“Direi che è un onore per te,” volle conso-larlo Saint Just “E aggiungerò che se i giudicisono arrivati a decidere tanto, tu sei perfetta-mente in grado di farlo. Loro vedono cose chenoi non immaginiamo neppure.”

Robespierre si passò le mani fra i capelli esulle palpebre chiuse. “Mio Dio, Louis Antoine,persino a Parigi era tutto più semplice.”

Più tardi si svegliò. La donna se n’era an-data e il caffè, posato in terra accanto al sofà,si era oramai raffreddato.

Cosa pensi di Deux Lacs?” domandò senzapreamboli.

“Non so nulla più degli altri”, rispose SaintJust dopo un attimo.

“Possiamo essere certi di una cosa. Questacittà è stata creata da Qualcuno. Questo Esse-re Supremo ha prelevato ciascuno di noi a ma-no a mano che la nostra fiammella si spegne-va sulla Terra polverosa e ci ha reincarnati sul-le rive di questo lago. Ma questo è uno stato dipassaggio? E’ il purgatorio, l’inferno o il para-diso? E poi ancora, Louis Antoine, ti prego: ri-spondi o potrei impazzire. Che logica c’è die-tro i processi? Gli oggetti d’invio sono una pu-nizione o un premio, la dannazione o la sal-vezza? Chi viene giudicato con più indulgenza:il reazionario o il rivoluzionario?”

“Posso solo dirti questo, Maxime: io sonoqui da quando Deux Lacs esiste, dal primo sca-glione di processi, e ho sempre visto che c’èdifferenza fra l’assoluzione e la condanna. L’u-nica sentenza è la reincarnazione in un ogget-to d’invio.”

“Sì, ma qual è la logica? Suppongo che sia-mo qui per imparare a distinguere il Bene dalMale, per sapere se ciò che abbiamo fatto sul-la Terra fosse giusto o errato.”

“Vorrei solo farti notare una cosa. Io hoavuto quest’impressione, sebbene possa essere

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stiti così inusuali e poco femminili era per Ro-bespierre piuttosto imbarazzante. La strada erain leggera salita, rozzamente pavimentata e tor-tuosa, fiancheggiata da due file di abitazioni aschiera.

La donna raccontò di avere vissuto nel Fau-bourg Montmartre e di essersi trovata anch’el-la alle Tuileries il dieci di agosto. Il marito, uf-ficiale volontario nell’esercito repubblicano,era morto alla battaglia di Rivoli, durante lacampagna d’Italia del ‘96-’97; Marie-Louiseaveva vissuto ancora per pochi anni in miseria,finché si era spenta stroncata da una polmoni-te trascurata.

“Bene, cittadino, questa è tutta la mia vita,non molto avventurosa. In compenso, sulla tuasono stati scritti dei libri. Penso tu li abbia vistiin biblioteca.”

Robespierre sospirò. “Li ho visti, li ho visti.Per i posteri io sono solo un tiranno, un san-guinario, l’uomo del Terrore e il Terrore è Ro-bespierre. Nessuno ricorda Robespierre l’In-corruttibile, l’uomo della Convenzione, dellaCostituente, del Comitato di Salute Pubblica,l’uomo che voleva salvare la Francia e la Rivo-luzione.”

“Ci sarà giustizia anche per te” volle conso-larlo con convinzione la donna, “ci sarà giusti-zia per tutti, cittadino.”

* * *

Robespierre trascorse il proprio turno di la-voro raccogliendo corrance all’isola del Limbo.Il traghetto affollato lo trasportò sin là dopo seifermate in altrettante isole; quattro-cinquecen-to cittadini lavorarono gomito a gomito, co-gliendo i tondi frutti rosa e trasportandoli permezzo di ceste intrecciate sino al molo, doveal primo passaggio il traghetto avrebbe fattogiungere il carico in città.

Mentre risaliva anch’egli sull’imbarcazioneper far ritorno a casa, incrociò Marie-Louiseche scendendo dal trampolino del battello gliprese le mani fra le sue. “Mi ha filofonato il cit-tadino Saint Just,” gli disse, “appena finito ilmio turno di lavoro verrò a parlarti a casa tua.”

E si allontanò alla volta della piantagione dicorrance, senza permettere a Robespierre di ri-fiutare.

Un vento fastidioso spazzò il ponte del tra-ghetto sino allo sbarco, Robespierre corse inti-rizzito incontro al primo distributore di latte dicanna per qualcosa di caldo da bere.

Non se la sentiva di tornare subito a casa.Era arrabbiato con Saint Just per ciò che avevaraccontato a Marie-Louise, ma non sapeva do-ve rifugiarsi per avere un minimo di quiete edi conseguenza la possibilità di riflettere.

Mentre beveva il liquido caldo, si soffermòcome sempre ad ammirare la scultura d’acquadel cittadino Philippe Lebon. Non era la solanè la più bella che egli avesse costruito a DeuxLacs: nella sconfinata Piazza del Tribunale, Le-bon aveva montato e messo in funzione un’im-ponente scultura di fronte alla quale Robe-spierre rimaneva attonito per ore ad ammiraregli ingegnosi flussi e riflussi d’acqua, e i getti egli arcobaleni, le pioggerelline e le nebbie sot-tili. Servendosi quasi unicamente di cannesvuotate di tutte le dimensioni, il Lebon avevaconvogliato dal canale della Vita una quantitàdi acqua che si frazionava nei mille tubi ligneiintrecciati, fuoriusciva dalle bocche libere odrenate da reticelle a seconda dell’effetto chesi voleva ottenere. Una volta messa in funzio-ne, la scultura d’acqua nascondeva alla vista itubi di canne chiare, rivelando solo le paretiesterne d’acqua e i mille rivoli sinuosi, i gettiverticali, le cascatelle orizzontali, i funghi li-quidi, i salici trasparenti, gli arcobaleni di fo-schia, le luci diffuse o riflesse.

Robespierre pensò in quel momento, difronte alla scultura d’acqua minore, che Marie-Louise probabilmente l’avrebbe inclusa nellasua definizione di bellezza del mondo.

Si recò in biblioteca, al tavolo di Desmou-lins.

“Ti sento agitato” disse il tavolo.“Si avvicina la fine del processo.”“Sono contento per te. Vedrai, tutto è più

chiaro e facile da questa parte della barricata.Hai bisogno di un libro per distendere i nervi.Posso suggerirti qualche titolo?”

Robespierre scosse la testa in segno di di-niego. “No, ti prego, Camille: ho bisogno diconcentrarmi, non di distrarmi.”

Nel silenzio polveroso della biblioteca, so-lo i tonfi attutiti dei libri ammorbidivano l’at-mosfera ufficiale e stantia. Affacciati alle balau-stre dei piani superiori, parecchi cittadini gira-vano fra gli scaffali, scorrendo con il dito o conlo sguardo il dorso dei volumi esposti.

“Dimmi una cosa, Camille; pensi che siavalsa la pena di tagliare tante teste?”

“E’ questo il tuo problema?”“Sento la responsabilità di tutto il sangue.”“Luigi Capeto dovrebbe sentire sulla pro-

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accennavano sorrisi, lacrime imperlavano leguance.

Il popolo minuto era con Robespierre, il po-polo che sempre aveva rappresentato il moto-re della rivoluzione, che aveva armato i canno-ni e portato le picche, che era stato affamato inpace e decimato in guerra, oltraggiato, imbro-gliato e usato come strumento dal re e dalla Gi-ronda, dalla Palude, dai Foglianti, da La Fayet-te e De Lameth. Il popolo rimase fermo sottogli scalini allorché Robespierre varcò la Portadella Lontananza, ma il battito dei loro cuori re-suscitati riecheggiò ancora fra i corridoi a ognipasso dell’uomo del dieci di agosto.

Robespierre aprì la porta.I giudici erano già al loro posto. Robe-

spierre rimase in piedi.“E’ il momento della sentenza,” esordì subi-

to il giudice Platone; “ma ciò non deve mettertiin soggezione. Sebbene tu non abbia affronta-to la questione con serenità, puoi riferirci laconclusione cui sei giunto.”

“E’ impossibile giudicare un movimento dipopolo come una rivoluzione nel breve volge-re di un processo, per a lungo quanto possadurare,” replicò Robespierre.

“Non siamo qua per giudicare la rivoluzio-ne ma il cittadino Maximilien Robespierre.”

“Ogni sentenza contro un rivoluzionariofrancese è una sentenza contro la rivoluzione.Chiunque di noialtri può dire a ragione di es-sere egli stesso l’uomo del dieci di agosto.”

“Non può esistere un processo senza sen-tenza,” intervenne il giudice Trozkij.

“La sentenza è assoluzione,” replicò Robe-spierre; “io assolvo il popolo di Francia per ilsangue versato, poiché esso era conscio diquanto altro ne sarebbe scorso se una rivolu-zione non vi fosse stata. I contadini avrebberocontinuato a morire per il re nelle sue guerredinastiche. Molto meglio è stato fare caderetutte quelle teste di aristocratici antipatriottici,preti materialisti, aggiotatori senza scrupoli, co-spiratori nemici del popolo.”

“Dunque,” disse il giudice Platone, “tu pen-si che il mare di sangue si possa riscattare aquesto modo, con questa giustificazione. L’in-teresse del popolo giustifica qualsiasi quantitàdi teste tagliate.”

Robespierre deglutì. Rivide con gli occhidella mente la marea umana fuori dalle portedel Tribunale. “Sì, io lo penso.”

“Perché dunque arrendersi,” continuò ilgiudice Trozkij, “Perché consegnarsi alla ghi-

gliottina quando ancora tanto poteva esserefatto per il popolo, per la giustizia, per l’ugua-glianza? Arrendendoti, condannasti la rivolu-zione al fallimento immediato.”

Robespierre finalmente sedette. Era giuntoal punto oltre il quale il futuro si annebbiava,la vista si confondeva, le lacrime bagnavano leguance. “Non sapevo cosa sarebbe accadutodopo la mia morte. Avevo fiducia nel popolo,nella sua forza che più di una volta aveva sal-vato la rivoluzione.”

“Come potevi sperare nel popolo quandotu stesso ne avevi stroncato la forza condan-nandone a morte i capi più capaci, creandouna frattura fra il Comitato di Salute Pubblica eil movimento popolare?”

“Il Comitato doveva agire al di sopra delleparti. Feci giustiziare sia gli arrabbiati che i cor-diglieri indulgenti, sia Hébert che Danton.”

“Ancora non hai dato una risposta alla se-conda questione,” gli ricordò il giudice Trozkij.

“Come è possibile rispondere?” EsclamòRobespierre imporporandosi. “Come possostabilire se la fine del Terrore sia stata un beneo un male? Non ero là a vederla. Solo tramiteun’esperienza approfondita potrei trarre leconclusioni di una questione così vitale.”

Per un minuto il silenzio calò sulla stanza,sulle sedie e il tavolo, sulle pareti e il fregio almuro, sul giudicando e i suoi giudici.

“Ti dicemmo che saresti stato perfettamen-te in grado di emettere una sentenza,” disse in-fine il giudice Trozkij, “e non ci sbagliavamo.Hai analizzato e giudicato come dalle nostreaspettative.”

“Ma io non ho giudicato!” Protestò Robe-spierre “Ho appena confessato la mia incapa-cità per scarsità di conoscenza!”

“E’ una conoscenza che potrai acquisire so-lamente studiando con accuratezza il periodosuccessivo a quello in cui vivesti. Non verraiperciò relegato in un oggetto d’invio, a diffe-renza della stragrande maggioranza degli abi-tanti di Deux Lacs e delle altre città di Tribu-nale sparse nell’universo. Diverrai un giudicetu stesso, come me e come il giudice Trozkij.Sarai in questo modo in grado di analizzare ilperiodo direttamente successivo alla rivoluzio-ne per mezzo dei suoi protagonisti. Sapevi chedopo la Repubblica la Francia si tramutò in unImpero?”

* * *

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Santuario

GIUNGEMMO AL SANTUARIO che la luce diurna era già ammainata sul-la campagna e la bruma di mezzo autunno rendeva l’oscurità ter-ribile. Franziska, che aveva guidato sino allora, lasciò afflosciarel’hovermobile sul cuscino che si sgonfiò con un sospiro; nel pic-colo parcheggio di ghiaia al termine della via carrabile, dopo unlungo percorso fra salici scheletrici, fossati per l’irrigazione e neb-bia, c’erano già altre due vetture che Franziska riconobbe.

“Non fa particolarmente freddo” dovetti ammettere quandoscendemmo, ma le misi il soprabito sulle spalle e presi la miagiacca.

“Lascia stare” disse allora fermandomi con una mano quandostavo per prendere le nostre valigie con il necessaire da viaggio“Al santuario c’è tutto ciò che ci occorre.”

Un viale di cipressi ci condusse attraverso un parco piatto,senza rilievi, dove per l’incuria la vegetazione spontanea stavaprendendo il sopravvento; in fondo al viale il frontale della basi-lica era sobrio e a suo modo imponente.

“I tuoi amici hanno un certo gusto per l’orrido” dissi, alluden-do alla riunione nel santuario sconsacrato. Avanzando verso ilportale della chiesa, vedemmo la guglia della torre campanariaperforare la nebbia.

“È questo il secondo fascino della commutazione,” disse enig-matica Franziska piegando il capo per guardarmi attraverso le ci-glia, “Per qualche giorno torneremo alla vita d’un tempo.”

Mi arrestai sul portone che Franziska aveva socchiuso. Si te-

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ArcheologiaTerzo classificato Premio Italia 1991

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nelle tasche dei calzoni, senza guardarla diret-tamente in viso. “Ci sei venuta spesso?” do-mandai per incrinare il silenzio.

“Dieci, dodici volte” borbottò. “Anche...” chiesi senza riuscire a prose-

guire. “Anche l’ultima volta, è questo che volevi

dire? Sì, tutti c’eravamo anche allora, trannete.”

Mossi alcuni passi sui mattoni a spina di pe-sce del pavimento, maledicendomi per avereaccettato l’invito di Franziska a una commuta-zione fra intimi, sapendo cosa era accaduto nelsantuario sconsacrato. Ogni cosa in quella si-tuazione mi pareva forzata, cervellotica e per-sino di cattivo gusto.

“Vuoi vedere il resto del santuario?” propo-se Tersicore avvicinandomisi alle spalle; la se-guii lungo il colonnato mentre mi spiegava chele celle dei monaci erano divenute cubicoli perla commutazione. All’angolo opposto della bi-blioteca entrammo nel refettorio, col suo lun-go tavolo di castagno. Mi spiegò che avremmocucinato a turno in mancanza del cuoco auto-matico.

“Siete decisamente una bizzarra compa-gnia” commentai ad alta voce, poi ripensai aquanto accaduto la volta precedente nel me-desimo luogo e con le stesse persone. Non mistupii che Franziska non avesse più partecipa-to a una commutazione da allora.

Mentre seguivo poi Tersicore verso la cap-pella del chiostro, non potei fare a meno dinotare il suo passo elegante e la gonna attilla-ta, e mi resi conto che indossava solo una blu-sa senza maniche. “Aspetta, avrai freddo” dissisfilandomi la giacca e coprendole le spalle pri-ma che potesse dire di no; la pelle delle suebraccia, bianchissima e quasi trasparente allaluce diffusa della nebbia, era fresca al tatto.Continuai a seguirla tenendole una mano sullespalle, lusingato dal fatto che per stare con mefosse uscita all’aperto mezza vestita.

“Tutto è diverso qua” dissi senza compren-dere le mie stesse parole, ma lei dovette capi-re perché annuì a capo chino, poi si fermò al-l’ombra più fitta del portico per guardarmi inviso.

“Ti invidio” disse, e con te mio marito, eLiam e Valerio; vi invidio perché siete uominie fate ciò che volete.”

Non seppi trattenere un accesso di riso.“Ognuno fa ciò che gli è permesso,” replicai.“In fondo, ho l’impressione che sia sempre la

donna a scegliere.”“È un privilegio opinabile,” rispose, “e poi,

ti pare giusto che nel XXI secolo noialtre nonsi abbia ancora raggiunto parità di diritti?”

“Non mi risulta proprio,” dissi sorridendo,convinto che fosse il solito pretesto per parla-re d’uomini e donne, l’antico gioco del corteg-giamento. “Parità di carriera, di opportunità, didiritti: tutto questo l’avete raggiunto. Cosa vi ri-mane?”

“La libertà di vivere fuori dalle libertà cheavete inventato per noi,” disse quasi sottovoce.

Udimmo clamori dalla parte della sacrestia,e la luce sotto la porta si allargò; Lleida cichiamò dalla soglia, e andammo incontro agliultimi ospiti appena giunti. Lei era una donnache non saprei se definire troppo bella o nonbella abbastanza: aveva qualcosa in viso chemi manteneva a distanza, capelli lunghi e drit-ti come fili di cotone e vestiva seguendo accu-ratamente la moda, vale a dire con un abito co-lor pastello dritto e largo abbottonato su un la-to. Si chiamava Valentina e suo marito Valerioaveva un volto tondo dall’aria forte, occhi chia-rissimi e una barba folta ma ben curata, un so-prabito dal taglio antiquato e il sottile marchiodi una striscia Volkhan applicata di recente al-la base del collo.

Tornammo in biblioteca, dove in breve l’a-ria divenne pesante per il fumo della pipa diLiam e per l’intrecciarsi di battute e accenni acircostanze che io non potevo conoscere.Franziska si intrattenne principalmente con Va-lentina e suo marito, mentre Tersicore sedevadavanti a me, i piedi appoggiati a uno scannoe un libro sulle ginocchia, leggendo e inseren-dosi di tanto in tanto nelle varie conversazioni.Mi parve di capire che fosse stato Valerio a in-sistere per ritrovarsi tutti a distanza di dieci an-ni dall’ultima, tragica commutazione, compre-sa Franziska che quella volta aveva perduto ilmarito; Tristram e Tersicore invece sembrava-no i più restii al nuovo incontro. Mi accorsidella presenza di una muraglia gelida dietrol’apparenza di calore della compagnia, e unavolta di più mi dissi che avevo sbagliato nel-l’assecondare Franziska: avevo, in pratica, ac-cettato di prestarmi al pericoloso gioco di sco-prire l’assassino di suo marito.

* * *

L’aria nella biblioteca assunse presto lostesso colore del chiostro, perché Tristram si

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al ventre, il sangue pesante ai polpastrelli esotto i denti, un sibilo nei timpani, l’impressio-ne discreta di una striscia Volkhan sul collo, lasensazione dell’interno della scatola cranica, inervi tesi alle spalle, il peso del corpo sulle ca-viglie. Mossi un dito dopo l’altro, sollevai i pie-di sulle punte. Perfetto, il nuovo corpo mi pia-ceva. Non sentendo la barba al viso, giudicaifosse Liam.

Inspirando profondamente, aprii gli occhisullo specchio. Per un solo attimo non credet-ti a ciò che vedevo, poi indietreggiai di un pas-so, inciampai e caddi sul letto; mi rialzai por-tando le mani al viso, senza riuscire ad aprirebocca. Avevo commutato con Tersicore.

Commutazione

Rimasi seduto sul bordo del lettino, sussur-rando qualcosa con la mia voce irriconoscibilesul palato e nei timpani. Mi sfiorai le tempie,saggiai la consistenza dei capelli sotto le dita,seguii la curva dei seni senza avere il coraggiodi toccarli.

Tersicore.A mia memoria non era mai accaduta una

commutazione fra sessi opposti. Eppure ero in lei: io ero Finn, il marito di

Franziska, con tutte le sensazioni e tutti i ri-cordi che mi rimanevano della lunghissima vi-ta; ma c’erano anche le percezioni del corpoche mi ospitava: il profumo sottile e familiaredella pelle, corretto da qualche essenza, l’odo-re della cella già sentito parecchi volte in com-mutazioni precedenti, il rumore di sottofondoche è diverso per ogni cervello. Tristram è miomarito, mi ritrovai a pensare, eppure ero Finn.Pensai alla mia casa, la casa di Tersicore: eccola finestra concava da vanti al piano sagomatodel tavolo da lavoro, con vista sulla città, ora laschiarisco con un tocco delle dita posso ricor-dare la posizione di ogni registrazione sullascansia da parete, e il colore dei pavimenti ri-coperti da un tappeto di striscioline di seta.Eppure sono Finn, Franziska è mia moglie,Franziska con il suo soprabito foderato e lastriscia Volkhan ben rimarginata sul collo; so-no agente teatrale e sto organizzando “Il dia-volo e il buon Dio” di Sartre. Ma ecco davantiai miei occhi chiusi il volto di Tristram, beffar-do, accigliato, antipatico, accondiscendente,annoiato, importante.

Ritrovai il coraggio di alzarmi davanti allospecchio; passai un dito sul viso di Tersicore,

le lentiggini appena dipinte sugli zigomi, il na-so piccolo, le labbra chiare, i capelli corti edolci, la striscia Volkhan invisibile alla base delcollo. Raccolsi dalla spalliera della sedia la suablusa quasi impalpabile e la indossai, compia-ciuto della sua impressione sulla pelle nudadel torso e del ventre. Ancora mi sembrava in-credibile: mai avevo saputo che fosse possibi-le commutare fra sessi opposti; ci si sceglie l’u-no con l’altro, ma avevo sempre dato per cer-to che non fosse fattibile neppure lo scambiodiretto fra due corpi; bisogna essere almeno intre coppie perché la commutazione non av-viene in linea diretta, e da quattro coppie in suil numero è perfetto.

Dunque, in che corpo era commutata Ter-sicore? Forse tutta l’armonia del gruppo era ri-sultata devastata.

Tutto era certamente dovuto all’invidia diTersicore per il sesso opposto. Mi tornò inmente la sua affermazione: “Siete uomini e fa-te ciò che volete.” Aveva trovato il modo diprovare l’ebbrezza del corpo d’un uomo dal didentro; il suo desiderio di commutare con meaveva vinto le naturali barriere del gioco.

Bussarono alla porta; gridai d’entrare e difronte allo sguardo divertito di Valerio ricordaiche ero ancora svestito dalla vita in giù. Sve-stita.

Infilai con maldestria la gonna di Tersicore,quindi uscii sotto il porticato dove si trovava-no già tutti gli altri, ma avevo dimenticato lecalze di nylon ed ebbi freddo. “Finn sta male,”mi disse Lleida (o almeno il suo corpo), e rea-lizzai che Tersicore doveva avere commutatodirettamente nel mio corpo; cercai di avvici-narmi al suo cubicolo per parlarle, ma Franzi-ska ci allontanò tutti a mani tese: “Non è nul-la,” disse “l’ebbrezza del momento. “Non to-glietegli il respiro.”

Rimasi nel chiostro con gli altri, insicurosulle scarpe col tacco, frastornato dal ronzio difondo e dagli odori nuovi e sconosciuti, anco-ra incredulo per l’avventura che stavo vivendo.

“Sono molto stanca,” disse Valentina tiran-dosi indietro i capelli sulla fronte. Tutti annui-rono, imbarazzati come ogni volta dalla situa-zione e forse ansiosi di scoprire il partner, seb-bene le regole non scritte della commutazionestabiliscano il segreto sulle identità.

Mi ritrovai faccia a faccia con Tristram, miomarito (questo pensiero mi fece quasi ridere).Lui allargò le braccia con le labbra atteggiate aun sorriso, un gesto che non sembrava abitua-

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tutto quelle della vita,” proseguí. Riconoscen-do la frustrazione dietro il suo tono, non ri-sposi ancora. Sentii allora la sua mano sullaspalla, poi giù attraverso lo scollo della blusa aprendermi il seno come per riconoscerne le di-mensioni. Cercai nei ricordi di Tersicore un’a-naloga situazione, ma subito fui assalito da unaridda di ricordi: il sistema endocrino del miocorpo mi stava tradendo, sentivo vibrazioni ailombi e caldo al viso; feci per alzarmi, ma Tri-stram mi costrinse a sedere con la pressione diuna mano sulla spalla e continuò a girarmi in-torno.

“Credo di sapere quello che vuoi” disse.“Ti sbagli, tu non sai nulla” gli risposi, per-

cependo al contempo tutta la fragilità del cor-po che mi ospitava. Ma al pensiero di coricar-mi sul letto con lui la mia mente aveva il so-pravvento e mi serrava lo stomaco.

“Vieni qua” disse secco. Contro voglia, mialzai cercando di non dare l’impressione di ob-bedirgli subito. Mi prese fra le braccia, la suabocca sulla mia, e sentii che mi sollevava lagonna da dietro per accarezzare ciò che cre-deva di Tersicore o per lo meno di un’altradonna.

Mi divincolai, strinse più forte. “Fermo,idiota!” esclamai liberandomi la bocca.

Sbatté le palpebre qualche volta, quindi vi-di chiaramente il rossore affluirgli al viso. Contutto il peso del proprio corpo mi scaraventòsul letto e mi tenne ferme le braccia sul cusci-no stringendomi i polsi con le sue mani. Pro-vai a inarcare la schiena, ma mi gravava ad-dosso con tutte le sue forze; sentii per ciò cheero molto più debole di quanto mi dicesse ilcervello, e mi vennero alla mente dalla memo-ria di Tersicore altre analoghe situazioni diumiliazione e impotenza, e persino un ricordosepolto nella mia propria memoria, ma tanti lu-stri prima da non sospettarne più l’esistenza.Soprattutto al pensiero di quest’ultimo, unamortificazione imposta a una ragazza, arrossiidi vergogna, cosa che Tristram su di me inter-pretò male.

“È questo che cercavi, lo sapevo,” disse congli occhi lucidi e la voce tremante di eccitazio-ne. All’improvviso sputai sul suo viso ripu-gnante a un palmo dal mio, per pentirmi qua-si subito. Chiuse appena gli occhi, quindi si ri-pulí contro la camicia di fibra artificiale; senzadire nulla, mi tenne stretti i polsi uniti sopra latesta, sul cuscino, mentre con l’altra mano mifrugava in vita per sciogliere la fusciacca nera

che sosteneva la gonna.Io ricambiavo con aria di sfida il suo sguar-

do, cercando di divincolarmi senza realizzarequanto il corpo di Tersicore fosse più deboledel suo. Sempre senza una parola, mi legò conla fusciacca i polsi alla testiera d’ottone del let-to, quindi afferrò a due mani lo scollo del piz-zo della blusa e lo allargò sulle spalle, liberan-domi i seni nudi.

A quel punto si fermò, dandomi l’opportu-nità di rendermi conto della situazione in cuimi aveva costretta, comprensione tanto intensache mi diedi dello stolto per aver continuato aprovocarlo come se non fossi stato chiuso nelcorpo di una donna. Rimasi perciò a labbra di-schiuse ad attendere una sua iniziativa; conun’espressione soddisfatta sul volto, si abbassòappena i calzoni e sollevandomi la gonna suifianchi senza nemmeno sfilarla mi penetrò conun impeto che mi mozzò il fiato.

Umiliazione

L’alba sorse rosea di brina oltre le croci delcamposanto, sul retro del santuario assediatosu ogni lato dalla galaverna. Rimasi seduto sul-l’ultimo banco della cappella buia, con una co-perta sulle spalle e il freddo della pietra che mistrisciava su dalle gambe, finché i vetri dellachiesetta non si tinsero dei loro propri colorinella luce del mattino. Decisi allora di non far-mi trovare là; desiderando fare due passi dasola nel parco per smaltire l’umiliazione, attra-versai in punta di piedi il portico del chiostroper non che qualcuno mi udisse ed entrai nel-la basilica attraverso la sacrestia.

Stavo per passare davanti all’altare quandouna voce fra le colonne mi fece trasalire:“No!”. Mi bloccai guardandomi alle spalle:Franziska uscí dall’oscurità del transetto e mivenne incontro. “Non la navata centrale” mi ri-cordò, “Cosa ti è capitato?” aggiunse poi no-tando la mia aria sfatta e la coperta sulle spal-le. Preferii non rispondere, ma Franziska (o chiera in lei) doveva avere una certa esperienzadi situazioni del genere, perché scosse la testacon comprensione. “Notte brava, eh? Certo cheson tutti leoni quando sono nel corpo di un al-tro e montano sua moglie.”

Il pensiero di essere tanto debole da averbisogno di essere consolata, oltre a quello dinon avere potuto oppormi a Tristram neppurevolendo, mi depresse. “Su, coraggio,” disse an-

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parte con Tristram,” lo ridicolizzò Valentina, fa-cendolo tra salire per la sorpresa ma riuscendonell’intento di zittirlo.

Soddisfatto e compiaciuto, disposi di buonalena le scodelle intorno al tavolo, di fronte al-le tavolette pressate già preparate da Valentina.Il mattino fuori dalle inferriate delle finestre eranitido di sole autunnale, ma una bruma da ef-fetti speciali levitava qualche centimetro soprala campagna nuda.

Mi ritrovai a confrontare due ricordi, il miocon quello di Tersicore; del resto, era la fina-lità più nobile della commutazione: confrontoe recupero della memoria corrotta dagli anni,dai secoli per qualcuno, quasi un’archeologiainteriore.

Un motociclo mi portava lungo una stradadi campagna, protetto da capo a piedi da unamuta termica contro il vento gelido dell’inver-no, semiassopito dalla monotona guida del pi-lota automatico, finché con un sibilo disconforto il motore ad aria compressa si spe-gneva mandando il veicolo a fermarsi a latodella carreggiabile; e io che non mi intendominimamente di meccanica rimanevo semiassi-derato ad attendere il passaggio di un’altra vet-tura, costretto mio malgrado ad osservare l’in-cedere del mattino sui campi.

Io, Tersicore, pedalavo in piena estate peruna strada pianeggiante che mi pareva di ri-cordare in Scandinavia, vestita leggera e so-vrappensiero, finché con una breve discesa lacarreggiata non penetrava in una depressionenaturale a lato di un ruscello. Azionavo i freniall’improvviso perché la strada sembrava im-mergersi fra i flutti di un mare di nebbia, sortodalla terra per via dell’umidità; la bicicletta siarrestava, e osservavo divertita ma indispettitala bruma che mi saliva le caviglie.

Finn dovrebbe uscire da quella stanza,”brontolò Valerio mentre, seduti sull’erba delchiostro dove la brina era evaporata al sole delmezzodì, ascoltavamo Valentina suonare il suoliuto a onde. Chiunque fosse l’essenza nel suocorpo, se la cavava bene con l’esperienza e l’a-bilità delle dita.

Liam sedeva accigliato accanto a Lleida, cheera ricomparsa con i capelli umidi dicendo cheera stata a passeggio; Tristram aveva cercato diavvicinarmi ma non l’avevo degnato di una pa-rola e se ne stava sospeso sui gomiti e sulle na-tiche, la testa rovesciata al sole, ad ascoltare lamusica come se avesse previsto la mia reazio-ne. Ci eravamo tutti messi più comodi, io in-

dossavo un paio di calzoncini e una felpa e migodevo il timido sole accanto a Franziska.

“Cosa fa sempre chiuso là dentro?” conti-nuò Valerio malgrado non avesse ottenuto ri-sposta.

“Sta male,” spiegò Franziska senza rivolger-si a nessuno in particolare; “si è fatto un’inie-zione, dormirà fino all’ora di pranzo.”

“Non ho mai visto una simile reazione allacommutazione,” insisté Valerio.

“Sei sicura di non averlo esaurito?” insinuòTristram con un sorriso idiota.

“Non è neppure riuscito a montarla,” gli ri-spose aspro Liam, ancora indispettito per lascomparsa di sua moglie, “Questa volta è ri-masto a bocca asciutta, in tutti i sensi.”

Qualcuno rise, io toccai la mano di Franzi-ska per segnalarle di non prendersela. Dopovari minuti in cui Valentina continuò a suona-re a occhi chiusi, troppo presa dalla musicache le fioriva tra le dita per prestare ascolto al-le nostre voci, mi alzai per passeggiare sotto iportici, quindi trassi coraggio dall’aria frizzantee, protetto dalle colonne che stagliavano om-bre dai contorni nitidi sul pavimento del chio-stro, bussai alla porta della camera di Finn eFranziska, nell’angolo opposto a quello in cuisi trovavano gli altri.

Entrai. Il mio corpo era disteso sul letto, lespalle e il capo leggermente sollevati, in unodore di stantio e in una penombra da con-vento. “Come stai?” sussurrai; quando volse ilcapo verso di me mi avvicinai, scorgendo isuoi occhi cerchiati di rosso. Era la prima vol-ta che vedevo il mio corpo dalla commutazio-ne, la sera precedente: provai la classica verti-gine da sdoppiamento di identità.

Recuperai subito e gli sorrisi, sedendomisul letto accanto a lui. “Come sta il mio corpo?”domandai. Lui sbarrò gli occhi, quindi con unoscatto mi abbracciò nascondendomi il capo sulseno. “Cosa ho fatto, Finn...” singhiozzò, dan-domi conferma di essere effettivamente l’es-senza di Tersicore. “Io non volevo veramen-te...”

“Non so cosa sia accaduto,” scherzai per ti-rarla su di morale, “Volevo commutare con tuomarito ed eccomi nel tuo corpo.”

Rise ancora singhiozzando e si asciugò leguance, poi trattenemmo il fiato tenendoci lemani. “Non rivelarlo a nessuno, ti prego” misupplicò con la mia voce “Me ne starò quabuona fino al termine, e giuro che non pen-serò mai più che è meglio vivere da uomo.”

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quella di violare l’intimità altrui era una suapassione.

“Tante cose sono successe a quel tempo...”borbottai.

“Quale tempo?” domandò Franziska so-vrappensiero.

“La polizia politica,” spiegai con un gestovago della mano. “Tanti sono rimasti coinvolti.”

Annuí pensierosa “Comunque, questa diFranziska è una vera mania.”

Rimasi con lei oltre un’ora, quindi comin-ciai ad avere freddo sul serio; scesi, uscendoattraverso il corridoio della sacrestia e poi inchiesa; mi accertai che non fosse presente nes-suno, restando in silenzio per alcuni minuti, epassai davanti all’altare sputando nel bracieredell’incenso.

Salii la scaletta in legno del pulpito a bal-dacchino e vi sedetti, osservando con curiositàtutte le figure scolpite nel suo bordo interno.Udii aprirsi la porta della chiesa e trattenni ilfiato, acquattandomi curiosa oltre il bordo delpulpito. Due passi diversi avanzarono lungo lanavata centrale, quella che credevo interdetta achiunque; socchiusi lo sportello di legno e di-stinsi Liam e Valentina per mano, che si ap-partavano nell’ala del transetto opposta alla sa-crestia.

Mi sporsi badando a non far cigolare il le-gno e vidi Liam appoggiato contro la balaustradall’altarino; Valentina gli si avvinghiò, poi sisciolse e gli si inginocchiò davanti. A questopunto richiusi lo sportello e mi morsi le lab-bra per non ridere; solo quando vidi che era-no nel bel mezzo della marea dei sensi sgat-taiolai fuori dal pulpito in punta di piedi e tor-nai verso il chiostro.

Sembravano tutti scomparsi, forse come lu-certole si erano dileguati per cercare i posti piùsoleggiati. Intanto, mi rendevo conto che stavocominciando a prenderci gusto nel corpo diTersicore, se non altro per il modo in cui sta-vo vicino a Franziska (sebbene l’essenza nonfosse quella di mia moglie). Solo, la sua allu-sione al mio passato aveva suscitato un senti-mento indefinibile e risvegliato ricordi cheavrei preferito lasciare sopiti.

Mentre rimuginavo queste riflessioni, entraisovrappensiero nella mia stanza; Tristram, chedipingeva in piedi davanti al cavalletto, alzò gliocchi dalla tela e stava per dire qualcosa con ilsuo sorriso ebete, ma presi la mia roba, la ro-ba di Tersicore, e uscii sbattendo la porta,ignorandolo.

Mi corse dietro e nel refettorio mi fermòper un braccio. “Dove vai?” ringhiò aprendoappena le labbra ,“Non fare la stronza.”

Cercai di rispondergli con lo sguardo, manon mi lasciò andare; ero decisa tuttavia a nonfarmi cogliere impreparata come la notte pre-cedente.

In quel mentre giunse Valerio a interrom-perci, spalancando la porta che dava sul chio-stro. “Scusate,” disse sarcastico, “ho interrottouna riconciliazione coniugale.” Ma invece diandarsene si appostò ai fornelli.

Tristram mi tallonava; “Vieni di là,” mi sus-surrò in un orecchio, ma lo ignorai e Valerio lodistrasse parlando d’altro, intenzionalmente.Dopo qualche minuto, Tristram se ne tornò in-furiato in camera. Subito ne approfittai persgattaiolare via: non ci tenevo a restare solacon Valerio.

C’era qualcosa, nel suo comporta mento,che mi convinse che l’essenza di Tristram aves-se commutato in lui e il suo interesse per mefosse soprattutto morbosa gelosia per il corpodi sua moglie, o addirittura desiderio di posse-derlo attraverso i sensi di un altro uomo (vistianche i suoi problemi sessuali).

Tornai alla torre campanaria, chiamandoFranziska con le mani a coppa intorno allabocca. Quando scese, le chiesi se poteva ospi-tarmi nella sua stanza perché non volevo piùdormire con Tristram.

Ne fu entusiasta. La mia intenzione era so-prattutto di stare vicino a Finn, ma prima chepotessi intervenire in questo senso Franziskal’aveva già convinto a trasferirsi da Tristram.“Tanto” mi confidò ,con lui non avrei combi-nato niente.” Ridemmo insieme, ma provai unafitta di pena per l’essenza di Tersicore.

Consumammo la cena frugale preparata daValerio in momenti diversi: Finn mangiò in ca-mera, io e Franziska sedute sul muretto delportico con una coperta di lana sulle gambe,gli altri nel refettorio (ma qualcuno non man-giò neppure, credo). Mi divertii molto conFranziska, che inconsapevolmente mi stavaaiutando a far conoscenza con quel mio corpocosì alieno. Le confidai quanto avevo ricavatodalle mie riflessioni, che cioè Tristram fosse nelcorpo di Valerio, ma negò perché secondo leiera nel corpo di Finn. Questa era anche l’opi-nione degli altri, e giudicai opportuno non darloro alcun indizio. Tuttavia, il problema del-l’autore dell’omicidio di Hannibal mi rodevadentro; possibile che chi era commutato nel

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leggeva la sera precedente, una foto di Tersi-core nella piazza d’una città che non riconob-bi, e lessi:

Verrà la morte e avrà i tuoi occhiquesta morte che ci accompagnadal mattino alla sera,insonne sorda, come un vecchio rimorsoo un vizio assurdo. I tuoi occhisaranno una vana parola,un grido taciuto, un silenzio.Era Pavese, lo sapevo; più avanti lessi:Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.Sarà come smettere un vizio,come vedere nello specchioriemergere un viso morto,come ascoltare un labbro chiuso.

“Pensi ancora a ieri notte?” disse Franziskainterrompendomi senza volerlo, sedendosi sulmio letto.

Mi accorsi di essere rimasta in silenzio peralcuni minuti. Non sapendo cosa rispondere,mi strinsi nelle spalle e le sorrisi cordiale. “Nonè nulla, grazie” dissi “Sono solo distratta.”

Ridemmo insieme, abbracciandoci; il libromi cadde in terra chiudendosi. Senza darcitroppo caso, Franziska mi aveva appoggiato lamano sul ginocchio della gamba ripiegato sulletto; mi baciò affettuosamente su entrambe leguance, poi mi ritrovai senza accorgermenecon le labbra quasi a contatto delle sue. Fu unattimo, in cui capii la ricerca d’intimità, la con-fidenza che mi dava e prendeva, la facilità concui mi aveva accettata come compagna di stan-za; la striscia Volkhan pulsava piacevolmentedal limbo in cui mi sentivo avvolta. Il sanguebatteva all’interno degli orecchi, un ronzioovattato mi isolava il cervello dal mondo ester-no... E non riuscivo a staccare gli occhi dagliocchi di Franziska, non trovavo il coraggio diumettarmi le labbra, non riuscivo a tacitare lapalpitazione nel collo... e in quel momento laporta si spalancò e trasalimmo entrambe.Guardai solo con la coda dell’occhio e vidi Tri-stram sulla soglia, gelido e terribile. Vidi cheFranziska invece ricambiava il suo sguardo,benché si fosse imporporata immediatamente.“Cosa fai qui?” disse gelida.

Anche se Tristram si era preparato qualco-sa da dire, si confuse e balbettò, si irritò con sestesso, avanzò di qualche passo dandomi del-la puttana e ritirò precipitosamente sbattendola porta.

La striscia sul collo non mi mandava più al-cun messaggio.

“Ecco fatto” mormorò ancora Franziska“Ora l’atmosfera comincerà a scaldarsi.” E poi,venendomi più vicina ma senza toccarmi:“Scusami, Tersicore,” sussurrò, “mi sono lascia-ta prendere... il sangue nel collo...”

È meglio mettersi a dormire,” replicai al-zandomi per sbarrare la porta che era rimastasocchiusa per il colpo ricevuto; onde d’ariapungente fluttuavano nella camera.

Cospirazione

Uscii nel chiostro con la corta mantella fo-derata di Tersicore, le guance arrossate per ilcaldo, richiudendomi alle spalle la porta dellacamera da letto senza far rumore per non sve-gliare Franziska. Allora udii il suono d’organodella chiesa, e tenendomi chiuse con le manile falde della mantella attraversai il corridoiodella sacrestia. Di fronte all’altare vidi Valenti-na di spalle, le mani sospese sulla tastiera del-l’organo a canne. La musica circumnavigava lecolonne del la cattedrale, quasi tracciandonevisibilmente il perimetro.

La luce del mattino iniziava allora a insi-nuarsi dalle vetrate intorno al cornicione inter-no della cupola. Rientrai in sacrestia, cercai lascala a chiocciola e la percorsi, non senza uncerto affanno, al buio di sordidi muri macchia-ti di salnitro. Uscii sul ballatoio della cupola,protetto da una bassa balaustrata, e guardai disotto con precauzione perché Tersicore soffri-va di vertigini. L’organo era situato più in bas-so (non compresi da dove vi si accedesse), Va-lentina assorta suonava ondeggiando il capocon ostentazione, forse a occhi chiusi comeper il liuto nel chiostro.

Aggrappandomi saldamente con la schienacontro la parete, mi rilassai cercando di dedi-care un po’ di tempo a me stesso. Era quello ilmio secondo mattino al santuario e già misembrava di vivere nel corpo di Tersicore datempo. Mi stavo abituando ai suoi sottili mes-saggi: il profumo della pelle, il suono vibrantedelle ossa, la sensibilità delle mani, il ronzionegli orecchi, il sottofondo sempre presentedei suoi ricordi ai quali potevo attingere inqualsiasi momento. Lasciando che la sua me-moria venisse a galla, ad esempio, seppi chenon aveva mai commutato con Franziska, percui non potevo ottenere su mia moglie infor-mazioni dirette.

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stimolato la memoria di Tersicore, i suoi ricor-di mi aggredivano con la forza delle remini-scenze ritrovate. Era per la precisione il signi-ficato sociale della commutazione: il raggiun-gimento di una migliore conoscenza reciproca,il recupero dei ricordi collettivi che la duratastessa delle nostre vite prolungate seppelliscenegli angoli della mente. Ma, benché tentassidi ignorare quei ricordi personali, la loro im-mediatezza mi spingeva alla curiosità. Fu ilmomento più imbarazzante della mia espe-rienza nel corpo di una donna.

E ricordai.Tristram era in Indonesia per lavoro, io mi

ero presa una vacanza nella laguna dell’altoAdriatico, una piattaforma paludosa di recenteceduta dal mare; avevo affittato una cascinaper stare sola un certo tempo e fermare su car-ta le poesie che in quel tempo mi prendevanotanto, sentendomi ispirata da quella terra alconfine fra i regni d’acqua, d’aria e di terra. Eral’inizio della primavera, la stagione in cui l’er-ba delle lingue di terra e degli argini è fitta elavata dalla pioggia. Io avevo una scorta divassoi autoriscaldanti, ma né registrazioni néolovisione: era uno splendido isolamento dipasseggiate pomeridiane, di sere nella penom-bra della casa, su un’autentica sedia a dondo-lo; un periodo di maglioni di lana, pantaloni difustagno e foulard al collo, di vento nei capel-li e negli occhi e di versi buttati giù su un qua-derno o sulle prime pagine bianche d’un libro,al riparo di una duna di sabbia che sino a po-chi anni prima si era probabilmente trovatasotto il livello dell’acqua. Dopo un mese, ave-vo riempito metà quaderno di poesie scritte inbella calligrafia in stesura definitiva; dopo unmese, Hannibal scoprí il mio rifugio e giunsecon una hovermobile caricata d’una barca amotore a fondo piatto: mi disse di avere litiga-to con Franziska, mi giurò definitivamente, emi chiese di mettermi con lui senza pensare amio marito.

Sconvolse il mio eremitaggio impedendomidi terminare il quaderno, privandomi dell’inti-mità con la sua presenza nella mia camera daletto, distruggendo il piacere della solitudinecon il suo continuo chiacchierare. Avevo sem-pre visto Hannibal volentieri perché Tristramera spesso sbrigativo ed essenziale dove lui erapremuroso se non proprio pieno di riguardi:ma quando venne a infrangere il mio eremomi opposi con l’indifferenza. Se ne accorse ereagí con rabbia, accusandomi di essere cam-

biata, di essere egoista e fredda, di essere inprocinto di diventare frigida. Come reazione ase stesso, perse addirittura l’eccitazione a cau-sa dell’insicurezza; a letto prendeva a tremarediventando rosso, sudava e mi dava dell’indif-ferente, ma erano più le volte che mi voltavale spalle come sotto il peso della propria spinadorsale, i capelli incollati sulla nuca per il su-dore, che quelle che riusciva a starmi sopra.Dopo qualche giorno presi libri e quaderni eme ne andai; a casa scoprii sul tavolo del sog-giorno un biglietto aereo di andata e ritorno,già utilizzato da Tristram, per Venezia. Il miocascinale era solo a una quarantina di chilo-metri verso il mare, e sapevo che mio maritonon aveva fatto quel viaggio per lavoro: cheavesse seguito Hannibal?

Mi ero assopita senza accorgermi sul mu-retto del chiostro; fu un lieve rumore innatura-le a farmi riaprire gli occhi: a distanza di unpasso c’era Tristram che subito si ricomposedal suo fare minaccioso. Mi rimisi a sedered’impulso, cercando di svegliarmi del tutto conle orecchie che mi ronzavano e il sapore catti-vo del sonno sul palato. Abbozzai un sorriso,ma lui era estremamente serio. “Sei una putta-na” disse semplicemente, e io m’irrigidii.

“Vattene,” risposi, ma prese a girarmi intor-no grattandosi nervosamente le mani; allora miaccorsi che, appoggiato a una colonna del por-tico, c’era anche Valerio con le mani cacciatein tasca. “Te la spassi davvero nel corpo di Ter-sicore, eh?” insisté Tristram “Ora non ti restache scoparti il tuo stesso corpo.”

Avvampai di sdegno, sentendomi persino lelacrime agli occhi. Saltai giù dal muretto av-voltolando nervosamente la stuoia. “Sparite,tutti e due,” dissi senza comprendere realmen-te cosa intendessero: la verità era che Tristramaveva confidato a Valerio e agli altri di avermisorpresa nel letto di Franziska, tanto che pen-savano l’essenza nel corpo di Tersicore fosseLleida, sempre a causa delle sue note prefe-renze.

Senza più degnarli di uno sguardo ritornaiverso la camera di Franziska; non udii i loropassi dietro di me ma per orgoglio rifiutai divoltarmi a controllare. Quando però svoltail’angolo davanti alla porta della biblioteca, udiiuno schiocco secco rimbombare contro i mat-toni del portico e mi girai di scatto, incollerita,convinta di trovarmi di fronte il mio maritobiologico.

Invece rimasi impietrita, assolutamente in-

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perti da un pioppeto, un tempo proprietà diun’industria cartaria e ora in abbandono; ilsentiero di ghiaia dei monaci girava intorno almuro della cappelletta, attraversava un ponti-cello su una roggia asciutta che un tempo ave-va mosso le pale d’un mulino poco oltre, e infine conduceva attraverso pochi campi gelati alcimitero, a ridosso della basilica e limitato daun muretto di cinta in pietre e malta.

Sul ponte della roggia Franziska, che porta-va scarpe col tacco, incespicò e prese una stor-ta; si accasciò gemendo proprio mentre udiva-mo voci maschili dalla parte della chiesa. “Ter-sicore!” mi chiamò Franziska, e tornai da lei;Valentina l’aveva già raggiunta e la aiutava areggersi. Osservai la caviglia, la tastai coi pol-pastrelli; Franziska s’irrigidì per un attimo.

“Non è nulla” dissi.“Fermali” mi rispose “Valentina verrà con te.”Ripresi a correre, aiutata dalla luminosità

del cielo; Lleida era già fra le prime croci e sta-va gridando qualcosa. Corsi più forte che po-tevo senza sentire il freddo, con il respiro e ilpasso di Valentina appena dietro di me. Pen-savo a Finn, al mio corpo, braccato come unanimale, e mi maledicevo per non avere fattoqualcosa prima che accadesse l’irreparabile.Avevo pensato solo a divertirmi nel corpo diTersicore, a sfruttare quell’occasione che forsenon si sarebbe mai più presentata in vita mia...e avevo combinato un guaio davvero grosso.

Quasi investii Lleida e Liam sotto il murodella basilica; la cupola era un emisfero di ra-me ossidato sotto la luna. “Dov’è Finn?” escla-mai. Seguimmo Liam verso il muro di cinta, frale vecchie croci di cemento e ferro arrugginito,oltre le trappole distese dei gradini delle tom-be.

Vedemmo tre figure sul muretto di malta:Finn procedeva curvo, barcollando, vestito so-lo di una camicia esaltata dalla luna; altre duefigure lo seguivano contro il cobalto dell’oriz-zonte. Ci arrestammo a una recinzione copertadi ruggine, e tutti e quattro unimmo le nostrevoci per urlare insieme “Finn!”.

Ci udí, si fermò per volgersi... vide gli inse-guitori dietro di lui, barcollò, perse l’equilibrioe cadde dal muro.

Liam scavalcò la ringhiera di ferro ruggino-so che ci fermava, Lleida tentò di imitarlo mas’impigliò l’orlo della lunga gonna, perse l’e-quilibrio e cadde su un fianco con un sospiro.Aggirai di corsa l’ostacolo, vedendo il fiatocondensarsi nella notte. Liam correva avanti a

me, Valentina mi seguiva; udii la voce di Fran-ziska, più lontana, vidi Tristram e Valerio curvisul muro, là dove Finn era caduto, e compresiche era finito al di là. I due ci udirono arriva-re e balzarono giù dalla nostra parte.

“Dal mulino” disse Tristram con gli occhisbarrati, “passiamo dal mulino”.

Lo seguimmo senza fare domande; sentivoil cuore scoppiarmi in seno, Tersicore non eraabituata a prove fisiche prolungate. Giunsibuona ultima sull’orlo del lago prosciugato checorreva lungo il perimetro esterno del muretto,e che nel punto da cui Finn era caduto rag-giungeva la profondità di parecchi metri; Va-lentina era ferma sul ciglio della depressione,coperto di foglie secche e rami spezzati. Vede-vo i tre uomini sul fondo, fra gli arbusti. “Cosagli è successo?” gridai.

Ci raggiunse Lleida con la gonna a bran-delli, poi persino Franziska claudicante; la lucelunare era bianca e imparziale sui tronchi del-le betulle, sulle distese di foglie morte, sugliuomini curvi in fondo alla depressione. Mi pre-cipitai giù dalla china e quasi rovinai loro ad-dosso, tanto che mi graffiai le gambe e le gi-nocchia e dovettero frenare la mia corsa. Finn,il mio corpo, era in terra su un tratto di terranuda, il collo piegato a una angolazione inna-turale.

Era morto. Ero morto. Ero condannato a re-stare nel corpo di Tersicore per sempre.

* * *

Credettero di risolvere ogni cosa in modomolto semplice. L’essenza nel corpo di Valeriorivelò a noi tutti di essere Finn, e dichiarò chesi sarebbe adattato a vivere da allora in poi nelcorpo di Tristram. Solo io sapevo la verità; maio, terrorizzato, non dissi nulla: mi limitai a ri-pensare agli atroci errori commessi e al fattoche avrei dovuto subito inficiare la commuta-zione, appena accortomi di essere nel corpo diTersicore.

Valentina singhiozzò tutto il tempo in cuisedemmo nel refettorio per le spiegazioni; de-dussi che era l’essenza di mia moglie e chepiangeva per la perdita del mio corpo.

“Come avete potuto fare una cosa del ge-nere?” domandò secca Lleida. “Non era nostraintenzione, naturalmente” si schermí Tristramquasi spaurito. Io sentivo di odiarlo ancor piùdella prima sera in cui mi aveva presa con laforza. E stavo male, sentivo lo stomaco rivol-

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quello che io sapevo essere il reale:

Si scostava di poco da quello errato: perquesto era stato facile confondere le carte a chinon sapeva del gioco anomalo fra Tersicore eme. Ma Tristram, per forza di cose, DOVEVAsapere che nel mio corpo era racchiusa l’es-senza di Tersicore, perché per giungere all’ideadi eliminarlo, scaricando la propria colpa, do-veva sapere perfettamente che la vera essenzadi Finn non si sarebbe rivelata per smascherar-lo. Riflettei: Tristram era ora mio marito, avreb-be potuto controllarmi a modo suo. Mio mari-to era l’assassino di Hannibal e Tersicore, iol’unica testimone.

Valerio si voltò indietro, le braccia consertee il volto teso nel chiarore truce delle torce; Va-lentina mancò un tasto dell’organo e steccò vi-stosamente, ma continuò come se nulla fosseaccaduto. Franziska se ne accorse e mi lanciòuno sguardo significativo dal banco alla mia si-nistra dove era seduta.

Tornai a concentrarmi, ma un refolo di ven-to dal portone alle nostre spalle mosse la fiam-ma della torcia più vicina facendo scendere fi-no a me un odore pregnante e aromatico: lamemoria di Tersicore ricordò che era la qualitàdi resina preferita da Hannibal.

Un groppo mi chiuse la gola al pensiero dinon poter più rientrare nel mio corpo; mi sen-tii rossa in viso, quindi una nuova determina-zione mi sorprese a metà: dovevo scoprire l’as-sassino. In quel mentre un attacco andante diValentina, che io sapevo essere l’essenza dimia moglie Franziska con i riflessi delle ditadell’ospite, mi diede la carica.

Tristram era l’assassino di Tersicore, questo

mi pareva di poterlo affermare senza timore disbagliarmi: era l’unico a trovare vantaggio nel-l’affermare d’essere la mia essenza. Presumibil-mente, era pure l’assassino di Hannibal, per-ché questo secondo, efferato delitto aveva co-me movente la copertura del primo.

Tuttavia, c’erano troppi particolari forzati.Perché l’essenza di Liam nel suo corpo non siera accorta dei ricordi dell’omicida? Perché Tri-stram avrebbe dovuto essere interessato allamorte del marito di Franziska? Purtroppo lamia scarsa conoscenza del gruppo mi era d’im-paccio; cercai qualcosa in proposito nei ricor-di di Tersicore ma mi scontrai con un vuotonon meglio definito. C’era la forte gelosia dimio marito perché Hannibal era stato mioamante per lungo tempo e con una sfrontatez-za irritante, ma a questo proposito la mia me-moria acquisita era evasiva.

Hannibal era amante di Tersicore, Tristramdi Franziska... Il movente doveva essere celatoin questi intrecci, ma perché l’assassino era Tri-stram e non, al contrario, Hannibal? La solu-zione doveva trovarsi nel loro carattere. Il ma-rito di Franziska era geloso, irascibile, impulsi-vo, aggressivo, forse a causa della propria viri-lità inaffidabile; evidentemente Tristram si erasentito minacciato e aveva preferito liberarsi dilui nel modo più definitivo e atroce: togliendoil diritto alla vita a chi avrebbe potuto ancoragoderne per secoli.

Accavallando le gambe mi accorsi che sierano raffreddate e rabbrividii nel sentire ac-capponarsi la pelle; in quel momento Lleida sisedette accanto a me, io mi girai su un fiancoper non dar nell’occhio con i miei schemi.

Tristram aveva ben chiaro l’esatto flussodella commutazione: sapeva che era stata l’es-senza di Tersicore a scomparire nel corpo diFinn, sapeva che nel suo corpo c’ero io e chedunque mi avrebbe avuto in suo potere. Lacri-me di eccitazione mi inumidirono gli occhi:sentii di essere vicino a qualcosa d’importante.Dunque, io conoscevo il reale flusso: ma que-sto perché ne avevo fatto esperienza sulla miapelle, tanto è vero che prima di allora nonavrei mai sospettato che fosse possibile com-mutare fra sessi diversi, né uno scambio incro-ciato fra due persone. Come poteva dunquesospettarlo Tristram?

Le ultime note si dispersero nell’aria dellabasilica. Valentina rimase a ciondolare con ilcapo sulla tastiera familiare, volgendosi versola navata; vide che eravamo tutti in piedi ad at-

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bito dopo la commutazione, quando ognunoera nel proprio corpo: bensí quando tutti era-no collegati al circuito e Hannibal nel corpo diTristram era sgusciato fuori dal cubicolo, col-pendo a sangue freddo il proprio corpo; erastato per lui facilissimo in seguito affermare diessere il vero Tristram, cosí che non si facesseluce sull’istante esatto dell’omicidio.

Ma, come un drogato dopo la prima dose,non si accontentava e procurava il secondo, or-ribile delitto: la morte di Tersicore nel corpo diFinn, forse anche perché con il tempo avrebbescoperto la vera identità di suo marito.

Sentii di tremare. Il ruolo che mi ero scel-to si stava facendo rischioso perché comeobiettivo finale si pro poneva lo smaschera-mento di Hannibal.

Mentre il silenzio cullava il chiostro e cor-renti elettriche fluivano nel circuito di commu-tazione, provai a immaginarmi nell’atto di uc-cidere Hannibal. Avrei dovuto uscire nel chio-stro, come lui la volta precedente, e socchiu-dere la porta del suo cubicolo facendo atten-zione che non mi sentisse, entrare e colpirloalla testa con la lampada, come lui aveva fattocon... No, non avevo la tempra dell’assassino.Maledissi Tersicore per la sua debolezza e per-ché, malgrado possedesse il tempo e gli ele-menti per smascherare Hannibal, non avessefatto nulla: poi provai pena per lei, perché ave-va pagato con la vita portandosi via un pezzodi me.

Le spie sulla testiera del letto si spensero,slacciai gli elettrodi. In quel momento eranoancora tutti immersi nel sonno antitraumaticodella commutazione. Volendo, forse avrei fattoancora in tempo ad alzarmi e fare ciò che an-dava fatto; invece rimasi seduta a sentire il sa-pore delle lacrime in bocca.

Uscii nel chiostro, appoggiandomi all’om-bra di una colonna. Il primo a raggiungermi fuValerio, che si era cambiato d’abito, poi Lleidae tutti gli altri, Franziska per ultima. Cercai dinon guardare negli occhi Tristram.

Liam disse che aveva appetito e ci ritiram-mo tutti nel refettorio, ma un’atmosfera maca-bra ci manteneva a distanza l’uno dall’altro. Ri-masi in disparte a torturarmi le unghie.

No, non potevano esservi dubbi. Solo lapolizia non avrebbe creduto alla versione cheloro si erano accordati di fornire: ne era provala cronocamera difettosa che avevo sorpreso etutte le altre che si erano affacciate silenziosa-mente nel nostro tempo. Ma perché non cre-

derci? Non comprendevo cosa non quadrassenel mio ragionamento.

“Come ti senti?” mi domandò Lleida cur-vandosi verso di me; era la stessa persona chefino a pochi minuti prima mi si rivolgeva dalcorpo di Franziska come essenza: evidente-mente, dato che non poteva sapere chi ero,aveva conservato un fondo di tenerezza per ilmio corpo (questo pensiero mi fece piacere).E improvvisamente mi venne un’idea che cimisi pochi secondi a elaborare: era rischiosama forse ne valeva la pena.

“Lleida,” le dissi, “ora io uscirò e forse Tri-stram mi seguirà. Aspetta qualche minuto, poivieni anche tu.”

Mi lanciò uno sguardo interrogativo, perciòaggiunsi “Ti prego, è davvero importante.”

Mi scostai, attesi pochi minuti quindi mi al-zai, cercando con lo sguardo gli occhi di Tri-stram, che come avevo sperato (e temuto) mistava tenendo d’occhio. Stringendomi nellebraccia, uscii lentamente dal refettorio mentregli altri continuavano a parlare.

Uscire nel chiostro fu come ritornare alla vi-ta; sentii la determinazione affluirmi come l’a-ria attraverso i polmoni, e rintoccando i passidelle mie scarpe sotto la volta concava del por-tico, lo attraversai fino alla porta della bibliote-ca, dove vidi con la coda dell’occhio che qual-cuno usciva dal refettorio. Vidi anche, con lastessa occhiata, che una cronocamera si mate-rializzava per un secondo contro il chiarore dicalce di una colonna. Dunque, mi dissi salen-do i primi gradini della scala nella sacrestia, lapolizia non avrebbe badato a spese per distri-care il nostro caso: sorprendere due cronoca-mere non poteva essere una coincidenza, ameno che ce ne fossero davvero parecchie ingiro. Giudicai allora che poteva rivelarsi unvantaggio per me in considerazione di quantostavo per fare.

Uscii sulla balaustra interna alla cupola del-la basilica, ancora più su dell’organo a canne,dove le vetrate dipinte si illuminavano fino dalgiorno della posa. Da lassù dominavo tutte lenavata e parte del transetto, l’altare, il pulpitoligneo dal quale avevo scorto Liam e Valenti-na in atteggiamento intimo; camminai lungo lostretto passaggio protetto da una ringhiera chemi arrivava alla vita, mantenendomi contro ilmuro per la vertigine, per portarmi in un pun-to visibile da chiunque entrasse provenientedal corridoio della sacrestia, da sotto. AlloraTristram, come avevo previsto, sperato e te-

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mere della polizia.”Non cancellò il suo sorriso beffardo; natu-

ralmente non mi credeva. “È inutile gridare,penserebbero comunque che è stato quandohai perso l’equilibrio.”

Allora volle prendersi l’ultima soddisfazio-ne. Premendo contro di me con il suo peso etrattenendomi al tempo stesso con la manodietro la schiena, sulle manette, gli sarebberobastati pochi movimenti per farmi precipitaredi sotto: volle gustare invece quell’ultimo mi-nuto e con la mano libera mi tirò giù la blusasulla spalla, dalla parte della striscia Volkhan,fino a scoprirmi un seno. “Hai goduto, nel cor-po di mia moglie?” sussurrò baciandomi la ba-se del collo là dove mio malgrado il sangue co-minciava a pulsare obbedendo a stimoli chimi-ci piuttosto che alla paura. “Liam nel mio cor-po mi ha raccontato certe cose...” Risalì con lasua bocca verso la mia, e prima di sigillarmelaforse per impedirmi di urlare all’ultimo mo-mento, sussurrò un tremendo “Addio, Tersico-re” e già muoveva la mano sulle manette peraprirle e lasciarmi cadere quando si irrigidí fis-sando un punto alle mie spalle.

Lleida! mi ritrovai a sperare con tutte le mieforze. Tristram si scostò da me, mi voltai e vi-di a pochi metri da noi, sospesa sotto la cupo-la, una cronocamera, inappellabile nella suafissità; poi una seconda apparve accanto allaprima ritraendoci in quella posizione compro-mettente per Tristram. La sua presa si allentò,tornai a respirare e mi inginocchiai sullo stret-to cornicione, le gambe davvero malferme perla paura e la bocca dello stomaco strozzatadalla vertigine. Non mi aveva liberato le mani,per cui mi misi a sedere in terra osservandolopreoccupata. Si era appoggiato con le palmealla ringhiera e fissava senza espressione lecronocamere, poi abbassò lo sguardo e se-guendolo vidi Lleida e Liam accanto all’altare,con il naso all’insù e un’espressione incredula.“Sono salva!” pensai, cercando ancora inutil-mente di liberare le mani.

“È cosí,” borbottò Tristram.Era cosí. Era quello il motivo per cui la po-

lizia aveva inviato tante cronocamere, c’era dafar luce su una triplice morte: Tristram nel cor-po di Hannibal, Tersicore nel mio corpo eHannibal nel corpo di Tristram. Perché così sa-rebbe finita, lo sentivo.

Tristram oscillò avanti e indietro con il tor-so, lo sguardo incollato all’altare e terreo involto, quindi si sporse del tutto e aprendo le

braccia come in croce si lasciò cadere; lo vidiprecipitare per un tempo che mi parve eterno,la giacca che sciabordava senza un suono.

E mentre volava come un uccello fucilato,malgrado tutto ciò che aveva fatto a mia mo-glie e alla compagnia e stava facendo a mestessa, provai pietà per lui: perché non era giu-sto che la sua vita terminasse con quella sen-tenza inappellabile quando se avesse scontatola sua pena gli sarebbe tanto rimasto ancora davivere, dopo. Ma soprattutto perché sentenzecome quelle ne avevo pronunciate più di unaa quel tempo in cui si pretendeva di definire lamoralità con il dogmatismo.

Sbatté con un tonfo sordo sul pavimento fral’altare e la pala, sotto gli occhi esterrefatti diLleida e suo marito.

* * *

Il sole era allo zenit quando la polizia ci la-sciò liberi di andarcene dal santuario. Valerio,Lleida e Liam mi accompagnarono all’hover-mobile di Franziska, caricandovi tutti i bagagli;legalmente, nessuno pensava che io e lei po-tessimo considerarci marito e moglie, tuttaviaquando ci ritrovammo soli nella sua mobile unsilenzio di imbarazzo calò fra noi.

“Dove vuoi che ti porti?” domandò cercan-do di sorridermi.

Io mi strinsi nelle spalle. “A casa mia,” ri-sposi, “a casa di Tersicore; legalmente...”

“Dunque tu davvero...” accennò senza riu-scire a terminare la frase, forse per timore diferirmi o di ferire se stessa.

Annuii in risposta. Sí, ero davvero l’essenzadi Finn come avevo detto alla polizia e comeavrei dovuto di mostrare al magistrato, in se-guito, perché i filmati delle cronocamere nonne erano in grado.

“È incredibile,” commentò assorta mettendoin moto. Senza scambiarci una parola, percor-remmo a ritroso la stessa strada che tre sereprima avevamo seguito insieme attraverso ilparco del santuario. L’interno dell’hovermobileera buio, cosí non potevamo vedere bene l’u-na l’espressione dell’altra.

Quella era la fine della mia vita come l’a-vevo conosciuta sino al momento. La leggeavrebbe deciso quale identità avrei assunto,ma era chiaro che non avrei potuto continuarela mia esistenza sui consueti binari. Ero, evi-dentemente, una donna, senza alcuna inten-zione di cambiare sesso chirurgicamente.

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MI TROVAI INIETTATO NEL CONTROLLO dello srjénije troppo brusca-mente L’elicottero oscillò, inclinandosi pericolosamente verso unrilievo del terreno raschiato dagli alberi a pettine di un bosco ce-duo. Recuperai, stabilizzando l’inclinazione ed evitando di gua-dagnare altitudine: era fondamentale avanzare alla massima velo-cità senza dare possibilità alle mine-aria di individuare nello spet-tro infrarosso delle turbine.

Passai velocemente in sequenza sul visore i vari punti di vista:babordo, tribordo, telescopico di prua; i compagni dello stormomi seguivano e affiancavano alla massima velocità, quasi rasoter-ra sulla tundra gelata.

“Aquila rossa chiama” scandii nel microfono.“Qui Larice” rispose una voce neutra, ma l’icona di Nadja ap-

parve nel mio campo visivo, sovrapponendosi agli istogrammidell’altitudine.

“Conversione a 45 gradi” ordinai cercando di abbassarmi an-cora di qualche metro. “Massima prudenza.”

La terra gelata correva a velocità impressionante sotto il ven-tre dello srjénije; volendo avrei potuto ascoltare il grido di dolo-re dell’aria scaraventata dalle pale dell’elicottero sul ghiaccio, masapevo che mi avrebbe inutilmente impressionato. Selezionai Ra-chmaninov per caricarmi di adrenalina.

“L’attacco diversivo ha avuto inizio” comunicò Nadja, chemanteneva direttamente i contatti dello stormo con Stavka “ti pas-so l’obbiettivo.”

Un rettangolo si allargò nel mio campo visuale; sfiorandolocon un dito guantato lo allargai a mezzo campo: mostrava la sfe-

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Con gli occhi di LavrentijSecondo classificato Premio Italia 1995

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fuori in quel preciso momento avrei sofferto iltrauma dell’abbattimento dell’elicottero.

Un improvviso abbassamento della luce te-stimoniò un calo della tensione elettrica. Sullaporta della mensa affollatissima incontrai Iván,il fidanzato di mia sorella. “Sembri sconvolto”disse colpito. “E’ andata male?”

Controllai con la coda dell’occhio il cyborgarmato di guardia alla porta blindata proprio difronte alla mensa.

“Sessantacinque per cento” risposi infastidi-to dalla presenza di Iván, additandogli un ta-volino “non è ancora finita: Nadja è dentro.”

“Stai tremando” mi rispose impadronendosidella tastiera. “Cosa prendi?”

“Qualcosa di caldo, per favore. A voi è an-data bene?”

Iván salutò qualcuno che conosceva. Gen-te continuava a circolare intorno a noi, nellamensa c’era una ressa indescrivibile di telepi-loti in divisa mentre i turni di pranzo si acca-vallavano. Un grosso schermo murale a cristal-li liquidi proiettava immagini dai vari fronti.

“Oggi sono stato a Marianneburg” risposeIván premendo i tasti delle ordinazioni “mezzicorazzati; dovresti provarli, qualche volta: nonspecializzarti sugli elicotteri, c’è tanto lavoro dafare...”

“Come è andata?” insistei infilando la gom-ma esaurita nel tubo pneumatico sul tavolino.

“Le croci nere sono inchiodate alla perife-ria” rispose concentrandosi sullo schermo “maabbiamo dovuto impegnarli con tre divisionicorazzate. Marianneburg è un cimitero, noncredo ci sia più un edificio intatto.”

Sentii una fitta all’addome: Marianneburgera la città in cui era nata mia madre. E si tro-vava a solo 50 chilometri da noi.

SIGNIFICATIVI SUCCESSI DELLA 33ª AR-MATA TELECOMANDATA NELL’IMPEDIREL’ACCERCHIAMENTO DELLA CAPITALEproclamava lo schermo. Ma ormai tutti sa-

pevamo che solo una ferrovia quotidianamen-te bombardata dai Panthergruppen e due stra-de dividevano la capitale, noialtri e Stavka dal-l’assedio su tutti i lati.

Iván si curvò sul tavolo verso di me. “Tuche sei così vicino a zio Lavrentij” disse abbas-sando la voce “cosa dice a proposito di PapaFëdor?”

Sospirai. Mi aspettavo quella domanda. Inqualsiasi luogo andassi, chiunque incontrassi,qualunque cosa stessi facendo c’era sempre ecomunque qualcuno che mi domandava di zio

Lavrentij.“Non so, non ne parliamo mai” risposi af-

frettatamente. Il fatto che zio Lavrentij fossedavvero mio zio, fratello di mio padre adotti-vo, faceva di me una sorta di tramite con ilcuore pulsante del Partito. Una sola parola dizio Lavrentij poteva incarcerare senza proces-so, promuovere telepiloti al rango di capostor-mo, trasferire intere divisioni dalle retrovie alfronte; ma soprattutto, portava con sé la paro-la di Papa Fëdor, cuore e cervello della nazio-ne.

“Ecco che arriva Nadja” dissi finalmente ri-lassandomi. Mia sorella ci scorse da sopra lacoda all’ingresso. Sedette al nostro tavolo pro-prio mentre arrivavano le ordinazioni.

“Negativo?” domandai.“Ottanta per cento di perdite” sospirò “le

pantere volanti ci hanno fatto a pezzi.”“E tu?” domandò Iván affettando con il filo

di nylon la sua razione di aspic.“Ne sono uscita per un pelo: lo srjénije è

stato colpito da almeno tre proiettili da 8. Inquesto momento il pilota automatico lo sta ri-portando alla base.”

Chiusi gli occhi. Ancora una volta io erostato abbattuto mentre Nadja era riuscita a por-tare fuori intatto il suo elicottero.

Prima che mia sorella potesse ordinare unragazzo si sedette al nostro tavolo. Iván alzòun dito per toccarsi le labbra in segno di si-lenzio. “Esaurimento nervoso” disse a dentistretti per non farsi sentire dal nuovo arrivato,che cominciò a pigiare con un dito tutti i tastidella console. “Guidava un jet nella terza bat-taglia di Novigrad: Stavka non è riuscito a ti-rarlo fuori in tempo quando è stato abbattuto.”

Nadja si schiarì la gola come per rimprove-rarlo. “Mai sentito che Stavka non abbia tiratofuori qualcuno in tempo.” disse.

E invece capitava, lo sapevo: quando il si-stema automatico era costretto a processaretroppe informazioni contemporaneamente, po-teva accadere che accumulasse un ritardo fata-le. “Stavka controlla uno per uno tutti i mezzidi 16 divisioni corazzate” risposi voltandomiverso di lei perché mi sentivo in imbarazzo aguardare il malato, “gli elicotteri di 89 stormi e3.500 aerei.”

“Lo so, lo so” tagliò corto Nadja, “e i cyborgdi tutte le 40 divisioni di fanteria intorno allacapitale, e le comunicazioni fra tutte le armatedei fronti settentrionali e meridionali.”

Finalmente Iván riuscì a impadronirsi della

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ria aperta, ma l’aria era invasa da un nevischioleggero e minaccioso. “Il cambiamento è laforza motrice di qualsiasi civiltà” disse Nadja“sarebbe grave il contrario.”

Camminammo sotto una pensilina screpo-lata verso l’ingresso della metropolitana. Ilcambiamento è il motore della Storia, mi dissipensando al Partito.

“Fra 70 minuti dobbiamo essere in collega-mento” disse Nadja risvegliandomi.

“E’ meglio usare terminali diversi” risposidistratto “non vorrei che potessero rintracciar-ci.”

Salimmo sul primo treno diretto a nord.“Credi che... terrebbero in conto che siamo inipoti di zio Lavrentij?” mi domandò sottovoceNadja nel vagone affollato.

Sapevo cosa intendeva dire. Nel caso che ciarrestassero...

“Non so” risposi “come è possibile avereancora certezze?”

All’arrivo trovammo un nostro compagnodi università in cima alla scala mobile, sotto lestalattiti di marmo della stazione. Nadja ed ioavevamo dovuto interrompere gli studi a cau-sa della guerra, ma contavamo di riprenderequando tutto avesse avuto termine, con la vit-toria. La vittoria...

“Cambio di programma” disse il ragazzo,che non conoscevamo di nome. “Pericolo peril collegamento in rete. Preferibile trovarci di-rettamente in sede temporanea, con collega-mento locale.”

Se ne andò nella folla dopo averci dato unmicrochip che conteneva l’ubicazione della se-de temporanea di Soyuz Druzijei.

“Non abbiamo molto tempo” disse Nadjaosservando il passaggio di uno stormo di jetdiretti verso il fonte. Non capii se si riferisse al-la guerra o alla riunione segreta.

* * *

“Felice di vedervi” disse cordiale il nostrouomo. Ero felice anch`io, mi piaceva incon-trarlo, e non solo perché era il nostro collega-mento con Soyuz Druzijei: quell’uomo ispiravacalore, comprensione, affabilità, tutte cose invia di scomparsa nella capitale assediata.

Seguendo le indicazioni contenute nel mi-crochip, ci eravamo trovati in un magazzino dimateriale informatico isolato nella zona indu-striale a nord del fiume. Una serie di collega-menti provvisori ospitava i caschi HMD per un

centinaio di persone, divisi da separé di poli-stirolo in modo da riconoscere meno gentepossibile.

“Mi rincresce di avervi scomodati a venirequi” disse l’uomo mentre ci sdraiavamo sui let-tini a sospensione indossando i caschi “la sor-veglianza sulla rete si è fatta più stretta, e le in-filtrazioni nel nostro sistema troppo efficaci.”

Ci trovammo proiettati nel mondo virtualedi Soyuz Druzijej, il cui logo era identico aquello di Papa Fëdor: ma dove la stella del Par-tito era di un rosso fiammante, quella dellaclandestinità era solo la congiunzione di diecitratti che delimitavano il vuoto. Mi domandaiuna volta di più se contenesse una sorta disimbolismo.

“Breve aggiornamento sulla situazione in-terna” disse la Guida, il personaggio di sintesiche incontravamo ad ogni discesa nel mondovirtuale clandestino. A gruppi si collegaronoanche tutti gli altri utenti, e ci ritrovammo tuttiin quello spazio condiviso: una specie di tea-tro con scalinate di sedili, mentre la Guida erain piedi in fondo all’anfiteatro. Tenevo permano Nadja, così non rischiammo di perdercipoiché nella proiezione tutti gli utenti avevanolo stesso aspetto anonimo.

“La morsa delle croci nere si sta chiudendointorno alla capitale” esordì drammaticamentela Guida, materializzando con un gesto unamappa del fronte al di sopra delle nostre teste.“7 corpi d’armata corazzati Reiters stanno con-vergendo da nord e da sud per tagliarci fuoridal resto della nazione, e l’esercito non riescea rallentarne l’avanzata. Marianneburg, investi-ta 16 giorni fa dai Panthergruppen, è attual-mente parzialmente occupata da una divisionedi fanteria Reiter.”

Sentii il fremito di Nadja nella mia mano.Marianneburg, estate di otto anni fa. L’acquadel lago, la barca a motore di papà, nostra so-rella Lena che lancia aerei telecomandati sulleonde basse.

“L’intera potenza della macchina bellicaReiter si è concentrata nell’assedio” continuò laGuida “mentre le operazioni sui fronti setten-trionale e meridionale ristagnano. Le croci ne-re stanno tentando di mandare Stavka in over-dose di dati, sapendo che questo comporte-rebbe l’annullamento nella coordinazione del-la difesa.”

Rabbrividii. Stavka fuori uso? La capitalecadrebbe. La capitale? Papa Fëdor morto, ilfronte spezzato. Nulla più fermerebbe i Reiters

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colore; potemmo camminare intorno ai corpiscomposti di ragazze dai capelli biondi, il visocome grattato sull’asfalto in un mosaico di ci-catrici. Tutti gli edifici erano sventrati, tutti gliautomezzi distrutti, tutti gli abitanti sterminati.

Sentivo fortissima l’impressione della manodi Nadja nella mia, causata dalla retroazione diforza nei guanti sensoriali che indossavamo,sdraiati sui lettini nella sede temporanea diSoyuz Druzijej.

Camminammo fra muri verniciati di sangueumano fino all’altezza di due metri, nelle piaz-ze dove un uragano di fuoco generatosi spon-taneamente per la gran quantità di bombesganciate sulla città aveva marchiato per sem-pre Oranienbaum, distruggendo alla tempera-tura di mille gradi centigradi interi quartieri.Dovunque camminassimo, vedevamo solo ci-vili massacrati.

Ma ciò che più mi impressionò fu l’espres-sione dei bambini. Avevano una pelle grigiacome di muffa, una crosta come di dolce glas-sato colore della morte che in un primo tempocredetti fosse dovuta alla risoluzione dell’ob-biettivo del satellite, così distante da terra; mami accorsi con ribrezzo che sembrava unanuova forma di vita cresciuta sulle guance esulle manine, come una micosi mutante chemangiava il calcio delle unghie e dei denti,escrescenze di pus ghiacciato che deformava-no le espressioni dei visi dei piccoli in una ma-schera uniforme di morte. Mi parve incredibileanche solo il dubbio che quei bambini fosserostati esseri viventi.

Solo quel giorno, nella raccapricciante di-scesa virtuale nel mondo di Soyuz Druzijejcomprendemmo realmente cosa fosse la guer-ra. Non la proiezione negli elicotteri sulla tun-dra gelata, non l’asettico bilancio delle perditeredatto da Stavka (65% degli obbiettivi rag-giunti, 80% perdite subite, missione terminata).Malgrado l’orrore del pellegrinaggio attraversoquella devastazione a meno di cento chilome-tri dalla capitale, Nadja ed io fummo gli ultimia uscire dalla simulazione.

Ritrovare l’uomo di Soyuz Druzijej fu comeincontrare un amico. “Come state?” domandòcomprensivo, porgendoci un tè liofilizzato.

Uscimmo all’aperto nella notte di nebbia.Mancava meno di un’ora al coprifuoco, quan-do i Panthergruppen avrebbero ripreso a sor-volare la capitale per fare da bersaglio allacontraerea; il pensiero che da un momento al-l’altro i Reiters avrebbero potuto rovesciare su

di noi dal cielo un uragano di fuoco mi con-gelava la voglia di tornare a dormire.

“Cosa facciamo?” domandò Nadja.Le strinsi la mano più forte che potei, come

lei aveva fatto prima nella simulazione. “Nonlo so,” risposi, “sembra tutto così confuso.”

Stavamo camminando verso la metropolita-na. “Forse avremmo fatto meglio a non venire,stasera” disse Nadja.

Scossi il capo. “E’ inutile nascondere il ca-po sotto terra” risposi “bisognerebbe riuscire avedere le cose da una sola angolazione; di quail Partito, di là Soyuz Druzijej: meglio sarebbeinvece un solo punto di vista, vedere magariogni cosa con gli occhi di zio Lavrentij.”

“Dove stiamo andando?” sospirò mia sorella.“Torniamo a casa” risposi facendomi forza

per darle coraggio “zio Lavrentij ci ha promes-so un giorno di licenza. Penso che faremmobene ad approfittarne.”

Ma in quel momento il pensiero di zio La-vrentij, come di qualunque altra cosa che aves-se a vedere con la guerra, mi dava una profon-da nausea.

* * *

Marianneburg ferita sanguinosa nel cuoredella nazione, valvola mitralica assassinata dal-la metastasi. Cielo ruggine, come se milioni ditonnellate di argilla fossero state scaraventatenell’atmosfera dai bombardamenti dell’artiglie-ria. Mi sentivo impacciato, costretto a correre apasso leggero sul terreno sconnesso, ondulatodi macerie frantumate dalle bombe.

L’impressione nel robot telecomandato eramolto più realistica che in un elicottero srjé-nije: voltando il capo da un lato e dall’altro ve-devo una formazione di automi sparpagliatafra le macerie. Avanzavamo tutti verso un iso-lato di edifici neri, bruciati fino ai mattoni dalfuoco dell’aviazione Reiter. Il punto di vista sispostava appena giravo il capo, ma dovevo fa-re attenzione perché malgrado Stavka control-lasse l’andatura del telerobot attraverso il siste-ma visivo, stava a me condurre la marcia perridurre al minimo l’intervento esterno.

Nadja procedeva piegata in due alla mia si-nistra. Il mio telerobot doveva assomigliare alsuo: un androide massiccio di ferro nero, congiunture snodate e molto sciolto nei movimen-ti, con una corazza antiproiettile e un ingom-brante fucile automatico fra le braccia, cosìmassiccio che nessun essere umano ne avreb-

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* * *

Faceva freddo. Scesi in scala mobile sottol’alta cupola marmorea della stazione della me-tropolitana, sedendo in disparte su una dellelunghe file di sedili nell’area commerciale. Fin-gendo indifferenza abbassai sugli occhi gli oc-chiali seethrough, osservando svogliatamenteun notiziario o l’altro mentre con il pollice fa-cevo ruotare la sintonia. La folla nel metro ave-va volti ammuffiti dall’assedio, espressioni datopi in gabbia: molti camminavano con unaborsa in mano in modo da poter acquistarequalche genere alimentare appena comparsonelle vetrine dei negozi. Compresi quanto fos-si privilegiato a fare parte dell’élite dei com-battenti. Per la prima volta dall’inizio dell’asse-dio notai come vi fossero pochissimi bambiniin città, quasi che tutti i genitori avessero cer-cato di ripararli presso i parenti nelle retrovie.

Il mio beeper cominciò a squillare. Misi viagli occhiali, guardandomi intorno: Nadja stavaarrivando. Iván era con lei.

Missi un passo d’impulso per allontanarmiprima che potesse scorgermi, ma mi chiamò; laaspettai. Mi raggiunse prima di Iván.

“Che ci fa lui qui?” le domandai a dentistretti senza salutarlo.

“Viene con noi.”“Vuoi scherzare? Sai cosa rischiamo, Nadja?

Hai solo una lontana idea di quello che ri-schiamo noi? Non lo voglio.”

Mia sorella fece segno a Iván di attendere.“Lo voglio io, invece. Tu non c’entri.”

“Non c’entro, eh?” dissi sentendomi arrossi-re “Hai capito cosa stai facendo? Stai mettendoin pericolo tutti quanti, non solo te stessa ome.”

“Basta, ora!” rispose Nadja, irritata “mi staioffendendo, Volja!”

Era troppo tardi. Il nostro contatto conSoyuz Druzijej stava arrivando dalla direzionedei treni. Mi svincolai da Nadja per andargli in-contro, ma lui aveva un’espressione indecifra-bile.

“Tira dritto senza fermarti” sussurrò quandoci incrociammo.

Mi sentii gelare. Ubbidii, girandomi a cer-care mia sorella e il suo fidanzato solo quandoraggiunsi la gigantografia nanomec di Papa Fë-dor sulla parete opposta. Feci un ampio giro,quindi li raggiunsi.

“Cosa succede?” domandò Nadja.

Le feci cenno di andarcene, ignorandoIván. Prendemmo tutti e tre la scala mobile, maaveva cominciato a nevicare. “Verso l’univer-sità” dissi, temendo di guardarmi alle spalle. Ilnostro contatto era scomparso e non si vedevanessun tipo sospetto, ma la folla era enorme.

A passo veloce passammo sotto la stellafloreale, sempre rigogliosa anche sotto il mal-tempo.

“Hanno preso qualcuno?” domandò Ivánquando raggiungemmo i portici deserti.

Mi arrestai per fronteggiarlo. “Ma cosa vuoida noi? Cosa vuoi?” gli gridai sul muso.

Nadja aprì la bocca per protestare, ma laspinsi via.

“Calmati, Volja” disse Iván.“Calmati un cazzo!” esclamai spintonandolo

“ma chi ti vuole qui, stasera?”In quel momento cominciò a suonare l’al-

larme aereo. I nostri beeper presero a squilla-re furiosamente.

“Vladimir, ora basta!” mi implorò Nadja.Iván si voltò per andarsene. Sentii montare unafuria sanguigna; con un balzo gli saltai sullespalle, facendolo barcollare. “Devi stare allalarga da mia sorella, hai capito?” strillai.

Si piegò in due. Le grida di Nadja copriro-no l’allarme; gente che passava in fondo allapiazza si voltò a guardare.

Iván si rialzò. “Calmati Vladimir, sei altera-to” mi disse a denti stretti.

“Alterato?” ripetei strillando, afferrandoloper il bavero “alterato? Ma guardati allo spec-chio, stronzo!”

Mi colpì con un pugno dritto sui denti. Unattimo prima stringevo fra le dita il colletto del-la sua giacca, un attimo dopo mi trovai cata-pultato all’indietro.

L’allarme sfumò. Alzai la faccia dalla neve,vedendo i piedi di Iván. Avevo la bocca pienadi sangue che gocciolava.

“Tornate a casa!” gridò una voce dalla piaz-za “Non avete sentito l’allarme?”

Frugai nella neve con le mani. Sentivo lanuca a pezzi. “Il mio cappello” dissi debol-mente.

Nadja mi si inginocchiò accanto; vidi i suoiginocchi nelle calze di nylon e gli anelli di no-stra madre alle dita. “Stronzo” mi disse sotto-voce, calcandomi il berretto sugli occhi.

Cercai di allontanarla, ma mi rimise in pie-di. “L’allarme” dissi “Torniamo al pensionato”.

Nadja disse qualcosa a Iván, che se neandò. Continuammo a passo lento fino alla se-

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successo nella stazione del metrò non era an-cora passata: al ritorno al pensionato universi-tario dove Nadja ed io dividevamo una stanza,avevamo trovato ad attenderci due cyborg inborghese che ci avevano condotto nel quartie-re generale di zio Lavrentij.

Temevamo che sospettasse qualcosa deinostri contatti con Soyuz Druzijej, ma fino aquel momento non ci aveva rivelato nulla. Ap-pena posati i visori, zio Lavrentij trasse un re-spiro profondissimo. Eravamo soli, noi tre,perché i cyborg erano usciti subito.

“E questo cos’è?” domandai accennando auna seconda registrazione che aveva preso ilposto della prima.

Zio Lavrentij sospirò, come se l’avessi di-stratto da qualcosa di più importante. “Una re-gistrazione della città di Oranienbaum dopo lacaduta nelle mani dell’esercito Reiter” rispose.

Nadja ed io ci scambiammo un’occhiata.“Possiamo... possiamo vedere?” domandai.

Zio Lavrentij mi frugò con gli occhi per lun-ghissimi secondi. Mi sono compromesso da so-lo, pensai, probabilmente sa che anche SoyuzDruzijej ha prodotto delle registrazioni via sa-tellite di Oranienbaum.

Con un cenno, zio Lavrentij ci invitò invecea prenderne visione. Tornammo a infilare i vi-sori leggeri. Fu Nadja a guidare la nostra di-scesa nell’interattivo: navigammo nella ricrea-zione tridimensionale, passando in rassegnauna città decisamente diversa da quella vista lavolta precedente: pochissimi morti, nessun se-gno di devastazione da bombardamento aereo.Resti di furiosi combattimenti casa per casa,mezzi militari distrutti, fumi di incendi, ma nul-la di paragonabile all’apocalisse che ci avevamostrato Soyuz Druzijej: Oranienbaum sem-brava una delle tante città caduta nelle manidei Reiters dopo una lunga battaglia.

“Voglio mostrarvi un’altra cosa” disse zio La-vrentij massaggiandosi la radice del naso nonappena uscimmo dalla ricreazione. Si alzò fa-cendoci cenno di seguirlo fuori dal suo ufficio.

Venti metri più in là oltrepassammo unaporta blindata, guardata a vista da un cyborg.Zio Lavrentij ci introdusse in una parte di sot-terraneo dove non avevamo mai messo piede:pareti insonorizzate, pavimenti di antistatico,silenzio vibrante, niente militari ma solo tecni-ci, luci soffici.

“Dove siamo?” domandò distrattamenteNadja sbirciando attraverso le porte a scorri-mento che si aprivano e chiudevano al pas-

saggio dei tecnici in tuta.“Siamo dentro Stavka” rispose laconica-

mente zio Lavrentij.Nadja ed io ci bloccammo immediatamen-

te. “Dentro Stavka?”Zio Lavrentij si voltò divertito. “Esatto. Do-

ve pensavate che fosse, sulla luna?”Ci eravamo spesso posti la questione: dove

era ubicato fisicamente Stavka? Non avremmopotuto immaginare che si trovasse proprio al-l’interno del Ministero della Difesa, a venti me-tri dall’ufficio di zio Lavrentij, dove ci recava-mo almeno una volta ogni dieci giorni. Era as-surdo, Incredibile: ci trovavamo nel cervellodella difesa nazionale, e zio Lavrentij si muo-veva con una naturalezza sconcertante.

“Cosa pensi che sappia?” mi domandò al-l’orecchio Nadja, mentre seguivano nostro ziodue passi più indietro.

“A proposito di Soyuz Druzijej e noialtri?”dissi “credo niente. Quella registrazione si tro-vava nel suo ufficio per caso.”

“Ma era completamente diverso da quelloche credevamo” continuò Nadja sottovoce “icasi sono due: o mente zio Lavrentij, o menteSoyuz Druzijej.”

Dopo alcune svolte in corridoi insonorizza-ti, rinfrescati dall’aria condizionata, dietroun’altra porta blindata ci trovammo a due pas-si dalla mensa.

“Devo salutarvi” disse zio Lavrentij tenen-doci la mano “sono molto occupato al mo-mento, purtroppo. Ma ho avuto piacere di mo-strarvi questa parte dell’edificio del Ministero:volevo che sapeste quanto l’esistenza di Stavkae le nostre vite sono intimamente intrecciate.”

Così dicendo scomparve oltre la portamentre il cyborg che stazionava fuori si riportòimpassibile di guardia, lasciandoci sbigottiti difronte all’ingresso del cervello della difesa na-zionale, proprio di fronte all’entrata dellamensa.

* * *

Nel cuore moribondo della Bestia, di nuo-vo. Fiamme consumavano i resti calcinati degliedifici: fiamme basse, pallide, senza carattere;ossidazione di migliaia di vite trascorse nellecase e nelle vie di Marianneburg.

La notte una minaccia concreta attraverso ilvisore a infrarossi: Stavka segnalò che duranteil mio turno di riposo tre attacchi dei Reiterserano stati respinti dopo lunghi, intensi com-

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qualcosa non andava. La stanza buia sventratasulla notte tossica di Marianneburg aveva il co-lore moribondo dell’infrarosso.

Abbassai il volume dell’audio. La colonnasonora delle voci degli altri scomparve insiemeal lamento delle esplosioni. Mi stupii di nonudire gli odori della battaglia: polvere da spa-ro, gas tossici, aria bruciata. Osservai indiffe-rente la danza mortale delle luci sulla paretedella stanza: un laser di puntamento tagliava ilfumo, percorrendo la facciata dell’edificio allaricerca di un obbiettivo.

Strisciai sulle mani e sui ginocchi verso ilretro dell’appartamento. Ora è finita, pensavo,calmati, è finita. Ridiscesi le scale, saltando larampa frantumata. Una lama laser mi toccò, unproiettile cercò le mie carni ma esplose controla graniglia della scala.

“Volja!” gridò la voce di Nadja “dove sei,Volja!”

Non sono, pensai, non sono più. Ero terro-rizzato. Non riuscivo a levarmi i guanti per ta-stare la carne delle mie stesse mani; non riu-scivo ad annusare la polvere di intonaco dellascala; non riuscivo a deglutire il sangue cheimmaginavo di avere raccolto in un bolo sottola lingua.

D’improvviso e senza volerlo consciamentemi ritrovai all’aperto, nella piazza. Ero uscitodalla scuola, e benché tenessi il volume al mi-nimo la violenza della battaglia era tale chepercepivo vibrazioni attraverso le suole dellescarpe.

Un frammento minerale mi colpi alle spal-le, costringendomi in ginocchio; quando mirialzai, un proiettile mi centrò casualmente ilgomito sinistro.

Rimasi ad osservare perplesso il moncheri-no del braccio tranciato a metà, aspettando ilcolpo di grazia: ma evidentemente ero statocolpito per caso. Ora sanguina, pensai stupitodella mia impassibilità, scommetto che esce ilsangue.

Invece niente. Come dovevano sentirsi ibambini di Oranienbaum mentre gli spezzonidi mitraglia li facevano a pezzi? Questa è lamia manina: fino a un secondo fa era attac-cata al polso. Sono preoccupato: papà riusciràa riattaccarla? Esce sangue ma non mi fa ma-le. Perché non mi fa male? Mamma, rispondi...Non sento più male.

Attraversai il fumo spesso come olio. Senti-vo filo spinato nelle giunture delle gambe edelle braccia. Quando perdi un arto, sei con-

vinto di sentirlo ancora per parecchio tempodopo l’amputazione, pensavo. Camminai sullafaccia di un Reiter tagliato in due dai traccian-ti esplosivi. poi un laser mi trovò.

Sentii arrivare i proiettili. Fu come la sera incui Iván mi aveva colpito sulla bocca: tre urtiquasi contemporanei alla spalla e al torace, misentii sollevare da terra, battei da qualche par-te, mi ritrovai disteso. Ero preoccupato, nonc’era sangue. Mi trascinai sui gomiti, rifiutandodi vedere che ne era delle mie gambe. Avevoun grosso buco slabbrato all’altezza del cuore.Ma quanto ci vuole a morire? pensai.

Poi finii sotto le ruote di un cingolato.

* * *

Mentre attendevo davanti allo schermo aparete, in una delle sale di ricreazione, Ivánvenne a sedersi accanto a me.

“Come è andata?” domandò.Mi strinsi nelle spalle. Avrei voluto avere un

visore per escludermi dalla sua presenza.“Nadja? E’ ancora dentro?”“Ti ricordi un’occasione in cui sia uscita pri-

ma di me?” replicai acido.Iván tamburellò pazientemente sul braccio-

lo della sedia di plexiglas. “Vladimir, sarebbeora che io e te parlassimo, da uomo a uomo esenza preclusioni.”

Lo guardai, attonito: non me lo aspettavo.Per fortuna Nadja ci raggiunse proprio in

quel momento. “Allora?” disse “fatto pace?”La incenerii con una occhiata. Stavo per ri-

spondere male a Iván quando un’esplosionemandò in frantumi l’intonaco del soffitto, chesi sbriciolò addosso a tutti presenti.

“Che succede?” disse qualcuno. Altri grida-rono.

“Volja!” chiamò mia sorella.“ATTENZIONE!” esclamò allora una voce da

tutti gli altoparlanti “qui non è Papa Fëdor chevi parla, né Stavka: per il bene della Nazione,Soyuz Druzijej si vede costretta ad assumeretemporaneamente i poteri sovrani e la condu-zione della difesa della capitale.”

Afferrai Nadja per una mano, trascinandolacon me verso un’uscita. Vidi con disappuntoche Iván si accodava. C’era ressa, una calca in-descrivibile. Gli omon armati di tutto punto ri-manevano inerti, frastornati, confusi.

“La disastrosa conduzione della guerra daparte di Papa Fëdor ha portato la nazione sul-l’orlo della sconfitta militare” continuò la voce

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cato di comunicare alla nazione che il proget-to di migrazione di Stavka all’interno del siste-ma di comunicazioni mondiale, la Rete, pro-gettato in gran segreto dal Ministrero della di-fesa è stato portato a compimento trenta mi-nuti fa.”

Rimasi a bocca aperta. Stavka era nellaRete?!

“La nuova ubicazione del nostro sistema didifesa permette di amplificarne le potenzialitàfino ai limiti della cognizione umana. Da que-sto momento, grazie alla lungimiranza del go-verno, la nazione sta iniziando la sua controf-fensiva contro i Reiters.”

Qualcuno gridò.“Usciamo da qui,” disse Iván “voglio veder-

ci chiaro.”Fui costretto a seguirlo per stare con mia

sorella. All’aperto, la notte era straziata da fuo-chi di incendi tutto intorno all’orizzonte. Usam-mo gli auricolari dei beeper.

“Stavka ha lanciato l’ordine di richiamo pertutti i riservisti nelle retrovie” stava proseguen-do zio Lavrentij “entro 16 giorni, 80 nuovi cor-pi d’armata affluiranno in prima linea. Papa Fë-dor sta predisponendo le direttive della con-troffensiva per spezzare l’assedio: il futuro del-la guerra è tracciato. Stavka è divenuto invinci-bile, l’invasione sarà ricacciata ai confini, il Rei-terbund stesso è destinato ad essere investitodalla controffensiva! Annienteremo la nazioneReiter, smantelleremo pietra su pietra le città ele industrie delle croci nere! Potenza degli idea-li del Partito, siamo divenuti invincibili!”

Le ultime parole di zio Lavrentij furonoquasi urlate. Sfilai l’auricolare, ma Nadja mi fe-ce segno di no. “Ci stanno chiamando, ora”disse “dobbiamo presentarci al Ministero. Hainizio la controffensiva!”

* * *

L’alba era una linea lugubre, infiammata daifuochi delle battaglie. Fra lo schermo dellosrjénije e l’orizzonte, le città incendiate sem-bravano escrescenze tumorali sulla pelle di undinosauro morente.

Ascesi in verticale, ruotando sull’asse men-tre il radar di bordo scandagliava la notte. Acadenze irregolari, sincopate, il rombo radioat-tivo di una termonucleare tattica spezzava ilbuio. Guidai con precauzione lo stormo disrjénije verso la periferia sudoccidentale di Ma-rianneburg; il visore a infrarossi mi segnalava

una pianura costellata di cingolati distrutti, av-velenata dagli spezzoni radioattivi dei proietti-li di artiglieria, butterata da gruppi di civili chesi aggiravano angosciati in tanta desolazione.Procedemmo a 250 metri di altezza, abbassan-doci ogni pochi minuti per mettere a fuoco lesorgenti di calore, ma non rinvenimmo traccedi resistenza Reiter.

“Aquila rossa chiama” dissi sottovoce nelmicrofono. Ero spossato dal ritmo dei turni; datre settimane tutti noi telepiloti non avevamoavuto un solo turno di riposo, ma la controf-fensiva proseguiva in un crescendo vertiginosoe Stavka aveva bisogno dell’ausilio di tutto ilpersonale umano.

“Qui Larice” rispose Nadja mentre la sua ico-na appariva sul mio schermo. “Come ti senti?”

“Vorrei dormire qualche ora” replicai.La notte era uniforme nella sua desolazio-

ne; neppure la linea dell’alba riusciva a ricac-ciarla. Gli scheletri di alberi distrutti dal ghiac-cio e dal fuoco si susseguivano per chilometrie chilometri; il silenzio era agghiacciante, per-ché amplificava il tuono cupo delle artiglierielontane. Sorvolammo la linea ferroviaria cheportava al mare, a Villmanstadt, poi un grovi-glio di svincoli stradali.

In quel momento una voce sconosciuta fil-trò nel nostro sistema di trasmissione. “Comu-nicazione direzionale inoltrata solo agli affi-liati” disse “qui è la direzione politica di SoyuzDruzijej. Vi comunichiamo di aver portato acompimento il programma segreto di infiltra-zione di Stavka. Attraverso numerosi accessidella rete internazionale di comunicazioni,Soyuz Druzijej ha aggredito il sistema nazio-nale di difesa; da questo momento, il Partito èvirtualmente disarmato: da ora in poi, la dife-sa nazionale sarà condotta da Soyuz Druzijejattraverso Stavka. Per non compromettere lacapacità offensiva dell’esercito, terremo per ilmomento nascosta la verità. Avanti sino allavittoria!”

Rimasi impietrito. Non avevo il coraggio dichiamare Nadja per domandarle se avesseudito.

“Vladimir?” accennò lei timidamente.“Ho sentito” sospirai.“E ora? Sarà vero?”Non sapevo cosa rispondere. Continuam-

mo a volare sulla tundra ghiacciata. Attraversola stanchezza, un pensiero cominciò a filtrarealla mia coscienza.

“Vlad?” disse la voce di Nadja “Cosa stai di-

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tenne a riccio.Attendere attendere attendere, pensai tre-

mando di concentrazione, gli occhi inchiodatisul bersaglio stampato nel cuore della sfera-madre, la stella rossa a cinque punte che sifrapponeva fra me e la verità, a Oranienbaum.

Fuoco! pensai. La consueta X lampeggiòsullo schermo. Gli altri piloti lanciarono i lororazzi, lo schermo si riempì del fumo di scaricodei missili.

La terra sotto di me si frantumò in una piog-gia di zolle nere; guadagnai quota, mentre ilmio missile si apriva la strada in un’orgia di fuo-co verso il cuore della sferamadre, come unospermatozoo omicida all’assalto di un ovulo.

“Disimpegnarsi!” ordinai nel microfono“Qui aquila rossa, disimpegnarsi, aggirare lostormo e continuare sulla rotta precedente!”

Schivando i razzi-segugio, virai intorno alriccio morente della sferamadre, notando lascomparsa delle icone di troppi srjénije. “Sgan-ciarsi, sganciarsi!” incitai, lasciandomi alle spal-le il campo di battaglia.

Vidi con sollievo che Larice mi seguiva.“Vlad!” esclamò concitata Nadja “un altroPanthergruppe!”

Seguii la sua segnalazione luminosa. Eravero! Un’altra sferamadre, nascosta dietro quel-la che avevo appena colpito, ci stava scaglian-do addosso le sue pantere volanti.

“Ripiegare!” comandai, sfrecciando a velo-cità inaudita “non accettare lo scontro. Rotta suOranienbaum!”

Ma oramai eravamo quasi a contatto. Iproiettili traccianti avevano trasformato il cieloin un diagramma cartesiano di distruzione.Avanzai a zigzag, deciso a disimpegnarmi eschizzare verso Oranienbaum a costo di ab-bandonare lo stormo. Dovevo sapere!

Cercai sul radar la posizione del resto dellostormo, ma oramai era decimato.

“Stavka. Prendo il controllo.”“No!” esclamai “non è necessario.”Virai, inclinandomi di lato. E il fumo nero

che saliva da Oranienbaum apparve nel miocampo visivo.

“AVARIA!” segnalò il sistema “UN CANNON-CINO DA 8 MM HA COLPITO LA TURBINA.”

“Vlad!” esclamò la voce di Nadja “ti hannopreso!”

Persi quota, senza rallentare; ma a otto me-tri da terra, spinsi l’elicottero a velocità massi-ma verso la città. Sentivo di tremare, nel letti-no di proiezione. Quando le pantere volanti siresero conto che non ero stato abbattuto, silanciarono all’inseguimento, e Nadja dietro diloro.

La caccia continuò per diversi chilometrisulla pianura gelata. Il clamore della battagliascomparve dietro di noi, lo stormo doveva es-sere stato distrutto. Mi resi conto che eravamocaduti in un’imboscata: ero diretto responsabi-le della perdita di almeno venti srjénije.

Ma non c’era tempo per pensare. Il profilomasticato della periferia di Oranienbaum si av-vicinava. I laser di puntamento continuavano acercarmi, vedevo le loro protezioni sull’erbamarcia; avanzai a zigzag, come ubriaco, men-tre Nadja continuava a bersagliare le panterevolanti che mi inseguivano.

Oranienbaum. Zio Lavrentij. La stella rossadel Partito. Soyuz Druzijej. I bambini massa-crati dall’herpes chimico.

Un’esplosione mi scosse. L’elicottero comin-ciò a virare su se stesso, sbandando. Si avvitò,riempiendo lo schermo di fumo. Non riuscivopiù a sentire Nadja né Stavka. Tutti i led all’in-terno del casco lampeggiavano avviliti.

Dopo un attimo di sospensione, l’elicotteroprecipitò verso terra. Malgrado non fosse in-tervenuto durante tutto lo scontro, Stavka mitirò fuori dalla simulazione con il consuetotempismo, pochi secondi prima del trauma didistruzione.

Mi strappai il casco di testa, alzandomi a se-dere rabbiosamente nella poltroncina: Nadjaera ancora sdraiata al suo posto di combatti-mento.

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MENTRE L’IMPERO DEL MALE viaggia a ritroso nel Tempo, frantu-mando i secoli del futuro prossimo con la forza cieca dell’inco-scienza, Joyce Harrington osserva se stessa obbligata ad un rap-porto orale con un uomo dai lineamenti sfumati da una prote-zione ottica.

Il lamento di ghisa della campana di Hexham Bridge non ladistrae. Joyce Harrington solleva gli occhiali sulle tempie, la-sciandoli allacciati dietro la nuca in modo che le premano sulcuoio capelluto facendola sentire viva. Le linee rette degli edificiuniversitari incrostati dalla nebbia sono sempre lì, fuori dalla fi-nestra di anodizzato. Una nausea da straniamento attutisce il suorientro nella geometria reale del laboratorio.

Pensa di avere visto male. Pensa di essersi imbattuta in unevento C, un avvenimento privato che non ha influenza sulla ve-nuta dell’Impero. Abbassa di nuovo le lenti sugli occhi, sentendol’elastico impigliarsi nei capelli, per rientrare nella registrazionedell’evento.

Si vede di spalle, nuda dalla vita in su. Nota gli stessi panta-loni che ha indosso oggi, la cintura di metallo sbalzato arrotolataper terra, il foulard giapponese accartocciato sotto i piedi. Lesembra di sentire l’eco del proprio cuore all’interno della simula-zione. Sente freddo. Richiama con un gesto del dito guantato ilmenu, controlla i parametri dell’evento: 35 giorni da oggi, conuna approssimazione di 8 giorni in più o in meno.

I lineamenti dell’uomo seduto alla poltrona di damascato so-no protetti da una deformazione ottica. Joyce Harrington si spo-sta come in sogno verso la coppia impegnata nell’atto osceno. Ve-

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Ombre di imperi a venire

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come i vetri discreti di una public house deglianni ‘70.

La routine brevettata da Duncan Moore lesegnala che c’è ancora molto materiale elabo-rato durante la notte da selezionare: # 9 “B”events, ma Joyce insiste nella sua indagine pri-vata. Sospetta qualche potere morbosamenteipnotico nel movimento a stantuffo della pro-pria testa nella riproduzione virtuale, ma nonriesce a sottrarsi al fascino della propria degra-dazione.

Dopo il primo smarrimento ha riconosciutola stanza: si tratta dell’ufficio del capo diparti-mento Angus Moore, fratello maggiore di Dun-can. Pareti di tempera sintetica bianca, ologra-fie del Vallo di Adriano e di Skara Brae, un’a-logena a stelo, un sistema immersivo di fabbri-cazione tedesca, l’ampia finestra con telaio dilegno.

Non può essere però sicura che l’uomo se-duto sia il capo dipartimento. Naviga intornoalla coppia intenta nell’atto osceno, cercandodi isolare quella parte della propria coscienzache cerca di comunicarle un collegamento frase stessa e la Joyce Harrington della registra-zione. Si sente come un sonnambulo, uno de-gli automi corporali di Tommy Gunn. Per unmomento pensa alla registrazione come al fa-scismo elettronico del broadcast di Clive Win-ston Bentham.

Cerca nella registrazione la camicetta chedeve essersi sfilata prima dell’evento. Sente ilridicolo di definire in modo così impersonalel’atto sessuale cui sta assistendo, che la coin-volge[rà] direttamente entro 60 giorni, conun’approssimazione di ± 10 giorni.

Si volta rapidamente intorno nell’ufficio ri-prodotto, vagamente nauseata dal ricalcolo deipoligoni ogni volta che sposta lo sguardo.Quello che cerca è ammucchiato in terra, aipiedi dello stelo dell’alogena: una camicetta ditessuto grezzo, nera con fiori chiari, che nonriconosce come sua.

Un led rosso si accende nel suo angolo vi-suale. Joyce Harrington compie il prescrittomovimento della mano destra all’interno delguanto e si ritrova fuori dalla simulazione. Sislaccia gli occhiali, rivolgendo un cenno di sa-luto a Alison Caird. Sei arrivata in anticipo, ledice con il sistema circolatorio ancora teso dal-l’esperienza all’interno della registrazione.

Alison Caird sembra stupita. Non ti eri mes-sa d’accordo con Coverdale?, le risponde. Miha detto che non ti sentivi bene, che era me-

glio se anticipavo di un paio d’ore.Il dottor Coverdale è troppo apprensivo, è

la risposta di Joyce. Avvia il salvataggio dellaregistrazione su chip, sperando che Alison nonvi faccia caso.

La collega ispeziona il proprio posto di la-voro, di fronte all’enorme finestra di legno aogiva che dà sui cortili interni del campus.Idiosincrasia. Quando si immerge in una simu-lazione, Alison Caird soffre di agorafobia senon pensa ad uno spazio sufficiente davanti ase: come se temesse di andare a sbattere con-tro i muri reali del laboratorio mentre naviga lestrutture virtuali del ciberspazio.

Trovato qualche A?, domanda Alison visio-nando l’indice degli eventi selezionati durantela notte.

Joyce fa scivolare con un singolo movi-mento il chip con la registrazione nella tascaanteriore dei pantaloni. Senza nessuna ragio-ne, immagina che Alison porti sotto la giaccauna T-shirt con il viso di Tommy Gunn. Evi-dentemente il vassoio di polistirolo della ca-meriera pakistana l’ha colpita. Si domanda finoa che punto la violenza ideologica dei tommy-guns sia divenuta endemica all’interno dellasocietà.

* * *

L’edificio di mattoni ripieni di fronte al la-boratorio possiede una geometria perfetta. Latorre di metallo e vetro dell’ascensore, monta-to in un secondo tempo all’esterno della fac-ciata, si integra bene con il bovindo di legnoverniciato di verde.

Joyce Harrington abbassa lo sguardo dallafinestra al parquet del pavimento. Duncan staritoccando il primo violino in un brano di Sid-sel Endresen, cercando una sonorità più acu-stica. Ha passato metà del pomeriggio a scom-porre e rimontare frammenti musicali nel ten-tativo di mettere a fuoco un’idea che ha inmente dal mese precedente, da quando ha ac-quistato l’opera della Endresen in un negoziovirtuale su Hypernet.

Joyce Harrington ascolta i suoi esperimentiacustici. Si è tirata giù le maniche del pull atrecce fino alle nocche, perché nell’apparta-mento di Duncan Moore la temperatura è sem-pre di qualche grado inferiore ai 20° C. Laprincipale preoccupazione di Joyce in questomomento non è la registrazione contenuta nelchip che ha nascosto nella sua raccolta disor-

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do escono dal magazzino. Alison guida conprudenza attraverso i sensi unici del centrocittà. Oggi sono nuovamente di turno insiemeperché Duncan ha la sua giornata libera. Joycepensa a un modo per tornare a immergersi nel-la registrazione senza che la collega se ne ac-corga, ma sa che non è facile. Rischia di la-sciare da parte il lavoro della giornata, e il dot-tor Coverdale se ne accorgerebbe.

Il suo dilemma si risolve automaticamenteal loro arrivo al laboratorio: il responsabile deldipartimento, Angus Moore (che è anche fra-tello maggiore di Duncan) le aspetta nel suoufficio.

Joyce entra in punta di piedi seguendo lacollega, conscia del fatto che la registrazione èstata ripresa in quella stanza. Angus ha apertola portafinestra per lasciare entrare i primi rag-gi di sole della giornata, che filtrano dalle nu-vole in ritirata, e i rintocchi della campana diHexham Bridge. Anche Duncan le sta aspettan-do, ma è intento a seguire qualcosa sui propriocchiali. Appena può approfitta della tecnolo-gia avanzata del laboratorio anche per fini per-sonali, e l’università lo tollera perché è un otti-mo ricercatore e non provoca costi aggiuntivi.

Il dottor Coverdale siede in disparte, osser-vando la modesta collezione di oggetti Pitti eScotti di Angus Moore, al riparo dentro una te-ca di vetro: fibule, punte di lancia, un vasettoda forno.

Sono presenti anche i ricercatori del turnodi notte, che al momento si occupano della su-pervisione alla selezione: Winnie Nichols eJohn Malcolm Frost

Angus Moore le invita a sedere. Duncansolleva le lenti, notando la camicia nuova diJoyce. Non è niente di ufficiale, dice il capo di-partimento, semplicemente ci tengo a informa-vi dei successi di questa équipe. Un evento B1/10,90 è stato riclassificato a Londra come A1/11,10.

Ah! Esclama Alison Caird, lo sapevo! Si trat-ta delle elezioni regionali in Galizia, vero?

Angus Moore scuote il capo. No, mi dispia-ce signora Caird. Si tratta della nascita di Vin-cent Zijlstra Jr.

Joyce Harrington si sente chiamata in cau-sa. Era stata lei a selezionare l’evento, una not-te di alcune settimane prima.

L’evento ha provocato un considerevolerallentamento nella venuta dell’Impero nel Su-dest asiatico, spiega orgoglioso Angus. Inse-guendo la linea temporale di Zijlstra Jr. abbia-

mo rintracciato un suo trasferimento in Indo-nesia, che nel secolo scorso era colonia olan-dese. L’influenza del suo arrivo nell’area saràdeterminante.

Complimenti, Joyce, interviene il dottor Co-verdale. Lei non capisce se Angus Moore lo ab-bia informato in precedenza, o se veramentelui si ricordi chi era stato a selezionare l’even-to. Guarda la poltrona su cui è seduto il dottorCoverdale, e vede se stessa ai suoi piedi a tor-so nudo.

Vorrei complimentarmi con tutti quanti,prosegue Angus Moore con un gesto delle ma-ni curiosamente mediterraneo. Purtroppo devoavvertirvi che nel bilancio di quest’anno glistanziamenti per la ricerca sono stati ridotti del7,50%.

Un silenzio imbarazzato gela tutti, più an-cora dell’aria che è tornata fredda. Come sa-rebbe?, esordisce Duncan rompendo il ghiac-cio, come può pensare Atkins che possiamoandare avanti con ancora meno fondi di quel-li attuali? Come possono da una parte invitarcia lavorare sempre più alacremente per ritarda-re la venuta dell’Impero, e dall’altra tagliare lespese?

Purtroppo la ripartizione del fondi non èpiù controllata dall’ufficio del generale Atkins,spiega Angus Moore a denti stretti. Il generaleAtkins è morto tre settimane fa in un inciden-te di macchina presso Wolverhampton. Si trat-ta di una notizia classificata della massima si-curezza fino a ieri sera.

Joyce Harrington percepisce un istantaneoirrigidimento nella respirazione di tutti i pre-senti. Le pare di vedere materialmente le mo-lecole della stanza, come quei demo sulla re-troazione di forza in cui si cerca di afferrare gliatomi di ossigeno e idrogeno in una proiezio-ne immersiva.

Il generale Atkins è morto? Ripete AlisonCaird. E chi ha in mano adesso il progetto?

Il generale aveva ovviamente predispostopiani di emergenza, si affretta a spiegare AngusMoore, non sono in pericolo né il progetto néla sua segretezza. Tuttavia, l’ufficio di feedbackche controlla le reazioni all’interno dell’Impe-ro del Male sta ipotizzando l’esistenza di unanalogo progetto, condotto da un’organizza-zione corrispondente alla nostra, con l’obbiet-tivo di affrettare la marcia dell’Impero a ritro-so nel tempo.

E questo cosa avrebbe a che fare con lamorte del generale? Interviene Winnie Nichols.

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stanza senza esser notata. Sente odore di fumo,John Frost usa tabacco aromatizzato.

Per sua fortuna sono entrambi immersi neipropri viaggi virtuali, sospesi sui lettini a bi-lanciere. Joyce dischiude il battente della por-ta e si intrufola nel proprio ufficio.

C’è qualcuno. Sente i capelli ritti sulla nuca.L’alta finestra a semicerchio ritaglia unasilhouette: c’è qualcuno seduto al posto di Ali-son Caird, al buio. E’ l’uomo della registrazio-ne, pensa. L’uomo della mia bocca.

Joyce rimane incollata alla colonna di mar-mo dell’ordine del giorno. Si sfila le scarpe,strisciando piegata in due verso la propria con-sole. Scivola carponi, poi muove verso ilmixer. Senza levare gli occhi dall’intruso colle-gato alla console di Alison, accende la spiadell’immersivo: un cerchio luminoso sul moni-tor si trasforma nella scena del suo incubo.

L’estraneo è in immersione nella registra-zione del suo evento C. Con un balzo, JoyceHarrington si alza in piedi urlando di sdegnoperché ha riconosciuto il profilo della spia.

Alison si strappa dalle tempie il casco, lafissa con occhi increduli. Cosa stai facendoqui? la apostrofa Joyce.

Costa stai facendo tu qui!, risponde imba-razzata la collega additandole i sensori del ca-sco.

Sei venuta apposta nel cuore della notteper spiare il mio lavoro? protesta incredula Joy-ce Harrington.

Alison si alza, imbarazzata. Non riesce atrovare una scusa plausibile. Potevi dirmelo,balbetta, ti avrei aiutata.

Joyce allunga una mano con cattiveria, legraffia la guancia. L’amica strilla, balza indietro.

Ci sei dietro tu? insiste Joyce, sei tu che haipreparato quella registrazione? Non osa chie-derle chi sia l’uomo della poltrona nell’ufficiodi Angus Moore.

Alison arretra verso la finestra, schiva un al-tro attacco delle unghie di Joyce, chiede aiutoad alta voce. Probabilmente Winnie e John, nellaboratorio adiacente, non possono sentire.

E’ così?, grida Joyce, da quante settimaneesci di casa la notte per venire a prepararequella registrazione? Come hai fatto a simulareun evento C?

Io non ho preparato nulla, geme AlisonCaird uscendo di schiena sul balconcino. Lanotte è nera, la nebbia sale lungo Slumber Hill.Ho solo notato che da qualche giorno eri di-versa. Ti giuro, Joyce, è la prima volta che ve-

do quella registrazione!Con un ululato di furia Joyce Harrington si

scaglia sull’amica. Il mondo si capovolge insie-me alla testa di Alison Caird, la nebbia si lace-ra insieme alla sua camicia, la notte urla conlei. Joyce rimane ad osservare dall’alto del bal-cone e del proprio fiato condensato il corpodella collega in frantumi, giù sul marciapiededel college.

E’ vagamente cosciente della presenza diWinnie e John sul balcone accanto. Torna suipropri passi come una sonnambula mentre leprime luci si accendono negli altri edifici uni-versitari. Uscendo nel corridoio del laborato-rio, un secondo prima che gli uomini della si-curezza notturna sopraggiungano, vede appe-sa all’attaccapanni la giacca di tweed che in-dossa l’uomo nella sua registrazione.

* * *

Il tè Queen Mary è forte e scuro nella tazzadi smaltato, ma Joyce Harrington preferirebbeil flavour vago di tabacco del Lapsang Sou-chong. Duncan chiude la finestra appena fini-to di respirare tutte le nebbie del Northumber-land.

Non pretendo che tu mi creda, ripete Joyce.Mi spiace, non volevo farti il terzo grado, si

scusa Duncan con voce confusa. Non mi eroneppure accorto che ti fossi alzata dal letto, ie-ri notte.

Il ragno rattrappito del corpo di AlisonCaird forma ancora un collage di rimorso sulleretine di Joyce. La notte è già stata crocefissadalla razionalità rosata dell’aurora.

Vorranno sapere cosa facevate entrambenel laboratorio a quell’ora di notte, dice anco-ra Duncan Moore schiarendosi la gola. Dopo-tutto, non potrai rispondergli che eravate diturno.

Joyce si stringe nelle spalle. Il chip con laregistrazione è nella sua tasca, anche se nonha il coraggio di depositarlo nella cassetta disicurezza di una banca perché teme che la po-lizia possa seguirla. Non si è ancora mortifica-ta abbastanza per averla dimenticata nel labo-ratorio la sera precedente: se così non fossestato, Alison non avrebbe mai potuto trovarla,non sarebbe diventata un ragno scomposto sulvialetto a incastro del college.

Non ce la faccio più, torno al laboratorio,dice. Duncan non la segue, ma appena esce dicasa Joyce si ricorda che la sua Austin è ab-

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chewing-gum aspettando che Joyce esca dalcancello.

Qualche volta la accompagna a casa, qual-che altra volta le dà un passaggio quando leilascia apposta la macchina nel box. Non parlamai, ma Joyce ha scoperto tramite il guardianoche si chiama Gabriel Matzkovitch, un nomeche tradisce origini slave.

Oggi Duncan è partito per Reading insiemeal fratello. Una rimpatriata per un Natale in fa-miglia. John e Winnie hanno smesso di sele-zionare eventi durante il loro turno: tutto il me-se precedente è passato senza stipendio, il dot-tor Coverdale è ritornato a tempo pieno inUniversità. Si dice che il progetto stia naufra-gando miseramente per mancanza di fondi: alMinistero non hanno creduto alle prove sulpotere di determinati eventi di rallentare la col-lisione con l’antimateria, e il generale Atkinsnon può più ricorrere ai suoi amici in Parla-mento.

Tutto sta marcendo. Tra poco chiuderannoil laboratorio, Joyce Harrington dovrà cercarsiun altro lavoro, magari ritornare a Lincoln.L’Impero continuerà indisturbato a macinaresecoli, occupando le terze pagine dei giornaliper quasi cento anni ancora.

Joyce Harrington ha comprato un’altra ca-micia identica nello stesso negozio. Fino dalprimo giorno della variabilità del suo evento C,si reca ogni mattino al laboratorio vestita ugua-le: pantaloni di velluto a coste, camicia di gar-za di lana a effetto telaio, tessuto di tartan diuno stilista giapponese sulla spalla, fermato invita dalla cintura con fibbia di metallo sbalza-to. E’ quello che indossa nella registrazione, esa che non potrà farne a meno quel giorno,perché è già scritto nel suo futuro.

Gabo Matzkovitch sa tutto. Gli ha racconta-to, seduta nella sua Rover, di quello che le ac-cadrà inevitabilmente. Il tommygun non ha fat-to commenti, ma da quel giorno ha intensifi-cato le sue apparizioni fuori dal college.

Come tutte le mattine, Joyce fa un salto nel-l’ufficio di Angus Moore, controllando che nonci sia nessuno.

Ma stavolta c’è una novità: un tuffo al cuo-re, e un effetto di straniamento come se lapuntina magnetica delle memorie di massa delsuo cervello si sia sollevata. Ecco la giacca ap-pesa in corridoio. Una mano, la sua, apre laporta dell’ufficio del capo dipartimento. JoyceHarrington vede tutto come attraverso un tele-robot distante chissà quanto, e invece sono i

suoi occhi.L’ufficio è vuoto. Joyce pattina sul parquet,

quasi levitando davanti all’occhio della stereo-camera con il led di registrazione acceso. Chiu-de la portafinestra, perché se dovrà mettersi atorso nudo ha paura di prendere una polmo-nite. Si sfila lo scialle improvvisato, lasciando-lo cadere sul pavimento davanti alla poltrona.

Sente dei passi in corridoio, accanto all’at-taccapanni. Qualcuno si sta infilando la giacca.Joyce sbottona la camicetta di garza di lana, le-vandosela. Le sembra di vedersi ancora nellaregistrazione.

Joyce sta ferma.Joyce cammina.Joyce chiude la finestra.Joyce respira una volta, due volte, tre volte.Joyce è già a seno nudo quando la porta si

apre e compare l’uomo della sua bocca.

NOTE

Automa corporale Per Tommy Gunn, lareiterata esposizione dello spettatore alle scenedi violenza rappresentata (o “interna”) dei me-dia avrebbe come conseguenza la anestetizza-zione della morale individuale e collettiva (de-sensibilizzazione), mentre la riproduzione nu-da e cruda della violenza reale, tangibile (o“esterna”) sarebbe in grado di risvegliare nel-l’uomo un automa corporale. La violenza rea-le (interna) sarebbe capace di imporre lo chocalle masse, risvegliando nell’individuo il pen-satore, antidoto all’uomo desensibilizzato e in-fantilizzato che è la conseguenza del fasci-smo elettronico. Per Tommy Gunn, la vio-lenza rappresentata (interna) va dal dentro alfuori, dalla rappresentazione all’interiorizzazio-ne; al contrario, la violenza reale (esterna) pas-sa dalla natura all’uomo. Lo choc di questopassaggio produce un effetto sulla mente, laforza a pensare ed a fuggire dal circolo vizio-so della macchina da guerra del broadcast.Automa corporale contro l’Uomo-fascista vir-tuale. Recupero della corporalità come massi-mo distillato del materialismo, in contrapposi-zione all’idealismo antimaterialista del fascismoelettronico.

* * *

1. evento A : evento di carattere pubbli-co, con implicazioni di ordine collettivo imme-diatamente rilevabili, in grado di ritardare lecoordinate spaziotemporali dell’Impero del

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sua prima formulazione nell’opera multimedia-le satirica Moral Majority Strikes Back. La teo-ria di Tommy Gunn si basa sul concetto chia-ve del sistema dei network privati e pubblici(broadcast) come “macchina da guerra” perla colonizzazione culturale della mente elettro-nica. I grandi trust economici, o Zaibuzu, checontrollano oltre il 95% del Broadcasting sy-stem in Europa, intenterebbero una vera e pro-pria guerra di colonizzazione della mente. Isingoli passi della strategia del broadcast con-sisterebbero in:

1. Desensibilizzazione della mente colletti-va (o elettronica) mediante l’esposizione reite-rata a scene di tortura e mutilazione; ciò avreb-

be come conseguenza la anestetizzazione del-la morale individuale e collettiva.

2. Infantilizzazione della mente collettiva(o elettronica); ciò avrebbe come conseguenzala retrocessione della mentalità individuale (ecollettiva) allo stadio di retro-bambino.

3. Instaurazione del Fascismo virtuale oelettronico come ultimo stadio della guerra in-tentata tramite i mass media: il fascismo elet-tronico come politica reazionaria della transi-zione dal corporale al virtuale, dalla carne al-l’elettronico.

Nella citata opera artistico-filosofica diTommy Gunn è possibile rintracciare una evo-luzione del pensiero di Arthur Kroker.

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IL DODICESIMO GIORNO DOPO LA COVENTRIZZAZIONE di Torino, la 24ªdivisione corazzata insorgeva attaccando la Guardia Reale di stan-za a Carignano, il presidente del Consiglio Galeazzo Ciano si tra-sferiva al Nord per prevenire tentativi insurrezionali e Bob Dylanfaceva uscire sul mercato mondiale il suo 45 giri “Turin”, incisoa tempo di record per la raccolta di fondi a favore delle popola-zioni bombardate.

Era l’aprile del 1966; a Torino rasa al suolo dalle bombe “in-telligenti” egiziane qualsiasi forma di potere statale era svanita: igerarchi fascisti fuggivano verso la Liguria, le forze d’interventofrancesi erano alle porte di Rivoli e dalla clandestinità il partitocomunista chiamava i militanti all’insurrezione. Nelle tende im-provvisate per il picchettaggio, il ventiduesimo giorno di sciope-ro al Lingotto quasi distrutto dai bombardamenti, ascoltavo allaradio Bob Dylan con una stalattite nel cuore.

...Turin... Turin... Is there anyone still live out there, Turin?“Piantala di cantare” esclamò Costanza Gremmo entrando sot-

to la tenda “quando arriverà il blindato?” Si era infilata un paio distivali da cavallerizza, pantaloni rinforzati al cavallo e un grossocinturone di cuoio con un revolver.

“Non avere fretta” risposi cominciando a raccogliere i dischi divinile del PC. La detestavo perché aveva i capelli puliti malgradol’acqua corrente mancasse oramai da oltre quaranta giorni.

Costanza mi fece un cenno silenzioso, attirandomi all’ingressodella tenda; indicò Mario che sedeva al sole di aprile, la spinadorsale contro il cancello del Lingotto occupato. “Dove l’hai tro-vato, quello?” domandò “non mi pare sia della tua sezione.”

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TorinoSecondo classificato Premio Italia 1996

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fra l’università e il Po: al piano superiore, in ci-ma a una scala di legno tarlato, una quaranti-na di universitari fumavano e facevano musicasotto festoni di carta colorata, discutendo di fi-losofia e di rock’n’roll. Eravamo stati invitatianche io ed Enrichetta, sposi da pochi mesi,malgrado avessimo abbandonato gli studi daoltre un anno.

Due egiziani della Nubia dalla pelle violacome prugna, figli di un ingegnere minerarioche lavorava in città, erano venuti per i liquo-ri e la compagnia: avevano portato dischi dimusica rock, sigarette, programmi per PC sudischi di vinile colorato.

Dopo un paio di ore Enrichetta si era stan-cata di stare in piedi: aveva trascorso metà del-la notte abbracciata al lavandino del bagnoperché era al secondo mese di gravidanza. Ilmarito di Teresita, che aveva la mia stessa etàe si chiamava Vassallo, era rimasto tutto il tem-po seduto in disparte in mezzo alle numerosecamicie nere che si trovavano dappertutto, gio-vani militanti del PNF sui quali aveva una sgra-devole influenza.

L’attenzione di quasi tutti gli altri giovaniera concentrata su Cesare Pavese, invitato allafesta per la sua amicizia con uno degli orga-nizzatori. Anch’io l’avevo conosciuto personal-mente prima che diventasse famoso, ma quelgiorno non mi avvicinai a salutarlo perché te-mevo non si ricordasse di me. Dopo che si erasparato quel colpo alla tempia nel ‘50, dopoquei quarantadue giorni di coma, non era piùlo stesso: non aveva mai più posato le dita sul-la tastiera di un PC per scrivere anche una so-la parola.

Mi ero alzato per prendere qualcosa da be-re a Enrichetta; fu Teresita a servirmi una be-vanda gassata. Io, lei e mia moglie eravamostati molto amici ai tempi del liceo, e non ave-vamo mai smesso di frequentarci per tutto ilperiodo dell’università malgrado lei avessesposato una camicia nera e io mi fossi iscrittoclandestinamente al PCI.

Quando Teresita mi porse il bicchiere fred-do, sentii il suo profumo che mi richiamò aglianni di scuola. “Vuoi ballare?” le chiesi in pun-ta di labbra senza pensarci su due volte.

Teresita guardò il marito, che non era an-cora sceso sulla pista. Io e Vassallo ci cono-scevamo di sfuggita, senza frequentarci perso-nalmente, ma doveva sapere che con Teresitaeravamo amici da sempre.

Portai da bere a Enrichetta. “Ti spiace se

ballo ancora?” dissi.“Ti perdono solo se mi presenti Pavese” ri-

spose lei.Portai due dita sul cuore, la baciai sulla

guancia e tornai da Teresita. “Ti piace questa?”domandò lei passandomi le braccia al collo.

Piegai la testa di lato, levitando le mani aisuoi fianchi. “Chi canta?”

“Bob Dylan. Non lo conosci, è la sua primacanzone. House of the risin’ sun, la casa del so-le che nasce.”

“Che sorge.” corressi. Teresita aveva un pro-fumo che picchiava a tradimento, una camicet-ta di piqué e jeans di fabbricazione turca. En-richetta si faceva aria bevendo la gassosa, lecaviglie incrociate. Vassallo parlava con i suoibalilla e guardava la moglie. Pavese recitavaper i suoi ascoltatori le note di copertina deidischi americani che a quel tempo il regimeancora non aveva proibito.

Il vino mi dava alla testa. La voce di BobDylan, che ascoltavo per la prima volta, gratta-va le corde della nostalgia. Voce amara, lanci-nante cantilena ebraica di sangue antico, dipersecuzioni millenarie. Il seno timido di Tere-sita fra noi due, le sue braccia sulle spalle.

“Sai una cosa?” le dissi all’orecchio. Alzò gliocchi. Come altre volte, come mille altre volte:eppure questa volta...

“As the night got longer” recitava Pavese,“the air got heavier, the audience got drunkenand nastier, and I got sicker and finally I got fi-red.”

...eppure questa volta la luce cadeva obli-quamente sulla sua pupilla. Se per un puntoesterno ad una retta tracciamo una retta, pa-rallela ad essa, otterremo una soleggiata serad’autunno.

Teresita era alta come me e aveva labbrasottili. Per quella sera, eccezionalmente, si eratruccata con un eyeliner nero intorno agli oc-chi. La baciai in punta di lingua, senza invitar-la. Credetti che la musica si fermasse, ma sifermò soltanto il Tempo.

“Sometimes he frets his instrument with theback of a kitchen knife or even a metal lipstickholder” proseguiva Pavese “giving it the clangyvirility of the primitive country blues men.”

Ci staccammo con un rumore di rimorso.Sentivo le lacrime alle guance, i miei piedi an-davano da soli, ma le mani sembravano incol-late con gomma arabica ai fianchi di Teresita.

Vassallo ci guardava incredulo, Enrichettaaveva smesso di farsi aria.

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Uscimmo nella piazza. Costanza fece sede-re il prigioniero sul sedile posteriore della miaauto, mettendogli a fianco le due guardie ros-se. Teresita passò sul sedile anteriore, strettafra me e Mario che sembrava esageratamenteteso.

“Calmati” gli sussurrai in un orecchio, coper-to dal trambusto. “Qualche ora e sarai fuori.”

“Ma hai visto chi è?” rispose a denti stretti.Non osai voltarmi per osservare il volto del

prigioniero sotto la tesa del cappello di feltro.“Scendi verso via Po” disse Costanza “ti

darò istruzioni strada facendo” Quindi si de-dicò al ricevitore portatile che le stava comu-nicando qualcosa. Avrei voluto avere un’auto-radio per ascoltare ancora la canzone di Dylan.

* * *

“Se tuo marito ci vedesse così, mi farebbefucilare” le dissi all’orecchio. Teresita sorrise,ma con una punta di amarezza. Compresi allo-ra che non avrei dovuto nominare Vassallo.

Mi separai dai suoi fianchi perché cambias-se il disco. “Ho qualcosa che vorrei farti senti-re” disse levandosi finalmente la giacca. Condue balzi arrivò alla borsetta e ne estrasse lacustodia di cartone di un disco. “Ricordi i nu-biani,” disse fingendo di lanciarmelo “i figlidell’ingegnere minerario? Se ne sono andatidefinitivamente dall’Italia perché non abbiamorinnovato la convenzione. Mi hanno lasciatotutti i loro dischi: voglio farti sentire questo.”

Tornammo sul parquet dopo che Teresitaebbe caricato il vinile sul piatto dello stereo. Lealtre coppie di ballerini erano lontane, in fon-do alla palestra; le alte finestre piombate dellafabbrica in disarmo lasciavano entrare la luce euna corrente d’aria irriverente. Gli altoparlantivicino alla porta di ingresso suonavano un tan-go argentino, opprimente sullo sfondo squalli-do dei muri di fabbrica. Qualcuna fra le altreclienti doveva essersi accorta che Teresita sta-va ballando con l’addetto alle pulizie, forsecommentavano pesantemente.

Tornai a cingere Teresita, che ora era abraccia nude. Il sole si rifletteva testardo sui li-stelli di legno nuovo, incollati sul cementoconsumato della gigantesca fabbrica.

La musica di Teresita attaccò violenta, in-troducendo subito una voce americana che co-noscevo. “Da quanto tempo...” mi lasciai scap-pare “Bob Dylan?”

Teresita mi portò una mano dietro la nuca,

ma non era facile tenere il passo di quella bal-lata strascicata: oltretutto, io ero capitato per ca-so nella palestra di danza, dopo essere stato li-cenziato dall’Università a causa del mio arresto.

“Hmm” mugolò Teresita nell’abbraccio del-la musica “dimmi la verità, come ve la passatetu e Enrichetta?”

Teresita aveva fianchi da anguilla e bracciabianche, lisce. “Per fortuna lei non ha perso ilposto” risposi, ma non mi andava di parlarne.“Lo sai che questa musica oramai è proibita?”dissi per sviare il discorso “Autarchia. Non èpiù come quell’ultimo ballo in Vanchiglia. Se civedesse tuo marito...”

“Fanculo, Edo” rispose lei a occhi chiusi,ruotando come una vite sulla mattonella diparquet “balli da schifo.“

“Ci vieni spesso?” domandai con i suoi ca-pelli contro le labbra.

“Appena posso. Tu lavorerai qui d’ora inpoi?”

Mi strinsi nelle spalle. “Non ho libretto dilavoro. Avevo cominciato a battere al PC ma-teriale editoriale per Cesare Pavese, ma quan-do è morto il mese scorso mi sono ritrovato apiedi. Adesso fare le pulizie qua in palestra enegli uffici al piano di sotto mi prende quat-tordici ore al giorno.”

Si irrigidì, mi cercò negli occhi la verità.“Quattordici ore? Non lasciare che ti sfruttino.”

Risi. “Parli come una comunista.”“Oh, smettila con la politica!” tagliò corto

“dimmi se ti piace questa canzone.”...It was gravity which pulled us down and

destiny which broke us apart...“Imperdibile” commentai provando un bri-

vido mentre Dylan strusciava con la sua vocecontro la mia spina dorsale “Basterebbe l’o-stracismo del partito di tuo marito nei confrontidi questa musica per meritare all’Italia il boi-cottaggio dell’ONU.”

...I can’t remember your face anymore,your mouth is changed, your eyes don’t look

into mine...Il bacino di Teresita era contro il mio osso

pelvico. Sapevo che il principale avrebbe po-tuto licenziarmi vedendomi ballare con unacliente della palestra, ma in quel momento erala cosa meno importante per me. Da quandoavevo trascorso i miei diciotto giorni di galera,molte cose erano diventate meno importanti.

...I waited for you on the running boardnear the cypress tree, while the Spring turned

slowly into Autumn...

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te, le prime case di Venaria Reale.“Come cazzo abbiamo fatto a catturare Ga-

leazzo Ciano?” dissi fra me e me, ma a vocealta.

Nessuno rispose. Nulla si mosse sotto il cie-lo velato dal fumo di Torino agonizzante. I ra-gazzi erano sdraiati al riparo di un terrapieno,i fucili puntati verso i francesi oltre il guado.

Aprii la portiera della Lancia.“Non farlo” sussurrò Mario “cercherai

grane.”Scesi. “Quello è Ciano” dissi alla Gremmo

additandolo con il capo.“Fatti i cazzi tuoi, Bertinetti” rispose lei sen-

za neppure guardarmi, la custodia del revolverslacciata.

Scesi verso il guado spelandomi le scarpesui sassi di fiume. Il vento era più forte che incittà; Galeazzo Ciano, presidente del Consiglio,genero e delfino del Duce, camminava lenta-mente lungo l’argine senza allontanarsi daisuoi sorveglianti.

C’era fermento sulla sponda in mano aifrancesi, finché una Renault civile venne versodi noi lungo il ponte di barche. CostanzaGremmo tornò a passo rapido verso l’acqua.“Avverti i tuoi di stare pronti, Bertinetti” mi dis-se piano “e speriamo non ce ne sia bisogno,altrimenti ci massacrano tutti quanti.”

Tornai indietro. Le guardie rosse preseroCiano per un braccio riportandolo verso laLancia, Costanza scese a piedi incontro allaRenault.

E poi tutto precipitò. Il rumore dell’acquadi aprile si trasformò in un rombo di pale mec-caniche. Due elicotteri schizzarono fuori dalleciminiere di una fabbrica di cemento abban-donata sull’argine, in direzione di Venaria.

“Bertinetti!” strillò Costanza con un salto“l’autoblindo, Bertinetti!”

In un attimo gli elicotteri furono sul pontedi barche. Dalla sponda francese spararono,ma non contro di noi: un missile anticarro sce-se dal cielo, tranciando il guado in una nuvo-la di acqua e fuoco proprio all’altezza della Re-nault.

“Le camicie nere!” esclamai. Erano elicotte-ri fascisti, non francesi. Il prato si riempì di ru-mori. I miei facevano fuoco sugli elicotteri dadietro il terrapieno, i francesi cercavano di imi-tarli. Le guardie rosse trascinarono quasi di pe-so Galeazzo Ciano fino alla Lancia, mentre unamitragliatrice ci sparava contro dal cielo.

Costanza Gremmo ci raggiunse, voltandosi

ogni pochi passi per sparare con il suo revol-ver. La mitraglia dell’autoblindo cominciò asparare, uno degli elicotteri virò bruscamente,planando sul pelo dell’acqua. Mario aveva giàrimesso in moto: vidi con la coda dell’occhioche tutti stavano risalendo sulle automobili,nessuno sembrava colpito.

Gli elicotteri furono costretti a ripiegare,tornando verso la fabbrica, mentre i francesisull’altra sponda presero a sparare sull’auto-blindo.

Ci muovemmo. Cacciai il garand fuori dalfinestrino e cominciai a sparare. Nei duecento-cinquanta metri che ci separavano dalla som-mità dell’argine, solo un proiettile colpì il cofa-no della Lancia. L’autoblindo continuo a tossi-re fuoco verso l’altra sponda, e poi tutti fum-mo in salvo.

Costanza Gremmo bestemmiava come unferito, le guardie rosse si erano strette controCiano sul sedile posteriore dopo averlo spinto-nato lungo tutto l’argine per sottrarlo al fuocofrancese.

Sentivo il sapore di sangue in bocca, dove-vo aver battuto le labbra contro il calcio delgarand. “Un’imboscata!” imprecava incredulaCostanza “stronzi merdosi, un’imboscata!”

Teresita mi si era aggrappata al braccio etremava come una bambina. Mi voltai indietroper cercare dal parabrezza se gli elicotteri ciseguissero.

“E adesso?” disse Mario.“Zitto, stronzo” lo tacitò Costanza Gremmo,

e poi sporgendosi verso il sedile anteriore miafferrò per la giacca. “Ho ordini precisi” misussurrò all’orecchio “proseguiamo verso Chi-vasso, senza tornare sulla statale.”

Sospirai. “Mantieniti sull’argine” dissi a Ma-rio. Lui armeggiò con un accendino tunisinomentre guidava, tossendo una nuvola di fumocontro il parabrezza. Mi sembrava incredibileche nessuno dei miei fosse stato colpito.

* * *

La brace rossa della sigaretta era a un milli-metro dalla mia palpebra. Potevo sentirne ilcalore fuorilegge attraverso l’ecchimosi sull’oc-chio.

“Ricominciamo” disse la voce dell’ispettore“levate di mezzo quella sigaretta e mettetelo asedere, mi fa schifo così accasciato.”

Mi sentii sollevare per le ascelle. Tornai sul-la sedia, appoggiandomi con i gomiti allo

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partito la questura non aveva potuto opporsi:non poteva avere dimenticato l’oltraggio diquel giorno, al ballo studentesco di pochi me-si prima, quando avevo baciato Teresita sullabocca davanti a tutti. Mi ritrovai addirittura apensare che il mio coinvolgimento nella con-giura dell’attentato fosse una sua idea per le-varmi di torno.

La macchina attraversava le vie di Torino indirezione Rivoli. Avevo già sentito parlare dipersone gettate giù da auto in corsa, oppuremassacrate di botte in una strada di periferia.

L’aria fresca del finestrino mi svegliò deltutto. C’era profumo di caffè, e un traffico ec-cezionale in città: operai in utilitaria diretti inmontagna o ai laghetti per il fine settimana,gente che forse non si preoccupava se altri ve-devano il cielo a griglia da una finestra di pri-gione, gente che forse non si preoccupavaneppure se il sottosegretario agli Interni erastato assassinato dai comunisti in via Po conuna carica di tritolo diretta a Ciano.

“Dove andiamo?” domandai a Vassallo, maquasi non feci in tempo a finire la parola cheuno schiaffo mi frustò la bocca.

“Taci” mi intimò la camicia nera. Vassallo sivoltò appena.

Prendemmo la tangenziale, l’autista sparò ilclacson per farsi largo. Superammo in terzacorsia per tutto il tragitto fino all’aeroporto.

Nessuno disse una parola. Io pensavo chefinché rimanevo in mezzo alle due camicienere non potevano buttarmi giù dall’auto incorsa.

Entrammo da un cancello laterale che davaaccesso alle piste dell’aeroporto. Accostammoaccanto a una vettura di servizio, quindi siaprirono tutte le portiere. Le camicie nere qua-si mi spinsero giù, aprendo l’altra vettura...

...sul sedile posteriore era seduta Enrichet-ta, e accanto a lei Teresita.

Oh no, pensai, Enrichetta non deve vedermicosì. Fece per venirmi incontro, ma forse sivergognava di tutta quella gente. Vassallo si al-lontanava fumando, dandoci le spalle. Teresitascese, andandogli dietro.

“Ci hanno espulsi, Edo” disse mia moglie“ci imbarcheremo sull’aereo per Damasco.”

Riempii i polmoni di aria, ma bruciavano disangue raggrumato. “E’ stata Teresita a convin-cere suo marito a farmi liberare?” domandai alabbra rotte.

Enrichetta mi prese sottobraccio. Avevo vo-glia di piangere perché mi vedeva in quelle

condizioni. Teresita tornò per scaricare un paiodi valigie che contenevano tutta la roba che ciera consentito portare in esilio.

“Come ha fatto Teresita?” domandai piano amia moglie “c’era un’accusa di cospirazione,per me. Come ha fatto Vassallo a convincere ilgiudice a scarcerarmi?”

“Invece di essere contento...” disse Enri-chetta scuotendo il capo “ce ne andiamo, Edo:sei libero. Avrebbero potuto fucilarti...”

Teresita aveva in mano le nostre valigie, ionon ce l’avrei fatta a portarne neanche una,dovettero dividersele lei e Enrichetta.

C’erano almeno trecento metri fino all’ae-reo di linea, zoppicai, cercando di raddrizzareil busto. Attraverso il velo delle botte, non riu-scivo a provare più nulla per Teresita che pu-re avevo stretto fra le braccia solo cinque gior-ni prima.

Ma rimanemmo indietro, io e lei, mentreEnrichetta consegnava già i biglietti a una ho-stess dalla divisa severa. Il medesimo vento en-trato dalle finestre della palestra da ballo ciraggiunse sulla pista di decollo.

“Sono in debito, dunque” dissi voltandomiverso Teresita.

“Mio marito non fa mai nulla di cui non siaconvinto” rispose lei.

Ero libero. Era vero. Sapevo che era graziea Teresita, grazie a suo marito. Forse è l’ultimavolta che ti rivedrò, pensai. Il vento idiota ave-va ragione: ci stiamo perdendo, abbiamo persotutto. Ma sentivo che mi rimaneva ancora mol-to. Enrichetta tornò a prendere le valigie.

“Addio, Edoardo” disse Teresita “mi rincre-sce per ciò che hai dovuto passare, spero diessere riuscita a sdebitarmi almeno in parte.”

I ginocchi non volevano piegarsi per salirela scala. Merda, pensai, merda su questa cittàassassina. Merda su questo Paese di vigliacchi,su questo continente omicida. Damasco. I pae-si industrializzati, l’oriente ricco e democraticoche chiude gli occhi sul fascismo in Europa.

Il portello dell’aereo si chiuse dietro di noi.Si sarebbe riaperto solo in Siria. L’ultima per-sona che vidi dal finestrino fu Teresita che tor-nava a piedi verso il marito; la prima personache vedemmo, uscendo nella hall dell’aero-porto di Damasco, fu Costanza Gremmo: ciportava il benvenuto del Partito in esilio, unrotolo di banconote e le chiavi di un monolo-cale in piazza Al Yarmouk.

* * *

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gna bollente della febbre contro le tempie.Enrichetta. Sotto le mura, una calca di turi-

sti affollava le bancarelle del mercato notturno.Viaggi organizzati avevano portato decine dimigliaia di persone da Gerusalemme, da Bagh-dad, dalla Turchia per la immensa Fiera di Da-masco. Torce di legno erano conficcate lungole mura fino alla moschea di Sinan Pascià. Po-liziotti in occhiali a specchio controllavano lebancarelle, prostitute greche e spagnole batte-vano la via Al Midan, vestite di lunghi spacchinei caftàn.

La folla mi evitava. Pensai di essere ra-dioattivo. Una vista speciale procurata dallafebbre mi permetteva di seguire varchi di lucetra la folla. Attraversai come in trance cerchi dituristi intorno a mangiatori di fuoco ungheresie turchi, cercai di incenerire con la vista un eli-cottero della televisione che sorvolava l’areadella fiera, camminai come ebbro in punta dipiedi davanti alla moschea Addarouichiye.

Costanza Gremmo. La luna piena sembravaun meteorite rosso industriale nel cielo nottur-no. Il Partito combattente. Uccidere un uomo.Uccidere un uomo. Uccidere un agente fascista.

Volute di fumo sotto le mura della cittadel-la. Una ragazza con un copricapo tradizionalecamminava lentamente lungo i bastioni, pas-sando i polpastrelli negli interstizi della pietrasenza staccarmi gli occhi di dosso. Pensai ve-desse anche lei ciò che vedevo io: la solitudinemicidiale della notte siriana, il veleno agrodol-ce dell’incomunicabilità, il fiele dell’esilio comevolute di fumo denso, di un verde malato.

“Hai la febbre” disse la ragazza. Indossavaun lungo caftàn porpora di taglio maschile, la-me d’oro intorno alla fronte e una sciarpa diseta marrone che scivolava fino quasi ai piedi.

Mi fermai per guardarla. Mi passò davanti,osservandomi con occhi sottolineati di mascara,una bocca rossa di fragola e pelle bianca ariana.

“Aspettavi me?” domandai vedendo le miestesse parole disegnate nell’aria con inchiostrofosforescente.

Ma la ragazza non parlava italiano. La se-guii nella folla, aggirando una troupe televisi-va privata con proiettori da migliaia di watt.

Teresita. L’esilio. Via dall’Italia, via dal terzomondo per venire nei paesi industrializzati: unanno in Turchia come cameriere di pizzeria,poi Damasco e la ditta di autotrasporti. Enri-chetta invece perforava bande di celluloide peruna fabbrica automatizzata. Calice amaro del-l’esilio.

Seguii la ragazza verso l’interno della citta-della. C’erano fuochi d’artificio e luce dapper-tutto. Altoparlanti disposti a intervalli regolarirecitavano poesie di Gibran Kahlil e Tahar BenJalloun. Un grasso siriano mi guardò male:portava una T-shirt con il volto di Mussolini alcentro di un bersaglio sotto la scritta SaddamColpiscilo!

Mi ritrovai aggrappato al braccio della ra-gazza. Aveva ossa piccole da uccello e un pro-fumo di zagara, seguii a distanza ravvicinata lesue labbra rosso verniciato sotto la cacofoniamimetica della fiera. Tenendola sottobraccio,sentii con le nocche qualcosa di duro fra la se-ta del caftàn e il seno. Scostando la sciarpa mimostrò il calcio di un grosso revolver.

Continuai a seguirla al ritmo di poesia deitamburi elettronici. Il cielo era illuminato comeper l’esplosione di una supernova. Una banca-rella vendeva frutta secca del Libano, una co-mitiva di etiopi vestiti all’ultima moda ci sor-passò schiamazzando.

“Chi devo colpire?” domandai, evitando discrivere le parole luminose sulla sua pelle.

“Ti mostrerò io” sussurrò “pensi di essere incondizioni di fuggire, dopo?”

La cancellata di ferro intorno a un cedro delLibano era ricoperta da giovani siriani in blue-jeans, uno schermo panoramico contro un edi-ficio mostrava immagini pubblicitarie mentre lamia guida dalle labbra di fragola mi scortavaattraverso la violenza dei suoni.

“Lo bacerò sulla fronte” aggiunse la ragaz-za parlandomi all’orecchio. Provai la tentazio-ne di staccarle l’orecchino a morsi.

Si sganciò lasciandomi solo. Mi aveva infi-lato il revolver sotto la camicia. “Ti rivedo, fi-nalmente!” esclamò a voce alta guardando ne-gli occhi un uomo di mezza età, evidentemen-te europeo, che si intratteneva con alcuneorientali davanti a una macchina della realtà.

L’uomo non capiva, ma sorrise alla ragaz-za, lei si alzò in punta di piedi e lo baciò allafronte come un vecchio amico. L’uomo rise digusto.

“Che porco!” commentò quasi compiaciutauna delle sue donne.

L’uomo non rise più quando vide l’armanella mia mano. Impallidì, ma non alzò nep-pure un dito per tentare di difendersi o fuggi-re. Evidentemente sapeva. Sparai tre colpi alcuore in rapida successione, quasi nascosti dairumori della festa.

Sentii cadere il revolver in terra. Grida più

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Mi strinsi nelle spalle, ma sentivo gli occhiumidi. “Dopo la resa incondizionata agli al-leati, Mussolini troverà le forze per contrat-taccare. Manderanno le camicie nere, dobbia-mo essere pronti a difenderci, non posso ab-bandonare adesso. E poi, oggi pomeriggio cisiamo tagliati tutti i ponti alle spalle, hai vistoanche tu.”

Uno stormo di aerei a reazione passò bas-so sull’orizzonte, diretto verso Ivrea. MarioVassallo dormiva.

“Ma a Enrichetta non pensi?”Sospirai. “Ci penso sempre, invece. Altri-

menti perché credi che non...”“Taci!” esclamò senza alzarsi dalla mia

spalla.Dopo una svolta intravedemmo un movi-

mento in fondo alla strada, fermai la macchinasulla banchina e levai il binocolo dal cruscotto.

“L’esercito?” domandò Mario svegliandosi.Annuii. “E’ meglio che io torni indietro” dis-

si “deve essere quella colonna inviata da No-vara. Potete aspettarli qui.”

Non riuscimmo più a parlare. Per qualcheminuto rimanemmo a seguire il movimentodella colonna in avvicinamento, poi Mario Vas-sallo scese allontanandosi di qualche passocon le mani in tasca.

Teresita sospirò a fondo. “Promettimi che vifarete vivi” disse con voce rauca.

“Prometto” risposi a labbra strette, mentendo.Mi prese la mano. “Edo, io...”Mi guardava negli occhi. Mi aveva sempre

guardato negli occhi, senza velleità di seduzio-ne, ma con una sincerità che mi convinceva acorteggiarla con discrezione. “Ho bisogno chetu ti faccia vivo, e presto. Avrei bisogno dispiegarti alcune cose che non avevo capito.”

Sorrisi a forza. “Certo. Le stai già spiegando.”I mezzi corazzati erano vicini. Avrebbero

cercato di riprendere il controllo della periferiadi Torino.

Teresita mi si aggrappò al braccio. Avevaun profumo nostalgico, troppo dolce. “Avrem-mo dovuto conoscerci in tempi meno sangui-nosi” disse con amarezza “forse avremmo po-tuto frequentarci, noi quattro, e andare d’ac-cordo...”

“Non c’è più tempo” sospirai per tagliare“ma passeranno anche questi anni. Dimenti-cheremo la guerra, tornerete dalla Francia e cirivedremo.”

“Ma quando sarà? Saremo già vecchi?”“Non sarà mai troppo tardi” replicai a occhi

chiusi, perché invece era davvero troppo tardie le lacrime mi filtravano dai pori delle palpe-bre.

Sentii aprirsi la portiera. Teresita scese, Ma-rio tornò verso di noi. “Voglio rivederti” dissedeciso “ho un debito.“

“Taci” risposi “il debito ero io ad averlo.Ora siamo pari.”

“Non è vero. Tu l’avresti fatto comunque.”“Anche tu. Ora devo andare, stanno arri-

vando.”Una stretta di mano attraverso il finestrino.

Scesi. Teresita alzò le mani; le sue labbra era-no tiepide e bagnate di sale sulle mie. Un ven-to idiota non dava tregua ai suoi capelli.

Si allontanarono. “Vassallo!” gridai improv-visamente “io e Teresita non abbiamo mai...”

“Taci!” esclamò imperiosamente. Si voltaro-no per l’ultima volta.

Sentivo un crampo di morte al ventre. Ri-partii verso Torino, sbandando perché avevogli occhi appannati.

L’aria si era fatta più fredda, come per ade-guarsi al vento idiota che soffiava dal vuotodella mia gabbia toracica. Quasi non vedevo lastrada.

Sulla tangenziale di Venaria incontrai l’au-toblindo e i ragazzi seduti nell’erba, sotto unalbero.

Non parlarono ma mi seguivano con losguardo. Scesi dalla Lancia consegnandola auno dei miei, sedetti sul sedile posteriore del-l’Alfa, accanto a Costanza Gremmo. Le dueguardie rosse erano sul sedile anteriore, ilcorpo di Galeazzo Ciano doveva essere nelbaule.

Costanza non domandò nulla. Teneva an-cora in grembo il mitragliatore dell’esecuzione,come un cimelio destinato ad acquistare valo-re nel tempo.

“Grazie” sussurrai sedendomi. I ragazzi tor-narono all’autoblindo strascicando i piedi, ri-partimmo diretti verso la colonna di fumo ne-ro che era Torino.

Il dado era tratto. Il Partito si era tagliatotutti i ponti alle spalle con l’esecuzione di Cia-no: era uno schiaffo in faccia agli alleati, unarivendicazione di autonomia dalle forze cheavevano schiacciato la dittatura.

Ma quanto era caro il prezzo: Torino bru-ciava, le campagne erano piene di soldatisbandati, le ferrovie distrutte, i ponti saltati inaria. In metà del paese il PNF non esisteva più,la nazione era in ginocchio, la marina si stava

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PRIMA ITERAZIONEMODELLO APPROSSIMATIVO DI RAFFICHE DI ERRORI

Anzitutto si riscontrano delle ore nel corso delle quali nonc’è alcun errore. In base a questo fatto, ogni intervallo ditempo affiancato de due intermissioni della lunghezza diun’ora o più si propone sotto specie di “raffica di errori”,che verrà considerata di “ordine zero”. Osserviamo poi piùattentamente una di queste raffiche. Vi distingueremo di-verse intermissioni di 6 minuti o più, che separano delle“raffiche di errori di ordine 1”. Analogamente, ognuna diqueste ultime contiene numerose intermissioni di 36 se-condi, che separano delle “raffiche di ordine 2” e cosìvia..., ogni raffica fondandosi su intermissioni dieci voltepiù brevi della precedente. In questo risultato, la cosa piùnotevole è che le distribuzioni di ciascun ordine di raffichesi sono rivelate identiche, dal punto di vista statistico, ri-spetto all’ordine immediatamente superiore.

Benoît Mandelbrot

Solo gettando un’ennesima occhiata casuale allo schermo, do-po diversi minuti che osservavo il file della sua cartella clinica, miresi conto che l’insieme di Mandelbrot utilizzato per riprodurre iprogressi della dermatite di mia moglie Carmen era in realtà unamappa dettagliata della sua cavità uterina. La costa interna del la-go di Mandelbrot disegnava l’endometrio, dove la curva frattale sifrantumava in una polvere di colori attraversando la frontiera del-

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Saluti dal lago di Mandelbrot

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domi al braccio quando cercai di attraversarela porta.

“Cazzo vai, Matthei?” disse.Tastai con le dita la custodia del CD nella

tasca della giacca. “Cerco Lele,” dissi.“Non c’è,” rispose Messina controllandomi

con un occhio solo attraverso la lente seethru’.Guardai alle sue spalle lo schermo del

mixer dove Lele Muriatico stava in equilibriosu una gamba sola, la testa imprigionata in uncasco che gli copriva occhi e orecchie.

Messina seguì il mio sguardo. “Ha da fare,”rettificò.

“Mi siedo in un angolo,” sospirai, “ho biso-gno di lui.”

Entrai nella luce obliqua del capannone. Lepareti dell’antica officina erano nude, gli spet-tatori sedevano contro le colonne o in cerchiointorno a Lele Muriatico. Stavo per sedere an-ch’io in silenzio, ma quando lui percepì la miapresenza posò in terra la gamba sollevata. Miguardò attraverso la museruola cieca del casco,quindi avanzò guardingo verso di me seguen-do un tragitto labirintico, come per evitare og-getti virtuali sul cemento del capannone.

“Messina dice che hai bisogno di me,” dis-se nel microfono. Sentii gli occhi di tutti ad-dosso. Sfilai di tasca il CD, consegnandoglielo.Muriatico riattraversò in punta di piedi unaspiaggia butterata di granchi virtuali, lasciandoil CD in mano a una ragazza che avevo vistosuonare il contrabbasso tascabile nel comples-so di Messina.

“Adesso?” domandai, infastidito che tutti ve-dessero. Il lago di Mandelbrot dell’utero di miamoglie Carmen si materializzò dal nulla nell’ho-lobox sospeso al soffitto del Tuttapposto.

“Sei venuto per questo, Matthei?” domandòLele Muriatico.

Mi slacciai il nodo della cravatta. Ciò che èpolitico è anche personale, pensai. “È quelloche ho trovato quando ho aperto il database dicui mi hai fornito la password” dissi “era cata-logato come cartella clinica di mia moglie.”

Tutti guardarono la didascalia sotto i geodicancerosi di Julia che erano le ovaie di Car-men. ECZEMA DIATESICO SUB-ASCELLARE INFASE DI REMISSIONE. Lele Muriatico passò lalingua sulle ragadi agli angoli delle labbra, os-servando la stessa immagine nello schermodel casco. Allungò una mano a dita aperte co-me per penetrare la vagina frattale di Carmen.Annuì.

“Dobbiamo parlare da soli,” disse, “mi rin-

cresce per i compagni, la festa è finita.”

* * *

“Oberhof,” ricordò Lele Muriatico dalla vol-ta precedente, quando mi aveva trovato la pas-sword per il sistema privato del laboratoriomedico. Stava masticando una gomma ipnoti-ca mentre planava attraverso i nodi della reteautostradale digitale. “Analisi cliniche. ViaDiaz.”

Per seguire la sua discesa mi aveva messoin mano uno schermo a cristalli liquidi. Le rap-presentazioni tridimensionali di ammassi di da-ti che superava nel suo viaggio pneumaticoapparivano e scomparivano in traslazione lo-rentziana.

Muriatico stava vagliando rapidamente lecaratteristiche della cartella clinica di Carmencon un software illegale. Mi domandai comepotesse distinguere fra le visioni del chewinggum al peyote e le costellazioni virtuali del ci-berspazio. Afferrai un paio di occhiali sinto-nizzandoli sulla frequenza dello schermoLCD.

Il frattale L seno, di valore reale = 1 e valo-re immaginario = 0,4, esplose l’insieme di Juliadei neuroni di mia moglie sull’ologramma de-gli occhiali seethru’. Arretrai istintivamente difronte alle autostrade filamentose di impulsibioelettrici che collegavano le cellule neurali,impressionato dalla velocità di Lele Muriaticonel navigare l’oceano della memoria di Car-men.

“Steganografia” disse Muriatico. Perforò ilcorpo calloso avvitandosi verso il basso, in di-rezione del ponte di Varolio, per uscire dalla ri-produzione tridimensionale. Toccò uno switche ci ritrovammo a circumnavigare la forma atubo di un capello di Carmen, delle dimensio-ni di un oleodotto.

Riconobbi la parte terminale delle rive dellago di Mandelbrot. Oberhof aveva seleziona-to un singolo filamento ritorto per fare da cam-pione ai capelli di mia moglie.

“Ste-ga-no...?” domandai.“Steganografia” ripeté Lele Muriatico senza

cessare di planare intorno al capello. Sintoniz-zai sul suo sistema i miei occhiali seethru’ ac-cantonando con sollievo lo schermo LCD. Mu-riatico ripiombò in picchiata verso la radice delcapello, sollevandosi poi in verticale. Adessol’albero nodoso a 16 milioni di colori sembra-va un vaso sanguigno che si frazionasse in una

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aperitivo, lo sguardo fisso sugli occhiali cheavevo agganciato al taschino lacerato della ca-micia. Seguendo la fiancata del transatlantico,salii la scaletta per il ponte superiore dove miaccolse una musica assordante.

Il salone era pieno di invitati, parecchi deiquali dovevano già essere in viaggio con fumo,pastiglie o alcool. La colonna sonora era una diquelle sinfonie biologiche della Echaurren chemi sconvolgevano: se ricordavo bene, si tratta-va di Metastasi ossea / ultimo stadio.

Intravidi da lontano mio cognato Claudio.Tenendomi nascosto dietro una zigurrat difrutta che faceva da baricentro, ruotai lungol’asse del ponte per esplorare la festa senzache Claudio mi scorgesse, sperando che nonavesse selezionato il cercapersone dei suoiseethru’.

Gruppi di giovani borghesi più bruciate deicyberpunk al Tuttapposto giacevano sdraiatesotto gli oblò. L’onda viscerale bassa di Meta-stasi ossea martellava il mio timpano con insi-stenza nichilista da amplificatori non più gran-di di un pugno. Seguii per mezzo minuto leparole della sinfonia sulla lente degli occhiali,poi la sollevai annoiato.

Incontrai una collega di mia moglie checercò di fermarmi. Le sorrisi cercando di te-nermi in ombra, ma probabilmente vide glistrappi del filo spinato sulla camicia.

Fu Carmen a trovarmi grazie all’indicatoreluminoso del cercapersone nei suoi occhiali.“Ma che fai?” disse prendendomi sottobraccioper portarmi in un angolo “Ti sembra l’ora diarrivare?”

Mi schiarii la gola. “Ascolta, non mi sentotroppo bene. Avrei bisogno di parlarti. Voglia-mo uscire sul ponte lance?”

Carmen mi scrutò da capo a piedi. “Che haifatto? Guarda, hai del sangue sul braccio...”

Mi grattai nervosamente la piega del gomi-to. “Niente. Una zanzara.” la presi per il polso,guidandola all’aperto. La notte del Golfo erasatura di umidità, come una cupola di evapo-razione permanente. I laser di discoteche lon-tane verso Capo Miseno sciabolavano la nottecome alla ricerca di oggetti volanti da identifi-care.

“Ma che ti è capitato?” ripeté premurosaCarmen “Sei tutto strappato, e quei calzoni...”

Feci un gesto abrasivo. “Lascia stare, non ènulla. Per la fretta ho attraversato un campocintato, al buio non vedevo niente. Devo fartivedere una cosa: dove troviamo un PC?”

Carmen batté le palpebre. “Un PC? Per fareche?”

Rigirai fra le dita la custodia del CD con lasua cartella clinica. “Ascolta... E’ cambiatoqualcosa ultimamente nella terapia diOberhof?”

Percepii quasi fisicamente il suo irrigidi-mento. Incrociò le braccia, alzando il capo ingesto di sfida. “Come sarebbe a dire cambiatoqualcosa? Mi hai già fatto la stessa domandaprima, quando mi hai chiamato dal coiffeur.”

Le feci cenno di abbassare la voce. “Sta ar-rivando gente. Ascolta, Oberhof ti ha sottopo-sta a esami particolari? Che so, una scanneriz-zazione totale, una colorizzazione endoscopi-ca, un...”

Carmen si girò di scatto per tornare nel sa-lone della festa. “Ma che vuoi adesso?” disse al-terata, senza voltarsi, “arrivi qui con tre ore diritardo, dopo che ti ho aspettato come una sce-ma con quei deficienti dei tuoi colleghi che fa-cevano i pappagalli, tutto sporco e stracciatocome un ladro, e ti metti a fare domande sullamia terapia medica?”

La seguii a balzi. “Carmen, aspetta! Devosolo farti una domanda, Carmen!”

“Fatti una doccia fredda,” aggiunse con ungesto di malaugurio della mano tesa.

La raggiunsi nel salone, la presi per il go-mito davanti agli invitati. “Non arrabbiarti, vo-levo solo sapere dei progressi della... Dei tuoiprogressi. E poi come sarebbe che i miei col-leghi facevano i pappagalli? Quali colleghi?”

Si voltò per affrontarmi, rossa in viso. “Ah!Che bravo, eh?” gridò “I miei progressi, eh? Imiei progressi non esistono, e lo sai,” così di-cendo si sfilò la giacca di cotone blu gettando-mela addosso. “Se di progressi dobbiamo par-lare, possono essere solo progressi della der-matite. Mi sta mangiando viva, non vedi?” Car-men era sconvolta. Si sfilò la T-shirt da mari-naio e me la gettò ai piedi, restando a seno nu-do. “Lascia che vedano tutti,” strillò ormai in-controllabile, rossa di rabbia e tutta spettinata.“Signore e signori, Maria Carmela Storaro sof-fre di dermatite. Guardate qua: eczema atopi-co? Cancro cutaneo? Psoriasi acuta? Chi è sen-za idee scagli la prima pietra.”

Sentii affluire il sangue al viso. “Carmen, la-scia stare,” sussurrai. Non avevo il coraggio diguardare in viso gli invitati.

“Diciotto mesi” proseguiva Carmen rossa difuria, sollevando un braccio e premendo conl’altra mano sotto il seno per mostrare la chiaz-

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“Steganografia. Ti fornirò il nome di unamico adatto a risolvere il tuo problema di co-dici. Ecco, la trasmissione è completata.”

Grugnii. “Quando ti farai vivo?”“Ho bisogno di qualcosa. Cento. Mi sto na-

scondendo.”Inspirai profondamente. Estrassi di tasca il

numeratore del mio conto corrente, avvicinan-dolo al microfono del VT. “Te ne accredito 50,”dissi controllando il saldo nella lente degli oc-chiali, “per ora non ho di più. Componi il nu-mero.”

Lele Muriatico obbedì. “A presto” disse persaluto “ah, a proposito, Matthei: complimentiper tua moglie.”

E svanì dal video. Che diavolo vuoi dire?pensai estraendo l’intercom dalla slitta. Tornaiall’automobile rabbrividendo per le raffiche divento freddo dal Golfo.

Carmen aprì un occhio appannato perguardarmi senza fiatare. Trovai un varco nelflusso del traffico, svoltando a U per tornareverso il Maschio.

Via Nuova Marina, m. 700 direzione ove-st/sudovest - via Cristoforo Colombo, m. 450

direzione sud/sudovestCollegai l’intercom alla slitta della TV nel

cruscotto. Senza staccare la mia attenzione dal-la strada, vidi apparire sullo schermo tutta unaserie di ventricoli bronchiali. Seguì un gomito-lo di vasi sanguigni frattali così intricato da la-sciare poco spazio per immaginare organi etessuti muscolari Mi sembrò di vedere unarappresentazione organica della città dalle stra-de aleatorie di Cantor e Lévy, con trema a for-ma di vaso sanguigno che si moltiplicavano in-tersecandosi all’infinito senza lasciare postoper gli altri organi.

Scollegai l’intercom e le informazioni rice-vute da Lele Muriatico. L’automobile rollavalentamente sotto le luci di fianco al municipio,mentre gruppi di ragazzi in uscita notturnapasseggiavano a piedi sul lungomare. Poliziot-ti con grossi fucili a idrante stazionavano al-l’angolo dei giardini.

“Stai attraversando la più bella notte delTirreno degli ultimi tre mesi,” disse una ragaz-za dai lunghi capelli neri affacciandosi da unastazione TV di Anacapri, “se non fosse per al-cuni milioni di tonnellate di ossido di carbo-nio, potresti vedere il piano dell’ellittica dellaVia Lattea.”

Sfiorai con il polpastrello dell’indice il qua-dratino rosso in basso a destra dello schermo.

Apparve una scritta in sovrimpressione,

MARIA PRIMULA ROSSI.Via Ferdinando Acton, m. 500 direzione

sudovest - via Toledo, m. 1.200 direzionenord

Svoltai con precauzione verso piazza Plebi-scito, cercando di evitare gli ubriachi distesisulla carreggiata. Presi d’infilata il segnale del-la torre del traffico, cedendo la guida al pilotaautomatico che mi incolonnò lungo la rettatangente di via Toledo. Davanti alla Galleria,un mangiatore di fuoco dalla pelle colore caf-felatte eruttava vampate verso il cielo, sotto losguardo vuoto dei caschi antisommossa dellapolizia. Fissai lo sguardo su di loro per tre se-condi, ma all’interno delle lenti lessi INFOR-MAZIONE NON DISPONIBILE. Una pattuglia diviados colombiani ci superò in moto, la metàsuperiore del viso filtrata da visiere seethru’.

Un cannone sparava fiori olografici dallacertosa di San Martino. Ricordai i medaglioni dicarne che avevo mangiato una sera con Car-men, affacciati al pergolato di pampini verde-rame, appena prima che il ristorante chiudesseper la notte, con il vento che mulinava tova-gliolini di carta sul cemento.

Sfilammo con lentezza da autostrada ameri-cana sulla leggera salita di via Toledo. Giuntiin fondo ripresi il controllo dell’auto e par-cheggiai dietro il monumento a Dante, mentrele luci teleguidate delle altre vetture prosegui-vano verso la tangenziale.

Calai il finestrino, Carmen sospirò girando-si dall’altro lato.

“Le due e trenta di notte,” cantilenò sotto-voce la ragazza da Anacapri, Maria PrimulaRossi. “Martedì 26 aprile. Cosa altro vorrestefare di martedì 26 aprile, a quest’ora del mat-tino, se non scendere nell’acqua fino al mentoper lasciarvi galleggiare con una leggerezzasostenibile?”

La ragazza aveva grandi occhi chiari, unamascella triangolare e capelli spettinati comeCarmen. Scesi senza fare rumore, raggiunsi lacabina VT sotto il monumento a Dante e com-posi il numero di casa, connettendo l’intercom.Digitai il codice appoggiando il numeratore almicrofono, poi diedi istruzioni al sistema do-mestico.

Avvicinai gli occhi al binoculare della cabi-na. Vidi due triangoli isosceli di colore rosa avertice ottuso, contro un velo di sangue cupo.

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lizzata dal troppo uso, gli anfibi sul tappetoperuviano regalatoci da mio cognato Claudio.

“Cos’è accaduto ieri sera al Tuttapposto?”domandai tendendogli la minerale, “si è fattomale qualcuno?”

“Eravamo tutti preavvertiti, Muriatico ha in-stallato un sistema di allarmi elettronici che letestedikuoio neppure si sognano.” Armeggian-do con il telecomando, Messina sintonizzò ilmio TV sulla stazione di Anacapri. Primula Ros-si adesso era inquadrata a mezzo busto, con ungrosso revolver ad aria compressa sulla scriva-nia dello studio, in mezzo alle mani posate sulpiano come per una seduta spiritica.

“Cosa ti ha mandato a fare, Muriatico?” do-mandai, veramente stanco. Rimpiansi di nonaver assaggiato il kebab insieme a Carmen per-ché sentivo anche fame.

Messina materializzò un CD senza custodiafra le dita, senza staccare gli occhi dalla an-chorwoman di Anacapri. “Una collezione inte-ressante,” commentò, “Muriatico ha detto diavvertirti che nei database di quel medico c’èuna ricostruzione completa del corpo di tuamoglie. Ti confesso che mi piacerebbe vederladi persona.”

La minerale mi andò di traverso, e tossii.Avrei preferito che Lele Muriatico non propa-gandasse il lavoro che gli avevo richiesto. “Eper la stegografia?” domandai comprimendo latrachea, mentre sentivo scorrere l’acqua neiservizi igienici. Carmen stava facendo la doc-cia.

Messina mi guardò come se non compren-desse. “Ah, il least significant bit. Il CD com-prende anche una lista completa del contenu-to degli ottavi bit. Ma da questo a trovare il co-dice il passo è lungo... Non so se Muriatico sa-rebbe in grado.”

Primula Rossi aveva appoggiato la testa sul-la scrivania, accanto alla pistola. La camera leinquadrò la parte superiore del viso, fra l’an-golo del labbro sinistro e i capelli, includendoun occhio e mezzo e l’orecchio traforato dallelinguette metalliche del circuito elettroniconeurale. “La modernità sta distruggendo il tes-suto connettivo sociale,” recitò la ragazza,“l’urto della tecnologia è insopportabile peruna civiltà ancora impreparata. Non siamoriusciti a evitare lo shock del futuro, che ci stacolpendo con la stessa violenza della polizianel chiudere i centri sociali.”

“E chi sarebbe in grado?” insistei, stringen-do i denti nel vedere la suola degli anfibi sul-

la lana delle Ande.“Muriatico mi ha incaricato di accompa-

gnarti da un amico, a Lacco Ameno. Se c’èqualcuno che può aiutarti con il tuo problemadi steganografia, è lui.”

In quel momento rientrò Carmen dalla zo-na notte dell’appartamento. “Dove vorresti an-dare, a quest’ora?” domandò. Aveva i capellibagnati incollati alla fronte e al collo, aggrovi-gliati in ciocche umide sulle spalle. L’acquache avevo sentito scorrere era per lo shampoo.

Controllai la reazione di Messina, che nonconosceva mia moglie. Sta confrontando l’ori-ginale con la copia frattale di Oberhof, pensai.

Messina abbassò le lenti seethru’, ma nonpotevo sapere quali informazioni cercasse. Do-po qualche secondo sorrise. “Posso fumare?”domandò estraendo dal chiodo uno spinellotranciato a metà.

Carmen lo incenerì con lo sguardo, poi gliindicò in silenzio la porta della terrazza. Lui sialzò pesantemente, uscì e rimase affacciatocon il viso e una spalla mentre accendeva iljoint con un piezoelettrico.

“Sono le tre passate,” disse Carmen andan-do a sedersi al posto di Messina, sul divano.Raccolse la propria giacca dal cuscino voltan-dola al contrario per coprirsi le braccia e ilventre.

“Devo uscire un paio di ore,” dissi pensan-do di cambiarmi la camicia strappata, “è me-glio che tu vada a letto.”

Carmen osservò Messina nella portafinestraaperta. “Gradirei che tu mi dicessi cosa sta ac-cadendo,” disse, “cosa significavano quelle do-mande sugli esami clinici di Oberhof, giù al-l’Immacolatella?”

“Oh-oh,” disse Messina traendo una bocca-ta di pakistano nero, “scannerizzazione corpo-rea?’

Carmen trattenne il respiro. “Me l’hai chie-sto anche tu... Cosa hai visto nella mia cartellaclinica?”

“Fa’ vedere quel CD a tua moglie,” disseMessina.

Carmen si irrigidì. “Cosa c’è da vedere? Co-sa sa questa sottospecie di punk della mia car-tella clinica?”

Sentivo un’emicrania esiziale. Avrei volutouscire in terrazza a dare il cambio al joint diMessina, pur di prendere aria fresca. “Oberhofnon si è limitato a produrre una mappatura deltuo eczema,” dissi con una voce secca che mistupì. “La cartella clinica contiene una...” guar-

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de. Non c’erano altri passeggeri per Ischia ol-tre noi tre. Finalmente l’attrito del vento sui ca-pelli di mia moglie rallentò, la nuvola simile aun frattale plasma che le circondava il profiloricadde sulle spalle.

Uscii insieme a lei, seguendo con gli oc-chiali seethru’ le operazioni di attracco del tra-ghetto a un molo di cemento nanocostruito. Ilporticciolo di Ischia sapeva di notte e catrame,un trasmettitore lanciava raffiche di segnali ot-tici alla torre del traffico di Capodimonte.

Messina ci seguì, preannunciato dal fumodel suo spinello. Un’automobile ci attendevasulla strada, riuscivo a vedere a malapena l’au-tista che sporgeva gli occhi dal cristallo. Soloquando Messina aprì la portiera mi resi contoche si trattava di un ragazzo paralitico, dallagrossa testa deforme e dal corpo scheletricocome un internato di lager. DISTROFIA MU-SCOLARE dicevano gli occhiali.

Salii sul sedile posteriore insieme a Car-men. Messina ci presentò il nostro autista, chesi chiamava Dingo. Mentre l’auto ripartiva sen-za che il ragazzo toccasse comando con i mo-vimenti spastici delle mani, Messina sporse lospinello fuori dal finestrino per evitare di infa-stidirci.

Dingo guidò con le connessioni elettroni-che dei comandi innestate direttamente nellevie motorie piramidali in discesa del mesence-falo. Rabbrividii al pensiero del dolore inim-maginabile causato da un intervento chirurgicocosì vicino all’acquedotto di Silvio, tra i pe-duncoli e la lamina quadrigemina.

Occhiali parabolici coprivano completa-mente gli occhi di Dingo. Non avrei giuratoche vedesse la strada in entrambe le lenti: perquello che potevo saperne, uno dei due occhipoteva seguire in quel momento l’agonia esi-stenziale di Primula Rossi in diretta da Anaca-pri in quella notte in fin di vita.

“Cosa siamo venuti a fare?” mi domandòCarmen in un orecchio.

“Dev’essere un esperto di crittografia,” ri-sposi, “senz’altro, se Lele Muriatico ci mandada lui, è in grado di aiutarci.”

Seguimmo lentamente il profilo della costaverso ovest. Dopo pochi minuti Carmen si ab-bandonò sulla mia spalla, Messina gettò ilmozzicone dello spinello giù dalla scogliera.

Tirai giù le lenti dei seethru’ sintonizzando-mi sulla stazione TV. Primula Rossi stava vol-teggiando lentamente sul baricentro della sediagirevole, con gli occhi chiusi, il revolver a

compressione ancora posato sulla scrivania. Latrasmissione sfumò in una neve di pixel ecci-tati, ricomponendosi nell’immagine di Lele Mu-riatico.

“Attenzione ai serpenti a sonagli,” disse,“sei ancora sveglio, Matthei?”

Sussultai. Composi in fretta il suo numeropersonale. “Dove eri finito?” domandai appenarispose, “la prossima volta sei pregato di nonusare l’intestino di mia moglie come salva-schermo.”

“Càlmati. Avevo le mie buone ragioni perscomparire. Le testedikuoio mi stanno dandouna caccia forsennata, hanno intercettato pertre volte le mie emissioni. In questo momentoinvece sono schermato, e sto seguendo il vo-stro tragitto verso Lacco Ameno con un otticodirezionale.”

Mi sentii a disagio. “Vuoi dire che riesci avederci anche a Ischia?”

“Proseguite fino al laboratorio di Dingo. Letestedikuoio non sanno ancora che Messina ècon voi. Penso che il ragazzo sia in grado didarti seriamente una mano. Dagli almeno 200euro quando finisce.”

Una nuova raffica di errori. Ritornò l’emit-tente di Anacapri. “Le cinque e quindici,” Pri-mula Rossi, “ieri notte le testedikuoio hanno fat-to irruzione nel centro sociale di Bagnoli. Alcu-ni compagni hanno cercato un’ora fa di rag-giungere il Tuttapposto per constatare i danni,ma sono stati fermati. Siamo sicuri che Lele Mu-riatico è riuscito a mettersi in salvo. Hasta siem-pre la victoria del proletariato unito.”

Dingo rallentò appena raggiungemmo Lac-co Ameno, poi entrò nel cancello elettrico diuna villa nascosta fra palme nane e macchiamediterranea.

“Ci rifiutiamo di sapere qual è la ragioneche ha spinto gli speznaz ad assaltare il centrosociale. Non vogliamo neppure prendere inconsiderazione le motivazioni della magistra-tura. Le nostre riflessioni, come sempre, sono diordine ideologico. Forse abbiamo trovato unaragione per non usare questa, almeno stanot-te,” terminò la ragazza spostando il revolverfuori campo.

Eravamo arrivati, Carmen stirò le membra.Il sole non accennava ancora a sorgere ma unamezzaluna radioattiva cominciò a spegnere lestelle a oriente.

Dingo aveva meccanismi oleodinamici chesostituivano le gambe atrofizzate. Senza levar-si gli occhiali ci guidò cigolando nel sotterra-

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che Lele Muriatico si era inserito anche sulloschermo del suo sistema privato.

“Le testedikuoio, merda!” esclamò Messinaquasi ingoiando il joint. Dingo si affrettò a in-serire alcuni comandi con il suo senseglove, inequilibrio sugli arti meccanici, per inibire il si-stema domestico.

Messina era salito al piano superiore. “An-date,” ci incitò il ragazzo nascondendo in tascail secondo CD, “non potete seguirmi dove fug-go io. Mi farò vivo con Muriatico per il mes-saggio crittografato appena posso.”

Presi Carmen per mano e salimmo di corsale scale. Messina era scomparso dal cortile, eun suono di pale in avvicinamento tagliaval’aurora del golfo.

Per fortuna sia Carmen che io eravamo ve-stiti di blu scuro. Scivolammo fra le palme na-ne, infilandoci in un giardino di orrendi bonsaideformi, inchiodati con un sistema di irrigazio-ne che sembrava un’osteotassi.

“ESPOSITO, SEI CIRCONDATO,” gridò al-l’improvviso la vegetazione scura. Carmen in-ciampò scivolandomi di mano, poi si levò lescarpe e mi venne dietro saltando a piedi nu-di nell’erba.

Stavo pensando alla fonte della voce, quan-do Carmen mi indicò l’elicottero. “È INUTILENASCONDERSI. ESCI ALLO SCOPERTO INSIE-ME AI TUOI COMPLICI.”

Oltrepassammo la recinzione a cellette ot-tagonali della villa di Dingo. Di Messina nonc’era traccia, ci aveva abbandonati.

Avevamo il fiato grosso. Raggiungemmouna via silenziosa di villette a schiera quandogià le luci si stavano accendendo. Carmen ri-mise le scarpe e rallentammo il passo scen-dendo verso il centro del paese. “Fa’ finta diniente,” le dissi a bassa voce, “tra poco la gen-te uscirà per andare a lavorare e ci potremonascondere nella folla.”

“La folla a Lacco Ameno, alle sei del matti-no,” disse Carmen con una smorfia, “da quan-to non vieni a Ischia?”

Un odore pungente di cibo turco ci rag-giunse. Nella sua baracca a lato della via, unvecchio curdo preparava il manzo arrosto perla mattinata. Entro un’ora il sole sarebbe sortodel tutto.

QUARTA ITERAZIONE - DIGRESSIONE SUISITI DI ARRESTO DEL VOLO DI RAYLEIGH

Supponiamo che un razzo parta da un

punto P (0) dello spazio, in una direzio-ne distribuita in maniera aleatoria iso-tropa. La distanza fra P (0) e il punto P(1), definito come la prima fermata do-po P (0), sarà anch’essa aleatoria, conuna distribuzione prescritta in anticipo.L’essenziale è che i salti assumano soloraramente valori molto grandi, di modoche il valore atteso [ |P (1) — P (0)| 2

] per il quadrato della lunghezza del sal-to sia finito. Il razzo riparte poi verso P(2), definito in modo tale che i vettori P(1) — P (0) e P (2) — P (1) siano indi-pendenti e identicamente distribuiti; es-so continua così ad infinitum. Si posso-no inoltre determinare i suoi siti di arre-sto precedenti P (-1), P (-2), ecc., facen-do agire lo stesso meccanismo in sensoinverso. Dato che il meccanismo nonchiama mai in causa la direzione deltempo, è sufficiente far partire da P (0)due traiettorie indipendenti.

Benoît Mandelbrot

“È il tuo,” dissi quando Carmen trasalì alsuono del suo intercom. Estraendolo dalla fon-dina, trovò il viso di Lele Muriatico.

“Cosa succede?” domandò Carmen mo-strandomi il display.

“Ho paura che abbiano intercettato la fre-quenza su cui ti trasmettevo,” mi disse lui. “Ve-do comunque che siete riusciti a venire fuoridalla villa di Dingo.”

“Bella consolazione,” replicai a denti stretti,“in che congiura ci hai infilato? Perché gli spez-naz ci stanno dando la caccia?”

Ci trovavamo all’interno di un piccolo giar-dino privato, il cui cancello avevamo trovatosocchiuso. Sentivamo lontano le pale dell’eli-cottero, verso la costa.

“La colpa non è mia,” disse beffardo Muria-tico, “doveva esserci qualcosa di davvero sim-patico, in quei frattali che abbiamo copiatodall’archivio del tuo dottore.”

“Ho fred-do,” mi sillabò Carmen stringen-dosi nelle braccia.

“Dove sono Dingo e Messina?” domandai aMuriatico.

“Di Dingo non mi preoccuperei minima-mente. Deve risolvere il problema dei least si-gnificant bit. Messina in questo momento stacercando un mezzo per trasportarvi indietro.”

Vidi aprirsi una finestra al piano terrenodella casa. Presi Carmen per un braccio, ritor-

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tempo e di risorse! Messaggi nascosti dietro adimmagini generate da una formula matematicache contiene anche l’algoritmo di decodifica-zione!”

Il motoscafo correva come un sasso piattosulle onde color malto del Golfo, come un si-luro sganciato verso Capo Miseno. Barcollai fi-no a poppa per vedere se l’elicottero deglispeznaz ci inseguisse.

“È scomparso” disse Carmen con voce ato-na. Compresi che parlava di Muriatico: al suoposto era apparsa una neve grigia di pixel. Laragazza del centro sociale sintonizzò la TV suAnacapri.

“La notte è finita, ma arrivano segnalipreoccupanti” diceva Maria Primula Rossi “ècome se fosse riluttante ad andarsene. Il Tut-tapposto è stato chiuso solo 10 ore fa, ma già cimanca. Però sentiamo i tentacoli di Lele Mu-riatico tendersi come una ragnatela sul Golfo,stamattina. Una ragnatela di intercettazioni einformazioni fra la costa e le colline, potetesentirla se entrate adesso in rete. Hasta la Vic-toria siempre, Muriatico.”

Il pilota deviò improvvisamente, gettandoCarmen sdraiata sulla cuccetta. Persi l’equili-brio, battendo il capo contro la scaletta di al-luminio. Quasi contemporaneamente udii ilsuono confuso di un’arma da fuoco, forse unamitragliatrice. “Ci stanno sparando?” ricordoche domandai.

Debora saltò in punta di piedi su per la sca-letta, affacciandosi al boccaporto. Rimase permezzo minuto a scrutare sul livello dell’acqua,nell’aria gelida del primo mattino che le sevi-ziava i capelli, poi si mise a ridere.

Guardai sbigottito Carmen.“Muriatico è pazzo” disse la ragazza del

centro sociale “pazzo e genio. Penso che stiafacendo credere al pilota di quell’elicottero diessere a Edenlandia.” Così dicendo saltò giùdalla scaletta, sul pavimento del cabinato.

Un suono prolungato interruppe le trasmis-sioni. Al posto di Primula Rossi apparve nien-temeno che Lele Muriatico in mezzobusto. “At-tenzione, qui è Radio Gladio che vi parla” dis-se in fretta con un’espressione seria “Si fotta ilsistema. Ieri sera le testedikuoio hanno spara-to 50 chili di gas tossico nel centro sociale diBagnoli, sigillandolo e devastando le apparec-chiature elettroniche. Per rappresaglia, durantela notte abbiamo messo in circolazione nellarete 32 tipi diversi di virus intelligenti. A tuttigli ascoltatori: se soffrirete di scompensi di si-

stema e perdita di dati durante questa mattina-ta, non credete alle autorità quando vi dirannoche è colpa nostra. I programmi originali deivirus sono depositati presso un notaio di Agna-no, in caso di necessità possiamo dimostrareche si tratta di software appositamente taratoper colpire obbiettivi prestabiliti, unicamentenel sistema informativo del Ministero del Be-nessere.”

Mi arrampicai fino al boccaporto guardan-do fuori. Distinsi a fatica la sagoma dell’elicot-tero della polizia: sembrava sparasse contro leonde virando in continuazione sul proprio as-se. Muriatico doveva averlo bombardato conun fascio di stimoli contraddittori che avevanocortocircuitato il software di bordo. Rimasi sor-preso dalla potenza delle risorse di queglihacker.

Maria Primula Rossi riapparve sullo scher-mo battendo le ciglia, favorevolmente sorpresamentre doppiavamo Procida. “Avete visto an-che voi?” domandò. “È vero, me lo sentivo chein questa notte qualcosa doveva succedere. Letestedikuoio lætabuntur in cubilis suis, e intan-to il Tuttapposto colpisce ancora, dall’esilio!”

Debora si accese uno spinello, rilassandosi.Carmen aveva raccolto le gambe, sedendosisulla cuccetta disfatta. Possibile che stia capi-tando proprio a noi, adesso? pensai.

E poi all’improvviso gli speznaz ci furonoaddosso.

Forse l’elicottero era riuscito a sfuggire alleinterferenze, forse il suo soccorso era giuntoda terra, con un sabotaggio della trasmittentedi Muriatico: sentimmo il rumore delle paleproprio sopra di noi, e un urto sopraccopertaci fece capire che eravamo stati agganciati daun’ancora magnetica.

“Polizia! Fermatevi immediatamente!” ruggìuna voce amplificata. Debora afferrò qualcosasotto la cuccetta e salì verso il boccaportostringendo in mano due lattine simili a succodi frutta.

Abbracciai Carmen perché il motoscafosbandava. Lo schermo TV era un alternarsi diPrimula Rossi e Lele Muriatico sovrastati dal-l’amplificatore della polizia. Era come se fossein corso una battaglia sulla sterminata scac-chiera ciberspaziale fra Capodimonte e le isoledel golfo.

Non riuscivo quasi più a sentire la mia stes-sa voce nel bombardamento degli altoparlantie della TV. Immaginai la battaglia di frequenzesu tutti gli schermi della città. Chiusi gli occhi

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colò la baia lacustre del collo dell’utero, le co-ste ricoperte dalla polvere di colori dei punti diJulia connessi.

Eravamo quasi arrivati alle torri edilizie del-

la Mater Dei. Il sole sbucò in quel momento at-traverso uno squarcio nelle nuvole di smog,colpendo con un angolo di 80º i tetti piatti e ilungomare ventosi di Napoli.

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DURANTE IL TRASFERIMENTO, Arduino Marchetti ricordò il breve flashdi indignazione negli occhi del dottor Ferrari quando gli avevaspiegato che sarebbe stato preferibile iscrivere sua figlia nella li-sta delle meretrices.

“Naturalmente, è per evitare di essere giudicata come adulte-ra” aveva aggiunto Marchetti divertito, sperando in segreto che ilsuo cliente mandasse a monte il viaggio “Nella tarda epoca re-pubblicana, molte signore anche della classe degli equites si di-chiaravano prostitute per aggirare il disonore dell’adulterio.”

Ma non era servito a evitargli quel lavoro. Evidentemente lavolontà didattico-correttiva del dottor Ferrari era più potente del-la eventualità di esporre sua figlia ai pericoli del trasferimento.

Marchetti si vestì della tunica, annodandosi alla vita una cin-tura di lana. Provò il funzionamento di tutti i servomeccanisminano-bio-mec installati nel suo corpo, che avrebbero dovuto ga-rantirgli aiuto in caso di difficoltà durante il viaggio. Non si ac-corse che Terenzia Ferrari lo aveva raggiunto da dietro, e quan-do la udì schiarirsi la gola si voltò infastidito.

“Beh? Come sto?” disse la ragazza allargando le braccia permostrargli la tunica logorata ad arte.

Marchetti pensò che era bella. Quello, almeno, sarebbe servi-to da consolazione per un viaggio che proprio non voleva fare.“Sembri... diversa con quella capigliatura.” disse.

“Visto che effetto?” approvò Terenzia ravviandosi i capelli, tra-sformati in una decina di minuti di trattamento da un biondo li-scio in un riccio castano chiaro.

Il tecnico di trasferimento barricato oltre il vetro insonorizza-

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Frammenti degli occhi di Tiberio

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un dualismo di poteri fra il Senato e il popolo.Roma rimarrà per oltre dieci anni sull’orlo del-la guerra civile. Oggi andrò al Campidoglio avotare la deposizione di Ottavio e la lex Sem-pronia, che prevede la distribuzione delle ter-re pubbliche ai cittadini indigenti.”

“Ehi, un liberal questo Tiberio” disse Te-renzia “cos’è quello?”

“Una thermopolia, un bar del tempo” cosìdicendo, Arduino allungò qualche moneta aIunio che zampettò nei suoi sandali fino allabottega buia.

Terenzia si guardava attorno con occhisbarrati di curiosità. “E questa gente qui farà larivoluzione? Adesso, mentre saremo qui?” do-mandò.

La nausea di Marchetti aumentava. “Nessu-na rivoluzione, ma le riforme di Tiberio Grac-co e di suo fratello Gaio saranno boicottate dalSenato e dall’aristocrazia. Il risultato sarà unaguerra sanguinosissima che scoppierà fra 40anni, la più difficile che Roma abbia mai com-battuto. Una guerra civile che contrapporrà iromani ai loro ex alleati italiani.”

La gente in strada aveva volti tutto somma-to familiari, zigomi ampi, guance floride, nasicamusi, capelli ricci, barbe castane. Iunio tornòcon fette di pane e del formaggio, e un pugnodi olive contenuto in una foglia di fico. “Sonostato tentato di comprare filetto di murena diCadice per la nostra bambina” ghignò “ma for-se non le piacerebbe.”

Terenzia fece una smorfia di repulsione.“Murena?” deglutì “pervertito!”

Mangiarono velocemente, un sapore chestupiva sempre Marchetti per la sua intensitàmalgrado la desensibilizzazione dell’olfatto,continuando a camminare verso l’isola Tiberi-na attraverso le urla dei mendicanti e dei com-mercianti di tutto. Terenzia sembrava eccitatacome una bambina; inciampò due o tre voltesbucciando la punta dei calzari perché stavasempre con il naso per aria. “Ma come fanno aessere così alti quei palazzi?” domandò.

“Speculazione edilizia” spiegò Marchetti. “Esarà ancora peggio fra 50 anni, dopo la guerrasociale, quando i neo-cittadini migreranno adecine di migliaia nell’urbe. Un cenacula aipiani alti di un’insula del centro città arriverà acostare 30 o 40 mila sesterzi l’anno.”

“Mi ricorda quando abitavamo a Tokio”commentò Terenzia “papà era amministratoredelegato di una ditta di import-export. Non riu-scivamo quasi a ricavare di che pagare l’affitto.”

“Ne dubito” commentò Marchetti fra sé e sé.“Pioverà” disse gongolante Iunio gettando

via la foglia di fico vuota “guardate quelle nu-vole. Peccato che le tuniche delle donne sianopiù lunghe di quelle degli uomini, preferireivedere le gambe della ragazza piuttosto che letue.”

Erano quasi arrivati al recinto del tempio diGiove, sul Campidoglio. Iunio corse a infor-marsi: la prima delle quattro tribù urbane, elet-ta a sorte, stava già votando. La tribù successi-va era quella cui Arduino era iscritto con il no-me di Lucio Claudio Pulcro.

“A che ti serve votare?” domandò Terenziasenza staccarsi dal braccio di Marchetti “quelTiberio ha bisogno proprio del tuo voto?”

Arduino Marchetti sospirò. “Lo faccio perte. Papà Ferrari ritiene che sia educativo assi-stere all’esercizio della democrazia diretta.”

“Molto educativo” assentì Terenzia “le don-ne non hanno neppure diritto di voto.”

Per una volta Marchetti dovette ammettereche aveva ragione.

* * *

“Ci sono poche donne” sussurrò Terenziaancora aggrappata al suo braccio, dopo avereosservato con cura la folla radunata nel recin-to del tempio sotto le nuvole.

“Di solito ce ne sono meno ancora” spiegòMarchetti annusando il lieve sapore di limonedel profumo di lei. Non ricordava il comandoper amplificare localmente l’olfatto. “Oggi peròè una giornata speciale. Il popolo è accorso inmassa per contribuire alla vittoria di TiberioGracco, sono molte le donne che trepidanoper la sorte della lex Sempronia.”

Terenzia si passò la lingua sulle labbra. “E’tutto così... aperto, non so come definirlo. Quisi vive all’esterno anche in una giornata cosìfredda. Guarda quelle nuvole: Iunio ha dettoche pioverà.”

Erano in fila nella lunga coda di iscritti del-la II tribù urbana. Al termine del percorso frale colonne, l’ufficiale rogator interrogava unoper uno i cittadini che si esprimevano con unSì o con un No alla proposta di legge e alla de-posizione di Ottavio. Il centurione civile con-trollava che i risultati venissero segnati corret-tamente sul registro.

“Vuoi dire che si vota oralmente?” do-mandò Terenzia “bizzarra democrazia.“

“Nei comizi legislativi lo scrutinio segreto

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“Bella, vero?” domandò Iunio dopo qualcheminuto di silenzio.

“Non ricordo di averla mai vista così” ri-spose Marchetti sospirando “e c’è un silenzioimpressionante. Il solo rumore è una chiattache risale il Tevere.”

“Che cazzo hai capito?” esclamò il nano“sto parlando della tua cliente!”

Arduino Marchetti si voltò verso l’asteriscodi brace della sigaretta. “Ma che cosa ti seimesso in testa?” disse “io, qui, non ci volevovenire. E’ l’ultima volta, giuro: ho bisogno diquesti soldi per operare mio figlio.”

La brace si gonfiò. Il sentore acre del ta-bacco lo raggiunse alla finestra. Il ronzio sot-tovoce dell’auricolare era un sonnifero. “Dimi-nuito il pericolo di alterazioni nell’aderenza difine XIX. Sacche di turbolenza nel II d.C. Siprevede una congiuntura favorevole per i tra-sferimenti nel XXIII a.C. fra 250.000 secondi,ricordiamo come meta il fiorente Impero Acca-dico.”

“Fa freddo” disse Iunio “quanti anni ha?”“22” rispose Marchetti tornando al paglie-

riccio “è figlia di un boss delle assicurazioni.Capitale finanziario. Con il pallino dell’anti-chità classica: il fratello della ragazza si chiamaMarco Tullio. Si è messo in testa di dargli unaeducazione ottimale, ma la figlia non vuole sa-perne. Ma chi ti procura le sigarette? Un inne-sto alla nicotina sarebbe meno pericoloso.”

“Perché non vai nella sua camera?” insistéIunio “scommetto che ti aspetta tutte le notti,da quando siete arrivati. Una ragazza comequella non può restare tanto a lungo senza.”

“Se succede qualcosa a una ragazza comequella, il padre non mi paga” replicò stizzitoMarchetti avvolgendosi fino al naso nella co-perta di lana.

Si riaddormentarono. Stava affrontando unincubo indefinibile quando Terenzia venne asedersi accanto a lui, sul letto.

La luce invadeva la stanza. Arduino Mar-chetti rovistò con la lingua nel sapore collosodel sonno, notando che la ragazza aveva sco-stato la tenda. “Iunio è già uscito a curiosare alvelabrum” gli disse impaziente “ricordi che og-gi dobbiamo recarci al banchetto di AppioClaudio?”

Marchetti sospirò. “Vorrai dire stasera, fraoltre sedici ore!”

“Non vorrai che venga così, vero?” risposelei alzandosi.

Che ci sarebbe di male? si domandò lui, no-

tando che aveva accorciato la tunica da casa fi-no al ginocchio. Si alzò e mangiarono uova so-de con fette di pane.

“Ho visto che Iunio cucina con una piastraa incandescenza” constatò Terenzia.

“Quando siamo in casa da soli possiamopermetterci qualche comodità. Ma non farlo sedovesse essere presente qualche estraneo.”

Terenzia giocò rincorrendo con le unghie leolive greche che Iunio comprava tutte le mat-tine in una thermopolia sotto casa. Marchetti siaccorse che erano trascorsi molti minuti di si-lenzio solo quando lei gli domandò “Senti,perché lo fai?”

Lui mise a fuoco lo sguardo sui gusci delledue uova che aveva appena bevuto. “Cosa hofatto?” disse.

Terenzia sembrò indispettita. “Perché mihai portata qui? Voglio dire, si vede che io ti stosul culo. Sembra che tu passi ogni giornata co-me se fosse un peso, non prendi mai l’iniziati-va di parlarmi tranne che per tenermi qualchelezione di storia. Cosa vuoi che me ne freghise la lex Sempronia prevede un massimo di500 iugeri di terra per ogni proprietario, più250 per ogni figlio? Io voglio sapere come vi-ve questa gente, perché muore, se ha i nostristessi sentimenti, se bestemmia gli déi quandoperde ai dadi, quali metodi anticoncezionaliusa, se ama i bambini o se li sopporta soltan-to. Sono venuta qui per imparare a vivere, nonper dare un esame di diritto romano.”

Arduino Marchetti rimase a bocca aperta. Sivoltò come a cercare una candid camera,quindi si chinò in tono confidenziale sul tavo-lino di legno sghembo dove la ragazza avevaspezzato il pane. “Stammi bene ad ascoltare,sottospecie di stronzetta mal cagata” disse adenti stretti con tutta la calma che poté “ti di-co io perché sei venuta quaggiù nel 133 avan-ti Cristo. Ci sei venuta perché papà ha voluto,e soprattutto perché papà ha pagato. Non socon quale spirito tu lo abbia fatto, forse crede-vi di venire a sedurre qualche macho o unoschiavo greco dagli occhi di oliva nera, ma quala realtà è diversa. Qua la gente crepa, la gen-te ha fame e vuole la terra. Seguiranno TiberioGracco fino a quando sarà in grado di garanti-re loro di che vivere, e per vivere sono prontia scannarsi come capretti. E adesso stai zitta,perché ti dirò la ragione per cui sono venutoio. Chi me l’ha fatto fare? Hai ragione: chi mel’ha fatto fare questo mestiere illegale? Perchédovrei accompagnare lungo il tunnel dei seco-

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duto da due schiavi “è stato console e censo-re, e malgrado sia un patrizio fa parte deltriumvirato agrario di Tiberio.”

“Eccitante” gli rispose lei a labbra strette “edov’è Tiberio?”

In quel momento un turbine di gente inva-se il cortile e numerosi uomini si disposero asemicerchio intorno a qualcuno nascosto dallafolla, al margine dell’impluvium quadrato.Marchetti si alzò prendendo Terenzia per ma-no: gli parve di vedere Iunio nel gruppo diclientes al seguito di Appio Claudio.

“I senatori si sono offesi per l’iniziativa deitribuni della plebe” stava dicendo qualcuno,un patrizio di aspetto marziale in pedi su unosgabello. Gli invitati si radunavano intorno alui. “Sostengono che Tiberio ha infranto la tra-dizione in quanto è sempre stato il Senato aprendere iniziative in questo campo. Il destinodel tesoro di Pergamo avrebbe dovuto essererimesso nelle mani dei senatori.”

“Quello è un nemico di Tiberio?” sussurròTerenzia.

“Al contrario, è uno dei suoi maggiori so-stenitori: il console Publio Muzio Scevola.”

“Non voltarti, c’è una donna che ti mangiacon gli occhi” gli disse ancora la ragazza all’o-recchio “sei sicuro di non averla mai incontra-ta in un altro viaggio? E’ come se ti conosces-se.”

“Non mi sono mai spinto più indietro del121” rispose lui, voltandosi per controllare chenon lo prendesse in giro. La donna in questio-ne aveva capelli crespi, lucidi, e una vistosa vi-tiligine su una guancia.

“Hai cuccato” lo motteggiò Terenzia, poiMarchetti la sentì irrigidirsi mentre TiberioSempronio Gracco prendeva il posto di Scevo-la sullo sgabello. Una autentica ovazione lo ac-colse, e poi la plebe fuori dal recinto si unì al-le strida degli invitati. Tiberio alzò una manoper calmare bonariamente la folla, ma fu inuti-le. Persino Terenzia, con orrore di ArduinoMarchetti, si cacciò due dita in bocca per fi-schiare.

Quando finalmente poté parlare, il tribunodella plebe rimase in silenzio alcuni secondi alfumo verticale delle torce. Gli schiavi lo circon-darono di lunghi rami di pino resinato incan-descenti che sottolineavano i suoi lineamentivirili, tingendo di fuoco la toga immacolata.

“I miei nemici in Senato mi accusano diaspirare alla tirannide personale” esordì Tibe-rio nel silenzio più assoluto “dicono che ho in-

franto la tradizione, e che quando non godròpiù dell’immunità di tribuno mi processeran-no.“

Un clamore di riprovazione fulminò la fol-la, persino la plebe all’esterno che non avevapotuto udire le parole di Tiberio, ma lui alzòun mano per zittirli. “La legge incontra sempremaggiori difficoltà” proseguì “gli occupanti del-l’ager publicus hanno fatto dell’abuso una pra-tica quotidiana. Non c’è occupante della terrain comune del popolo romano che non ricor-ra contro la commissione. Questi cittadini usa-no la Repubblica come se fosse loro proprietàpersonale, e invece di avere a cuore la poten-za di Roma pensano ai propri interessi.”

Marchetti sentiva sulla nuca gli occhi delladonna vitiliginosa. “Senti, ti rincresce se ci spo-stiamo?” propose a Terenzia, che lo seguì at-traverso la folla.

“Non sarà questo a fermarci” continuò Ti-berio “abbiamo chiaro in mente il benesseredei cittadini di Roma. Abbiamo chiara in men-te la sopravvivenza di una Repubblica di citta-dini liberi, non di clienti dei proprietari terrie-ri!”

Un’altra ovazione. “Tiberio!” gridò uno deiplebei arrampicato sul muro a decine “dacci learmi per difendere la Legge!”

Un silenzio di costernazione accolse la ri-chiesta dell’uomo. Tiberio Gracco risposeprontamente: “La Legge non ha bisogno di es-sere difesa. E’ la Legge che difende il popolodai soprusi.”

Un boato di folla salutò le sue parole, ma-ni si alzarono, il cerchio si strinse verso lo sga-bello. Marchetti distinse Gaio Gracco ai piedidel fratello, poi la donna della vitiligine gli pre-mette il seno contro la schiena nella calca.“Scusami, devo andare” gli disse Terenzia sgu-sciandogli via di mano.

“Ma dove vai?” domandò Arduino Marchet-ti cercando una via di fuga.

“Vado a chiedere l’autografo a Tiberio” ri-spose lei, già due file più il là.

* * *

Iunio gli si materializzò accanto nell’oscu-rità fresca del patio. Stringeva una tazza di fa-lerno in mano. “Dove eri finito?” gli domandòMarchetti “ho perso la ragazza.”

Iunio sghignazzò con i denti fintamente ca-riati. “L’ho trovata io. Se vuoi ti porto da lei.”

Marchetti scattò in piedi seguendolo verso

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sopraggiungeva dalla direzione delle mura,sollevando poca polvere nell’aria fresca e sere-na del mattino laziale. “Tiberio?” domandò.

“Non illuderti” cercò di scoraggiarla Mar-chetti cercando un posto per sdraiarsi, maquando il carro li raggiunse vide che si tratta-va davvero di Tiberio Sempronio Gracco.

“Lucio Pulcro” gli disse il tribuno affaccian-dosi dalla cortina sudicia di polvere “come haifatto ad arrivare tanto lontano dalle mura, aquest’ora del mattino?”

Marchetti scattò in piedi, meravigliato che iltribuno potesse anche solo ricordare il suo no-me, ma pensò che il viso di Terenzia era un ot-timo promemoria per qualsiasi uomo. Tiberioscese muovendo pochi passi con i piedi intor-piditi e lo schiavo a cassetta saltò giù per nu-trire i cavalli e controllare il mozzo della ruota.

“E’ un lavoro ingrato” spiegò Tiberio Grac-co “i proprietari si oppongono ricorrendo pervia legale a ogni tentativo di esproprio. Abbia-mo le terre, abbiamo il denaro e non riuscia-mo ad assegnarli a centomila cittadini che nonhanno di che sfamarsi.”

“Oh, ci riusciremo” disse Terenzia con vocedolce, come se avesse scelto il proprio partito“ho visto come ti adora la plebe. Chi ha un so-stegno così non può fallire.”

Gli uccelli volarono bassi sopra di loro,provenienti dal litorale. “Cattivo auspicio obrutto tempo in arrivo?” disse Tiberio Graccofra sé e sé “una megera ha voluto assoluta-mente leggermi il futuro, fermando il carro pri-ma che lasciassimo le mura. Ha visto ostacoli edifficoltà. E stanotte ho sognato una vestalecon una folta barba sulle gote.”

Terenzia e il tribuno si allontanarono versogli operai intenti a sudare alla groma, Marchet-ti li seguì qualche passo più indietro. TiberioGracco non sembrava preoccuparsi dell’effettodi importunare la moglie di un altro.

Marchetti si domandò se la ragazza fosseconscia dei pericoli potenziali insiti nell’influi-re direttamente su personalità di primo pianodella Storia. Tiberio Sempronio Gracco eraclassificato Personaggio di tipo “B”, anche seper fortuna il flusso di informazioni dell’auri-colare assicurava che in quel momento le pos-sibilità di alterare il flusso della realtà nel II se-colo a.C. era inferiore al 3%.

Il grido lontano di un gufo non distrasseTerenzia e il tribuno della plebe, Marchetticontò i giorni che mancavano alla propria av-ventura e si domandò perché il dottor Ferrari

avesse scelto proprio quell’episodio sanguino-so della storia romana per dare una lezione al-la figlia.

* * *

Più tardi, dopo che Tiberio Gracco li ebberiaccompagnati sul proprio carro fino dentro lemura, Terenzia disse a Marchetti che le avevaconfidato di volersi candidare di nuovo a tri-buno della plebe per l’anno seguente.

“Lo so” rispose lui “questa è storia. Sarà l’i-nizio della sua caduta.”

Terenzia aguzzò le orecchie. “Caduta?” ri-peté “cosa succederà a Tiberio?”

La guardò per vedere se lo prendeva in gi-ro. “Cosa succederà a Tiberio Gracco?” dissealzando il tono di voce “Vuoi scherzare? Vuoidire che tuo padre ti ha mandata qui senza far-ti leggere un libro di storia?”

Terenzia fece un gesto vago, scorgendo Iu-nio alla finestra. Erano arrivati sotto casa. “Nonricordo” rispose “ho studiato a scuola, poipapà aveva sempre tutti quei libri di storia ro-mana per casa, ma a me piacevano solo Giu-lio Cesare e Nerone.”

“Cosa succederà ai Gracchi” bofonchiò luisalendo le scale “cazzo, siamo a piedi. Non haimai sentito parlare di Cornelia, che mostrandoi figli diceva ecco i miei gioielli? Erano Tiberioe Gaio.”

“Muzio Scevola e gli Orazi e Curiazi. Certoche ricordo ecco i miei gioielli, ma è una storiacosì scema. E Romolo e Remo, che confondocon Caino e Abele?”

Iunio aveva preparato gallina bollita; Mar-chetti andò a riposare senza mangiare. “Ma co-sa sta per accadere, qua a Roma?” sentì che Te-renzia domandava a Iunio “Arduino si è incaz-zato quando l’ho chiesto a lui.”

Iunio sghignazzò nel suo modo scostante.“Tiberio Gracco vuole ripresentarsi per la cari-ca di tribuno della plebe, l’anno prossimo” ri-spose la sua voce “non è illegale, ma è controla tradizione: e per i romani la tradizione con-ta. Lui vorrebbe evitare la possibilità di esseremesso in stato di accusa per non che crolli lasua riforma agraria.”

Ci fu una pausa di parecchi minuti, poi pri-ma di addormentarsi Marchetti sentì Terenziadire “Che schifo la politica. Non ci capisconiente.”

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ma. I canaletti di scolo della strada trascinava-no ogni genere di rifiuti, solidi e liquidi.

I muri della città sembravano totalmente ri-coperti di scritte elettorali e la gente si saluta-va con gesti rigidi del braccio, mendicanti of-frivano auspici per la giornata e per il risultatodelle elezioni.

Affluirono lungo torrenti di popolo verso ilCampidoglio dove Marchetti scoprì che la suatribù era stata estratta per votare per prima. Te-mette che si rimettesse a piovere, ma fu di-stratto da un gruppo di uomini togati che si fa-ceva largo nella folla variopinta che continua-va a radunarsi.

Un uomo si issò su un’ara, facendo un am-pio gesto del braccio per chiedere silenzio. “IlSenato manda a dire al popolo romano che icomizi convocati per oggi non possono essereconsiderati legali” gridò controllando le reazio-ni della folla “il tribuno della plebe TiberioSempronio Gracco non può ripresentarsi can-didato, violando in questo modo la tradizione.”

La plebe lo apostrofò, ma i suoi gli si strin-sero intorno. Qualcuno era armato. “Che suc-cede?” si informò Terenzia stretta contro laspalla di Marchetti. Lui poté sentire il battitodel suo cuore attraverso la tunica leggera e ilseno tiepido.

“L’assemblea deve sciogliersi!” gridava il se-natore senza riuscire a sovrastare la protesta “ilSenato incaricherà il console Scevola di ripor-tare l’ordine!”

“E’ vero?” trasalì Terenzia.“Publio Muzio Scevola è della partes dei

Gracchi” la tranquillizzò Marchetti “e inoltre èun insigne studioso di diritto romano. Sa cheTiberio non sta compiendo un atto illegale,malgrado sia una candidatura inconsueta. Si ri-fiuterà di intervenire.”

La folla si agitava, volarono sassi contro ilsenatore che scese e si fece largo nella folla.Seguirono bastonate e calci, poi Gaio Graccosi avvicinò con i suoi seguaci, tra i quali un an-ziano con i capelli bianchi e un fisico da atle-ta. “Publio Licinio Crasso” disse Marchetti “èsuocero di Gaio Gracco. Prenderà il posto diTiberio nel triumvirato, l’anno prossimo.”

“Il posto di Tiberio?” domandò Terenzia “al-lora non sarà rieletto?”

“Stanno facendo l’appello per la tribù” disseMarchetti per cambiare discorso “vedo l’ufficia-le rogator su quel banco, laggiù.” Si spostaronoverso il tempio di Giove. Iunio si era dileguato,probabilmente per sottrarsi ai torbidi.

“Sono preoccupata” confessò Terenzia“sento che perderà le elezioni. Hanno compra-to i voti, vero?”

La coda di serpente della tribù si snodò in-torno alle colonne del cortile e Terenzia rima-se aggrappata al suo braccio come una sposain luna di miele. Marchetti pensò che era bellae giovane sotto il sole repubblicano di Roma.

Passò quasi un’ora di coda lenta. Al suo ar-rivo davanti al rogator, Marchetti mostrò lapropria tessera di riconoscimento. L’ufficialegli consegnò la tabella, e stringendola in manosi incamminò sulla passerella. Scrisse con unlapis “T-SEMPR.” e la depositò nell’urna da-vanti agli occhi dei custodi. Il centurione civi-le sbadigliò controllando il registro.

In quel momento il clamore fuori dal recin-to sovrastò i suoni dell’assemblea. Marchetti siaffrettò a trascinare Terenzia in disparte, ac-corgendosi di tremare,

Un senatore dall’aspetto altero sopraggiun-se dall’esterno, spintonando i presenti. Si pote-va vedere una lama nelle sue mani. Era segui-to da altri con il latus clavus dei senatori. Unaturba di clientes e schiavi armati li affiancava.

“Chi sono?” domandò Terenzia.Marchetti la tenne ferma per il braccio. “Pu-

blio Cornelio Scipione Nasica” rispose a dentistretti, badando di non lasciarla allontanare “èun cugino primo di Tiberio, e suo strenuo op-positore nel difendere i diritti dei proprietari.Non è riuscito a convincere il console Scevolaa disperdere i comizi tributi di oggi e ha deci-so di intervenire di persona.”

Scoppiarono subito tafferugli fra la plebe egli schiavi dei senatori. Volarono bastonate, letoghe si tinsero di sangue, poi improvvisamen-te tutti urlarono e si aprì un varco intorno ainuovi arrivati. “Per ordine del senato, disper-dete l’assemblea!” gridava Scipione Nasica.

C’era gente insanguinata sul terreno, la fol-la si ammucchiò, si frantumò, si disperse. Dal-la parte opposta del recinto del tempio, Gaio eTiberio avanzarono verso gli invasori affianca-ti da pochi amici.

Terenzia scivolò via dalla mano di Marchet-ti. “Fermati!” gridò lui, ma la folla si richiuse.Rimase compresso, temette di essere calpesta-to. Recuperò l’equilibrio ma non vedeva più laragazza.

Volavano minacce e sassi. Scipione Nasicae i senatori continuavano a urlare l’ordine didisperdere l’assemblea. Tiberio avanzò di unpasso per fronteggiarli, alzando una mano in

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Quando lo vide rimase a osservarlo quasiincredula della coincidenza. Il suo accompa-gnatore americano deformava una performan-ce stirando i pollici su un video con un rumo-re di carne umana sulla plastica. “Arduino?” dis-se lei.

Marchetti si sentì a disagio. Dal giorno delrientro non si erano più rivisti, sapeva solo cheera ritornata a Genova con suo padre, e chepoco dopo si era iscritta a un college esclusivodel New England.

“Stai bene?” la salutò. Scambiarono due pa-role, poi le strinse la mano e fece per andarse-ne. Non posso, pensò istantaneamente. Si voltòe lei era ancora lì a guardarlo. “Caffè?” le do-mandò.

Terenzia chiese permesso all’americano,che la salutò con un “Alright” distratto. Scese-ro allo snack bar della galleria d’arte, al pianoterra. “Che fai?” le domandò Marchetti senten-dosi più a suo agio senza la presenza del ra-gazzo “ho sentito dire che ti sposi.”

Terenzia sgranò gli occhi. “Non scherzare”rispose con sollievo di lui “vorrebbe dire chel’hai saputo prima di me.”

Marchetti ordinò latte e menta per tutti edue. C’era una canzone lagnosa di un gruppofrancese, piena di Je t’Aime I Love You Te Quie-ro Ich Liebe Dich Ti Amo Ego Ama Tibi. Le ta-stierine delle ordinazioni erano assicurate ai ta-voli da una catenella con maglie a cuoricino.

“Quello era il tuo ragazzo?” domandò Mar-chetti con un gesto noncurante.

Terenzia rise di gusto. “Sei geloso!” disse“guarda che è un mio compagno di college.Non ho intenzione di legarmi a nessuno, mal-grado le mie condizioni.”

La cameriera portò due bicchieri alti coloreverde pallidissimo, osservando con aria di rim-provero il seno sinistro di Terenzia che spor-geva da una finestra a trapezio nel miniabito.

“Cosa vuoi dire?” domandò Marchetti quan-do realizzò le sue parole.

Terenzia distolse lo sguardo. “Non sai? Seivenuto a cercarmi fino qui a Trieste e vuoi far-mi credere che non lo sai?”

Marchetti si irritò. “Non ti ho cercata. Sonocapitato qui per caso, che tu ci creda o no.”

La cannuccia aveva la forma di un nodo damarinaio, i fazzolettini di carta profumavano dilime. “Aspetto un bambino” disse semplice-mente Terenzia.

Marchetti rimase sorpreso. “Complimenti”disse sincero “sono contendo per te. O non

dovrei?”“Fai bene” lo rassicurò Terenzia scioglien-

dosi.“E... non ti sposi lo stesso?”“Non insistere. Sei un amico, non mio pa-

dre.”Il rumore delle tazzine di porcellana sem-

brava troppo forte nello snack bar della galle-ria. I clienti avevano voci assonnate, gentili, di-stanti. “Non trovi a volte che tutto questo suo-ni falso?” domandò Terenzia “è come se que-sto secolo non fosse reale. Come se da un mo-mento all’altro la realtà dovesse squarciarsi perlasciare emergere il vero tempo in cui vivia-mo.”

Marchetti annuì, commosso. “La Repubbli-ca?” rispose. “Sì, spesso ho avuto la stessa im-pressione anch’io. Maya, il velo dell’illusioneindù. Il mondo di Dick immobilizzato al I se-colo dopo Cristo.”

“Sai che i primi tempi non riuscivo più adormire?” aggiunse Terenzia con un sorriso in-dulgente “sono dimagrita di cinque chili, erosull’orlo di un esaurimento nervoso. Papà miha mandata per qualche tempo in Svizzera, èstato a Zurigo che ho cominciato a pensare ate, e allora mi sono accorta che mi mancavi.”

Risero insieme come vecchi amici, ma qual-cosa era passato fra di loro. Le gocce di latte ementa sul tavolino erano come frammenti delsangue di Tiberio.

“Cosa fai, adesso?” domandò ancora Teren-zia “l’operazione di tuo figlio è andata bene?”

“Perfettamente, grazie. Non faccio più laguida temporale per ricchi in cerca di emo-zioni, ma ho conservato il mio posto al Mini-stero della ricerca scientifica. Fra tre giorniparto per l’Inghilterra di Cromwell dietro inca-rico dell’Istituto di storia delle religioni diEdimburgo.”

La canzone sfumò in una musica di flautoche ricordava troppo i suonatori di piva lungoil Tevere nella maturità della Repubblica.“Viaggeresti ancora con me?” domandò Mar-chetti per scherzo.

“No, non ce la farei” rispose per scherzo lei“sei tornato insieme a tua moglie?”

“Non sei la sola che avrà un figlio senzaavere un marito.”

Tacquero per tutta la durata del brano mu-sicale. L’americano si affacciò dalla porta, maTerenzia fece finta di non vederlo. “Cosa faistasera?” le domandò Marchetti realizzandoquanto era bella. Come il sole repubblicano di

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parte II

Cronache dell’arabesco

di pietra

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tolina di alcune località turistiche della Spagna (o, in altri racconti, dell’Irlanda o della Norvegia),colte quasi in un animo di sospensione del tempo. E, coerentemente, Ricciardiello non è scrittore da intrecci fulminanti e da impeccabili ingranagginarrativi: la sua tecnica preferita (e, in un certo senso, anche la sua tematica preferita) è invece ladescrizione di particolari frammenti staccati della Storia (quella con la S maiuscola), un particola-re modo, del quale racconti come Tutti i miti dell’Ebro sono esempi chiarissimi, di puntare i ri-flettori e bloccare all’infinito, per una specie di paradosso, non problematiche “ambientazioni ar-chetipe”, ma al contrario momenti ben precisi di un tempo univoco, arrivando fino alla pignole-ria di precisare non solo il giorno ma perfino l’ora, “dalle 8,35 alle 21,10 del 29 ottobre 1938”. Anon voler mettere in conto, poi, un aspetto non secondario di questa narrativa, il richiamarsi cioèa scrittori e poeti spagnoli o latino-americani (da Márquez o Lorca a Machado, passando sorpren-dentemente per Azorín), talvolta con citazioni dirette che evidenziano ancora di più questa crea-zione a blocchi, questo fissare l’attenzione su descrizioni “discontinue”.Chiaramente, una simile concezione della scrittura non può avere influenza unicamente sul livel-lo dei contenuti. Non sfuggirà infatti al lettore, magari come elemento di disturbo, lo svolgimentodell’intreccio organizzato — se non altro a conclusione di racconto — su forti stacchi più che sugraduali e gradevoli trapassi; e darà forse fastidio anche l’inserimento, a volte pesante, di spiega-zioni storiche o di conclusioni moralizzanti. In entrambi i casi, dei difetti abbastanza evidenti che,però, sono secondo me inseparabili dal paradosso accennato poco fa, la compresenza cioè in que-sti racconti di Storia (mondiale) e storia (dei personaggi) da un lato, di atemporalità e circolaritàdall’altro: tanto più in quanto Ricciardiello non è autore ideologicamente neutro, ma al contrarioè fortemente coinvolto nella materia dei racconti e parte da posizioni politiche di sinistra ben de-finite. Le sue opere traggono quindi vitalità anche da un altro conflitto apparentemente incomponibile,quello tra le esplicite dichiarazioni dei personaggi (“La Storia non esiste”, si dichiara nel primo ro-manzo di Ricciardiello, La Rocca dei Celti: che è d’altronde anche il contenuto del messaggio con-clusivo ed anti-oggettivo di Non giurammo fedeltà ad alcun re) e una profonda inclinazione per-sonale ad immischiarsi comunque nel magma della Storia negata. Insomma, se certi lati di questascrittura stridono alle orecchie del lettore, occorre accettarli come residui accattivanti ed affascinanti(tanto più nel piatto panorama della narrativa italiana contemporanea — di fantascienza e no); spe-cialmente in considerazione del fatto che Ricciardiello ha dimostrato, ad esempio con Rive del Due-ro e, soprattutto, con Cronache dell’arabesco di pietra, di saper limare parte delle asperità senzaper questo perdere molto del proprio stile personale, dello smalto che lo contraddistingue.Questi, schizzati velocemente, i tratti secondo me più appariscenti dell’insieme di racconti pre-sentato. Concludo dunque qui codesta sintetica presentazione, lasciando la parola all’autore, spe-ro e mi auguro di aver fornito un’utile indicazione di lettura a chi non conosceva Franco Ricciar-diello, o di esser riuscito stimolante per coloro che l’avessero contattato già in precedenza. Che,per un critico, sarebbe già qualcosa.

Mirko Tavosanis

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Vivid, la vida sigue,los muertos mueren y las sombras pasan;lleva quién deja, y vive él que ha vivido.

Yunques, sonad; enmudeced, campanas!Antonio Machado

Vivete, la vita continua, i morti muoiono e le ombre passano;

prende chi lascia, e vive chi ha vissuto. Incudini, suonate; ta-cete, campane!

MI FERMAI ISTINTIVAMENTE IN MEZZO ALLA VIA, frugando per abitudinenelle tasche del soprabito. Quando me ne resi conto sfilai subitole mani e mi guardai intorno, sorpreso di trovarmi in quel luogo.

Senza volerlo stavo cercando, l’avevo capito, la tabacchierad’argento lavorato. Da tre mesi, da quando cioè ero giunto inquell’inammissibile Spagna dell’autunno 1938, avevo promesso ame stesso di non toccare più tabacco. Mi guardai intorno comeappena svegliato da una profonda ipnosi, da uno stato di son-nambulismo che mi aveva guidato per ore e ore nelle piazze efra le case di Cordoba.

Mi trovavo all’angolo di due vicoli dalla larghezza appena suf-ficiente a lasciare passare un’automobile del mio tempo, se nonfosse stato per i numerosi, bassi fusti metallici adibiti a vasi cheoccupavano metà marciapiede con gerani o con le foglie arcuatedelle agave; altri vasi in terracotta erano appesi a tutte le altezzelungo i muri bianchi, a fianco delle finestre protette da inferriate,

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Tutti i miti dell’Ebro

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curiosità e non codardia.“Torniamo a Madrid,” disse Liselott. Lo dis-

se con tenerezza, quasi non fosse la constata-zione di qualcosa di inevitabile, ma un’idea tut-ta sua, un gingillo con il quale consolarsi dellafutilità di quanto le stava accadendo.

Come era diverso quel mondo da ciò cheavevamo immaginato prima di attraversare iconfini dell’anomalia. L’altalena aveva bloccatotutte le passioni, le lotte, la decisione deglispagnoli; la vita si trascinava, periodo dopoperiodo, in uno stato di attesa che poteva be-nissimo durare in eterno e che andava logo-rando Liselott e me e quanti come noi, appro-fittando dell’occasione offerta dall’anomalia,erano giunti in quella Spagna scomparsa allaricerca di qualcosa che nel nostro futuro eraquasi impossibile trovare.

E Lisa chiedeva di tornare a Madrid. Nelprossimo momento di crisi che sarebbe giuntopuntuale, di lì a ore o giorni, avrebbe semprepotuto ripetere che era meglio tornare a Ma-drid, che Madrid era più vicina all’Ebro. Comese laggiù o a Cordoba facesse differenza.

Non si aspettava una risposta e io non glie-la diedi. Sedetti invece allo scrittoio estraendodalla valigia il PC portatile e accantonando ilblocco di fogli rigati e la penna a inchiostro, aiquali non ero più abituato.

Voltavo le spalle a Liselott; come eserciziomentale provai a ridisegnare con il pensiero ilineamenti del suo viso: gli occhi, gli zigomigentili, i capelli chiarissimi che si aprivano sul-la fronte girando intorno alle curve delicate de-gli orecchi fino sulla nuca, dove piegavano suse stessi e finivano stretti in un fermacapelli dicuoio, con stecchetto di legno. Liselott era sve-dese, corrispondente di un quotidiano dal no-me impronunciabile, ma come nel mio casol’attività giornalistica non era che un pretestoper la sua venuta in Spagna.

E, improvviso ma piacevole, mi tornò inmente il modo in cui l’avevo conosciuta, la pri-ma settimana del mio arrivo a Cordoba. Abi-tuato all’atmosfera da trincea di Madrid asse-diata su tre lati, alla mancanza di pane e di sva-go, rimasi sfavorevolmente colpito dalla vitalitàirresponsabile di questa parte della barricata.Mi trovavo a una fiesta danzante organizzata inpiazza, dinanzi al sagrato di una chiesa; unamoltitudine di falangisti, miliziani e soldati re-golari si contendevano il favore delle signorineaccorse al richiamo della musica, le spalle pro-tette da scialli intrecciati a mano dalle madri

che osservavano vigili dall’alto dei balconi. Miriempiva di nausea il pensiero che mentre ol-tre il fronte la gente soffriva per mancanza dipane, a causa dei campi di grano caduti nellemani dei nazionalisti, da quest’altra parte, aCordoba, a Burgos, a Santander, a Siviglia mi-liziani ottusi il cui grido di battaglia era ¡Vivala Muerte! si divertivano al vespro dopo averfucilato per tutto il giorno contadini, sindacali-sti e repubblicani.

Il mio disgusto crebbe quando vidi la ra-gazza bionda ballare con un giovane graduatoche immaginavo con la canna della pistola e lapunta degli stivali macchiati di sangue. La ra-gazza era straniera, forse tedesca o scandinava:non esistono spagnole con un simile colore dicapelli. Vestiva tuttavia come una spagnola, ese il suo corpo magro non conosceva alla per-fezione i passi delle danze, cercava di ovviarecon l’impegno. Al mio primo incontro con Li-selott la disprezzai; la detestai perché si prosti-tuiva con un macellaio, un macho triste dallabustina nera sulle ventitré. Invidioso, gelosoancora a livello inconscio, la guardai ballarenella folla rumorosa finché la sera calò sullapiazza e si accesero i lampioni. Lo scialle sot-tile che la ragazza portava sulle spalle era sci-volato inesorabilmente ad ogni movimentolungo le braccia e fino in terra, ma né lei né ilsuo cavaliere se ne erano accorti. Cadde ai lo-ro piedi, avvolto su se stesso, e Lisa conti-nuando a ballare lo calpestò senza accorgerse-ne.

Mi sentii male, all’improvviso. Là in terra,sul selciato della piazza, sotto i piedi della ra-gazza che ballava non c’era uno scialle ma ilmio volto. Sentivo le suole delle sue scarpebattermi sugli zigomi, sulla fronte; sentivo itacchi rompermi gli occhi, graffiarmi le guan-ce, spezzarmi il naso. Lei non se ne accorgevae continuava a passare e ripassare sul mio vi-so, un-due-tre, un-due-tre senza sosta a mas-sacrarmi il volto, a strappare i capelli, a forar-mi la lingua.

Mi alzai e barcollai sino a un vicolo latera-le dove l’aria fredda mi fece riprendere. Mi ta-stai il viso, con il fiato in sospeso per il timoredi ritirare la mano imbrattata di sangue. Nien-te, neppure un graffio. Eppure, per pochi atti-mi, avevo sentito i passi della ragazza sullapelle come se fossi stato io lo scialle, e il fa-scista che lo sapeva benissimo continuava a gi-rare in modo da far ruotare la ballerina sullostesso punto.

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mosfera fosse più respirabile. Siccome non riu-scivo a concentrarmi e a scrivere nulla, mi vol-tai verso di lei, sempre restando seduto al por-tatile.

“Facciamo un patto”, le proposi: “restiamoancora una settimana a Cordoba, poi andremodove vuoi.”

Una settimana nella Spagna atemporale si-gnificava quattordici altalene, poiché ognunadi esse durava circa tredici ore, dalle 8,35 alle21,10 del 29 ottobre 1938. Il Tempo si era gua-stato, senza alcuna ragione apparente, solo al-l’interno dei confini della penisola iberica.Esattamente in coincidenza della frontiera conla Francia, senza alcun preavviso si passava daun universo all’altro, e si ritornava nell’univer-so di partenza facendo un passo indietro. Co-sa era accaduto nella Spagna scomparsa? Per-ché il tempo della Spagna apparsa nella fallatemporale continuava a passare e ripassare suse stesso, dalle 8,35 del mattino alle 9,10 di se-ra dello stesso giorno senza fine, la vigilia delcontrattacco nazionalista sull’Ebro?

Al largo delle acque territoriali, una flottadell’ONU incrociava bloccando chiunque ten-tasse di penetrare nella falla. La frontiera suiPirenei era chiusa dall’esercito francese, lostretto di Gibilterra pattugliato dalla flotta bri-tannica. Pochissimi permessi di attraversamen-to venivano concessi, per il timore di indurrecambiamenti irreversibili nella Spagna del1938, nel delicato periodo della guerra civile.Che influenza avrebbe avuto sul presente unaseppure minima variazione in quel tempo lon-tano sessanta anni nel futuro? E se invece sifosse riusciti a cambiare le sorti della guerra, afare in modo che il governo repubblicano riu-scisse a sconfiggere l’insurrezione fascista?

Tutto il mondo seguiva con apprensione levicende all’interno della falla, in quel vastopianeta misterioso emerso dalla marea delTempo. Gli osservatori ONU riferivano all’e-sterno, come pure noi giornalisti clandestini.La Spagna era divenuta il teatro di un esperi-mento su scala mondiale; chi fosse a condurlo,non era dato sapere.

L’entrata e l’uscita della falla erano rigoro-samente controllate dall’esterno; solo un centi-naio di osservatori imparziali avevano in teoriaricevuto il permesso di penetrarvi, per neces-sità di cronaca storica. In un modo o nell’altro,eravamo almeno in mille noi giornalisti affluitiattraverso canali clandestini.

Gli spagnoli, chiusi fra le sconfinate pareti

della falla temporale, sapevano del cambia-mento esterno, si accorgevano dell’altalena. Laguerra si era improvvisamente arrestata, lacontroffensiva nazionalista sull’Ebro era in stal-lo in attesa di qualcosa che risolvesse l’ango-scia generale. Per la storia della Spagna mo-derna, il confronto sul fiume aragonese avevaun’importanza fondamentale; seppure in modoistintivo, anche in quel tempo chiunque se nerendeva conto. Rappresentava l’ultimo, dispe-rato tentativo della Repubblica per battere gliinsorti, per acquistare fiducia e aiuto dallaFrancia e dall’Inghilterra, per vedere affermatigli ideali che avevano unito una moltitudine diindividui e classi diverse e attirato quarantami-la volontari da tutto il mondo sotto le bandie-re delle Brigate internazionali.

Nel bel mezzo di questa situazione una sta-gione imprevedibile, inquietante, silenziosa siera impadronita della Spagna, delle sue sierre,delle città, della popolazione, dei due esercitiche si fronteggiavano lungo una linea lunghis-sima incurvata a squarciare in due il paese: daGranada a Cordoba, dall’Estremadura a Ma-drid, da Guadalajara al Mediterraneo, dalla fo-ce dell’Ebro ai Pirenei.

Infine, a completare la geografia di questaSpagna sovvertita dagli uomini e dal Tempo,eravamo giunti noi: los Extranjeros, sciacalli af-famati di sensazioni, avidi ricercatori di passio-ni violente, eventualmente mortali. Perseguita-ti senza pietà dalla nausea, torturati dalla noia,sospinti dal tedio di una società troppo perfet-tamente pianificata, non ci eravamo lasciatisfuggire l’occasione di bere al calice della pas-sionalità spagnola ritrovata nel massimo delsuo impeto.

* * *

“Ho conosciuto un ragazzo, oggi” disse Li-selott dopo che eravamo rimasti in silenzio si-no a sera. Dette a quelle parole una intonazio-ne fastidiosa.

Poiché non accennavo a rispondere, conti-nuò da sola: “Si chiama Valerio, è figlio di unanarchico fuggito da Cordoba al momento delcolpo di mano. Vorrebbe che lo portassimocon noi a Madrid; cercherà suo padre, se ne-cessario si arruolerà.”

Mi dava disgusto quella finta indifferenzanel suo parlare, come se stesse raccontando diqualcosa accaduto in un ipermercato della pe-riferia di Stoccolma. Non voleva dimostrare in-

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una possibile amante, una compagna, ma so-prattutto come una figura materna. Liselott nonfaceva che assecondarlo, trattandolo comeavrebbe fatto con un fratello minore, ridendosenza malizia dei suoi errori, passandogli affet-tuosa una mano nei capelli, guardandolo quasicon orgoglio. Non mi sarei stupito se il ragazzole si fosse accoccolato in grembo, sollevandolela maglia per attaccare la bocca affamata al suoseno pesante; mi veniva da ridere a immagina-re la scena, la faccia del cameriere nel guarda-re Valerio raggomitolato in posizione fetale, lemani a coppa intorno ai seni di Lisa.

Con mio grande sollievo, non ero gelosodel ragazzo; per lui provavo solo compassione.La madre era deceduta parecchi anni prima enegli ultimi momenti della battaglia di Cordo-ba aveva perduto ogni traccia del padre, che sitrovava dall’altra parte, nell’esercito repubbli-cano, chissà su quale fronte; Valerio volevaraggiungerlo.

Avevamo affittato un’automobile per le un-dici; non potevamo fare altro che attendere.Ordinammo un’altra portata di tapas; il came-riere venne a prenderci il piatto per tornare ariempirlo senza neppure pulirlo con uno stro-finaccio.

Liselott si era fatta servire una spremuta diagrumi; il ragazzo tacque osservandola con oc-chi adoranti. Certamente vedeva ciò che vede-vo io: la straordinaria assonanza di colore fra ilsucco nel bicchiere di vetraccio e i capelli diLisa, bagnati dalla luce obliqua della finestrache li scuriva. Credetti che il momento perfet-to si ripetesse per una terza volta, ma non ac-cadde: Lisa dovette accorgersi di qualcosa per-ché ci guardò da sopra l’orlo del bicchiere,senza posarlo. Il suo volto rimase illuminato.

Entrò un cliente che richiuse la porta dietrodi sé e l’incantesimo si spezzò. Liselott ripresea parlare, io mi concentrai sul ragazzo. Pensaia suo padre, l’anarchico fuggito da Cordoba; loimmaginai sul fronte di Madrid, o a Guadalaja-ra, o meglio ancora sulle alture della riva de-stra dell’Ebro, intorno a Gandesa, nascosto si-no al mento in una trincea ad attendere che l’a-nomalia temporale si ricucisse e i falangisti tor-nassero all’assalto.

Strana razza, quella da cui Valerio discen-deva. Riuscivo a immaginare chiaramente suopadre, nei primi anni della Repubblica, mentrevisitava i pueblos dell’Andalusia per insegnareai contadini a leggere e a scrivere, a contare, aessere fedeli alle mogli, a essere vegetariani, a

non bere alcolici e rifiutare il tabacco, e a nonrispettare lo Stato. Lo vedevo benissimo, pic-colo ma asciutto, i baffi sottili, mentre spiega-va ai contadini, concentrati nello sforzo di ca-pire, che la pistola e l’enciclopedia erano gliunici rimedi per risolvere i problemi della Spa-gna. I contadini divenivano seri, si mettevanod’impegno per studiare, per imparare, com-prendevano che l’ignoranza della gente èun’arma nelle mani di chi governa.

Liselott si alzò da tavola. “Torno subito” dis-se dirigendosi verso il retro del locale, dove sisupponeva fossero i servizi.

Restai solo con il ragazzo, così incantatodalle parole di Lisa da pensare che anch’ioavessi succhiato avidamente dalle sue labbraogni concetto. “Cosa ne pensa, signore?” midomandò.

Caddi completamente dalle nuvole; nonavevo ascoltato il loro discorso, glielo confessai.

“Parlavamo del tempo guasto,” spiegò il ra-gazzo quasi stizzito. “Ho anch’io una mia teo-ria, sa? Ora gliela racconto. Per favore, mi dicail suo parere, se posso osare di esprimerla a Li-sa.”

Sospirai e accettai. Valerio non se ne ebbea male.

“Grazie, signore;” disse. “Io penso che deb-ba esserci una ragione per la quale il tempo siè guastato proprio in Spagna, entro i limiti pre-cisi dei suoi confini e in questo giorno dell’an-no, dal mattino alla sera. Non crede, signore?Deve essere accaduto qualcosa di importantein questo giorno: qualcosa di grosso, tantogrosso da spingere Dio o chi per lui a puntareun dito su questo luogo e questo tempo. Orasta a noi comprendere, per cercare di rimedia-re. Bene, cosa sta accadendo ora in Spagna dipiù rilevante della battaglia dell’Ebro, dove fi-nalmente il fronte fascista sta cedendo?”

Provai un brivido di stizza: tutto quello chediceva era risaputo, cosa voleva scoprire dinuovo?

“Cosa ne pensa, signore? Lei conosce la Sto-ria dopo oggi: cosa è avvenuto in seguito ditanto importante?”

Sapevo bene cosa era accaduto: l’ultimagrande battaglia perduta dai repubblicani, lacaduta della Catalogna, la fine della guerra. Senon si trattava di un puro incidente, la fallatemporale stava a indicare il momento decisi-vo della guerra civile; ma era possibile che lalotta in Spagna potesse avere un’importanzatale nella Storia mondiale da giustificare la fal-

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causa già persa in partenza. La Spagna era giàperduta nel 1938 per colpa dell’indifferenzacriminale dell’Inghilterra, della Francia, degliStati Uniti. Che senso aveva, ci dicevamo, ilnostro sacrificio per una causa comunque per-duta?

A ogni modo, Lisa ed io ci stavamo diri-gendo a nord. Era sempre possibile tornaresulle nostre decisioni. Non se ne sarebbe co-munque parlato prima della fine dell’altalena,poiché la guerra non avrebbe ripreso fino adallora. E cosa sarebbe accaduto in quel mo-mento? Avremmo tutti perduto la memoria diquel periodo? Lisa e io e gli altri Extranjeros cisaremmo ritrovati ciascuno nel proprio paesecome se nulla fosse accaduto, i due esercitiavrebbero ripreso la lotta? Era l’ipotesi più pro-babile.

Forse era già accaduto altre volte nel pas-sato; forse accade di continuo e noi non ce neaccorgiamo. Il Tempo è sempre incerto su qua-le via prendere e si ferma a riflettere, ritornan-do su se stesso durante quei periodi che chia-miamo altalene. Una volta fatta la scelta, nonrimane la memoria di quanto accaduto. Larealtà potrebbe essere molto diversa da ciò checrediamo di ricordare.

Liselott balzò in piedi e uscì nel corridoio

del vagone. Era frastornata, allibita. Cosa lesuccedeva? Ancora una volta la ammirai per lasua carica umana, per il suo calore, perché fratanti aveva scelto di vivere con me.

“Cosa ti succede?” le domandai divertito.“E’ tutto finito!” mi rispose. “Tutto! Guarda

fuori, guarda l’orologio: sono le nove e mezza.L’altalena è finita, siamo rimasti imprigionatinella Spagna del ‘38. Domani all’alba Francocontrattaccherà sull’Ebro.”

Era vero! Il cuore mi balzò in gola: aveva-mo conservato la memoria di quanto accadutoma eravamo prigionieri.

“Si sente male, signorina?” domandò Valerioa Lisa. “Dovete essere stranieri. Io mi chiamoValerio, sono fuggito oggi da Cordoba. Vado acercare mio padre a Madrid, nell’esercito re-pubblicano. Voi appartenete alle Brigate inter-nazionali, vero?”

Lisa e io ci scambiammo uno sguardo scon-volto. La falla era effettivamente rientrata e noine conservavamo la memoria. Ma per Valerio egli altri spagnoli nulla era accaduto.

Eravamo imprigionati nella Spagna dell’au-tunno 1938, marciavamo con tutti gli altri ver-so la sconfitta dell’Ebro e il disastro della Cata-logna, verso la caduta della Spagna intera, ver-so l’ecatombe della seconda guerra mondiale.

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RICONOBBI LA VIA DALL’AROMA DELL’ARIA, prima ancora che dai mu-retti imbiancati a calce. C’era profumo di fiori e di verde, di fre-scura, promessa di riparo dalla siccità di fine stagione che arro-ventava le strade, le piazze, i sagrati delle chiese. Qualcosa man-cava però; me ne accorsi perché, svoltando finalmente nella cal-le dal muretto incastonato di conchiglie di mare all’altezza dellamia spalla, mi aspettavo di udire lo scroscio dell’acqua sul mar-mo. Invece, non c’era altro suono che il pigro, lento annuire del-le foglie sui rami che pendevano da questa parte del muretto.

Dovevo avere rallentato inconsapevolmente l’andatura perchéSoledad si voltò verso di me, prestando orecchio. Pensavo chenon sarebbe riuscita a capire cosa mi turbava, quindi mi stupiiquando disse: “La fontana. Non funziona ancora, naturalmente.Bisognerà riattivarla.” Come avrei scoperto in seguito, la fonte dipietra al centro del patio aveva un profondo significato anche perlei.

Il cancello di ferro ossidato dava direttamente sul patio. Lotentai spingendo con la mano contro l’inferriata, ma era chiuso achiave. Soledad mi fece un cenno e sfilò una pietra dal muretto.Nell’anfratto segreto, fra polvere di calce e vecchie ragnatele c’e-ra una chiave di ferro lunga quattro dita.

Un soffio di aria fresca proveniente dal fiume oltre i confinidel vecchio quartiere addolcì temporaneamente la temperatura.Le mie preoccupazioni momentaneamente attutite dalla quietedella città sonnolenta mi permisero un tuffo nel passato: l’acquafredda sgorgava dalla fontana, una chitarra gitana suonava lonta-no, nascosta all’ombra di chissà quale patio, e Ulriche avanti a me

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Rive del Duero

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“Perché lo fai” dissi scuotendo il capo, gliocchi umidi di commozione senza volerlo.“Perché, quando sai che i servizi segreti po-trebbero venire da un momento all’altro? Ognigiorno che resti con me rischi di più: non ti la-sceranno andare. La mia coscienza secondo lo-ro è contagiosa.”

Mi si avvicinò in punta di piedi, prendendocon le sue le mie mani, che tenevo sui fianchi.Parlò passandomi lo sguardo da un occhio al-l’altro, il suo viso a non più di un palmo dalmio.

“Ti prego, non dire di no” disse; “è statol’ultimo desiderio di mamma, che io avessi cu-ra di te perché nessuno ti faccia del male.”

Non riuscii a capire come la tenue e fragileSoledad potesse prendere le mie difese.

* * *

L’universo finirà, dicono: e pensano di for-mulare una delle grandi verità assolute. Tuttala teoria cosmologica del big bang, l’esplosio-ne primordiale, l’espansione dell’universo e lasua successiva contrazione fino all’implosione,tutto ciò è falso, dicono.

C’è un altro intero universo che ci sta bal-zando incontro dall’infinito abisso degli anniluce, e nessuno se n’era mai accorto. Un’enor-me massa gravitazionale viene incontro alleavanguardie del nostro micro-universo in que-sto settore del macro-universo. Ci scontreremo,ci distruggeremo, ci ammasseremo a formareun colossale, compatto buco nero che comin-cerà a mangiare inesorabilmente lo Spazio e ilTempo tutto intorno collassando materia edenergia da ogni dove.

Una serie di micro-universi simili a quelloche sinora pensavamo fosse il Tutto, è conte-nuta nel macro-universo; le propaggini di essisi scontrano le une con le altre, dopo l’espan-sione degli innumerevoli big bang che hannodato loro origine. Così dicono, ma non hannomai pensato che nell’universo potrebbero nonvalere le regole dalla matematica euclidea.

Invece io ci ho pensato, ed è perciò che midanno la caccia: ho rifiutato di collaborare coni cosiddetti colleghi, gli schiavi di quello statodi polizia che oggi opprime il mio paese cometanti altri in tutto il mondo. Per ora tollerano ladefezione, poiché ancora non sanno a quali ri-sultati sono giunte le mie ricerche; e soprattut-to si limitano a sorvegliarmi perché sono ve-nuto in Spagna. Se avessi cercato di fuggire in

Asia mi avrebbero fermato a qualsiasi costo.A questo pensavo quando Soledad, rag-

giungendomi silenziosa, pose le sue mani leg-gere sulle mie spalle facendomi sussultare. Disopra il mio capo, gettò uno sguardo com-prensivo allo schermo del personal computer.

“Astrofisica” disse “Non ne so assolutamen-te nulla. Mamma diceva che tu sei una dellemaggiori menti speculative del mondo con-temporaneo. Se anche loro ti stanno alle calca-gna, deve essere vero.”

La vista mi si confuse, un fremito che na-sceva dall’impronta delle mani di Soledad sul-la mia camicia mi scosse. Senza accorgersene,si staccò da me curiosando fra i pochi libri cheavevo portato con me nell’esilio. Non visto,potei osservarla nella fresca penombra delmattino castigliano. Portava gli stessi sandalidel giorno del nostro arrivo, una larga gonnaviola tenue di cotone, senza cintura, e una ca-nottiera di mussolina dalle spalline sottili. Ave-va capelli castano molto chiaro, corti sulla nu-ca, tagliati irregolarmente secondo la moda. Lapelle delle spalle e delle braccia nude, appenaabbronzata, ricordava molto quella di sua ma-dre, come pure la nuca pulita e il profilo delviso.

“Non hai libri di astrofisica” constatò, “soloromanzi. Perché?”

“E’ tutto qua dentro” dissi colpendomi conl’indice la tempia. Non era un vanto.

Tornò verso di me. “Scendiamo al fiume?”propose.

“Non ora, è troppo caldo per me. Forsequesta sera.”

“Domani verrà un idraulico per la fontana.Ho intenzione di ripulirla a dovere.”

Prendendomi per mano, mi portò alla fine-stra aprendo gli scuri sul patio infuocato. “Ve-di quanto è bello?” disse tenendo il bracciodietro la schiena per non lasciare la mia mano.La finestra era stretta, io mi affacciavo sopra lasua testa.

“Immagina i passeri, magari un pappagallosul trespolo” continuò “e l’acqua della fontana.Sai cosa diceva mamma? Che ascoltando ilsuono dell’acqua sul suo marmo, concentran-dosi attentamente, si può udire il racconto divecchie storie che la fonte ha conosciuto inquesto giardino. Può cantarti di amori consu-mati fra le fronde degli aranci, o passati nelportico, di bambini che giocarono fra i vasi ele pietre.”

Il calore giungeva a ondate dal muro della

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dad tutte le volte che io mi recavo dal barbie-re, prendendo persino l’abitudine di entrarenel municipio, come mi confidò il giovane bi-bliotecario cercando di non dare a vedere diessere geloso.

Non capivo se l’uomo dei servizi segreticercava di corromperla o convincerla a fare daspia. Naturalmente, con Soledad non ci sareb-be mai riuscito; tuttavia, quel pensiero mi rovi-nava le giornate.

* * *

Una pioggia sottile preannunciò l’arrivodell’autunno. Da due settimane non accompa-gnavo più Soledad in biblioteca. Dopotutto, di-cevo con amarezza fra me e me, avevo otte-nuto che trovasse una distrazione.

Talvolta, precedendo di pochi giorni le pri-me piogge, andavo a passeggiare sulle rive delDuero sonnolento, non ancora ampio in quelpunto del suo corso. Era lo stesso fiume chepiù a valle, arginato e irreggimentato, bagnavaValladolid dove avevo conosciuto Ulriche, eancora più a ovest, oltre confine, sfociava aPorto dove ci eravamo lasciati definitivamente.

Il Duero scavava un solco indelebile dentrodi me; era un filo al titanio ingoiato intero chetagliava ad ogni respiro, ad ogni singhiozzo,ad ogni riso, e ancora mi procurava emorragiead anni di distanza. Le sue rive erano come idue tempi della mia esistenza, separati e irre-dimibili: prima del Duero c’erano la scuola, l’u-niversità, l’adolescenza; dopo, la ricerca, il No-bel, il ministero e la fuga. In mezzo, Ulriche.

Una sera un’automobile venne a prendereSoledad. Udii il rombo sordo e odioso del mo-tore di grossa cilindrata, sentii l’odore di alcoolbruciato che assaliva il patio attraversando ilcancello di ferro. Soledad uscì con una corsaleggera dal portico sotto di me, tenendo unoscialle in mano e pettinata con cura come mail’avevo vista. Per l’occasione aveva indossatoun paio di scarpe a tacco alto acquistate a So-ria la settimana precedente.

La osservai con un misto di nostalgia eamarezza, e forse ineluttabilità; come se aves-se sentito il mio pensiero, un attimo prima diaprire il cancello ossidato si voltò e alzò la te-sta verso di me, oltre il vetro chiuso della fine-stra. Restò incerta e anch’io non seppi se riti-rarmi o salutarla.

Non feci niente, lei neppure. Continuò aguardarmi mentre usciva e richiudeva l’inferria-

ta, poi abbassò il capo e scomparve alla mia vi-sta. Lo sguardo mi si appannò quando scorsi, alvolante dell’auto, l’uomo dei servizi segreti.

Sentivo il sangue pulsare alle tempie. Scesia prendermi dal frigorifero una birra gelata.Uscii con l’intenzione di sedermi nel patio fin-ché la stanchezza e la birra non mi avesserofatto ciondolare la testa.

Invece pioveva; frustrato, salii verso la miacamera da letto. Sentivo il bisogno di leggereo di lavorare, ma passando davanti alla portadella camera di Soledad non potei resistere al-la tentazione di entrare. C’era un inconfondibi-le profumo di lei in ogni cosa, dalle tendinedella finestra al copriletto di seta pesante, aitappeti orientali accanto al letto, fino ai pochioggetti da toilette di fronte alla specchiera.

Su uno scrittoio, alcuni CD con l’etichettadella biblioteca comunale e un fascio di foglistampati al computer. Raccolsi tutto e scesinuovamente al portico, accorgendomi che nonpioveva più. Mi avvolsi le spalle in una coper-ta di feltro, sedendomi nel patio accanto allafontana che cantava senza sosta.

Lessi le poesie di Soledad sentendo le la-crime agli occhi. Parlavano anche di me e miresi conto di avere fatto una indebita intrusio-ne nella sua vita; posai i fogli e mi attaccai al-la birra, ma cominciavo a piangere come un vi-tello. Finalmente mi assopii.

Mi risvegliai nel pieno della notte, intirizzi-to. Non c’era alcun suono, ma una brezza cal-da aveva asciugato l’aria. Alla luce del lampio-ne continuai a leggere, scoprendo in Soledaduna profonda sensibilità per tutto ciò che lacircondava, mentre io l’avevo sempre reputatatroppo indifferente. Ascoltai il tintinnare dellafontana, ma invece di ricordi piacevoli mi ri-mandava agli ultimi giorni di solitudine, quan-do Ulriche era fuggita a Porto.

Tutto ciò che era stato, tutto ciò che sareb-be stato mi apparvero improvvisamente sottouna nuova luce, e vedevo l’inutilità in tutto ciò.Inutile era stato amare Ulriche se poi era mor-ta, inutile studiare e lavorare se avevo dovutofuggire, inutile tutto l’universo se dovevascomparire. Fu in questo stato d’animo che tro-vai fra le stampe di Soledad una poesia rico-piata da un CD della biblioteca; Nelle ultimestanze era scritto:

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Mi strinsi nelle spalle. “L’importanza è rela-tiva. Occorrerà ancora un milione di anni, co-me ti ho detto, prima che ci tocchi da vicino.La verità...”

Non ne avevo mai parlato con nessuno,mai avevo messo nulla per iscritto per non checadesse in mani sbagliate. Perché dirlo a Sole-dad? Ma non potevo tenerlo per me.

“Immagina un foglio di carta, un quadrato,”dissi quasi senza pensarci. “Immagina di pie-garlo su se stesso e incollare due lati fra loro:ottieni un cilindro. Tracciando una linea su unafaccia nel senso orizzontale, arriverai alla stes-sa facciata uscendo dalla sutura del lato. Se an-che per i due lati rimanenti si potesse fare lostesso, otterremmo una figura particolare. E’come lo schermo del PC: se esci con il curso-re dal margine destro, rientrerai dal sinistro, edal margine superiore all’inferiore. Lo schermodi un qualsiasi videogioco è lo sviluppo pianodi una figura geometrica simile a una ciambel-la con buco.”

Il mattino era fresco ma già i raggi di soleci raggiungevano. Sentivo la pelle di Soledadfredda al tatto, ma non si mosse.

“Prendi ora una stanza con sei pareti, uncubo. Se fosse possibile incollare fra loro a duea due l’esterno delle pareti opposte in modoche combaciassero perfettamente, cosa acca-drebbe? Infilando una mano in una parete lavedresti spuntare da quella alle tue spalle, edal pavimento al soffitto. Se la facessi penetra-re in uno spigolo, parti della mano apparireb-bero alla vista in tutti gli altri spigoli.”

Soledad mi ascoltava attenta, come una li-ceale innamorata del professore, una figlia chependeva dalle labbra del padre.

“Aumenta le pareti della stanza, falla diven-tare un dodecaedro, poi ancora più facce, sem-pre più piccole, sempre più sino a ottenereuna specie di sfera in cui ogni punto della su-perficie è uno spigolo. Un oggetto che la pe-netrasse uscirebbe all’estremità opposta dellasfera. Questo è in realtà l’universo: in principioesisteva un colossale buco nero supercollassa-to; dopo il big-bang, a mano a mano che siespandeva occupava lo spazio non-euclideodella sfera. Quando le galassie in espansione

raggiungono i limiti della sfera, che accade?Ogni granello di materia che penetra in unpunto-spigolo sarà presente in ogni altro. I li-miti della sfera del cronotopo spazio-temposono il capo opposto dell’universo. Tutti glispigoli della superficie formano un unico pun-to in questo Spazio non-euclideo: l’espansionedella materia porta anche alla sua contrazionefinale in questo punto, in preparazione di unnuovo big-bang all’altro polo del cronotopo.La massa gravitazionale che i miei colleghihanno scoperto nel cielo non è un altro uni-verso in via di collisione con il nostro, è l’im-magine della prima materia che ha raggiunto iconfini dell’universo e si sta ammassando inquel punto. La vita di questo cronotopo saràmolto più breve di quanto avessimo mai sti-mato: allontanandosi, le galassie allo stessotempo si concentrano. Il nuovo buco nero to-tale che si va collassando deformerà lo Spaziointorno a se stesso portandosi al centro di unasfera che avrà come capo opposto il punto delprecedente big-bang.”

Mi sentivo svuotato. Eppure era stato tantosemplice, tanto naturale parlarle: l’universo sta-va per finire, ma sarebbe rinato, entro alcunimiliardi di anni. Sebbene in un’altra forma, lateoria dell’esplosione primordiale era ancoravalida: l’Universo era uno solo, non c’eranostati vari distinti big-bang nel cosmo.

Ero svuotato, consumato. L’acqua della fon-te continuava a deridermi, riportandomi all’altrainfinita, ossessiva malinconia di trenta anni pri-ma. Sentii le lacrime salate agli occhi e non po-tei trattenerle. Soledad alzò la testa di scatto esi commosse. Mi abbracciò baciandomi gli oc-chi umidi e la fonte, consolandomi a sua volta.

“Non piangere,” disse “non piangere, sonoqui io. Io ti voglio bene, non lasciarti prende-re dalla tristezza. Cosa ci importa del milionedi anni, dei servizi segreti, dell’universo? Oh,vorrei che tu mi volessi bene come a una figlia,come a una bambina!”

Continuò a cullarmi nella rugiada che eva-porava, all’ombra profumata di zagara, fra ilcancello e il portico, e il pappagallo ripetevaallegro, gioviale: “Come-a-una-figlia, come-a-una-bambina!”

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IL DOTTOR CABANELLS MORÌ il giorno del cinquantesimo anniversa-rio della sollevazione falangista di Siviglia, il 17 di luglio. Lo vidiuscire dalla sua stanza di pensione, in via Cristo Almendra, quan-do era appena passata l’ora di pranzo e tutti si ritiravano nella fre-scura delle camere da letto cedendo al sonno che corteggiava conspesse ondate di torpore; seduto a torso nudo nella penombra ze-brata della veneziana, lo sguardo perduto nel chiarore accecantedella via, notai il dottor Cabanells dirigersi verso la Plaza de To-ros, incerto sulle gambe malferme, il bastone dal manico di ossostretto nel palmo. Sicuramente pensai che si stesse dirigendo aprendere il solito caffè allungato con latte al ristorante Ricomar, enon diedi al fatto la minima importanza.

Non sapremo mai quale ignoto desiderio lo spinse a discen-dere lungo il Camino de los Molinos. La giornata era torrida, ir-respirabile; l’aria bruciava come fuoco liquido nei polmoni. Il dot-tor Cabanells attraversò il ponte nuovo e il Barrio de la Ciudad,discendendo poi con passo malfermo per la via dapprima lastri-cata a gradini, quindi sempre più fuori mano dove raggiungeva ilfondo del declivio. Nella piana al riparo dalle rocce a strapiom-bo, dove non un filo di vento mitigava l’assalto della temperatu-ra, il vecchio catalano rimase fulminato, bollito vivo nella suastessa acqua corporea. Lo ritrovarono due ore più tardi, distesoquasi per pudore sul ciglio della strada, talmente morto oramaida far genuflettere in gran fretta il contadino che lo rinvenne peruna preghiera tanto rapida da poter precedere l’anima ancora involo.

Conoscevo il dottor Cabanells da poco tempo, eppure abba-

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Non giurammo fedeltà ad alcun Re

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cidente del pomeriggio mi aveva fatto dimen-ticare la morte del dottor Cabanells, il vecchiorepubblicano rientrato in patria dopo trentaseianni di esilio, e che dopo tutto questo tempoaveva deciso di ritirarsi in un altro confino vo-lontario lontano dalla sua amata Catalogna.

Rivissi i pomeriggi passati con lui nella fre-scura del caffè Ricomar, quando mi raccontavadell’esilio in Francia e poi in Inghilterra, dellaguerra, della difesa di Madrid, della presa diTeruel. Il mondo stava morendo un pezzo allavolta, mentre la realtà svaniva insieme alla me-moria degli ultimi sopravvissuti.

Mi affacciai alla ringhiera che dall’Alamedadà sullo strapiombo di duecento metri che li-mita a ovest la città. Tutta la pianura si srotolòdavanti ai miei occhi, con gli alberi e il fiumee la strada dove il dottor Cabanells era morto.La giornata non era più torrida, ma serena eventilata; il panorama della campagna coltiva-ta era veramente rilassante. Ciò che più conta-va, non vi era nessun esercito in marcia versola città.

Rassicurato, mi voltai per tornare in centroa cercare un bar e mangiare qualcosa; nel farciò mi ritrovai invischiato nel mio sogno ricor-rente.

C’era gente che passeggiava, altra gente se-duta sulle panchine a chiacchierare, anziani af-facciati ai balconi di pietra del mirador e bam-bini che giocavano ovunque. A nemmeno cin-que metri da me, affacciata alla ringhiera, c’e-ra la donna che ogni notte ritornava nei mieisogni.

Un improvviso giramento di capo mi fecebarcollare; afferrai saldamente il corrimano sul-la ringhiera della terrazza. Non si era accorta dime; mi pizzicai un braccio, ma riuscii solo aprovare dolore, senza svegliarmi dal sogno.

Non era un sogno. Indossava una maglia dicotone fatta a mano, colore terra di siena, e unpaio di shorts stampati. Era come nel sogno:identici i capelli castani gonfiati dalla messa inpiega, le mani sottili e curate che al momentostringevano una macchina fotografica. Era laragazza che ogni notte rincorrevo per calli an-guste, su e giù per le vie di paesi arroccati sul-la sommità di speroni rocciosi, mentre lei nonsi accorgeva del mio inseguimento sino al mo-mento in cui la raggiungevo.

Mi avvicinai. Si voltò, alzò le sopracciglia emi sorrise per cortesia. Era bellissima. Mi ac-corsi con terrore di non sapere cosa dirle.

“Io ti conosco” riuscii solo a balbettare.

Mi rispose in inglese che non parlava lospagnolo.

“Ieri avevi al collo una collanina di acqua-marina,” le dissi nella sua lingua, “e una ca-nottiera arancione.”

Si rabbuiò in volto. Certamente pensò chel’avessi seguita dal giorno precedente, mentreinvece le raccontavo solo ciò che di lei vede-vo ogni notte.

“Non andartene via,” dissi, “lasciami la pos-sibilità di spiegare,” tesi la mano verso di lei.

Mi guardò fisso e temetti che si voltasse perscomparire dalla mia vita. Non potevo lasciar-la sfuggire proprio quando l’avevo raggiuntadopo anni di frustrazioni notturne.

Invece mi porse la mano, lasciando chegliela tenessi. Avevo le palme sudate dall’emo-zione e mi sentivo terribilmente serio, mentrelei prendeva la cosa come un piacevole diver-sivo.

Più tardi, al tavolino di un bar, scoprì chenon ero spagnolo ma italiano, e io scoprii chenon era inglese ma norvegese e si chiamavaLinn. Ecco perché l’avevo vista tanto spessocon maglioni a collo alto e calzoni imbottiti.

Ordinai qualcosa, ma scordai di mangiarelasciando tutto a freddarsi nel piatto. Linn ri-mase seduta a schiena dritta sulla sedia adascoltarmi parlare, sorridendo e scuotendo in-credula la testa, oppure facendosi seria quan-do capiva che non scherzavo. Io sentivo caldo;osservavo il colore della sua maglia cambiarelà dove il seno modificava l’angolo della luce,e il moto appena percettibile del suo respiro.

“Ogni notte ti sogno,” le confessai, senten-domi più ubriaco che se avessi ingoiato litri divino. “Sogno di incontrarti e parlarti, mentre tunon ricordi nulla della notte precedente; potreidirti com’eri vestita ieri sera, e ogni notte dellasettimana scorsa, e il mese precedente, e qua-li gioielli portavi l’anno scorso. Ogni notte tumi torturi con l’assenza del tuo ricordo; ogninotte devo tornare a inseguirti, corteggiarti, lu-singarti fino a che non cedi e a quel punto iomi blocco. Mi baci, mi sorridi, mi preghi, miami ma io non riesco ad amarti, il mio corponon risponde. Mi risveglio sempre con il sapo-re delle tue labbra sulle mie e l’amaro in boc-ca. Se fosse continuato ancora per qualche me-se, mi avresti ucciso.”

“Cosa ti fa pensare che sia finita?” mi chie-se per provocarmi.

“Ora ti ho trovata, non posso lasciarti an-dare via. C’è un filo doppio che ci tiene legati

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sottufficiali discutevano tra di loro senza curar-si della ragazza che anacronisticamente pas-seggiava ammirando le rovine arabe lungo lachina, la gonna che oscillava ad ogni passosfiorando le ginocchia. Provai il fortissimo de-siderio di imbracciare un fucile per abbatterequegli spaventosi cavalieri incuranti che na-scondevano alla mia vista la passeggiata diLinn.

Un blocco alla bocca dello stomaco e la vi-sta appannata dalle lacrime furono i primi sin-tomi della comprensione.

L’esercito, le due ali della morsa che anda-va stringendosi intorno alla città, era compostodi morti. Erano schiere di defunti ammazzatiper mano umana, tutte le vittime delle innu-merevoli guerre dalla notte dei tempi. I fantac-cini greci, i barbari, i crociati, i samurai, i fantie i cavalieri di tutto il mondo dilaniati dallebombe, assassinati a colpi di scimitarra o di fu-cile, falciati dalla mitraglia e dalle epidemie, fu-cilati per diserzione o per codardia. Non mistupii che infine il luogo in cui i morti vannodopo il passaggio sulla Terra si fosse riempito,e che ora essi tornassero per riconquistarequesto mondo. Compresi come il dottor Caba-nells, il sopravvissuto della guerra civile, fossecaduto prima vittima della vendetta finale.

Un vuoto improvviso mi abbracciò, diso-rientandomi tanto che quasi il binocolo misfuggì di mano quando mi resi conto che laprossima vittima ero io. Ciò che non compren-devo era perché proprio io, che non avevo maicombattuto in nessuna guerra, dovessi essere ilpredestinato.

* * *

“Vorrei andare al mare,” disse Linn mentre,chiusi nella stanza di pensione a leggere,aspettavamo l’ora di cena.

Lo sguardo mi corse al cesto di conchiglieassortite che con perizia da dilettante Linn an-dava cercando di spiaggia in spiaggia, da Ca-stro Urdiales a Alicante, da Torremolinos a Ma-taró, da Huelva a La Coruña.

“Al mare?” ripetei per prendere tempo. Persottolineare la sua intenzione, Linn si provò al-lo specchio un cappello di paglia a tesa larga,con il chiaro intento di ignorarmi sinché nonavessi acconsentito.

Non avevo alcuna voglia di accompagnarlaal mare. Il solo pensiero di lasciare la città e ri-trovarla al mio ritorno occupata dall’esercito

fantasma mi impediva di muovere un passofuori dai suoi confini.

“Mi sento a terra,” mentii, “potresti andareda sola; c’è una corriera che porta a Cadice inpoche ore. Se ti fermi una notte, potresti esse-re di ritorno domani per il tardo pomeriggio.”

Ignorandomi ostentatamente per dimostra-re di essere offesa, preparò una borsa conasciugamani e costume. Sdraiato sul letto, stra-ziato dalla voglia di trattenerla ma senza la mi-nima volontà di fare alcunché per dirglielo, ri-masi a guardarla mentre si rivestiva con stu-diata accuratezza, come per punirmi di nonprestarle l’attenzione che, a ragione, pensavadi meritare.

Con un fondo di nausea, ricordai di nonaver ancora avuto il coraggio per tentare divincere l’impotenza che al di là della cortinadel sogno mi impediva di amarla. L’appunta-mento notturno non si era più ripetuto dalgiorno in cui l’avevo incontrata sull’Alameda, ilprofilo stagliato contro le colline della Serranía.

Mentre la accompagnavo alla stazione del-le corriere mi ritrovai a pensare con orrore chenon tornasse mai più da me, che da Cadiceprendesse il treno per Siviglia abbandonando-mi nella pensione con i suoi vestiti e le sueconchiglie, con il paesaggio inconsueto dellacittà e l’esercito morto che la assediava.

Poi temetti ancora che, quando fosse torna-ta da Cadice, l’assalto delle armate delle pia-nure fosse già iniziato, tagliando fuori qualsia-si via di accesso alla città. Tuttavia, mordendo-mi il labbro, non feci nulla per trattenerla.

Ci fermammo un minuto in un bar dove fe-ce una telefonata in Norvegia, quindi giun-gemmo alla stazione giusto in tempo per il bi-glietto.

“Ti rivedrò domani?” le domandai afflitto.Per la prima volta da quel mattino scostò

la cortina di indifferenza che mi mostrava.Piegò le labbra in un sorriso. “Cosa dici? Certoche mi rivedrai.”

Annuii a occhi chiusi. Sulla via del ritornoverso la pensione udii le prime cannonate. Misentii mancare perché, a irridere le mie previ-sioni, l’attacco era stato sferrato da est, dai ba-gni arabi.

* * *

Tutto il pomeriggio rimasi sul ponte nuovoa osservare atterrito i movimenti di truppe in-torno al ponte romano. L’artiglieria martellava

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Sapevo che i difensori si sarebbero battuticome leoni, come già testimoniavano le molti-tudini di corpi riversi lungo la strada a fiancodell’antico castello, là dove i combattimenti peril possesso delle muraglie arabe erano stati piùcruenti. A modo mio soddisfatto, decisi di ispe-zionare il fronte settentrionale. Mi fermai soloper mangiare un panino in un bar del centro,circondato da spagnoli assonnati che si prepa-ravano per andare al lavoro.

Guardai l’orologio: le otto e trenta. Era suf-ficiente che la strada per Cadice rimanesse li-bera per otto-dieci ore per consentire il ritornodi Linn. Volai in direzione della stazione degliautobus, dove tutto era calmo; idem alla sta-zione ferroviaria; la battaglia era ancora lonta-na.

Non riuscivo a comprendere la strategia de-gli assedianti. Perché sprecare tempo ed ener-gia in attacchi suicidi sulle chine più ripide,esposte al fuoco dei difensori, al sole cocente,alle fatiche dell’arrampicata? Perché trascinaregli obici a forza di braccia per vie tanto ripideda schiantare di fatica i soldati?

Quanto sarebbe stato più semplice vinceredal lato nord, dove il fronte era piatto, largo,difficile da tenere! Ma gli attaccanti disponeva-no di un vantaggio che la città non aveva: lapreponderanza del numero. Tutta la pianurabrulicava di tende e accampamenti, bandiere,recinti di cavalli, squadroni di fanteria in mar-cia di allenamento, depositi di materiale, ospe-dali da campo.

La resistenza della città sarebbe stata spez-zata a colpi di obice, i difensori stanati con ilfuoco e la dinamite, gli abitanti decimati perrappresaglia. Ma per tutto ciò era necessaria lafanteria: per proteggere il lavoro degli artificie-ri, per contendere strada a strada i quartierispezzati dalle granate, per snidare i cecchini,per neutralizzare i nidi di mitragliatrici, per as-sediare le sacche di resistenza.

In preda a un delirio incurante, mi spostaitutta la mattina da un fronte all’altro, impre-cando contro i turisti, appostandomi dietro imuretti con il binocolo puntato sulle zone cal-de.

I combattimenti non cessarono per tutto iltempo; a metà giornata, fiaccata l’ultima resi-stenza al Barrio di San Francisco, l’artiglieriaalzò il tiro sui quartieri nuovi. Inchiodato nellestrade del centro cittadino, il nemico concen-trò i propri sforzi sulle pendici orientali delBarrio de la Ciudad, negli isolati intorno al

ponte arabo e al ponte romano.Era necessario fare di tutto per garantire

l’incolumità di Linn. Mi recai personalmente al-la stazione per accertarmi dello stato del fron-te, e con gran soddisfazione vidi che non c’e-ra traccia di combattimenti da quella parte, tan-to che le autorità militari della città usavano ilBarrio del Mercadillo per il riposo delle truppestremate: però mezz’ora prima una granata eraesplosa nel piazzale antistante la stazione,sventrando un pullman che aveva portato finlà un gruppo di turisti francesi.

Passeggiai nervosamente per ore ed ore,informandomi sugli orari di arrivo delle corrie-re da Cadice. Ero orgoglioso della città, orgo-glioso della sua insospettata capacità di difesa,orgoglioso di me stesso. Avrei portato Linn apasseggiare sottobraccio per l’Avenida Dr. Fle-ming, incuranti delle granate che esplodevanosulle facciate degli alberghi. Sarebbe stato ne-cessario curvarsi al riparo dei parapetti delponte nuovo per passare al di là del tajo, nelBarrio de la Ciudad.

Pensai a quanto sarebbe stato eccitante se-derci ai tavolini di un caffè all’aperto a osser-vare l’affluire dei volontari sul fronte più mi-nacciato. Mi sentivo in grado di amare Linn.L’avrei amata anche in quel preciso momento,in mezzo alla strada, fra i lettini improvvisatidell’ospedale da campo. Sentivo di avere final-mente, definitivamente sconfitto la mia impo-tenza.

* * *

A tarda sera Linn non era ancora tornata. Lacittà era agonizzante; il cuneo conficcato a vi-va forza nel suo cuore era affondato ancora dipiù nel corpo morente, fino a raggiungerne leviscere. I difensori, stremati, non avevano piùla volontà né la possibilità di resistere; nel Bar-rio de la Ciudad non erano rimasti nelle loromani che pochi isolati devastati.

Passeggiai nervosamente su e giù per i via-li dell’Alameda, fra gli alberi spezzati e le pan-chine divelte, torcendomi le mani dall’ansiaper la sorte di Linn. Non potevo ritornare allapensione perché via Cristo Almendra era dive-nuta teatro di furiosi combattimenti. Dormii al-l’addiaccio, su una panca di pietra del paseode los Ingleses, lontano da possibili obbiettividi granate.

Gli incubi mi tormentarono per tutta la not-te. Vedevo una pattuglia di Morti bloccare la

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realtà, mischiano l’idea e il mondo materialeper incapacità di distinguerli. Artisti o pensa-tori, viaggiatori o scienziati, musicisti o poeti,tutti vivono uno sfasamento rispetto allarealtà. Io sento di appartenere a questa schie-ra di pazzi, questi perseguitati da ogni inqui-sizione. Noialtri non siamo in grado di distin-guere l’immaginazione dall’accaduto, l’ideadall’evento; non abbiamo radici in un mondoche ci etichetta come insani, come folli; nonvogliamo avere alcun legame con la realtàdelle leggi economiche, con questa silenziosamaggioranza morale che si sta impadronendodell’universo. Noi non giurammo fedeltà adalcun Re, né al denaro né ai signori dellaguerra, non siamo in grado di riconoscerel’importanza di quanto viene innalzato a reli-gione da questa massa di insetti brulicanti che

consuma la superficie del pianeta.”Una luce di comprensione si era fatta stra-

da negli occhi complici di Linn, che rimase aosservarmi quasi ammirata benché non le fos-se consentito da millenni. “Ciò che dici è affa-scinante” ammise infine “Affascinante almenoquanto lirico. Narciso doveva essere uno deituoi antenati.”

Scossi la testa, comprensivo a mia volta.Del nostro pasto non erano rimaste che bricio-le sulle tovagliette di carta.

“Non è esagerata considerazione di mestesso,” risposi, “è solo comprensione tardiva.

“E ti sono bastati due giorni per compren-dere?”

“Sì,” risposi ridendo in cuor mio. Il vellutocupo della notte aveva già conquistato la tota-lità del cielo. “Due giorni di furiosa battaglia.”

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Morieris, non quia aegrotas, sed quia vivis (Seneca)

VIDI LA RAGAZZA DURANTE LA MIA ABITUALE PASSEGGIATA per studiare ituristi in arrivo. Il sole si era da poco levato sulle alture appenaaccennate della mesa di Ocaña, il treno da Madrid era arrivato daqualche minuto e già i taxi erano partiti alla volta della città. Nelpiazzale della stazione ferroviaria, all’ombra fragile del sole di ini-zio autunno, era rimasta una sola vettura con il baule sollevato ele portiere anteriori aperte.

La ragazza era in piedi sul marciapiede. Intuii che era stranie-ra, perché quella mattina in cui gli spagnoli si coprivano di ma-glie leggere per non sentire il sarcasmo dell’aria, lei rimaneva abraccia nude, le mani incrociate sulla borsetta che teneva in spal-la. Restai fermo dalla mia parte del marciapiede, fingendo non-curanza. Udii sbattere le portiere del taxi, poi il rumore della mes-sa in moto.

L’auto venne verso di me, rallentando per dare la precedenza.Per pochi secondi la ragazza rimase visibile a non più di un me-tro dal mio volto e i nostri sguardi si incrociarono.

L’auto accelerò senza fretta, allontanandosi verso il ponte forseper entrare in città o forse per continuare alla volta di Talavera. So-lo allora distinsi sul sedile posteriore la figura di un uomo dalletempie brizzolate, con una giacca di colore scuro sulle spalle.

Tornai con calma verso la città, ammirando una volta ancorail suo profilo purpureo nella linea discontinua del piano, l’acquagrigioverde del fiume nell’alveo incassato fra le rocce; tutto eracome il mattino in cui ero giunto dall’Italia per un esilio che non

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Cronache dell’arabesco di pietraTerzo classificato Premio Italia 1990

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do il mortaio del tempo ancora non ne avevadisfatto i lineamenti; eppure era invecchiatotanto velocemente da ingannare ogni mio ten-tativo di identificarlo. Julien Delacroix: il nomenon mi diceva nulla.

“Questo è il ritmo della vita a Toledo” dissialludendo all’orario di cena.

Scambiammo le reciproche impressioni sul-la Spagna; io vivevo a Toledo da nove mesi, daquando cioè avevo dovuto lasciare l’Italia permotivi politici. I due francesi invece mi con-fessarono di inseguire l’estate che scendevaverso sud.

Assaggiammo lo Jerez che avevo portato;mentre parlavo con Marie Claire e suo padre lariva opposta del Tago perse colore fuori dallafinestra, stemperandosi dal porpora e verdeoliva del pomeriggio nel rosso ruggine e nelgrigio cenere della sera, quindi nel porpora cu-po che precedeva la notte. Era la magia atem-porale di Toledo che si ripeteva come ogni se-ra da secoli e secoli.

Toledo è un arabesco di pietra, una fortez-za di terra e roccia che sfida le ingiurie delTempo da ben prima che i Visigoti la elegges-sero capitale. Toledo è un cerchio di mura, unalinea spezzata di torri circondata da un mare dicampi ocra e da un fiume che cambia colore aogni ora del giorno.

Quando il sole calò le rughe sul volto di Ju-lien si fecero più profonde, scavate dalla sof-ferenza. Ci chiese il permesso di ritirarsi. MarieClaire avrebbe voluto accompagnarlo e io sta-vo già per uscire, ma l’uomo insistette perchéla figlia rimanesse a farmi compagnia.

“E’ malato” disse Marie Claire quando il pa-dre chiuse la porta dietro di sé, mentre io an-cora mi stavo arrovellando su chi fosse l’uomoche si nascondeva dietro quella maschera dirughe e sofferenza.

Andai alla finestra, quella che dava sullacittà, verso il cielo striato dai fasci di luce cheilluminavano la cattedrale da ogni lato nellabella sera autunnale. C’erano voci di donne erisa per strada, poco distante da noi.

Marie Claire venne al mio fianco. “Un tem-po era molto diverso” mi confessò. “Prima an-cora che nascessi, era veramente un uomo; unuomo vivo, uno di quelli che plasmano a pia-cere la propria esistenza. Gli ultimi anni l’han-no cambiato, la malattia scava in lui gallerie so-me un parassita.”

La voce della ragazza era dolce e suadentecome la brezza della sera, stregava più delle ri-

sa lontane, più dell’apparente silenzio del fiu-me tutto intorno alla corona di roccia di Tole-do, più della poesia di Machado.

“Temo sia ora di andare” dissi. Marie Clairenon si oppose; mi accompagnò alla porta au-gurandomi la buonanotte.

* * *

Durante la notte ricordai dove avevo vedu-to il volto di Julien Delacroix. Cercai febbril-mente sulla rete telematica per un paio di ore,in piena notte, ma non trovando nulla di re-cente mi recai alla biblioteca pubblica al mat-tino.

Ritornai a casa con un volume sottobraccio,che posai sulla scrivania accanto al libro di Ma-chado. Nel risvolto di copertina riportava alcu-ne note sull’autore, Julien Cross. Era lo pseu-donimo dello scrittore parigino Julien Dela-croix, famoso per un certo tempo anche dopoche aveva smesso definitivamente di scrivere,quasi venti anni prima. L’edizione del roman-zo che tenevo in mano risaliva a quel periodo,perciò non riportava cosa fosse accaduto al-l’autore perché rinunciasse a scrivere. Ricorda-vo vagamente un delitto per il quale avevascontato una condanna penale, ma il fatto ri-saliva a tanto tempo prima, quando ero anco-ra bambino. Chiuso il libro, mi accinsi alle con-suete cure per le mie piante sensitive.

Appena entrai nella loro stanza serra mi ac-colsero con la quotidiana orchestra di colori,ma quando percepirono la mia preoccupazio-ne vidi le corolle più sensibili ciondolare sullefoglie chiuse.

Non ero nello stato d’animo di prenderme-ne cura. Ne scelsi una a caso, una tigrata chenei suoi momenti migliori era un’orgia di colo-ri di sfumature diverse e la portai alla finestradel soggiorno.

Il caso volle che proprio in quel momentoMarie Claire stesse rientrando dal portone; ap-pena la tigrata percepì la presenza della ragaz-za, si sintonizzò sulla sua frequenza allargandole foglie pervinca; dilatò i calici pieni e accesei colori per attirare la sua attenzione.

Marie Claire si fermò subito quando vide lapianta. “Una modificazione genetica...” bal-bettò quando riuscì a vincere l’ipnosi di colori.La pianta moltiplicò gli sforzi per accattivarsi lasua simpatia.

“Una sensitiva” precisai. “Dovresti deciderese ti piace, altrimenti la farai impazzire.”

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quasi per scuotersi dall’incanto che l’aveva ra-pita; evitò di proposito di gettare uno sguardoall’altro volume. “Me lo presti?” Domandò. Loprese in mano stringendolo al seno mentre laaccompagnavo alla porta.

* * *

Trascorsi tutto il pomeriggio in rete per cer-care informazioni su Julian Cross: non esistevaun sito specifico. Su un motore di ricerca rin-tracciai finalmente notizie sull’epoca in cui erastato coinvolto nel delitto per il quale vennecondannato. Ero tanto immerso nella mia ri-cerca che quasi non mi accorsi dell’ora di ce-na; preferii mangiare qualche tapas da solo inun bar, riordinando al tavolino i miei appuntiche gettavano una luce nuova su Marie Clairee Julien Delacroix, riguardando indirettamentepersino la mia vita.

Diciotto anni prima Julien aveva ucciso ilfratello Aldous, celebre economista e politolo-go molto in auge, per via di una relazione chequesti aveva con la moglie; quando lo scritto-re aveva scoperto che la paternità della figliaappena nata non era la sua, aveva strangolatoil fratello in un accesso di furia. Julien Dela-croix era stato condannato a vent’anni, il tribu-nale aveva affidato la piccola Marie Claire allamadre. La cronaca rosa del tempo era prodigadi notizie sugli avvenimenti, fino alla mortedella donna avvenuta pochi mesi prima del ri-lascio del marito dopo quindici anni di deten-zione.

Marie Claire, che all’epoca della scarcera-zione aveva diciassette anni, scelse di viverecon l’ex marito di sua madre.

Non riuscivo a comprendere. Pensavo cheMarie Claire avrebbe dovuto provare senti-menti negativi verso l’uomo che aveva uccistosuo padre; al contrario, mi pareva sinceramen-te affezionata a Julien Delacroix, mentre inve-ce alla madre scomparsa non accennava mai.Evidentemente c’era qualche particolare cheancora mi sfuggiva.

La vicenda aveva attinenza con la mia vitanel senso che Aldous Delacroix, il fratello diJulien, aveva consacrato la sua vita di ricerca-tore al perfezionamento di quella branca dellescienze politiche che si occupa di un ideale si-stema di votazione, adottato infine dalla quasitotalità delle nazioni europee occidentali: èquesta la ragione per la quale ho dovuto cer-care riparo all’estero.

Tornai a casa. Volevo conoscere meglio ilrapporto fra Marie Claire e il padre (mi sentivodi chiamarlo così perché lei lo considerava ta-le). Sentivo che avrebbe potuto essere un’in-trusione nella loro vita privata, ma l’enigmadella ragazza dagli occhi color del Tago mi sta-va catturando.

Arrivando a casa non distinsi nell’ombradelle scale la forma di Julien Delacroix sedutosui gradini più bassi. Solo quando stavo per gi-rare la chiave nella toppa udii il suo respiro.

“Io sto morendo” mi disse in un soffio rau-co. Lo feci entrare senza accendere la luce. Lesue membra scarne attraverso la camicia eranocome nodi nel legno di una pianta malata sot-to le mie dita.

Non distinsi la sua espressione; preferii chetutto rimanesse nell’incertezza della penombraper non rendergli più penoso l’atto di parlarmi.

“Le ho mentito” continuò raschiando con lecorde vocali sul cristallo della propria gola,inumidito dalle lacrime inghiottite. “Da Toledoio non mi muoverò mai più. Mi restano pochesettimane, al massimo sei mesi di vita. MarieClaire non vuole ammetterlo perché altrimentinon ce la farebbe a restarmi vicina.”

“Le è molto affezionata” commentai.Assentì. “È grave non avere nessuno con

cui parlare. Quando accenno alla mia mortetutti sembrano cambiare discorso; la verità èche oggi si ha troppa vergogna del dolore, co-me se si potesse rimanerne contagiati. Nonfuggirà anche lei, vero?” Domandò.

“Io sto già fuggendo” replicai. “Sono unfuoriuscito della Libertà Obbligatoria.”

Annuì. Aveva compreso. “Ognuno a modonostro,” disse, “noi siamo due esiliati.”

Mi ferì. Compresi in quel momento che nonavrei mai potuto rientrare in patria; compresil’inconsistenza di tutte le illusioni che avevomantenuto sino a quel momento: era impossi-bile ignorare la civiltà degli assiomi di Arrow.Con una sola frase il vecchio aveva distrutto lasterile serenità dei mesi di Toledo. Noi siamodue esiliati.

Era un grumo di cellule avvelenate, l’ombrasfuocata di un essere umano, mentre io ero an-cora vivo e vegeto, mi tenevo stretta la vita eancora speravo di poterla cambiare; tuttavia,aveva colto nel segno. Eravamo simili. Erava-mo due esiliati.

“Vorrei” sospirò ancora “che lei aiutasseMarie Claire. Deve cercare di distrarla, non ègiusto che dedichi gli anni migliori della sua

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* * *

Quando Aldous Delacroix era morto permano del fratello, stava lavorando all’Univer-sità della Pennsylvania su un corollario cheperfezionasse i cosidetti assiomi di Arrow. Dalvolume preso in prestito in biblioteca appresiquanto volevo sulla materia; in parte ne cono-scevo già la teoria, essendomene occupato altempo dell’opposizione parlamentare al Cartel-lo Europeo Razionale. Intorno al 1950 l’econo-mista americano Kenneth Arrow formulò cin-que assiomi volti alla ricerca di un sistema divotazione perfetto, che tenesse conto della vo-lontà reale di ogni votante. Di fronte a un de-terminato numero di opzioni, di scelte colletti-ve, Arrow volle disporre la scelta secondo unmetodo razionale che soddisfacesse le prefe-renze individuali di ognuno. Disgraziatamentelo scienziato si accorse che per soddisfare tut-ti gli assiomi esisteva solo una soluzione ditta-toriale, con concentrazione delle possibilità diveto nelle mani di un singolo individuo. Il Po-tere definitivo.

Ma le conclusioni di Arrow non avevanoesaurito la ricerca in materia; un’équipe di eco-nomisti aveva continuato le ricerche negli Sta-ti Uniti, giungendo alla elaborazione di un co-rollario o sesto assioma. Il principale ispiratoreera stato Aldous Delacroix. Sette anni dopo lasua morte, il corollario aveva ugualmente ve-duto la luce ed era stato immediatamente ap-plicato al sistema di votazione elettronica adot-tato negli Stati Uniti. Era poi nato anche in Eu-ropa un cartello di nazioni per l’adozione delsistema elettorale elettronico ponderato. L’Ita-lia era stata dilaniata da una lotta politica proe contro l’adesione al cartello sinché, quattroanni prima del mio esilio, il partito a favoreaveva vinto.

Come in ogni altro Paese aderente al car-tello, la fisionomia sociale cominciò a cambia-re: di fatto, la comparazione ponderata dellepreferenze, così come prescritto dagli assiomidi Arrow e dal loro corollario, assicurò il dirit-to di veto sulla quasi totalità delle scelte col-lettive a un’oligarchia non individuabile che,forse anche senza coscienza di sé, cominciò agovernare buona parte dell’Europa occidentalecon una sorta di dittatura mascherata.

L’Italia si trasformò, la vita diventò impossi-bile per molta gente. Il Parlamento si sciolsepoiché ogni decisione veniva presa con suffra-

gio universale dalla collettività; di fatto, era l’o-ligarchia a esercitare il potere.

Così ero riparato all’estero. La Spagna an-cora non aveva aderito al Cartello Europeo Ra-zionale ma il partito a favore andava raffor-zandosi. Dall’esterno, la governabilità dei Pae-si del cartello sembrava aumentata, la solida-rietà nazionale rafforzata, la burocrazia elimi-nata. All’interno, ognuno si adattava di buongrado alle decisioni collettive, senza sapereche a tirarne le fila era un’oligarchia occulta.

Aldous Delacroix era morto prematuramen-te ma i suoi successori avevano ugualmentecondotto in porto le ricerche; e questo avevacausato il mio esilio passivo, la mia abulia pri-va di reazioni in una Toledo residuata dal pas-sato, magnifico arabesco autunnale nel centrogeometrico della Spagna.

E Julien Delacroix spegneva giorno dopogiorno. Le sensitive percepivano il mio statod’animo, e siccome da parecchi giorni ero pra-ticamente l’unico mammifero con cui entrava-no in contatto, le trovavo molto avvilite.

Un pomeriggio, appena svegliato da unasiesta intossicata da un incubo, le piante senti-rono il mio stato d’animo e prima che me neaccorgessi un’aria da funerale invase la serra.Guardavo le sensitive con le corolle chine, glisteli ripiegati, i petali raggrinziti, e mi resi con-to di quanto fosse terribilmente sarcastico daparte nostra fare in modo che assumessero at-teggiamenti umani: sembravano schiere dibambini a capo chino, la testa fra le ginocchia,offesi per un rimprovero o partecipi per soli-darietà della mia malinconia. Naturalmente,era stata la sottile crudeltà che gli esseri umanichiamano umorismo a fare in modo che attra-verso selezioni artificiali di cromosomi quellepiante potessero parodiare i nostri atteggia-menti.

Quella che per mesi era stata la mia occu-pazione principale, sin dal mio arrivo a Tole-do, mi parve in quel momento inutile, superfi-ciale, infantile. Per le mie piante avevo rinun-ciato a mantenere contatti epistolari con i com-pagni esiliati, a reagire in qualche modo aglieventi avversi.

Y guardar el secreto de nuestros rostros pà-lidos... serbare il segreto dei nostri volti pallidi.Sedetti con la testa fra le mani su una brandache tenevo in un angolo della serra, accanto alcassone con il microscopio, le provette e gliagenti chimici. Il sangue batteva tanto forte al-le tempie che non sentii entrare Marie Claire.

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segna del potere all’oligarchia.”Non aveva smesso di sorridere.“È la verità” aggiunsi curvandomi verso di

lui. “Lei sperava di interrompere le ricerche,ma ha solo concesso all’umanità una dilazionedi qualche anno. Ora siamo dentro fino al col-lo. Noi siamo gli esiliati, Delacroix.”

Chiuse gli occhi, inspirò profondamente si-no oltre al diaframma; temevo che sarebbescoppiato a tossire.

“È tutto passato” disse “è tutto così lontanoche a rovistare in quella storia emettendo latua sentenza adesso pecchi solamente di pre-sunzione.”

“Non è vero. Io ho le prove. Quando lei èandato da Marie Claire le ha raccontato tuttoed è per questo che sua figlia ha accettato diseguirla. In caso contrario, Marie Claire nonavrebbe mai visto in lei un padre. Lo ammet-ta.” Mi avvicinai a lui tanto che il suo volto oc-cupò tutta la mia visuale. “Lei è un benefatto-re dell’umanità.”

Chiuse gli occhi, respirò ancora. Si era ad-dormentato. Gli tastai il polso, contai i battiti.Uscii dalla stanza in silenzio.

* * *

Morì due notti più tardi. Sentii l’urlo di Ma-rie Claire che chiamava il mio nome. Salii dicorsa gli scalini; Julien Delacroix era distesonel suo letto a occhi sbarrati ma con un’e-spressione tranquilla. Gli serrai le palpebre.

Marie Claire era in piedi contro il muro, ilvolto fra le mani, soffocando i singhiozzi.Quando finalmente arrivò l’ambulanza cheavevo chiamato, si era calmata e seduta al ta-volo della cucina. Non volle dare l’ultimosguardo al corpo del vecchio quando lo porta-rono via, non mi raccontò come fosse accadu-to; sospettai che si fosse coricato presto e chela figlia, andando a salutarlo per la buona not-te, l’avesse trovato già spento.

Sentii un vuoto nello stomaco. Era mortoJulian Cross, e Julien Delacroix che era statoancora più grande di lui. Continuai a passarele dita sulla pentola di terracotta verniciata deltavolo, pensando al vecchio inanimato e fred-do nella cella frigorifera dell’obitorio. MarieClaire scelse di fare cremare il corpo, e il gior-no stesso della funzione scomparve di casacon le ceneri.

Rimasi giorni interi senza mangiare né usci-re di casa. Per lo più osservavo il soffitto cer-

cando nelle macchie dell’intonaco il volto diJulien e le onde dei capelli di Marie Claire, legocce delle sue iridi e la lama bianca della fal-ce.

Mi giunse un telegramma da San Sebastián,con l’indirizzo della sua pensione e la preghie-ra di raggiungerla.

Viaggiai tutta la notte in treno senza chiu-dere occhio, prima fino a Madrid e poi da là aSan Sebastián. Avevo la giacca e i calzonisgualciti quando, giungendo alla stazione sen-za bagaglio, attraversai il ponte marino verso lacittà.

Non era alla pensione. Scesi con le mani intasca verso la spiaggia, quasi rosa nel contra-sto con l’Atlantico adirato. Camminai verso lacittà, poi tornai sulle mie orme verso il litoraleopposto, oltre una catena di dune. Salii sullapiù alta, riempiendomi le scarpe di sabbiafredda. Il vento tenace non aveva pietà per lamia giacca; discesi la duna e ne valicai un’al-tra.

La trovai seduta su un relitto di barca sfon-dato semisommerso nella sabbia. Passava unpugno di rena da una mano all’altra e mi sentìarrivare, volgendosi a guardare. Aveva i capel-li negli occhi e grossi orecchini ad anello cheil vento scopriva, una giacca sulle spalle e cal-zoni bianchi rimboccati sulle caviglie. Mi fer-mai di fronte a lei, senza sedermi. Come al so-lito, mi sorrise.

“Torna a casa,” le dissi, “torna con me a To-ledo.”

Sorrise ancora, senza lasciarmi capire se sa-rebbe venuta.

“Volevo riportarlo in Francia, mi sono fer-mata qui. Julien diceva che la Francia non èpiù un paese da vivere. Qui è così simile allaFrancia atlantica...”

L’atlantico... pensai con nostalgia, persinocon una stretta al cuore all’arabesco di pietraserrato in un’ansa del Tago, nel cuore dellaSpagna.

“Torniamo a casa” ripetei, “finché non pre-tenderanno di imporre la libertà con le leggianche quaggiù, Toledo è la nostra patria.”

Appoggiò le labbra sulle labbra incrociatealle ginocchia. Mi ritrovai a pensare a come lamorte ci avesse uniti indissolubilmente, ma an-cora una volta mi contraddisse.

“Tienimi,” disse Marie Claire, “tienimi stret-ta. lo e te aspettiamo un bambino.”

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CREDETTI DI VEDERE ANCH’IO LA CENERE il giorno in cui giungemmo aGranada. Mi ero assopito sul sedile del treno perché ci eravamosvegliati di buon’ora, a Siviglia, e mi sentivo debilitato dal conti-nuo oziare degli ultimi mesi.

Socchiusi gli occhi mentre il mio cervello cercava di registra-re cosa avesse causato il risveglio, e vidi Arianna seduta sul sedi-le di fronte, già sveglia.

“Hai fame?” chiesi, ancora avvolto dai fumi del sonno. Alzò unsopracciglio; io gettai uno sguardo fuori dal finestrino e sobbal-zai, artigliando con le dita i braccioli del sedile fino a sbiancarmile nocche. Per un attimo mi sembrò che la stazione ferroviaria diGranada in cui stavamo entrando fosse avvolta in nuvole di ce-nere che si gonfiavano e contraevano intorno ai piedritti di mat-tonelle, alle pale di segnalazione, ai calzoni del capostazione fer-mo sul marciapiede.

“Cos’hai?” domandò Arianna. Mi accorsi allora che non si trat-tava di cenere ma di fitta nebbia mattutina smossa dall’arrivo deltreno; subito mi rilassai, ma sentivo il cuore battere a cento all’o-ra.

“Stai tremando,” disse Arianna.Fui lieto che non avesse compreso la ragione del mio smarri-

mento.“Ti sbagli,” risposi laconicamente, e mi alzai per prendere le

valigie dal portabagagli.L’aria nella stazione era calda, era solo di nebbia estiva che già

andava dissolvendosi. Ricordando la mia precedente visita, nel-l’estate di qualche anno prima, guidai Arianna verso un hostal

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Verrà il tempo della cenere

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mandarle cosa fosse accaduto.Arianna indicò con un cenno del capo il

termine della costa, in basso davanti a noi. “Lacenere” disse “eccola.”

“E’ fitta?” domandai dopo aver seguito ilsuo sguardo.

Arianna guardò per qualche secondo da-vanti a sè, mentre i pochi passanti che osava-no affrontare l’ascensione all’Albaicín la osser-vavano curiosi. “Si va infittendo. E’ scura e pie-na di figure.”

Cacciai fuori tutta l’aria dai polmoni, cer-cando di non farmi sentire da Arianna. Pessi-mo segno: anche a Tripoli aveva veduto figurenella cenere, cariatidi alate e altri animali fan-tastici, e mi aveva costretto a percorrere perquaranta giorni la costa della Tunisia e dellaSirte.

“E’ fitta. Fittissima,” disse muovendo appe-na le labbra.

La afferrai per le braccia, scuotendola convigore. “Stai calma, non ti succederà niente, so-no qua io,” le gridai in viso.

Aveva braccia sottili e delicate; si soffiò viai capelli dal viso senza cercare di liberarsi. “Seitu che ti stai eccitando,” disse senza alterare lavoce.

La lasciai. Continuò a osservare il fondodella costa. “E’ troppo densa e sta salendo; cisono già due o tre dita di cenere sul selciato.Dobbiamo tornare su.”

La seguii docile, senza che ci affrettassimo.Ogni tanto si gettava un’occhiata alle spalle,ma quando rientrammo dalle mura arabe del-l’Albaicín si calmò.

“Sento che siamo vicini,” mi disse senza fer-marsi, e non era tesa nè eccitata, ma soprattut-to non sembrava per nulla alterata. “Il centrodell’Universo deve essere a poca distanza, for-se addirittura qua a Granada. Collima perfetta-mente con la mia ipotesi della spirale di città.”

Perché Granada era la sessantaquattresimalocalità che visitavamo dall’inizio dell’odisseamentale di Arianna, ed è veramente il centro diquella spirale che si ottiene congiungendo conuna linea immaginaria tutte le città toccate du-rante gli ultimi mesi: da Roma a Torino e aBordeaux e Siviglia, e Fes, Tunisi, Marsiglia,Madrid, Cordoba, Tetuan, Algeri, Valencia, Má-laga, sebbene non in questo ordine.

Tripoli, spiegò allora Arianna, era il capoopposto, l’inizio della spirale; per tale ragionele spire di cenere erano state tanto fitte e po-polate di figure. “Ho intravisto cose terribili:

bestie ungulate con cavalieri in armatura, ver-gini dai vestiti nuziali macchiati di cenere, ca-riatidi volanti e animali senza arti che striscia-vano fra gli zoccoli. Ma tutto era confuso, inevoluzione, avvolto nella cenere più densa.”

Nella piazzetta della chiesa di San Nicolás,da dove si ha una veduta impareggiabile sullemura dell’Alhambra, c’era più gente, turisti so-prattutto. Arianna guardò giù dal declivio, do-ve il vento autunnale le corteggiava i capellicolore rosso scuro; aveva un collo liscio e do-rato dal sole.

“C’è vento di cenere sul fiume,” disse. Il rioDarro divide la collina dell’Alhambra da quel-la dell’Albaicín. Osservò con più attenzione.“Soffia da laggiù,” precisò indicando alla nostrasinistra, “La cenere è bassa sul fiume e spiraverso il centro città.”

Sedetti sul muricciolo della piazza mentreArianna picchiettava sulla pietra con i polpa-strelli. Cercai di pensare ad altro.

Alla pioggia. Come sarebbe stata Granadacon la pioggia? Torrenti di acqua piovana perle coste dell’Albaicín, che irrompevano comecascate nelle vie piane dove García Lorca ama-va passeggiare; le vie si trasformavano in fiumisommergendo il centro città, e dall’alto dellemura dell’Alhambra i turisti in impermeabileosservavano l’acqua che saliva: i tavoli diveni-vano zattere, le bare barche, e flotte incertesalpavano dalle colline verso le guglie dellacattedrale, verso il campanile di San Juan deDiós e la cupola di Nuestra Señora de las An-gustias che si intravedevano appena sulla su-perficie liquida increspata dalla pioggia checontinuava a precipitare.

Mi riscossi dalla mia fantasia. Arianna eraaccovacciata in terra e studiava con attenzionequalcosa tra le pietre del selciato. Mi accorsiuna volta ancora di quanto fosse bella, le brac-cia e il collo nudi, la canottiera di cotone; te-neva un ginocchio quasi poggiato in terra el’altro più sollevato, così che la gonna si ten-deva fra le cosce. Non avevo mai vedutoArianna indossare un paio di calzoni.

“Cosa hai visto?” domandai. Aveva cura dinon aprire la mano chiusa a pugno nè sfiorarecon i polpastrelli l’interno del palmo.

“Formiche,” disse laconica.Saltai giù dal muretto e mi chinai con pre-

cauzione accanto a lei. C’era una lunga strisciabrulicante fra un anfratto del muretto e unamacchia di gelato rovesciato, una processionedi soldati indaffarati.

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FRANCO RICCIARDIELLO SALUTI DAL LAGO DI MANDELBROT

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vere, a causa della siccità che da settimanepresidiava la bassa Andalusia.

Dopo un po’ non trovai di meglio che os-servarmi le unghie spezzate e ascoltare i di-scorsi oziosi della gente al banco, che parlavadegli insetti che nell’ultima settimana sembra-vano essersi moltiplicati a dismisura, refrattariagli insetticidi.

Qualcosa di chiaro entrò nella mia visuale;alzai gli occhi per ritrovare oltre il vetro la ra-gazza vestita di bianco. Stavolta indossavascarpe di tela e corda e si faceva ombra agliocchi per scrutare il bancone oltre il riflessodella vetrina. Restai a osservarla, incapace dimuovere un dito, finché non si allontanò; allo-ra pagai in fretta e mi precipitai all’esterno.

Sentii il cuore battere accelerato, ma lascorsi subito mentre si allontanava in direzionedel fiume. Le camminai rapido dietro e per lafretta quasi travolsi una ragazza che usciva daun portone. Stavo per chiederle scusa e conti-nuare, ma guardandola in viso il mio sorriso sicancellò.

“Arianna!” esclamai, “che fai qui?”La ragazza rise e si strinse nelle spalle. “No

entiendo” disse “¡Qué quiere?”Mi allontanai di un passo, senza lasciarle la

mano che avevo preso fra le mie. Le guardai ilpalmo: non era fasciato. “Arianna...” ripetei in-certo. Indossava una maglia che non avevomai visto e un paio di calzoni leggeri a righe,cosa che lei non avrebbe mai fatto.

Non era Arianna. Feci il gesto di sfiorarle ilineamenti con le dita; non si ritrasse ma can-cellò il sorriso e rimase a guardarmi come sfi-dandomi a tentare il gesto.

Non era Arianna.Le domandai scusa, si strinse nelle spalle e

si voltò verso la piazza.Dovevo fermarla. Con un paio di balzi le

piombai davanti e le ripresi le braccia, osser-vandola ancora incredulo: gli stessi capelli conriflessi di rame, i medesimi occhi verde incer-to, i polsi sottili, le spalle strette.

“Mi scusi, ma lei assomiglia moltissimo a...”lasciai in sospeso la frase; volevo vedere cosarispondeva: Arianna non parlava che pocheparole di spagnolo.

“¿A quién?” domandò la ragazza, forse in-teressata e forse no.

“A mia moglie” decisi di risponderle.Mi esaminò attentamente, forse per capire

se fossi solo un pappagallo, e io mi trattennidal tremare. Poi sollevò con le mani tiepide la

mia sinistra. “E’ un anello nuziale?” domandò.Arianna non poteva conoscere quei termini

in spagnolo. Mi sfilai la fede e gliela porsi.“Arianna,” lesse, “mi piace. Dov’è sua mo-

glie?”Feci un gesto con il capo. “All’Alhambra.”Mi restituì l’anello. “Dunque?” disse.Mi guardai intorno, da una parte e dall’al-

tra. Avevo scordato la ragazza vestita di bian-co. Il vento soffiava pungente, non c’era quasipiù nessuno in giro. “Venga,” le dissi, “vengacon me al bar, devo parlarle.”

Stava per seguirmi, ma guardò l’orologio:“Mi spiace, ho un appuntamento.”

Mi morsi le labbra. Ancora un attimo e misarei messo a tremare. “L’accompagno?”

Chinò appena la testa sul collo per stu-diarmi. “Cosa cerca?” mi disse.

“Lei è identica a mia moglie. Identica.”Si strinse nelle spalle. “Mi accompagni pu-

re,” disse.Mi guidò sino a una casa dalle parti dell’U-

niversità, una zona pulita e ordinata nelle vieprincipali ma decadente nei vicoli, e parlammostrada facendo. La convinsi che non ero un tu-rista in cerca di avventure.

Si chiamava Fernanda e frequentava l’ulti-mo anno di università. Mi raccontò altri parti-colari che non ricordo con precisione.

Si fermò davanti a un portone aperto chedava su un vecchio cortile. “Io sono arrivata,”disse.

Annuii. C’era un vecchio manifesto eletto-rale affisso sul battente del portone. “Possoaspettarti?”

Ci pensò su. Era bella, bella come Arian-na: sentivo qualcosa nelle viscere. “E tua mo-glie?”

“Rimane sempre per ore intere all’Alham-bra.”

“Non so,” guardò l’orologio; “avrò da fareper un paio di ore.” Mi salutò e scomparve nelcortile.

Mi ficcai le mani in tasca e osservai il ma-nifesto. Era una riproduzione del famoso di-pinto del Goya, Le fucilazioni del 3 maggio:sulla sinistra, i partigiani madrileni trucidatinelle carceri dall’esercito di Gioacchino Muraterano identici all’originale, l’uomo con la ca-micia bianca e i riversi sul terreno e il sangue;ma sulla destra al posto dei pastrani francesi gliuomini del plotone d’esecuzione indossavanodivise da marines americani ed erano coman-dati da un ufficiale della Guardia Civil di fran-

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risuonarono umidi e attutiti, ma Arianna nonprestò attenzione. Muoveva con furore la ma-no sul foglio e il movimento si trasmetteva atutta la spalla.

Mi avvicinai da dietro, in silenzio, ma pen-so che non mi avrebbe udito ugualmente. Get-tai uno sguardo di sopra la sua spalla per con-frontare il disegno con l’originale.

Per Arianna, il cortile della Casa de los Ti-ros era immerso nella cenere: là dove io vede-vo solo pioggia, Arianna aveva disegnato unacaligine spessa che toglieva luce e celava nelvago le colonne dei portici. Ma in mezzo allacorte, questo mi sconcertò, c’era una figura se-miumana, ancora appena abbozzata sul foglio:una sorta di leprecano con una mantella getta-ta sulla spalla e una mano sollevata a disten-dere tre dita allargate, con il dorso in su nellapioggia che cadeva nel cortile come in un im-buto.

La figura si distingueva nettamente nellacenere, che era fitta solo ai lati della corte, perterra. “Arianna...” le posai una mano sulla spal-la e si scosse, guardandomi come senza rico-noscermi. Lasciò cedere il disegno in terra e sialzò abbracciandomi.

“Aiutami, ho paura,” disse, “in questa cittàc’è la risposta alle mie ricerche: il centro del-l’Universo è a Granada.”

Non riuscii a trattenermi dallo stringerla trale braccia; lei forse pensò che fosse passione,ma si trattava piuttosto di compassione. Provaiil piacere abituale nel sentire il suo seno con-tro di me, malgrado un attimo prima, osser-vando l’orrore del suo disegno, avessi compre-so come la sua carica visionaria fosse oramai auno stato di quasi delirio.

Mi affondava il viso nella spalla; le sciolsicon le dita i capelli incollati, le tastai i fianchinudi sotto l’armatura di cotone azzurro dellamaglia. Volevo dirle qualcosa per consolarla,ma si scostò. Raccolse da terra il blocco da di-segno.

“Vedi,” disse con fervore quasi febbricitan-te, “sono tutti schizzi che ho fatto in questigiorni, da poco prima che la pioggia comin-ciasse a cadere”. Così dicendo mi mostrò unaserie di disegni a carboncino eseguiti in diver-si punti della città. Riconobbi, sotto il velo ci-nereo della nebbia, le mura arabe, il palazzoarcivescovile, il cortile del Generalife e parec-chi scorci dell’Alhambra.

Non avevo ancora finito di guardare i dise-gni che Arianna mi spiegò sotto gli occhi la

piantina di Granada su cui lavorava da setti-mane, piena di appunti. “Guarda,” spiegò“queste linee sono vettori di forza. La cenere simuove seguendo una direttrice ben precisa,anche se prima d’ora non me ne ero accorta.Ho cercato di assegnare valori di forza al ven-to per stabilire il luogo da cui ha origine. Cosane deduci?”

Seguii con il dito le sedici indicazioni cheArianna aveva tracciato sulla carta, le freccettecon i trattini dell’intensità. Le ripercorsi a ritro-so e cercando il punto in cui si congiungeva-no idealmente trovai l’Alhambra. “Cosa signifi-ca?” domandai.

“Il movimento delle nebbie è determinatodal vento,” rispose con gli occhi lucidi, scan-dendo con precisione ogni sillaba come se sitrattasse di una verità preziosa, come se le suelabbra avessero il privilegio di rivelarmi la na-tura del mondo. “Se avessi eseguito rilevamen-ti in tutte le città dove la cenere mi è apparsa,saremmo giunti a Granada molto prima. Ciòche conta comunque è che ora siamo qui. Ilvento soffia dall’Alhambra, l’Alhambra è il cen-tro dell’Universo.”

Rimasi agghiacciato, senza osare contrad-dirla. La sua ricerca, dunque, sembrava giuntaa termine, arrivando a sconvolgere la routinedella nostra vita negli ultimi diciotto mesi. Suquale binario si sarebbe assestata da allora inpoi?

“Non mi sembri convinto,” continuò ag-grappandomisi al collo.

“Il timoniere sei tu,” le risposi.Era eccitata. La aiutai a raccogliere le sue

cose e uscimmo nella pioggia diradata. Sinoall’ora di pranzo mi illustrò la sua teoria men-tre io cercavo di assecondarla, ma chiedevasolo di essere ascoltata. Dopo pranzo tornam-mo in camera e, per la prima volta da setti-mane e per l’ultima volta nella nostra vita, fa-cemmo l’amore.

* * *

“Come ultima sua testimonianza, l’estateandalusa ci ha regalato una disgustosa prolife-razione di insetti, che trovi ovunque in città:nelle crepe del selciato, sotto i materassi, a nu-goli nell’aria, persino nei cibi: le presenze nei ri-storanti sono calate di molto da quando neppu-re le trappole elettriche riescono a sfoltire le nu-bi di moscerini che si posano ovunque. I più di-sgustosi sono i coleotteri, alcuni lunghi un dito.

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“Questa notte a casa mia,” disse.Arianna quasi inciampò in me. “Ah, sei

qui,” disse piacevolmente stupita. Di impulsola abbracciai e baciai, e quando sollevai il ca-po sulla sua spalla Fernanda si stava allonta-nando lungo il muro.

* * *

Risalii di corsa la Cuesta de Gomérez, il faz-zoletto bagnato premuto sulla bocca e sul na-so e facendomi scudo agli occhi con le ditadella mano. Le spire di cenere erano dense epestilenziali, una caligine grigia impalpabileche ammorbava l’aria; in terra, la polvere bru-ciata arrivava alla caviglia e scoppiava in nu-volette grigie a ogni passo.

Mi sentii chiamare e mi arrestai. Dietro dime, addossata al muro e piegata in due daicolpi di tosse, Fernanda agitava una mano; su-bito dopo un banco di cenere la coprì alla miavista.

Tornai indietro di qualche passo, la presisotto le spalle per sorreggerla. Aveva gli occhipieni di lacrime sudice e cerchiati di nerofumocome la fronte, le guance, il collo. “Aspettaqui,” le dissi, “non puoi venire.”

Tentò di rispondermi, ma l’accesso eratroppo violento. La aiutai a sedersi sul gradinodi marmo consumato di una bottega, e per losfinimento lasciò cadere il lenzuolo che tenevastretto al seno e al ventre come solo vestito,poiché la cenere ci aveva accolti al risveglioquel mattino che ancora dormivamo nel suoletto.

Sullo stipite della porta della bottega corre-va nei due sensi un fiume di formiche. Mi in-ginocchiai accanto a Fernanda, scostandoledalla fronte i capelli imbrattati di sudore e ce-nere e tergendole le labbra con il dorso dellamano.

“La cenere...” disse solo, con voce soffo-cata.

“Aspettami qui” ripetei, senza essere moltoconvinto di ritrovarla al mio ritorno, se mai fos-si tornato.

La cenere scendeva a ondate dalle costesulla collina dell’Alhambra, spazzando le viedella città vecchia. Arianna, ero sicuro, si tro-vava nella cittadella araba, e io dovevo rag-giungerla.

Fernanda si accasciò piangendo contro ilportone, alzando le braccia a difesa del corponudo velato di nerofumo in macchie. La ascol-

tai singhiozzare a occhi chiusi per un attimo,quindi ripresi la salita tenendomi a ridosso del-le case dove la caligine sembrava più rada.Con la coda dell’occhio mi pareva di scorgeregrevi movimenti nell’atmosfera, come se goffiuccelli giganti volassero rasoterra: ma appenami voltavo per scorgere meglio la cenere miriempiva gli occhi.

Alla porta d’entrata del parco trovai due uo-mini riversi nel loro stesso vomito, uno deiquali respirava pesantemente a bocca chiusacome contendendo l’ossigeno filtrato alla bru-ma grigia.

Continuai a salire il viale alberato tossendo,inciampando, rialzandomi, il fazzoletto premu-to sulla bocca attraverso la cenere che sembra-va dover seppellire il mondo. Pallottole di in-setti che cadevano dall’alto, forse portati dalvento di cenere, mi colpivano ogni pochi pas-si alle spalle, al capo, al viso e io procedevoscostandoli con ribrezzo.

Oltrepassai la porta della cittadella araba edi fronte al palazzo di Carlo V trovai la primatraccia della presenza di Arianna: per terra fragli alberi d’alto fusto e le blatte disorientatec’era il suo cardigan di lana blu acquistato aTrieste; lo distinsi come per miracolo in unmomentaneo diradarsi della nebbia: lasciando-lo ricadere corsi verso il palazzo reale, comepresagendo che Arianna non potesse trovarsiche nel palazzo arabo.

Doveva essere uscita di casa quella mattinapresto, quando ancora l’aria era frizzante, pri-ma che la cenere si rivelasse al mondo; cercaidi chiamare il suo nome ma la cenere misoffocò e mi piegai in due tossendo. Mossi unpasso ma incespicai, e cadendo mi ferii un gi-nocchio; in terra, accanto alla mia mano, c’era-no lentiggini di cavallette saltellanti.

La cenere usciva a fiumi dal palazzo dei redi Granada, muovendo mulinelli scuri sul sel-ciato; chiudendo gli occhi per evitare di resta-re accecato, mi ritrovai nel Patio de los Ar-rayanes. Proseguii bocconi, tastando il pavi-mento per non cadere nella lamina d’acquache in quel momento non poteva più rifletterele bifore della Torre de Comares. Allungandouna mano, invece di toccare l’acqua trovai unindumento, e portandomelo al viso riconobbil’ampia gonna di seta di Arianna.

Non capivo da dove provenisse il flusso dicaligine, tanto era denso nell’Alhambra, ma midiressi d’istinto verso il Patio de los Leones,sbattendo più volte contro il muro e sempre

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la lamina d’acqua. Arianna rimase immobile,le braccia in grembo, le gambe leggermentescostate, i capelli che nascondevano alla miavista il suo viso chino. Solo a quel punto, vol-tandomi, mi accorsi delle figure immobili nel-l’ombra della Torre de Comares, e impietrii: là,nell’oscurità composta e discreta dell’atrio,non toccati dai raggi di luna, stavano gli incu-bi di Arianna: un’aquila incerta dal volto dipolena scuoteva le ali nel silenzio più assolu-to, smuovendo mulinelli di cenere intorno al-le zampe ungulate di bestie metà uomo emetà pipistrello, e arpie dal corpo ricoperto dabandiere insanguinate, pterodattili in uniformeda generalissimo, grossi felini deformi; e alcentro di questa fauna da bestiario medioeva-le, seminascosto nella penombra c’era il Redegli insetti, il Signore della cenere, l’emblemadi tutto ciò che l’umanità annienta perchéodia: un immane, osceno insetto obeso colore

del fumo, con zampe sottili e lente, occhicomposti e antenne e chele acuminate e lun-ghe ali cornee da mantide, un rostro insangui-nato che triturava cibo e una grossa ferita pu-rulenta al centro del ventre, un grumo di san-gue e scaglie chitinose procurato forse per ri-brezzo.

Con essi eravamo destinati a vivere da quelmomento in poi a perenne, tangibile memoriadelle immensità inferte: con essi e con l’eterno,immancabile, persistente sentore di bruciatoad accusarci. Arretrai, ritornando all’esternodel palazzo e poi fuori dalle mura di corsa, sol-levando scie di polvere ed esseri volanti nel si-lenzio ovattato della luna e della cenere, oltreil parco, giù dalla Cuesta de Gomérez per ve-dere se Fernanda era stata soffocata dalla ce-nere o se tossiva appoggiata al portone dovel’avevo lasciata, cacciando le formiche con lepalme delle mani.

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LA SERA IN CUI ANDRÉS AJENO giunse con l’elettrotreno portando consé una logora valigetta di pelle contenente tutti i libri di Azorín,alcune cravatte di seta cinese, software contenuto su microchipcon il logo del Ministero e una macchina fotografica, io non mitrovavo al cantiere bensì a casa mia, all’ultimo piano del Corte In-glés. Mi ero permesso di ritardare l’uscita per recarmi al lavoroperché i sommozzatori del turno pomeridiano sarebbero riemer-si solo di lì a un’ora.

Il sole bruciava ancora la linea dell’orizzonte sulle colline, per-ciò non era consigliabile uscire a quell’ora, considerato che odia-vo indossare la tuta protettiva. Le nuvole della sera si stavano giàadunando sul mare; guardando fuori dalla finestra vidi una lanciacoperta giungere dalla direzione del colle di Montjuich, ma nonriuscii a immaginare per quale ragione, a meno che il turno po-meridiano avesse rinvenuto qualcosa di tanto essenziale che Sáu-lo non stava nella pelle dalla voglia di parlarmene.

Mi allontanai dalla finestra per precauzione: il vetro possede-va un limitato fattore di protezione.

“Non esci, oggi?” mi domandò Leslie. Si stava preparando nel-la penombra smorzata della camera da letto per una riunione delcomitato femminile.

“Ancora qualche minuto” risposi senza guardare l’orologio. Miaccostai invece alla parete per osservarla al lavoro.

Si stava esaminando allo specchietto del suo beauty-case daviaggio; aveva scelto un paio di orecchini scintillanti con una gros-sa pietra sanguigna, che nella semioscurità dell’unica lampadinadella stanza sembrava suggerire sfumature di oro ai suoi capelli.

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Effetto notteTerzo classificato Premio Italia 1993

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Paesi Bassi, e sta a noi dimostrare che nonconviene stornare fondi dalla Catalogna o, cheso io, da Málaga.”

Il traghetto avanti a noi rallentò, cigolò al-l’incrocio, virò in direzione del centro storicosommerso. Lungo la via che avevamo appenaabbandonato, la linea proseguiva sino alle gu-glie della Sagrada Familia tutte irsute di anten-ne e trasmettitori.

“Le spiace se apro il finestrino?” domandaiad Ajeno in una pausa del suo discorso. L’ariafinalmente fresca della sera si insinuò eccitan-te nel vetro aperto, schiaffeggiandomi di acquanebulizzata. Il rumore del risucchio era troppoforte perché la conversazione potesse conti-nuare, così potei godermi in silenzio la corsadella lancia a seguito del traghetto.

Sáulo manteneva con abilità il timone di ta-glio rispetto all’onda della scia; l’acqua colpivai tetti delle poche case che emergevano dalladistesa nera contribuendo a smuovere le tego-le più pericolanti, sciacquando le isole di alghee vegetazione putrescente incagliate ai corni-cioni o alle antenne televisive arrugginite, do-ve durante la marea arrivava il respiro di sal-sedine del mare.

La notte, come quasi tutte le notti della sta-gione, incominciò a sciogliersi in una piogge-rellina penetrante. Stormi di gabbiani ci chia-mavano dal cielo, inseguendo da vicino il tra-ghetto, credendolo forse un peschereccio. Atratti l’odore marcio della vegetazione galleg-giante ci nauseava. Le barricate di mobili sfon-dati e suppellettili galleggianti erano state ri-mosse da tutte le principali vie d’acqua dellacittà sommersa, mantenute sgombre da retimetalliche tese fra un tetto e l’altro; ma c’era-no larghe spianate d’acqua neppure interrotteda un tetto dove sargassi di alghe legavano in-sieme isole intere di mobili sfasciati, yacht mar-ci, rami di albero e banchi di foglie annerite,scogliere di borse di plastica scolorite dal sole,tutto quanto la civiltà morente aveva lasciato atestimonianza di sè.

All’altezza della Plaza de Toros il traghettorallentò e il pilota staccò il cavo lasciando li-bera la lancia. Mentre Leslie salutava dal fine-strino, tuta di panna in cornice di cobalto, iltraghetto proseguì verso la collina di Montjui-ch, visibile come un grosso cetaceo nero ap-pena chiazzato di poche luci razionate.

Richiusi allora a malincuore il finestrino sul-la notte di salsedine, e additai sul monitor geo-detico la piantina del centro storico verso il

quale Sáulo stava guidando la lancia. Mostravaun esagono irregolare, con due lati molto lun-ghi.

“Questa è la cinta delle mura” spiegai adAndrés Ajeno “alle quali il progetto è per ilmomento limitato. Quaggiù a sud, la diga sulfronte del porto raggiungerebbe il colle diMontjuich. La cattedrale si trova esattamente alcentro dell’area, ed è là che abbiamo stabilitoil cantiere sperimentale, mentre quello princi-pale sorge qua, all’Arco del triunfo, attraversocui la diga passerebbe.”

Ajeno ascoltò come se non desse molta im-portanza a quanto dicevo, come se dal Mini-stero avesse ricevuto ordini e piani diversi. So-spirando, mi accinsi a sopportare un’altra gior-nata di lavoro, che negli ultimi tempi si era tra-sformato in motivo di inquietudine.

* * *

Leslie dormiva quando rientrai. Sul tavolodel soggiorno, accanto al libro che stava leg-gendo, era adagiato un rametto di mimosa an-cora giallo e fragrante di polline. Mi svestii,passegiando con il solo costume da bagno da-vanti alle ampie finestre dell’appartamento al-l’ultimo piano di quelli che un tempo eranograndi magazzini, fissando attraverso lo spira-glio della porta il braccio e la testa di Lesliefuori dal lenzuolo, e i suoi orecchini d’oro sulcomodino. Doveva avermi aspettato sino a tar-di, ma l’ispettore mi aveva tenuto impegnatopiù del previsto: era quasi l’alba sulla cittàsommersa.

Mi accorsi che da qualche minuto ascoltavosenza rendermene conto un lontano lamentodi violino. Indossai l’accappatoio appeso die-tro la porta del bagno e dopo avere percorsoil lungo corridoio dalle pareti di armadi diviso-rio per frazionare il salone del magazzino, bus-sai alla porta della camera di mia figlia.

Sinéad era in piedi davanti alla lunga fine-stra di vetro, azzurrato in tempi posteriori allacatastrofe, con il leggio di ferro battuto recu-perato nel Palacio de la música, che io stessole avevo regalato per il suo ventesimo com-pleanno. Era talmente assorbita dal brano cheandava eseguendo al violino da non accorger-si che ero entrato; attesi che terminasse, le ma-ni nelle tasche dell’accappatoio, esplorando in-tanto con lo sguardo la sua stanza.

Accanto al letto, semplice e senza sponde,erano accatastate pile di libri, la maggior parte

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trebbe svegliarsi.” Le scostai il lenzuolo dal let-to. “Ora è meglio che ti riposi” dissi “Domaniverrai al cantiere, vero?”

Sorrise di affetto. “No, domani no, davvero”ma mi diede il bacio della buonanotte. Tornaial corridoio di armadi accostati e alla camerada letto dove Leslie si scosse aprendo un oc-chio e mugolando un saluto: “Tutto bene?”

“Com’è andata la riunione?” domandai.“Mimose.”Mi tolsi l’accappatoio e infilandomi sotto le

lenzuola sentii immediatamente rilassarsi la co-lonna vertebrale.

* * *

Il primo giorno che la squadra di Leslietornò a immergersi, l’ispettore Andrés Ajenoera presente con i suoi calzoni di lino stirati acaldo, ritto sul pavimento sventrato di unamansarda del Barrio Gótico. Gli operai aveva-no divelto con il piccone travi e mattonelle inmodo da potere montare un argano a carruco-la sul foro. Affacciandomi, provai vertigini nelvedere la lugubre superficie nera dell’acquache invadeva sino a metà altezza il locale sot-tostante. Più sotto, per tutti gli altri piani finoall’antico livello stradale, solo il mare.

Leslie scherzava serenamente con i compa-gni di immersione, mentre si aiutavano l’unocon l’altro a indossare le mute. Io passeggiavocon le mani in tasca fra gli operai seduti in di-sparte a consumare la colazione nei contenito-ri termici, Andrés Ajeno continuava a chiederea Sáulo i particolari più disparati sulla nostraattività, lanciandomi occhiate indecifrabili.

Sotto la muta Leslie indossava solo il costu-me da bagno e una canotta di cotone verdescuro. Si raccolse i capelli a crocchia strizzan-domi l’occhio con il pettinino fra i denti, quin-di infilò la cuffia della muta. Mentre Sáulo con-trollava i bocchettoni delle bombole, Ajeno loseguì e lo vidi scambiare qualche parola conLeslie. Improvvisamente mi venne un’idea.

“Sáulo, mettiamo in funzione il monitor”dissi.

Il mio sovrintendente guardò sorpreso iltecnico, che si strinse nelle spalle e cominciòad affaccendarsi intorno al circuito video. Il lo-ro stupore derivava dal fatto che di solito si uti-lizzava il monitor solo quando ci si aspettavaun ritrovamento importante: trovandoci in unacomune casa d’abitazione, l’energia necessariapoteva risultare uno spreco.

Tuttavia Ajeno non conosceva la prassi enon poté eccepire. Come avevo previsto — mene accorsi in quel momento — fu Leslie a im-pugnare la telecamera allacciandosela alla cin-ghietta del polso sinistro; gli altri tre sub si mu-nirono di lampade e la squadra si tuffò attra-verso il pavimento sfondato.

Attesi scrutando fra le liste di legno della fi-nestra, nella notte piovigginosa non interrottada luci elettriche. Ripensai all’ultima gita conLeslie e Sinéad sulla superficie inviolabile delmare, con una barca a remi fra le vie di retimetalliche che sostenevano barricate di rifiutigalleggianti, destreggiandoci fra i terrazzi piat-ti delle case che affioravano.

“Il collegamento è pronto” annunciò il tec-nico; Ajeno e Sáulo erano già con il naso al-l’insù a scrutare fra le scariche elettrostatiche el’effetto neve dello schermo monocromatico. Sidistingueva un angolo di stanza d’abitazionesommersa, con una luce liquida e tremolante,poi una porta scura; l’immagine si avvicinò al-l’apertura, la luce mancò poi riapparve, qual-cosa di filamentoso attraversò la porta cometrascinato da una corrente lenta, poi la luce sispense e quando si riaccese Leslie inquadravauna scalinata in discesa.

Archeologia. Stavamo facendo dell’archeo-logia subacquea dove solo dieci anni primatutti noi potevamo transitare, leggeri e privi dipreoccupazioni. Così era stato, infatti: Sinéad eio avevamo passeggiato con sua madre, Gwy-neath, su e giù per le ramblas durante una lun-ga vacanza primaverile, senza potere neppureimmaginare che dopo due lustri la superficiedel mare avrebbe sovrastato di venti metri ilselciato, che i raggi solari sarebbero divenutiletali a un’esposizione prolungata costringen-doci a vivere di notte, che Gwyneath avrebbesvolto la sua opera senza compenso a BeloHorizonte, e soprattutto che io mi sarei rispo-sato con una ragazza di quindici anni più gio-vane di me.

Fluttuando in discesa, Leslie e la sua squa-dra oltrepassarono una matassa di tessuti mar-citi impigliati nel corrimano della balaustra.

“Trasmissione via cavo?” domandò alloraAjeno, come ricordandosi di un particolare cheaveva trascurato di approfondire.

Sáulo annuì, il tecnico rispose “Fibre otti-che”. Un sommozzatore munito di lampada li-berò il vano di una porta da una barricata dirottami di legno; un pallone sfilacciato di cartaputrida lo avvolse, poi l’uomo si avvicinò al

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radiazioni ultraviolette, Andrés Ajeno si con-gedò.

Dopo averlo accompagnato alla porta, atte-si nel buio della stanza che Leslie e Sinéad go-dessero delle ultime perle di notte, ascoltandoinvolontariamente le loro parole.

“Si è vista la luna stanotte?” domandòSinéad, forse estasiata dal gioco delle nuvole.

Leslie si strinse nelle spalle “Naturalmente:il cielo era sgombro.”

“E’ proprio vero che ha la forma di unamoneta?”

Leslie assentì, carezzandole come con non-curanza la pelle delle braccia mitragliata di len-tiggini. “E’ proprio vero che vedi le parole?” ledomandò, forse per la centesima volta.

“I suoni sono onde” confermò Sinéad“Nient’altro che movimento attraverso l’aria.”

“L’aria è trasparente” disse mia moglie frasé e sé, stringendosi nelle spalle.

“Niente di meno vero” rispose Sinéad entu-siasta “L’aria è torri di vapore sul mare, casca-te di umidità sulle colline, correnti contorte inlontananza, tagliate dai nastri dei voli d’uccel-lo e dalle onde deboli dei suoni. Non mi ca-pacito che voi siate condannati a non vederetutto questo.”

Non attesi che rientrassero. Me ne andai aletto, stanco per la lunga giornata di lavoro emartellato da un singulto d’angoscia.

* * *

Mi svegliarono presto, la sera seguente. Unimpiegato venne a nome di Sáulo quando ilsole era ancora lontano dal toccare l’orizzonte;Leslie lo fece entrare in soggiorno, dove attesein un bagno di sudore per non levarsi la tuta.Io mi vestii di malumore, allacciando con curala cinghietta della mia tuta che per fortuna do-vevo indossare solo pochi giorni l’anno: era untaglio unico, allacciata con strisce di velcro apolsi e caviglie, con guanti e calosce di tela.Dopo una ricerca di vari minuti trovai il copri-capo con il parasole e gli occhialoni scuri.

Leslie si grattava nervosamente le manimentre mi preparavo. “Un ritrovamento?” do-mandò.

“Nel Barrio Gótico” risposi raccogliendodalla sedia la valigetta spelata dei documenti,poi seguii l’impiegato alla lancia. Da temponon ero abituato a viaggiare di giorno, sotto iraggi inesorabili della radiazione ultravioletta,al calore a malapena sopportabile del pome-

riggio mediterraneo. Nell’Avenida del Parallelincrociammo il traghetto che tornava dal cen-tro città; il nostro pilota prese male l’onda con-traria, che ci sollevò di taglio ricoprendoci dispruzzi e sconvolgendo l’equilibrio del miostomaco. Dovetti sdraiarmi alcuni minuti, ap-pena sbarcati al ponteggio mobile del cantierescuola, perché stavo male.

Quando fui in grado di reggermi in piedi,sfilai la tuta con mani tremanti e seguii Sáulosul ponte arrugginito protetto dall’ombra tran-quilla di un tendone a pagoda di tela imper-meabile. In file ordinate, erano stesi ad asciu-gare parecchi oggetti ripescati nell’edificio sulcui tetto ci trovavamo: li passai in rassegna ri-muovendone alcuni con il piede per identifi-carli. C’erano barattoli di conserva, scatole dicartone fradicio contenenti alimentari, giocat-toli di plastica ammuffita, apparecchi elettriciarrugginiti, un registratore a cassette, pacchi dipoltiglia che un tempo dovevano essere statilibri.

“So che per i ritrovamenti di una certa con-sistenza desidera essere chiamato” si giustificòSáulo.

“Ha fatto bene” dissi sentendomi riaffluirepoco a poco il sangue al viso. “Dov’è Ajeno?Forse lo interesserebbe.”

Sáulo rifletté un momento. “Non saprei. Gliavevo detto del ritrovamento...”

La nottata trascorse pesante e monotonanel catalogare gli oggetti rinvenuti. Quando mitrovai di fronte il piccolo registratore a corren-te, con il suo filo elettrico e l’imballaggio chel’aveva salvato dal disfacimento, rimasi a rigi-rarmi la penna fra le mani, incerto; il file delrepertorio era aperto sullo schermo del mioportatile, con il numero di catalogo ancora dainserire. Ascoltai per qualche minuto i rumoridella notte, assorto, quindi avvolsi il registrato-re in un foglio di tela cerata, lo legai con unospago e lo deposi sotto la scrivania, nascostodietro il cestino del riciclaggio.

Mi dondolai per alcuni minuti, i piedi pun-tati contro l’orlo della scrivania recuperata daun appartamento signorile dell’ensanche du-rante il primo anno dall’inondazione, conside-rando con antipatia Andrés Ajeno. Aveva so-pracciglia folte e una carnagione caffelatte damezzosangue, con una voglia di pelle rosa car-ne sulla gola; aveva lineamenti eleganti da ara-bo o da greco, là dove io potevo solo offrireun comune viso europeo, solchi nella pelledelle guance e capelli brizzolati, occhi troppo

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* * *

Il profilo di Montjuich era appena abbozza-to dalle luci economiche arancio, come la ri-produzione tridimensionale di un insieme diMandelbrot. Nel nostro mondo ricondotto conviolenza a una civiltà più ragionevole, alle tec-nologie dolci e alle energie riciclabili, l’elettri-cità ha un costo esorbitante che la comunitàinternazionale ripartisce con il controllo dellaproduzione e della distribuzione. In questosenso, anche il consumo di energia di un sem-plice registratore a nastri è un lusso illecito.

Il registratore. L’avevo lasciato in camera diSinéad, ancora impacchettato.

Iniziò a piovere; tutto quel giorno il cieloera rimasto coperto, l’aria opprimente per l’u-midità: l’effetto serra continuava a perpetuarsidopo anni dalla catastrofe, e chissà quanto an-cora sarebbe occorso prima che la temperatu-ra media del pianeta calasse di uno o due gra-di.

Limatura di ferro. Cosa vedeva Sinéad dellevibrazioni sul piano armonico di acero? Unadanza delirante di sabbia, il movimento verifi-cabile della polvere di ferro sui nodi armonici:migliaia, milioni di piccole luci in movimento,bruscolini rotolanti, granelli su granelli di agi-tazione, sabbie mobili di vibrazioni.

Guardai l’orologio, era tardi; il battello ac-costò al pontile de las Cascadas, dove distinsisotto la pioggia tiepida il cutter di servizio delcantiere sperimentale. Sbarcai con tutti gli altripasseggeri, per la maggior parte lavoratori diritorno a casa, e salii la scalinata che sembravasorgere dalle acque per immergersi nel verdedel pendio che conduceva al museo. Sentivosul viso e sulle braccia l’acqua mite; avevo dal-la mia il fatto che Leslie odiava la pioggia eportava sempre con sè un ombrello di coloresgargiante che le avevo regalato al tempo incui ci eravamo corteggiati, a Dublino, la stessacittà in cui dodici anni prima avevo sposatoGwyneath.

C’era una funicolare, ma riservata agli inva-lidi; salii la scalinata a passo doppio, fino a di-stinguere sopra le teste della gente che mi pre-cedeva l’ombrello colorato di Leslie; allora miscostai da parte, sollevando il bavero della tu-ta senza allacciarlo e coprendomi il capo conil cappuccio.

Leslie stava scendendo, con lei c’era AndrésAjeno. C’era poca luce sulla scalinata fra il ver-

de, sotto le pale dei generatori di energia eoli-ca, perciò non mi distinsero: più probabilmen-te non si aspettavano di vedermi ed erano inol-tre assorbiti dalla loro conversazione. L’ispetto-re indossava un elegante trench di stile italia-no, con fibbie ai polsi e in vita, e un cappelloa tesa larga di colore scuro; teneva una manoin tasca e l’altra sotto il braccio con cui miamoglie reggeva l’ombrello. Leslie aveva incre-dibilmente scordato di cambiarsi d’abito, e in-dossava la sua abituale tenuta per le riunionidel comitato femminile: calzoni neri, una ca-micia di seta candida e un elegante gilet che leaveva regalato Sinéad prima di rinchiudersi persempre nella propria camera.

Mi passarono dinanzi e udii solo poche pa-role che non mi permisero di decifrare la loroconversazione. Dall’alto seguii la loro discesa,l’ombrello che tagliava la folla con la sua lu-minescenza albina da città delle nebbie; li se-guii. Il conducente del cutter uscì dal ristoran-te ai piedi della scalinata, quello che spesso siallagava con l’alta marea; dunque Ajeno usavai mezzi che gli mettevo a disposizione per riac-compagnare a casa mia moglie.

“Si sente bene, ingegnere?” una voce mi ri-scosse dai miei pensieri. Era Bea Fuentes, unasommozzatrice del turno mattutino che si re-cava al lavoro nella sua tuta di gabardine blu.Ricambiai il suo sguardo con un’aria da ascetascarmigliato che dovette preoccuparla ancoradi più. Mi accompagnò al bar, ordinandomi uncaffè forte e raccontandomi della sua squadrae della festa d’inaugurazione del primo trattodi diga che gli operai avrebbero organizzatoper l’ultimo di aprile.

Pochi minuti dopo, seduto sul traghetto ac-canto a lei prima di cambiare davanti all’arena,presi dal taschino interno della tuta l’agendaelettronica su cui annotavo gli appuntamenti evi digitai sopra:

“L’effetto serra ha sommerso la civiltà e iclorofluorocarboni ne impediscono la ricostru-zione. Di giorno la radiazione ci impedisce dilavorare all’aria aperta se non protetti da tuteche non lasciano scoperta la minima porzionedi pelle; di notte la pioggia incalzante lava viale colline che la vegetazione marcita non rie-sce più a trattenere; così slittiamo nel fango,ogni giorno di più, con le nostre mura me-dioevali e i grattacieli, i parchi cittadini e i su-permercati, le torri cambogiane e le cattedralifiamminghe, le piramidi maya e quelle egizie:il fango è la nostra tomba, è il destino contro

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operai, potrebbero preoccuparsi più del lecito.Io ho bisogno di parlare con quel tanghero.”

Così dicendo presi il mio impermeabile dalavoro e corsi dietro Ajeno, tenendomi fuoridalla sua vista. C’era solo un’altra barca all’at-tracco al molo del cantiere, e la presi io. Sciol-si la gomena e la vela, e cingendomi la vita percontrollare la boma mi misi al timone. La bar-ca di Ajeno, condotta da un marinaio, veleg-giava già verso Plaza de Catalunya fra i maro-si grigi. Calcandomi il cappuccio sugli occhi laseguii sino alla Gran Via, dove virò a destraverso l’Arena monumentale e poi più addentronell’ensanche, fino alle guglie della SagradaFamilia che si ergevano sulla tavola piatta delmare come torri di fiaba fra le pale dei gene-ratori eolici.

Oramai non pioveva più e il vento si erazittito. Ancorai la barca all’inizio del pontilemobile di corde, agganciato al tetto delle casedi calle Mallorca che andavano disfacendosisotto gli agenti atmosferici. Era quella la fer-mata del traghetto; tenendomi saldamente alcorrimano, mentre le traversine sotto i mieipiedi si sollevavano al respiro agitato del ma-re, attraversai il pontile per tutta la sua lun-ghezza. Il vento aveva trasportato filamenti dialghe fradice che si erano impigliati nel legnoe sul corrimano.

La barca presa da Andrés era ancorata sot-to il portale destro, il marinaio si era dilegua-to. Frugai nel cassone degli attrezzi a prua, im-padronendomi del binocolo. L’ascesa sulla sca-la a chiocciola all’interno della guglia fu fatico-sa, anche perché a mano a mano che salivo ilvento si faceva più insistente. Mi arrestai per ri-posare, e accostandomi a una colonna incollaigli occhi al binocolo, percorrendo una a una leguglie.

Lo vidi: stava salendo sulla torre simmetri-camente opposta, con il passo flessibile dellasua eleganza castigliana. Risalii con lo sguardosino alla sommità, ma non distinsi mia moglie.Continuai l’ascesa, lacerato dal senso di verti-gine nel vedere le rare luci della città molto piùin basso. Giunsi sulla sommità affannato, miabbandonai con la schiena contro la pietrafredda della costruzione puntando subito il bi-nocolo sulla guglia vicina.

Dapprima non li vidi, poi apparvero dietrouna colonna, capelli al vento e l’uno accantoall’altro, tanto vicini attraverso le lenti che miparve di potere essere fra loro con quattro pas-si. Avvicinai la prospettiva per distinguere l’e-

spressione del volto di Leslie, badando di nonsporgermi dal mio riparo perché da quella di-stanza avrebbero potuto notarmi facilmente:ma l’immagine delle lenti era piatta, Lesliesembrava muoversi su uno schermo cinemato-grafico. La luce della luna, da poco comparsain una frattura delle nuvole, disegnò la suacamicetta di seta cruda e la macchia d’orobianco dei capelli, e il trench limpido di An-drés. Soffiai sulle lenti per pulirle, quindi guar-dai l’ora: avevo ancora parecchio tempo.

Anche loro ne avevano. Il piano di Andrés,gettare il panico al cantiere per tenermi occu-pato, era di una semplicità esemplare. Ora idue si trovavano nel punto più lontano da me,parzialmente coperti da una colonna di pietra;Leslie era affacciata a guardare la città affoga-ta, o forse il cantiere dove credeva che io stes-si adoperandomi per apportare tagli ai consu-mi energetici. Le mani mi tremavano nel tene-re il binocolo, sentivo il sangue pesante nelleviscere.

Mi accorsi allora di avere freddo, più chealtro per il vento che non accennava a calare:aveva sbarazzato il cielo e ora sventolava lefalde del trench di Andrés. Fulmineamente, de-siderai che gli strappasse il cappello per scara-ventarlo in picchiata verso il mare, magari perimpigliarlo su uno dei pinnacoli della chiesa,giù in basso, o trascinarlo in sù con una folatafino alle antenne ricetrasmittenti montate in ci-ma alle guglie.

Invece si accostò a Leslie da dietro; mi av-vicinai più che potevo, lo vidi posare un brac-cio sulle sue spalle, forse conversando. Mi sen-tii rimescolare dentro, sentii i nervi delle gam-be duri come filo di ferro. Guardai intorno percercare un sasso o un altro oggetto contun-dente, poi tornai con l’attenzione ai due, attra-verso le lenti.

Leslie si voltò verso di lui, guardandolo dalbasso in alto; sullo schermo piatto della pro-spettiva vidi i loro visi accostarsi finché le lab-bra si toccarono. Mi pareva tanto irreale cheavrei detto di trovarmi al cinematografo. Sulloschermo la protagonista baciava il suo corteg-giatore. Le labbra di Ajeno su quelle di Leslie,le mani sulle sue spalle, sui fianchi, sotto la ca-micia... Sentivo i muscoli delle braccia tender-si come le corde di un arco.

E con una lentezza innaturale da schermole dita di Ajeno si mossero intorno al collo dimia moglie, poi si abbassarono aprendo la ca-micetta; il seno nudo di Leslie, bianco come la

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Andai a bussare alla porta di Sinéad. Era se-duta accanto alla finestra, assopita sulla sedia adondolo tarlata che avevo recuperato per lei;la baciai sulla fronte senza svegliarla, scostan-do appena il foulard di seta che portava av-volto in capo per dissimulare la caduta dei ca-pelli.

Mi venne allora in mente il giorno in cuitrovai il biglietto d’addio di Gwyneath, quandoprese la nave per il Brasile; dopo averlo lettorimasi alla finestra ad attendere il ritorno diSinéad, che era uscita con amici, e quandolavidi salire lungo il leggero pendio della via no-tai da lontano che portava in capo un fazzo-letto annodato dietro la nuca, e che i vestitiche indossava, smessi da sua madre, erano diuna misura di troppo per il suo fisico acerbo;infine, realizzai che da quel momento avrei do-vuto occuparmi di Sinéad da solo.

Sedemmo in silenzio sul traghetto, ognunocon i propri pensieri. In quel momento non miimportava che Leslie stesse fantasticando suAndrés Ajeno; più tardi invece, quando me lotrovai davanti alla festa con il suo completo digabardine color carta da zucchero, provai unmoto di repulsione. Tutti sembravano temerloe ossequiarlo, come se la loro deferenza po-tesse in qualche modo mutare il verdetto delMinistero.

Come al solito mi isolai dall’epicentro dellafesta; era una notte serena e fresca, sarebbestato un delitto non passeggiare sotto gli archidi pietra della veranda. Con un bicchiere disucco d’arancia, chiacchierando con Sáulo ocon qualche tecnico, tenni d’occhio Ajeno. Lasua sfrontatezza era persino eccessiva: al no-stro arrivo ci era venuto incontro per i saluti,facendo in modo di tenere la mano di Leslienella sua con leggerezza. Ora si univa a ungruppo ora all’altro, sempre al centro dell’at-tenzione, senza mai perdere d’occhio Leslie,attendendo probabilmente l’inizio delle danze.

Per timore di mandare a monte il mio pia-no mi innervosii e alzai forse troppo il gomito;Bea Fuentes venne poi a distogliere la mia at-tenzione da Leslie e Andrés, mostrandomi larosa che le era stata donata all’arrivo, come atutte le altre donne.

“Questa sera è triste, ingegnere” disse.Sporgendosi dal davanzale della veranda a trearchi, lasciò dondolare il fiore tenendo il gam-bo fra due dita. “Quanto tempo occorrerà per-ché tutto il centro città sia recuperato?”

Sbirciai dallo spiraglio della porta aperta,

alla luce delle torce; Leslie non si vedeva, enemmeno Ajeno. Seguii allora l’oscillare delfiore fra le dita di Bea; immaginai cosa avreb-be visto Sinéad, e mi venne in mente il ritor-nello di una canzone: la rosa en la liga…

“Dipende dalla fiducia che ci dà la Comu-nità europea” spiegai di malumore “Anni, co-munque.”

“Là sotto” continuò Bea indicando avanti anoi “c’è un mondo intero da recuperare, e lo-ro pensano al consumo energetico. Non si ren-dono conto del debito dell’umanità?”

“Non è proprio così” borbottai “Ci sonotonnellate di fango, detriti e vegetazione da ri-muovere...”

“Domani sarà maggio” continuò Bea carez-zando con il pollice i petali.

Annuii. “Ben venga maggio, allora” dissi.La musica da ballo iniziò in quel momento.

Bea mi guardò come se volesse domandarmiqualcosa, poi abbassò gli occhi. Gettai un altrosguardo alla distesa d’acqua interrotta, quindile domandai se volesse rientrare. Parlammoancora per qualche minuto, ma udimmo il bat-tito di mani a ritmo e facemmo rientro. Il fioredi Bea cadde avvoltolandosi su se stesso versola superficie di policarbonato del mare.

Trasecolai. Si erano messi tutti da parte, albordo della pista da ballo improvvisata, per fa-re largo a Andrés Ajeno che si era slacciatogiacca e cravatta e danzava martellando i tac-chi sul pavimento. Gli spettatori gridavano en-tusiasti, e prima che potessi scorgere Leslie leiscivolò fuori dalla folla piroettando, la rosa ag-ganciata sullo scialle con una spilla.

Mi irrigidii per non lasciare trapelare lemie emozioni. Tutti urlarono e applaudironopiù forte per una giravolta della gonna di Le-slie. Ajeno pestò i tacchi e con un balzo le fudavanti, allora Leslie sfilò la rosa dallo scial-le, che ricadde in terra, e la prese fra i denti,continuando a danzare con improvvisazioneintorno al ballerino, il quale invece conosce-va bene ogni passo. Bea Fuentes mi stavaguardando furtivamente. Senza smettere didanzare, Leslie si sollevò la gonna sulla co-scia e fra le urla infilò la rosa nell’orlo dellecalze, spezzandole il gambo di spine. La ro-sa en la liga.

Tornai fuori, all’aria fresca, e ci rimasi fin-ché la musica non calò di tono. Allora Ajenomi raggiunse.

“Lei non si diverte, ingegnere” disse posan-domi un braccio sulle spalle con eccessiva con-

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FRANCO RICCIARDIELLO SALUTI DAL LAGO DI MANDELBROT

cotone, carezzandole il viso sotto il foulard diseta che le nascondeva la vergogna dellachioma diradata, sfiorandole con le labbra gliocchi che non avevano mai potuto vedere laluna perché non si muove, nè leggere un li-bro o uno spartito per lo stesso motivo, mor-dendole le labbra che sapevano di mandorla,

carezzandole le spalle da ragazzina, stringen-dole i polsi da bambina, baciando la stessafronte di Gwyneath fino all’alba, mentre Le-slie che era sopraggiunta rimaneva inchioda-ta sulla porta a mangiare la rosa rossa, urlan-do come una demente e graffiandosi il voltocon le unghie.

Delos Books n. 3, novembre 1998.Finito di comporre nel mese di novembre 1998.